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Emiliano Bazzanella
Logica e tempo
abiblio Forum per Utopie e Skepsis
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Prima edizione: gennaio 2009 © abiblio forum per utopie e skepsis Marchio editoriale della: Servizi Editoriali srl via G. Donizetti, 3/a - 34133 Trieste tel: 0403403342 - fax: 0406702007 e-mail:
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In$i&' PREFAZIONE, 11 INTRODUZIONE 1. I nodi della questione, 15 2. Il senso del tempo, 20 3. La logica del tempo, 23 PARTE PRIMA: TEMPO E SPAZIO-TEMPO 1)1 I+ t'mpo $'+ mon$o ' i+ t'mpo $'++0anima 1.1.1 Aristotele versus Agostino, 29 1.1.2 Il tempo fenomenologico, 35 1.1.3 Fenomenologia e criticismo, 40 1.1.4 Il diallele della conoscenza indiretta e le sintesi passive, 45 1.1.5 Ontologia e temporalità, 51 1)2 2a Kehre 3'i$'gg'5iana ' +a 6&ontin7it89 $'++a :7';tion' ;pa
&3o+ogia $'+ ;'n;o 2.1.1 Senso e non senso, 97 2.1.2 L’Ereignis, 100 2.1.3 Logica del senso, 102 2.1.4 Il reale, 106 2.1.5 Il ritornello e la padronanza, 109 2.1.6 La sferologia, 114
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2)2 2ogi&a $'+ t'mpo ' t'mpo $'++a +ogi&a 2.2.1 L’esclusione logica della temporalità, 119 2.2.2 Logica, etica e reale, 127 2.2.3 L’ ! ’ "#$%&'!, 132 2)3 2ogi&a no5motipi&a ' ;i;t'ma @A 2.3.1 Prima definizione del concetto ecologico di temporalità, 136 2.3.2 Ritmo, ritualizzazione, destorificazione, 140 2.3.3 Il paradosso del meta-senso, 144 2.3.4 La normotipia, 150 2.3.5 Logica normotipica, 155 2.3.6 Normotipia e reale, 159 2.3.7 Il sinecismo normotipico, 163 2.3.8 Il sistema ST, 166 2.3.9 Sistema ST e godimento, 169 2.3.10 La marca della soggezione e il carattere normotipico del tempo, 171 2.3.11 “Il reale che finge”, 175 2.3.12 Struttura normotipica del tardocapitalismo, 177 2.3.13 L’esclusione tardo capitalistica del Sistema ST, 180 BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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zi alle minacce del Fuori e dell’Altro. Nel mondo contemporaneo presentiamo un certo inganno e le molteplici disillusioni ci conducono ad un relativismo che ha perduto la propria carica antimetafisica ed è divenuto la cifra di una superficialità smagata e vuota di senso. Il parossismo dei consumi, insomma, non basta più. Possiamo chiamare questo non-senso che intride ogni istante della nostra esistenza in tanti modi: Altro, Reale, Fuori, Inconscio. Gran parte della riflessione filosofica del Novecento sembra indirizzarsi proprio ad essi, in una sorta di fenomenologia smascherante e decostruttiva tesa a destabilizzare sistematicamente i perni dogmatici sui quali la nostra cultura si era secolarmente adagiata. Ma ciò che ci sgomenta, oggi, è che il non-senso abita in noi, ed è pure essenziale alla nostra supposta razionalità. Il tempo, più di qualsiasi altra cosa, evidenzia quest’emergenza e ci spiazza d’acchito, ma non perché ci ricorda in qualche maniera la labilità dell’essere umano. Ci scuote perché esso costituisce una sorta di marca o di traccia in cui il lógos si scopre nel suo ineludibile carattere di finzione e di illusorio addomesticamento del Fuori: il “tempo” non esiste in sé, ma costituisce già una simbolizzazione che soltanto in seconda istanza si “finge” reale, ed è, per di più, una “finzione che finge di non essere tale”. Ma la malinconia o il malheur tipico della nostra epoca (che dipende da una “passione per il reale” per dirla con Slavoj Zizek o, meglio, da un’“ossessione per il non-senso”, anche perpetrata attraverso una comica e assurda radicalizzazione del senso stesso) deriva anche dalla consapevolezza che la nostra apparente autonomia nel giudicare e nel pensare è soltanto provvisoria. Noi crediamo di riflettere (in questo libro, di riflettere il “tempo”), ma siamo alla fine ri-flessi, ossia siamo oggetto di riflessione, e parimenti effetto di un gioco di luci e di ridondanze finzionali. Logica e tempo sono già “effetti”, e pure la stessa echologia dipende da un certo rapporto del senso con il non-senso, a sua volta teatralizzato e finzionalizzato. È forse la riproposizione millenaria del paradosso di Epimenide? La riproposizione dell’aporia dell’auto-riflessione e dell’impossibilità di un’interpretazione che non sia già pre-giudicata, “gettata” in una determinata situazione che ne condiziona sin dall’inizio gli esiti? Non avevamo forse agilmente aggirato questo paradosso riconoscendo l’essenziale finzionalità dei metalinguaggi e delle cornici? Oppure c’è qualcosa di più; qualcosa del tipo: “nell’epoca convenzionalmente definita tardocapitalistica l’impianto razionale dell’Occidente inizia a mostrare le corde e, proprio in ciò che pareva costituire l’apice
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della sua capacità di controllare il non-senso, è baluginata all’improvviso una crepa che si sta vieppiù allargando”. In altre parole, forse siamo giunti alla necessità di una “nuova” logica, una sorta di á"()(* che tragga appunto dal non-senso il proprio alimento, che viri e si declini attraverso i paradossi che serpeggiano attorno a qualsiasi statuizione simbolica e a qualsiasi tentativo di de-finire o de-limitare un linguaggio logico coerente. Nell’epoca attuale ci siamo avvicinati troppo al reale, proprio quando credevamo d’aver escogitato quell’apparecchio che lo teneva bene a distanza, estremizzando i processi di razionalizzazione e simbolizzazione, sistematizzando ogni aspetto dell’esistenza umana. Ora il reale s’è fatto all’improvviso vicino; è presso di noi; è con noi. Iniziamo così ad aver orrore di noi stessi; tutto ciò che ci circonda — la realtà sociale, la tecnica, la natura addomesticata dall’agrimensura, la medicina, etc. — è una finzione che doveva proteggerci dall’incontro traumatico con il non-senso: adesso abbiamo scoperto che man mano sospingiamo il reale all’esterno, ne introiettiamo pezzi sempre più ampi. L’ultima sfida si compie proprio con l’esclusione o lateralizzazione della dimensione spazio-temporale: immerso in uno spazio e in un tempo infiniti, l’uomo tenta di eternizzarsi e di estendersi indeterminatamente, ma ciò facendo sottrae “carne” al proprio senso, diviene ancora più insensato abbandonandosi — in questo caso sì, “nichilisticamente” — all’inesistenza ansioso-depressiva. Questo libro, dunque, si pone il compito improbo di parlare o, perlomeno, di convivere con questi quattro fatti: 1) noi, in quanto uomini razionali, siamo immersi in una serie indefinita di orizzonti finzionali, viviamo continuamente cioè in una sorta di fiction televisiva; 2) la finzione in se stessa “finge” di essere il reale che cerchiamo di controllare e dal quale continuamente ci proteggiamo; 3) il simbolico non è il solo elemento a fingere, ma il reale stesso nella sua totalità, paradossalmente, “finge”, ovvero anche l’idea di un livello “assoluto” al di là di ogni simbolizzazione umana costituisce un coup de théâtre del reale stesso, nella misura in cui il senso e non-senso alla fine tendono a identificarsi; 4) tutto ciò (in particolare la finzionalità del simbolico e l’isomorfia tra simbolico e reale) è ancora il ri-flesso di una finzione, ovverosia l’idea echologica che il senso sia commisto con il non-senso e l’idea che il tempo costituisca la marca traumatica di questa giunzione impossibile non può non essere che un’ulteriore teatralizzazione del senso stesso. Draga, 31 gennaio 2008 E.B.
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del tutto emanciparsi dallo spazio, a meno che non pensiamo metafisicamente a una temporalità del “divenire istantaneo”, della “semelfattività”, come fa ad esempio V. Jankélévitch, filosofo esistenzialista bergsoniano, per il quale il tempo è l’inafferrabilità e aerea impalpabilità dello charme, della grazia che sopravviene come +!',($-, occasione. Dovendo il nostro intelletto “schiacciare” ogni percetto o ogni Erlebnis sul piano tridimensionale dello spazio, ecco che il tempo stesso, per divenire qualcosa di oggettivo e di “sociale”, si trasforma nel proprio apparente contrario, cioè nell’estensione dello spazio. Eppure per Bergson questo processo s’inquadra all’interno di una “contaminazione” indebita, come se fosse una degenerazione che non tiene conto dell’effettiva natura delle cose. Il dualismo spazio-temporale si trasforma in questo modo nell’opposizione quantità-qualità, come se l’oggettivo fosse soltanto misurabile e calcolabile in termini spazio-quantitivi, e come se il senso “interno” o il flusso di Erlebnisse, per usare un’espressione husserliana, avesse un’essenza per così dire tempo-qualitativa, afferrabile da una disposizione cognitiva di tipo particolare come l’intuizione o, più significativamente con Jankélévitch, da una sorta di intra-visione o “intravvedimento”. La durata infatti articola un “ritmo”, un’alternanza infinita di aperture e chiusure, di battiti irriflessi che, se sottoposti a loro volta a riflessione, sfumano e degenerano nel proprio opposto spazializzato: “gli stati di coscienza profondi non hanno alcun rapporto con la quantità; sono pura qualità; e si mescolano in modo tale che non si può dire se si tratta di uno solo o di molti, e nemmeno analizzarli da questo punto di vista senza immediatamente snaturarli. (…) Ma via via che le condizioni della vita sociale si realizzano con maggior compiutezza, si accentua anche sempre di più la corrente che trascina i nostri stati di coscienza dall’interno all’esterno: a poco a poco questi stati si trasformano in oggetti o in cose; non si staccano solo gli uni dagli altri, ma anche da noi” (Bergson, 1889, pp. 8889). Ma come è possibile allora il ricordo? Se ogni fissazione dell’istante, degenera poi in una spazializzazione, è possibile e lecito pensare a un ricordo completamente sganciato dal fluire del tempo? Bergson tenta di risolvere questo nodo in Materia e memoria del 1896: attraverso la nota formalizzazione del “cono” egli cerca di ricostruire il processo che connette tra di loro il passato puro, quasi desoggettivato, con l’istante puntuale, attraverso un movimento graduale di contrazionedistensione (Bergson, 1896, p. 260) che riproduce quasi perfettamente la teoria della distensio animi di Agostino. Il vertice del cono, che rappresenta il presente istantaneo, porta con sé, in maniera implicita o virtuale, tutto il passato, in tutti i suoi gradi: “il passato non solo coe-
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siste con il presente che è stato; ma poiché si conserva in sé (mentre il presente passa) — è il passato nella sua interezza, integrale, tutto il nostro passato che coesiste con ogni presente” (Deleuze, 1966, p. 49). La durata in quanto qualità istantanea inafferrabile coesiste con una stratificazione sempre più profonda del passato, per arrivare quasi all’equivalenza del passato e della materia: nell’Evoluzione creatrice, attraverso la nozione del “virtuale” (non sovrapponibile né al “potenziale”, né al “possibile” che, per Bergson, sono una ricostruzione fittizia effettuata aposteriori e, quindi retrospettivamente), questa matrice diviene funzionale a livello cosmico, cioè palesa quel meccanismo che non soggiace soltanto all’individualità irrelata del soggetto umano, ma che diventa un processo per così dire universale. La durata nella sua paradossale struttura che articola la coalescenza di passato puro materiale e istante semelfattivo e puramente qualitativo, diviene anche la matrice dell’evoluzione biologica delle specie, un gioco di distensioni e contrazioni, di rivoluzioni istantanee e imprevedibili e di solidificazioni oggettive e spazializzate. “Bergson senza alcun dubbio, parla di una pluralità di ritmi nella durata; ma nel contesto, a proposito delle durate più o mento lente o rapide, precisa che ciascuna di esse è un assoluto, e che ogni ritmo è esso stesso una durata” (ivi, pp. 66-67): la durata è un’alternanza oscillante in cui ricordi ed eventi si mischiano continuamente, ma non sono soltanto ricordi ed eventi che ci riguardano personalmente, bensì in ogni durata è virtualmente convocata l’intera molteplicità di tutti i ritmi-durata cosmici. Ogni durata è assoluta e totalizzante, ma essa intercetta l’infinita molteplicità delle altre durate condensandole in una virtualità implicita e imprevedibile, che potremo percepire e conoscere soltanto après coup, ma la cui intensità diviene il fattore “poietico” del tempo stesso: in sostanza, il tempo bergsoniano è un tempo della creazione soggettiva e universale, è l’articolazione di un fiat che la condensazione del tempo medesimo nel ricordo contribuisce a predisporre e a orientare. L’analisi bergsoniana sembra controbilanciare punto per punto l’analisi kantiana, per addivenire alfine a esiti quasi concordanti. In effetti la dimensione apriorica dello spazio-tempo deriva da una presa d’atto da parte di Kant della validità epistemologica della fisica newtoniana e della sua applicazione alle varie discipline scientifiche. Anche se Kant parla di “intuizione pura apriori” non sfugge il fatto che tale intuitus si rivolga a una spazio-temporalità pubblica, cioè già inserita, per dirla con Lacan, nel campo simbolico dell’Altro. Ciò significa che l’apriorità dello spazio e del tempo, ossia il carattere trascendentale di costituire le condizioni di possibilità di un qualsiasi fenomeno, si pro-
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fila paradossalmente come un’apriorità “aposteriori” o, se vogliamo, come una zona ambivalente in cui il soggetto individuo s’inserisce nel campo del sapere “pubblico” e condiviso. Dire che il tempo è “apriori” significa già presuppore il tempo; e questo tempo dipende paradossalmente da una stratificazione del sapere, cioè da un consolidamento oggettivo dell’esperienza intersoggettiva. La distanza rispetto a Bergson è evidente: per quanto Kant approcci indubbiamente la temporalità dal punto di vista del soggetto, egli tuttavia non ipotizza un livello assoluto e impercepibile che connetterebbe la stessa soggettività, di contro a una spazialità puramente oggettiva. Il tempo e lo spazio sono degli “orizzonti” che rendono possibile la conoscenza del mondo interiore così come quello del mondo esteriore, ma proprio in quanto “orizzonti” essi rimangono da un lato necessariamente “con-tematici”, dall’altro rappresentano quel trade union in cui lo spazio-tempo culturalizzato e pubblico ingredisce nella conoscenza soggettiva. Pur partendo da istanze contrapposte, tuttavia, Bergson e Kant debbono affrontare il medesimo problema, ossia la coesistenza di una temporalità diveniente e sfuggente con una temporalità cosmica e pubblica, conoscibile e misurabile: Bergson è partito dall’inafferrabilità della durata come costitutiva del soggetto nella sua unicità per arrivare a un processo di stratificazione e condensazione che alfine reintegra lo spazio in una dimensionalità originaria e lega tra di loro, in una concezione estesa del ricordo, l’anima e la materia. Kant, invece, compie il cammino inverso, anteponendo la valenza pubblica e intersoggettiva della temporalità e studiandone il funzionamento all’interno dell’esperienza individuale dell’uomo: in tal modo, però, sembra sfuggirgli proprio l’haecceitas del soggetto, dal momento che il formalismo dell’io penso, in quanto istanza di unificazione presente nell’intelletto, non pare in grado di spiegare appieno l’individualità in se stessa. È attraverso lo schematismo trascendentale e l’introduzione di un’ulteriore facoltà — l’immaginazione — che Kant tenta di guadagnare spazio per il senso interno e, quindi, per una sorta di auto-coscienza: soltanto che, in tale operazione — come vedremo — è costretto a reintegrare lo spazio nel tempo, cioè a rinunciare alla facile distinzione tempo=senso-interno/spazio=senso-esterno. In altri termini, non possiamo parlare di tempo dell’anima o tempo soggettivo senza confrontarci in qualche maniera con il tempo pubblico e misurabile; e non possiamo tematizzare il tempo senza in qualche maniera reintrodurre da qualche parte lo spazio, in quanto ad esso co-originario. Ma non solo: sia l’idea bergsoniana di uno “slancio vitale” universale o un ritmo assoluto anche se molteplice; sia — come vedremo — l’autoaffezione cui giunge Kant
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(similmente a Husserl, peraltro, e a Heidegger), manifestano un’ulteriore impasse nel questionare la temporalità. Ciò significa che non possiamo procedere troppo nel riflettere sul tempo, senza giungere al paradosso di un circolo vizioso, cioè a un tempo che agisce su se stesso, oppure a un “tempo che non-è ma temporalizza” come ci dice Heidegger. Abbiamo così abbozzato alcuni dei nodi riguardanti una filosofia del tempo che ci seguiranno lungo tutto il nostro percorso: per certi versi, essi condensano in sé il carattere aporetico di alcune tra le più fondamentali questioni che da sempre hanno assillato i filosofi; per altri, invece, fanno emergere delle istanze nuove, non meno problematiche e non meno universali nella loro rilevanza teoretica. Proviamo a riassumerle preliminarmente: 1) il questionamento della temporalità, ci pone di fronte a una delle grandi tematiche della filosofia moderna, cioè il rapporto tra soggetto e oggetto. Nel nostro caso non si tratta di tematizzare il cogito ergo sum di Cartesio, né tantomeno di attraversare i vari empirismi che da Locke in poi hanno costellato la storia del pensiero occidentale. Invero, il problema del tempo sembra quasi retrocedere questo rapporto, riportandolo ai tempi di Aristotele e di Agostino: l’opposizione in tal caso non è più quella tra un polo soggettivo e una sfera oggettiva, bensì tra due dimensionamenti della stessa temporalità: un tempo per così dire “cosmico”, cioè legato al movimento fisico degli enti o al moto degli astri o, ancora, ai ritmi circadiani del sorgere del sole e del tramonto, del sonno e della veglia; un tempo dell’“anima” così come emerge nelle Confessioni di Agostino e che evidenzia il primo baluginare di un movimento di introspezione soggettiva che sarebbe culminato nell’idealismo hegeliano. Ora, una delle più grandi difficoltà che sembra profilarsi in questo senso, è la quasi impossibile conciliabilità di queste due dimensioni temporali: in altri termini, o rimaniamo “aristotelici” e quindi legati alla genericità dell’”ora”, oppure propendiamo per la via agostiniana e quel medesimo “ora” non è più l’istante indifferente della scienza, ma si carica per così dire di senso esistenziale e assume in tal modo un deciso orientamento, il “prima” del ricordo e della memoria, il “poi” dell’attesa e del progetto. 2) Di conseguenza sembrano profilarsi due livelli temporali: il primo più originario, legato all’istante semelfattivo e connotato esistenzialmente; il secondo “deiettivo”, cioè degenerato in una quantità senza qualità, misurabile spazialmente dall’orologio e dai calendari. Mentre però il tempo esistenziale non pare facilmente tematizzabile e conoscibile, il tempo pubblico invece diviene oggetto di calcolo e fa da sfondo
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alla speculazione scientifica: in questa prospettiva, esso diviene “un tempo come un altro”, indifferente alla rimemorazione del soggetto individuale ed essenzialmente snaturato. 3) Il tempo sembra così cedere continuamente sul fronte dello spazio: sia Bergson che Kant non riescono ad evitare un percorso degenerativo che termina suo malgrado in una “messa in piano” del divenire e in una rappresentazione per punti consecutivi della successione temporale: è come se le due dimensioni fossero così originarie da essere reciprocamente coinvolte nella loro struttura, cosicché non si può parlare del tempo senza spazializzarlo, e non si può rappresentare lo spazio altrimenti che in un orizzonte temporale, foss’anche quello che sostiene l’atto proprio della misurazione. 4) Agostino mette per primo in luce il carattere aporetico della temporalità: essa pare comprensibile quando rimane l’orizzonte con-tematico della nostra esperienza. Ma se ci interroghiamo su di essa o magari ci poniamo la domanda ontologica fondamentale “che cos’è il tempo?”, ecco che la sua natura sembra sfuggirci e non sappiamo più che cosa dire. La soluzione escogitata da alcune delle più grandi filosofie del tempo — quella kantiana, husserliana e heideggeriana — insiste allora in una circolarità auoreferenziale, dove il rimando a istanze ulteriori viene per così dire eluso da una sorta di forzatura teoretica.
2. Il senso del tempo Scerevate in tutta la loro densità tali aporie, quale via teoretica dovremo dunque imboccare, per sperare nel raggiungimento di una prospettiva un po’ divergente, che consenta una nuova tematizzazione della temporalità? Come sperare di “pensare il tempo”, se abbiamo appena evidenziato come qualsiasi riflessione su di esso sia destinata allo scacco, cioè a un regressus ad infinitum eludibile soltanto attraverso una qualche finzione concettuale? La via che cercheremo di intraprendere sarà allora quella di rintracciare proprio nella filosofia heideggeriana quelle dissonanze e quelle crepe che, lungi dal costituire una cesura o una stadiazione tra un primo Heidegger e un secondo Heidegger (la sin troppo nota Kehre), ci forniscano al contrario elementi preziosi alla nostra digressione. In particolare, stupisce come al di là di una semplicistica contrapposizione tra il periodo esistenzialista negli anni di Marburgo e di Essere e tempo, caratterizzato da un’ontologia fenomenologica dell’Esserci di tipo ancora fondazionalistico e sistematico, e un periodo teso al superamento-attraversamento della metafisica, con un radicale mutamen-
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to stilistico e linguistico e l’intrapresa di una Sprachphilosophie affatto peculiare, emerga invece un “cambio di passo” o “gioco di passaggio” non indifferente. Heidegger cioè sembra spostare sempre di più l’attenzione da un’ontologia o un “senso dell’essere” caratterizzati temporalmente, a una “topologia” che diviene tantopiù evidente e palese, quantopiù si esprime con il richiamo a temi e suggestioni “ctonie”: la casa, la terra, il cielo, l’abitare, il coltivare, la contrada, la radura, e così via. Se in effetti dovessimo interpretare semplicisticamente questa declinazione, in parziale consonanza con i teorici della Kehre, potremmo dire che l’accentuazione del carattere esistenziale dell’Esserci dipende da un’impostazione ancora soggettivistica, ossia centrata sulla priorità ontologica dell’uomo e su una struttura esistenziale che vede nell’oltrepassamento e nel progetto le sue cifre fondanti; mentre l’emergere dell’impostazione topologica indica lo sforzo heideggeriano di emanciparsi da tale impasse, per insediarsi problematicamente in un “luogo” ove si dà preliminarmente l’essere in quanto tale. Tempo come cifra del soggetto, dunque, nella sua essenziale labilità; spazio come espressione della stabile e oggettiva permanenza del mondo esterno. Ma già nel 1936-38 Heidegger osserva che “il ‘tempo’ è tanto poco conforme all’io quanto poco lo spazio è conforme alla cosa; e a maggior ragione lo spazio non è ‘oggettivo’ né il tempo ‘soggettivo’” (Heidegger, 1989, p. 368). Nel 1962, d’altra parte, Heidegger riprende in mano la questione del tempo, con intenti ancora più perentori, e lo fa in una conferenza — Tempo e essere — il cui titolo riecheggia la sezione mai conclusa di Essere e tempo nel 1927 nella quale il filosofo di Messkirch si proponeva di tematizzare il “senso dell’essere in generale”. Per certi versi assistiamo a una distanziazione abbastanza accentuata rispetto alle posizioni giovanili, ma per altri emergono tonalità e riflessioni che paiono recuperare — approfondendole — le tematiche giovanili: la maggiore distanza la riscontriamo nella sconfessione di Heidegger del § 70 di Essere e tempo, nel quale si ipotizzava una derivazione della spazialità dal tempo. Non c’è affatto un capovolgimento, bensì viene profilata una sorta di coesistenza essenziale, uno “spazio di tempo” in cui non è ravvisabile alcuna priorità o precedenza. Ciò di cui possiamo parlare è soltanto uno Zeit-Raum che — a differenza dell’omonima struttura relativistica che prevede una “curvatura” dello spazio-tempo da parte della “materia” — costituisce l’orizzonte in cui si articola genericamente “la Cosa”, das Ding. È a questo livello, dunque, che rintracciamo degli elementi di continuità e di progressione, dacché sin dagli anni Venti Heidegger concepisce il tempo nella sua valenza “orizzontale”, ossia come quel “verso-cui” o “ciò-rispetto-a-cui” l’Esserci “è”.
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Quando enigmaticamente egli afferma che il tempo temporalizza e lo spazio spazializza, intende appunto indicare questo livello matriciale che diviene la base “fenomenologica” in cui l’Ereignis, l’evento — e quindi la verità come !"# ’ $ %&'! — “avviene”. Siamo così al tentativo di risolvere un secondo livello aporetico inerente la questione del tempo: quest’ultimo, infatti, non solo si presenta necessariamente “accoppiato” o “abbinato” allo spazio, dimodoché non riusciamo in alcun modo a stabilire priorità fondative o livelli di maggiore o minore essenzialità, ma nella sua natura si caratterizza sin dal principio in modo duplice: evento “al di là dell’essere”, come direbbe Lévinas, e quindi non riducibile a “semplice-presenza” controllabile e zuhanden, “alla mano”; ma evento che si costituisce già ab origine come “epoca” dell’essere e, di conseguenza, come una struttura intersoggettiva e collettiva in cui — storicamente — l’essere si offre all’uomo in questo e quel modo. La divaricazione evidenziata da Ricoeur tra una prospettiva fisicoaristotelica del tempo e una concezione esistenzialistico-agostiniana si dissolve in seguito alla radicalizzazione ontologica di Heidegger: il tempo è sempre il medesimo tempo che in una determinata epoca storica assume una determinata configurazione fisico-matematica e che, nell’autoriflessione del soggetto, si profila in un suo modo esistenzialmente specifico. A questo livello, tuttavia, c’è qualcosa che sfugge e che Heidegger stesso non riesce a spiegare: il tempo, cioè, proprio nell’ambito di un processo auto-riflessivo, sembra sfuggire di mano e rilanciarsi all’infinito. Non riusciamo, in altri termini, a definire chiaramente che cosa “sia” il tempo, mentre riusciamo a comprendere abbastanza bene come esso costituisca l’orizzonte necessario e imprescindibile all’interno del quale pensiamo ed agiamo. Si profila dunque la necessità di far compiere un ulteriore viraggio alla nostra digressione e arrivare così ad una particolare connessione tra “senso” e temporalità. L’aporia della riflessione in effetti non pertiene esclusivamente al tempo o allo spazio, ma costituisce a nostro avviso proprio l’essenza di ciò che genericamente chiamiamo appunto “senso”. Il tempo “è” un senso che “dà” e “ha” senso: ciò significa che esso rappresenta una sorta di “direzione” od orientamento, oppure (con Heidegger) l’orizzonte-in-cui un essente “è”. E purtuttavia, quando diciamo (in forma non “echologica”) “avere senso” o “dare senso”, intendiamo una cosa evidentemente diversa: il senso diviene qualcosa di “oggettivo”, una “cosa”. In breve, se concordiamo con la prima parte della nostra proposizione (il tempo è una forma di senso, o, ancora meglio, è il senso tout court), ecco che si apre la voragine di un’ulte-
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riore divaricazione, laddove senso e tempo differiscono all’improvviso tra di loro. È come se, nel procedere troppo sul versante della riflessione, ci ritrovassimo tra le mani qualcosa di assolutamente estraneo alle aspettative, una sorta di traslazione dell’elemento originario; e, quindi, è come se alla fine dovessimo cedere alle nostre pretese e accontentarci di fare del tempo una sorta di noli tangere, dimensione così prossima alla nostra natura e alla nostra essenza da essere abissalmente oscura e inquietante: l’Ab-gründigkeit, la “fondamentalità abissale” di Heidegger (Heidegger, 1989, p. 372).
3. La logica del tempo Ma se una riflessione sul tempo — e ancora di più una “filosofia” del tempo — si configura necessariamente in modo aporetico, nelle forme di regressus ad infinitum, circolarità autoreferenziali o mise en abîme, che significato può avere un accostamento della logica al tempo, ossia l’approssimarsi di dimensioni e prospettive palesemente discordanti ed eterogenee? In altri termini, come concepire “temporalmente” un concetto “logico” che tradizionalmente costituisce un ente “ideale”, ossia un oggetto privo di realtà fisica, ma proprio per questo non soggetto a mutamenti e, quindi, sostanzialmente intemporale? Lo anticipiamo, qui, in sede introduttiva, ma tale tesi rappresenterà il filo conduttore mai troppo dipanato di tutto il nostro studio: la logica in se stessa, sia nelle sue versioni sintattico-formalistiche che semantiche, individua una zona problematica in cui il senso “incontra” il reale (lacaniano). Ma non lo incontra in modo “irenico”, senza farsi male, per così dire: questo incontro lascia dei segni evidenti, cioè delle vere e proprie cicatrici che affiorano appunto in ciò che chiamiamo tempo. Uno degli etimi plausibili del termine “tempo”, d’altronde, è il latino tempus, oris, dal verbo greco .&$µ*&'* che significa eloquentemente “tagliare”. La logica, allora, pare mettere in atto un “taglio di tempo”, una sorta di “chiusura” o clausura che da un lato “effettua” un senso e dall’altro ci protegge difensivamente dal reale. Questa traccia cicatriziale riguarda in modo eguale l’esperienza soggettiva e solipsistica del tempo, ma anche le grandi formazioni di senso o le lyotardiane “meta-narrazioni”. Come osservava Wittgenstein, la logica nella sua veste sintattico-formale è puramente “tautologica”: essa riguarda l’istituzione simbolica vera e propria (cioè l’introduzione o invenzione di variabili e costanti, funzioni proposizionali e quantificatori esistenziali) e le regole che sorreggono la loro corretta articolazione. Una delle fondamentali tautolo-
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gie della logica classica — da Aristotele in poi — ci dice però che un simbolo non può rappresentare se stesso e un altro “nel medesimo tempo”: ciò significa che da una parte le asserzioni formali che regolano un determinato linguaggio L sono esclusivamente intemporali; dall’altra che la loro medesima statuizione dipende da un determinato orizzonte temporale. Il tempo è, all’interno dello stesso nodo, escluso e integrato nella logica, ne è il rimosso sin dapprincipio occultato e ciò che non cessa di manifestarsi in forme dissimulate. Il luogo logico, in effetti, in cui la dimensione temporale emerge è la logica semantica: quello che potrebbe essere riletto come un residuo di una concezione psicologistica della logica (l’atto o vissuto sottostante la formalizzazione simbolica), viene trasfigurato nei processi di interpretazione e assegnazione che danno senso a un determinato enunciato e che consentono un giudizio di falsità o verità. In questo quadro, la prospettiva metalinguistica tarskiana e quella di Arthur N. Prior basata anche sulla logica modale, dimostrano come le circostanze e i contesti di valutazione non siano esterni ed estranei all’algido formalismo logico, ma al contrario siano co-fungenti e fondanti ogni assegnazione e istituzione simbolica. Ciò che viene espulso necessariamente in prima istanza (il tempo come evento semelfattivo della “posizione” simbolica), ritorna come tempo convenzionalizzato che consente una valutazione in termini di verità di qualsiasi proposizione logica. Questi due côtes paradossali non devono a nostro avviso esser ridotti o sussunti da qualche ulteriore principio: l’incontro del senso con il reale è per sua natura duplice, come ci ha insegnato Lacan. È lo spazio terrifico del Fuori esterno che l’essere umano non vuole affrontare direttamente e contro il quale erige continue barriere difensive, serre e cortine simboliche; ma è anche l’orrore del Fuori introiettato, del reale extimo e inconscio che noi tutti, nostro malgrado, siamo. Lo spazio e il tempo, quindi, non costituiscono altro che delle formazioni difensive di tipo simbolico, delle formazioni di senso che rendono possibile il senso stesso e che sono esse stesse “sensate”, pregne di senso. Abbiamo definito queste formazioni normotipie, accentuando la loro valenza “normalizzante” e paradigmatica: in quanto type, infatti, costituiscono il modello cui ogni ulteriore formazione od occorrenza (token) deve — per avere propriamente senso — conformarsi; in quanto “canoni” di normalità e “modelli”, inoltre, le normotipie tendono a “normalizzare”, ossia a fornire quella struttura e quella griglia trascendentale (nel significato kantiano) che divengono imprescindibili — in una determinata epoca — per qualsiasi produzione di senso. Esse costituiscono un particolare punto di giunzione tra le rappresentazioni sociali di
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Moscovici e la Lebenswelt husserliana, e si caratterizzano soprattutto per essere delle formazioni di senso finzionali che, a cagione di particolari co-occorrenze, sono divenute dominanti e costituiscono il piano di referenza per qualsiasi senso. In altre parole, sono quelle meta-finzioni che forniscono quel tanto di realtà necessaria alla significazione: il reale lacaniano non è di fatto sostenibile dall’uomo, ma esso dev’essere filtrato da una serie di schermi simbolici che contengono e conservano nel loro seno le tracce occultate dell’incontro traumatico tra il senso e il non-senso (reale, godimento, Altro, Fuori, "#$ %#). Se lo spazio-tempo costituisce una normotipia fondamentale, ecco che ne emerge nuovamente il carattere ancipite: è uno schermo che si frappone tra il soggetto e la realtà, ma di tale schermo è pure quel che di reale necessariamente lo intacca e lo incrina. Orbene, dovunque ci volgiamo, ci ritroviamo tra le mani una duplicità anfibolica che, ciò nondimeno, dev’essere sostenuta. Lo spaziotempo costituisce una normotipia che non può essere oggetto di riflessione e che comunque tiene assieme i due lati di una figura di tipo chiasmatico: esso è la costruzione finzionale (o “imposturale”, per dirla alla Z izek) che sostiene “aprioricamente” gli altri saperi, essendo da un lato la conditio sine qua non di questi medesimi saperi e il loro piano di referenza, simultaneamente il da-cui e il ciò-rispetto-a-cui del senso; dall’altro, lo schermo che distanzia il soggetto dal reale, ed è la cicatrice o traccia che evidenzia la silente, ma incombente presenza del reale (o, in maniera più complessa, del “godimento” così come lo intende Lacan) all’interno del simbolico. Ciò che Heidegger chiama Zeit-Raum o Zeit-Spiel-Raum, però, sembra centrare il focus su un meccanismo più sottile, che riesce a rendere efficiente un impianto tendenzialmente aporetico: di fatto lo spazio e il tempo costituiscono due normotipie distinte (ivi, p. 368), ovverosia due sistemi simbolici collettivi e ludico-finzionali che orientano e direzionano il pensiero e l’azione dell’uomo nel mondo, i quali sistemi però si rimandano reciprocamente in una sorta di diallele, dacché non potremo spiegare il tempo diversamente che utilizzando un orizzonte spaziale; e non potremo definire lo spazio senza immetterci in un flusso di tempo, cioè ricorrendo all’atto diveniente e temporale del tracciare, delimitare, misurare e territorializzare. Grazie a questo plesso e a questo reciproco rimando, lo spazio e il tempo riescono a sostenersi nonostante la paradossalità che continuamente articolano (paradossalità, peraltro, quale necessaria conseguenza dell’incontro con il reale). Il problema che però dobbiamo affrontare in un ambito di riflessione echologica consiste nel valutare il ruolo del sinecismo normotipico
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spazio-temporale (così chiameremo questo curioso diallele auto-leggitimantesi) in un un contesto normotipico più ampio. Il sistema ST (spazio-tempo) così come lo chiameremo si rapporta necessariamente ad altre normotipie, ossia ad altre formazioni simboliche che direzionano e sorreggono il senso. Tra di esse, tale sistema assurse in passato anche a un ruolo di egemonia, costituendo il riferimento ultimo di ogni pensiero o azione umana, quantomeno in una determinata regione della terra e per un certo periodo: tutta la “sferologia” di P. Sloterdijk, ad esempio, sembra spiegare un siffatto privilegio in certune epoche storiche, cosicché l’intero processo delle scoperte geografiche e delle esplorazioni delle Americhe e dell’emisfero australe, i colonialismi in ciascuna delle loro forme, e così via, non sarebbero stati causati da un’indomita ansia dell’animale “uomo” di espandere i propri territori sempre più in là, né tantomeno da una innata curiosità e brama di avventura insita nella sua natura, bensì da un impianto normotipico egemone che si basava allora sulla dimensione dello “spazio”. Così, coeteribus paribus, nelle popolazioni più antiche era il tempo che regolava i ritmi delle popolazioni: dal tempo cosmico, a quello metereologico per arrivare al “tempo della vita” (il menarca, il mestruo, la senescenza, l’adolescenza, etc.). Per dirla in parole più semplici — e tecnicamente più inesatte — potremmo dire che nei vari processi di civilizzazione l’uomo ha dapprima utilizzato quelle simbolizzazioni normotipiche più “prossime” possibile al reale: le prime evidenze traumatiche dell’esistenza — lo spazio della terra da coltivare e da proteggere dall’esterno climatico e dall’intruso (l’hospes hostis, l’ospite necessariamente “nemico”); il tempo del dolore ossessivo, dell’amore indomito, della morte individua, ma anche dell’intemperie e delle siccità — fu per primo addomesticato da una simbolizzazione che successivamente si sarebbe sempre più evoluta, sovrapponendo filtri simbolici su filtri simbolici, e relegando vieppiù a maggior distanza la permanenza inquietante e impossibile di un reale che pur non accennava e non accenna a cedere. Da un’altra prospettiva, se il godimento è per Lacan il reale stesso, lo spazio e il tempo manifestano quel luogo di emergenza in cui il godimento-reale viene da una parte “fantasmatizzato” in quanto collidente con la dimensione simbolica, dall’altra “forcluso”, ovvero “rimosso” e relegato nei meandri dell’inconscio. Ciò cui stiamo assistendo oggi, tuttavia, è un fenomeno nuovo. Ancora Heidegger negli anni Trenta accenna a una “presa di potere dello spazio-tempo come essenziale presentarsi della verità” (ivi, p. 377), mentre invece agli occhi di un uomo contemporaneo il sistema ST non pare più egemone, essendo stato sussunto (in una implicita co-fungenza) all’in-
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terno di una normotipia molto più raffinata. Il tardocapitalismo, infatti, ha superato il meccanismo del diallele, moltiplicandolo a dismisura in un meccanismo di infinita indifferenza. In altri termini, il tardocapitalismo ha senso grazie all’apporto di infinite normotipie che possono via via — e solo in apparenza — divenire egemoni e che si rimpallano continuamente, in un movimento senza sosta e sempre più accelerato. Per raggiungere questo risultato il tardocapitalismo dissimula continuamente la propria egemonia, e anzi si pone in disparte confondendosi subdolamente con le altre normotipie e cedendo spazio — ma soltanto in apparenza — ad altre normotipie per così dire epifenomeniche come la scienza e la tecnica che pur si arrogano un certo primato nel conferire senso alla nostra epoca post-moderna. In questo ritrarsi, d’altronde, il tardocapitalismo raggiunge appieno il proprio scopo, dacché i piani di referenza si moltiplicano e il reale diviene talmente distante che l’uomo contemporaneo si ritrova a vivere all’interno in una sorta di “sogno altrui” oppure, più significativamente, entro una psicosi collettiva di “secondo grado” (ovvero non riferita ad un senso individuo, ma ad un senso sistemico e generalizzato). In tale processo il sistema ST è quello più sacrificato: a causa della sua eccessiva prossimità al reale esso viene eluso proprio dallo stesso meccanismo della normotipia tardocapitalistica. Ciò cui essa mira, invero, è un’esclusione dello spazio-tempo attraverso un processo di “infinitizzazione” e di “velocizzazione” parossistica che implica — diciamo noi — una certa incapacità di esporsi al non-senso: lo spazio territoriale diviene lo spazio infinito della globalizzazione e del cosmo in continua espansione che l’uomo percorre o percorrerà in lungo e in largo, nonché l’infinito moltiplicarsi di spazi ndimensionali, immaginari, simbolici e virtuali; il tempo limitato della vita individua, diviene l’eternità dell’universo e della specie umana, con le sue capacità scientifiche di controllare l’organico come l’inorganico; oppure la massima concentrazione di attività e di esperienze in un istante infinitamente dilatato. Ma come si ritrova il soggetto in questa indifferenza infinita, senza un territorio da controllare e un tempo limitato da vivere? Che cosa significa esistere all’infinito o, potremmo dire, nell’impossibilità? Come vedremo, l’eccesso di controllo nei confronti del non-senso (reale), porta paradossalmente al non-senso stesso: la forma di estrema e infinita padronanza effettuata da parte della normotipia tardocapitalistica, finisce per dimostrarsi complessivamente insensata, da cui anche l’esistenza dei singoli soggetti sembra oggi perdere sempre di più le proprie capacità di controllo e donde le sempre più diffuse sindromi ansioso-depressive, che non sono altro che patologie del senso
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in generale e, più precisamente, psicopatologie legate alla lateralizzazione del sistema spazio-temporale. In termini di godimento, la neutralizzazione dell’impianto spazio-temporale implica un’ulteriore rimozione di esso, con la conseguenza paradossale che chi gode è proprio la stessa normotipia tardocapitalistica nel suo ruolo di Soggetto astratto. Se tutta la mitopoiesi spazio-temporale evidenziava ancora una vicinanza al reale nella sua insensatezza, ora quest’ultima appare veramente impossibile nonostante il sistema medesimo ingiunga continuamente all’uomo di godere. Tutto ha senso, forse troppo senso: e se si trattasse di un’enorme finzione? O, ancora meglio, di una “finzione di finzione”, dove ciò che è sensato invero non si dimostra null’altro che un “reale che finge” esso stesso? Sospingendo sempre più in là il rischio di incontrare il reale, ecco che la civiltà umana è finalmente riuscita a costruire quella macchina trascendente astratta che gode al posto nostro, che incontra il reale facendosene carico con tutti i vantaggi e gli svantaggi della faccenda. Ma a noi, singoli individui “trafitti da un raggio di sole”, non resta che un conato inesausto verso un godimento precluso, verso una realtà che non conosceremo mai appieno, conato che si manifesta nella continua ricerca di un reale impossibile, di “attestazioni” d’esistenza à la Ricoeur, donde il consumismo contemporaneo, il trash, le ossessioni maniacali, le sindromi border-line, l’arte estrema, gli acting-out insensati, i fondamentalismi religiosi, et coetera.
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1)1 I+ t'mpo $'+ mon$o ' i+ t'mpo $'++0anima 1.1.1 Aristotele versus Agostino P. Ricoeur tra il 1982 e il 1985 dedica una trilogia alle problematiche del tempo, virandole verso una concezione narratologica, cioè privilegiando la dimensione storico-narrativa quale orizzonte costitutivo del fenomeno della temporalità. Egli però giunge a questo esito — che appena sfioreremo in questa sede — dopo un lungo e complesso détour volto ad evidenziare le molteplici aporie insite in una tematizzazione della temporalità di tipo fenomenologico. In questo modo Ricoeur focalizza la propria attenzione sulle classiche analisi aristoteliche e agostiniane, per poi soffermarsi su Husserl, Heidegger e, appena trasversalmente, su Kant. Significativamente, invece, viene omessa la figura di Bergson che pure, con la nozione di durée, aveva quantomeno polarizzato l’indagine sulle relazioni che intercorrono tra spazio e tempo, al di là di supposte priorità ontologiche o di filiazioni del tipo “spazio-materia” o “durata-memoria”. In altri termini, Ricoeur sembra seguire in tale orientamento proprio l’Heidegger di Essere e tempo che, così, abbastanza sbrigativamente, liquidava il pensiero bergsoniano: “il tempo ‘in cui’ sorge e passa la semplice-presenza è un fenomeno temporale genuino e per nulla l’estraniazione di un ‘tempo qualitativo’ a spazio, come pretende l’interpretazione del tempo data da Bergson, interpretazione ontologicamente del tutto indeterminata e insufficiente” (Heidegger, 1927, p. 400). La dimensione della temporalità sembra possedere un’originarietà intrinseca nei confronti dello spazio e l’intrudersi continuo di quest’ultimo nelle maglie di ogni dis-
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corso “cronologico” non sarebbe che il sintomo di una insufficienza costitutiva del nostro linguaggio e della conseguente compensazione metaforica. Tuttavia, al di là di alcuni punti critici che in seguito isoleremo, l’argomentazione ricoeuriana ci appare quantomeno significativa per identificare uno dei poli problematici che coinvolgono la temporalità, e cioè la schisi quasi irrisolvibile tra quello che egli definisce tempo cosmico e il tempo dell’anima: in altre parole il tempo della scienza fisica, il tempo degli orologi e dei calendari risulterebbe inassimilabile al tempo esistenziale dei nostri ricordi e delle nostre aspettative. E i corni di questa impasse si ritrovano per Ricoeur proprio nell’antitesi quasi “matriciale” tra la nota analisi aristotelica nel quinto capitolo della Fisica e l’altrettanto conosciuta digressione di Agostino nell’undicesimo libro delle Confessioni. Nell’ambito di tale antitesi, Aristotele delineerebbe in maniera inequivocabile il primato del tempo fisico, connettendolo alle nozioni di “movimento” e “misura” e, conseguentemente, facendone qualcosa di “numerabile”, mentre Agostino, da parte sua, proprio partendo dall’emblematico aforisma “quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio” evidenzierebbe l’aspetto “soggettivo” e, in particolare, quella che egli definisce la distensio animi. “Ora, dietro Aristotele si profila tutta una tradizione cosmologica, secondo la quale il tempo ci circonda, ci avvolge e ci domina, senza che l’anima abbia la potenza di generarlo. È mia convinzione che la dialettica tra l’intentio e la distensio animi è impotente a generare da solo questo carattere imperioso del tempo; anzi, paradossalmente essa contribuisce ad occultarlo” (Ricoeur, 1985, p. 17). La posta in gioco riguarda dunque questi due versanti abissali che in qualche maniera da sempre assillano tra stupore ed angoscia l’uomo: l’infinità del tempo dell’Universo, la sua “aseità” e completa autonomia nei confronti del soggetto; e il tempo dei penetrali dell’animo, in cui tutto il caleidoscopio delle emozioni umane si incrocia, dando luogo ad intervalli temporali soggettivi del tutto atipici e facendo sì che un istante possa durare l’eternità di un’aspettativa mai appagata o l’effimerità di un godimento sempre già perduto. Aristotele, partendo da un punto di vista di tipo empirico e quasi scientifico, associa com’è noto il tempo al movimento: quando un corpo in qualche maniera cambia e diviene, o quando lo stesso si muove nello spazio, ecco che qualcosa come il tempo entra in gioco: “invero noi percepiamo simultaneamente movimento e tempo (...). E al contrario quando sembra che un certo tempo stia trascorrendo, sembra che simultaneamente si stia verificando un certo movimento (Physica,
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219a, 3-7). Aristotele, con una sottigliezza analitica che Agostino non sempre coglie pur accettando il senso di tale tesi (Confessiones XI, 23, 29), non vuole semplicisticamente identificare il tempo con il movimento (Physica, 219a, 2), ma vuole sottolineare come nel movimento ci sia in gioco qualcosa come il tempo. Ma quale rapporto intercorre allora tra il tempo e il plesso movimento-cambiamento? Se il tempo non è il movimento propriamente detto, ma qualcosa del movimento, come possiamo articolare questa inerenza senza incorrere nella banalità del “tempo in quanto ‘qualcosa’ che si muove esso stesso”? Aristotele compie in questo senso due passaggi preliminari: innanzitutto il tempo, in quanto relazionato al movimento, si articola nell’orizzonte di una successione tra il prima e il poi. Tale relazione d’ordine inoltre — e qui scorgiamo un punto decisivo — non appartiene propriamente all’anima, ma concerne esattamente una relazione costitutiva del mondo. Il “prima” ed il “poi”, insomma, sono fattori fisici e reali, costituiscono una relazione oggettiva: l’animo “trova la successione nelle cose prima di riprenderla in se stesso, comincia col subirla e anzi col soffrirla, prima di costruirla” (Ricoeur, 1985, p. 23). Il tempo dunque si articola nel movimento e in un rapporto di successione oggettiva tra il “prima” e il “poi”: ciò tuttavia non appare sufficiente per una definizione abbastanza esaustiva, poiché manca ancora un legame tra i due fattori. Affermare infatti semplicisticamente che “il tempo costituisce il movimento tra il prima e il poi” sembra introdurre un elemento tautologico, cioè sarebbe come sostenere ingenuamente che “il tempo non è altro che il moto del tempo”. Aristotele, dunque, affronta il terzo passaggio — quello a nostro avviso più decisivo — poiché incanala la sua teoria verso il côté più propriamente fisicalistico della questione. La definizione che ne deriva è tanto brachilogica, quanto intensa: “questo, in realtà, è il tempo: il numero del movimento secondo il prima e il poi” (Physica, 219b, 2). Si aprono invero due versanti di discussione: da un lato, l’ingredienza del numero e della misura rischia di fare del tempo qualcosa di “matematico”, cioè un’esistenza puramente ideale e legata a un certo tipo di simbolizzazione; dall’altro, emerge quasi automatica l’interrogazione sulla necessità di un’anima e, quindi, di un fattore “soggettivo” che determini il movimento stesso e, di conseguenza, la sua numerabilità. Sul primo punto Ricoeur rimane abbastanza generico, mentre molto più attento e scrupoloso appare Heidegger che, nel corso marburghese del semestre estivo del 1927 I problemi fondamentali della fenomenologia, evidenzia come Aristotele non parli proprie dictu di “numero”, bensì di “numerato”, arithmoúmenon: “il tempo è un
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numero. Questo è di nuovo sorprendente, perché i numeri sono, si dice, eterni, fuori dal tempo. Come può il tempo essere un numero? L’espressione ‘numero’ (arithmós), come Aristotele sottolinea esplicitamente, deve qui esser intesa nel senso di arithmoúmenon. Tempo è numero non nel senso del numero numerante, in quanto tale, ma è numero nel senso del numerato. Il tempo come numero del movimento è ciò che è numerato nel movimento” (Heidegger, 1975, p. 229). In altri termini c’è un’eccedenza, qualcosa con cui il numero intrattiene un certo rapporto, ma che rimane al di là del numero in se stesso: sappiamo abbastanza bene dove Heidegger voglia andar a parare, cioè a un’essenziale inerenza del tempo a una temporalità originaria che costituisce alfine il senso dell’essere dell’Esserci e dell’essere in generale. “Come Aristotele dice nella sua interpretazione, il tempo può essere interpretato solamente se a sua volta lo si comprende a partire dal tempo, a partire dal tempo originario” (ivi, p. 231). Vi ritorneremo in seguito: ciò che ci interessa a questo livello è un certo debordamento o slittamento che emerge sempre laddove si cerchi di circoscrivere teoreticamente la dimensione temporale. I termini vaghi di Aristotele sono sintomatici di un’ambivalenza costitutiva, sebbene essa non sia centrale nella riflessione ricoeuriana, più attenta invece alla demarcazione tra livello oggettivo e livello soggettivo. Sul secondo punto, infatti, Ricoeur è più deciso e sottolinea come — per quanto de facto necessaria — la funzione dell’anima non sia affatto essenziale nella determinazione numerica del tempo. Per quanto Aristotele ne sottolinei la centralità (Physica II, 223a, 21-22) ed osservi che “non occorre forse un’anima — meglio, una intelligenza — per contare e prima ancora per percepire, discriminare, comparare?” (Ricoeur, 1985, p. 24), dopo pochi passi sembra indietreggiare e, semmai, integrare la dimensione del tempo a quella della physis, cioè — detta brevemente e al di là delle implicazioni heideggeriane — della natura. Soprattutto nella determinazione dell’”intratemporalità”, cioè dell’essere-contenuto dell’essente nel tempo, Aristotele gli conferisce uno statuto decisamente autonomo, che prescinde assolutamente dalla funzione “numerante” dell’anima: “esistere nel tempo significa più che esistere quando il tempo esiste: vuol dire ‘essere nel numero’. Ora, essere nel numero, vuol dire essere ‘contenuti’ (periéchetai) dal numero, ‘come le cose che sono in un luogo sono contenute in un luogo’ (Physica, 221a, 18)” (ivi, pp. 32-33). Per certi aspetti, il tempo manifesta una “superiorità” ontologica rispetto all’essente intratemporale, ma ciò perché il tempo costituisce essenzialmente qualcosa di esterno, fisico ed oggettivo.
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PARTE PRIMA: TEMPO E SPAZIO-TEMPO
Ritroviamo a questo punto uno dei primi nodi aporetici che concerne la schisi tra tempo cosmico e tempo psicologico-fenomenologico: Heidegger lo evidenzia bene e propende decisamente per il secondo versante, focalizzando tuttavia in modo per noi significativo quale sia il nucelo problematico dell’intera questione. Di fatto la separazione tra le due dimensioni temporali si condensa sulla distinzione tra l’istante (puntuale, indifferente) e l’ora esistenzialmente vissuto (l’istante situato, il presente). Heidegger parte così dall’analisi dell’ente intratemporale, ma per interpretare in modo completamente differente Aristotele stesso: “con l’interpretazione dell’’essere nel tempo’ noi vediamo che quest’ultimo, inteso come ciò che circoscrive, come ciò in cui avvengono i processi naturali, è per così dire più oggettivo di ogni oggetto. D’altro canto vediamo che esso è solamente se c’è l’anima. Esso è più oggettivo di ogni oggetto e parimenti è soggettivo, cioè solamente se vi sono dei soggetti. (...) Il tempo è ovunque e in nessun luogo e solamente nell’anima” (Heidegger, 1975, pp. 242-243). Cercare di dipanare questo plesso in apparenza contraddittorio costituirà la posta in gioco di tutta l’ultima parte della prima sezione di Essere e tempo, quella dedicata alla storicità, alla misura del tempo, all’intratemporalità, ovvero all’accezione deietta ed inautentica della temporalità. Orbene, anche Heidegger tematizza la dimensione dell’ora nella sua indeterminabilità dell’ “ ‘allora’, in quanto ‘ora-non-più’, e del ‘poi’, in quanto ‘ora-non-ancora’” (ivi, p. 248), ma perviene ad esiti completamente differenti da quelli supposti nell’interpretazione ricoeuriana. L’ora, nella sua funzione di “passaggio”, condensa in sé un ritenere aspettante e presentificante, dove le tre connotazioni fenomenologiche sono sempre legate tra di loro e costituiscono nell’insieme un fenomeno unitario. In quest’ambivalenza ritroviamo l’opposizione tra Aristotele e Agostino, opposizione che si riassume nell’opposizione fondamentale tra istante e presente. Per Agostino ogni istante è singolare e presente, cioè distinto nell’anima di chi percepisce: è il presente (diversamente da Heidegger) la dimensione temporale fondante, in quanto affezione e ritenzione. “Le impressioni che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro presente, e non già le cose che passano per produrla” (Confessiones, XI, 27, 36). In tale posizione, tuttavia, emerge il problema della “misurazione”, ossia il reperimento di quelle unità fisse che ci consentono di ordinare le “distensioni” dell’animo e di compararle tra di loro. Per Agostino “l’attesa si abbrevia quando le cose attese si avvicinano e (...) il ricordo si allunga quando le cose riportate alla memoria si allonta-
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nano, e (...), quando recito un poema, il transito attraverso il presente fa che il passato si accresca della quantità di cui il futuro si trova ad esser diminuito (Ricoeur, 1985, p. 19); ma — osserva Ricoeur — non è comprensibile come questa dinamica psicologica possa fornire delle unità fisse e invariabili per la misurazione e la comparazione delle durate, unità comparabili al movimento degli astri e alle loro regolari ricorrenze (ivi, p. 20). Aristotele, invece, da una parte riconosce la fondamentalità dell’istante nella determinazione del tempo (“il tempo sembra essere ciò che è determinato dall’istante: e questo rimanga come fondamento” [Physica, 219a, 29]), dall’altra egli lo associa immediatamente al “numero” e al “punto”, rendendolo qualcosa di “indifferente” e “misurante”. Le difficoltà in questo senso risiedono nella necessità di discriminare all’interno dell’istante la sua funzione divisoria nell’ambito della successione continua del tempo e, contestualmente, la sua nozione unificante (Ricoeur, 1985, p. 33). In questo frangente, Agostino, pur sacrificando la misurabilità e comparabilità delle durate, pare almeno offrirci qualche elemento aggiuntivo rispetto al tempo cosmico aristotelico: la concezione dell’istante indifferente non riesce a giustificare a sufficienza la synecheía temporale, ossia la continuità dello stareassieme degli istanti pur nella differenza di ciascuno di essi. In effetti, se ci soffermiamo sul termine greco synechés troviamo il prefisso syn, insieme, e il greco échein, “avere-stare-trovarsi in una certa condizione”. Nella nostra Echologia abbiamo già analizzato tale termine, per evidenziarne soprattutto una valenza tensionale e relazionale, cioè qualcosa di completamente differente dall’heideggeriana semplicepresenza. Detto brevemente, l’istante puntuale e numerico non sembrerebbe corrispondere in modo esaustivo all’esigenza “tensionale” della synecheía, mentre di contro soltanto un contesto fenomenologico garantirebbe l’intreccio del presente, passato e futuro. Aristotele rimane infatti legato al “prima...poi...” di istanti pressoché irrelati che soltanto la continuità del movimento riesce a sostenere ed integrare tra di loro; per Agostino invece è la distensione dell’anima che connette tra di loro passato e futuro e che rende possibile parimenti un “prima...poi...” puramente “oggettivo” in quanto paradossalmente “legato” (d)all’esperienza soggettiva. La situazione — come si evince — appare quantomai complessa: il tempo cosmico risponde molto bene all’ubiquità e pervasività temporale, nonché alla sua misurabilità “pubblica”, mentre sembra deficitario sul piano della struttura, poiché non riesce a spiegare a sufficienza la “continuità” del tempo, né tantomeno quella che oggi chiamiamo
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“freccia del tempo”, cioè la sua irreversibilità. Il tempo psicologico agostiniano, invece, sembra riempire adeguatamente questa lacuna, immettendo nel discorso un gioco di “tensionalità” di tipo fenomenologico: ciò che sfugge però in questo modo è proprio il punto di forza della concezione aristotelica, ossia la possibilità di un unico tempo cosmico, misurabile e condivisibile da tutti gli uomini. Emerge per la prima volta — detta un po’ grossolanamente — quella distinzione tra oggettività e soggettività che avrebbe impegnato il pensiero filosofico sino ai nostri giorni: che quest’opposizione millenaria sia sorta implicitamente proprio nell’ambito di una riflessione filosofica sulla temporalità sembra d’altronde dar ragione all’Heidegger di Essere e tempo e alla sua rilettura della storia della metafisica, sebbene non dovremmo limitarci alle argomentazioni precedenti la cosiddetta Kehre, ma dovremmo più azzardatamente inoltrarci nelle analisi successive del filosofo di Messkirch, più propense a un’interpretazione topologica che prettamente “cronologica” dell’ontologia. Ora, proseguendo il suo studio, Ricoeur dopo aver posto i paletti del problema vuole ulteriormente determinare gli spazi di aporeticità che via via si sono aperti, analizzando tematicamente la radicalizzazione husserliana del tempo fenomenologico e, successivamente, il tentativo conciliatorio di Heidegger il quale, con la nozione di Cura tenta davvero una giunzione essenziale tra il livello cosmico-aristotelico e quello psicologico-agostiniano. Che anche tale tentativo, a detta di Ricoeur, si riveli insufficiente, costituirà proprio il punto di partenza della nostra analisi.
1.1.2 Il tempo fenomenologico La seconda tappa ricoeuriana nella radicalizzazione di un’”aporetica del tempo” si polarizza sul versante fenomenologico, ovvero attraversa la fenomenologia della coscienza interna del tempo che raccoglie una lunga serie di appunti husserliani dal 1893 al 1917. Ricoeur, come avvenuto peraltro nel caso di Aristotele, non si limita ad una semplice disamina testuale, ma raffronta l’analisi di Husserl a quella di Kant, catalizzando in tal maniera eventuali nodi problematici rimasti perlopiù sottaciuti. Infatti per Ricoeur in entrambi i casi rimarrebbe sullo sfondo il “tempo fisico” in qualità di presupposto ineludibile dell’analisi della coscienza interna del tempo, cosiccome dell’analisi trascendentale della temporalità in quanto intuizione pura apriori. In sostanza, anche se Husserl vorrebbe arrivare là donde Kant è partito, cioè alla costituzione del fenomeno “puro” del tempo, rimane anch’egli irretito nelle maglie di un tempo naturale od oggettivo, dal quale non riesce in
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alcun modo a svincolarsi. La fenomenologia, dopo aver epochizzato (o “messo fuori causa” [Husserl, 1966, p. 44]) il tempo cosmico alla ricerca di una hyle temporale quale apriori di ogni successiva esperienza mondana, alla fin fine è costretta a fare una sorta di passo indietro, “come se l’analisi del tempo immanente non potesse costituirsi senza ripetuti prestiti nei confronti del tempo obiettivo messo fuori circuito” (Ricoeur, 1985, p. 39). La difficoltà che si annuncia quasi d’acchito è proprio una neutralizzazione dell’esperienza oggettiva che, però, proprio nel caso dell’analisi della temporalità, deve in qualche maniera riferirsi ad un oggetto esterno. Se — a detta di Ricoeur (ivi, p. 42) — le scoperte di Husserl riguardano soprattutto il fenomeno della “ritenzione” e la differenziazione tra ritenzione e “rimemorazione”, emerge l’impellenza di un “ritenuto” e un “rimemorato” che hanno a che fare con il mondo naturale e, quindi, con la sfera del tempo fisico-naturale. Vedremo, in questo caso, come il télos husserliano sia alla fine il raggiungimento di una sorta di “affettività” apriori puramente intenzionale, dove le legalità e le tensionalità percorrono una hyle assolutamente an-oggettiva, o, meglio, non ancora costituita in “fenomeno”. Ricoeur in effetti non prende in alcuna considerazione le “sintesi passive” quale momento costituivo della “datità” in generale: la struttura e le modalità in cui tali sintesi fungono “inconsciamente” sono originariamente temporali, ottenendo così quella giunzione con l’apriorismo kantiano che è uno degli intenti preliminari di tutta la ricerca di Husserl. La ricerca husserliana parte proprio dalla difficoltà aristotelica nello spiegare la puntualità dell’istante e la coessenziale continuità dell’ora presente. “La scoperta di Husserl a questo proposito è che l’’ora’ non si contrae in un istante puntuale, ma comporta una intenzionalità longitudinale” (ivi, p. 43). In tal modo un suono non si esaurisce nella sua presenza immediata, ma si complica in una ritenzione via via interrelata e in una coessenziale protensione: l’intenzionalità trascendente tipica della percezione di un oggetto trascendente si accoppia necessariamente a questo nuovo livello di intenzionalità che garantisce la “durata” e la “stessità” dell’oggetto medesimo nel tempo. “È questa intenzionalità longitudinale e non obiettivante che assicura la continuità stessa della durata e preserva il medesimo nell’altro. Anche se è vero che io non diventerò attento a questa intenzionalità longitudinale, generatrice di continuità, senza il filo conduttore dell’oggetto uno, è tale intenzionalità longitudinale e non quella obiettivante introdotta surrettiziamente nella costituzione hyletica, che assicura la continuazione del presente puntuale nel presente disteso della durata una” (ivi,
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p. 45). L’alterità della successione lineare degli istanti impressionali trova nella continua modificazione ritenzionale la propria unità: ogni presente diviene punto-origine (Quellpunkt) che dà luogo ad un alone di ritenzioni che ne fanno immediatamente qualcosa di passato. Esso diviene così “una continuità che si allarga incessantemente, una continuità di passati” (Husserl, 1966, p. 63). Ciò che preme ad Husserl è quello di dimostrare, al contrario dell’impostazione brentaniana che presumeva una facoltà ulteriore di mediazione (l’immaginazione), l’autonomia dell’intero processo e una “modificazione” che è immanente nel presente stesso. Il “durare” attraverso la modificazione ritenzionale fa parte dei processi affettivo-associativi e fenomenologici che stanno alla base delle sintesi passive: “l’’ora’-di-suono si tramuta in suono che è stato, la coscienza impressionale fluisce e trapassa costantemente in una coscienza ritenzionale sempre nuova” (ivi, p. 65). Quando percepiamo un suono, l’“ora” impressionale trapassa in “ora” ritenuti che sono il medesimo suono e che, nonostante la “modificazione” intenzionale, sono sempre lo stesso suono “attuale” che dura. “Questa coscienza è soggetta a un mutamento costante: continuamente l’‘ora’ del suono in carne ed ossa (s’intende, coscienzalmente, ‘nella’ coscienza) si modifica in un ‘già stato’; continuamente un’’ora’-di-suono sempre nuovo prende il posto di quello trapassato nella modificazione. Se però la coscienza dell’‘ora’-di-suono, l’impressione originaria, trapassa in ritenzione, questa stessa ritenzione è a sua volta un’‘ora’, qualcosa che c’è attualmente. (...) Un raggio dell’intenzione può dirigersi sull’‘ora’, cioè sulla ritenzione; ma può anche dirigersi su ciò che nella ritenzione è consaputo, cioè sul suono passato. Ogni ‘ora’ attuale della coscienza sottostà però alla legge della modificazione. Si tramuta in ritenzione della ritenzione, e ciò di continuo. (...) Lungo il flusso, e accompagnandolo, abbiamo una serie ininterrotta di ritenzioni appartenente al punto d’attacco” (ivi, pp. 64-65). Esiste dunque per Husserl un’intenzionalità di “secondo grado” (Ricoeur, 1985, p. 50) che agisce inconsciamente e che mantiene un “alone” di attualità intorno alla coscienza in carne ed ossa di un oggetto, pur nell’ambito di un complesso processo associativo di ritenzioni. Lo “stesso” suono può continuare a durare soltanto in virtù di questa continua sovrapposizione di modificazioni e ritenzioni che, ciò nondimeno, mantengono “attuale” il medesimo contenuto hyletico. La ritenzione, tuttavia, fa trasparire un ineludibile “non-più”; un “non-più” che, peraltro, inerisce al presente stesso, cioè all’attualità: “questo passaggio dall’‘era’ al ‘non più’ e il sovrapporsi dell’uno all’altro esprimono soltanto il duplice senso del presente, da un lato come
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punto d’origine, come iniziativa di una continuità ritenzionale, e dall’altro come punto-limite, astratto mediante divisione infinita del continuum temporale” (ivi, p. 51). In altre parole, la ritenzione sembra dominare a tal punto che il presente impressionale o “in carne ed ossa” sembra divenire impossibile: la “ritenzione” però — e si deve tenerlo bene a mente — costituisce un fattore “strutturale”, a suo modo “inconscio”, che caratterizza ogni datità offerente. Ogni impressione “tende” a durare, magari pochi istanti, e questa durata anche minimale si articola in un complesso meccanismo di modificazioni ritenzionali e di intenzionalità longitudinali. È a questo livello che Husserl inserisce una differenziazione tra ritenzione, in quanto momento strutturale-intenzionale della “durata” di un’impressione, e la rimemorazione in quanto processo di “ridestamento” affettivo-intenzionale di un percetto passato. Una melodia dopo il suo articolarsi temporale, diviene “passata”; ma “il suo essere appena-passata non è una mera intenzione, ma un dato di fatto, dato in se stesso, quindi ‘percepito’. Per contro, nella rimemorazione il presente temporale è ricordato, è presenza presentificata; e così pure il passato è ricordato, presentificato, ma non realmente presente, non è un passato percepito, dato primariamente, intuito” (Husserl, 1966, p. 70). Questa differenza tra passato ritenuto e passato rimemorato si caratterizza per la valenza per così dire finzionale di quest’ultimo: il suono ricordato e ridestato è “come se” fosse presente, ma differisce essenzialmente dall’“ora” presente, così come dal presente appena ritenuto. Ricoeur nota tuttavia come Husserl trovi una certa difficoltà nel mantenere la dialettica tra la continuità temporale e la differenza tra i due livelli del ricordo e, in particolare, osserva come emerga una certa impasse nel determinare la struttura della rimemorazione. Come si articolerà quest’ultima? Sarà forse una “mimesi” del processo ritentivo, cioè si articolerà grazie ad un vettore intenzionale ritentivo-protensionale? Ricordo e ritenzione, insomma, saranno isomorfi e, così — necessariamente — quasi indistinguibili? La soluzione husserliana consiste in una sorta di “duplicazione” dell’intenzionalità: “non basta dire che il flusso di rappresentazioni è costituito esattamente come il flusso di ritenzioni, con il medesimo gioco di modificazioni, ritenzioni e protensioni. Bisogna formare l’idea di una ‘seconda intenzionalità’, che ne fa una rappresentazione di..., seconda nel senso che equivale ad una replica (Gegenbild) dell’intenzionalità longitudinale costitutiva della ritenzione e generatrice del tempo-oggetto” (Ricoeur, 1985, p. 59). Il ricordo rimemorante si dirige nel presente verso il passato con una certa tendenza protensionale:
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esso cioè at-tende qualcosa, intenziona il passato in vista di un “ridestamento” che muta in continuazione l’oggetto (Husserl, 1966, p. 1984). D’altronde ogni ridestamento muta lo stesso “passato” presentificato, cioè cambia quella che Gadamer mutatis mutandis definisce Wirkungsgeschichte, “storia degli effetti”. In altre parole Husserl sovrappone uno sull’altro più livelli, dove alla ritenzione per così dire strutturale, cioè facente parte dell’”oggetto-che-dura”, interseca il vettore rimemorante che interagisce essenzialmente con quel medesimo oggetto, cangiandolo continuamente con un moto retroattivo. Per fare un esempio, il suono che perdura nel tempo viene successivamente rimemorato, ma questa rimemorazione muta alla fine la costituzione oggettiva dell’oggetto stesso, creando quel misto stratificato e indistricabile che costituisce il fenomeno della temporalità immanente. “La retroazione che qui emerge è dunque necessaria a priori. Il nuovo rimanda a sua volta a qualcosa di nuovo, che, comparendo, si determina e modifica la riproduzione del vecchio, e così via” (ivi, p. 85). In questo modo Husserl sembra adombrare un campo di continuo mutamento, un fluire “con esponente”, dove il “fluente” e il “ciòrispetto-a-cui esso fluisce” fluiscono a loro volta senza che possiamo determinarne un ordine o una qualche successione. Riemerge, in sostanza, l’esigenza di riportare il tempo coscienziale a un’idea di tempo oggettivo con i suoi posti e, per quanto paradossali, con le sue stabilità. Il tempo fluisce, ma rispetto a che cosa? E come è possibile parlare aristotelicamente di un “prima” e di un “poi”, oppure — agostinianamente —, di un “passato” e di un “futuro”, se ogni istante è impastato con vettori intenzionali ulteriori e retroattivi, tantoché il passato non è più lo “stesso” passato e il futuro sarà soltanto ciò che emergerà dai complessi meccanismi della rimemorazione? Il momento di passaggio è costituito dalla “situazione temporale”, che Husserl tenta inizialmente di definire come “distanza” dal “punto-d’origine”: man mano che ritenzioni e rimemorazioni ci allontanano dall’”ora” dell’impressione in carne ed ossa, il percetto trova via via la sua posizione nel passato e subisce così un processo di “storicizzazione”. “Sembra che Husserl abbia atteso dalla nozione di situazione temporale, strettamente legata al problema di ritenzione e di rimemorazione, la possibilità per una costituzione del tempo obiettivo che non presupponga ogni volta il risultato dell’operazione costituente” (Ricoeur, 1985, p. 63). Ma la situazione temporale, in quanto qualcosa di paradossalmente fissa e “senza-tempo”, costringe Husserl ad una delle sue ipotesi teoretiche più audaci, ancorché più interessanti: il flusso assoluto (Husserl, 1966, p. 106). Alla fine il tempo oggettivo e per così dire
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“ricorrente” (il movimento degli astri, l’ora “indifferente” dell’orologio) si fonda su un “terzo livello” semovente, anch’esso infinitamente modificabile e mai uguale a se stesso. È come se la problematica temporale ci conducesse necessariamente sulla soglia dell’“incoerenza” logica, portando al limite quello che è l’impianto identitario e categoriale di Aristotele ed esponendolo ad un mise en abîme che, tuttavia, lungi dal costituire un “buco nero” trascendente e lontano dalla nostra esperienza quotidiana, fa invece parte in ogni istante della nostra esistenza, proprio perché infarcisce e sorregge la nozione medesima di “istante”. In breve, vengono individuati tre livelli della temporalità: il livello del tempo oggettivo messo fuori circuito dall’epoché; il livello degli oggetti temporali immanenti costruiti attraverso le strutture intenzionali della ritenzione e della rimemorazione; il livello del puro flusso della coscienza che funge da parametro oggettivo o situazione in cui questi medesimi oggetti temporali si costituiscono e si rapportano. Nei primi due livelli Husserl aveva isolato due forme intenzionali isomorfe e distinte: giunto a questo punto tuttavia, non è più possibile ricorrere ad una ulteriore forma intenzionale, perché ciò profilerebbe il rischio di un regressus ad infinitum. Il puro flusso della coscienza deve in qualche maniera auto-costituirsi, cioè deve esso stesso fondare la propria unità: “per questo, il flusso deve autopresentarsi. Husserl ha ben colto l’aporia che si annuncia sullo sfondo, quella di una regressione all’infinito: l’autoapparizione del flusso non esige forse un secondo flusso nel quale il primo appare? No, dice, la riflessione non esige tale sdoppiamento” (Ricoeur, 1985, p. 66). L’autocostituzione del flusso in quanto tale conclude secondo Ricoeur l’analisi fenomenologica pura, aprendo tuttavia una diatesi tra tempo oggettivo e tempo immanente: l’analisi husserliana parte dall’oggettività temporale trascendente, per passare al livello immanente per poi sfumare nell’impressione ridestante e nel puro flusso che fa da sfondo ad ogni situazione temporale. Il rischio, insomma, è quello di una circolarità ossia, in breve, quello di escludere dapprima il livello trascendente-oggettivo per poi riconvocarlo surrettiziamente (ivi, p. 68). “La fenomenologia interna del tempo porta, in ultima istanza, sull’intenzionalità immanente intrecciata con l’intenzionalità obiettivante” (ibidem).
1.1.3 Fenomenologia e criticismo L’ermeneutica ricoeuriana è precisa ed esplicitamente dichiarata: utilizzare le aporie kantiane per marcare ancora di più le aporie della fenomenologia husserliana. Sia l’approccio fenomenologico che quello
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critico, infatti, debbono alla fine fare i conti con il debito insolvibile nei confronti del tempo cosmico-aristotelico, cioè nei confronti di una dimensione che — lo diciamo prendendo a prestito una definizione di Lacan — ha a che fare con il reale. C’è però un’opposizione radicale che Ricoeur non omette di rilevare: in Husserl emerge il tentativo di “fenomenizzare” in qualche modo il tempo; in Kant invece il tempo è un’“intuizione pura”, ovvero un presupposto formale sia della conoscenza interna che di quella esterna caratterizzata dallo spazio (ivi, p. 72). Ricoeur non prende in alcuna considerazione l’“orizzonte” dell’epoché quale Grund paradossale di tutta la disamina husserliana: non si tratta di un elemento relegabile nell’ambito delle questioni meramente filologiche, poiché l’esclusionesospensione operata da questo gesto filosofico apre invero uno spazio tutto nuovo che si pone a monte dell’apriori kantiano stesso. Rileggendo Kant con occhi husserliani, infatti, dovremmo preliminarmente osservare come lo spazio-tempo newtoniano — implicito presupposto di tutta la Critica della ragion pura ed estremo tentativo di integrare il sapere scientifico nella filosofia — non costituisce soltanto un formalismo accidentale senza il quale non riusciremmo a percepire effettivamente il mondo esterno e interno così come esso appare, ma diviene il “prodotto” di una particolare tessitura intenzionale e associativa che si articola inconsciamente secondo vari tropismi e che, alla fine, si fonda sulla dimensione abgründig di un flusso assoluto. Potremmo dire ancora di più: è la stessa Lebenswelt che s’intrude nell’apriorismo kantiano, dimodoché noi vedremmo e percepiremmo il mondo esterno soltanto grazie a quest’orizzonte che è tanto apriori, quanto paradossalmente aposteriori. In tale prospettiva, anche la pregidiziale newtoniana troppo spesso attribuita a Kant perde un po’ del proprio valore, ed apre il criticismo anche a una dimensione relativistica che sembrerebbe inficiarlo sin dal principio: che l’orizzonte cui l’apriori fa riferimento sia euclideo o riemanniano è assolutamente non determinante per quanto attiene la costruzione dell’apriori in se stesso e la determinazione “mista” dello spazio-tempo che ne consegue (Gödel, 1995, p. 206). Tralasciamo tuttavia per il momento le critiche all’analisi ricoeuriana e seguiamo invece il filosofo francese nel suo interessante raffronto tra criticismo e fenomenologia: egli infatti sottolinea l’importante nozione di orizzonte quale giunzione tra una dimensione platonizzante del tempo inteso come presupposto apriorico di qualsiasi considerazione sul tempo e una dimensione “aristotelica” che concepisce invece un tempo vuoto e autonomo, percepibile soltanto grazie al “riempimento” di avvenimenti (ivi, p. 75), cioè in seguito all’”apparizione” di
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“oggetti trascendenti”. In sostanza, Kant si ritroverebbe a maneggiare delle analisi proto-fenomenologiche allorquando riconosce la dimensione apriorica del tempo nell’apparizione di qualsiasi oggettività, ma quando, nell’Analitica, affronta il problema delle effettive determinazioni temporali, non riesce ad eludere un “ritorno” all’empirico e al tempo oggettivo. Infatti, se l’Estetica stabilisce il carattere intuitivo e formale quale condizione di ogni oggettività, l’Analitica attraverso lo schematismo dell’immaginazione finisce per ancorarsi invece alle determinazioni temporali della natura, perdendo di fatto ogni valenza fenomenologico-intuitiva e ogni dimensionamento trascendentale della temporalità (ivi, p. 77). Indice abbastanza icastico di quest’impasse kantiana, al di là dei lunghi anni dedicati alla stesura dello schematismo trascendentale, sono più specificamente le determinazioni fondamentali del tempo individuate in quella simultaneità, successione, permanenza che costituiscono invece per Husserl l’ostacolo teoretico difficilmente aggirabile della “situazione temporale”. Tali “analogie” dell’esperienza consentono l’applicazione apriori delle categorie dell’intelletto al mondo della natura, ma invero denunciano un’essenziale dipendenza dal piano fenomenico aposteriori. Il tempo è per Kant un ordine che si applica apriori e, attraverso lo schematismo, nella determinazione trascendentale di quelle categorie che a loro volta consentono l’apparizione fenomenica di un oggetto; ma queste determinazioni aprioriche non possono prescindere da un piano oggettivo e intratemporale, cioà da qualcosa che appare nel tempo in questo o quel modo. La determinazione temporale più importante per Kant nell’applicazione categoriale è significativamente quella della permanenza, nella misura in cui esprime una certa qual fissità o stabilità nello scorrere disordinato degli eventi: infatti “solo nel permanente dunque sono possibili rapporti temporali (giacché la simultaneità e la successione sono i soli rapporti di tempo)” (KrV, p. 226). C’è tempo soltanto se c’è qualcosa che permane: Ricoeur sottolinea una volta di più come il cambiamento non inerisca al tempo in se stesso, ma inerisca invero ai fenomeni intra-temporali, cioè ad apparizioni che si trovano nel tempo (KrV, p. 201). “Ma, come il tempo in quanto tale non può essere percepito, è solo grazie alla relazione di ciò che persiste con ciò che cambia, nell’esistenza di un fenomeno, che noi possiamo discernere questo tempo che non passa e nel quale tutto passa” (Ricoeur, 1985, p. 78). In quanto pura successione il tempo non avrebbe senso, ma costituirebbe un’alternanza impercepibile e intermittente di apparizioni e disparizioni, senza un sostrato che evidenzi un ciò-che dispare ed appare
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e, quindi, una categorizzazione e una temporalizzazione. La permanenza è così una condizione necessaria per la costituzione temporale: “negli oggetti della percezione, cioè nei fenomeni, deve esserci il sostrato che rappresenti il tempo in generale” (KrV, p. 200). Ma Kant incede nella sua analisi e finisce per identificare nella dimensione temporale della permanenza lo schema trascendentale della sostanza: in altri termini, laddove abbiamo un permanere apriori nel tempo, ivi è applicabile la categoria trascendentale della sostanzialità. Ciò che permane, insomma, è sostanziale: “lo schema della sostanza è la permanenza del reale nel tempo, cioè la rappresentazione del reale come sostrato della determinazione empirica del tempo in generale; sostrato che perciò rimane, mentre tutto il resto muta” (KrV, pp. 171-172). In quest’unico gesto vengono determinate delle “ipostasi” teoretiche non indifferenti — almeno dalla nostra prospettiva echologica — per il pensiero occidentale: il reale come sostrato permane, la permanenza è una determinazione essenziale e originaria del tempo, la sostanza si determina come permanenza. Il nostro sospetto è che qui l’aristotelismo di Kant insista proprio sulla valenza usiologica della sua argomentazione, cioè sull’unico vero apriori della sua Critica che è appunto l’identità e la fissità intemporale della categoria sostanziale. Posta la permanenza della sostanza come base (usiologico-aristotelica) per ogni determinazione temporale, Kant prosegue il suo ragionamento attraverso le analogie dell’esperienza della simultaneità e della successione. Queste si rifanno alla determinazione della categoria dinamica di relazione che si articola appunto nella sostanza, nella causa, nella comunione (azione reciproca o Gemeinschaft) e che riguarda pertanto già degli “essenti”. Le determinazioni si basano ancora analogicamente sulle “relazioni” tra i fenomeni: “le cose sono simultanee, in quanto esistono in un unico e medesimo tempo” (KrV, p. 223), ma tale relazione d’ordine è possibile e concepibile “newtonianamente” soltanto se tali cose agiscono reciprocamente (KrV, p. 224). È ancora Newton, in effetti, che traspare nella concezione kantiana della “successione”, datoché vi emerge un’idea di relazione causa-effettuale che risente della riforma humiana del principio di causalità: “tutto ciò che accade presuppone qualche cosa, a cui segue secondo una regola” (KrV, p. 206). Insomma, la sostanzialità in quanto permanenza o, con Heidegger, “semplice-presenza” fonda la possibile relazionalità in generale e, in quanto tale, consente le relazioni di simultaneità e di successione. Ma ciò che interessa Ricoeur non è tanto questa priorità, quanto il diallele che si viene a creare: “si può ben dire che, mediante le sue determinazioni trascendentali, il tempo determina il
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sistema della natura. Ma, a sua volta, il tempo è determinato grazie alla costruzione dell’assiomatica della natura. (...) Tale reciprocità tra il processo di costituzione dell’obbiettività dell’oggetto e l’emergenza di nuove determinazioni del tempo, spiega che la descrizione fenomenologica che potrebbe essere suscitata da queste determinazioni sia sistematicamente repressa mediante l’argomentazione critica” (Ricoeur, 1985, pp. 81-82). La situazione è abbastanza complessa e non cessa di dimostrare delle istanze aporetiche: in breve, l’anfibolia riguarda da un lato l’apriorità dell’orizzonte temporale (e di quello spaziale) quale condizione per la costituzione di qualsiasi fenomeno, sia esso interno che esterno; dall’altro l’indeterminabilità del tempo stesso, se non attraverso un ricorso “in seconda battuta” alla costituzione oggettiva, cioè al mondo della natura. Il tempo è costitutivo in quanto primaria forma di ordine delle categorie dell’intelletto, ma esso stesso riceve le condizioni di quest’ordine proprio dalle categorie che avrebbe dovuto fondare o, ancora più radicalmente, dalle determinazioni empiriche della temporalità cosmico-naturale: “il loro principio generale è: tutti i fenomeni sottostanno, per la loro esistenza, a regole apriori della determinazione del loro vicendevole rapporto di un tempo” (KrV, p. 195), ma queste regole sono quelle della simultaneità, successione e permanenza che caratterizzano il mondo naturale nella sua aposteriorità. Il carattere circolare dell’analisi kantiana si esplicita ulteriormente nel carattere indiretto della percezione del tempo, carattere che sembra ridondare in un altro diallele che non cesserà di assillarci: quella tra spazio e tempo. Allorquando Kant affronta la problematica del senso interno e dell’impossibilità di una sua percezione diretta (KrV, p. 207) nell’ambito della seconda deduzione trascendentale, egli ipotizza che riusciamo a conoscerci in quanto oggetti soltanto grazie alle modificazioni apportate in noi stessi dai nostri medesimi atti. In altri termini è necessaria una sorta di “esteriorizzazione” attraverso la quale riusciamo ad apparire a noi stessi in modo mediato quali “oggetti empirici”. Tuttavia, se il tempo è la forma apriori del senso interno, è ovvio che questo processo di auto-modificazione coinvolgerà tale aspetto e la sua consequenziale determinazione: “attraverso questa modificazione rivolta a me stesso, io mi determino, produco delle configurazioni mentali suscettibili d’essere descritte e nominate. Ma in che modo posso produrre questa modificazione mediante la mia attività, se non producendo nello spazio delle configurazioni determinate?” (ivi, p. 84). Una di tali configurazioni è l’atto di tracciare una linea, cioè un’azione nello spazio che per Kant rappresenta in qualche modo il tempo:
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spazio e tempo divengono coessenziali senza che ciò implichi, come in Bergson, una sorta di deiezione della durata nell’esteriorità dello spazio. “Noi non ci possiamo rappresentare il tempo, che pure non è per nulla oggetto di intuizione esterna, altrimenti che sotto l’immagine simbolica di una linea in quanto la tracciamo; che senza questa maniera di presentarcelo non potremmo conoscere l’unità della sua dimensione” (KrV, p. 153). Il soggetto non può intuirsi in quanto tale, ma soltanto in quanto fenomeno che modifica il mondo esterno attraverso i suoi atti e che, in tale modificare, modifica se stesso: egli non è cosciente dell’attività unificatrice e ordinatrice dell’intelletto se non grazie a un rebound che lo riguarda dappresso in questa medesima attività unificatrice per così dire inconscia. Tale aspetto indiretto, emerge per Ricoeur ancora nella “permanenza” quale determinazione temporale della sostanza: noi abbiamo una qualche esperienza di una determinazione temporale non mediante un’introspezione immediata del nostro senso interno, ma grazie alla percezione dei fenomeni esterni e, in particolare, della loro componente di sostrato sostanziale e immutabile. Ancora una volta l’orizzonte temporale costituisce la condizione trascendentale di possibilità del fenomeno, ma esso non può essere né articolato né percepito se non attraverso il fenomeno medesimo e quelle relazioni che avrebbe dovuto aprioricamente fondare.
1.1.4 Il diallele della conoscenza indiretta e le sintesi passive L’analisi ricoeuriana prosegue con un’analisi abbastanza approfondita di Essere e tempo di Heidegger. Le riflessioni che abbiamo sin qui seguìto per sommi capi hanno determinato per il momento una contrapposizione teoretica così personificata: Husserl-Agostino versus Kant-Aristotele. Il soffermarsi sul criticismo, in effetti, aveva il compito per Ricoeur di evidenziare una certa lacunosità nella fenomenologia della coscienza interna del tempo e, in particolare, l’insufficienza di una messa fuori circuito del tempo oggettivo. Anche se Kant nell’Estetica pare consentaneo alla prospettiva agostiniana (Ricoeur, 1985, p. 89), poiché ritrova in certe condizioni soggettive la possibilità del fenomeno oggettivo, è anche vero che le determinazioni temporali dell’Analitica sembrano aprirsi verso l’influenza necessaria delle circostanze esterne ed oggettive del mondo naturale. Si tratta di una serie di “prestiti” a double bind che abbozzano tuttavia un’incompatibilità di fondo tra livello fenomenologico e livello cosmologico: laddove preva-
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le uno deve per forza cedere l’altro, per arrivare alla fine alla centralità di un’assiomatica della natura che cede a sua volta molto sul versante newtoniano. Le similitudini con Aristotele appaiono quindi rilevanti, soltanto che lo Stagirita appare più radicale nel sottolineare il primato fisico del tempo, mentre Kant cerca di dissimularlo con l’idea di una percezione traslata o indiretta. È come se l’apriori costituisse un’ipostasi indimostrabile, della quale possiamo avere solo una conoscenza indiretta, cioè mediante quei meccanismi fenomenologici già irrimediabilmente presupposti: l’aporia della temporalità manifesta in tutta la sua urgenza il carattere problematico del criticismo e rischiara meglio l’opera di Husserl nel suo tentativo di integrare in qualche maniera Kant. Così per Ricoeur, “il prezzo della scoperta husserliana della ritenzione e del ricordo secondario, è l’oblio della natura, il cui carattere di successione resta presupposto dalla descrizione stessa della coscienza interna del tempo. Ma il prezzo della critica non è forse quello di una cecità reciproca rispetto a quella di Husserl? Legando la sorte del tempo ad una ontologia determinata della natura, Kant non si è forse precluso la possibilità di esplorare altre proprietà della temporalità rispetto a quelle che esige la sua assiomatica newtoniana: successione, simultaneità (e permanenza)?” (ivi, p. 91). Non anticipiamo qui alcune conclusioni cui arriveremo in seguito, ma è forse utile sottolineare come la permanenza nell’architettura kantiana della concezione fisica di Newton non rappresenti soltanto un fenomeno di suggestione culturologica, ma inerisca essenzialmente alla natura della stessa temporalità. Così come la concezione aristotelica sembrerebbe dipendere da un predominio quasi mitico della temporalità cosmica e del movimento regolare e imperturbabile degli astri (ivi, p. 17). Ma veniamo ad alcune contro-istanze husserliane che Ricoeur sembra glissare, poiché esse ci torneranno utili in seguito: la contrapposizione ricoeuriana insomma ci pare un po’ sommaria e tende più ad un effetto di tipo stilistico-argomentativo, che al consolidamento effettuale di ciò che la fenomenologia ha detto e può dire sulla questione della temporalità. In altre parole l’analisi di Ricoeur, per quanto attenta e quasi acribica nel seguire le Lezioni sulla coscienza interna del tempo, tralascia invece completamente tutta la riflessione husserliana sulle cosiddette sintesi passive. Da un lato Ricoeur sostiene che Husserl mirerebbe soprattutto ad una “hyletica della coscienza” (ivi, p. 39), ma dall’altro egli stesso omette un consequenziale approfondimento di questo processo, in cui la temporalità è per così dire fondante, ma in un modo emblematicamente paradossale e, comunque, abbinata ad altri fattori rimasti perlopiù sottaciuti.
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Per certi aspetti, infatti, Husserl appare kantiano: “una configurazione delle cose materiali in quanto aistheta, così come stanno intuitivamente dinanzi a me, dipende dalla mia configurazione, (...) è in riferimento con il mio corpo proprio e con la mia ‘sensorialità normale’” (Husserl, 1952, pp. 452-453). C’è da un lato una sorta di apriorismo che pone le condizioni per l’apparizione di un fenomeno; dall’altro si profila un vettore che introduce delle nozioni che ritorneranno più volte nel nostro studio e che riguardano un po’ paradossalmente le idee di norma e di normalizzazione. Husserl parla esplicitamente di “ortoestesia” (ivi, p. 463), ma ciò implica un vettore direzionato necessariamente sulla dimensione pubblica e comunicativa, su una legislazione che non è soltanto l’insieme delle regole apriori che guidano l’attività dell’intelletto, ma anche l’insieme di quelle leggi aposteriori e storicoculturalmente determinate che definiscono ciò che è normale da ciò che è anormale. Inoltre, l’aggancio dell’orizzonte apriorico della percezione al Leib introduce una ulteriore complicazione rispetto all’idea di un semplice orizzonte potenziale della percezione che imporrebbe una minima legalità all’io nella sua esperienza del mondo. Dopo aver neutralizzato il mondo naturale, dunque, Husserl compie un contromovimento che sconvolge completamente quella che è l’interpretazione ricoeuriana. Il “corpo proprio” pone la questione della passività dell’hyle, cioè inizia a far penetrare nell’architettura del pensiero husserliano l’idea della sussistenza di alcune strutture soggettive di sapere e di senso che non dipendono direttamente dal polo egologico. Emergerebbe in questo modo una doxa passiva (Husserl, 1966b, p. 92), un’organizzazione dell’esperienza che non è propriamente un’attività dell’io e che sfuma quasi in una dimensione “oggettiva”. Tale attività paradossale ha a che fare per Husserl con una particolare dinamica associativa, molto più distante dalla teoria humiana di quanto non sia prossima al meccanismo intenzionale. Essa infatti si caratterizza per tensionalità, aggregazioni, cioè si manifesta come un fungere, un “fungere regolato” (Husserl, 1959, p. 156). I dati hyletici vengono raggruppati, organizzati, differenziati, ma attraverso processualità che non concernono un atto intenzionante dell’io; semmai costituiscono la base da cui deriva l’intenzionalità vera e propria, il gioco di tensioni e slittamenti che dispiegherà in seguito il campo oggettuale e la costituzione del soggetto-io. Le modalità in cui il campo hyletico si auto-struttura sono eloquentemente due: a. per omogeneità, che significa identificazione, assimilazione
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(Husserl, 1966b, p. 191). L’associazione hyletica avviene confrontando i data di senso per quanto attiene il loro contenuto: “ogni elemento visivo è collegato dall’omogeneità visiva, ogni elemento tattile dall’omogeneità tattile, ogni elemento acustico dall’omogeneità acustica” (ibidem). Da tale iniziale associazione, attraverso dei membri-ponte (che hanno talune caratteristiche omogenee ma altre disomogenee) che rendono possibili assimilazione e “fusioni a distanza”, si formano degli aggregati hyletici pre-categoriali come, ad esempio, il colore rosso; b. per ordinamento: i dati hyletici si raggruppano secondo l’ordine della temporalità (che è la struttura associativa formale) e costituiscono così dei concatenamenti. Essi possono essere di tipo “seriale”, cioè disponentesi secondo il “prima” e il “dopo”, oppure di tipo “incrementale”, cioè secondo il “più” o il “meno” dell’omogeneità; oppure, ancora, di tipo “locale” (ivi, p. 189), ovvero in formazioni di “coesistenza”, le quali, a loro volta, vanno a costituire dei campi strutturati. Il dato emergente o eminente tende a distaccarsi dal campo associativo per un meccanismo che Husserl definisce contrasto (ivi, p. 192), il quale comunque finisce per costituire una variante dell’omogeneità. Non si tratta di un predominio della struttura identitaria, ma al contrario la cifra che caratterizza una zona penombrale e confusa. Quest’orizzonte, infatti, si sovrappone necessariamente a un campo energetico. I movimenti aggreganti dimostrano una valenza “affettiva” che “lega”, tiene e trattiene tra di loro i dati hyletici in sé inconsistenti: “la formazione stessa dell’unità, la formazione effettiva di singoli gruppi o di singoli dati hyletici che esistono per sé dipenderebbe ancora dal fattore rimasto in ombra dell’affezione” (ivi, p. 209). Man mano la percezione isola delle identità percettive e il soggetto si costituisce come “io” si forma uno sfondo, in cui sia l’area ritenzionale che l’area protensionale subiscono una sorta di annebbiamento e impoverimento (ivi, p. 233): il “grado zero della vivacità coscienziale” (ivi, p. 225) che corrisponde per Husserl alla definizione fenomenologica di inconscio (ivi, p. 211). L’affettività rappresenta il paradosso di un’attività inconscia, cioè di un operare neutrale an-egoico all’interno della passività: “l’operare della passività, nel suo livello più basso, l’operare della passività hyletica consiste nel dare vita sempre di nuovo a un campo di oggettualità pre-date” (ivi, p. 219). Tuttavia Husserl tende a considerare l’affettività in modo “impulsivo”, nella misura in cui viene presupposto un soggetto percipiente e uno stimolo esterno: “con ‘affezione’ intendiamo lo stimolo coscienziale, l’impulso peculiare che un oggetto cosciente eser-
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cita sull’io” (ivi, p. 205). Ci troviamo insomma di fronte a un’ambiguità e a una contraddizione, poiché la zona della passività hyletica non può prescindere dallo stabilimento di un’unità coscienziale di riferimento, nonché di una teleologia volta alla costituzione di una “datità” caratterizzata dalla “presenza vivente”, “un concreto presente universale nel quale si ordinano tutte le differenti singolarità” (ivi, p. 45). Come osserva Derrida nel La voce e il fenomeno, assistiamo a un continuo rimando da un livello di hyle all’altro, da quello sensoriale a quello energetico-affettivo, per finire nel flusso temporale che Husserl definisce significativamente Urhyle in alcuni manoscritti dell’agosto del 1930 (Derrida, 1990a, p. 248). Sembrerebbe d’acchito quindi che le sintesi passive ripropongano per certi versi la matrice criticata da Ricoeur: alla fine il raggiungimento di ulteriori livelli di passività e di “deflazione” soggettiva non riesce ad eludere il ricorso al piano dell’oggettività naturale messa fuori circuito dall’epoché in quanto “agente” primario dell’affettività. La temporalità rimane nella sua valenza di flusso assoluto la griglia indispensabile per ogni fenomeno associativo della pre-datità, sebbene essa funzioni soltanto in presenza di un dato impressionale con la sua specifica forza affettiva. L’idea di trovare un aggancio tra una dimensione fenomenologica del tempo e una dimensione cosmico-oggettiva s’infrange però solo parzialmente, poiché il livello di passività fa sì che una determinata associazione temporale, con tutti i suoi vettori intenzionali, non possa ritenersi propriamente “soggettiva”, ma aleggi semmai in quella zona di neutralità, definita come “grado-zero” della coscienza. In altri termini, la dinamica ritenzionale-protensionale, nonché i processi di rimemorazione, si pongono in un continuum che parte da un livello di assoluta passività ed “oggettività” per vieppiù articolarsi nella sua fenomenologica dimensione soggettiva. Ma come può avvenire questo passaggio? Come può essere agganciato in Husserl il tempo pubblico e calcolabile al livello del flusso assoluto del soggetto? Dal nostro punto di vista in questo passaggio gioca un ruolo decisivo la struttura della Lebenswelt, che riesce a far combaciare assieme la dinamica dell’intersoggettività della quinta lezione delle Meditazioni cartesiane con un milieu assimilabile allo spirito oggettivo diltheyano. Husserl ha sempre dinanzi agli occhi una dimensione universale che implica una sorta di “orizzonte” e una conseguente in-erenza (l’Ineinander). Di qualsiasi dato hyletico-sensoriale, così come di una categoria già costituita noi possiamo dire con rigore soltanto che nesono, cioè che sono elementi inclusi in un campo più ampio e comprensivo. “L’esistenza di un reale non ha perciò mai e poi mai altro
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senso che quello della in-existentia, essere nell’universo, nell’orizzonte aperto della spazio-temporalità, orizzonte dei reali già conosciuti e non solo quelli attualmente consaputi, ma anche ora sconosciuti, che hanno la possibilità di accedere all’esperienza e alla futura condizione di conosciutezza” (Husserl, 1948, p. 31). In particolare, l’ambiente è costituito da un insieme infinito di pre-datità che non hanno ancora una valenza soggettiva, ma sono costituite dai meccanismi impersonali delle sintesi passive (ivi, p. 27). E se quest’ultime si articolano grazie alla funzione regolatrice del tempo assoluto che conferisce loro un valore universale, ciò significa che sussiste una giunzione tra tempo soggettivo e tempo cosmico, e soprattutto che queste due determinazioni costituiscono delle astrazioni abbastanza irrealistiche. In effetti Husserl sembra propendere per un misto, ossia per una dimensione temporale che è sia quella ritentivo-protensionale, sia quella universale della pura successione: è così che l’“istante” husserliano è altrettanto indifferente, quanto legato all’irreversibilità del tempo soggettivo. Ogni istante dà per così dire il ritmo ai processi associativi che costituiscono le pre-datità ed è quindi indifferente al prima-poi se non per la sua mera funzione di scansione ordinatrice; ma allorquando la predatità si organizza per omogeneità, contrasto e ordinamento, dando così luogo all’hyle sonora ad esempio, ecco che il tempo prende in qualche maniera corpo, si fenomenizza nella percezione intratemporale che in qualche maniera dura, cioè si articola lungo il non-più e il non-ancora. In questo processo ambivalente e misto, difficile da cogliere poiché Husserl stesso ci confonde ipotizzando diversi livelli di temporalità (quelli evidenziati da Ricoeur: il tempo “messo tra parentesi”, il tempo ritenzionale-protensionale, il tempo assoluto), la Lebenswelt svolge il ruolo paradossale di Urhorizont, nel quale però infiniti orizzonti coesistono senza stabilire tra di loro alcuna gerarchia: oltre alle operazioni logiche, “vi appartengono anche le esperienze pratiche e sentimentali, l’esperienza del volere, del valutare e dell’agire nella vita pratica; ciascuna di queste esperienze determina peraltro il proprio orizzonte di famigliarità dell’attività pratica, valutativa, etc.. Si devono inoltre includere tutte quelle operazioni dell’esperienza mediante le quali si giunge in generale alla costituzione del tempo e dello spazio del mondo, delle cose spaziali degli altri soggetti, etc.” (ivi, p. 45). La Lebenswelt diviene così quell’ambiente complesso e pervasivo che, attraverso vari livelli di soggettività ed intersoggettività, trasla continuamente dall’hyle inconscia, irrelata e assolutamente oggettiva, a dimensioni via via dotate di maggior coscienza soggettiva. “La materia
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comune nella quale ci muoviamo io e l’altro Leib è ciò che ciascuno di noi sperimenta come corporeità spaziotemporale materiale, come mondo delle cose, come sfondo hyletico nel quale siamo radicati sia io che l’altro (...). L’‘inconscio’ si rivela come il mondo materiale esterno e come l’alterità non ancora consapevolmente costituita del mio Umwelt. L’inconscio sembra coincidere, al limite, con la materialità delle cose, con l’oscurità e l’impenetrabilità della matrice ‘esterna’, con le Abschattungen che circondano il Leib-Kern” (Paci, 1963, pp. 186187). Il flusso assoluto che articola le associazioni hyletiche al suo livello primario non costituisce la semplice successione o durata della coscienza di un soggetto, ma inerisce in maniera essenziale al piano oggettivo e precategoriale del mondo-della-vita, a quel livello a “gradozero” di affettività, assimilabile alla pura materia spazio-temporale, definita significativamente da Husserl “inconscio” (Husserl, 1966b, p. 208). “L’‘inconscio’ rivela come il mondo materiale esterno e come l’alterità ancora non consapevolmente costituita nella mia Umwelt. L’inconscio sembra coincidere, al limite, con la materialità delle cose, con l’oscurità e impenetrabilità della materia ‘esterna’” (Paci, 1963, p. 187). In questa maniera — osserva Husserl — la Lebenswelt diviene l’”apriori universale della correlazione” (Husserl, 1959, p. 292), cosicché la temporalità assume il ruolo paradossale di un elemento necessario e costitutivo che a sua volta viene costituito all’interno della Lebenswelt medesima. In questa prospettiva problematica, la via che seguiremo più innanzi sarà proprio quello di un approfondimento radicale di questo meccanismo.
1.1.5 Ontologia e temporalità Fissiamo i paradossi che sono emersi nella nostra riflessione sulla fenomenologia della temporalità: 1) il tempo sembra manifestarsi sia come il tempo soggettivo delle ritenzioni e delle protensioni, sia come il tempo pubblico ed oggettivo che sostiene universalmente ogni scansione dell’esperienza; 2) il tempo è sia costituente in quanto flusso assoluto e principio di ogni associazione hyletica, sia “costituito” in quanto “prodotto” intersoggettivamente all’interno del mondo-dellavita. Queste circolarità si situano nell’ambito dell’analisi husserliana della Lebenswelt, ma forse non vi trovano un sufficiente approfondimento. Ricoeur vede invece in Heidegger una svolta decisiva, proprio nell’ambito di una radicalizzazione delle aporie immanenti nella prospettiva fenomenologica, sebbene tale svolta non possa definirsi completamente risolutiva. Noi invero non ci aspettiamo esiti teoretici affat-
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to differenti, soprattutto se continuiamo a seguire il fil rouge ricoeuriano di una contrapposizione ipostatizzata tra tempo fenomenologico e tempo cosmico, quale viatico aporetico verso una teoria narratologica della temporalità: se infatti la “fenomenologia” costituisce il méthodos di Essere e tempo e il “circolo ermeneutico” ne è la sua messa in opera (Heidegger, 1927, p. 24), probabilmente ci ritroveremo di fronte alla medesima circolarità husserliana, causata alla fin fine dal medesimo meccanismo originario dell’epoché. La posta in gioco diviene allora, dal nostro punto di vista, non tanto la radicalizzazione à la Ricoeur dell’aporia, quanto la dimostrazione della non-viziosità intrinseca di questi circoli (ivi, p. 23), il loro esser-essenziali ed euristici per la questione della temporalità: è questo il Grund dal quale ci muoveremo prossimamente nella nostra riflessione echologica. Torniamo adunque a Ricoeur. Heidegger sembra in prima istanza cambiare tavolo da gioco e rendere quasi superflue, ad esempio, le riflessioni aristotelico-agostiniane: di fatto non c’è più un’anima cui far riferimento, né tantomeno la realtà fisica del movimento, bensì un problematico Dasein che è certamente l’ente che noi siamo ma anche quell’ente di cui ne va dell’essere stesso (Ricoeur, 1985, p. 95). “In un’analitica dell’Esserci, in che modo rimarrebbe la minima traccia di antinomia tra la coscienza interna del tempo e il tempo oggettivo? La struttura dell’essere-nel-mondo non distrugge forse tanto la problematica del soggetto e dell’oggetto quanto quella dell’anima e della natura?” (ivi, p. 96). Nel da del Dasein si concentra tutta un’analisi della spazialità esistenziale che concorre alla costituzione originaria dell’esserenel-mondo: il mondo non costituisce un “orizzonte” che si sovrappone ad un Esserci già di per sé esistente, ma entra originariamente nella costituzione ontologica dell’Esserci stesso: “la ‘mondità’ è un concetto ontologico e denota la struttura di un momento costitutivo dell’esserenel-mondo. Ma questo ci è apparso come una determinazione esistenziale dell’Esserci. La mondità è quindi essa stessa un esistenziale” (Heidegger, 1927, p. 89). Se il mondo è costitutivo dell’Esserci, ciò significa che il tempo cosmico-mondano in qualche maniera afferisce anche originariamente al soggetto: tempo dell’anima e tempo fisico si fondono essenzialmente in un’unica struttura ontologica, superando così le impasses sin’ora evidenziate. Con questa prospettazione innovativa, Heidegger riesce ad ottenere dei risultati teoretici non indifferenti: egli 1) aggancia la questione della temporalità alla Cura, cioè a un livello ontologico che incrocia sia il livello ontologico dell’Esserci, sia quello più problematico dell’essere in generale e, quindi, dell’essere del mondo; 2) evidenzia il carattere
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estatico del tempo nelle sue dimensioni originarie di essere-stato, presenza e ad-venire, e tenta di correlarlo con l’indifferenza dell’“ora” tipica del tempo cosmico; 3) opera una derivazione degli altri livelli di temporalizzazione (tempo pubblico, storicità, intratemporalità) a partire dalla temporalità originaria della Cura (Ricoeur, 1985, p. 98). La Cura, dunque, rappresenta il momento centrale della riflessione heideggeriana, sussumendo tutte le strutture esistenziali emerse nell’analitica di Essere e tempo. La Cura infatti “1) conserva la cicatrice del suo rapporto con la questione dell’essere, 2) possiede degli aspetti cognitivi, volitivi ed emozionali senza ridursi ad alcuno di essi, e senza collocarsi al livello in cui la distinzione tra questi tre aspetti è pertinente, 3) ricapitola gli esistenziali principali, quali il progettare, l’esser-gettato nel mondo, la deiezione, 4) offre a questi esistenziali un’unità strutturale che pone immediatamente l’esigenza di ‘essere-untutto’, o di ‘essere-integrale’ (Ganzsein), che introduce direttamente alla questione della temporalità” (ivi, 99). Per Ricoeur tuttavia proprio nella Cura ritroviamo simultaneamente i punti di forza e i punti di debolezza per quanto riguarda la tematizzazione della temporalità. La sua unità strutturale ruota significativamente attorno alla dimensione temporale dell’ad-venire e, dunque, attorno a un’idea del soggetto intesa come essente che pro-getta e si progetta: “il progettarsi-in-avanti sull’’in-vista-di-se-stesso’, progettarsi che si fonda sull’avvenire, è un fenomeno essenziale dell’esistenzialità. Il senso primario dell’esistenzialità è l’avvenire” (Heidegger, 1927, p. 393). L’aspetto peculiare di questa costituzione che collide con una tradizione metafisica centrata invece sul privilegio del presente e della “presenza”, non insiste tanto nel disegnare una nuova antropologia, quanto nel suo esser fondata su una mancanza e una limitazione essenziale: ciò che sostiene il carattere progettante dell’Esserci, il suo continuo sopravanzamento non è uno slargo o un Aperto infinito verso il quale proiettarsi, quanto paradossalmente un radicale venir meno che è la fine (Ende) dell’Esserci stesso, ossia l’essere-per-la-morte. L’Esserci in quanto aver-da-essere si trova sempre indaffarato con una serie indefinita di enti utilizzabili, ossia di mezzì che servono alla sua attività: in tal modo egli è-presso gli enti e, in tale essere-presso si ritrova “gettato” e già-immerso in un mondo comune ad altri uomini, con i quali condivide significati e mezzi. La Cura dunque riannoda questi tropismi dei quali Heidegger non smette di sottolineare l’aspetto unitario, ma lo fa attraverso il privilegiamento dell’avvenire e dell’essere-per-la-morte dell’Esserci. Detto in altri termini, il vettore che collegherebbe il tempo dell’anima con il tempo pubblico mondano passa attraverso una mancanza o
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impossibilità, e una successiva derivazione o deiezione che tuttavia non può che essere a sua volta originaria. Questo processo di derivazione è quello che, a detta di Ricoeur, palesa i momenti di maggiore inefficacia, poiché mette in gioco un dualismo autentico-inautentico peraltro co-fungente in tutto Essere e tempo. C’è una dimensione etica dell’autenticità che ruota attorno all’essere-per-la-morte e che conduce alla temporalità originaria intesa come senso dell’essere e che è innestata sull’ad-venire; e c’è una dimensione inautentica e deietta che si declina nelle forme della temporalità a noi più note: il tempo misurabile dall’orologio, gli oggetti temporali che in qualche maniera “durano”, la storia. “La temporalità non è accessibile che al punto di congiunzione tra l’originario, parzialmente guadagnato attraverso l’analisi dell’essere-per-la-morte, e l’autentico, stabilito attraverso l’analisi della coscienza morale” (Ricoeur, 1985, p. 103). La voce della coscienza richiama il soggetto, attraverso l’angoscia provocata dalla nullità della propria esistenza (la possibilità più propria dell’uomo in quanto possibilità dell’impossibilità), a vivere in quanto quell’ente che si pro-getta, che è sempre avanti-a-sé essendo-gettato e intrattenendo un certo rapporto con gli enti semplicemente-presenti. In questo senso, il vettore temporale futurocentrico rimane l’orizzonte tacito di tutta l’analitica esistenziale come se fosse un vettore di autenticità pervasivo e come se il ritardo heideggeriano nell’affrontare aperta facie la Zeitlichkeit, più volte rimarcato da Ricoeur in quanto indice di un’impasse, dipendesse piuttosto da quell’orizzonte temporale che comunque deve sostenere sin dall’inizio il dipanarsi delle strutture esistenziali dell’Esserci. Mentre Ricoeur intravvede in questo indugio nell’affrontare il nucleo tematico di Essere e tempo una vera e propria difficoltà teoretica di Heidegger — tesi confortata peraltro dal fatto che l’analitica della temporalità diviene di fatto una “ripetizione” dell’analitica esistenziale — dal nostro punto di vista, esso dipende dal carattere eminentemente orizzontale della temporalità e dall’essere comunque compresente in tutta la riflessione heideggeriana. (Heidegger, 1927, p. 287). Per Heidegger, infatti, l’orizzonte della temporalità costituisce il “senso” della Cura in quanto struttura unificante dell’essere-nel-mondo dell’Esserci: “in breve ‘senso’ significa il ‘ciò rispetto a cui’ del progetto primario della comprensione dell’essere (...), ciò in base a cui qualcosa può essere compreso nella sua possibilità così com’è” (ivi, pp. 389-390). Che la temporalità costituisca un “senso” e, di conseguenza, il “ciò rispetto a cui” della comprensione — come vedremo — sarà il nucleo di tutta la successiva nostra argomentazione, nel tentativo di ritrovarvi quelle risor-
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se necessarie al superamento dei dualismi sinora apparsi nella disamina ricoeuriana. Nella sua “ripetizione”, dunque, Heidegger riprende le analisi precedentemente svolte evidenziandone per così dire il “senso”: se l’Esserci è essenzialmente e originariamente poter-essere, sarà il “verso-dove” (intendendo qui il “dove” senza riferimenti allo spazio) a garantirne il dispiegamento, cioè il “rispetto-a-cui” del progetto stesso. Il zu del zuSein, attraverso la mediazione del Sein-zum-Tode ci riporta così alla dimensione orizzontale del Zu-kunft, il futuro (Ricoeur, 1985, p. 107). E il futuro non può non inerire ad un essente-stato, cioè all’assunzione della propria gettatezza (Geworfenheit), sebbene l’essere-stato in se stesso non coincida con il semplice passato, configurabile come una sequela di enti semplicemente-presenti, ma implichi l’assunzione della propria gettatezza, il progettar-si partendo dal proprio essere-nelmondo, da una pre-comprensione e pre-determinazione che ci sono state “già” assegnate. Il presente, invece, si caratterizza come un “rendere presente” in vista della decisione: “solo come presente nel senso di ‘presentare’ la decisione può essere ciò che essa è: il genuino lasciar venire incontro ciò che essa, agendo, coglie” (ivi, pp. 392). In questo modo la temporalità mette assieme l’esistenza, l’effettività e la deiezione, che sono i tre fattori costituenti del -ci (da) dell’Esserci. In quanto tale essa non-è, non è un ente ma semplicemente temporalizza: non essendo un ente semplicemente-presente, esso costituisce l’ek-statikón puro e semplice (ivi, p. 395), il fuori-di-sé originario che rende possibile ogni trascendimento dell’Esser-ci in quanto quell’ente che comprende l’essere in generale. L’estaticità di presente, passato e futuro, d’altra parte, garantisce la loro unità e, allo stesso modo, la loro diversificazione: è proprio da questa piattaforma originaria, infatti, che Heidegger tenta di derivare le dimensioni della storicità, del tempo pubblico e dell’intratemporalità, ricollegandoli alla temporalità originaria stessa in quanto sue forme proprie di deiezione. Le dimensioni inautentiche del tempo sono già iscritte nella costituzione autentica ed estatica della temporalità originaria dell’Esserci in quanto modalità necessarie di esteriorizzazione: sia la gettatezza che l’esser-presso gli enti intramondani comportano una declinazione esistenzialmente involutiva che li conduce a una fissazione metafisica della storia nel passato e all’idea inautentica di enti che esistono come “oggetti” all’interno di “qualcosa” come il tempo. Tutto ciò implica per Heidegger un processo ben preciso, che è quello di rendere ogni cosa semplicemente-presente e “alla portata di mano”: il tempo medesimo è così una quantità misurabile e controllabile, un quantum che diviene un ogget-
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to e untilizzabile come qualsiasi altro. Oggi stiamo vivendo una condizione apparentemente analoga nella misura in cui nei rapporti lavorativi tra imprenditore e dipendente, ad esempio, ciò che viene “mercificato” non è tanto il lavoro in se stesso, ma proprio il tempo in quanto merce pura e semplice. Orbene, Ricoeur intravvede proprio in questa derivazione che vorrebbe integrarsi comunque nel tempo autentico, la lacuna teoretica di tutta l’analisi heideggeriana. Di fatto assistiamo a un “salto” che ci riporta all’intratemporalità, come se tra l’essere-per-la-morte e l’oggetto temporale misurabile e calcolabile dall’orologio non ci potesse essere alcun raccordo “autentico”, ma al contrario un continuo ricorso al tempo pubblico-mondano per supportare la derivazione stessa. Come può infatti “estendersi” autenticamente il tempo? Come può integrare organicamente la dimensione futurocentrica del tempo dell’Esserci, con la presenzialità del tempo utilizzabile e “a portata di mano” e con la passatità della storia, passato nello stesso momento individuale e soggettivo, e passato intersoggettivo e condiviso da una comunità? In effetti, affrontando la questione della storicità, emerge immediatamente come Heidegger non voglia concedere nulla all’idea di un “passato” pubblico, completamente sganciato dall’ad-venire e dal rendere-presente. Il suo riferimento polemico è la nozione di Geistwissenschaften di Dilthey (Heidegger, 1927, pp. 475-482), dove la “passatità” non riesce in alcun modo ad essere radicata nell’Esserci (Ricoeur, 1985, p. 119) nonostante gli sforzi “fenomenologici” di ricondurre lo “Spirito oggettivo” alla dimensione dell’Erlebnis, del vissuto individuo e idiosincratico. Come sarebbe possibile in questo caso la storicità vera e propria, cioè l’istoriazione per cui da una decisione dell’Esserci si giunge ad un evento di pregnanza storica? Il “passato” invero pare fotografare una realtà già storicizzata, senza per questo spiegare in alcun modo il progesso genetico della storicizzazione stessa. Per Heidegger, invece, l’essere-nel-mondo dell’Esserci è intrinsecamente e ontologicamente storico: “lo storicizzarsi della storia è lo storicizzarsi dell’essere-nel-mondo” (Heidegger, 1927, p. 465), cosicché l’utilizzabile e la semplice-presenza in quanto dimensioni inautentiche ma sempre coessenziali al -ci dell’Esserci “sono già da sempre coinvolti nella storia del mondo” (ibidem). Il modo in cui si estrinseca la storicità dell’Esserci è ancora quello della ripetizione: ripetendo le possibilità esistenziali tramandate, l’Esserci può decidere per il proprio avvenire e così, attraverso il con-Esserci, partecipare al proprio destino (Geschick); la tra-dizione è tra-smissione che ripete, cioè che si assume l’essere-stato e lo proietta nel futuro attraverso la decisione. “La
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ripetizione è una modalità particolare in cui l’Esserci è stato. La decisione si temporalizza come il ripetente rivenire-su-di-sé a partire da una possibilità afferrata in direzione della quale l’Esserci, pervenendo-a-sé, è anticipato” (Heidegger, 1975, p. 275). Il processo di esteriorizzazione-estensione del tempo originario si compie però nell’ambito dell’analisi dell’intratemporalità: scindendo infatti la storia dal passato e focalizzando il proprio interesse sulla storicizzazione in se stessa intesa come istanza esistenziale dell’Esserci, Heidegger ha guadagnato altro spazio per la Zeitlichkeit, glissando le questioni che riguardano la nozione di traccia, nonché l’evidente enormità della “storia” così come la conosciamo, a fronte della sua concezione di destino basata semplicemente sulla struttura del con-essere. Quest’ultima, anzi, è una nozione rimasta perlopiù sottaciuta in tutta l’Analitica esistenziale, nonostante la sua portata teoretica sia tutt’altro che irrilevante coinvolgendo questioni fondamentali per la filosofia del Novecento, come l’alterità e l’intersoggettività. L’intratemporalità tuttavia conduce effettivamente Heidegger ad una messa in questione della sua teoria: non tanto — come vedremo — l’incapacità di raggiungere un livello di temporalità ancora più originario quale senso dell’essere in generale, quanto il ritorno surrettizio di elementi inautentici nell’ambito dell’analisi della temporalità originaria. E in effetti l’intratemporale pone i problemi più seri: che cosa significa infatti che un evento si situi nel tempo? Come si può parlare di simultaneità o successione? Si tratta insomma del côté aristotelico-cosmico del tempo: il tempo degli astri, il tempo onniglobante che è immutabile ovunque, il tempo dei fisici. Aristotele individuò i termini della questione, sottolineando, come abbiamo visto, il carattere fondativo dell’istante nella costituzione temporale; ora, per Heidegger, l’istante o l’ora costituiscono delle forme deiette ed inautentiche della temporalità, nell’ambito della dispersione del Si pubblico, e il cardine di questo processo di livellamento si ha nell’espressione Rechnen mit, il fare i conti con il tempo. L’Esserci “fa i conti” con il tempo, cioè attua un modo d’essere che da un lato rientra nelle sue possibilità esistenziali, ma dall’altro annuncia quella propensione al calcolo (Rechnung) che invece caratterizza la degenerazione della temporalità originaria (Ricoeur, 1985, pp. 125-126). In essa infatti prevale la preoccupazione (Besorgen), cioè la Cura (Sorge) si sofferma sugli enti semplicemente-presenti, articolandosi attraverso l’estasi temporale del presente. Questo soffermarsi si esplica nell’utilizzo di un utilizzabile specifico, l’“orologio”, il quale diviene in tal modo un vero proprio “esistenziale”, per quanto connesso alla deiezione della semplice-presenza: “con la temporalità
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dell’Esserci, gettato, abbandonato al mondo, auto-dantesi tempo, è già scoperto qualcosa come l’‘orologio’, cioè un utilizzabile che nel suo ricorrere regolare si è reso accessibile in una presentazione aspettantesi” (Heidegger, 1927, p. 494). È come se Heidegger ritornasse ad Agostino e Aristotele, cioè al privilegio del presente dopo aver fatto ruotare la Cura sul futuro e la storicità sul passato. Come nelle altre figure dell’analitica, inoltre, questo privilegio coincide con il carattere inautentico della forma temporale che ne deriva: databilità, lasso di tempo e carattere pubblico costituiscono i modi in cui la preoccupazione si esteriorizza. La databilità è strettamente legata al “fare i conti”: ciò con cui la preoccupazione si misura è infatti una serie indistinta di ora, come se essi proprio in virtù della loro indistinzione potessero risultare più maneggiabili e famigliari. Ad ogni evento intratemporale può corrispondere un “posto” cronologico, cioè esso può essere facilmente ordinato e con ciò “controllato”. In questo modo, d’altronde, la preoccupazione “dilata” per così dire l’ora e la estende a piacimento: il “lasso di tempo” in quanto intervallo non riguarda per nulla la temporalità originaria ma è l’effetto di una Besorgen che vuole obliare la sua possibilità più autentica. Essendo disperso nel “Si” pubblico, cioè in un rassicurante con-essere quotidiano, questa databilità dilazionata riveste anche un carattere pubblico: ogni ora non è autenticamente il “mio” tempo esistenziale, bensì il tempo indistinto di tutti, vuoto quanto lo è la chiacchiera quotidiana che parla di qualunque cosa senza saperne davvero nulla (Ricoeur, 1985, pp. 129-131). “Il tempo ‘nel’ quale noi stessi siamo è compreso come il ricettacolo di cose semplicemente presenti ed utilizzabili” (ivi, p. 131) e l’indice di questo oblio è rappresentato proprio dall’orologio: con esso è possibile l’esatta datazione, mentre il tempo raggiunge il suo apice di pubblicità. Ogni “ora” è un qualunque “ora”, svuotato di ogni valenza esistenziale e quindi assimilabile all’istante aristotelico. “Nella misurazione del tempo il tempo è quindi reso pubblico in modo tale che esso è incontrato ogni volta e da ognuno come un ‘ora e ora e ora’. Questo tempo ‘universalmente’ accessibile negli orologi appare, in certo modo, come una molteplicità di ‘ora’ semplicementepresenti, senza che la misurazione del tempo sia diretta tematicamente verso il tempo come tale” (Heidegger, 1927, p. 499). Ricoeur cerca allora di decostruire questi passaggi, poiché vede nell’intratemporalità un “salto” troppo ampio e troppo discosto dalla temporalità originaria per essere recuperato senza il ricorso al tempo pubblico-mondano. L’intervallo di tempo che caratterizza l’uomo è di fatto insignificante nei confronti del tempo universale: e pur tuttavia è pro-
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prio dalla riflessione dell’uomo che il tempo stesso acquisisce una certa significanza. Il tempo senza-presente rimane inassimilabile al tempo con-presente caratterizzato dall’indifferenza dell’istante: nonostante i continui tentativi di conciliazione, quest’opposizione non si risolve in Essere e tempo ma mantiene una continua tensione “polare”, con prestiti reciproci, contaminazioni, contrarietà e interferenze (Ricoeur, 1985, pp. 143-149). Di fatto l’intratemporalità è costantemente presupposta dalla storicità; senza le nozioni di databilità, lasso di tempo, manifestazione pubblica, non si potrebbe dire che la storicità si dispiega tra un inizio e una fine, si estende tra questi due termini e diviene il constorico di un destino comune. E, se si risale dalla storicità alla temporalità originaria, come non dire che il carattere pubblico dello storicizzarsi procede a suo modo dalla temporalità più profonda, nella misura in cui la sua interpretazione dipende essa stessa dal linguaggio che ha da sempre preceduto le forme ritenute intrasferibili dell’essere-per-lamorte?” (ivi, p. 146). Nella prospettiva ricoeuriana, il nodo in cui si districa questa tensione aporetica è la storia, che non a caso in Essere e tempo assume una posizione mediana tra la temporalità originaria e l’intratemporalità: quest’ultima viene “contaminata” da essa nella misura in cui la databilità e la misurazione del tempo attuata dall’orologio non possono prescindere da un orizzonte storico; la temporalità originaria invece sembra costituirsi per contrarietà, essendo l’essere-perla-morte una struttura quasi antitetica nei confronti di un tempo onniavvolgente ed ubiquo. Da questa zona di “frattura” (ivi, p. 148) si articola l’ipotesi di Ricoeur, che alla fine sfocia nella sua concezione della temporalità intesa come una “rifigurazione” (finzionale) del racconto storico: “se l’intratemporalità è il punto di contatto tra la nostra passività e l’ordine delle cose, la storicità non diventa il ponte gettato, all’interno stesso del campo fenomenologico, tra essere-per-la-morte e tempo del mondo?” (ivi, pp. 148-149). In altre parole, la temporalità dell’essere-per-la-morte e il tempo pubblico-mondano databile e misurabile si possono congiungere soltanto mediante un processo narrativo il quale, nella misura in cui costituisce un atto soggettivo che mette kantianamente in gioco il tempo, rappresenta parimenti una esteriorizzazione pubblica e condivisa da una comunità di persone.
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questo caso quasi completamente obliata da Ricoeur. Egli infatti sorvola con noncuranza la questione, anche se a proposito di Kant afferma che “il legame tra spazio e tempo è al tempo stesso legato nella più estrema profondità dell’esperienza: a livello della coscienza dell’esistenza” (Ricoeur, 1985, p. 88). È come se affiorasse un nodo fondamentale, ma questo venisse tosto eluso in quanto indice di un abisso difficilmente aggirabile. Ma è possibile affrontare il tempo senza prendere in considerazione lo spazio? E se Heidegger in Essere e tempo, derivando nel § 70 lo spazio dal tempo, sembra attestare la scelta ermeneutica ricoeuriana, come non tener conto della “topologia” dell’Heidegger delle conferenze La Cosa o Costruire, abitare, pensare? P. Sloterdijk segnala giustamente una miopia interpretativa che certamente non è solo di Ricoeur, ma che comunque comporta un fraintendimento di quello che è il nucleo teoretico di tutta la filosofia heideggeriana: termini quali “casa, patria, vicinanza, prossimità, abitare, soggiorno ci mostrano che l’e-sistere umano viene pensato più nel segno della spazialità che in quello della temporalità” (Sloterdijk, 2001, p. 235). Il titolo Essere e tempo, ma anche l’ultima parte del corso del semestre estivo del 1927 a Marburgo (I problemi fondamentali della fenomenologia) sembrerebbero marcare una certa egemonia della temporalità soprattutto in vista di una “fondazione” ontologica, ma, come vedremo, molti elementi fanno venire alla luce una sorta di contromovimento interno, una resistenza che non cessa di manifestarsi per culminare nella lapidaria affermazione retrospettiva di Heidegger nella conferenza Tempo e essere: “il tentativo di ricondurre la spazialità dell’Esserci alla temporalità compiuto nel § 70 di Essere e tempo non è più sostenibile” (Heidegger, 1969a, p. 30). È dunque necessaria un’indagine preliminare della concezione heideggeriana dello spazio così come si dipana lungo tutto Essere e tempo; infatti “è chiaro che — osserva Heidegger — la spazialità da noi attribuita all’Esserci, il suo ‘essere nello spazio’, dev’essere intesa a partire dal modo di essere di questo ente. La spazialità dell’Esserci (che è assolutamente diversa dalla semplice-presenza) non può significare né la sua presenza in un luogo dello ‘spazio cosmico’ né il suo essere utilizzabile in qualche posto” (Heidegger, 1927, p. 137). Sembra riproporsi con uno strano parallelismo la medesima distinzione che incrinava dall’interno il problema della temporalità: lo spazio cosmico e il suo carattere onniglobante devono contemperarsi con una spazialità originaria dell’Esserci che possiede una valenza ontologica e dalla quale lo stesso spazio cosmico in qualche maniera deriva. In questo caso, però, Heidegger non ricorre ad alcuna Wiederholung, come se —
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paradossalmente — la spazialità dell’Esserci costituisse un dato primario, da riprendere tematicamente solo dopo un chiarimento della temporalità originaria quale senso ontologico della Cura. In effetti, l’analisi esistenziale parte necessariamente dall’Esserci in quanto quell’ente che “comprendendosi nel suo essere si rapporta a questo essere” (ivi, p. 76), ma questo suo essere si rivela innanzitutto come un essere-nelmondo: Heidegger evidenzia come questa struttura ontologica debba essere intesa unitariamente e come “mondo” ed “essere-in” siano dimensioni co-originarie. Si dispiega in altre parole l’analisi dell’inessere come modo d’essere costitutivo dell’Esserci e della “mondità” in generale. L’in dell’in-essere non significa d’altronde una semplice inclusione spaziale, ovvero non ci troviamo dinanzi a due semplici-presenze, a due ob-jecta in-clusi l’uno nell’altro (ivi, p. 169). Heidegger sembra voler marcare sin dall’inizio di Essere e tempo un livello più originario di spazialità, segnalando come la preposizione in- condensi in sé l’antica espressione innan, abitare (in latino: habitare) o soggiornare, con annessi i significati dell’“essere-famigliare-con” (ivi, p. 78) o dell’“avera-che-fare”, “maneggiare”. A questo punto tuttavia, Heidegger sembra voler inserire la marcia indietro, che peraltro manterrà innestata lungo tutta l’articolazione dell’opera: l’in-essere, come struttura esistenziale, risulta troppo contaminata da una dimensione spaziale di tipo ontico per fungere da esistenziale originario. Usualmente noi esperiamo l’inessere nella sua effettività, cioè come prossimità di enti intramondani, e “l’essere-nel-mondo di un ente ‘intramondano’ tale da poter comprendersi come legato, nel suo ‘destino’, all’essere dell’ente che incontra all’interno del proprio mondo” (ivi, p. 80). Heidegger, sulla scorta del suo progetto iniziale di coniugare la temporalità e l’essere, palesa una cautela quasi sospetta, come se incedesse entro un terreno minato. Dopo pochi passaggi, dunque, egli chiarisce come lo spazio per certi versi costituisca qualcosa di derivato o che ha a che fare con la dimensione dell’effettività, senza con ciò voler dire che esso si articola nell’ambito degli enti intramondani semplicemente-presenti: “solo la comprensione dell’essere-nel-mondo come struttura essenziale dell’Esserci rende possibile la comprensione della spazialità esistenziale dell’Esserci” (ibidem). Lo spazio si apre in quanto essere-nelmondo, in quanto struttura ontologica fondamentale: esso è immanente all’Esserci, è quel da che sorregge il Dasein e che istituisce l’apertura comprendente nella quale si articola il mondo stesso. Ma quest’ultimo non dev’essere inteso come il mondo-ambiente che ci circonda, cioè come quell’orizzonte “ecologico” che rende disponibili ad un
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essere vivente i mezzi per la sopravvivenza: “l’‘intorno’ costitutivo del mondo-ambiente non ha (...) un senso primariamente ‘spaziale’” (ivi, p. 91), bensì ontologico-trascendentale in quanto rende possibile l’apparire e l’incontro con l’ente intramondano. In altri termini, la spazialità dimostra sin dall’inizio il suo statuto ambivalente nei confronti della temporalità, risultando da un lato “deietta”, ossia afferente alla semplice-presenza degli enti intramondani, dall’altro costituendo comunque una struttura ontologica originaria che non dev’essere confusa con lo spazio metrico e misurabile delle scienze fisiche. Il fantasma bergsoniano continua ad aleggiare sopra Essere e tempo, e Heidegger sarà così costretto a sostenere l’originarietà esistenziale dello spazio e, simultaneamente, dovrà “derivarlo” — con una forzatura teoretica non indifferente — dalla temporalità, poiché è soltanto quest’ultima legittimata a garantirne l’”autenticità” (in quanto “versodove” del progetto dell’Esserci). Dalla necessità di un chiarimento di questo livello, Heidegger intraprende la nota analisi sull’utilizzabilità, cioè sul modo in cui l’ente si presenta all’Esserci nell’ambito del mondo: noi ci rapportiamo alle cose attraverso la loro funzionalità, ossia in quanto “mezzi-per” correlati tra di loro in un sistema di rimandi secondo l’a-che dell’utilità e il per-che dell’impiegabilità. Ogni mezzo rimanda ad un altro mezzo secondo un rapporto di “appagatività”, in base al quale esso soddisfa una determinata funzione (ivi, pp. 112-113). Nella rete significativa dei rimandi assistiamo alla prima apparizione fenomenologica e contematica della mondità (ivi, p. 112) in cui l’Esserci si presenta come “l’a-che primario (...) ‘in-vista-di-cui’” (ivi, p. 113), cioè si articola come una comprensione di “significati” che rimandano tutti a lui stesso. In questa comprensione, Heidegger riprende ancora un’istanza topologica, sottolineando come il sistema della mondità in quanto complesso di rimandi riferiti all’Esserci, sia caratterizzato dall’in-che: “l’in-che della comprensione autorimandantesi, in quanto è ciò rispetto-a-cui è lasciato venir incontro l’ente nel modo di essere dell’appagatività, è il fenomeno del mondo” (ivi, p. 116). È in quanto “in-che” che il mondo prende un connotato esistenziale (sebbene in questo momento indagato soltanto dal punto di vista ontico) e questo “in-che” non indica una spazialità per così dire “fisica”, bensì l’essere-immerso in un complesso di rimandi strutturali che rimandano all’Esserci comprendente. Proprio in quanto tale, il mondo si presenta innanzitutto come l’in-cui di una significatività e “l’Esserci, nella sua intimità con la significatività, è la condizione ontica della possibilità della scopribilità dell’ente che si incontra nel mondo nel modo d’essere dell’appagatività (utiliz-
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zabilità)” (ivi, p. 117). Epperò Heidegger si rende conto che questa determinazione un po’ generica rischia di condurre ad una circolarità: l’in-essere dell’Esserci rimanderebbe al mondo in quanto luogo in cui si determina l’in inteso originariamente come innan, abitare; ma nella delineazione della struttura del mondo come sistema di utilizzabilità significativa che rimanda all’a-che dell’Esserci, ritorna latatamente l’indeterminazione dell’in-cui. Diviene pertanto nececessario un ulteriore approfondimento della Zuhandenheit poiché essa ha a che fare in modo essenziale con una determinazione spaziale: l’utilizzabilità infatti significa un “essere alla mano” e una “vicinanza” (ivi, p. 134) che tratteggiano un sistema di posti. Ogni mezzo “ha il suo posto” in quanto integrato in un sistema di rimandi del “per” e proprio per questo “avere il proprio posto” esso può essere compreso in quella “visione” pratica ma certamente non “ateoretica” che Heidegger definisce visione ambientale preveggente (ivi, p. 95). Quest’ultima caratterizza il “commercio” dell’Esserci con l’ente intramondano, poiché con un colpo d’occhio riesce ad intuire il complesso dei rimandi e, in tal maniera, a direzionare l’azione dell’uomo. Se la vicinanza dunque individua semplicemente il “posto” di un utilizzabile nella struttura, questa medesima vicinanza può essere compresa soltanto all’orizzonte di un ulteriore “in dove” in grado di offrire una visione d’insieme: “noi chiamiamo prossimità questo ‘in dove’ dell’essere-al-suo-posto possibile da parte del mezzo, ‘in dove’ che è costantemente e preliminarmente tenuto sott’occhio dalla visione ambientale preveggente del commercio prendente cura” (ivi, pp. 134-135). In altri termini una spazialità preliminare del mondo viene caratterizzata dal sistema complesso dell’utilizzabilità, ma quest’ultima rimanda sempre e necessariamente all’Esserci in quanto comprendente ed “agente”: è l’ “a-che” autoreferenziale che scopre qualcosa come la prossimità, cioè un “avere-a-che-fare-con” nell’orizzonte di un sapere preliminare e precategoriale che scorge tutte le possibilità pratiche di un oggetto in quanto inserito in una collezione di infiniti altri oggetti. Se riprendiamo l’assialità evidenziata da Ricoeur, è chiaro dunque che Heidegger propenda sin dalle prime pagine di Essere e tempo per lo spazio fenomenologico a discapito dello spazio cosmico: “la spazialità dell’Esserci (...) non può significare né la sua presenza in un luogo dello ‘spazio cosmico’ né il suo essere utilizzabile in qualche posto” (ivi, p. 137). Tale spazialità in effetti si struttura nel modo d’essere dell’Esserci e, più precisamente, nel modo di essere-nel-mondo e, di conseguenza, di rapportarsi agli enti intramondani. E questa modalità del rapporto viene caratterizzata a sua volta dal disallontanamento e dall’orienta-
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mento direttivo, le cui connotazioni semantiche non debbono già essere intese in senso spaziale, ma semmai in senso prespaziale. Quando parliamo di disallontanamento, in effetti, la lontananza che vi risuona non implica affatto una distanza, né una metrica che misuri un intervallo o frammezzo fisico: si tratta invece di una distanza ontologica compresa nel relazionarsi del soggetto con l’utilizzabile. In quanto prendentesi-cura e commerciando con l’ente intramondano, l’Esserci lo avvicina, o, meglio, diminuisce la sua essenziale lontananza. Per rappresentare meglio questa dimensione esistenziale, Heidegger prende in esame, quale esempio, gli “occhiali”: essi sono un utilizzabile che si situa molto vicino, sul nostro naso, eppure risultano più distanti di un quadro appeso al muro. Sono talmente distanti da non essere percepibili, risolti completamente nel loro neutro “essereper” (ivi, p. 140). Dunque: “vicino a sé significa: nell’ambito di ciò che è innanzitutto utilizzabile a partire dalla visione ambientale preveggente” (ibidem). Analogamente, l’orientamento direttivo che implica l’assunzione di una determinata direzione nell’ambito del sistema dei rimandi, non possiede alcun connotato spaziale. Esso è radicato nell’essere-nelmondo, cioè caratterizza il prendersi-cura dell’Esserci nei confronti dei mezzi che lo circondano; in questo senso, “sinistra e destra non sono qualcosa di ‘soggettivo’, di fondato su un senso particolare del soggetto, ma sono direzioni dell’orientamento-direttivo dentro un mondo già in uso” (ivi, p. 142). Heidegger tuttavia si affretta a dissipare un dubbio, e cioè che la spazialità dell’essere-nel-mondo possa risultare da un certo qual dominio dell’Esserci nei confronti dell’utilizzabile. È indubbiamente vero che l’uomo manipola, afferra, produce i “mezzi” e, così facendo, “addomestica” il proprio “in-dove”, ma ciò non significa affatto che la spazialità in se stessa come “prossimità” possa essere intesa come una sua produzione. La totalità della significatività dei rimandi struttura la mondità in cui già siamo e, in qualche modo, ci viene incontro: “l’‘in-dove’ è delineato in generale attraverso una totalità di rimandi formata nell’‘in-vista-di-cui’ proprio del prendersi cura, totalità entro la quale ha luogo il rinvio alla remissione che lascia appagare” (ivi, pp. 144-145). C’è dunque una remissione, una passività che porta ad un arretramento: il lasciar-venir-incontro l’ente intramondano diviene paradossalmente un “far posto” che alla fine coincide con un ordine e un disporre. In questo caso intuiamo una tonalità che Heidegger manterrà inalterata nel corso di tutta la sua evoluzione filosofica: infatti in una presentazione di una mostra dello scultore Heilinger nel 1964 e ripresa in
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una presentazione analoga del 1969, riprende la concezione di uno spazio inteso come einräumen, un cedere un po’ del proprio spazio: “lo spazio fa spazio. Il fare spazio come sfoltire, come diradare; diradare, liberare, render libero” (Heidegger, 1996, p. 43). La differenza che emergerà successivamente risiede nel ruolo costitutivo dell’Esserci: mentre in Essere e tempo è “fondativo” dello spazio in quanto esserenel-mondo, successivamente esso sarà chiamato a com-partecipare ad un “evento”, ad essere cioè un elemento di un processo più ampio e trascendente. L’ago della bilancia sembra spostarsi e mentre nell’analisi esistenziale è l’Esserci ad essere originariamente spaziale, negli anni Cinquanta è l’Ereignis a profilarsi spazialmente, sebbene per manifestarsi in modo cosiffatto necessiti dell’opera dell’uomo. Il vettore che segue Heidegger è quindi questo: lo spazio si costituisce nell’ambito della mondità e la mondità è il fenomeno essenziale dell’Esserci in quanto essere-nel-mondo. Lo spazio è dunque apriori in quanto preliminare ad ogni incontro con l’ente intramondano nel modo del lasciarvenire-incontro e del lasciar-appagare: esso è in questo senso quell’intimità originaria, precategoriale e costitutiva che con-costituisce (Heidegger, 1927, p. 147) il mondo, ma soltanto in quanto appartiene in modo essenziale all’Esserci in quanto essere-nel-mondo. La struttura di questo apparato concettuale è indubbiamente circolare: l’ermeneutica fenomenologica, così come avviene nel caso dell’analisi della temporalità, sembra attingere a piene mani da quello spazio oggettivo, pubblico e misurabile che ci circonda, per poi compiere un salto indietro e giungere alla spazialità originaria ed autentica. Siamo quasi ad affrontare un processo decostruttivo in cui Heidegger smantella via via le concezioni più comuni sullo spazio, per giungere però ad un esito tautologico del tipo: ci sono uno spazio ed un mondo solo perché l’Esserci è originariamente spaziale. Non possiamo dunque dire “che cos’è lo spazio”, ma appena affermare che lo spazio spazializza e, tutt’al più, potremo descrivere fenomenologicamente i modi di questa spazializzazione: l’utilizzabile, la significatività, il mezzo-per, il mondo, la res extensa sono modalità della spazializzazione originaria dell’Esserci, ma non già lo spazio in se stesso. La posta in gioco viene a questo punto differita: se l’Esserci è originariamente spaziale, ma, nel progetto iniziale di Essere e tempo, il senso dell’Esserci è essenzialmente la Zeitlichkeit, sarà necessaria un’ulteriore svolta che faccia dipendere in qualche maniera (sfuggendo la “contaminazione” bergsoniana) lo spazio dal tempo; o, come vedremo nel nostro studio, proprio dal senso.
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1.2.2 Il paragrafo 70 Il Dasein concentra a nostro avviso in se stesso un enigma che l’analisi heideggeriana sin qui brevemente ripresa non riesce a dipanare. Il da o il Ci costituisce quel prefisso che concentra in sé tutta la carica innovativa di Essere e tempo: il soggetto è tale in quanto è il Ci o il da, il (proprio) “qui”. In effetti Heidegger sembra lasciar trapelare un certo indugio, come se la struttura dell’in-essere non risultasse abbastanza chiara in seguito all’analisi della spazialità originaria dell’Esserci: “la necessità di tante e tante minuziose precisazioni dipende dal fatto che un dato ontico evidente è stato ontologicamente contraffatto fino a renderlo irriconoscibile” (ivi, p. 170). L’in-essere descrive la struttura formale dell’essere-nel-mondo e “l’ente la cui essenza è costituita dall’essere-nel-mondo è il suo ‘Ci’” (ibidem). L’in-essere si caratterizza come un essere-il-da ma Heidegger sembra obliare la valenza spaziale del da, per soffermarsi su una nozione di -ci o apertura anch’essa svuotata da connotazioni spazializzanti. “L’Esserci è la sua apertura” ma non nel senso di una semplice identità o di un predicato nominale del tipo “l’Esserci è aperto”: esso invece ha-da-essere la propria apertura, espressione che non cela del tutto una sfumatura “etica” presente d’altronde in tutto Essere e tempo nelle strutture dell’angoscia, della chiamata della coscienza, della colpevolezza e della polarità autenticoinautentico, e alla fine fondata su un’impostazione “futurocentrica” dell’essere. L’in-essere, per risultare eticamente “autentico”, diviene in tal maniera un aver-da-essere, ma sia l’in che il da delineano per Heidegger i contorni di un abitare ontologico, di una famigliarità con la terra e il mondo che ritroveremo anni dopo, nel Saggio sull’origine dell’opera d’arte, ad esempio (Heidegger, 1950, pp. 28-30) L’apertura in quanto modalità in cui l’uomo abita autenticamente non costituisce alcunché di spaziale ma è essenzialmente caratterizzata dagli esistenziali della “situazione emotiva” e della “comprensione”: l’Esserci ha da essere il proprio Ci in quanto gettato in una determinata situazione che gli preesiste e che non può controllare, e, in quanto comprensione, è destinato costitutivamente a progettarsi e ad andare oltre se stesso, in un costante movimento di auto-trascendimento di cui ne va del suo essere stesso. “Situazione emotiva e comprensione caratterizzano, come esistenziali, l’apertura originaria dell’essere-nelmondo. È in uno stato emotivo che l’Esserci ‘vede’ le possibilità in base alle quali esso è. L’apertura progettante di queste possibilità è già sempre tonalizzata emotivamente” (Heidegger, 1927, p. 188). Potremmo dire che l’in-essere come tale venga così riassorbito in quelle strutture
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esistenziali che sfociano poi nella temporalità originaria dell’Esserci e, più precisamente, nella dimensione aperturale dell’ad-venire. “Il progettarsi-in-avanti sull’‘in-vista-di-se-stesso’, progettarsi che si fonda nell’avvenire, è un carattere essenziale dell’esistenzialità. Il senso primario dell’esistenzialità è l’avvenire” (ivi, p. 393). L’ad-venire, in quanto orizzonte con-scoperto dalla progettualità dell’Esserci, è d’altronde strettamente connesso all’eticità dell’aver-da-essere, tonalità che fa tutt’uno con la finitudine esistenziale dell’uomo. In altri termini, come osserva Ricoeur, l’essere-per-la-morte apre la dimensione temporale dell’avvenire e con essa rende possibile la progettualità dell’Esserci; ma quest’ultima, in quanto aver-da-essere il proprio Ci, diviene in tal modo fondativa dell’in-essere quale struttura ontologica fondamentale dell’essere-nel-mondo. La circolarità che ne deriva è evidente: lo spazio esistenziale è costitutivamente originario, ma per essere tale — cioè autentico — deve in qualche modo dipendere da o aggraffarsi alla temporalità dell’essere, in quanto è soltanto in una dimensione del tempo imperniata sull’ad-venire e, quindi, sul futuro, che è possibile una qualche forma di autenticità. Il paragrafo 70 diviene in questa prospettiva significativo, poiché evidenzia questo sfondo aporetico camuffandolo, per così dire, nel problema dei rapporti intercorrenti tra spazio e tempo in senso di equilibrio argomentativo all’interno di un’analisi esistenziale molto più ampia. Se nei passi sin’ora analizzati, la spazialità rappresenta una struttura ontologica costitutiva, la temporalità diviene alla fine del percorso heideggeriano il senso dell’essere dell’Esserci e, quindi, a fortiori il fondamento della spazialità stessa. L’intero statuto di Essere e tempo dipende in effetti da questa coerenza ed Heidegger lo dimostra perentoriamente, palesando in parte il suo imbarazzo: “perciò anche la spazialità caratteristica dell’Esserci deve (c.n.) fondarsi sulla temporalità” (ivi, p. 440). Il “deve” sembra ridondare più e più volte, in un riverbero assordante: è come se Heidegger tradisse quell’istanza etica apriori che ha seguìto in tutta la sua articolazione, e cioè che la coordinata dell’autenticità, ancorché fondamentale dal punto di vista ontologico (e già qui dovremmo aprire una parentesi immensa), risulta altresì necessariamente fondata su una certa costituzione della temporalità. Tra spazio e tempo, allora, non si può trattare necessariamente di una semplice deduzione o derivazione (pena lo scadimento bergsoniano), né tantomeno di un rapporto di tipo kantiano: non è sufficiente dire che gli oggetti spaziali esterni in quanto appaiono alla coscienza e scorrono nel tempo, dipendono in questo modo dal senso interno e quindi dalla temporalità. Il nesso ricercato da Heidegger non è privo di
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ambiguità: l’Esserci è spaziale in quanto essere-nel-mondo che si prende cura degli enti semplicemente-presenti, ma anche in quanto non è egli stesso un ente che “occupa” uno spazio. Semmai l’Esserci, come abbiamo visto, ordina gli enti nello spazio, “facendo spazio” e “sgombrando”: nella molteplicità di rapporti che si instaurano, si profila quella prossimità intrinseca alla dimensione originaria dell’abitare che costituisce il registro essenziale dell’in-essere. A questo punto tuttavia rimane oscura una possibile relazione tra tempo e spazio: o ricorriamo al circolo vizioso appena evidenziato, oppure si addiviene a una sorta di dualismo irriducibile, nel quale lo spazio-tempo costituisce un plesso unitario, reciprocamente fondato. A questo punto Heidegger introduce una nozione decisiva — l’orizzontalità — che manterrà anche nei decenni successivi e che gli serve per definire fenomenologicamente il ruolo della temporalità originaria: innanzitutto “il carattere orizzontale del mondo rende possibile l’orizzonte specifico dell’’in-dove’ dell’in-appartenenza della prossimità” (ivi, p. 442). La prossimità e, quindi, la spazialità esistenziale dell’abitare è garantita da un orizzonte e da un altro ancora: aiutandoci con la nozione di “sfera” di Sloterdijk, potremmo dire che assistiamo a un’inclusione di sfere concentriche o di intorni da intendere come spazi di addomesticamento (Sloterdijk, 2001a, p. 161) o, con Deleuze-Guattari, come spazi di territorializzazione. L’uomo addomestica l’ente utilizzabile grazie a una vicinanza che deriva dal sistema dei rimandi e dalla sua capacità disallontanante dovuta alla visione ambientale preveggente: ma questa prossimità rassicurante nei confronti del mezzo è a sua volta situata all’interno di un orizzonte ulteriore — il mondo — che è la totalità dei rimandi e la significatività grazie alla quale quell’ente stesso gli viene incontro come utilizzabile. Ora, “solo perché, in quanto temporalità, è aperto estaticamente-orizzontalmente nel suo essere, l’Esserci può effettivamente e costantemente far proprio uno spazio ordinato” (Heidegger, 1927, p. 442): il “qui” in quanto dimestichezza protettiva con gli utilizzabili è possibile soltanto grazie a un orizzonte ulteriore, cioè, paradossalmente, in virtù di un ulteriore in-dove. Per lumeggiare meglio questa condizione, dovremmo riprendere la nozione di Erschlossenheit, cioè quell’apertura costitutiva o, meglio, dischiudimento, laddove nell’espressione tedesca scelta da Heidegger risuona dominante lo schliessen, la chiusura. L’Esserci tende ad essere il suo Ci, cioè quella stratificazione estatico-orizzontale che egli contribuisce paradossalmente ad aprire, ma che, in quanto chiusura, non è completamente sotto la sua giurisdizione. Essere il proprio Ci significa comprendere il mondo e, quindi, “aprire” uno spazio che comunque fa già parte
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dello stesso Ci attraverso il poter-essere autentico: noi siamo già presso l’utilizzabile, ma questo può essere scoperto grazie al movimento estatico della temporalità che rende possibile un “uscire-fuori-da-sé”. Si tratta di una sorta di extimità, per dirla con Lacan, grazie alla quale il soggetto trova entro se stesso un “buco”, una mancanza che pure costituisce l’orizzonte della sua comprensione. Il mondo che l’Esserci porta “con-sé” e “in-sé” è anche ciò che si chiude e che sfugge al suo controllo: l’abisso interiore e l’orizzonte infinito e cosmico del mondo si sovrappongono in una paradossale prossimità che è anche chiusura: “il mondo prende forma come un insieme di evidenza e mascheramento. Esso non è la semplice somma di tutti i corpi o contenuti (‘tutto quello che si dà’), bensì è l’orizzonte degli orizzonti, nel quale ciò che è ora presente si separa da ciò che è ora nascosto” (ibidem). Dal punto di vista logico, Heidegger ci pone innanzi ad un paradosso, similare per molti aspetti ai paradossi dell’echologia. Se cerchiamo infatti di formalizzare simbolicamente quanto ci dice il § 70, avremmo all’incirca una situazione siffatta: S=S/~S S0~S Chiamiamo con S il soggetto: per Heidegger esso si profila come Dasein, cioè come quell’essere che ha da essere il proprio Ci. Il soggetto heideggeriano è dunque se stesso unito alla complessità del Ci che è l’apertura orizzontale nelle sue stratificazioni. In questo il mondo è un esistenziale, cioè rientra nella costituzione ontologica del soggetto, pur divergendo da esso: è essere-nel-mondo. D’altronde il Ci, in quanto orizzonte estatico-orizzontale o “apertura nel quale l’Esserci già-è ma anche l’apertura che ha da essere”, è necessariamente qualcosa che include e trascende l’Esserci. Il soggetto è incluso nel Ci che già-è e hada-essere. È l’unione di se stesso con il proprio altro e, nello stesso tempo, è “se stesso incluso nell’altro”; è contemporaneamente apertura e chiusura, senso e non senso, dove però il senso stesso deriva dall’unione logica di entrambi. Viene allora marcato un evidente paradosso che, tuttavia, per Heidegger dev’essere mantenuto poiché ontologicamente costitutivo: tuttavia l’articolazione dello spazio-tempo esistenziale come Sorge e, in particolare, la tendenza a voler mantenere una sorta di primato della temporalità sulla spazialità, enfatizzano di tale paradosso soprattutto la valenza negativa. Mentre Kant e Husserl alla fine giungono ad una sorta di auto-affezione, Heidegger si ferma qualche passo prima e mantiene un dualismo che in Essere e tempo viene connotato gerarchicamente: il voler mantenere lo Zeit-Raum in una relazione metafisicamente fondazionalistica costituisce forse lo
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scacco dell’intero progetto, mentre la tensione tra le due dimensioni fornisce quell’energia teoretica che porterà Heidegger alla cosiddetta “svolta” e agli esiti della conferenza Tempo e essere.
1.2.3 La Temporalität Nel § 5 di Essere e tempo Heidegger esplicita il piano dell’opera, accostando un po’ enigmaticamente due livelli di temporalità: “la temporalità (Zeitlichkeit) verrà chiarita come il senso dell’essere dell’ente che chiamiamo Esserci” (Heidegger, 1927, p. 35). Ma nello stesso tempo deve essere chiarito un orizzonte ulteriore, in base al quale è possibile una comprensione dell’essere in generale e, con questa, un’esplicitazione radicale del problema ontologico. “Il compito ontologico fondamentale — infatti — dell’interpretazione dell’essere come tale, include dunque l’elaborazione della temporalità (Temporalität) dell’essere” (ivi, pp. 36-37). È noto come Heidegger abbia abbandonato quest’iniziale progetto, limitandosi appena ad una parte delle sezioni previste dal piano dell’opera: ciò sia per le ristrettezze temporali nelle quali fu costretto a lavorare, dacché il lavoro gli era stato richiesto dal senato accademico dell’Università di Friburgo; sia per le evidenti difficoltà teoretiche nelle quali via via s’imbatteva. Nella Lettera sull’umanismo (1949) così scrive a Beaufret: “qui tutto si capovolge. La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica. (...) Questa svolta non è un cambiamento del punto di vista di Sein und Zeit, ma in essa il pensiero, che là (nella conferenza sull’Essenza della verità del 1930: n.d.a.) veniva tentato, raggiunge per la prima volta il luogo della dimensione a partire dalla quale era stata fatta l’esperienza di Sein und Zeit, come esperienza fondamentale dell’oblio dell’essere” (Heidegger, 1976b, p. 281). È Heidegger stesso, dunque, che parla di svolta. Ma, nella sua autointerpretazione — tesa probabilmente a smussare i punti di discontinuità e a marcare una certa coerenza in tutto il suo pensiero — egli ci dice delle cose interessanti, che Vattimo (1971) interpreta come la coesistenza di indirizzi differenti, ma contigui e costanti: la questione ontologico-esistenziale di Essere e tempo; la questione dell’oblio dell’essere e della storia della metafisica; la questione del linguaggio (“non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica”). Ora, complicando ed estremizzando un po’ questa tesi — lo anticipiamo per rendere chiaro il nostro percorso — non solo riteniamo che non si possa mai parlare di svolta se non in uno specifico modo in cui si arti-
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cola l’epoché dell’essere (Heidegger, 1962, p. 23), ma che ci sia un nesso unitario che conduce da Essere e tempo alla conferenza Tempo e essere, nesso complicato da approfondimenti e deviazioni tutte in parte dovute ad alcune lacune e ipostatizzazioni dell’opera del 1927. In merito alla questione della temporalità, infatti, abbiamo visto con Ricoeur l’impasse di Heidegger nel derivare la “storia” dalla Zeitlichkeit: la storia della metafisica connessa all’oblio dell’essere (che ne rappresenta l’aspetto deiettivo) sembra voler colmare questa deficienza, nella misura in cui, in quanto storia dell’essere tout court e non “storia derivata dalla Cura dell’Esserci”, sembra accedere al suo giusto dimensionamento intersoggettivo, ridefinendo un passato non più dipendente dalla “gettatezza” e dalla deiezione dell’Esserci nell’inautenticità del “Si” pubblico. In secondo luogo, la questione del linguaggio è già insita in Essere e tempo e non affronta tanto una difficoltà specifica nella descrizione dell’essere in generale, cioè nel passare da una parola del soggetto a una “parola dell’essere”, quanto una difficoltà immanente alla connotazione spaziale del nostro linguaggio (e potremmo anche dire metaforica [Rovatti, 1987]). Qui si potrebbe ravvisare sullo sfondo la presenza antagonista, mai troppo evidenziata, di Bergson: la sua figura di catalizzatore “negativo” pare sin troppo ricorrente in Essere e tempo, e mai criticamente tematizzata. “Ci esprimiamo necessariamente con le parole, e pensiamo per lo più nello spazio. In altri termini, il linguaggio esige che tra le nostre idee stabiliamo quelle stesse condizioni nette e precise, quella stessa discontinuità che stabiliamo tra gli oggetti materiali” (Bergson, 1889, p. 3). L’ossessione di Heidegger sembra quella di non dover contaminare il tempo con lo spazio, di non giungere alla semplicistica equazione “spazializzazione=metafisica”: il tempo ordinario, quello che si “misura” con l’orologio, non è un tempo spaziale, ma rimane a modo suo una forma temporale. “Al concetto ordinario di tempo sarà così restituito il suo buon diritto, contro la tesi di Bergson che il tempo sia inteso come spazio” (Heidegger, 1927, p. 35). Ora, l’attenzione heideggeriana nei confronti della storia o Geschick dell’essere (termine, quello di “destino”, già eloquentemente presente in Essere e tempo, sebbene incardinato sull’essere dell’Esserci) e la declinazione linguistica degli anni 50-60 con annessa una “topologia” dell’essere, rispondono a nostro avviso alla non-risoluzione dei rapporti tra spazio e tempo nel § 70. Questa non-risoluzione conduce alla “ripetizione” di quell’estratto di “Tempo ed essere” che ritroviamo nel corso marburghese del 1927, nonché alla successiva serie di ripetizioni
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che riprenderanno via via le problematiche rimaste aperte (Costruire, abitare, pensare, Tempo ed essere, L’abbandono, etc.). È proprio sulla Wiederholung inoltre che bisognerà riflettere in quanto metodica fenomenologica del circolo ermeneutico e “surrogato” dell’epoché husserliana: nell’eticità immanente in Essere e tempo sembra in effetti permanere la cicatrice di questa ablazione, come se — espunto l’elemento “allotrio” o ateoretico-soggettivo — qualcosa debba rientrare in forma occulta (il progetto, l’aver-da-essere, l’autentico. etc.). Ripetizione e vettore etico, dunque, come “marche” di un trauma che non cessa di dissimularsi attraverso veli metafisici. Riprendiamo dunque la nostra digressione da ciò che era rimasto inespresso in Essere e tempo. L’opera si concludeva infatti con una serie di interrogativi fondamentali: “il progetto estatico dell’essere in generale non potrà essere reso possibile che da una modalità originaria di temporalizzazione della temporalità estatica stessa. Come si deve interpretare questo modo di temporalizzazione della temporalità? C’è una via che conduca dal tempo originario al senso dell’essere? Il tempo si rivela forse come l’orizzonte dell’essere?” (ivi, p. 520). Risuona nuovamente in queste domande la nozione di “orizzonte”: essa diviene fondamentale nei Problemi fondamentali della fenomenologia, laddove ci si pone il problema della temporalità dell’essere in generale. Heidegger si interroga giustamente sulle modalità di passaggio da un livello di temporalità (quella dell’Esserci) all’altro, posto che “la Temporalità dell’essere è la temporalizzazione più originaria della temporalità come tale” (Heidegger, 1975, p. 290). E la via che viene seguita appare inversa rispetto a quella di Essere e tempo, poiché non si compie più una sorta di derivazione del tempo ordinario dopo aver sceverato la Zeitlichkeit originaria, bensì si parte proprio dalla nozione di intratemporalità per ascendere, per così dire, verso livelli più originari di temporalità. In tale prospettiva Heidegger parte dall’utilizzabilità, notando come l’”ora” della determinazione ordinaria del tempo non riesca a chiarirne il carattere ontologico. “Quando determiniamo l’utilizzabile come intratemporale, già presupponiamo la comprensione dell’utilizzabile in quanto tale, cioè la comprensione dell’utilizzabilità in quanto tale” (ivi, p. 293). L’utilizzabilità, come abbiamo visto, aveva prefigurato la struttura spaziale dell’Esserci o, più esattamente, la “prossimità” del Ci, una certa intimità con il mondo. L’ora che caratterizza la dimensione temporale della nostra quotidianità è incapace di rappresentare esaustivamente questa prossimità che ha un carattere originariamente ontologico. È invece indispensabile la nozione di presenza, che costituisce una delle estasi della temporalità: “abbiamo mostrato che ogni estasi della tem-
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poralità non è un mero esser-rapito-verso..., la cui direzione è, per così dire, il nulla, o risulta ancora indeterminata. Piuttosto, a ogni estasi in quanto tale appartiene un orizzonte che è da essa determinato e che primariamente ne completa la struttura” (ibidem). L’estasi è un uscirfuori, una sorta di estroflessione che delinea un orizzonte: l’Esserci incontra l’utilizzabile grazie al suo carattere progettante, cioè grazie a un movimento di trascendimento che abbisogna di un verso-dove dell’estasi, “l’orizzonte o, meglio, lo schema orizzontale dell’estasi” (ivi, p. 289). La presenza è la condizione di possibilità in virtù della quale l’ente semplicemente-presente in quanto mezzo-per può essere compreso e incontrato in-vista-di un eventuale appagamento. A questo livello Heidegger sembra sovrapporre parzialmente i piani: il presente estatico caratterizza l’essere-presso dell’Esserci in Essere e tempo, ma questo essere-presso è reso possibile soltanto in seguito ad un ulteriore orizzonte che connota l’essenza trascendente dell’essere stesso; l’Esserci ha-da-essere il proprio Ci, la propria apertura, poiché l’essere stesso si caratterizza come spazio di trascendimento che “rapisce-verso” e che rende possibile il trascendimento medesimo. Rispetto a Essere e tempo, dunque, entra in gioco in modo capillare un concetto di trascendenza che diviene decisivo nella delucidazione del senso dell’essere in generale (ivi, p. 282): l’Esserci si profila come la via privilegiata in questa comprensione, poiché a differenza della cosa in generale (ivi, p. 286) che non trascende mai, egli è invece “ciò il cui modo d’essere deve risultar determinato proprio da questo andare oltre” (ibidem) e le strutture dell’aver-da-essere e del progetto (che fondano per certi aspetti l’originarietà dell’ad-venire) vengono così riassunte nella nozione ancora metafisica di trascendenza: “la trascendenza dell’essere-nelmondo si fonda, nella sua totalità specifica, sull’unità estatico-orizzontale della temporalità. Se la comprensione dell’essere è resa possibile dalla trascendenza, e se la trascendenza si fonda sulla struttura estatico-orizzontale della temporalità, allora quest’ultima costituisce la condizione di possibilità della comprensione dell’essere” (ivi, p. 289). Heidegger ripercorre suo malgrado la via kantiana: introduce uno schematismo, si avvale comunque di una spazializzazione ed esemplifica i complessi passaggi che conducono dallo schematismo alla categorie soffermandosi in maniera privilegiata sul “presente” (la permanenza della “sostanza”). La presenza in quanto prefigurazione schematica del laddove non si confonde con il presente ma è la condizione di possibilità della presentificazione dell’essente-presente come tale (ivi, p. 294); “lo stesso vale per le altre due estasi, l’avvenire e l’esserestato” (ibidem). La Zeitlichkeit in quanto unità estatica è possibile sol-
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tanto grazie ad un ulteriore schematismo orizzontale che “apre” lo spazio per la trascendenza comprendente: “la Temporalität, nella sua unità estatico-orizzontale, è la condizione fondamentale della possibilità dello epékeina, cioè di quella trascendenza che costituisce l’Esserci stesso. La temporalità è in sé la condizione fondamentale della possibilità di ogni comprendere fondato sulla trascendenza, la struttura essenziale del quale risiede nel progettare” (ivi, pp. 294-295). Heidegger sembra qui propendere per un pregiudizio teoreticista: il Ci dell’Esserci, ovvero la Cura come “avanti-a-sé (esser-già-in-unmondo) come esser-presso l’ente intramondano” (Heidegger, 1927, p. 271) perde i connotati della gettatezza e della deiezione per essere fondata dalla trascendenza della comprensione. Ma se la Temporalità originaria costituisce l’orizzonte del nostro comprendere, come comprendere la Temporalità stessa? Non si rischia forse un regressus ad infinitum, che ci porterebbe da un livello più originario all’altro e ad un altro ancora? L’escamotage heideggeriano rivela ancor di più la matrice kantiana di questa sezione dell’analisi heideggeriana; infatti, “noi possiamo affermare: la temporalità è in sé l’autoprogetto originario, così che, dovunque e comunque vi sia comprensione — prescindendo qui dagli altri momenti dell’Esserci — essa è possibile solamente nell’autoprogetto della temporalità” (Heidegger, 1975, p. 295). Mentre nell’articolazione della Zeitlichkeit, emergeva un dualismo che distingueva questa prospettiva dal tempo kantiano e dal flusso assoluto di Husserl, nella Temporalität Heidegger sembra cedere sul fondazionalismo così da addivenire ad una soluzione tipicamente metafisica. Il pro-gettare, il “fuori-verso” “rispetto-a-che” s’incastella in una sequenza di progetti che tuttavia deve chiudersi in un’autoreferenzialità: “la successione sopra menzionata di progetti per così dire predisposti l’uno all’altro — comprensione dell’ente, progetto rispetto all’essere, comprensione dell’essere, progetto rispetto al tempo — ha la sua fine nell’orizzonte dell’unità estatica della temporalità” (ibidem). Questa struttura si trova alla base sia dell’intenzionalità husserliana, sia della differenza ontologica, ossia dell’originario divergere di essere ed ente. I Problemi fondamentali della fenomenologia prendono infatti le mosse proprio da una critica alla nozione di intenzionalità: essa risulta insufficiente, senza un approfondimento di quella dimensione ontologica che invece Husserl ha espunto con la Verklämmerung. “All’intenzionalità della percezione appartengono non soltanto l’intentio e l’intentum, ma anche la comprensione del modo d’essere di ciò che è intenzionato nell’intentum. (...) La possibilità di scoprire, cioè di percepire il sussisten-
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te, presuppone l’essere-aperto della sussistenza. (...) Dobbiamo ora riuscire ad esibire con maggiore precisione il nesso che lega l’esser-scoperto dell’ente e l’apertura del suo essere” (ivi, pp. 66-67). Heidegger sembra traslare la problematica fenomenologica riguardante la genesi del fenomeno (noesis, noema, sintesi passive) per indirizzarsi kantianamente verso le condizioni di possibilità per le quali un Erlebnis in quanto tale è “intenzionale”, cioè si caratterizza per un movimento di progetto e oltrepassamento, cioè per un’articolazione di un “rispetto-a” e un “verso-dove”. In altre parole, ciò che per Husserl è presupposto, per Heidegger diviene un problema, sebbene la dinamica “orizzontale” svolga nella fenomenologia un ruolo quasi analogo a quello svolto nell’analitica esistenziale: Husserl e Heidegger, in sostanza, si troverebbero “accoppiati” loro malgrado nella ricerca di un “senso” della corrente degli Erlebnisse o del Dasein attraverso più livelli di orizzonte che non sono senza rapporti con la dimensione temporale e che palesano una strana famigliarità con lo spazio. Detto altrimenti, entrambi giungono a loro modo — Husserl con l’epoché, Heidegger con l’autenticità dell’ad-venire e del progetto comprendente dell’Esserci — a un’idea di eticità che si camuffa con le vesti della “trascendenza” e che mette assieme problematicamente istanze perlopiù metafisiche con dimensioni assolutamente debordanti e che non sono prive di rapporto con la spazio-temporalità.
1.2.4 L’orizzontalità Per Sloterdijk a Heidegger mancherebbe un dimensionamento del pensiero di tipo orizzontale (Sloterdijk, 2001a, p. 41): in altre parole, pur mettendo in gioco una filosofia della “motilità” dell’Esserci, egli si limiterebbe a un raccogliersi nella profondità. E in effetti la continua ricerca in Essere e tempo di livelli di senso sempre più originari, situati nell’ascoso profondo del Ci dell’Esserci, sembrerebbe d’acchito dar ragione a quest’ipotesi ermeneutica. Gli indizi tuttavia che abbiamo sin qui seguìto nei Grundprobleme ci direzionano verso una prospettiva un po’ più complessa, che tiene semmai conto di un’intrinseco processo di spazializzazione all’interno del pensiero di Heidegger sin dagli anni Venti. Con questa tesi Sloterdijk pure concorderebbe — come vedremo — anche se alla luce di un’impostazione sostanzialmente divergente. L’analisi del senso dell’essere in generale in quanto Temporalität ha evidenziato come il § 70 di Essere e tempo non possa essere in alcun modo corroborato, ma anzi subisca continue erosioni linguistiche e contaminazioni. Non possiamo parlare del tempo se non attraverso
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una spazializzazione metaforica: ciò non significa soltanto un’impotenza del nostro linguaggio, ma la preliminarità — se non proprio originarietà — di una dimensione del tempo di tipo deietto e intramondano. Se, dunque, ci sforziamo in qualche maniera di distinguere lo spazio dal tempo per addivenire successivamente ad una reciproca derivazione (la “presupposizione” dello spazio in Aristotele o quella temporale in Heidegger), ci troveremo sempre innanzi a un diallele insuperabile che decostruirà ogni nostra posizione. L’aporetica messa in luce da Ricoeur trova in questo modo una nuova veste che forse la rende più evidente: la schisi tra tempo cosmico e tempo dell’anima deriva a sua volta dalla schisi ancora più originaria e tutta da riflettere tra spazio e tempo. La “svolta” heideggeriana si situerebbe lungo questo crinale appena delineato: l’insufficienza linguistica nella trattazione della temporalità dell’essere non implica soltanto un mutamento radicale nel registro linguistico, ma anche una ridefinizione complessiva della tematica spazio-temporale. In questo senso, non abbiamo alcuna Kehre ma un coerente decorso di pensiero che approfondirebbe le tematiche iniziali di Essere e tempo. L’indice di questo indirizzo del pensiero heideggeriano si ritrova dapprima nella funzione imprescindibile della nozione di orizzonte nell’ambito di un’analisi della temporalità, successivamente nello schiarirsi di questa medesima nozione nel senso di una “topologia” dell’essere. Zeitlichkeit e Temporalität sono state definite secondo le due polarità dell’estaticità e dell’orizzontalità: il tempo, in quanto condizione di possibilità della comprensione dell’essere e, quindi, “senso” dell’Esserci e dell’essere in generale, si caratterizza come movimento di trascendenza e oltrepassamento, e come dispiegarsi di una sorta di spatium trascendentale “verso-dove” tale movimento si direziona. Sia l’intenzionalità husserliana che l’apriori kantiano manifestano questa struttura temporale-orizzontale, sicché sembra proprio la prospettiva trascendentale a traghettare lentamente Heidegger dalle pastoie fondazionalistiche di Essere e tempo alle elaborazioni filosofiche successive. In quest’ottica uno dei passaggi più significativi è rappresentato da un “dialogo” scritto a Messkirch nel 1945 inserito nel volume 77 della Gesamtausgabe: ’1)2'3!4'$#. Un colloquio a tre voci su un sentiero di campagna fra uno scienziato, un erudito e un saggio. Per Heidegger l’orizzontale diviene l’essenza del pensiero dell’uomo: la definizione aristotelica dell’homo animal rationale significa che l’uomo comprende in riferimento all’orizzonte: “pensare, propriamente, altro non è che il pre-disporre e il dis-porre di quell’orizzonte, di quel campo visi-
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vo, all’interno del quale l’aspetto e l’essenza degli oggetti — ciò che Platone chiama l’idea delle cose — viene allo sguardo” (Heidegger, 1995, p. 79). Si parte, dunque, da un livello fenomenologico nel quale l’orizzonte costituisce lo “sfondo” percettivo, per poi allargare la prospettiva ad un’orizzontalità più ampia, cioè a “un orizzonte, che deve abbracciare l’essenza dell’orizzontale” (ivi, p. 80). Questo passaggio in più ci conduce quasi d’emblée nell’ambito del trascendentale kantiano, laddove viene delineato il carattere generale dell’oltrepassamento che caratterizza ogni comprensione: non quindi la sola percezione visiva, ma ogni forma di relazionamento agli oggetti e al mondo configura un orizzonte, un “verso-dove” che tuttavia Heidegger non vuole determinare spazialmente. Piuttosto, esso ha a che fare con l’immaginazione trascendentale kantiana, non tanto “creatrice” di schemi trascendentali, quanto di “orizzonti”: il carattere schematico che abbiamo scoperto nella delineazione della Temporalität sembra appena svolgere una funzione di “limite”, di chiusura (ivi, p. 87), dacché un orizzonte illimitato non avrebbe senso. La finitudine rimane per Heidegger il meccanismo attraverso il quale sono possibili la trascendenza e l’apertura: paradossalmente (ma vedremo come tale paradosso funzioni nell’ambito della logica) la temporalità orizzontale diviene una sorta di “serratura”, un’occlusione nell’ambito dell’infinità dello spazio. L’etimologia del termine “orizzonte”, in effetti, testimonia di questa natura ancipite: il greco, (,(s significa infatti “confine”, “limite” e si rifà alla radice ar- che indica però un moto, uno spingersi o un muoversi. Sempre dalla medesima radice derivano il latino orior, “sorgere”, “nascere” e l’italiano oriente, il “luogo donde sorge il sole”; ma per taluni autori anche il prefisso tedesco Ur, ossia l’indice di qualcosa di originario e fondamentale. L’orizzonte insomma indica sia il movimento che il limite del movimento stesso e, contemporaneamente, segnala il proprio statuto originario o, kantianamente, la sua essenza apriorica. Il trascendentale in quanto orizzonte replica attraverso un altro registro quella che era la struttura ontologica dell’Esserci, cioè il carattere progettante imperniato originariamente sull’essere-per-la-fine, sulla possibilità dell’impossibilità della morte e sull’angoscia che necessariamente ne deriva: l’orizzonte significa allo stesso tempo uno stato ontologico originario che è “apertura”, Erschlossenheit, un limite essenziale, un sorgere (donde le note analisi heideggeriane sulla 564's), ma anche un movimento, una motilità. L’Horizont o Urhorizont (che pare un rafforzativo dell’originarietà già immanente nell’orizzonte stesso) ripropone dunque in una eccezionale condensazione la domanda ontologica fondamentale: non costituisce
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una nozione accessoria e laterale di cui Heidegger si è avvalso — metaforicamente — per descrivere la temporalità originaria, ma rappresenta uno dei Kern della sua riflessione posteriore al 1927. “Nella misura in cui l’uomo, come animal rationale, è l’essere trascendental-orizzontale, con la domanda sull’essenza dell’orizzonte noi stiamo discutendo l’essenza dell’uomo, e il modo e la provenienza di una tale determinazione essenziale” (ivi, p. 90). La tonalità che fa divergere questo dialogo da Essere e tempo risiede nel tentativo heideggeriano di scansare a qualsiasi costo la tentazione fondazionalistica e il ricorso a concetti autoreferenziali come l’auto-progetto della temporalità originaria. Non si può procedere da un orizzonte all’altro, all’infinito, ma bisogna in qualche modo permanere in una certa disposizione che riesca a coniugare in sé una certa passività con l’essenziale propensione dell’uomo all’oltrepassamento. L’espressione che utilizza in questo contesto Heidegger è Gelassenheit (ivi, p. 93), che non è propriamente un’attività, ma nemmeno un’assoluta remissione. L’essenza del pensare in quanto “restare in attesa” nell’aperto di un orizzonte è l’abbandono, grazie al quale l’orizzontale e il trascendentale in se stessi sono possibili. Nella misura in cui cerchiamo di rappresentare l’orizzonte, tracciandone i confini, individuandone la natura per così dire “fisica”, ci ritroviamo nell’abisso dell’insensatezza di un limite che si sposta in continuazione, che è sempre un passo in là. Se allora l’essenza dell’uomo è trascendental-orizzontale (in quanto finitezza oltrepassante), ciò è possibile soltanto in quanto abbandono, in quanto “lasciar-essere restando in attesa”. Ora, il passo successivo che compie Heidegger ci appare molto significativo, poiché — come vedremo — costituisce una sorta di vettore topologico che ritroveremo diffuso nei Saggi e discorsi e nella conferenza Tempo e essere: il termine “orizzonte” inizia ad evidenziare una certa debolezza, non ultima una cifra metafisica che ha a che fare con la spazializzazione bergsoniana. Esso è troppo legato al registro visivo e per certi aspetti alla fenomenologia husserliana; inoltre, appare “povero”, privo di quelle risonanze “boschive” che Heidegger sta ricercando in quegli anni. Infatti se l’analitica dell’Esserci è stata soprattutto un’analisi dell’in-essere e, quindi, dell’abitare (innan), si profila la necessità di un arricchimento terminologico (e fenomenologico) che renda conto di un rapporto molto più complesso con la “terra”. L’abbandono diviene così un relazionarsi dell’uomo con un orizzonte che è originariamente Gegend, contrada: “stando alla parola, la contrada sarebbe ciò che ci viene incontro; ma anche dell’orizzonte abbiamo detto che l’aspetto degli oggetti ci viene incontro a partire da quella visuale che l’orizzonte circoscrive. Se ora concepiamo l’orizzonte movendo dalla contrada,
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assumiamo la contrada stessa come ciò che ci viene incontro” (ivi, p. 98). Questo “venir-incontro” però appare ancora insufficiente, poiché presuppone sempre un soggetto: l’aperto della contrada, invece, non èper-noi, non è l’orizzonte fenomenologico che necessita di un soggetto della visione. Esso “è la vastità che fa permanere, è ciò che, tutto riunendo, si apre, cosicché in essa l’aperto è tenuto e mantenuto per lasciare dischiudere ogni cosa nel suo trovar quiete” (ivi, p. 99). Per queste ragioni Heidegger utilizza un neologismo, contrata (Gegnet) che enfatizza la “libera vastità”: pensare in essa significa un “giungere-nellaprossimità” restando in attesa (ivi, p. 102), un movimento che è anche “quiete” (ivi, p. 103). Rispetto alla Contrata, dunque, “l’abbandono allora sarebbe non solamente la via (Weg), ma anche il movimento (Bewegung)” (ivi, p. 104), un movimento non disposto dal soggetto, ma regolato dalla Contrata stessa. Abbandonarsi al libero spazio della Gegnet non significa mettere in gioco una sorta di epoché intesa come atto metodico di neutralizzazione delle conoscenze mondane, poiché è la Contrata che “abbandona” paradossalmente il soggetto, lasciandolo nell’abbandono stesso. La differenza tra Husserl e Heidegger emerge qui in tutta la sua rilevanza ed evidenzia la torsione subìta dal circolo ermeneutico di Essere e tempo: se in quest’ultimo caso esso restava legato necessariamente alla dimensione dell’Esserci in quando ineludibile comprensione pre-ontologica, nell’elaborazione successiva subisce una traslazione e diviene un elemento strutturale dell’essere stesso.
1.2.5 Costruire, abitare, pensare L’orizzonte diviene dunque il filo rosso che ci condurrebbe da un “primo” Heidegger a un “secondo” Heidegger. Nel dialogo ’1)2'3!4'$# assistiamo al punto di sutura in cui la vecchia terminologia viene sostituita da quella metaforica che costituirà la sua nuova cifra stilistica. Questo passaggio però rimane a nostro avviso sintomatico, poiché vengono accentuate, anziché smussate, le istanze topologiche presenti sin dalle prime pagine di Essere e tempo. L’orizzonte costituiva certamente un’ipostasi spaziale, ma la declinazione verso una metaforica per così dire idillico-camprestre non fa che accentuare la necessità teoretica di un approfondimento di quella che è la dimensione ctonia dell’esistenza umana (Sloterdijk, 2001b, p. 85). D’altronde, se l’Esserci era caratterizzato come “essere-nel-mondo”, tutto sommato la caratterizzazione della mondità come sistema della significatività e dell’utilizzabilità pareva indubbiamente deficitaria di molti aspetti. Il mondo in quanto tale non può venir incontrato esclusivamente in un rapporto
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strumentale, ma è anche “contrada” o, altrove, Lichtung, gioco di luci ed ombre non soltanto metaforico. Se allora dobbiamo ragionare in termini di originarietà del tempo, osserviamo come questa non possa essere “tenuta” senza una qualche contaminazione con lo spazio, contaminazione ad ampio raggio, per giunta, dacché concerne sia un deciso viraggio tropico e linguistico, sia una variazione per così dire contenutistica. Non si tratta inoltre di un semplice “travestimento”, come se Heidegger tentasse di dire lo stesso (das Selbe) con altre parole, bensì di una vera e propria torsione che segue dappresso l’analisi dello spazio-tempo: di fatto il trascendentale kantiano diviene Gegend e Lichtung, cioè “la libera vastità della contrada che lascia essere in quiete gli oggetti nella loro essenza e li approssima nascondendoli”, in un gioco di riverbero tra luce ed ascosità che caratterizza per Heidegger l’essenza della verità, l’!"#$%&'!. Tale operazione potrebbe apparire una mistificazione di tipo esoterico, cioè l’occultamento di un’impasse attraverso una complessificazione del linguaggio e l’utilizzo di registri lessicali noti a pochi adepti: di fatto, costituisce l’esito incontrovertibile di una filosofia dello spaziotempo radicalizzata sino alle sue estreme conseguenze. Significativamente, per Sloderdijk il pensiero heideggeriano è innanzitutto un pensiero dello spazio o, meglio, di un particolare modo della motilità: ciò che lo assilla sin da Essere e tempo è l’idea di un Esserci pro-gettante che si muove e che è flusso continuo, teso tra un essentestato e un aver-da-essere. “Dasein significa essere tenuto immerso nel sopravvenire del movimento” (Sloterdijk, 2001a, p. 20). Se rileggiamo alcune delle figure principali del suo pensiero, infatti, notiamo quest’accentuazione cinetica, anche se spesso incardinata in movimenti e contromovimenti: l’abbandono stesso inteso come Bewegung che permane e attende, il Geviert come Ring, giro o danza, l’Erörterung come “collocazione” lungo il cammino, l’Holzweg come pensiero. In questo senso, l’orizzontalità presente nel primo Heidegger riscontra una precisa necessità teoretica in quanto struttura trascendentale essenziale a ogni possibilità di movimento: comprendiamo che “l’orizzontale possiede un potere raccogliente e che i legami, compresi in tal modo, sono strutture di orizzonte, nella misura in cui le esperienze costruiscono reti, serie, vicinanze” (ivi, p. 30). Il tempo, dunque, diviene qualcosa di “addomesticabile” proprio in questa funzione di tessitura: eppure esso implica qualcosa di sgomentoso, è il novum che irrompe nell’irenica esistenza dell’Esserci e che lo spiazza in modo irrisolvibile. La metafisica costituisce una forma di difesa contro questo Fuori irrompente: essa chiude, fissa, stabilizza: “difatti la metafisica (così come prima di
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lei il mito, al quale rimane funzionalmente prossima, nonostante tutte le sue repulsioni), voleva limitare il rischio connesso all’apertura del mondo attraverso un nuovo mezzo: riducendo cioè le molteplicità fluttuanti alla cosiddetta essenza” (ivi, p. 162). Il tentativo “difensivo” di Heidegger è differente e si dipana nell’ambito del linguaggio: esso “avvicina l’estraneo” mantenendolo tale, conserva il carattere estatico dell’Esserci nel suo proiettarsi nell’aperto, ma riduce questa medesima estasi in un’en-tasi, in un raccogliersi intensificato, in un abitare che diviene profondo, intimo (ivi, p. 165). L’abitare autentico che dispiega l’essenza dello spazio non può divenire l’abitudine difensiva della metafisica che crede di preservarsi ritualizzando l’estraneo: questo abitare è anche un movimento, cioè una continua es-posizione al rischio. Per queste ragioni, il pensiero heideggeriano è secondo Sloterdijk essenzialmente topologico: tuttavia il tema dell’orizzontalità — pure dominante, come abbiamo visto, almeno sino agli anni Quaranta — perde la sua centralità, non tanto per ragioni stilistiche o lessicali, quanto per l’affiorare di una certa determinazione dello spazio. Heidegger non coglie la dimensione dell’orizzonte sino in fondo poiché egli non è un pensatore della città: le varie declinazioni semantiche del suo da “sono silhouette di villaggio e stradine di piccole città, pascoli, boschi, colline e cappelle, aule, corridoi di scuola, dorsi di libri, stendardi di celebrazioni, e campane serali” (ivi, p. 37). La città invece implica ramificazioni, espansioni spaziali (la conquista delle Americhe, ad esempio), intrecci, esodi ed emigrazioni: tutto ciò per Heidegger implica uno statuto deietto, una “caduta” nell’orizzontale (ibidem). L’autentico modo del movimento estatico, il vero oltrepassamento nell’aperto corrisponde a una paradossale staticità, a un rimanere in attesa abitando la propria terra. “Fino alla fine si limita a interpretare l’ethos di un Dasein affetto dal movimento come ‘soggiorno’ in un dato luogo del mondo” (ivi, pp. 40-41). La topologia heideggeriana è dunque una topologia della contrada o dell’abitare inteso come raccogliersi: la strategia difensiva nei confronti dell’irrompere dell’evento non è né l’irrigidimento metafisico che chiude i confini del proprio villaggio erigendo palizzate e fossati; né l’empito folle e anarchico di chi vi si getta contro o di chi fugge avventurandosi per mari e terre sconosciute. Si tratta altresì di un lasciaressere abbandonante che resta in attesa, di un fiero raccogliersi in sé che attende l’hospes ostile, dell’imperturbabilità di chi sa di partecipare comunque — anche nell’eventuale esproprio — all’evento dell’essere. In Essere e tempo l’Angst fondava (in quanto angoscia innanzi al non-senso della morte) la dimensione originaria della temporalità e,
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attraverso di essa, anche la logica e la metafisica scientifica in quanto forme inautentiche e dispersive: era un movimento di “introiezione” e di assunzione di responsabilità innanzi al baratro della morte di cui l’Esserci doveva (per vivere autenticamente) farsi carico. È l’Heidegger nazista, molto di più dell’Heidegger del discorso di Rettorato del 1933: le idee di pro-getto, di un aver-da-essere connotato eticamente, di una storicità immanente in ogni gesto dell’Esserci come se fosse chiamato a un compito epocale affidatogli dall’essere stesso, ecco le vere istanze fasciste serpeggianti nel suo pensiero in quegli anni. Successivamente, come nota Sloterdijk, il registro difensivo cambia radicalmente e diviene un passivo prepararsi agli eventi attraverso un rischio che è sempre un raccogliersi in sé: la storia non la fa più l’Esserci, ma è l’essere in quanto Ereignis che “detta i tempi” e che suo malgrado tende sempre ad es-propriarlo; e l’autenticità non è più questione della voce della coscienza e del conseguente attivismo del soggetto, quanto un certo qual rapporto con il reale (utilizzando un termine lacaniano), cioè con la Quadratura irriducibile di mortali, divini, cielo e terra. Il tema dell’abitare assume quindi un ruolo determinante in questa demarché poiché catalizza lo spostamento prospettico da Essere e tempo alla conferenza, ad esempio, Costruire, abitare, pensare tenuta a Darmstadt nel 1951 nell’ambito di un colloquio su “Uomo e spazio”. Rispetto alla lettura di Sloterdijk, tuttavia, dobbiamo notare che, sebbene sia stata utile per il prosieguo della nostra argomentazione, essa palesa cionondimeno alcune debolezze metodologiche dal punto di vista ermeneutico: la strategia messa in atto ruota infatti intorno a un presupposto indimostrabile e indimostrato, ossia che il contesto fisicoambientale in cui vive ed è vissuto un filosofo, ne condizioni irrimediabilmente linguaggio, filosofemi, prospettive. Dal nostro punto di vista, invece, dobbiamo operare una distinzione assimilabile a quella tra processo primario e processo secondario nell’ambito del lavoro onirico così come enucleato da Freud nell’Interpretazione dei sogni: il milieu sociale, ambientale, culturale in cui è vissuto un autore può spiegare forse qualcosa della sua biografia, ma ben poco ci dice circa il suo pensiero filosofico, se non nella forma di un determinato “materiale onirico” atto a riempire certi contenuti profondi preesistenti. I processi inconsci sono tutt’al più oggetto di un’analisi di tipo normotipico, la quale analisi tende a vagliare quei grandi orizzonti di senso nei quali siamo immersi e i piani di referenza (normotipie) “rispetto-a-cui” pensiamo, valutiamo, parliamo. Ora, la conferenza Costruire, abitare, pensare viene chiamata eloquentemente in gioco da Heidegger nel 1962 per dimostrare l’inderi-
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vabilità dello spazio dal tempo: l’uomo non si caratterizza più come oltrepassante e comprendente, ma sembra assumere un profilo più statico e sedentario. Egli essenzialmente abita e non si pro-getta: o meglio, si pro-getta come aver-da-essere soltanto alla luce del suo abitare originario. E se il pro-getto diviene secondario, anche l’analisi della mondità effettuata in Essere e tempo si svuota, assumendo un ruolo satellitare: cambiano lessico e dimensioni, mentre viene tematizzato più radicalmente l’in-essere, intensificando proprio il senso del prefisso in. Che cosa significa “in”? Che orizzonte dispiega questa piccola preposizione, così innocua e poco influente, ma soltanto in apparenza? Heidegger, però, inizia la sua riflessione sul wohnen esaminando l’essenza del costruire, bauen. “Costruire significa originariamente abitare. Là dove la parola abitare parla ancora in modo originario, essa dice anche fin dove arriva l’essenza dell’abitare. Bauen (costruire), buan, bhu, beo sono infatti la stessa parola che il nostro bin (sono) nelle sue varie forme: ich bin (io sono), du bist (tu sei), la forma imperativa bis, sii” (Heidegger, 1954, p. 97). L’essere dell’Esserci come inessere è dunque primariamente un abitare, attraverso quella particolare mediazione che è la costruzione. “Esser uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare” (ibidem), ma bauen significa anche “coltivare” e corrisponde al latino colere, ossia l’abitare in cui l’uomo “è” sulla terra costituisce sia un edificare delle costruzioni, sia un coltivare che implica protezione e custodia (ivi, p. 98). Emerge e ridonda l’elemento “ctonio”: l’uomo, o, meglio, il mortale, colui che è destinato a morire o che è ossessionato dall’Angst, dall’angoscia per la nullità della propria esistenza in quanto fondata sulla possibilità dell’impossibilità, non ek-siste primariamente in quanto essente, alla stregua di un ente semplicemente-presente, ma ek-siste in quanto abita e, abitando, edifica coltivando e proteggendo la terra. Nel Saggio sull’origine dell’opera d’arte, Heidegger aveva introdotto un elemento ulteriore — il “Mondo” — che, in quanto tale, costituiva l’essenza dell’opera in una contrapposizione caratterizzata dal Riss, dal tratto differenziale o “lotta” che separa il cielo dalla terra (Heidegger, 1950, p. 48). Mortali, cielo e terra sono i Tre convocati dall’abitare, ma sono anche i titoli di un addomesticamento, di un “approssimare” ciò che sfugge e inquieta: “il cielo è il cammino arcuato del sole, il vario apparire della luna nelle sue diverse fasi, il luminoso corso delle stelle, le stagioni dell’anno e il loro volgere, la luce e il declino del giorno, il buio e il chiarore della notte, la clemenza e l’inclemenza del tempo, l’addensarsi delle nuvole e l’azzurra profondità dell’etere” (Heidegger,
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1954, p. 99). Rimane più oscuro l’elemento sacro — i divini — che si manifestano talora nella loro potenza o si nascondono: la loro essenza è infatti il celarsi, la "#$%# intesa come un ritrarsi raccogliente, un potersi dispiegare completamente. L’insieme di queste dimensioni, che tuttavia devono esser comprese unitariamente, costituisce il Geviert, la Quadratura, cosicché “i mortali sono nella Quadratura in quanto abitano. Ma il tratto fondamentale dell’abitare è l’aver cura. I mortali abitano nel modo dell’aver cura della Quadratura nella sua essenza. (...) Il soggiornare presso le cose non si aggiunge però, come una quinta modalità, ai quattro modi menzionati dell’aver cura; anzi, il soggiornare presso le cose è l’unico modo in cui di volta in volta si compie unitariamete il quadruplice soggiornare nella Quadratura” (ivi, pp. 100-101). Il viraggio rispetto Essere e tempo non è solo terminologico: l’avercura non è più una Sorge, ma uno schonen; l’Angst dell’Esserci non è più l’aprimento dell’orizzonte di senso dell’essere, ma è appena uno degli elementi in gioco; l’’&+4.!.'+($* non è temporale, ma legato ad una dimensione ctonia, cosmico-celeste e mitico-divina. Se dovessimo riprendere l’impostazione ricoeuriana che abbiamo utilizzato quale viatico per la nostra analisi, potremmo dire che Heidegger cerca di superare l’aporetica della Zeitlichkeit attraverso l’ingredienza di quei fattori cosmici che invece erano derivati dall’intratemporalità. In qualche maniera la situazione si capovolge e, paradossalmente, il tempo cosmico e lo spazio ctonio, anziché derivati, divengono gli apriori trascendentali e orizzontali di una comprensione che non è più mero oltrepassamento progettante del soggetto. E, in questo rivolgimento teso perlopiù a suturare l’impasse di Essere e tempo, assistiamo a un ricentramento della tematica topologica con un riverbero semantico sempre più presente. L’orizzonte lascia così il passo prima alla contrada (Gegend) e successivamente al Geviert, a una figurazione comunque di tipo geometrico: il residuo del trascendentalismo kantiano permane nella misura in cui la Quadratura sembra riproporre un certo tipo di schematismo, ma tale trascendentalismo pare ricomporsi con quell’istanza fenomenologica che il criticismo aveva di fatto espunto. Se Husserl voleva arrivare là dove Kant era partito, Heidegger tenta una ricomposizione radicale e mostrare come l’apriori sia in fondo fenomenologico, sebbene non aposteriori. Anticipando le nostre riflessioni, infatti, il Geviert ricalca la struttura del reale lacaniano e declina nelle sue sfaccettature quello che potremmo chiamare genericamente non-senso: il cielo con il moto celeste che da sempre ha sovrastato l’uomo nella sua regolarità e puntualità; l’onnipervasività della Terra e il ruolo di maternità che incarna, riportandoci a un livello istintuale e
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pre-razionale; l’insensatezza del morire e l’abisso che noi stessi siamo (l’agalma di Lacan); l’impossibilità del reale in quanto .6$2#, evento sempre mancato e impossibile, al di là delle capacità di un linguaggio di rappresentarlo e di renderne ragione. Potremmo dire che tale apriori è sin troppo apriori da essere aposteriori, è una Geworfenheit che nello stesso rimane inconscia ed è sempre al di là della nostra comprensione. Lo spazio veniva definito nel § 70 di Essere e tempo come uno sgombrare, un fare-spazio: alla luce della nuova determinazione dell’aperto in cui il soggetto si muove, Heidegger compie uno spostamento significativo che polarizza l’attenzione sulla “cosa”, das Ding. Nella conferenza Costruire, abitare, pensare la cosa è il “ponte” che, nella sua funzione di raccordare due regioni limitrofe divise dal fiume, richiama gli orizzonti del Geviert e, in tal modo, fa spazio; nell’omonima conferenza Das Ding del 1950, sempre raccolta in Saggi e discorsi, la cosa è la “brocca” che versando il vino, prodotto della terra e del cielo, convoca gli dei nell’ambito rituale della “libagione sacrificale”. Ora, “solo ciò che è esso stesso un luogo (Ort) può accordare un posto” (ivi, p. 102). Il termine tedesco Ort significava anticamente “un posto reso libero per un insediamento di coloni o per un accampamento” (ivi, p. 103), ma soltanto in quanto de-limitato da confini, da un (,(s: in altre parole, l’Ort istituisce un orizzonte ed è legato a una Cosa. Lo spazio deriva dai luoghi e dalle Cose e, in essi, si raccordano i Quattro. “Il rapporto dell’uomo ai luoghi e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede nell’abitare. La relazione di uomo e spazio non è null’altro che l’abitare pensato nella sua essenza” (ivi, p. 105). Il luogo costituisce in questo senso la dimora della Quadratura; e il costruire è quell’erigere luoghi che la custodiscono e la preservano. La casa o il ricetto (Hut) che circoscrive un luogo, che “chiude” istituendo dei limiti, delimita-aprendo e raccoglie in sé qualcosa del reale. Ritorna la Stimmung evidenziata da Sloterdijk e la valenza sferologica del pensiero heideggeriano: la casa protegge, crea un luogo occluso che “territorializza”, anche se per salvaguardare la propria incolumità deve aprirsi comunque al Fuori, deve accordare uno spazio alle istanze del non-senso: cielo, terra, divini, mortali. “Che i mortali sono vuol dire che, abitando, abbracciano spazi e si mantengono in essi sulla base del loro soggiornare presso cose e luoghi” (ibidem): l’essere dell’Esserci non è più la comprensione oltrepassante o la Cura dell’ente sulla base dell’unità estatica della temporalità, ma è un soggiornare che accorda spazio e che, come tale, è immesso in un gioco di dis-velamento e nascondimento. Nel § 2.2 abbiamo introdotto un formalismo con il
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quale dovremo fare il callo nella seconda sezione: S=S/~S S0~S Tale grafo, colà applicato ad Essere e tempo e rappresentativo del paradosso di un Esserci che ha-da-essere il proprio Ci, si ripropone anche in questo caso: l’uomo è in quanto abita e soggiorna-aprendo (presso) i luoghi in cui dimorano i Quattro nel loro essenziale essernascosti. Esso è inoltre, in quanto mortale, sconosciuto a se stesso: se chiamiamo ~S “reale” o “Quadratura”, vediamo che il soggetto “è” in quanto unito al reale, pure nella sua valenza insensata ed ascosa, e che il soggetto è incluso, in quanto mortale, nel reale e nella Quadratura. Come vedremo è in questa commessura logica (o alogica) che si situa la questione spazio-temporale, questione che Heidegger riprenderà e riprenderà più volte, pur non riuscendo a circoscriverla del tutto.
1.2.6 Tempo ed essere Il problema della temporalità sembra esser stato messo tra parentesi negli 40-50: le tematiche dell’orizzontalità, del carattere trascendente dell’Esserci, della dislocazione del soggetto si sono condensate in una topologia che ha mutato il registro linguistico della riflessione heideggeriana e che ha traslato il fulcro dell’argomentazione sull’essere in generale ancorché sull’Essserci. Il senso dell’essere infatti — termine che peraltro Heidegger utilizza sempre meno — subisce una decisa torsione e diviene libera vastità della contrada, Quadratura di terra cielo mortali divini, luogo (Ort) raccogliente. L’esclusione della questione temporale è però solo apparente, dacché se in Essere e tempo essa subìva una contaminazione con lo spazio, successivamente viene ripresa proprio grazie ad un lungo détour attraverso le problematiche esistenziali ed ontologiche concernenti lo spazio stesso. E il nesso che lega tra di loro questi momenti è la radicalizzazione, come abbiamo visto, di una fenomenologia dell’abitare quale momento originario e costitutivo della soggettività: il Chi della domanda ontologica fondamentale deve essere affrontato alla luce del wohnen, del soggiorno dell’uomo sulla terra, e tale wohnen si dimostra connotato spazio-temporalmente. Il senso dell’essere è temporale e spaziale soltanto perché tale è l’abitare, in un complesso intrico di dimensione trascendentale e di dimensione empirica. Il fil rouge che lega tra loro la spazialità del Geviert e la temporalità si ritrova nella particolare declinazione del termine tedesco eigen, “proprio”: c’è un particolare diagramma che parte dal residuo impen-
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sato dell’Eigentlichkeit (autenticità) in Essere e tempo, alla dinamica dello zueinaderereignen (transpropriare) nella conferenza La cosa, per giungere alla fine — come vedremo — ad una concezione del tempo come Ereignis (evento). L’abitare dunque ha a che fare in qualche maniera con un “proprio” che non dev’essere inteso nel senso della proprietà (Eigentum), ma come una sorta di gioco (Spiel) di appropriazione ed espropriazione tra i Quattro. In tale prospettiva la riflessione heideggeriana sul concetto generico di “cosa” parte ancora da un elemento spaziale, la vicinanza (ivi, p. 109). Che cosa significa originariamente la vicinanza e l’avvicinarsi? E in qual modo possiamo definire la “distanza”, in un’epoca in cui “tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano” (ibidem)? Come nel caso di Costruire, abitare, pensare ciò che determina in maniera essenziale la vicinanza è la Cosa: in questo caso non è più il ponte che unisce due lande, ma un altro tipo di costrutto umano, per certi aspetti più umile e modesto: la brocca. Lacan nel suo Seminario dedicato all’etica riprende eloquentemente questi passaggi heideggeriani per evidenziare come la creazione del vasaio consista in uno strano maneggiamento con il reale: “credo che in esso vi sia la tentazione di addomesticare l’Altro, l’Altro preistorico, l’Altro indimenticabile che rischia tutt’a un tratto di sorprenderci e di precipitarci dall’alto della sua apparizione. Tu, contiene chissà quale difesa — e direi che quando viene pronunciato, è tutto in questo Tu, e non è da cercare altrove quello che vi ho presentato oggi come das Ding” (Lacan, VII, p. 69). L’Altro preistorico non è il grande Altro in quanto insieme strutturato del simbolico e del linguaggio, ma il Tu in quanto qualcosa del reale, epifania levinassiana del Volto. Ora, il reale lacaniano sembra condensarsi proprio sulla riunione del Geviert che avviene nella Cosa: “la brocca è brocca in quanto è una cosa. Ma come è la cosa? La cosa coseggia. Il coseggiare riunisce. Facendo avvenire la Quadratura, raccoglie il dimorare di essa in ogni singolo durare: ora in questa, ora in quella cosa” (Heidegger, 1954, p. 115). L’altotedesco per dire “cosa” è thing, termine peraltro ancora utilizzato nell’inglese corrente: thing significava originariamente il “riunirsi” per discutere e alludeva pertanto ad un contesto comunitario, nel quale gli uomini si raccoglievano nella piazza del paese e argomentavano tra di loro, in un gioco di velamenti e svelamenti. La cosa nel senso originario mantiene questi caratteri della riunione e del raccogliersi avvicinando, soltanto che chi si raccoglie e avvicina sono la terra, il cielo, i mortali e i divini: l’esser-brocca della brocca si esplica nel “versare” l’acqua, ma in quest’ultima affiora la terra donde è sgorgata e il cielo che sovrasta la sorgente. Nel versare si riuniscono i mor-
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tali, ma nell’offerta della bevanda risuona sempre la sua origine sacrificale: ecco dunque che anche nella brocca, così come nel “ponte” o in altre cose di poco conto (gering) si articola nella sua complessità di relazioni il Geviert (ivi, pp. 114-115), l’avvicinarsi “trattenendosi” di terra, cielo, mortali e divini, sì che tale trattenere “porta i Quattro nella luce di ciò che è loro proprio (Eigenes)” (ivi, p. 115). Il prefisso Ge- che Heidegger utilizza in modo molto frequente in questa conferenza ci pare oltremodo significativo: esso indica infatti già per sé un riunirsi, uno stare-assieme. Grazie al Ge- i Quattro (vier) si raccolgono secondo uno “squadrare” (Vierung) e il Ring diviene un qualcosa di gering, di “duttile” e “malleabile” e, nello stesso tempo, di “poco conto”. La distanza spaziale ha a che fare con il movimento di questo Ge-, del “riunente far permanere che fa avvenire” (ibidem); essa non è una distanza tra cose semplicemente-presenti, ma coinvolge le dimensioni del trattenere “facendo-avvenire” e del “proprio”. Le dimensioni velate ed ascose del reale si rilanciano a vicenda, rischiarandosi in un gioco di rispecchiamento e ritraendosi in un permanere e in un rinserrarsi in se stesse. “Ognuno dei Quattro rispecchia (spiegelt) a suo modo l’essenza degli altri. (...) Portando alla luce ognuno dei Quattro, il rispecchiare fa avvenire in una reciproca appropriazione la loro propria essenza nella semplicità del traspropriare. Rispecchiando nel modo di questo appropriante-illuminante far avvenire, ciascuno dei Quattro si dà (sich zuspielt) a ognuno degli altri” (ivi, p. 119). Nell’appropriazione c’è però anche un esproprio, un debordamento danzante e circolare (Ring): da un lato viene rimarcata l’impossibilità di una vicinanza che non sia un distanziamento (la traspropriazione come “oscillazione” nel proprio, rilancio continuo da una prossimità alla frapposizione di una distanza), dall’altro emerge nuovamente la figura del circolo o, se vogliamo, dell’eterno ritorno nietzschiano. L’essere-nel-mondo che, in qualche maniera, possiamo affiancare alla Lebenswelt husserliana, assume delle nuove coloriture, come se il Ci dell’Esserci nel quale si condensava in Essere e tempo fosse divenuto così preminente da inglobare in sé il soggetto stesso. Riprendendo il nostro grafo, se Essere e tempo in fondo enfatizzava la prima esemplificazione logica del Dasein, cioè l’espressione S=S/~S: “il soggetto deriva dalla riunione logica del soggetto stesso e del non-soggetto”, ora emerge nella sua dirompenza il secondo fattore che ivi, pur compresente, era rimasto ai margini della riflessione heideggeriana: S0~S. Il soggetto è incluso nel non-soggetto, o, per dirla nel linguaggio di Das Ding, i mortali sono parte del “mondo” inteso come “movimento” del Geviert: “il facente-avvenire-traspropriante gioco di specchi della sem-
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plicità di terra, cielo, divini e mortali, noi lo chiamiamo il mondo. Il mondo è, in quanto mondeggia” (ibidem). Il mondo come orizzonte degli orizzonti, come un ciò-rispetto-a-cui non oltrepassabile né tantomeno descrivibile, sembra completare la sezione “Tempo e essere” appena abbozzata nei Grundprobleme: soltanto che è stata necessaria una topologia dell’abitare e la parziale lateralizzazione della questione della temporalità. In questo passaggio, il tempo è rimasto per così dire in una posizione di co-fungenza nella forma “aristotelica” del movimento: la “danza”, la traspropriazione, lo squadrare hanno sostituito il vecchio moto di trascendimento estatico che caratterizzava la Zeitlichkeit. La sintesi che Heidegger ricerca nella conferenza del 1962 a parziale completamento di quanto lasciato inespresso in Essere e tempo passa attraverso un ripensamento dell’abitare attraverso un’accezione “cinetica” della temporalità. C’è il sopravvenire di una motilità originaria, come osserva Sloterdijk, che articola lo spazio e il tempo in un plesso sempre più unitario. Se la posta in gioco è il ripensamento della differenza ontologica a partire dall’essere (Heidegger, 1969a, p. 4), questo implica una riconsiderazione dei reciproci ruoli dello spazio e del tempo e, più precisamente, la sostanziale inderivabilità dell’uno e dell’altro e, conseguentemente, il loro statuto di co-originarietà. Il punto di partenza di Heidegger nella conferenza Tempo e essere è ancora significativamente il livello di quell’intratemporalità che per Ricoeur costituiva il maggior punto di debolezza di tutta l’analisi del 1927. Ora, mentre in Essere e tempo essa veniva di fatto derivata nell’ambito della dispersione deiettiva del tempo pubblico, ora diviene “il” problema preliminare (ivi, p. 5): che cosa significa che qualcosa sia nel tempo? “Il tempo stesso passa, ma nel suo passare costantemente resta in quanto tempo. Restare significa: non-svanire, dunque: essere presente. Il tempo è pertanto determinato mediante un essere” (ibidem). Da un lato ci sono degli enti “temporali” che si trovano nel tempo; dall’altro il tempo si caratterizza cone qualcosa che permane e, nello stesso tempo, fluisce. L’“essere-nel-tempo”, dunque, coniuga in sé sia la problematica ontologica dell’essere in generale, sia quella della temporalità originaria: non si tratta più di addivenire a una Temporalität intesa quale senso dell’essere, ma di man-tenere entrambe le dimensioni nel loro relazionarsi (Verhältnis). Sussiste, dunque, un “sostegno che le mantiene in rapporto (Sacherverhalt), quindi un rapporto che tiene (hält) reciprocamente insieme le due cose e sostiene (aushält) questo loro rapporto” (ivi, p. 7). Spicca un’evidente declinazione echologica, così come l’abbiamo variegatamente disegnata in questi anni: essere e tempo sono “legati” non da un rapporto a sua volta ontologi-
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co, ma da un intricato tessuto di sostegni e di relazioni, da un tenere giocato tra trattenimenti e rilasci. In altri termini una radicalizzazione ontologica non può essere espressa per Heidegger ancora ontologicamente, ma abbisogna di un tutt’altro registro non per questo più originario: se mi interrogo sull’essere del tempo o l’“essere dell’essere”, mi devo disporre su un altro piano, usualmente alternativo o “lateralizzato” che è quello pre-aristotelico dell’échein: “Essere — una cosa, ma niente di essente. Tempo — una cosa, ma niente di temporale” (ibidem). Nel termine “cosa” risuona ancora das Ding nella sua articolazione traspropriante che caratterizza l’abitare dell’uomo: nell’analisi dell’essere-nel-tempo non si indaga nulla di temporale e nulla di ontologico, mentre rimane in sospeso il ruolo “mediano” dell’in che, in Essere e tempo, si caratterizzava come il “mondo”. Infatti proprio in quanto “cose”, essere e tempo si articolano o articolano un mondo: da qui le espressioni heideggeriane che ora esprimono il tempo e l’essere. “Non diciamo: ‘l’essere è’, ‘il tempo è’, ma diciamo ‘es gibt essere’, ‘es gibt tempo’: ‘c’è, si dà essere’, ‘c’è, si dà tempo’” (ibidem). Heidegger si sofferma dapprima sull’essere: l’es gibt, il “c’è” che egli traduce letteralmente con “si dà” allude a un’ulteriorità, a qualche istanza che fa sì che l’essere in quanto tale appaia così com’è. In questo modo la tautologia parmenidea dell’”essere-è” viene aggirata ricorrendo al registro echologico del dare reciproco e del dono. Nel geben risuonano sia un “dare” che un “ricevere”, ancora un movimento, dunque, e a doppia mandata, un andirivieni e una reciprocità che abbiamo già trovato nell’übereignen e nell’enteignen. Questa reciprocità che articola il dono nella sua essenziale duplicità definisce il destino, il Geschick von Sein, il destino dell’essere. Se nel primo Heidegger il destino si configurava come una forma della storicità originaria sostenuta dal con-Esserci, ora il destino concerne il modo di darsi e annunciarsi-ritraendosi dell’essere in se stesso. E questo modo, come già evidenziato nel saggio Il detto di Anassimandro, si caratterizza con il termine greco &’ 7(2#$ che indica un “astenersi”, ma anche un trattenersi, un relazionarsi: nell’espressione “epoche del destino dell’essere”, “‘epoca’ non indica un periodo di tempo nell’accadere inteso come un succedersi di accadimenti, bensì il tratto fondamentale che caratterizza il destinare come un astenersi che trattiene di volta in volta se stesso a favore della percepibilità del dono, cioè dell’essere” (ivi, p. 12). La temporalità cosmico-mondana entra così in gioco non a partire da una riflessione sul tempo, ma da un’analisi dell’es gibt Sein, del “darsi dell’essere”; il tempo tuttavia si insinua a un secondo livello, cioè quando incominciamo a problematizzare l’Es, cioè il “Chi” dà l’essere. E pure
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in questo caso l’analisi di Heidegger si muove in senso opposto rispetto al 1927: invece di partire dal carattere ad-veniente dell’Esserci in quanto pro-getto, egli parte dal carattere deiettivo dell’“ora” per raggiungere una determinazione originaria della presenza (quella che nei Grundprobleme veniva determinata come “schema orizzontale dell’estasi”) in quanto modo dell’offrirsi dell’essere. In breve se indaghiamo profondamente l’espressione Es gibt sein, dobbiamo per forza affrontare l’Anwesenheit e, quindi, qualcosa come una “presenza” che non corrisponde più alla semplice-presenza di Essere e tempo. L’ora come “adesso” o “presente” e la sequenza degli “ora” non ci offrono infatti alcuna caratterizzazione del tempo: “il presente (Gegenwart) — non appena lo nominiamo da solo, già pensiamo al passato e al futuro, vale a dire al prima e al dopo in relazione all’adesso, all’ora (Jetzt)” (ivi, p. 14), ma esso è presente solo grazie alla presenza intesa come Anwesenheit che richiama un “perdurare” e un “rimanere” nel donare. La presenza, in altre parole, permane nell’offrire e arricchire (reichen) l’uomo nell’articolazione del presente, passato e del futuro (ivi, p. 18) e proprio questa articolazione è quella che possiamo chiamare “tempo”. L’offrirsi arricchente concerne in questo modo anche le estasi temporali, nella misura in cui anche esse si arricchiscono a vicenda, dando luogo all’intenzionalità longitudinale che aveva enucleato Husserl nella sua analisi fenomenologica dell’oggetto temporale. Ciascuna di esse offre a suo modo il proprio anwesen, il proprio presente e questo offrire presentificantesi dispiega uno Zeit-Raum, uno spazio-di-tempo. “L’espressione spazio-di-tempo nomina adesso l’aperto che si dirada nel reciproco offrirsi di advento, esser-stato e presente per arricchirsi a vicenda” (ivi, p. 19). È lo Zeit-Raum nella sua pre-spazialità originaria che determina lo spazio come lo conosciamo: l’apertura, in quanto insieme di orizzonti o, meglio, di “dimensioni” intese come un “allungarsi da un capo all’altro” (hindurchlangen), assume dunque una doppia determinazione. Essa è temporale in quanto le regioni che offrono diradando e ritraendosi corrispondono alle estasi temporali del presente, passato e futuro; ma è in qualche maniera spaziale, poiché ciò che si dirada è un intorno, un Bereich. La contaminazione spazio-temporale emerge poi con maggior enfasi quando Heidegger si interroga sull’unità di questo movimento altalenante che caratterizza le estasi temporali. L’unità in quanto tale infatti costituisce la quarta dimensione ed essa si caratterizza eloquentemente come “vicinanza avvicinante”, die nähernde Nähe (ivi, p. 21). Si tratta ovviamente anche in questo caso di una vicinanza ambivalente, che si gioca cioè su un movimento di andirivieni, di andata e ritorno
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(movimento peraltro già presente nel dis-allontanamento dell’analisi sull’utilizzabilità): “la vicinanza avvicinante ha il carattere del rifiuto e del riserbo” (ibidem). Assistiamo ancora all’ingredienza di una dimensione etica — il riserbo, il rifiuto — che dev’essere tuttavia intesa nell’accezione lacaniana, cioè di un rapporto tra il linguaggio (o, più genericamente, il senso) con il “reale”. Il modo in cui l’uomo si relaziona ad esso, non può essere che “etico”, cioè come un avvicinante-ritraentesi gioco spazio-temporale: o meglio, anticipando le tesi che svolgeremo più innanzi, lo spazio e il tempo nella loro unità costituiscono i modi simbolici o l’éthos collettivo in cui l’uomo affronta — difensivamente — il reale o, più genericamente, il non-senso. Uno dei punti che balza alla nostra attenzione in Tempo e essere è la delineazione di un nuovo rapporto tra tempo e spazio: “il tempo autentico stesso, ovvero l’ambito arricchito e aperto (Bereich) dal suo triplice offrire determinato dalla vicinanza avvicinante, è quella dimensione che si caratterizza come luogo, come località pre-spaziale in virtù della quale soltanto c’è un possibile ‘dove’” (ibidem). Sembrerebbe rimanere un residuo topologico, ma esso viene a sfumare nel passaggio successivo, cioè quando finalmente Heidegger chiarisce il carattere dell’Es dell’Es gibt sein, rimasto ancora inespresso. L’impianto generale della conferenza, tuttavia, potrebbe essere intesa anche come una “risposta” (simile a quella di Bergson in Durata e simultaneità) alla relatività generale di Einstein: lo spazio non può più essere avulso dal tempo, ma spazio e tempo costituiscono delle dimensioni co-varianti. Nei Beiträge (e quindi negli anni Trenta, immediatamente dopo la fase “politica” del 1933), Heidegger osserva significativamente che “lo spazio-tempo non costituisce l’abbinamento di spazio e tempo nel senso che il tempo preso come (t) del calcolo diventi il quarto parametro per postulare lo ‘spazio’ tetradimensionale della fisica” (Heidegger, 1989, p. 369). Se vogliamo parlare necessariamente di quadridimensionalità, allora è indispensabile uno scompaginamento, cosicché le dimensioni del tempo divengono tre e quella spaziale — la vicinanza avvicinante — si riduce paradossalmente all’unità. In questa rilettura, Heidegger vuole infatti dimostrare come lo spazio-tempo misurabile non sia che una derivazione da uno Zeit-Raum più originario che costituisce l’orizzonte di ogni presenza e di ogni misurazione. Anche la cosa nella sua funzione “mondeggiante” sembra replicare alla struttura curvata dello spazio-tempo einsteniano, cioè sembra riproporre una “materia” (pregna però di tutte le coordinate fenomenologico-esistenziali che abbiamo visto) capace di dimensionare uno spazio e temporalizzare un’epoca. Tralasciando queste suggestioni ermeneutiche — difficili peraltro da
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rintracciare con evidenze filologiche poiché Heidegger raramente ci dà delle basi esplicite sulle quali ragionare — ciò che risulta pregnante è comunque il pervenire a una definizione dello Zeit-Raum, cioè al prevalere di una contaminazione o dualismo a fronte di un predominio della temporalità in Essere e tempo e di un predominio topologico negli anni successivi. Il passo che dobbiamo ancora compiere è di rintracciare il nesso che lega tra di loro l’abitare, il Geviert, lo Zeit-Raum attraverso l’Ereignis; e questo passo consiste nel far coincidere l’Es dell’Es gibt Sein e l’Es dell’Es gibt Zeit con il medesimo Ereignis, l’evento (ivi, p. 25). “Nel destinare l’essere da parte del destino, nell’offrire il tempo, si mostra un ‘assegnare in proprietà’ (Zueignen) — un ‘trasmettere in proprietà’ (Überereignen) — l’essere come presenza e il tempo come ambito dell’aperto, nel carattere che è loro proprio (in ihr Eigenes). Ciò che determina entrambi — tempo e essere — nel loro carattere proprio, cioè nel loro coappartenersi, noi lo chiamiamo: das Ereignis, l’’evento’” (ibidem). Ritroviamo così la medesima dinamica che caratterizzava il Geviert: è l’eignen come “proprio” che si trasmette che connota analogamente i rapporti tra essere e tempo e i rapporti tra terra, cielo, mortali e divini. All’appropriazione inoltre consegue un’espropriazione (Enteignis): “con essa l’evento non rinuncia a se stesso, ma salvaguarda la sua proprietà (Eigentum)” (ivi, p. 29). Anche nell’Ereignis inteso come dinamica traspropriante di essere e tempo, così come nel Geviert, l’uomo è co-involto stando all’interno, essendo appropriato all’evento stesso. Se nei Grundprobleme la temporalità originaria si caratterizzava come orizzonte dell’esser-fuori-di-sé, ora il movimento che prevale è quello del co-in-volgimento, ove le preposizioni “con” e “in” rappresentano le istanze dell’intersoggettività e dello spazio. Cerchiamo allora di riassumere il percorso heideggeriano da Essere e tempo a Tempo e essere per quanto riguarda la tematizzazione della temporalità: siamo partiti da una temporalità dell’Esserci in quanto estasi orizzontale della Cura alla temporalità dell’essere in generale che funge da orizzonte ulteriore o da “schema” del trascendimento in generale. Quest’ultimo alla fine si configura, similmente a Kant e Husserl, come un auto-progetto, cioè come una certa auto-riflessività dell’oltrepassamento: è la temporalità stessa quale senso dell’essere che progetta se stessa attraverso il progetto dell’Esserci. La nozione di orizzonte tuttavia inizia ad evidenziare una certa contaminazione o “sintesi disgiuntiva” tra spazio e tempo che il § 70, prefigurante una derivazione dello spazio dal tempo, non riesce affatto a dipanare. In particolare l’orizzonte costituisce un trade union tematico tra l’Heidegger del 1927 e
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PARTE PRIMA: TEMPO E SPAZIO-TEMPO
l’Heidegger degli anni Quaranta: la temporalità in quanto tale sembra venir lateralizzata a favore di un approfondimento non solo tematico, ma anche metaforico della spazialità dell’abitare. Entrano in gioco termini come la contrada (o Gegnet, contrata) e come l’abitare: il wohnen o, più originariamente, l’innan in effetti era prevalente già nelle prime pagine di Essere e tempo e forniva il filo rosso per enucleare gli esistenziali dell’in-essere e della mondità, donde quindi la nostra idea dell’insostenibilità della tesi ermeneutica della Kehre, almeno per quel che riguarda la questione spazio-temporale. Si potrebbe così dire che il wohnen diviene la vera questione-guida che porta Heidegger a tematizzare il Raum e il Geviert inteso come riunione di terra, cielo, mortali e divini. L’abitare comporta innanzitutto la parziale lateralizzazione dell’approccio propriamente ontologico e riprende la nozione di eigen trapelata in Essere e tempo nelle forme dell’autenticità e dell’inautenticità. Il “proprio” in quanto gioco di appropriazione ed espropriazione, andirivieni e moto d’altalena basculante, rappresenta non solo il modo in cui l’uomo soggiorna sulla terra, ma anche il rapporto tra le istanze del “reale”: la vicinanza e la prossimità descrivono queste relazioni paradossali e iniziano a delineare un’idea di spazialità intesa come rapporto di senso e non-senso. Il problema che deve affrontare Heidegger nella sua analisi della spaziotemporalità è infatti l’impossibile risoluzione del nostro grafo: S=S/~S e S0~S. Ora, Tempo e essere riprende la struttura del Geviert per integrarla con quella dello Zeit-Raum: lo spazio si contamina con la temporalità e diviene quella vicinanza avvicinante che unisce nella traspropriazione futuro, passato e presente. C’è una sorta di isomorfismo che ci riconduce alla dimensione dell’Ereignis, vero e proprio erede della Temporalität: l’evento avviene, ma nell’avvenire convoca terra, cielo, mortali e divini, nonché presente, passato e futuro nella loro vicinanza. L’uomo abita nel co-involgimento dell’evento che apre lo spazio delle estasi temporali e riunisce separando-occultando la terra che abita, il cielo che lo sovrasta, il divino che lo accompagna occultandosi. Il co-involgimento descrive perfettamente l’impasse dell’espressione S0~S, mentre l’’!"#$%&'!, con cui si conclude Tempo e essere (ivi, p. 31), la verità come dis-velamento, descrive anche l’altra proposizione correlata: S=S/~S. La Verità è dell’uomo, in quanto originariamente co-involto in essa, ma essa è un misto di verità e non-verità talché è proprio la non-verità a predominare e ad essere preponderante. Con l’Ereignis Heidegger sembra addivenire a un plesso unitario di spazio e tempo (lo Zeit-Raum, lo spazio-di-tempo o Zeit-Spiel-Raum, “gioco dello spazio-tempo”), ma, nella misura in cui esso articola un
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Geschick von Sein, un destino dell’essere e caratterizza ugualmente le cose (Dingen), sembra rispondere anche alle critiche ricoeuriane limitate a Essere e tempo: il destino dell’essere integra quel processo originario che istituisce le “epoche” storiche; das Ding, invece, risponde al problema dell’ente intratemporale che si rivela, appunto, come luogo in cui l’evento “avviene”. I tre elementi fondamentali che sono emersi, tuttavia — Geviert, Ereignis, Ding — non riescono a nostro avviso ad amalgamarsi omogeneamente e sembrano articolarsi su binari separati: in particolare è enigmatico quando Heidegger ci dice che tempo ed essere sono cose. Che cosa significa tutto ciò? Significa forse che il tempo è pure esso das Ding e non un modus o una struttura della cosa stessa mentre “coseggia”?
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PARTE SECONDA
SENSO E SPAZIO-TEMPO
2)1 >&3o+ogia $'+ ;'n;o 2.1.1 Senso e non-senso In Essere e tempo Heidegger si interroga sul senso dell’essere in generale, non prima d’aver chiarito il senso dell’essere dell’Esserci (Heidegger, 1927, p. 37). È comunque significativo notare come egli ricorra proprio all’idea di senso per delineare l’orizzonte generale in cui qualcosa come l’essere medesimo può “avere senso”: “il problema del senso dell’essere deve esser posto” (ivi, p. 20). La medesima Seinsfrage ontologica fondamentale che Heidegger problematizza nella struttura del Dasein in quanto “Esser-ci” questionante (ivi, pp. 20-21), alla fine rimanda a un livello ulteriore d’analisi che viene di fatto glissata allorché la temporalità in generale finisce per replicare, come abbiamo visto, la struttura della temporalità articolata dal Dasein. Che il senso dell’essere in generale sia in fondo il medesimo senso della Grundfrage, articolata attorno al Dasein (il soggetto come “essere-nel-mondo” e Cura), non costituisce d’altra parte una défaillance del pensiero heideggeriano. È la paradossale orizzontalità del senso che lo caratterizza — quasi similmente al “tempo” — come “qualcosa” e come-ciò-in-cui qualcosa può sussistere: “il senso è il ‘rispettoa-che’ del progetto in base a cui qualcosa diviene comprensibile in quanto qualcosa. (...) Solo l’Esserci ‘ha’ senso, e ciò perché l’apertura dell’essere-nel-mondo non è ‘riempibile’ che attraverso l’ente in essa scoperto” (ivi, pp. 192-193). Se d’altronde l’orizzontalità si è manifestata come originariamente temporale, se ne deduce che il senso sia in ultima istanza temporale, o, più radicalmente, che il senso sia il tempo
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tout court in quanto il ciò-rispetto-a-cui della Cura. L’Esserci ha senso nella misura in cui ha-da-essere il proprio Ci, ossia la propria apertura, secondo il grafo più volte introdotto: S=S/~S e S0~S. Senso, apertura, orizzonte, Ci, temporalità, e così via sembrano divenire per Heidegger sinonimi o, quantomeno, palesano una struttura isomorfa. Ciò che contraddistingue essenzialmente tale struttura è il gioco di andirivieni e di occultamento-rischiaramento dell’ !"# ’ $ %&'!, la quale ci porta a rileggere in maniera inedita il Denkweg heideggeriano, riconsiderando tutta la serie di filosofemi via via articolati come il tentativo di delineare quel “senso” emerso sin dalle prime pagine di Essere e tempo: “la domanda del ‘senso’, cioè — secondo la delucidazione fornita in Essere e tempo — la domanda della fondazione dell’ambito del progetto, in breve: la domanda della verità dell’Essere, è e rimane la mia domanda” (Heidegger, 1989, p. 40). L’orizzontalità costituisce allora la prima cifra del senso: essa si pone come la “fondazione dell’ambito del progetto”, ovvero come l’in-vistadi e rispetto-a della comprensione, dell’emotività e dell’utilizzabilità. Non si tratta di una “cosa” o di un ente semplicemente-presente, ma semmai è assimilabile ad una condizione di possibilità trascendentale, una sorta di apriori o “sfera” sloterdijkiana in cui si muove il soggetto. L’orizzonte, d’altronde, si struttura in modo ambivalente, poiché riesce a coniugare l’elemento dell’apertura con quello della chiusura, dell’oltrepassamento e della finitudine dell’(,(s: il movimento dell’Esserci e il suo pro-gettarsi, la sua “sensatezza” sono possibili soltanto grazie alla finitezza che lo caratterizza ontologicamente, grazie insomma alla possibilità dell’impossibilità della morte. In Essere e tempo, infatti, è l’angoscia che dà senso all’essere, nella sua struttura cinetica e orizzontale: il senso della scienza, così come quello dei grandi costrutti della civiltà umana dipendono paradossalmente dall’Angst derivante dallo zum-Todt-sein o, per esprimersi in termini lacaniani, da un certo rapporto con il reale: “la tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo possibile un dirigersi verso...” (Heidegger, 1927, p. 175). La motilità, il fattore cinetico, l’oscillazione sono l’altra marca del senso: nulla di statico, non un Bedeutung fissato una volta per tutte, non un oggetto. Il senso è flusso, sfuggimento, movimento paradossale in quanto sempre compensato da un contromovimento. La verità si esplica come un dis-velamento che si ritrae e si occulta; la vicinanza si caratterizza originariamente come un allontanamento; il “proprio” è soprattutto un traspropriare espropriante; lo “squadrare” del Geviert è circolare, una danza inanellantesi e sempre ritornante su di sé. Noi
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diciamo così che il senso è flusso e rimando, Spiel o, più esattamente, Spiegel-Spiel, “gioco dello specchio-rimando”; in altre parole, in questo continuo scarto, diciamo anche che il senso non “è” senza qualche rapporto con il non-senso. Quando allora sosteniamo in una sorta di cortocircuito che “il senso ha senso”, dobbiamo affrontare immediatamente un paradosso, in cui il senso si misura con un se stesso oggettivato o, meglio, ridotto a “cosa”, ef-ferendo, rimandando necessariamente al di là di sé. Tutto lo sforzo teoretico heideggeriano sembra volto ad esplicare questo paradosso, a schiarire quello spazio ambiguo che nella sicurezza incerta della Contrada, lascia sempre trapelare uno sfondo oscuro, una "#$%# che non può essere costitutivamente lumeggiata. I Quattro che “rappresentano” il reale, sono sempre-già-qui eppure sono comprensibili o costituiscono l’orizzonte della nostra esistenza soltanto grazie alla loro abissale insensatezza, all’impossibilità di un redde rationem esaustivo. L’orizzontalità, la Contrada, la Lichtung e lo Spiegel-Spiel del Geviert si condensano in qualche maniera nel Ci dell’Esserci: “l’esserci è così il frammezzo tra l’uomo (in quanto fonda la storia) e gli dèi (nella loro storia). Il frammezzo che non risulta soltanto dal riferimento degli dèi agli uomini, bensì quel frammezzo che solo fonda lo spaziotempo per il riferimento, in quanto scaturisce anch’esso nell’essenziale permanenza dell’Essere come evento che, in quanto centro aprentesi, rende decidibili gli uni per gli altri gli uomini e gli dèi” (Heidegger, 1989, p. 310). Partendo così dall’interrogazione sul Chi della domanda ontologica fondamentale di Essere e tempo, Heidegger si ritrova negli anni seguenti di fronte ad un soggetto che non è più l’Esser-ci in quanto condizione modificata dell’essere-sé dell’uomo, bensì a un “esser-ci” per così dire impersonale, che è “frammezzo” eroso dal non-senso, articolato in un continuo movimento di chiusura (nel da), ma ciò nonostante trabalzato sempre altrove, in un rimando all’infinito. In un altro grafo, abbiamo espresso questa condizione formalizzandola in questo modo: S S S @ S S S !, dove un “senso” rimanda ad un altro senso e ad un altro ancora e il Soggetto, la @ in grassetto, indica una sorta di impotente e parziale sospensione del movimento, un rallentamento. L’abitare heideggeriano indica un soggiornare in questa condizione, un maneggiamento sempre in bilico che deve intrecciare continuamente senso e non-senso. Non dobbiamo tuttavia pensare, come sembra talora fare Sloterdijk, ad una semplicistica contrapposizione tra dentro e fuori (Sloterdijk, 2001b, p. 33): il non-senso non costituisce quell’esterno che il soggetto non smette di allontanare e glissare; egli non erige barriere che lo proteggano dalle forze ignote
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del male. Paradossalmente il Fuori è anche immanente al Ci, lo sorregge in ogni istante essendone l’elemento essenziale e imprescindibile. L’uomo comprenderà meglio se stesso quando riconoscerà il nonsenso che lo abita originariamente, quel pezzo di reale che egli stesso è, al di là della capacità irretente e difensiva delle varie simbolizzazioni culturali e delle sovrastrutture delle scienze. In questo modo, il Qui rassicurante, la vicinanza stessa non sono una vicinanza da intendere secondo una topologia metrica e ordinaria, bensì secondo la complessa dimensione del proprio: il senso è, per Heidegger, l’articolazione complessa dell’eigen, l’idea in apparenza paradossale che non c’è appropriazione, recinzione delimitante e difensiva, senza una co-occorrente espropriazione, senza una perdita o un furto della propria sicurezza e tranquillità. Il senso, dunque, non-è, o con Deleuze, costituisce un extra-essere, un aliquid indefinibile: si pone in altri termini in un milieu echologico, dove la categorizzazione ontologica non riesce più ad essere esplicativa. Se tutta la ricerca heideggeriana è volta alla delineazione del “senso dell’essere”, questo senso non può essere in alcun modo “ontologico”: l’altro-essere, l’essere a-metafisico o non-semplicemente-presente deve venir articolato diversamente. Il mondo “mondeggia”; la Cosa “coseggia”; l’Evento “avviene”: e il mondeggiare coseggiante-eveniente si presenta come movimento della traspropriazione, andirivieni ambivalente nel quale la “domesticazione” dell’essere non è mai compiuta del tutto.
2.1.2 L’Ereignis Gran parte delle aporie costitutive del senso affiorano dunque nelle nozioni heideggeriane di Ereignis e Ding: Lacan ne aveva notato la complessità cercando di articolarle nel suo settimo seminario, L’etica della psicanalisi. La Cosa ha a che fare con il reale, in una misura però che si condensa parimenti nel Ci dell’Esserci. Essa deriva da un processo di “sublimazione” che, per continuare la nostra terminologia, “crea” una serra o uno spazio difensivo di senso all’interno del nonsenso (reale). Questo spazio però implica una sorta di extimità, ossia un’intimità che ha uno stretto legame con il Fuori: all’interno della Cosa, troviamo un “buco” e, quindi, un’assenza, un pezzo di reale. “Das Ding è originariamente ciò che chiameremo il fuori significato. È in funzione di questo fuori significato, e di un rapporto patetico con esso, che il soggetto conserva la sua distanza e si costituisce in una modalità di rapporto e di affetto primario, antecedente a qualunque rimozione” (Lacan, VII, p. 67) Il soggetto può solo fare-il-giro, può bordare o con-
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tornare il non-senso con una linea o “marca” di senso. Il non-senso, insomma — ed è ciò che lo rende davvero unheimlich — ce lo ritroviamo tanto all’esterno infinito dello spazio cosmico “sempre ritornante allo stesso posto”, quanto al nostro interno, nell’apertura che noi stessi siamo e che abbiamo-da-essere in quanto “frammezzo”. Nel Seminario XI, argomentando sul reale, Lacan evidenzia due tropi fondamentali sia del senso in generale, sia — lo vedremo più avanti — della temporalità: .6$2# e autómaton, l’evento o fato in-sensato, e l’automatismo della ripetizione, l’eterno ritorno nietzschiano nella sua prorompente forza decostruttiva. Da un lato ritroviamo la “semelfattività” del kairós (Jankélévitch, 1980, pp. 78-79), dall’altro la ripetitività del sapere e del senso che tende sempre a costruire degli spazi circolari e, pertanto, chiusi. 86$2# significa anche “incontro”, “mi trovo per caso”, dal greco .6)2!$*9: nell’incontro appropriante-espropriante sono in gioco il “reale” e il tentativo addomesticante del soggetto. In tal modo “il reale è ciò che giace sempre dietro l’autómaton. Ed è evidente, in tutta la ricerca di Freud, che è proprio lì il suo cruccio” (Lacan, XVII, pp. 52-53). Il giro del Geviert che articola continuamente le strutture dilemmatiche della nostra esistenza nella speranza di “controllarle”, alla fine si ritrova sempre alle spalle il non-senso irriducibile del reale. “Il Reale è così SIMULTANEAMENTE la Cosa alla quale non è possibile un accesso diretto E l’ostacolo che impedisce questo accesso diretto; la Cosa che elude la nostra presa E lo schermo distorcente che ci fa perdere la Cosa” (Z izek, 2003, p. 99). Das Ding nella creazione sublimante dà senso, conferisce senso, e ciò proprio nella misura in cui s’intrude nell’insensatezza del reale; ma nello stesso tempo incorpora la medesima insensatezza in se stessa: ecco, per Heidegger, il senso è questo gioco paradossale tra senso e non-senso, ovvero Ereignis. Deleuze, nella raccolta del 1967 intitolata significativamente Logica del senso, per apparentemente differenti digressioni, sembra pervenire alle medesime conclusioni heideggeriane, senza tuttavia l’implicazione tutta ancora da sviscerare inerente al tempo. “Inscindibilmente il senso è l’esprimibile o l’espresso della proposizione e l’attributo dello stato di cose. Tende una faccia verso le cose, l’altra verso le proposizioni. Ma non si confonde con la proposizione che lo esprime più che con lo stato di cose o la qualità che la proposizione designa: è esattamente la frontiera delle proposizioni e delle cose. È quell’aliquid, a un tempo extra-essere e insistenza, quel minimo di essere che conviene alle insistenze. Ed è in questo senso che è ‘evento’: a condizione di non confondere l’evento con la sua effettuazione spazio-temporale in uno stato di cose. Non si chiederà dunque quale sia il senso di un evento:
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l’evento è il senso stesso” (Deleuze, 1969, p. 27). La bifaccialità anfibolica del senso coniuga assieme il suo carattere tychico e il suo carattere d’effetto automatico, cioè “in breve, il senso è sempre un effetto. Non soltanto un effetto nel senso causale; ma un effetto nel senso di ‘effetto ottico’, ‘effetto sonoro’, o meglio effetto di superficie, effetto di posizione, effetto di linguaggio” (ivi, p. 68). Deleuze evidenzia allora come accanto alle due istanze antitetiche, ci sia pure in gioco l’elemento affettivo-emozionale o, kantianamente, l’!'4%#4's: il paradosso del senso insiste proprio in quest’ambiguità originaria ed abissale, peraltro già evidenziata da Hegel nelle Lezioni di estetica. La parola Sinn in tedesco significa “senso” in quanto sensibilità o sensazione, e “senso” in quanto “senso logico”, per dirla à la Frege. La fondazione heideggeriana della Zeitlichkeit sulla base della “situazione emotiva” e sull’angoscia, evidenzia questa contaminazione o chiasmo; ma anche il “tratto” che nel saggio sul L’origine dell’opera d’arte separa il cielo dal mondo e, con questo, delinea l’opera d’arte, manifestando la sua bifaccialità essenziale e costitutiva. Il senso è se stesso e il proprio altro, non è né nell’uno né nell’altro assieme, ed entrambi contemporaneamente. Giocando con le parole Lacan esprime significativamente quest’impasse dicendo che il senso è, contro tutte le nostre aspettative, indé-sens (Lacan, XX, p. 79), un non-senso o, all’inglese, un non-sense, che d’altronde si palesa come qualcosa di indecente ed osceno, cioè che appartiene a un tutt’altro registro (quello libidico-pulsionale o, più genericamente, quello affettivo-emotivo).
2.1.3 Logica del senso Abbiamo già introdotto una sorta di formalizzazione logica per cercare di esemplificare alcuni meccanismi del pensiero heideggeriano. Questi meccanismi abbiamo evidenziato esser soprattutto dei meccanismi temporali, datoché — almeno in Essere e tempo — ciò che viene questionata è la temporalità in quanto senso dell’essere. L’Esserci è quell’ente che ha-da-essere il proprio Ci; ma questo Ci è anche il sistema aperturale-orizzontale grazie al quale sono possibili la comprensione dell’essere e l’estaticità (o l’“essere-fuori-di-sé”) dell’Esserci stesso. Il superamento della semplice-presenza comporta in effetti uno slabbramento dei confini che separavano metafisicamente il soggetto e l’oggetto: il Fuori, per Heidegger, si condensa nel Ci, ma nel Ci si apre quel mondo o frammezzo che contiene l’Esserci stesso: “l’Esserci è la sua apertura” (Heidegger, 1927, p. 170). In altre parole, secondo una logica che ricorda quella cusaniana dell’implicatio e dell’explicatio, il
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mondo diviene nel medesimo tempo “contenente” e “contenuto”, “parte” e “totalità” di questa medesima parte. Se interpretiamo dunque questo paradosso in termini di senso e diciamo, con un certo azzardo, che il senso in toto include necessariamente una parte di non-senso, ecco che dovremmo formalizzare questa condizione con la seguente formula: S=S/~S. Il senso consiste nell’”unione logica” di se stesso con il proprio opposto, il non-senso. Nel Da-sein è il Da che implica il non-senso, ma esso di fatto fa parte del soggetto, pur essendo debordante: il mondo nella sua abissale complessità e infinita aperturalità è-nell’Esserci, rientra nella sfera dell’umano. Heidegger, tuttavia — e in particolare il “secondo” Heidegger (utilizzando questo schematismo per un unico scopo esemplificativo e descrittivo) — anche mantenendo inalterata questa Gefüge, ne tenta un capovolgimento, sovvertendo completamente l’assunto di Essere e tempo. Sebbene sorregga la struttura esistenziale dell’Esser-ci e rappresenti il Ci una sua parte esistenzialmente originaria, il senso in qualche maniera è incluso nel non-senso, cioè, tecnicamente, è un sottoinsieme del non senso: S0~S. L’Esserci nella sua completezza è parte del proprio Ci, cioè è implicato o coinvolto in un proprio elemento costitutivo. Da un lato dunque il senso deriva dall’unione logica di se stesso con il suo insieme complementare, :(x): (x;S)<(x;~S), dall’altro S è incluso nel proprio complementare, cioè :(x): (x;S) (x;~S), cioè :(x): (x;S)=(x;~S), contravvenendo palesemente al principio di contraddizione espresso classicamente dalla proposizione ~(S=~S). Per ogni x, esso appartiene o all’insieme S o all’insieme ~S e, nello stesso tempo, esso appartiene e all’insieme S e all’insieme ~S; può essere il senso o il non-senso, e parimenti essere entrambi. Heidegger, tuttavia, ci dice ancora qualcosa di più, quasi a voler complicare la situazione: la Contrada o “frammezzo” nella quale l’uomo è co-involto è l’orizzonte degli orizzonti che permane serbando e ritraendosi. In questo ritrarsi si cela il suo mistero, poiché non potrà mai essere rappresentata in quanto tale, ma rifuggirà ogni tentativo di prensione e concezione. Di fronte a questo ritrarsi, l’unico atteggiamento possibile del soggetto è la dismissione della propria attitudine appropriante e “prensiva”, cioè una sorta di abbandono (Gelassenheit), nel quale ridonda quel verbo lassen, decisivo sin da Essere e tempo nel caratterizzare autenticamente il metodo fenomenologico heideggeriano. Heidegger sembra insomma suggerirci che il nostro tentativo di costruire attorno a sé degli spazi sempre più ampi di famigliarità è destinato allo scacco: l’eigen e l’Heimat si ottengono paradossalmente attraverso ciò che è unheimlich, estraneo e inquietante in quanto non-
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famigliare, proveniente dalla "#%#. Siamo, in quanto uomini, co-involti nel gioco del Geviert, ma questo coinvolgimento non significa soltanto che abbiamo a che fare con il non-senso, ma anche che questo non-senso è in qualche maniera predominante. Esso infatti si ritrova in noi e fuori di noi, è il limite asintotico di ogni nostro tentativo di addomesticarlo, e parimenti la nostra stessa “carne”, la “gettatezza” che da-sempre-già-siamo. L’espressione logica di tale condizione, associata alla precedente, è questa: S0~S, il senso è incluso nel nonsenso. Ogni elemento di S appartiene a ~S, ma c’è qualche elemento di ~S che non appartiene a S. Dal nostro punto di vista, questa proposizione esprime nel modo più radicale la concezione heideggeriana della verità ed è l’elemento ispiratore di tutta la sua filosofia, ciò che Heidegger non ha mai cessato di articolare. Verità significa che noi siamo gettati in una condizione spuria in cui il senso è frammisto al non-senso e nella quale talvolta è difficile discernere l’uno dall’altro e il non-senso costituisce l’altra faccia chiasmatica del senso, oppure l’eccesso di senso finisce per rivolgersi nel proprio opposto, come se camminassimo sempre lungo una banda di Möbius. Se procediamo troppo lungo il senso, procediamo così tanto innanzi da ritrovarci nell’esatto contrario, dall’altra parte della banda (Zizek, 1988, p. 112). Il modo in cui l’uomo si rapporta al non-senso, costituisce l’altro côté del Denkweg heideggeriano: sin da Essere e tempo si evidenzia un modo “autentico” di relazionarsi al mondo, e questa autenticità non è solo specifica del singolo soggetto, capace di decidere o non decidere per essa, ma descrive il destino stesso dell’essere e il suo “epochizzarsi” storico. “L’’essere-presente’ si è mostrato come >*, ‘l’uno che unicamente unifica’, come "($)(-, ‘il raccoglimento che custodisce il Tutto’, come '’ ?&$!, (64'$!, &*& ’ $,)&'!, substantia, actualitas, perceptio, monade, come oggettualità, come l’essere-posto del por-si nel senso della volontà di ragione, d’amore, di spirito, di potenza, come volontà di volontà nell’eterno ritorno dell’uguale” (Heidegger, 1969a, p. 11). Tutti questi modi in cui l’uomo ha storicamente nominato l’essere, manifestano tuttavia un aspetto dissennato, un eccesso: laddove infatti la nominazione risulta troppo pretenziosa, ossia s’illude di circoscrivere ultimativamente il non-senso istituendo il nuovo regno del senso pieno o, come preferiamo dire, dell’onnisenso, ci si ritrova d’improvviso dall’altra parte del chiasmo. L’esempio tipico di Heidegger in questo senso riguarda l’età della tecnica, vista come im-posizione (Gestell) da parte dell’essere di un certo modo del dis-velamento inteso come pro-vocazione delle forze della natura: se l’uomo non man-tiene il “fondo” oscuro che si ritrae alla provocazione e che è ciò che comunque rimane
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velato, egli corre il rischio di non accedere a una verità più originaria, fissandosi per così dire nel non-senso. “La minaccia per l’uomo non viene anzitutto dalle macchine e dagli apparati tecnici, che possono anche avere effetti mortali. La minaccia vera ha già raggiunto l’uomo nella sua essenza. Il dominio dell’im-posizione minaccia fondando la possibilità che all’uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principale” (Heidegger, 1954, p. 21). Il rischio della tecnica emerge laddove se ne misconosca l’insensatezza originaria, ossia l’inclusione S0~S e si continui a considerare l’essere come semplice-presenza: non c’è dunque un pericolo intrinseco, bensì un pericolo in termini di verità, di !"# ’ $%&'!, cioè di contaminazione tra senso e nonsenso. Ora, potremmo formalizzare anche questo misconoscimento o questa “elusione” dell’insensatezza con una proposizione del tipo: ~(S=S=S/~S) (S=~S), cioè se neghiamo la struttura originaria dell’!"#%&'! in quanto unione logica di senso e non senso, ci ritroviamo comunque all’interno del non-senso. Questa emergenza segnala la delicatezza della situazione: non solo il non-senso con-tiene il senso, non soltanto lo infarcisce sin nei più intimi penetrali, ma è sufficiente fare un passo in più, lungo la radicalizzazione del senso, per compiere una svolta, una Kehre nel non-senso. La metafisica così come si esprime e si è espressa nei grandi totalitarismi e nelle grandi ideologie, diviene palesemente insensata per l’eccesso di senso che ha promosso; il paranoico che cerca di razionalizzare e rendere consequenziale e sensato ogni aspetto della propria esistenza, diviene folle per eccesso di senso, per un parossismo di razionalità e sensatezza. Abbiamo però un’ulteriore osservazione da compiere, che concerne i variegati modi in cui il non-senso si manifesta: la "#$ %# in quanto tale, ovvero in quanto ritrarsi che permane e serba nel raccoglimento, rimane se stessa in ogni forma si esplichi (occultandosi). In altri termini, il non-senso degli spazi celesti e della vita cosmica, così come il non-senso del nostro Unbewusste, della nostra carne o, con Lacan, dell’ágalma che ci portiamo dentro, dono ributtante quanto desiderato, il non-senso quale “altra faccia” del senso stesso, suo unico e definitivo esito (a meno di non rapportarsi ad esso nell’abbandono e nel lasciar-essere del pudore e del riserbo): ecco ogni non-senso siffatto è e rimane lo stesso non-senso. Dunque ~S=~S, il non-senso è uguale al non-senso. Non si tratta di una semplice tautologia, né dell’espressione tipica del principio di identità, peraltro violato dalle altre proposizioni del nostro grafo: è in gioco anche una differenziazione termino-
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logica che per Heidegger è sostanziale. Il non-senso è lo stesso nonsenso in quanto das Selbe, non in quanto das Gleiche: nel Selbe risuona la differenza (Heidegger, 1994, p. 153), ossia il rapporto di appropriazione ed espropriazione che lega il soggetto all’epoché dell’essere. Potremmo anche dire che in tale identità sottentri in modo più o meno velato la dimensione temporale, usualmente espunta da ogni formalizzazione logica: il non-senso assoluto è impossibile, così come lo è il senso assoluto. Nella misura in cui esprimo la tautologia ~S=~S, non posso non contaminarmi con il senso e, quindi, subire un esproprio o una perdita necessaria e confermare latatamente l’originarietà della struttura alethologica.
2.1.4 Il reale Il “reale” è una figura lacaniana che abbiamo già utilizzato in precedenza e che bisogna innanzitutto distinguere da un semplicistico e generico concetto di “realtà”, così come dev’essere radicalmente differenziata dalla nozione ontologica di “essere”. Lacan, per certi aspetti, si dimostra uno strenuo heideggeriano, poiché sembra ricercare un livello argomentativo che non sia contaminato dal pensiero metafisico. L’essere, infatti, è un “significante-Maestro”, ossia una sorta di fissazione simbolica che, in qualche maniera, condiziona un intero regime di discorso: in particolare il simbolico tout court, che Lacan definisce significativamente “Altro”, rappresenta una sorta di cortina difensiva con la quale l’uomo si emancipa dalla dimensione immaginaria che invece caratterizza i primi momenti dello sviluppo della soggettività. Noi viviamo immersi nella sfera simbolica e la “realtà” che sembra circondarci nella sua “aseità”, in verità non è definibile se non attraverso un’addizione, ossia “il reale più il simbolico” (e — sebbene ciò non trapeli sovente nei testi lacaniani — anche “il reale più l’immaginario”, assecondando così un’implicita ascendenza peirceana). Potremmo anche dire che la realtà corrisponde alla definizione del senso in quanto unione logica di senso e non-senso: essa “ha senso” in quanto commistione di simbolico e reale, cioè mixture di sensatezza famigliare e addomesticata, e di "#$%# velata e nascosta. Ora, ciò che Lacan sembra aggiungere significativamente alle analisi heideggeriane, si condensa nei due caratteri distintivi e fondanti del reale e cioè la sua impossibilità e il suo tropismo tipicamente circolare. L’impossibilità introduce una nozione fondamentale in echologia, poiché ci immette in un contesto che non è assimilabile alla logica o all’ontologia. Impossibile significa soprattutto “non-padroneggiabile”,
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ossia indica (in maniera necessariamente indiretta e allusiva) ciò di cui non possiamo avere padronanza. Il simbolico, infatti, si caratterizza per essere una forma eminente di controllo o, se vogliamo, di addomesticamento del Fuori: nominando le cose, fissandole e astraendo dalle circostanze contingenti, l’uomo disegna i contorni di un mondo fatto su misura, nel quale “serre tecniche” via via più vaste e diffuse consentono una sorta di illusorio controllo dell’impossibile. Il grafo S=S/~S indica tuttavia come non esista un addomesticamento assoluto, ma come ogni padronanza sia controbilanciata da una non-padronanza. Il reale consiste in un certo fallimento del linguaggio (Lacan, 1974, p. 35), ma questo fallimento fa sì che — attraverso il nodo borromeo che lega tra di loro simbolico, immaginario e reale — reale e simbolico si sostengano vicendevolmente. Il reale o il non-senso sono impossibili in quanto di essi non vi può essere alcun sapere, ma questa impossibilità è immanente al simbolico stesso, è “il-reale-del-simbolico”. In altre parole, il reale è il Fuori assoluto nella sua impenetrabilità, ma è parimenti l’altra faccia del linguaggio e l’altra faccia che noi stessi incarniamo. Il carattere di trascendenza e, paradossalmente, di immanenza del reale, si compendia nell’altro aforisma lacaniano, e cioè che il reale torna sempre allo stesso posto. Questo moto circolare, che peraltro ci riporta a Nietzsche, trova tuttavia la propria matrice genetica nella coazione a ripetere che Freud aveva sviscerato nel saggio Al di là del principio di piacere: la tendenza a riproporre sempre quelle circostanze sintomatiche dolorose e traumatiche che abbiamo rimosso, pare in effetti individuare una fonte pulsionale differenziata rispetto al Lustprinzip che era stato individuato sin dai primi anni della ricerca psicanalitica quale motore del funzionamento psichico. Lacan rielabora questa nuova fonte pulsionale (il Todestrieb) in quanto tendenza dell’organico a ritornare compulsivamente verso l’inanimato e ne enfatizza il meccanismo intrinseco della ripetizione (Wiederholung). In breve, il reale dimostra una motilità circolare, nonostante sia costituito in maniera tychica: è un evento-incontro innanzi al quale il linguaggio non trova più parole, ma è parimenti un moto ritornante su se stesso, il +6$+"(s degli oggetti celesti e del ripetersi delle generazioni. Similari connotazioni avevamo ritrovato nella struttura heideggeriana del Geviert, cioè nella danza circolare che caratterizza lo squadrare dei Quattro in quell’incontro appropriante-espropriante nel quale l’uomo è co-involto. Potremmo infatti dire che “impossibilità” e “ripetizione circolare” ripropongono i due côtes dell’abitare dell’uomo, ovvero la sua temporalità intrinseca che si esplica in un paradossale intreccio di
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evento soggettivo in cui l’ora trapassa tosto nel passato per aprirsi all’indeterminatezza del futuro, e dell’immersione dell’Esserci in un tempo cosmico e ubiquo, sempre identico a se stesso e indifferente al suo destino. La novità lacaniana però insiste invece su alcune tonalità tipiche del reale, che in Heidegger vengono appena adombrate. La Cosa lacaniana, infatti, rispetto a das Ding, è l’objet petit a, cioè l’oggetto “perduto” diventato l’oggetto del desiderio: in esso ritroviamo il reale, epperò all’interno di una trama molto complessa. Vi si percepiscono e apprendono la distinzione dei registri e il paradossale legame che li lega tra di loro: l’oggetto a (rielaborazione dell’“oggetto perduto” kleiniano) è sempre dotato di una cortina immaginaria che ne fa appunto l’oggetto impossibile del desiderio, ma assume pure un ruolo simbolico nell’economia del linguaggio. Ciò che invece emerge è l’esser scavato al suo interno da un buco o un’assenza che costituisce il reale stesso. In questo modo, il reale è là, non è fatto per essere saputo, ma ciò nondimeno esso funziona e agisce nel nostro universo simbolico e immaginario: il desiderio come metonimia del significante è ciò che ci porta sempre nelle sue vicinanze, ma ciò che alla fine ricerchiamo è quello che Lacan chiama godimento. Attraverso il significante, il desiderio risulta sempre “desiderio mancato” poiché l’oggetto a fantasmatico cui si rivolge è sempre una costruzione immaginaria che ricopre il buco del reale. A godere, dunque, è sempre l’Altro, ossia il linguaggio, ma il bello è che non si sa “dove”. Il godimento, in quanto approccio privilegiato al reale, introduce un’ulteriore bivalenza: da un lato il reale possiede i caratteri orrorifici del disastro, dell’osceno o dell’indecente, ossia di quell’evento traumatico che scompiglia radicalmente tutti i nostri costrutti simbolici (Lacan, XI, p. 163), facendoli rovinare all’improvviso nel mare dell’insensatezza; dall’altro lato però il reale dimostra un bizzarro coniugio con il godimento, tant’è che Zizek nella sua esegesi lacaniana tenderebbe a sovrapporli: il reale è il godimento; per aggiungere subito dopo, in una specie di diallele, che con la medesima ambivalenza il godimento può essere l’estremo piacere orgasmico oppure il dolore acuto di una ferita che lacera le membra: “si inizia con il solletico e si finisce arsi vivi con la benzina. Si tratta pur sempre di godimento” (Lacan, XVII, p. 85). Per tali ragioni, il reale non può essere incontrato: potremmo definire unitariamente il simbolico e l’immaginario come quelle formazioni (di senso) che preservano il soggetto nei confronti del reale (Lacan, XI, p. 41), come strutture difensive che mirano all’evitamento di un impatto necessariamente traumatico. Come acca-
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de tuttavia anche nell’echologia del senso, ciò che viene differito da una parte, rientra dall’altra sotto mentite spoglie: donde la notevole complessità di una dinamica nella quale si è costretti a maneggiare continuamente l’impossibilità. Paradigmatica in questo senso l’analisi lacaniana del rapporto sessuale nel Seminario XX, il quale da un lato è sempre mancato e fallimentare, dall’altro esso “non cessa di non scriversi”, cioè motiva e articola — nella sua mancanza — l’intero sistema simbolico. “Non c’è rapporto sessuale perché il godimento dell’Altro preso come corpo è sempre inadeguato — perverso d’un lato, in quanto l’Altro si riduce all’oggetto a — e dall’altro, dirò folle, enigmatico. Non è forse dallo scontro con questa impasse, con questa impossibilità da cui si definisce un reale, che è messo alla prova l’amore?” (Lacan, XX, p. 145). Si noti come in tali espressioni sia concentrata tutta la paradossalità della situazione, che si configura con un’essenziale ambiguità dell’Altro, nonché della preposizione composta (“del” nel senso del de latino, oppure del genitivo soggettivo [Lacan, Scritti, p. 817]) che caratterizza il godimento dell’Altro. L’Altro è il luogo del linguaggio, cosicché il “godimento dell’Altro” significa che non possiamo godere che attraverso il sapere e il simbolico, laddove il godimento significa esattamente il contrario, cioè il fallimento del linguaggio stesso. Ma l’Altro è anche l’Autrui levinassiano, cioè l’alterità assoluta e non riducibile con cui abbiamo a che fare appunto nell’ambito del rapporto sessuale (l’altro sesso: Lacan, XX, p. 39) e che è quello che gode al posto nostro. Il senso, insomma, è la scoperta insostenibile del carattere reale del Tu o, con Lévinas, del Volto d’Autrui, e del carattere simbolico dell’Altro in quanto sistema del linguaggio e unica via d’accesso a un godimento impossibile, in quanto sempre godimento dell’Altro.
2.1.5 Il ritornello e la padronanza “1. Nel buio, colto dalla paura, un bambino si rassicura canticchiando. Cammina, si ferma al ritmo della sua canzone. Sperduto si mette al sicuro come può o si orienta alla meno peggio con la sua canzoncina. Essa è come l’abbozzo, nel caos, di un centro stabile e calmo, stabilizzante e calmante. Può accadere che il bambino si metta a saltare, mentre canta, che acceleri o rallenti la sua andatura; ma la canzone stessa è già un salto: salta dal caos a un principio d’ordine nel caos, e rischia di smembrarsi a ogni istante” (Deleuze-Guattari, 1981, p. 439). Il bambino cerca un senso; “sperduto si mette al sicuro come può o si orienta alla meno peggio”. Ma il senso non costituisce un’entità trascenden-
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te o metafisica di qualche tipo; non costituisce una verità inconcussa che bisognerebbe scoprire e identificare attraverso i velamenti del caos. Al contrario, all’interno del disordine, rappresenta un abbozzo d’ordine o d’andatura, fatta di accelerazioni e rallentamenti, che può sfaldarsi a ogni istante, come se l’oscurità caotica del non-senso accompagnasse continuamente la temporanea sicurezza garantita dal ritmo della canzone. Essa poi è inizialmente qualcosa di sovrapposto: è il simbolico misto di reale che tenta di sostituirsi al reale stesso, in modo da costituire una serra rassicurante dove l’elemento “ritornante” e circolare prende il sopravvento sul carattere evenemenziale e incontrollabile del Fuori, insito nel medesimo tessuto ontologico della musica in cui ogni “ora” non è già-più lo stesso “ora”. “2. Adesso, invece, siamo a casa nostra. Ma casa nostra non preesistente: si è dovuto tracciare un cerchio attorno al centro fragile e incerto, organizzare uno spazio limitato. Intervengono parecchie componenti molto diverse, punti di riferimento e contrassegni di ogni genere. Questo accadeva già nel caso precedente. Ma ora si tratta di componenti per l’organizzazione di uno spazio e non più per la determinazione momentanea di un centro. Ecco che le forze del caos son tenute all’esterno nei limiti del possibile, mentre lo spazio interno protegge le forze germinative di un compito da assolvere, di un’opera da fare. C’è qui tutta un’attività di selezione, di eliminazione, di estrazione, affinché le intime forze terrestri, le forze interne della terra, non vengano sommerse, affinché possano resistere o, anzi, possano attingere qualcosa dal caos attraverso il filtro o il vaglio dello spazio tracciato” (ibidem). Assistiamo dunque a un nuovo passaggio, in cui risuona il bauen heideggeriano: l’uomo è innanzitutto poiché edifica coltivando, ma questo edificare coltivante significa uno sgombrare o “fare-spazio” all’articolazione del Geviert. Il “luogo” non è un interno circoscritto e separato da un Fuori periglioso ed orrorifico; semmai implica uno strano groviglio tra senso e non-senso, simbolizzazione e reale. Le forze del caos si contrappongono alle forze della terra, a loro volta stacciate e commessurate dallo spazio chiuso della dimora, ma tali forze rimangono espressione di un’impossibilità persistente e sono pertanto essenzialmente in-sensate. La dimora è allora anch’essa una sorta di ritornello, una tracciatura che prende le sembianze d’un cerchio e tende suo malgrado a slabbrarsi e sfilacciarsi, co-involgendo l’uomo ed espropriandolo, e subendo a sua volta l’espropriazione del caos medesimo. “3. Adesso, finalmente, si comincia ad aprire il cerchio, lo si apre, si lascia entrare qualcuno, si chiama qualcuno, oppure si esce, ci si getta verso l’esterno.
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Non si apre il cerchio dal lato sul quale si accalcano le antiche forze del caos, ma in un’altra regione, creata dal cerchio stesso. (…) Ci si lancia, si rischia un’improvvisazione. Ma improvvisare è raggiungere il Mondo o confondersi con esso. Si esce di casa al suono di una canzonetta. Sulle linee motrici, gestuali, sonore che indicano il percorso abituale di un bambino, s’innestano o iniziano a germogliare delle ‘linee di erranza’, con anelli, nodi, velocità, movimenti, gesti e sonorità differenti” (ivi, p. 440). Il senso non consiste soltanto o non consiste affatto nel semplice “salto” nel centro o nella tracciatura di uno spazio, un territorio che delimiti un interno da un esterno caotico. Anzi, l’irrigidimento in tali condizioni segna al contrario un’istanza dispotica e sostanzialmente insensata, dal momento che il senso è in se stesso un flusso e un divenire. Ecco invece che il territorio concluso si apre, “ci si getta verso l’esterno” lungo “linee di erranza” che naturalmente deviano, declinano, allontanano e improvvisano, ma sempre seguendo una determinata “andatura”. “Non sono tre momenti successivi in un’evoluzione. Sono tre aspetti di una sola, una stessa cosa, il Ritornello. Si possono ritrovare nelle fiabe o nei racconti del terrore, e anche nei lieder. Il ritornello presenta i tre aspetti, li rende simultanei o li confonde: a volte, altre volte, altre volte ancora. A volte, il caos è un immenso buco nero, e si cerca di fissarvi un punto fragile come centro. Altre volte si organizza attorno il punto un’‘andatura’ (più che una forma) stabile e calma: il buco nero è divenuto una dimora. Altre volte ancora, su quest’andatura, s’innesca una fuga, fuori dal buco nero. (…) Si è spesso sottolineato il ruolo del ritornello: è territoriale, è un concatenamento territoriale. I canti degli uccelli: l’uccello che canta delimita così il suo territorio…Anche i modi greci, i ritmi indù, sono territoriali, provinciali, regionali. (…) E a volte si va dal caos a una soglia di concatenamento territoriale: componenti direzionali, infraconcatenamento. A volte si organizza il concatenamento: componenti dimensionali, intraconcatenamento. A volte si esce dal concatenamento territoriale, verso altri concatenamenti o ancora altrove: interconcatenamento, componenti di passaggio o anche di fuga. E le tre cose insieme” (ivi, pp. 440-441). Deleuze-Guattari utilizzano significativamente una metaforica musicale; diciamo significativamente poiché essa rilancia all’interno di questa figura una dimensione temporale che altrove i due filosofi francesi sembravano aver lateralizzato, pur dimostrando in vari segmenti del loro pensiero tracce eminentemente bergsoniane. Il filosofo francolituano V. Jankélévitch, infatti, evidenzia come la musica nella sua struttura ontologica sia articolata temporalmente; e lo stesso Husserl,
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quando deve analizzare fenomenologicamente la coscienza interna del tempo, prende in esame — come abbiamo visto — proprio il suono. Nel ritornello deleuze-guattariano s’ insinua tuttavia un elemento paradossale: la nenia canticchiata che rassicura l’infante, oltre al suo indubbio effetto ipnotico, sembra articolare una particolare imitatio del “reale”. Nella ripetizione ossessiva, così come nell’audace tangenza nei confronti dell’impossibilità, il ritornello diviene una sorta di mimesi, simile a quella narratologica evidenziata da Ricoeur. In questo modo, il “concetto” è ritornellizzante, cioè diviene paradossalmente un “misto” ipnotico che intrattiene un rapporto occulto con il reale, nella misura in cui lo imita; e, nello stesso modo, anche la filosofia “non è altro che una specie di Sprachgesang cosmico” (ivi, p. 31). In altri termini il senso può essere ciò che è soltanto relazionandosi intrinsecamente al non-senso, ed essendo esso stesso insensato, a nuova conferma del nostro grafo: S=S/~S; S0~S. Il ritornello medesimo costituisce già una forma di “controllo” o “chiusura” all’interno o nella nicchia insulare che separa il senso dal non-senso: la musica in se stessa come flusso in-sensato del reale o come limite (7&$,!-) minimale che contempera il senso e il non-senso nella loro lotta, rappresenta già nei confronti della ripetizione della canzonetta una zona di debordamento e di slittamento. Il ritornello insomma si articola in un “Fuori” musicale che è già in parte addomesticato, ma che è ancora insensato e allotrio; di contro, esso è pure nella sua essenza musicale, ossia è un pezzo del reale, una paradossale extimità. Ma ciò che Deleuze-Guattari introducono quasi surrettiziamente a questo punto, è un inatteso plesso spazio-temporale: il ritornello è nella sua essenza territorializzante nei confronti della Musica deterritorializzante. “Non diciamo affatto che il ritornello è l’origine della musica o che la musica nasce con esso. Non si sa bene quando nasce la musica. Il ritornello sarebbe piuttosto un mezzo di impedire, di scongiurare la musica o di farne a meno. Ma la musica esiste perché anche il ritornello esiste, perché la musica si impadronisce del ritornello (…). La musica è l’operazione attiva, creatrice, che consiste nel deterritorializzare il ritornello. Mentre il ritornello è essenzialmente territoriale, territorializzante o riterritorializzante (…)” (ivi, pp. 415-416). Parlare di territorio significa introdurre nell’argomentazione un’istanza eticoantropologica o, in modo più complesso, un’istanza etico-etologica. L’uomo è un animale territoriale e la sua esistenza è volta alla continua tracciatura di confini e all’inesausto lavorìo di “marcatura”. I segni che l’animale-uomo rilascia ovunque sono innanzitutto “costruzioni”, le opere di “chiusura” che lo difendono dal Fuori; l’Ort heideggeriano
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che istituisce uno spazio sgomberando è comprensibile proprio in quest’ottica territorializzante in cui il soggetto sottrae dei luoghi alla Terra, per ivi dimorarvi nella rassicurazione di un’esistenza di serra. Il simbolico in se stesso non sarebbe che un enorme meccanismo territorializzante, in grado di ampliare a dismisura le nostre abitazioni, facendo del globo terrestre e dello spazio cosmico qualcosa di nominabile e pertanto qualcosa di marcato. Ciò tuttavia che Heidegger e, dopo di lui e con diverso linguaggio, Deleuze-Guattari hanno cercato di articolare è l’instabilità necessaria di questa territorializzazione: la motilità heideggeriana, il nomadismo deleuze-guattariano ci indicano come ogni tracciatura del territorio sia costitutivamente aperta al Fuori e istituisca essa stessa l’orizzonte della deterritorializzazione, l’esser-rapito-verso delle estasi temporali. Per tali ragioni l’animale territoriale “uomo” è spinto verso sempre più ampie territorializzazioni (Sloterdijk, 2001b), sia in senso puramente topologico e geografico, sia nel senso isomorfo del simbolico. Il ritornello diviene dunque questo movimento originario, il continuo percorso circolare dell’animale che traccia simbolicamente il proprio spazioserra pur trovandosi in un’altra dimensione, come se fosse sopraelevato, talché, proprio in siffatto gesto finzionale, l’uomo si apre al rischio del debordamento e del naufragio. Esso territorializza, cioè ha a che fare con la terra e con lo spazio (o con la musica), nella misura in cui spazio, tempo e musica sono in se stesse già delle forme di territorializzazione o tracciatura (destinate anch’esse, e più originariamente, allo scivolamento nel non-senso) e nello stesso tempo “aperture” verso l’abisso. Ora, definiamo il conatus primigenio dell’uomo verso la territorializzazione padronanza; all’opposto, chiamiamo l’istanza deterritorializzante che le è co-originaria non-padronanza. Come abbiamo già sottolineato precedentemente, non si tratta di inoculare la dimensione etologico-antropologica all’interno di un’argomentazione filosofica per trarne delle conclusioni necessariamente inficiate da tale presupposto. Si tratta semmai di guadagnare un ambito più orginario in cui lo specifico ontologico dell’uomo divengono il senso e gli spazi annessi e sempre più ampi di non-senso. La padronanza non è che un altro modo per definire il senso e il suo funzionamento: la storia dell’ontologia come privilegiamento dell’essere in quanto signifiant-Maître, la metafisica della semplice-presenza dell’ente manipolabile e controllabile, la religione, la tecnica e le scienze sono spiegabili attraverso questo processo di allargamento della padronanza mercè la territorializzazione del senso. Tuttavia, man mano queste antropotecniche si estendono e allargano i confini insulari dell’ambiente umano, esse vengono erose al proprio
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interno, così come all’esterno: sia “qui” che “là” il soggetto ritrova davanti al naso esattamente l’opposto di ciò che si aspettava e si rende conto del carattere provvisorio e ambivalente della sua territorializzazione. Esprimendo tale situazione ricorrendo alla sua isomorfia con la struttura del senso, possiamo così schematizzarla logicamente: P=P/~P @(P/~P) (P=~P) @P=@P P0~P La padronanza si costituisce non senza un certo rapporto con la nonpadronanza: ciò significa che per mantenere una certa famigliarità e sicurezza nei confronti d’un ambiente estraneo e allotrio, è paradossalmente necessaria un’imbricazione con l’estraneità e con l’Altro. Se invece ci illudiamo di poter conseguire una padronanza assoluta, sicura di se stessa e infinitamente estendibile, ci troviamo innanzi al paradosso dell’inversione dei termini: quantopiù ci convinciamo d’essere i padroni assoluti e inconcussi, tantopiù perderemo qualsiasi possibilità di esercitare la nostra padronanza e anzi ci ritroveremo in completa balìa dell’altro (la dialettica servo-padrone di Hegel), donde il significato dell’espressione ~(P/~P) (P=~P), cioè la padronanza, se resa assoluta e irrelata, si involge sistematicamente nel proprio contrario. In effetti ciò avviene, sotto certi aspetti, perché la non-padronanza è “fondativa” (nel senso abgründig di Heidegger, senso peraltro tutto da pensare) rispetto alla padronanza. Il padrone non è né padrone di se stesso, né può esserlo del servo che lavora in vece sua: ovunque insomma aleggia la non-padronanza o, se vogliamo, un tanto di reale intaccato dal simbolico.
2.1.6 La sferologia Abbiamo già sorvolato il pensiero del filosofo tedesco Sloterdijk, allievo di A. Gehlen e J. Habermas, soprattutto per quanto riguarda la sua originale rilettura della filosofia di Heidegger (lettura che sembra procedere sulla via dell’“urbanizzazione” della provincia heideggeriana, peraltro già perseguita — a detta dello stesso Habermas — da H.G. Gadamer). Tralasciando l’impianto generale della sua filosofia che a nostro avviso — lo abbiamo sopra evidenziato — manifesta una debolezza strutturale non indifferente, ci preme ciò nondimento sottolineare una certa consentaneità con le posizioni espresse da DeleuzeGuattari. C’è un lieve spostamento terminologico, ma l’idea di fondo è quella antropologica di un uomo territoriale che si difende dal Fuori
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con strategie evolutivamente sempre più complesse e sviluppate. Le varie definizioni via via storicamente conferite all’uomo sembrano in effetti disporsi lungo questa precisa linea evolutiva: l’homo faber, l’homo technologicus, l’homo ludens, l’homo sapiens, l’homo sapiens sapiens, ovvero l’uomo che “fa”, l’uomo che “prende le distanze dalla realtà”, l’uomo che “gioca”, l’uomo che “pensa”, l’uomo che “organizza il proprio pensiero”. “Gli uomini sono degli esseri-viventi che non vengono al mondo, bensì alla serra, certo una serra che per loro significa il mondo. In ogni caso si può sempre leggere ciò che il tardo Heidegger ha detto sulla ‘contrada’ e sull’abitare, come la riscoperta di questo originario insieme delle abitazioni” (Sloterdijk, 2001a, p. 150). Sloterdijk sviluppa così una teoria in parte tratta dalla paleontologia, in parte desunta dall’etologia, graduando i passaggi evolutivi che hanno definito l’uomo così come lo conosciamo: in primo luogo emerge il cosiddetto meccanismo di insulazione (ivi, p. 139) che consiste, all’interno di una comunità di animali, nel costruire dei confini viventi come quello tra la madre con i suoi piccoli e il branco. Questa prima forma di serra intraspecifica, nel caso dell’uomo viene radicalizzata in tal modo da estenuare il principio dell’infanzia estendendolo a dismisura. Il secondo principio antropologico di Sloterdijk è infatti la neotenia, cioè la “progressiva infantilizzazione delle forme corporee” (ibidem) che deriva da un maternage sempre più prolungato e da un “ambiente” che ripropone delle forme intrauterine, come se l’uomo vivesse per tutta la sua esistenza all’interno del ventre materno. Il terzo principio è legato sia all’homo faber che all’homo technologicus: di contro all’infantilizzazione progressiva, l’uomo è costretto a instaurare ulteriori barriere difensive nei confronti della realtà. Se infatti la neotenia gli garantisce una maggiore plasticità adattiva (ivi, p. 140), essa tuttavia espone l’uomo a grandi rischi e lo spinge a prendere le distanze dai contatti esterni. Ma “mentre la fuga è l’evitamento negativo nei confronti dei contatti corporei indesiderati, la tecnica della pietra produce un evitamento positivo, che si trasforma in un potere” (ivi, p. 143). La tecnica primitiva diviene uno strumento che Heidegger definirebbe dis-allontanante: essa emancipa l’uomo dalla rischiosa materialità del contatto con il mondo esterno, ma gli conferisce un nuovo potere, cioè il controllo mediato dell’intero mondo. Attraverso il quarto principio della trasposizione arriviamo così all’uso del linguaggio, che costituisce una sorta di climatizzazione ambientale: “l’insieme delle abitazioni è un’incubatrice aperta, che può venire costruita e mantenuta solo attraverso l’introduzione di rozzi mezzi tecnici per la presa di distanza dall’ambiente. Ma solo dei mezzi tecnici
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sofisticati, di tipo comunicativo e simbolico, i media in senso stretto, sono capaci di ordinare e climatizzare lo spazio interno così prodotto” (ivi, p. 155). È attraverso questo processo di trasposizione e simbolizzazione che la territorializzazione deleuze-guattariana si compie definitavemente: ma che ne è, per Sloterdijk, della deterritorializzazione? E come spiegare la dimensione della temporalità, prescidendone in modo radicale e restando legato ad una prospettiva sostanzialmente topologica? Non abbiamo introdotto la questione spazio-temporale a caso: essa assilla Sloterdijk continuamente, poiché la sua scelta topologica sembra arrecare alla propria teoria un vulnus abbastanza evidente e mai del tutto richiuso. L’uomo controlla l’esterno e si difende da esso puramente in termini di spazio e di espansione territoriale: “conquistabile è soltanto ciò che è riducibile a una dimensione” (Sloterdijk, 2001b, p. 103). L’abitare heideggeriano che, attraverso il Geviert ci conduce alla dimensione temporale dell’evento, diviene per Sloterdijk l’essere specifico dell’uomo in quanto quell’essente che espande in maniera incrementale l’abitabilità della terra: “l’abitare originario ha degli effetti di allevamento sugli abitanti mentre trascina i locali gene flows verso forme possibili che riescono fisiologicamente bene nelle serre, e sono possibili però solo all’interno di una serra locale” (Sloterdijk, 2001a, p. 156). Lo specifico dell’uomo è l’insularità, però coniugata con l’estaticità, cioè l’estensione — attraverso livelli concentrici via via più ampi di incubazione e di serra — dei propri confini territoriali. L’uomo neotenico non può difendersi se non ampliando la territorializzazione e ciò attraverso un ritmo di incubazione-apertura continua: “le caratteristiche dell’’insieme dei modi dell’abitare’ umani che simulano la condizione intrauterina, si estendono agli adolescenti e agli adulti del gruppo e liberano anche in essi le tendenze a ritardare le forme mature” (ivi, p. 151). Il tempo si inserisce a questo livello dapprima come “ritardo” dello sviluppo, secondariamente come mantenimento infantile del proprio “esser-viziati”. “Ciò che Heidegger chiama ‘la cura’ è l’autoassicurazione di questa condizione viziata. Il feed-back diventa necessario poiché l’improbabilità della situazione lussureggiante dà vita a un senso di pericolo, e tale situazione diventa possibile solo perché all’animale viziato, ‘l’uomo in fieri’ con il suo cervello ad alta prestazione, con le sue innate qualità di lanciatore, e con la sua mano quasi universale, vengono dati i mezzi per la difesa della sua condizione viziata” (ivi, p. 152). Il tempo insorge laddove la serra protettiva, ciò nonostante, si apre ad un accrescimento di realtà (ivi, p. 162), ma la strategia difensiva trasla necessariamente su di un piano spaziale, attraverso i
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meccanismi dell’abitudine e della trasposizione. Nell’abitudine risuona l’habitus e, dunque, l’habitare: attraverso il mito, il rituale e la religione assistiamo a una “stabilizzazione” dell’apertura del mondo (ibidem), nella misura in cui l’estraneo orripilante viene maneggiato e addomesticato attraverso la “ripetizione”. Nella trasposizione invece, tipica dei meccanismi simbolici, l’estraneo viene ricondotto al passato, diviene un “già-avvenuto” che ha perso ogni carica negativa: con il linguaggio, “gli uomini navigano negli spazi della similitudine” poiché esso “‘avvicina’ l’estraneo e lo spaesante includendoli in una sfera abitabile, comprensibile, foderata di empatia” (ivi, p. 165). La verità è allora essenzialmente ctonia, cioè dis-velamento nella misura in cui il Fuori estraneo è temporale e la sfera conosciuta e addomesticata è puramente spaziale (Sloterdijk, 2001b, p. 85). Ma il destino di questa sfera o insieme sferologico, è di ampliarsi progressivamente, come dimostrarono le scoperte geografiche dei secoli scorsi e le conseguenti colonizzazioni, e come ce lo evidenzia oggi icasticamente lo sviluppo parossistico della tecnica o, come la definisce Sloterdijk, l’antropotecnica. La sfera è una figura geometrica particolare che ricorda soprattutto la forma uterina: l’uomo a cagione della sua immaturità costitutiva è immerso in una serie di sfere placentari che fungono da “mondo”. Grazie ai meccanismi traspositivi del linguaggio e all’antropotecnica, ogni irruzione del Fuori viene compensata da un’estensione sferica, cioè essa viene elusa attraverso un accrescimento topologico che non è necessariamente un accrescimento metrico. L’animale-uomo è in questo senso un animale estensivo-orizzontale: il reale lacaniano viene tenuto a distanza, “abitudinarizzato”, trasposto simbolicamente. È come se Lacan ci dicesse che esso è stato definitivamente controllato dalla magìa onnicomprensiva del grande Altro e dell’immaginario, cosa peraltro tipica della psicosi nella quale i confini tra i tre registri — simbolico, immaginario e reale — non sono affatto distinti e distinguibili. Lo stesso utilizzo di Sloterdijk del termine heideggeriano di Lichtung marca soprattutto l’aspetto topologico-ctonio della “radura” e non certo il gioco di luci ed ombre, dell’offrirsi alla comprensione attraverso il serbante celarsi dei misteri del bosco. Il bosco può essere infatti ciò che preserva e protegge, ma anche il luogo delle fiere, il pericolo tout court: per Sloterdijk, “la Lichtung però, come ora sappiamo, non è pensabile senza la sua origine tecnogena. L’uomo non se ne sta a mani vuote nella Lichtung, non se ne sta lì come un custode vigile privo di mezzi, accanto al suo gregge, come suggeriscono le metafore pastorali di Heidegger. Dispone di pietre e di derivati della pietra, di strumenti e di armi: ciò che diviene è condizio-
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nato da ciò che ha in mano. L’humanitas dipende dallo stato della tecnica” (Sloterdijk, 2001a, pp. 176-177). In altre parole, la padronanza non risulta “primaria” ma in quanto plesso sapere-potere deriva dalla necessità umana di proteggere la propria sfera uterina, estendendola sempre più in senso orizzontale: tale padronanza dunque è compensata da una non-padronanza certamente infinita, ma collocabile sempre come un là-fuori, cioè secondo circostanze topologiche ben precise. Le grandi scoperte scientifiche, così come le espansioni coloniali o la cosiddetta globalizzazione, sono tutte tecniche equiparabili al linguaggio, alla religione, a un più generico abitare. Sloterdijk vuole arrivare là donde Heidegger era partito, cioè a una caratterizzazione genealogica e sferologica della Lichtung, ma in tale approccio opera a sua volta una trasposizione di tipo “metafisico”: ovvero colloca la "# $ %# come un Gegenstand, come un og-getto non ancora conosciuto, ma addomesticabile con le tecniche simboliche e linguistiche. E questa mossa non può non avere altro contrappasso che l’enfasi topologica e un’evidente esclusione della questione della temporalità, secondo una lettura di Heidegger che a nostro avviso sembra caratterizzarsi in modo molto più complesso. Vediamo dunque nella nostra formalizzazione logica del senso — cui più avanti ricondurremo il problema spazio-temporale — fin dove Sloterdijk si è spinto e che cosa ha sacrificato: S=S/~S ~(S/~S) (S=~S) ~S=~S S0~S Potremmo considerare la S come una “sfera”: la concezione del senso di Sloterdijk, infatti, appare sferologica, cioè come un sistema di addomesticamento e difesa nei confronti di un Fuori o ~S insensato. Ora, è certo che si mantenga una certa ibridazione tra lo sferico e il Fuori: quest’ultimo preme continuamente e l’uomo è da parte sua costretto a preservarsi attraverso il progressivo incremento dei propri orizzonti sferici. Lo sviluppo simbolico e antropotecnico è stato reso possibile soltanto grazie a questo processo espansivo di “dis-allontanamento” (Entfernung) nel quale il “lontano” viene riconosciuto e mantenuto nella sua coessenzialità. Ecco dunque che viene confermata anche la seconda tesi: se l’uomo non avesse dovuto storicamente affrontare livelli via via più pericolosi di ~S, probabilmente non sarebbe stato capace di erigere il suo sistema sferico e con una certa probabilità non si sarebbe adattato alle condizioni ambientali continuamente cangianti. La terza proposizione è più problematica poiché, al di là di una sem-
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plice tautologia, vorrebbe mettere in luce il paradosso del Selbe heideggeriano, cioè di una “stessità” nonostante la differenza: per Sloterdijk, invece, questa rimane una semplice espressione del principio di identità, cioè ogni simbolo è uguale a se stesso. La fuori-sfera, il non-sferico temporale rimane identico e rimane comunque sempre un “fuori” senza possibilità di intimità o extimità. Questa deficienza emerge ancora più chiaramente nella quarta proposizione che, assieme alla prima, è fondamentale per il medesimo pensiero heideggeriano cui Sloterdijk spesso si richiama: S0~S, la sfera è inclusa nella non-sfera, cioè essa di fatto “non è” — più o meno propriamente — una sfera. “Il mondo prende forma come un insieme di evidenza e mascheramento. Esso non è la semplice somma di tutti i corpi o contenuti (‘tutto quello che si dà’), bensì è l’orizzonte degli orizzonti, nel quale ciò che ora è presente si separa da ciò che ora è nascosto” (ivi, p. 161). L’orizzonte è sferico e il non-senso o reale si dà come non-ancora-conosciuto, cioè secondo un’accezione metafisica del concetto di verità. Sostenere invece la possibile non-sfericità della sfera significherebbe da un lato evidenziarne il carattere finzionale, e dall’altro sottolineare il carattere di extimità del Fuori, cioè il suo paradossale essere-dentro. Questo dimensionamento abissale, che emerge soprattutto in un contesto psicanalitico, viene glissato da Sloterdijk a favore di una sorta di “messa in piano” topologica della questione, ma con ciò stesso evitando abbastanza sintomaticamente la questione della temporalità ridotta a fattore esistenziale.
2)2 2ogi&a $'+ t'mpo ' t'mpo $'++a +ogi&a 2.2.1 L’esclusione logica della temporalità Abbiamo fatto un breve cenno alla teoria echologica del senso, introducendo una formalizzazione logica che utilizzeremo spesso anche in seguito. Le analisi del ritornello deleuze-guattariano e i rapidi cenni alla sferologia di Sloterdijk hanno rivestito una sorta di funzioneponte, cioè hanno riportato il nostro focus sulla questione spazio-temporale. In entrambi i casi, infatti, il senso è stato associato a una dimensione originaria della padronanza e della non-padronanza: il senso può così esser inteso come un meccanismo di territorializzazione dell’animale-uomo teso a mantenere delle condizioni abitative confortevoli e a scongiurare i rischi provenienti dal Fuori.
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In tale prospettiva dovremmo parlare propriamente di un homo topologicus, prima ancora che d’un homo faber, homo sapiens, etc., ma lo spazio, soprattutto nel ritornello di Deleuze-Guattari, pare necessariamente infistolato da una dimensione temporale che ripresenta inequivocabilmente i caratteri del reale lacaniano: l’impossibilità (non-padronanza) e la ripetizione infinita. In altri termini, lo spazio e il tempo costituiscono una sorta di banda di oscillazione tra territorializzazione e deterritorializzazione, cioè lo spazio non cessa di temporalizzarsi nella misura in cui ogni sfera necessariamente si apre all’evento del Fuori, e il tempo non cessa di spazializzarsi nella misura in cui l’abitudine rende indifferente l’ora e ripetibile l’evento stesso. Questo plesso o, meglio, questo chiasmo emerso nell’approfondimento della riflessione heideggeriana, viene invece sfumato in Sloterdijk in una semplice contrapposizione, come se il tempo fosse il Fuori continuamente respinto dall’espansione spaziale dell’uomo. Nella sfera l’Esserci controlla il proprio Ci, lo rende domestico e famigliare: per Heidegger al contrario il Ci diviene preponderante e assorbe nel vero senso della parola il soggetto. Dire che l’Esserci ha-da-essere la propria apertura, significa dire che l’uomo è paradossalmente una parte di se stesso, ove questa parte diviene infinita e abissalmente estranea: a differenza di Sloterdijk, che la respinge, Heidegger assume quale volano della sua filosofia proprio l’espressione logica S0~S: il senso è incluso nel non-senso, cioè ogni senso per certi aspetti è parte del non-senso, è insensato. La nostra tesi dunque è che la logica costituisce una sorta di territorializzazione difensiva, e che tale statuto è a sua volta necessariamente imbricato alla temporalità. In altre parole, è attraverso il "($)(- che lo spazio-tempo affiora dal suo limbo di implicitezza, presentandosi nella sua valenza di indice di esternità e di precarietà. Ma che correlazione possiamo trovare tra logica e tempo, se la logica è da sempre apparsa come qualcosa di assolutamente intemporale, al di là delle cosiddette logiche modali? Le leggi sintattico-formali della logica non sono forse immutabili e imprescindibili, quell’’!&ì(* che deve soggiacere quale implicito presupposto di ogni nostra argomentazione? Se partiamo dal noto principio di contraddizione così come emerge dalla logica aristotelica notiamo tuttavia come la parola “tempo” faccia la propria comparsa essenziale e imprescindibile: 1) “è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto” (Met., A 3, 1005 b 19-20); 2) “è impossibile essere e non essere ad un tempo” (Met., B 2, 996 b 30);
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3) “non è dunque possibile che sia vero, ad un tempo, il dire della stessa cosa che è un uomo e che non è un uomo (oppure un essere animato, bipede)” (Met., A4, 1006 b 28-34). Ma ancora più significativamente: “noi abbiamo appena stabilito che è impossibile che una cosa ci sia e non ci sia allo stesso tempo, e in base a tale impossibilità abbiamo dimostrato che questo è il più saldo di tutti i principi. Volete le prove? Non ce ne sono! È infatti un segno d’ignoranza il non sapere distinguere tra cosa esige una dimostrazione e cosa non lo esige. Infatti, è impossibile che si dia dimostrazione di tutte quante le cose, altrimenti si andrebbe all’infinito e così non si produrrebbe alcuna dimostrazione. Tuttavia se ci tenete tanto alle prove, allora sì che ne abbiamo, ma non sono le solite, bensì sono le prove ‘elenctiche’. Provi qualcuno a dire una sola parola! Se però non dicesse nulla, allora sarebbe ridicolo discutere con lui: sarebbe come parlare a un albero” (Met., A 4, 1006 a 3-15). In quest’ultime righe della Metafisica Aristotele dimostra tutto il suo imbarazzo: da un lato introduce l’orizzonte temporale quale sfondo del principio fondamentale di tutta la sua logica e che riguarda dappresso proprio lo stesso processo di “simbolizzazione”; dall’altro palesa un certo fastidio, come se alla fine tale principio non abbisognasse d’essere dimostrato poiché così evidente ed essenziale da dover essere accettato apriori. L’elemento tuttavia che ci pare determinante è proprio l’inserzione del tempo nell’ambito del processo primario della costituzione della logica simbolica e la sua successiva sparizione: quando assegnamo dei simboli a degli oggetti o quando “poniamo” questi simboli tout court astraendo da qualsiasi circostanza empirica, dobbiamo nostro malgrado riferirci a una precisa determinazione temporale. Un simbolo non può essere se stesso e un altro nel medesimo tempo: Aristotele non esclude la dimensione empirica del divenire, ma fissa la riflessione logica congelandola a un “ora” eternizzato. Quando argomentiamo sul metodo del ragionamento corretto, dunque, dobbiamo innanzitutto collocarci in un mondo platonico, dove il tempo, comunque articolato in un prima-poi, viene per così dire sospeso. In altre parole, se per lo Stagirita il tempo era legato al movimento e, quindi, al divenire eracliteo, quando egli parla di logica deve necessariamente cedere a Parmenide e, parzialmente, sconfessare un po’ tutta la sua metafisica centrata sul “sinolo”. O meglio, riguardando tale cicostanza con occhi heideggeriani, emerge in maniera evidente come già nel pensiero aristotelico l’essere si offra come semplice-presenza, ovvero come l’(64'!
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utilizzabile e zuhanden. Ciò significa che Aristotele è costretto ad escludere l’essere potenziale e a riferirsi esclusivamente a un’improbabile attualità assoluta: “il principio di contraddizione riguarda solo degli enti attuali”, cioè concerne quegli enti che non posseggono quell’alone di indeterminatezza che connota l’essere in potenza (Met., A 4, 1007 b 28-29). L’esclusione del tempo tradisce in questo senso la struttura originaria del "()(s greco, inteso come il “lasciar stare dinanzi raccolto” (Heidegger, 1954, p. 155): eternizzando l’atto istitutivo della simbolizzazione, l’uomo compie la prima grande approssimazione nei confronti del reale e inizia così a tracciare intorno a sé quella sfera tecnico-culturale o “antropotecnica” che lo isolerà sempre di più dal mondo esterno. “Gli oggetti della percezione in quanto enti potenziali potrebbero possedere nello stesso tempo caratteri contrari e quindi anche contraddittori. (…) Ora, è facile capire perché Aristotele, nelle sue prove, sposti il punto di vista iniziale, sforzandosi di dimostrare la tesi che accanto alle cose contraddittorie deve tuttavia esistere una verità assoluta e non contraddittoria” Lukasiewicz, 1910, p. 85). In altre parole, egli oscilla continuamente da un piano logico-ontologico a un piano psicologico, per affermare alla fine un significato puramente metafisico (ivi, p. 87). Ma è possibile — ci chiediamo allora — un processo di istituzione della simbolizzazione logica senza prescindere dalla fissazione del divenire temporale? Esiste una logica pura nella quale il divenire assuma un ruolo determinante e dove il principio di contraddizione perda il suo ruolo fondante e originario? Sono interrogazioni che convocano un approccio perlopiù fenomenologico, che imporrebbe un’indagine simile a quella husserliana delle Ricerche logiche, con il rischio implicito di scadere nello psicologismo.: “la Struttura può funzionare solo attraverso l’occultamento della violenza del suo Evento fondante, però la narrazione stessa di questo Evento, in definitiva, non è niente altro che una fantasia destinata a risolvere l’antagonismo/incongruenza che debilita l’Ordine sincronico/strutturante” (Zizek, 2000, p. 97). L’evento contraddittorio della “posizione” del simbolo logico, la sua “esistentificazione” per dirla con Leibniz, implica da un lato l’impossibilità di nominare l’evento stesso, dall’altra la caratterizzazione della medesima logica quale tentativo incessante e deficitario di descrivere e narrare questa medesima impossibilità (Badiou, 1988, p. 186). Questo doppio movimento (esclusione dell’evento e narrazione compensatoria e fantasmatica) — al di là di ogni istanza psicologistico-fenomenologica — traspare in taluni decorsi della stessa evoluzione contemporanea della logica e, più precisamente,
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nell’emersione perentoria di sempre ulteriori istanze contestuali che sembrano reimportare, in una specie di rebound inatteso, ciò che era stato perliminarmente escluso. Bisogna in tal senso ricorrere a un altro livello logico che pertiene propriamente alla semantica, cioè al “riempimento” di senso degli enunciati logici: tale passaggio implica uno spostamento dal livello puramente sintattico-formale a una logica delle condizioni di verità di tipo wittgensteiniano: “comprendere una proposizione vuol dire sapere che accade se essa è vera” (Wittgenstein, Tractatus, 4.024), cioè “significa” rimandare al suo “significato”. Questa tesi non neutralizza d’altronde del tutto la questione dell’istituzione simbolica; anzi, la logica di Tarski riesce a collegare questo momento proprio alle condizioni di verità, introducendo il concetto di metalinguaggio. Una proposizione non è mai vera in assoluto, ma deve rimandare a uno o più metalinguaggi che danno senso ai propri simboli: per stabilire la verità di un enunciato si deve quindi ricorrere a una serie di funzioni interpretative o assegnazioni e domini di applicazione. “Si tratta di far sì che il nostro linguaggio formale L parli di un certo mondo o universo strutturato di enti; e poi di stabilire sotto quali condizioni una certa formula di L è vera in quell’universo di discorso. È chiaro infatti che, in questa prospettiva, parleremo di verità o falsità in relazione a un certo universo del discorso, in cui il linguaggio L viene interpretato” (Berto, 2007, p. 161). Formalizzando questa struttura logica, Tarski individua una serie di simboli, di costanti e di variabili logiche; successivamente definisce un modello, che è sostanzialmente composto da un dominio e da una funzione di interpretazione che assegna a ogni costante non logica una denotazione. Per quanto riguarda le variabili, esse vengono associate al dominio da un’ulteriore funzione di assegnazione. Se M è il modello con il dominio D e le funzioni di assegnazione per le costanti F e per le variabili g(z) allora la formula tarskiana diviene: [z]M,g = g(z) per ogni variabile individuale z; [a]M,g = F(a) per ogni costante individuale a; [Pn]M,g = F(Pn) per ogni costante predicativa Pn. Ciò che importa a Tarski è proprio l’evento della simbolizzazione, ovvero dell’assegnazione denotativa, cosicché “una formula è vera in un modello M se è vera rispetto a tutte le assegnazioni di quel modello” (Bonomi-Zucchi, 2001, p. 25). La verità non deriva da condizioni intrinseche, ma dalle condizioni di attribuzione delle costanti e variabili logiche, dal dominio e dalle funzioni che legano tra di loro costanti e variabili a questo stesso dominio. Il che significa — come dimostra
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Gödel proprio partendo da un modello logico similare a quello tarskiano — che non è possibile un linguaggio completamente autonomo (cioè in grado di dimostrare la propria “completezza”), ma è necessario sempre un metalinguaggio: “la conclusione tarskiana è che il predicato di verità per un linguaggio L non deve essere esprimibile entro lo stesso linguaggio L (...). Per questo occorrerà un metalinguaggio L2 nel quale possiamo parlare dei concetti semantici riguardanti L1, e definire la verità in L1. A loro volta i concetti semantici per L2 saranno inesprimibili in L2, e occorrerà un metametalinguaggio L3, ..., etc.. Una conseguenza di questa situazione e di questa gerarchia di metalinguaggi è che una caratterizzazione universale della verità è impossibile” (Berto, 2007, p. 172). Il metalinguaggio, d’altronde, serve a collegare una serie di simboli logici a un generico “fuori” o, più tecnicamente, a un contesto. Le funzioni di assegnazione di Tarski, in effetti, ci dicono che sussistono delle circostanze di interpretazione che sono necessarie per qualsiasi valutazione di una proposizione: “certe caratteristiche o situazioni del mondo (come per esempio chi è il parlante, qual è il luogo o il tempo in cui si parla, etc.) rappresentano il contesto d’emissione di un enunciato, che serve a fissare il contenuto espresso, certe altre caratteristiche o situazioni (...), rappresentano circostanze di valutazione, che permettono di attribuire un valore di verità a quel contenuto” (Bonomi-Zucchi, 2001, p. 29). Con-testo significa che qualcosa si congiunge al testo, che c’è un altro testo; circum-stanza, significa che c’è topologicamente un “intorno” proposizionale che rende vera o “decidibile” la proposizione stessa. Orbene, questo intorno individua dei mondi possibili, cioè una serie di possibilità delle quali soltanto una può essere vera in determinate circostanze. Una logica della temporalità si inserisce a questo livello, cioè pertiene necessariamente al livello contestuale e circostanziale della logica semantica, e si connette a una logica modale: quando valutiamo una formula la valutiamo innanzitutto in base alla sua denotazione (e quindi all’applicazione dei significati a un determinato dominio di oggetti) e, secondariamente, al suo contenuto di verità (le relazioni, espresse da una formula Pn in un linguaggio L, tra gli oggetti di un determinato dominio D, a loro volta denotati secondo le funzioni di interpretazione F, sono vere in L e in D?). Ma nell’ambito di queste valutazioni semantiche che si rifanno a contesti, universi di discorso e circostanze non può essere eluso il tempo t, né tantomeno il decorso possibile di even-
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ti che ne consegue. Riprendendo la formalizzazione tarskiana, dunque, un enunciato si compone anche di un insieme W dei tempi (istanti e intervalli) con un operatore < (prima, dopo) e da un insieme P delle possibilità correlate. In quest’ottica, il tempo assume un ruolo quasi trascendentale, poiché si dà per scontato che esso si articoli necessariamente come un vettore che si sposta dal passato al futuro: ciò implica paradossalmente l’ingredienza surrettizia di un fattore psicologistico sotto le vesti apparenti della logica formale, con tutti i rischi che una nuova Weltanschauung (come quella della relatività generale di Einstein, ad esempio, o quella degli universi “rotanti” o detti “universi di Gödel”) possa all’improvviso incrinare tutto il sistema. Tralasciando tuttavia quest’obiezione, che si potrebbe rivolgere coeteris paribus al criticismo kantiano e che peraltro si potrebbe generalizzare nella gödeliana dipendenza di ogni linguaggio logico dalle circostanze metalinguistiche, il più importante tentativo di formalizzare logicamente il contesto temporale di valutazione è stato compiuto da Arthur N. Prior, estendendo proprio l’impostazione tarskiana. Si tratta di fatto di un ampliamento delle circostanze di dipendenza di qualsiasi enunciato formale, ossia di una più complessa valutazione delle funzioni di assegnazione. La novità di Prior consiste però nel connettere tra di loro una logica temporale a una logica dei mondi possibili: “ogni istante o intervallo t può essere associato a una pluralità di mondi possibili (...) e, conversamente, ogni mondo possibile w può essere associato a una pluralità di tempi (presente, passato, futuro)” (ivi, p. 40). In questo modo, un mondo possibile viene ricondotto a una storia: il modello prioriano M, oltre al dominio D, implica una funzione F che è una funzione di assegnazione in base al tempo-dominio T che è l’insieme degli istanti e degli intervalli, e un vettore di direzione temporale < che allude dunque a un “decorso”. In altre parole, il valore di verità di un enunciato non dipende soltanto dalla coerenza sintattica della formula, dal dominio e dalle funzioni di assegnazione, ma anche da una determinazione temporale che implica vari decorsi possibili. Proviamo allora a riprendere il principio di contraddizione di Aristotele, che costituisce notoriamente un’espressione logica di tipo sintattico-formale. Essa, tuttavia, ci dice ancora poco nella sua forma “nuda”, poiché onde essere valutata, dev’essere sempre inserita in un certo linguaggio L. Ora, la sua caratteristica è di essere vera a prescindere di qualsiasi assegnazione delle variabili enunciative e viene pertanto definita tautologia. “Le tautologie vengono anche chiamate leggi logico-enunciative” (Berto, 2007, p. 58), poiché esprimono il modo corretto o, meglio, la conditio sine qua non per l’enunciazione di una
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formula in un determinato linguaggio. Ciò significa d’altra parte che esse non dicono nulla intorno a un determinato dominio dell’universo, ma esprimono una pura forma astratta senza contenuto che vale in tutti i mondi possibili. Come abbiamo visto, però, nella formulazione originaria di Aristotele assistiamo alla sorprendente ingredienza del fattore temporale: se è vero che il principio di contraddizione, essendo una tautologia, prescinde dall’universo di discorso in cui si esprime ed è vero in tutti i mondi possibili, è anche vero che ciò è possibile soltanto in un determinato contesto temporale e indicale. La formulazione logica classica del principio è la seguente: F=~(A =~A): essa è vera se è soddisfatta da qualsiasi elemento sostituiamo alla variabile enunciativa A e per qualsiasi dominio d’oggetti donde traiamo l’elemento A. Ogni forma argomentativa deve alla fine condurre a una legge tautologica siffatta, cioè ai principi che regolano l'istituzione simbolica in se stessa, ma se la fase di istituzione simbolica è vera solo e soltanto in base a un dominio temporale limitato all'istante t eternizzato, ciò significa che il principio di contraddizione da un lato astrae da ogni dominio ontologico possibile, ma dall'altro esso stesso deriva da precise circostanze temporali e, quindi, da una logica semantica. Proviamo infatti a concepire A come quell'elemento tale che A=~A in un determinato intervallo t2-t1!0 e tale che t2>t1. Risulta evidente che in una siffatta situazione il principio di contraddizione non può essere valido, nella misura in cui dipende direttamente dalla condizione temporale t2-t1!0, la quale, a nostro avviso, non inerisce soltanto ed esclusivamente al campo semantico, ma ha a che fare direttamente con le circostanze sintattico-formali dell'istituzione simbolica stessa. In altre parole, la struttura sintattico-formale della logica proposizionale, dipende paradossalmente da quelle circostanze contestuali dell'istituzione simbolica che hanno necessariamente a che fare con una logica di tipo prioriano, sebbene ciò non implichi una subordinazione della logica sintattica a quella semantica. Estremizzando il principio di contraddizione è indecidibile, in quanto mancante degli elementi indispensabili per deciderne la falsità o la verità, e in quanto indefinito per quanto riguarda la sua medesima espressione "tipografica". Il tempo sembra così rimanere un fattore latente in logica, non facilmente determinabile ed articolabile: l'impossibilità della nozione semantica di verità di Tarski, così come il teorema di incompletezza di Gödel sembrano rappresentare i due versanti della stessa esclusione della condizione temporale t2-t1!0. Probabilmente per tali ragioni, Aristotele si trova in grande difficoltà nel dimostrare il principio di contraddizione: egli ricorre dapprima
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all’impossibilità del regressus ad infinitum e cioè all’idea di una costruzione assiomatica della logica (L ukasiewicz, 1910, pp. 42-43). Alla fine noi dobbiamo tener ferme una o più proposizioni fondamentali e questo anche a scapito di un’approssimazione originaria: la logica aristotelica diviene una logica senza-tempo o una logica impossibile dell’”adesso”, mentre di fatto il tempo in se stesso diviene di esclusiva pertinenza della fisica. In altri passi, Aristotele ricorre allora a quelle dimostrazioni elenctiche (modus ponens) che altrove aveva invece sconfessato in quanto non sufficientemente e rigorosamente dimostrative; oppure alle cosiddette “dimostrazioni apagogiche” (modus tollens). L’’&$"&)2(s è un sillogismo con conclusione contraddittoria rispetto alla tesi posta. Un simile sillogismo si forma quando l’avversario viene indotto a riconoscere dei giudizi da cui deriva una conseguenza contraddittoria rispetto alla tesi da lui difesa” (ivi, p. 56). Si tratta infatti di dimostrazioni “per assurdo” e di tipo dialogico, in cui si “finge” di assumere la tesi dell’avversario per dimostrarne l’assurdità o si dimostra che le obiezioni dell’avversario non possono prescindere dalle stesse tesi che si vogliono confutare.
2.2.2 Logica, etica e reale Se dovessimo confrontare l’impasse costitutiva del principio di contraddizione con il concetto di sfera di Sloterdijk, probabilmente ci ritroveremmo a ripetere le medesime obiezioni. Per certi aspetti, infatti, il principio logico come un momento istitutivo di una simbolica assume indubbiamente un rilievo sferologico: quando l’istituzione simbolica prescinde dall’orizzonte temporale, congelando per così dire un’”ora” indifferente ed irrelata, ciò che emerge è il tentativo di creare una distanza nei confronti del Fuori. Tutto passa e diviene, tantoché non ne potremmo fare nessuna logica né tantomeno una scienza, ma sclerotizzando il divenire, “incorniciando” — per dirla à la Bateson — la realtà in un riquadro intemporale, ecco che il nostro rapporto con essa diviene positivo. Iniziamo così a creare delle sfere via via più ampie che ci proteggono dal pericolo di un mondo esterno ostile ed aggressivo. Orbene, la perdita sia nel caso della logica del principio di contraddizione che nell’istituzione sferologica è ciò che abbiamo espresso nella nostra formalizzazione desunta da Heidegger: S0 ~S. Sia la logica classica, sia la sferologia di Sloterdijk sospingono il Fuori sempre più all’esterno e non ammettono d’esserne pericolosamente intimi, ovvero non riescono a sopportare il suo carattere paradossalmente chiasmatico e extimo: il tempo viene sospinto così nelle circo-
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stanze contestuali della logica semantica, per occultare il fatto inequivocabile che esso è essenzialmente compresente già nella stessa istituzione simbolica che sostiene l’intero apparato logico. Per dirla in termini echologici, allora, il tempo segna la zona di nonpadronanza cui la logica stessa, nonostante la sua apparente intemporalità, deve suo malgrado cedere spazio. E ciò cui cede spazio non è altro che il non-senso o, meglio, il reale lacaniano: il senso logico non può non cedere nei confronti del non-senso e la sua sensatezza deriva paradossalmente dal mantenere questo cedimento. Le logiche di Gödel e Tarski e le logiche paraconsistenti sembrano dimostrare proprio questo, e cioè che la "performatività" della logica stessa è basata paradossalmente sull'incompletezza costitutiva dei linguaggi formali e quindi sulla possibilità sempre incombente dell'autocontradditorietà e dell'incoerenza. Per lo stesso Wittgenstein, che peraltro criticava l'impostazione gödeliana, la contraddizione non assume quel ruolo di noli tangere da eludere con particolari "meccaniche" logiche, bensì un'evidenza certamente non drammatica con la quale dobbiamo comunque aver a che fare quando ci occupiamo di sistemi formali: è in gioco, semmai, l'idea di assicurazione, cioè di una sicurezza dell'uomo nei confronti del "reale" (di cui, in fondo, la contraddizione è espressione) che fa della logica una sorta di struttura sloterdikijana (Wittgenstein, 1956, p. 140). Nel Seminario XX Lacan ha dunque espresso enigmaticamente lo strano rapporto che intercorre in questo senso tra il mathema e il reale: "soltanto la matematizzazione raggiunge un reale — e in questo è compatibile con il nostro discorso, il discorso analitico — un reale che non ha niente a che fare con ciò cui la conoscenza tradizionale ha dato supporto, e che non è ciò che essa crede, realtà, bensì fantasma. Il reale, dirò io, è il mistero del corpo parlante, è il mistero dell'inconscio" (Lacan, XX, p. 131). Abbiamo già individuato le caratteristiche temporali del reale: l'impossibilità in quanto fallimento del linguaggio (e la sua non-padroneggiabilità) e il movimento del ritorno circolare. Il reale non è dunque semplicemente un Fuori minaccioso, ma è il nostro corpo o, più esattamente, quello che di esso non è formalizzabile rimanendo perciò inconscio. Il mathema in apparenza riesce a formalizzare l'intero universo, ma paradossalmente ciò che gli è più prossimo e intimo diviene informalizzabile: "tutto il tormento della nostra esperienza dipende dal fatto che il rapporto con l'Altro, in cui si situa ogni possibilità di simbolizzazione e di luogo di discorso, raggiunge un vizio di struttura. (...) Questo punto, da cui emerge che vi è del significante, è qualcosa che, in un
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certo senso, non può essere significato. È quello che io chiamo il punto mancanza-di-significante" (Lacan, X, 146). Nel meccanismo di istituzione simbolica, dunque, è intrinseca una deficienza strutturale o, meglio, un buco che Lacan attribuisce all'etica. Nell'introduzione nel reale del significante, assistiamo a una serie di perdite e di erosioni che connotano il nostro rapporto con esso: non si tratta soltanto di una serra difensiva che in qualche modo tenta di isolare il soggetto "infantilizzato" dal Fuori, ma si tratta di scavare un buco al proprio interno, di de-soggettivarsi o destabilizzarsi, aprendo un corridoio in cui il "dentro" e il "fuori" entrano in contatto e si scambiano vicendevolmente le posizioni (Rovatti, 2007), p. 48). La procedura logica dell'autoriferimento, cioè la circostanza fondante dell'autoreferenzialità dei simboli logici (il loro significare o denotare se stessi, o, detto diversamente, il loro essere "autonimi", puri elementi "tipografici"), non supera i paradossi dell'indicalità (cioè del rimandare comunque a circostanze "esterne" che esorbitano dall'autoriferimento stesso, come il "nello stesso tempo" del principio di contraddizione di Aristotele) se non a scapito di effetti di ritorno (e di non-senso) che, pur trasfigurati, non cessano di rendere necessaria una continua evoluzione della logica stessa. Da un lato l'autoriferimento con il suo "effetto specchio" implica una perdita di significatività, cioè blocca quel processo di "rimando" che sta alla base di ogni "semantica"; dall'altro, immette nella logica una tensionalità tra un puro formalismo senza significato e una semantica che suo malgrado non può far a meno dell'autoriferimento e che così è costretta a ricorrere all'infinità dei metalinguaggi e a una generica indecidibilità. Nel Seminario VII Lacan riprende l’analisi heideggeriana della conferenza Das Ding; la riprende focalizzando immediatamente quello che per lui rimane il nucleo del problema, ossia l’assenza o il buco all’interno della Cosa stessa. Il vasaio non modella soltanto quel contenitore che avrebbe raccolto insieme la terra, il cielo, i mortali e i divini, ma il suo operare è soprattutto una strana e complessa confidenza con il vuoto. Egli maneggia la materia con incredibile maestria, contornando e “facendo il giro” del buco, isolandolo ma nello stesso tempo facendolo in qualche modo affiorare. Il buco — che non è altro che il reale — è ciò che rende possibile la Quadratura dei Quattro e, quindi, l’abitare dell’uomo. Per Lacan il rapporto dell’uomo con la Cosa è di tipo etico, nella misura in cui il vasaio mette in gioco il Fuori, rendendolo immanente, attraverso un certo rapporto con il simbolico. In altre parole il vasaio si rapporta alla Cosa in quanto la “crea” e, quindi, nella misura in cui sublima una certa carica pulsionale. In essa il Trieb trova
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una certa soddisfazione permutando la sua meta originaria e questa meta, proprio nel cambiare d’oggetto, articola del reale. “E la formula più generale che vi dò della sublimazione è questa — essa eleva un oggetto (...) alla dignità della Cosa” (Lacan, VII, p. 141). Ma come si articola questa soddisfazione? In che modo viene sublimata la pulsione attraverso das Ding? Questo processo, in effetti, avviene secondo due livelli: il primo rappresenta per così dire la sua struttura, ovvero descrive il modo in cui la pulsione viene in contatto con la Cosa. Per la natura di quest’ultima non è infatti ipotizzabile un contatto diretto e immediato: anche se si tratta di una permutazione della meta pulsionale, è impossibile che la sublimazione raggiunga il nucleo della Cosa. Semmai si tratta di un movimento rotatorio, una sorta di girotondo, tanto ripetitivo quanto finzionale: “la formula migliore ci sembra essere questa — che la pulsione ne fa il giro. Troveremo di applicarla a proposito di altri oggetti. Giro deve essere preso qui con l’ambiguità che gli dà la lingua francese, al tempo stesso turn, limite attorno a cui si gira, e trick, un trucco da gioco di prestigio” (Lacan, XI, p. 164). La pulsione allora, come già osservava Freud, non può affatto essere assimilata all’istinto: essa mette in gioco una dimensione finzionale che articola sia il momento simbolico — l’articolazione del significante — sia il reale, nella misura in cui lo contorna marcandolo-mancandolo. Il bordo, il turn lamellare (simile a quello degli orifizi e degli sfinteri), è ciò che occhiella un buco, cioè un’esistenza liminale o semi-esistenza che, al pari d’un trucco da gioco di prestigio, occulta la lacuna che essa finge invece di riempirla e colorarla incantatoriamente. Ebbene — e siamo al secondo livello della sublimazione — uno dei modi di questo “giro” è quello della creazione, ambito questo nel quale ritroviamo un nesso esplicativo con la dimensione etica. Per Lacan la creazione costituisce un ambito problematico, se non l’ambito problematico tout court, poiché si tratta di pensare direttamente e senza mediazioni il rapporto tra il reale e il significante: esiste cioè un côté reale del significante, l’altra faccia della medaglia oscura e insensata, per quanto “esistente” e incombente? E il significante, da parte sua, può agire nel reale, può essere introdotto nel reale? “La produzione è un ambito originale, un ambito di creazione ex nihilo, in quanto introduce nel mondo naturale l’organizzazione del significante” (Lacan, XVII, p. 272). Lacan allude in effetti a un “plasmare” — l’operazione del vasaio appunto — ossia a una torsione della catena dei significanti, che non significa affatto l’introduzione di nuovi significanti “pieni”, bensì, paradossalmente, la fessurazione dello stesso reale, la sua “lacunariz-
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zazione” attraverso il medesimo significante. Infatti “c’è identità tra il modellamento del significante e l’introduzione nel reale di uno iato” (Lacan, XVII, p. 155) e si tratta più di creare dei buchi e di infistolare il senso con spazi di non-senso e viceversa, che di introdurre semplicemente un significante nel reale illudendosi che quest’ultimo non ne venga in alcun modo intaccato, come un flatus vocis la creazione non è l’invenzione di un oggetto solido e controllabile, ma la strutturazione di una Cosa che articola simultaneamente i pieni e i vuoti o, meglio, contorna e incornicia finzionalmente un buco con una cortina di significanti, come se fosse appunto un trick, un trucco. “Il vuoto e il pieno vengono introdotti dal vaso in un mondo che, di per sé, non conosce niente di simile. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel mondo, né più né meno, e con lo stesso senso” (Lacan, XII, p. 154). Nella nostra formalizzazione dunque, la tesi lacaniana evidenzia l’unione logica del senso e del non-senso: S=S/~S. Ciò che tuttavia polarizza la nostra attenzione è il plesso abbastanza curioso tra logica, etica e reale: la matematizzazione logica possiede la strana caratteristica di approssimare in maniera unica il reale, pur attraverso una perdita necessaria. La stessa “digitalizzazione” del mondo cui stiamo oggidì assistendo può essere riletta come una forma di istituzione simbolica che, in qualche maniera, si inserisce nel reale. La perdita in questo caso è evidente: il mondo viene descritto e fatto funzionare attraverso l’algebra booleana, ossia articolando semplicemente il vuoto e il pieno, 0 e 1. Ma lo zero non è già il non-senso in se stesso, bensì una sua formalizzazione, cosicché la lacuna o il buco di cui parla Lacan è ancora altrove, nell’incapacità stessa (che poi diviene un pregio) di aderire completamente alla realtà, di non-essere un semplice “trucco”. Ora, Lacan ci dà un’ulteriore informazione a proposito: tutto questo — la stessa digitalizzazione del mondo, così come la creazione del vasaio — ha a che fare con l’etica: “la mia tesi è che la legge morale, il comandamento morale, la presenza dell’istanza morale è ciò attraverso cui, nella nostra attività in quanto strutturata dal simbolico, si presentifica il reale — il reale come tale, il peso del reale” (ivi, p. 24). Riusciamo finalmente a cogliere il tragitto che ci fa compiere Lacan, attraverso das Ding e i processi sublimatori della creazione: l’ethos è lungi dal costituirsi come un semplice sistema ideale di obbligazioni, così come dal confondersi con il campo irriflesso dell’agire umano. Si tratta invece dell’inserzione del significante nel reale o, ancora meglio, del baluginare improvviso e oscillante del lato reale del significante,
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della sua efficacia e della sua “performatività”. Nella Cosa c’è un fattore di terribilità e angoscia che possiamo chiamare non-senso, ma che più precisamente si caratterizza come il “reale primordiale”, quello che altrove Lacan definisce come impossibilità o fallimento del linguaggio. L’espressione “quel che del reale patisce del significante” (ivi, p. 151) riporta tutta l’ambiguità di questo meccanismo, a causa dello statuto indefinito della preposizione composta (Lacan, Scritti, p. 817): chi è che patisce, ad esempio? È il reale che viene intaccato dal significante, o è il significante che viene scavato e infiltrato dal reale? Oppure, più radicalmente ancora, siamo di fronte a un problematico chiasmo, cioè innanzi alle due facce della medesima medaglia, come se senso e nonsenso andassero sempre a braccetto e noi dormissimo nell’illusione di poterli discernere e discriminare, alla stregua di entità differenziate e distinte? Siamo, in effetti, alla nostra quarta formula: S0~S, che, lacanianamente, potremmo descrivere come “del significante è incluso nel reale”.
2.2.3 L’’1"#$%&'! Nell’istituzione simbolica, dunque, che caratterizza la logica assistiamo a una “neutralizzazione” delle circostanze temporali dell’istituzione stessa. In altre parole, la logica sorge grazie alla propria a-temporalità originaria, ottenuta, però, grazie a una semplificazione e a una perdita che non appartengono all’ordine logico. La differenziazione tra logiche sintattico-formali, alla fine riconducibili ad una serie di tautologie e di autoriferimenti, e logiche semantiche che valutano le proposizioni in base all’assegnazione di determinati valori a costanti e variabili enunciative, non è sufficiente a nostro avviso per superare l’impasse. Il livello formale, in effetti, si esprime nella tautologia S=S, cioè il senso è uguale a se stesso ed è isolato dal non-senso. Questa circostanza, come abbiamo visto altrove (Bazzanella, 2006; 2007), è tipicamente patologica, cioè ci riporta paradossalmente alla seconda proposizione del nostro grafo: ~(S=S/~S) (S=~S). La logica semantica, invece, ci riporta con Tarski e Gödel a un’essenziale impasse intrinseca proprio in ogni linguaggio: ogni linguaggio ha bisogno di un ulteriore linguaggio definito metalinguaggio, cosicché non esiste una verità definita una volta per tutte, ma sempre una verità contestuale e circostanziale. Per definire infatti la verità di una proposizione nel linguaggio L, devo definire preliminarmente il modello M (con il suo dominio e le sue funzioni di assegnazione), il dominio temporale e la sua funzione <, nonché delineare (attraverso la cosiddetta gödelizzazione) ogni
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costante, variabile, quantificatore esistenziale, funzione, etc. nell’ambito di un metalinguaggio (che, nel caso di Gödel, è l’aritmetica). Ciò che si evince è che se voglio dimostrare la “coerenza” o non autocontraddittorietà di un sistema formale, devo per forza “utilizzare strumenti deduttivi non disponibili all’interno dei formalismi stessi di cui provano la coerenza: questa è accertata solo ‘dall’esterno’, con metodi che non fanno parte del sistema” (Berto, 2007, p. 184). Dal punto di vista echologico, ciò significa che paradossalmente abbiamo a che fare con il non-senso: la catena dei metalinguaggi è in effetti infinita e la stessa istituzione simbolica necessariamente autocontraddittoria. Ora, il ricorso al reale di Lacan, ci è servito per dimostrare come la logica non costituisca un sapere astratto e formalizzato avulso dalla realtà o, più genericamente, dal Fuori, ma ne sia necessariamente intrisa. Il suo sviluppo continuo, infatti, testimonia l’esistenza di quella zona paradossalmente prossima ma oscura che alimenta sempre nuove formalizzazioni: la logica S è possibile soltanto se S0~S, cioè se essa si situa di un ! ’$ "()(* che a sua volta non è formalizzabile. Se ampliamo poi questa tesi, seguendo il nostro percorso teoretico, ci troviamo ad evidenziare come la temporalità costituisca la cifra di un’impasse, ovvero — per dirla in modo heideggeriano - il segno di un oblio. Ciò che tuttavia viene obliato è forse un approfondimento dell’ontologia di Heidegger, poiché essa si struttura, in tutto il tragitto del suo pensiero, sempre con la medesima formula S0~S: il senso è incluso nel non-senso; il formale dipende dall’informalizzabile che non smette di tentare di formalizzare. Dimenticando questa circostanza, la logica si presume intemporale, ma trova sempre nella medesima temporalità il suo necessario sostegno. Il tempo, escluso nella tautologia del principio di contraddizione, ritorna dalla finestra, per così dire, sotto le vesti della catena infinita dei metalinguaggi che garantirebbero quel medesimo principio. Ora, nella nostra analisi della conferenza Tempo e essere, abbiamo volutamente lasciato in sospeso proprio l’ultimo passaggio teoretico: Heidegger, infatti, concludeva la sua analisi sullo Zeit-Raum tratteggiando i caratteri dell’Ereignis. L’evento è indefinibile, cioè non si può affermare predicativamente che “l’evento è questo o quello”. L’unica espressione adeguata è ancora una tautologia: l’Ereignis ereignet, l’evento fa avvenire (Heidegger, 1969a, p. 30). Non ci troviamo però nella medesima situazione dei principi logici nei quali abbiamo sopra evidenziato i processi di esclusione soggiacenti e l’insufficienza dei processi di auto-riferimento: anzi, sostenuto dal bisogno di dover chiarire la sua tesi enigmatica, Heidegger aggiunge immediatamente dopo che
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alla base di tale espressione c’è “quell’antichissimo che si nasconde nel nome di ’1B"#$%&'!” (ivi, p. 31). Secondo taluni interpreti (Sinn, 1967; Beaufret, 1983), infatti, il “luogo” della Kehre sarebbe da situare nella conferenza Dell’essenza della verità del 1930, nella quale Heidegger sembra enfatizzare alcuni aspetti rimasti in parte occultati in Essere e tempo. Il fatto che ancora nel 1962 sia la “verità” a tenere assieme le fila di un discorso heideggeriano che si è nel tempo sviluppato verso molteplici direzioni (la storia dell’essere, la prossimità alla poesia, la critica all’età della tecnica, l’interesse per la spazialità, etc.), a nostro avviso è sintomatico di un tropismo presente sin dal 1927 e che ritroviamo persino nei Beiträge (1936-38), quando Heidegger riprende di sorvolo la questione spazio-temporale (Heidegger, 1989, pp. 370-371). Tale tropismo, in sostanza, è quello che viene riassunto dalle nostre formule: S=S/~S; S0~S nella misura in cui caratterizza nella maniera più essenziale possibile la struttura ontologica del Dasein. Ebbene, seguendo i fitti passaggi filosofici che Heidegger propone nella conferenza del 1930, viene innanzitutto presa di mira la definizione aristotelica di verità, ovvero veritas est adaequatio rei et intellectus (Heidegger, 1987, p. 136). C’è un intelletto ordinatore che legifera e, attraverso le sue enunciazioni, organizza il mondo: la verità diviene in questo senso la concordanza del simbolico con il reale, come se le due dimensioni fossero di fatto pacificamente relazionabili. Ma “come può l’asserzione, proprio conservando la sua essenza, adeguarsi ad altro, alla cosa?” (ivi, p. 139). Per Heidegger, l’adeguazione non dipende dalla natura dell’asserzione e dal suo intrinseco riferimento alla cosa. A monte ci dev’essere un “comportar-si”, una disposizione del soggetto che riprende per certi versi la struttura del Ci dell’Esserci: è soltanto grazie all’aprirsi e al mantenere aperto che la cosa e la proposizione possono concordare, cosicché bisognerebbe guadagnare uno spazio più originario per definire l’essenza della verità. In Essere e tempo l’apertura si basava sull’aver-da-essere del soggetto: questo aver-da-essere caratterizzava la comprensione e il progetto, come strutture estatiche e trascendenti della temporalità. In questa conferenza, invece, assistiamo a un cambio di tono: ad aprire e mantenere aperto l’orizzonte della relazione (Bezug) tra cosa e asserzione è paradossalmente la libertà: “l’essenza della verità, compresa come conformità dell’asserzione, è la libertà” (ivi, p. 142). Non si tratta ovviamente di una nozione che Heidegger desume dalle filosofie morali classiche. L’essenza della libertà è per lui qualcosa di rimasto incompreso, poiché essa si definisce come un paradossale lasciar-liberi: la libertà è innanzitutto lasciare che l’altro ne disponga, è uno spiazzarsi origina-
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rio che lascia spazio al manifestarsi dell’ente. “Lasciar-essere — nel senso di lasciar-essere l’ente come quell’ente che è — significa lasciarsi coinvolgere da ciò che è aperto nella sua apertura, entro cui ogni ente sta” (ivi, p. 144). Assistiamo quindi a un relativo spostamento rispetto ai corsi di Marburgo: la libertà è certamente “es-ponente, e-sistente” (ibidem) riprendendo il carattere del “rapimento” della Temporalität originaria, ma nella sua natura è un lasciar-essere, una sorta di cedimento. Ma verso cosa si cede? E che rapporto ha l’uomo con l’Aperto che pure “lascia-essere”? “Questo ‘aperto’ è stato concepito dal pensiero occidentale, al suo inizio, come .!$ !"# ’ $ %&!, lo svelato. Se traduciamo !"# ’ $ %&'!, invece che con ‘verità’, con ‘svelatezza’, allora questa traduzione non è solamente ‘più letterale’, ma contiene anche l’indicazione che induce a pensare e a ripensare il concetto abituale di verità, come conformità dell’asserzione, in quell’orizzonte non ancora capito della svelatezza e dello svelamento dell’ente” (ibidem). L’aperto è lo s-velato, ciò che viene — con il nostro linguaggio — dal non-senso o, con un’ipotesi ermeneutica che non è nostra, da una "#$%# che è il reale lacaniano (Richardson, 1993, p. 62). Ma l’uomo, in quanto essente conferitore di senso, si trova paradossalmente “appropriato” al non-senso, ossia esso è in-cluso sin dal principio nella "#%# reale: infatti, “la libertà e-sistente non è una proprietà dell’uomo, ma l’uomo e-siste, e diventa così capace di storia, solo se è posseduto da questa libertà, anche la non-essenza della verità non può sorgere successivamente dalla semplice incapacità o dalla negligenza. La non-verità deve piuttosto venire dall’essenza della verità” (ivi, pp. 146-147). La libertà è il lasco che fa sì che l’ente si s-veli dal nascondimento originario; essa è, con una terminologia di poco successiva, lo Zeit-Raum che, in quanto fondo abissale, “è il protoessenziale velamento diradante, la permanenza essenziale della verità” (Heidegger, 1989, p. 371). Questo lasco, tuttavia, se obliato o frainteso, ossia se non viene sostenuto paradossalmente nella sua “abissalità”, implica una ricaduta nel velamento, cioè una sorta di non-senso di secondo grado. Heidegger probabilmente non accetterebbe questa dinamica: il nonsenso che permane e serbando svela raccogliendosi non è lo stesso non-senso della semplice-presenza, della fissazione dell’ente nel suo “ora” intemporale che ha obliato il movimento traspropriante dell’Ereignis. Detto brevemente, sono accettabili le formalizzazioni già emerse in Essere e tempo: S=S/~S; ~(S=S/~S) (S=~S) e S0~S, che, tradotte secondo la conferenza Dell’essenza della verità, significano che la verità è essenzialmente relazionata alla non-verità (nel senso radicale che non c’è verità che non sia intrinsecamente non-vera), che
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la verità in qualche maniera pro-viene o “e-siste” dalla non-verità (che quindi la in-clude) e, infine, che la verità tradizionale, cioè quella che fissa l’ente nella sua svelatezza semplicemente-presente, ricade suo malgrado nella non-verità. Orbene, ciò che Heidegger sembra non accettare è la terza enunciazione echologica: ~S=~S, ossia che la nonverità della "#$%# è la medesima non-verità dell’eccesso dello s-velamento, dell’abbacinamento dovuto alla “troppa” luce. La cecità - continuiamo per metafore fotologiche, peraltro non ininfluenti nella filosofia heideggeriana — non è sempre la “stessa” cecità. Eppure la nozione del das Selbe sembrava aver messo enigmaticamente in contatto il concetto di “stessità” con quello di differenza: lo stesso si articola nel diverso e, quindi, esistono dei differenti dello stesso e delle identità dei differenti. Se infatti Sloterdijk deve supporre un Fuori oggettivo obliando il Fuori soggettivo — l’agalma lacaniano, l’oggetto a — Heidegger sembra dapprima evidenziarne l’omogeneità, per poi successivamente e surrettiziamente rimarcarne una distanza ontologica. L’ente semplicemente-presente è insensato, ma non è insensato quanto o come il nascondimento costitutivo dell’ !"# ’ $ %&'!. A nostro avviso è in questa schisi che si situa l’aporetica della temporalità e si annodano così tutti i paradossi evidenziati da Ricoeur.
2)3 2ogi&a no5motipi&a ' ;i;t'ma @A 2.3.1 Prima definizione del concetto echologico di temporalità Dobbiamo a questo punto consolidare un primo approccio alla questione della temporalità. La prima sensazione che ci sovviene, dopo i nostri détours nella filosofia heideggeriana, è che il tempo abbia in qualche modo a che fare con il “velamento”, la "#$%# oppure — con altro linguaggio — pertenga alle dimensioni ambigue del Fuori e del reale lacaniano (Zizek, 2000, pp. 82-83). Per certi aspetti, dunque, il tempo nella sua carica aporetica incarna il non-senso nella sua dimensione essenziale. In tal maniera l’aporetica ricoeuriana sembra trovare una sorta di pacificazione, poiché vengono saldati tra di loro i momenti apparentemente contraddittori della temporalità soggettivo-psicologica e della temporalità cosmico-mondana. È la medesima insensatezza che caratterizza le due polarità e che si estrinseca nelle caratteristiche specifiche del reale dell’impossibilità-infinità e del ritorno circolare.
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Analogamente, assistiamo anche ad una saldatura delle concezioni della temporalità usualmente ascritte a una visione religiosa dell’universo: la temporalità greca e la temporalità di origine cristiana. Tradizionalmente, infatti, il greco ha inteso il tempo in modo circolare, secondo una tradizione cosmogonica che probabilmente gli proveniva dalle culture iranico-accadiche e che si è propagata attraverso i culti ermetici ed esoterici sino al Rinascimento. Il cristianesimo, invece, ha imposto un orientamento messianico al decorso degli eventi, instaurando così quella che ancora oggi gli scienziati definiscono “freccia del tempo”. La caduta originaria dell’uomo, la salvazione attraverso la crocifissione e la resurrezione di Gesù, l’Apocalissi, costituiscono eventi irripetibili o semelfattivi, istanti densi di significato che non potranno mai più riprodursi. Tale direzionalità o progressione d’altronde si è perpetuata nell’Illuminismo, coniugandosi così con un processo di razionalizzazione laica e secolarizzazione della condizione umana in generale e, successivamente, con l’evoluzionismo darwiniano e post-darwiniano. L’uomo subisce il tempo in quanto heideggerianamente geworfen, gettato suo malgrado in una situazione che egli potrà mutare soltanto facendosi carico del suo essere-mortale e finito, e cioè attraverso un processo emancipatorio ed evolutivo. Ma se Heidegger appare ad esempio palesemente cristiano e Aristotele, invece, antesignano — come abbiamo visto nella prima sezione — dell’assoluta indifferenza dell’ora, è interessante notare come queste due antiche polarità si ripresentino anche nelle più diffuse concezioni scientifiche del nostro tempo: ancora oggi infatti troviamo il concetto entropico del tempo, ossia l’idea del chimico I. Prigogine secondo la quale ogni processo chimico-fisico dell’universo comporta un dispendio energetico che, in un sistema chiuso come il cosmo, non può essere reintegrato e, quindi, condurrebbe irreversibilmente alla morte atomica; oppure, in alternativa, troviamo una concezione quantistica e relativistica, secondo la quale ogni relazione spazio-temporale con la materia risulta essenzialmente simmetrica e paritaria, “come un circolo in cui la materia determina la curvatura dello spazio-tempo e questa determina a sua volta il movimento della materia” (Marramao, 1990, p. 16). Con parole differenti, potremmo dire che da un lato emerge un orizzonte per lo più finitistico e nichilistico, dall’altro un orizzonte infinitistico e meccanicistico: l’aporia del tempo consiste proprio in questa doppia polarità, che in fondo riassume il dualismo bergsoniano tra tempo-spazio e tempo-durata (ivi, p. 17). Dal punto di vista echologico, queste polarità devono essere risolte in un plesso unitario e, quindi, rimeditate alla luce dell’altra profonda sal-
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datura, ossia quella tra spazio e tempo (ivi, p. 128). La semplicistica equazione tempo=non-senso infatti non è del tutto soddisfacente, poiché marca soltanto il momento sfuggente e allotrio della temporalità, senza tener conto del fatto che in fondo esiste anche il “tempo deiettivo”, cioè la possibilità di un tempo pubblico e misurabile dagli orologi. Con Heidegger dobbiamo considerare questa componente deietta coessenziale alla temporalità originaria, in quanto essa caratterizza quel versante normalmente obliato dalle concezioni esistenzialistiche e psicologistiche della temporalità. In quest’ottica il sociologo N. Elias sembra indirizzarci verso un percorso che ricorda per certi aspetti la sferologia di Sloterdijk: il tempo rientra tra quei processi di formalizzazione e ritualizzazione collettiva con la quale l’uomo costruisce e mantiene i propri spazi sociali. È un insieme di “simboli di orientamento” che vengono tramandati ed appresi, ma che talvolta divengono oscuri ai propri creatori: l’inconoscibilità o l’apriorità (che è la stessa cosa) delle dimensioni spazio-temporali dipendono dal fatto che esse costituiscono quel livello basico di simbolizzazione senza il quale non ci sarebbe alcuna conoscenza e alcuna società. “È una difficoltà tipica delle indagini sul tempo che gli uomini siano ancora molto poco consapevoli della natura e del modo di funzionare dei simboli che essi hanno creato e che utilizzano costantemente. In tal modo essi corrono frequentemente il pericolo di smarrirsi nel groviglio dei loro stessi simboli. I calendari che gli uomini hanno creato e i quadranti degli orologi sono una testimonianza del carattere simbolico del tempo. Tuttavia, il tempo sembra spesso agli uomini qualcosa di enigmatico” (Elias, 1984, pp. 37-38). Ciò significa che il tempo non ha solo a che fare con il non-senso, ma è pure una forma di senso. Addirittura Elias suggerisce l’idea che la sua insensatezza o inconoscibilità, sia ancora un effetto di senso, ossia rientri nei suoi meccanismi simbolici. L’uomo crea delle cortine simboliche collettive che poi non riesce più a comprendere e che in tal modo assumono vieppiù un carattere esterno ed enigmatico. In termini echologici, allora, dobbiamo affermare che il tempo ha la struttura di un senso che in qualche maniera è commisto al nonsenso. Dunque, il tempo è essenzialmente una formazione di senso. Riflettendo su che cosa significhi un “atto” propriamente detto, l’Entscheidung schellinghiana che sta alla base della mitizzazione e dell’uscita dal reale caotico, Zizek arriva a una tensionalità affatto simile in cui il gesto insensato “reale-etico-eterno” dà luogo al tempo come “narrazione-divenire-senso-simbolico” grazie al quale l’uomo crea quello schermo fantasmatico che sostiene, mitizzandola, quella medesima
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eternità insostenibile che vuole occultare: “in breve, un atto propriamente detto è il paradosso del gesto ‘eterno’/senza tempo di sconfiggere l’eternità, aprendo la dimensione della temporalità/storicità” (Zizek, 2000, p. 98). L’atto dell’istituzione simbolica è dell’ordine del reale ed è quindi temporale nella doppia valenza di traccia (etica) della giunzione paradossale tra reale e simbolico, e dell’origine della narrazione temporale-simbolica che tenta invano di rendere ragione di se stessa. Ciò significa dal nostro punto d’osservazione che anche al tempo è applicabile la nostra formalizzazione, con tutte le conseguenze che potremo trarne: S=S /~S ~(S=S / ~S) (S=~S) ~S=~S S0~S Iniziamo a tradurre questi enunciati con un linguaggio più consueto: 1) il tempo è un senso o una simbolizzazione che è unita necessariamente al non-senso o al reale: esso è quel tanto di sapere o “gesto” che però è destinato a debordare e che in qualche maniera ci sfugge; 2) l’aspetto simbolico non può quindi esaurire del tutto il fenomeno della temporalità, poiché una sua razionalizzazione eccessiva conduce nuovamente al non-senso, cioè ci apre senza più alcuna difesa a quel reale che avremmo voluto allontanare; 3) il reale esterno, ossia l’eterno ritorno dell’universo, e il reale interno, ossia il nostro destino di mortali, i nostri medesimi atti, sono lo stesso reale, sono le due facce della medesima medaglia; 4) per quanto il tempo simbolico cerchi di allargare i propri confini, esso rimane incluso nel reale insensato, è un pezzo di non-senso eterno e senza-tempo che talvolta non riusciamo a riconoscere. "Il tempo è un senso", dunque, costituisce un'affermazione meno pacificante di quanto possa apparire. Il grafo echologico del senso, infatti, è "impossibile" o, meglio, è nel suo complesso incoerente nella misura in cui da esso sono derivabili proposizioni contraddittorie. La proposizione S0~S è sempre falsa, qualunque sia il valore di verità che attribuiamo alle variabili; la proposizione S=S /~S può essere vera, se invece attribuiamo al senso S un valore F, ossia se lo consideriamo — come pensiamo — una finzione. Tuttavia, la componente temporale rientra in una concezione tarskiana della verità, cioè considerando i fattori contestuali e metalinguistici che regolano l'assegnazione dei valori F e V (vero e falso). La S0~S è contraddittoria e incompatibile con un sistema logico coerente, ma se valutata in base a specifiche circostanze temporali può assumere un valore di verità: soltanto per fare
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un esempio che riguarda i rapporti tra popoli maggioritari e popoli minoritari, non è detto che nel tempo un'etnia minoritaria all'interno di una determinata comunità, non possa divenire maggioranza e includere l'etnia dominante. Dobbiamo allora segnalare due emergenze che a nostro avviso costituiscono la vera aporetica della temporalità: 1) che la S=S /~S possa essere vera nella misura in cui S=F, per noi ha il significato di una "finzionalità" intrinseca nel senso e, quindi, "nel tempo", visto che quest'ultimo è isomorfo al senso stesso. La questione è che la funzione finzionale f è tale che coinvolge anche ~S, il nonsenso: è la riproposizione del paradosso di Epimenide, dal quale non si può uscire se non inserendo all'interno del discorso dei contesti e dei blocchi, anch'essi finzionali, però...; 2) se le condizioni tarskiano-prioriane di verità implicano una contestualizzazione temporale, ci ritroviamo di fronte al paradosso di una formula del tempo, valutata da una temporalità esplicitabile con la medesima formula. Quando Prior inserisce all'interno della freccia del tempo "prima-poi" un vettore direzionale, presuppone già una costruzione del senso del tempo e della sua logica che è quella che deve valutare contestualizzando e circostanziando. In altre parole, si innesca un processo infinito, come se "ci fosse sempre un tempo in più" ed è ciò che emerge d'altronde nell'espressione S0~S. Questo indica, come vedremo, che il tempo non può essere trattato come un oggetto logico qualunque, ma emerge nell'ambito di un debordamento e di uno scarto. Il tempo, cioè, si pone come un "da-cui" e "rispetto-a-cui" il senso ha senso, pur essendo esso stesso un senso, fatto questo sostenibile soltanto in una sfera di finzionalità: "non possiamo pensare le (nostre) radici, le scelte implicite e nascoste del (nostro) pensiero perché sono ciò a partire da cui pensiamo e che, quindi, non possiamo pensare" (Milanaccio, 2007, p. 31).
2.3.2 Ritmo, ritualizzazione, destorificazione In apparenza, dunque, non abbiamo guadagnato granché nel senso di una risoluzione delle aporetiche della temporalità; anzi le abbiamo incrementate a dismisura, ipotizzando una non tematizzabilità del tempo o una sua infinita tematizzazione, nell’ambito di un paradossale contesto finzionale. Abbiamo appreso però preliminarmente che per certi aspetti il tempo concerne dappresso la costituzione di ogni senso e, assieme allo spazio, consente di stabilizzare e, nello stesso momento, di far evolvere qualsiasi simbolizzazione collettiva. Dovremo pertanto continuare la nostra indagine approfondendo quegli aspetti
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echologici che non soltanto caratterizzano il senso tout court, ma che proprio nella spazio-temporalità affiorano con particolare intensità e vividezza. Prima di continuare il nostro approfondimento echologico, dunque, è necessario un ulteriore breve détour nel campo dell’antropologia del rito. Ciò risulta indispensabile poiché raccorda la nozione echologica di padronanza, con i concetti di sfera di Sloterdijk e di “simboli di orientamento” di Elias. Il “rito” fa coagulare in sé varie istanze tipiche della struttura del senso; ma riproduce parimenti anche degli elementi caratterizzanti il reale e la temporalità. Esso, insomma, si colloca in un crocevia abbastanza complesso che non ha pochi rapporti con la questione del tempo e della sua inaddomesticabile paradossalità. Ad esempio, “per Geertz ogni cultura tenta di elaborare una propria specifica risposta ai problemi fondamentali dell’esperienza, quelli che Weber definisce i ‘problemi del senso’. Le credenze religiose e i riti sono ovviamente l’ambito privilegiato entro cui si manifesta la ricerca del significato dell’esistenza” (Scarduelli, 2000, p. 46). La neotenia dell’individuo umano necessita di una serie di barriere difensive, di ritornelli e territorializzazioni che allontanino il Fuori e lo controllino: il senso in se stesso, allora, può essere definito come una grande invenzione o antropotecnica che possiede i caratteri del rituale e della credenza. Su quest’ultimo aspetto non ci soffermeremo in questa sede, ma potremmo dire genericamente che uno dei modi in cui il grafo echologico del senso diviene in qualche maniera sostenibile è proprio un rapporto di tipo pistemico, ovvero basato sulla 7'4.'s, sulla fede. In essa, qualcosa del reale e del non-senso rimane, ma come neutralizzato o messo-traparentesi: il senso come unione logica del senso e del non-senso è paradossalmente fondato sulla “credenza” del senso e la lateralizzazione del non-senso. Il rito rimanda a un ,&$&'*, a uno scorrere: esso è basato su una credenza più o meno diffusa e inconscia, ma marca soprattutto la componente temporale-diveniente. Il rito è infatti nello stesso momento evenemenziale e ripetibile; è un evento che ha un carattere di irripetibilità, ma è pure un insieme performativo di gesti, azioni e simboli infinitamente ripetibili e socialmente codificati. In altre parole, emerge da un lato un rapporto affatto specifico con la dimensione del tempo: il tempo delle stagioni, il tempo delle fasi della crescita fisiologica, le iniziazioni, il tempo della nascita e della morte; dall’altro un processo “ritornellizzante” che attraverso la codificazione-finzione e la ripetizione riesce in qualche maniera a conferire senso e a “controllare” ciò che di fatto, per essenza, non è simbolizzabile. In tale prospettiva simboli-
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ca, il rito viene così tra-mandato, tra-dizionalizzato all’interno di una determinata comunità, sussistendo nella sua struttura nella misura in cui le generazioni ne interpretano il senso, mutandolo e talvolta coniugandolo con altre tradizioni rituali. Secondo taluni autori, infatti, il rito stesso rimanda ad altri riti, si diffonde territorialmente, mantenendo certi stilemi e forme, ma cangiando i significati; oppure, viceversa, mantenendo inalterate le forme, ma virando decisamente il senso dei gesti e del rituale in se stesso. Si tratta dei cosiddetti “contagi emici” (Allovio, 2000, p. 108) che diffonderebbero territorialmente delle credenze native secondo un processo epidemiologico (Dan Sperber, 1999) il quale avrebbe come scopo primario la liberazione dell’uomo dall’ “angoscia” nei confronti del reale, il tentativo sempre mancato e sempre iterato di “sostenerne l’essenziale insostenibilità”. La prossimità del reale alla struttura del senso si evince a nostro avviso proprio nel rapporto particolarmente stretto (e invero paradossale) tra rituale e temporalità: soprattutto E. De Martino ha notato come il rito manifesti il tentativo di “controllare” temporalmente sia una dimensione oscura della natura, sia una dimensione inconscia, cioè il Fuori nelle sue dimensioni di esterno allotrio e di extimità soggettiva. “Il grande tema mitico del ‘nume che scompare e torna’, e che nel rito è fatto scomparire e tornare, costituisce invece nelle civiltà del mondo antico un esempio di simbolo religioso collettivo, nel quale trovano un orizzonte di arresto e di ripresa, di controllo e di risoluzione, i momenti critici connessi al ritmo stagionale della vegetazione, all’invecchiare e al morire del re e alle crisi della successione, ai lutti famigliari e al rischioso ritorno dei morti, e infine a episodi traumatizzanti che ricorrono nell’infanzia e nell’adolescenza di ciascun individuo” (De Martino, 1962, p. 64). La padronanza nei confronti del non-senso emerge attraverso un processo di destorificazione (ivi, p. 65) che significa in primo luogo un’uscita dall’orizzonte della temporalità: il movimento della “catabasi” configura una sorta di aderenza al reale, una fuoriuscita dal simbolico che paradossalmente congela il divenire degli eventi. Successivamente, l’”anabasi” riporta verso una nuova dimensione dell’umano, una sorta di “riumanizzazione” che rende più forti i soggetti grazie alla mimesi e alla ripetizione ossessiva di eventi traumatici e minacciosi (ivi, p. 67). Il latrodectismo, ad esempio, cioè l’affezione patologica causata dal morso della “taranta” nelle regioni del Salento, si fonde e si riassume nelle crisi simboliche, in cui la “tarantata” si dimena e agita come se fosse in preda a una crisi vera e propria. Nella ripetizione del trauma, la società agricola compie una sorta di esorcismo nei confronti del peri-
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colo e degli “avvelenamenti” possibili negli imminenti raccolti: “il tarantismo come orizzonte mitico-culturale definito, cioè come morso della taranta che avvelena nella stagione del raccolto dei frutti estivi e che ogni anno torna ad agire come morso e come veleno, per essere ogni anno esorcizzato con la musica, la danza e i colori, non era ‘riducibile’ al latrodectismo ma non era ‘indipendente’ da esso, in quanto il latrodectismo doveva essere considerato una importante condizione storica ed esistenziale per la genesi del tarantismo. Il simbolismo della taranta si era cioè reso autonomo (…)” (De Martino, 1961, p. 53). Nel meccanismo della destorificazione assistiamo alla compenetrazione delle due facce della temporalità: la sospensione momentanea dell’attuale corso degli eventi, implica un allontanamento dal nonsenso del reale attraverso una paradossale prossimità. Nel rito viene sospesa parzialmente l’usuale prassi simbolica in favore di una sorta di “mimesi” psicotica in cui simbolico e reale tendono a fondersi tra di loro. Il tempo tuttavia non viene in questo modo controllato: nella ripetizione del rito esso rientra, per così dire, dal retro e diviene a fortiori il nucleo fondamentale di ogni forma di ritualizzazione. Esso è da un lato il Fuori minaccioso, dall’altro l’immanente prossimità del simbolico stesso, il senso propriamente detto come paradossale congiunzione di senso e non-senso. Lacan, ad esempio, nota come spesso l’entrata nella psicosi sia dovuta dall’incapacità del soggetto di spiegare simbolicamente quei fatti misteriosi e in-sensati che sono la procreazione, la crescita e la morte: il rituale, incorporando simbolicamente questi fatti o pezzi di reale, garantisce una sensatezza alla nostra esistenza che altrimenti deborderebbe nel non-senso. E la ri-flessione stessa, come strumento filosofico per antonomasia, proprio nel suo carattere di ri-petizione e di ri-figurazione implica da una parte una sospensione della temporalità, dall’altra l’iterazione di un controllo che dona sicurezza e padronanza. Ciò significa che anche le strutture più complesse come l’etica, la scienza e la religione non rappresentano che delle forme rituali in cui la costruzione del senso svolge la sua funzione evolutiva nella specie umana, articolando un livello normativo e obbligazionale necessario al consolidamento di un gruppo sociale e circoscrivendo degli spazi chiusi all’interno del non-senso che costituiscono il proprio modo di “territorializzare” il reale e, quindi, di creare delle serre climatizzate capaci di scongiurare l’incontro con la realtà.
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2.3.3 Il paradosso del meta-senso Il rito e la concezione di Elias del tempo hanno più volte rimarcato il significato collettivo di queste formazioni difensive. Sino ad ora, invece, abbiamo parlato di senso al singolare, come se ce ne fosse uno soltanto: il senso della vita, il senso dell’universo, il senso del tempo, il senso dello spazio. Invece il senso è per sua natura plurale e molteplice: con un aforisma, noi diciamo che c’è sempre un senso in più, mentre con un’altra formalizzazione possiamo esplicitare questa tesi nel seguente modo: S S S S S S S S !D oppure, matematicamente, Cs=oDEs+1. Sono infiniti i sensi con i quali l’uomo affronta il reale, oppure “ek-siste”, senza tuttavia che si possa in qualche maniera ritrovare un fondamento di tale esistenza: sussiste infatti una sorta di principio di pariteticità echologica in base al quale ogni formazione di senso è uguale ed ha i medesimi diritti di qualsiasi altra formazione di senso. Non esistono livelli gerarchici o regioni privilegiate: i tipi logici di Russell o l’impianto categoriale di Aristotele indicano un determinato “regime” o “rituale” che funziona in una determinata situazione simbolica, ma che non per questo può assurgere al ruolo di struttura apriori di ogni articolazione possibile del senso. Questa pariteticità può essere espressa col dire che non esiste un metasenso, il che significa che dobbiamo affrontare il plesso paradossale dell’infinita pluralizzazione dei sensi e dell’impossibilità di qualsiasi gerarchia. Lacan ha espresso ripetutamente quest’evenienza fondamentale dicendo che “non c’è Altro dell’Altro” (Lacan, XX, p. 80), dove l’Altro - come è noto - indica genericamente il simbolico, cioè l’insieme dei linguaggi, delle leggi e delle regole nei quali l’infante viene immesso in seguito al superamento del complesso edipico. Vale in questo senso l’enunciazione S1FS2 ~S, ovvero qualsiasi S2 che tenti in qualche maniera di prevalere (attraverso l’inclusione o — secondo la tradizione filosofica — la riflessione) su un altro senso S1, diviene ipso facto insensato, venendone esso medesimo incluso. Formalizzando infatti il processo riflessivo nella sua completezza echologica, abbiamo: :(x):{[(x;S1) :(x):{[(x;S2)
(x;S2)]=G(x):[(x;S2)=(xHS1)]}= (x;S1)] = G(x):[(x;S1)Ÿ(xHS2)]},
che risulta palesemente un’affermazione contraddittoria e quindi insensata, poiché S1 e S2 divengono insieme e paradossalmente inclu-
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si l’uno nell’altro. In sostanza, l’elemento del sapere S2 che però non appartiene a S1 costituisce quell’elemento “eccedente” che è la riflessione tout court e che potremmo esemplificare come la “cifra evenemenziale” del ri-torno. Ora, il paradosso echologico della riflessione insiste proprio sul carattere finzionale di questa “cifra evenemenziale”, dacché si dà anche contemporaneamente che esiste un elemento di S1 che non appartiene a S2, cioè anfibolicamente anche il sapere S1 a sua volta riflette sul sapere-riflessione S2. L’espressione S1FS2 ~S semplifica questi passaggi e implica in maniera forse più lineare lo statuto sostanzialmente illusorio e “teatrale-posizionale” della riflessione: il metalinguaggio che “parentetizza” un linguaggio-oggetto ri-comprendendolo, di fatto viene proprio ri-compreso in questo linguaggiooggetto nella misura in cui cerca o s’illude di ri-fletterlo. E il meta costituisce essenzialmente un fattore topologico-posizionale, una statuizione provvisoria ancorché arbitraria, sempre emendabile e sempre sovvertibile da un nuovo ordine: riflettente e riflesso si possono scambiare in ogni istante i ruoli, oppure possono mantenere contemporaneamente questa doppia funzione, in un gioco di specchi senza confini, in un’iterazione che avrà sempre una marca eccedente e una cifra ulteriore del ri-torno. Riprendendo quindi le nostre formule: Cs=oDE s+1 ; S1FS2 ~S che dovremo affiancare alle precedenti, ci troviamo in una palese condizione paradossale, poiché non soltanto le formule del senso risultano insostenibili per se stesse, ma anche perché si trovano in un contesto aperto, dove non è possibile definire alcun tipo di dominio definito. Per certi versi, questa forma contestuale aperta e priva di ogni gerarchia o tipizzazione logica che fissi “livelli” e meta-contesti, è quella che giustifica la co-fungenza del non-senso all’interno del senso. Questa co-fungenza, spesso mascherata, deriva dalla stessa infinità del senso, la quale non può in alcun modo essere controllata sulla scorta della sistematica cantoriana degli insiemi infiniti. Non si tratta infatti di “rinominare” degli infiniti, sì da trattarli operativamente come insiemi chiusi: l’infinito che dobbiamo originariamente maneggiare è l’infinito scivolamento o slittamento di un senso verso un altro, è una sorta di operatore di debordamento o eccedenza, applicabile a qualsiasi formazione simbolica. Ma in che senso possiamo parlare di una pluralità infinita di sensi? E lo scivolamento — termine generico e non specialistico — come si
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articola, se parliamo di inclusione o incorporazione ri-flessiva, sebbene finzionali o per essenza insensati? In effetti già nelle precedenti analisi avevamo evidenziato due polarità, che in Heidegger rimanevano problematicamente prossime e interagenti: un movimento colonialistico che cerca continuamente di guadagnare spazio, come se la territorializzazione deleuze-guattariana consistesse effettivamente in una sottrazione di terra alla foresta; un movimento di esorcismo intimo che implica un controllo delle forze insensate che abitano in noi e che ciò nondimento ci mettono drammaticamente in contatto con il Fuori e l’Unheimlich. Nel Ci dell’Esser-ci si condensano sia l’apertura della radura e della Lichtung sia l’orizzonte temporale aperto dall’Angst per la possibilità dell’impossibilità della morte: anticipando le nostre tesi, potremmo infatti dire che lo spazio-tempo costituisce una forma di chiusura (riprendendo così l’idea di “limite” immanente nell’”orizzonte” heideggeriano) che concerne il reale tout court nella sua ambivalente duplicità e, medesimamente, costituisce l’impasse del meccanismo riflessivo, ossia il suo debordare in una sequenza infinita di sensi “orizzontali” . Orbene, l’espressione Cs=oDE s+1 integra quello che definiamo “rimando estensionale”: essa potrebbe essere ascritta in maniera superficiale a una forma di territorializzazione spaziale, dove l’uomo cerca di guadagnare territori spostandosi sul piano orizzontale. L’altra formula, quella della riflessione: S1FS2 ~S, allude invece a un “rimando intensionale”, cioè all’inclusione di un senso da parte di un altro, all’infinito. Sia che ci muoviamo in senso orizzontale, sia che ci muoviamo scavando nella profondità di un qualsiasi concetto, ci troviamo a manipolare degli infiniti che rendono inefficace e illusoria qualsiasi forma di chiusura. Questi due movimenti, però, sono spesso dal punto di vista echologico indistinguibili. La riflessione, ad esempio, conduce ad un’altra riflessione e ad un’altra ancora, in una sorta di invaginazione, mentre d’altra parte la stessa catena Rn delle riflessioni si configura come una collezione di riflessioni complanari e adiacenti, giustapposte una al fianco dell’altra senza alcuna differenziazione di livello. Conversamente, la sequenza di sensi semplicemente giustapposti può profilarsi come un rimando intensionale: la critica humiana al principio di causalità, infatti, vuole dimostrare questa circostanza ambivalente, ovvero come il passaggio da una semplice giustapposizione degli eventi a una sussunzione causalistica costituisca di fatto un’illusione del nostro intelletto, una finzione che
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camuffa intensionalmente un semplice rimando estensionale. Sloterdijk, stesso, tende suo malgrado a confondere i piani, sovrapponendo la “serrificazione” geografica e territoriale alla “climatizzazione” simbolica, ovvero all’istituzione di sempre più ampie (nel senso della profondità intensionale e riflessiva) aree difensive. Sulla scorta di queste osservazioni dovremmo ridisegnare parzialmente le nostre formule: l’enunciazione principale, S=S/~S, deve tener conto che ogni senso S si caratterizza per essere una batteria di sensi ulteriori, cioè per essere espressione di una serie infinita: Cs=oDE . Così risulterebbe dunque la versione più completa del grafo echologico: Cs=oDE =S/~S, la serie dei sensi infiniti C equivale a al senso unito al non-senso. La terza proposizione infatti - e qui incominciamo a riconoscerne l’importanza - sottolinea l’identità tautologica del non-senso con se stesso: ~S=~S. Essa rappresenta in maniera metaforica l’uguaglianza tra il non-senso cosmico e il non-senso soggettivo, ma qui li propone nella paradossale identità di serie infinite di sensi tra di loro costitutivamente eterogenei. L’insensatezza del senso non dipende dall’oscurità terrifica di un Fuori di cui costantemente presentiamo il pericolo, né d’un nemico che ci assilla e ci minaccia; né tantomeno degli oscuri meandri del nostro animo che di tanto in tanto ci angosciano o ci fanno agire in modo inatteso o inconsulto; a livello del nostro grafo, invece, l’insensatezza del senso viene adombrata proprio a livello di struttura echologica, cioè in virtù della costitutiva indiscernibilità di rimando intensionale e di rimando estensionale, e, quindi, dalla consequenziale deriva infinita che viene messa in gioco. Dobbiamo tuttavia stare attenti alla nostra simbolizzazione: un po’ surrettiziamente abbiamo introdotto infatti un’ulteriore differenziazione, per rendere in apparenza più chiare le cose. Il senso come serie Cs=oDE pare differire dal semplice senso S; il senso invece unito al non-senso è ciò che ci dà la serie. In altri termini è come se affermassimo che una pluralità di sensi diviene alla fine insensata, ma che solo il senso, sia esso il “buon senso” o il “senso comune” o il “senso” proprie dictu come il Geist hegeliano, può sussistere e consistere. Traducendo però anche la seconda formula, ecco che troviamo la seguente espressione: ~(Cs=oDE=S/~S) (S=~S), cioè se neghiamo che la serie di sensi sia composta dal senso e dal non-senso, allora senso e non-senso coincidono. Più brevemente, la negazione che la pluralità di sensi sia in parte insensata, proprio in virtù di questo suo carattere infinitamente molteplice, ossia l’affermazione che un senso può “avere” senso soltanto nella sua monolitica singolarità, diviene
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tosto un’enunciazione insensata. È come se d’un tratto avessimo trovato il bandolo della matassa che già l’analitica esistenziale di Heidegger aveva scompigliato: non esiste un solo senso, ma una pluralità di sensi; e la concezione univoca del senso quale la conosciamo può essere mantenuta soltanto attraverso un irrigidimento metafisico in se stesso, attraverso quello che definiamo un blocco del rimando che è ad un tempo insensato nella sua radicalità, e necessario per il conferimento di senso. Questo blocco ha anche a che fare con una forma traslata di soggezione: nella differenziazione tra Cs=oDE e S c’è infatti di mezzo paradossalmente il soggetto. Ciò che la logica ha da sempre espunto sin dalla sua costituzione, ecco che sottentra in altri modi, attraverso l’espunzione parzialmente fallita della temporalità dall’ambito dell’istituzione simbolica e — con un meccanismo affine, come vedremo — con il blocco del rimando simbolico e, quindi, la fissazione soggettiva. Quest’ultima è in fondo necessaria, ma dev’essere mantenuta sempre all’orizzonte dello sciame infinito delle serie di sensi che da essa in qualche maniera si dipartono. La quarta espressione sembra confermare questo approccio: S0~S, ossia Cs=oDE0~S: una serie infinita di sensi, ancorché composta da sensi “sensati”, è nel suo insieme insensata. La serie in se stessa nell’indiscernibilità di rimando che la caratterizza risulta di fatto impossibile ed è così insensata da approssimare il reale e riprodurne per certi aspetti la struttura intrinseca (Bazzanella, 2006). Diviene allora necessaria una soggezione o, come afferma Lacan, un tratto unario che funga da elemento di chiusura e di taglio, da discrimine che da un lato eluda la deriva infinita del non-senso e dall’altro che ne mantenga la co-fungenza, ossia il plesso paradossale espresso dalla S=S/~S: non è possibile alcuna logica senza questo fenomeno di blocco che paradossalmente ha a che fare con il tempo nella sua medianità tra senso e reale; così come non è possibile alcuna logica senza che essa rimanga ancorata a una deriva insensata, riportando presso di sé, suo malgrado, le tracce dell’incontro traumatico con il reale stesso. Se riprendiamo allora un’altra formalizzazione che avevamo ampiamente utilizzato nel nostro Trattato di echologia (Bazzanella, 2004) ecco che la serie Cs=oDE dovrebbe così essere ulteriormente caratterizzata:
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"
("
s-s-s-s-s-s-s-s-s-s-@-s-s-s-s-s-s-s-s-s-s
")
" La serie implica un rimando intensionale ed estensionale infiniti, nel senso che ogni senso rimanda estensivamente ad infiniti altri sensi e “incassa” (o embeds) intensivamente altri sensi inclusi. Che un senso s piccolo sia riferibile a un altro senso in modo estensionale o intensionale, rimane un fatto indecidibile, poiché le parentesi (indice di “incassamento” e intensione) sono essenzialmente permutabili e mai definite una volta per tutte. La @ grande, invece, implica che “quel” senso è differente dagli altri, ovverosia implica una soggezione che di fatto neutralizza la nebulosa della pluralità di sensi co-occorrenti. Si tratta di una forzatura che, pur articolandosi nel reale, lo oblia artatamente, raggiungendo il piano formalizzato dell’argomentazione logica. In ogni articolazione di senso questa frangia viene per così dire epochizzata e soltanto nel pensiero creativo affiora per dar luogo a nuove soggezioni e nuovi sensi. Lacan ha descritto questo processo del senso nel Seminario XVII, ove evidenzia come nell’articolazione di vari tipi di discorsi tenda comunque ad affermarsi il discorso del Padrone. L’epoca attuale si profila ad esempio con talune connotazioni patologiche proprio perché il discorso del Padrone è stato sostituito dal “discorso dell’Università”, cioè da un sapere illimitato ma senza soggetto, con il rischio conseguente di scadere nel non-senso. Il senso--Padrone @ instaura la propria padronanza immettendosi in una catena di sensi-significanti Cs=oDE che gli preesiste e che lui, solo retroattivamente, va a direzionare e subordinare, senza tuttavia saperne. “Il padrone che compie questa operazione di spostamento, di bonifico bancario, del sapere del servo, ha forse voglia di sapere? Un vero padrone — l’abbiamo visto in generale fino a un’epoca recente, anche se lo si vede sempre meno — un vero padrone non desidera sapere assolutamente nulla — desidera solo che la cosa funzioni. E perché mai dovrebbe aver voglia di sapere?” (Lacan, XVII, pp. 19-20). Il non-saperne-nulla descrive la “messatra-parentesi” della Cs=oDE, ossia una rimozione che non è affatto riflessiva: qualsiasi ulteriore riflessione non farebbe infatti che reintrodurre un senso ulteriore, inficiando così sin dall’inizio la supposta aseità del senso S. Orbene: il sapere dell’Università tende invece a met-
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tere problematicamente assieme la Cs=oDE e il senso egemone S, cioè l’infinità di un sapere che non riesce a discernere tra livello estensionale e livello intensionale è divenuto nel capitalismo il vero Soggetto. La fissazione-blocco del significante si articola paradossalmente nella fissazione dell’infinità dei significanti, cosicché il nonsenso è divenuto “soggetto”, non come residuo della soggezione stessa (l’istituzione simbolica), ma come pluralità indefinita e indefinibile dei soggetti.
2.3.4 La normotipia Nel precedente paragrafo abbiamo consolidato la necessità di una concezione pluralistica del senso. Non esiste un solo senso e, quindi, una sorta di solipsismo (per quanto, dal nostro punto di vista, il senso non debba necessariamente essere legato a una soggettività “umana” o ad un “io”): ogni senso rimanda a un senso ulteriore, sebbene non ci sia alcun rapporto di tipo gerarchico, cioè nessuna assialità di tipo aristotelico-porfiriano “superiore-inferiore”, “alto-basso”, “migliore-peggiore”, etc.. Questo passaggio teoretico è fondamentale, poiché tenta di colmare un’impasse presente nelle analisi heideggeriane di Essere e tempo: infatti la struttura esistenziale del con-Esserci — come osserva Ricoeur (Ricoeur, 1985, pp. 116-117) — risulta troppo debole per giustificare la traslazione da una temporalità soggettiva e individuale al concetto di storicità pubblica. Riprendiamo quindi la nostra notazione della pluralità (o “molteplicità” per dirla con Deleuze): Cs=oDE s+1; S1FS2
~S, “c’è sempre un senso in più” e “non esiste un metasenso”
(o, detto altrimenti, “ogni metasenso non ha senso”). Abbiamo visto che una radicalizzazione di questa tesi, cioè un’assoluta e infinita serialità del senso, rende di fatto impossibile il senso stesso, ossia lo rende assimilabile al non-senso. In effetti, già la semplice notazione S occulta una serie di presupposizioni e una serie infinita di rimandi e di orizzonti, analogamente peraltro all’istituzione simbolica che sta alla base di ogni logica: invero, tale notazione è riduttiva e “neutralizzante”, cioè mette tra parentesi ciò che in echologia definiamo “campo essematico” (il campo infinito dei rimandi e delle relazioni articolate da qualsiasi essente). Ora, la possibilità di ogni logica e di ogni senso si fonda suo malgrado su un’azione riduttiva che mantiene dei caratteri di violenza e forzatura. La stessa storia del sapere occidentale si basa su questa profonda semplificazione, che talvolta un po’ eufemisticamente viene defi-
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nita “astrazione”. Ma la curiosità assale quando ci accorgiamo che questa riduzione possiede anche i caratteri dell’arbitrarietà se non della vera e propria impostura. Osserva infatti Zizek evidenziando quest’aspetto decisivo: “la tesi fondamentale di Lacan è che il Master è, per definizione, un impostore: il Master è qualcuno che, trovandosi al posto della mancanza costitutiva della struttura, agisce come se tenesse le redini di quel surplus, del misterioso X che elude la comprensione della struttura” (Zizek, 1992, p. 162). Il Padrone prende il posto del buco del reale, della lacuna creata dall’inserzione di un senso nel mondo; ma nel far questo è un ingannatore, poiché di fatto non ne ha alcun titolo e tenta di prendere più spazio possibile all’interno di infiniti ulteriori sensi. Lacan, ad esempio, tratta nello stesso modo uno dei grandi saperi della cultura occidentale: l’ontologia. Anch’essa, nonostante la sua storia millenaria, costituisce una sorta di finzione imposturale, un “blocco” all’interno di una sequenza di senso Cs=oDE s+1 cui non corrisponde nessun riscontro “reale”, poiché di fatto è l’ontologia stessa che si è trasformata in un piano di referenza. “L’ontologia è ciò che ha messo in vigore nel linguaggio l’uso della copula, isolandola come significante. Fermarsi al verbo essere - un verbo che non ha nemmeno un uso, nel campo completo della diversità delle lingue, che possa essere qualificato come universale -, produrlo in quanto tale, è un’accentuazione piena di rischi. Per esorcizzarlo, basterebbe forse affermare che, quando si dice di una qualsiasi cosa che è quel che è, niente obbliga in alcun modo a isolare il verbo essere. Si pronuncia è quel che è, che potrebbe benissimo scriversi èkuelkeè. In quest’uso della copula non ci sarebbe niente da vedere. Non ci sarebbe niente da vedere se un discorso, che è il discorso del padrone, Maître, M’être, M’essére, non mettesse l’accento sul verbo essere” (Lacan, XX, p. 31). L’ontologia si fonda sulla fissazione di un significante specifico che, però, mantiene la sua essenziale arbitrarietà. Lacan ci dice che si sarebbe potuto scegliere anche un altro significante, èkuelkeè appunto, e probabilmente non avremmo avuto decorsi differenti di senso. “Ogni dimensione dell’essere si produce nella corrente del discorso del padrone, colui che, proferendo il significante, se ne aspetta quello che è uno dei suoi effetti di legame non trascurabile, che dipende dal fatto che il significante comanda. Il significante è innanzitutto imperativo” (ibidem). Il senso imposturale non soltanto è arbitrario, ma diviene cogente nella misura in cui dispone anche le altre articolazioni di senso, cioè tende a direzionare, sussumendole, quante più possibili linee di divergenza.
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La necessità di un’astrazione escludente è quindi uno dei meccanismi essenziali nella produzione di senso, sebbene il non-senso gli rimanga per così dire appiccicato sotto la suola delle scarpe: il tempo è a nostro avviso uno degli indici o cerniera di questa com-presenza silente, per quanto la sua struttura sia ancora più complessa e non possa essere semplicisticamente coniugata al non-senso. Le emergenze del reale insensato all’interno del senso, infatti, non sono mai “pure”, bensì in qualche maniera già “edulcorate” da una certa sensatezza. In altre parole, i meccanismi di serra di Sloterdijk sono talmente raffinati che impediscono di fatto qualsiasi contatto veramente diretto, aperta facie, con il non-senso. Dobbiamo infatti tener conto che già all’interno del senso stesso si formano delle serre o enclaves che occultano per così dire quelle cicatrici e tracce dell’inserzione di un senso nel reale. Il processo del rimando intensionale segnala questa occorrenza e, anzi, la radicalizza sin quasi al paradosso: non solo ogni serie di sensi costituisce di per sé una serra, ma questa è inclusa in ulteriori sfere e serre difensive, e quest’ultime in altre ancora, ad infinitum. C’è tuttavia un’ulteriore differenziazione all’interno di queste serre simboliche, differenziazione che ripete il meccanismo della fissazioneblocco di un senso all’interno delle linee di slittamento infinito che lo caratterizzano, ma che si articola per così dire su una diversa scala e con delle funzioni accessorie affatto specifiche. Questo profilo peculiare di certi regimi di senso s’è già peraltro configurato nel nostro esempio dell’ontologia: 1) si tratta di un senso complesso e collettivo che include innumeri altri sensi; 2) è un senso imperativo che introduce una sorta di modello di conformità o, se vogliamo, di normalità; 3) costituisce un piano di referenza, cioè diviene ciò-rispetto-a-cui un’altra costruzione di senso ha senso; 4) è assolutamente arbitrario e dipende da un particolare processo di astrazione che probabilmente può essere datato e soprattutto circostanziato. Orbene, chiamiamo questi particolari regimi di senso normotipie. Esse non sono soltanto il ciò-rispetto-a-cui, ossia la referenza di qualsiasi senso, ma anche il da-cui ogni senso pro-viene, poiché è la stessa la normotipia che produce quei punti di soggezione che poi garantiscono il senso stesso. Per caratterizzare introduttivamente la struttura normotipica ci sembrano abbastanza esemplificative le teorie delle rappresentazioni sociali di S. Moscovici e, soprattutto, il concetto husserliano di Lebenswelt. La “rappresentazione sociale” moscoviciana è erede in parte delle rappresentazioni collettive di E. Durkheim (Farr-
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Moscovici, 1984, p. 37): l’idea di fondo che la sorregge è che il vivere sociale sia organizzato e cementato da strutture di sapere collettive molto profonde che regolano le interazioni sociali, ma soprattutto fungono da “norma” poiché offrono quegli elementi di senso cui ogni attore sociale è tenuto a conformarsi. Mentre per Durkheim tali strutture, per lo più finzionali, assumevano una valenza “religiosa”, quasi fossero dei rituali ad ampia diffusione in grado di contemperare il mondo sociale con quello numenico, per Moscovici esse funzionano soprattutto a livello di sensatezza. L’esempio noto che egli riporta, infatti, concerne il carattere di “rappresentazione sociale” del freudismo nella Francia degli anni Sessanta: egli nota una specifica diffusione terminologica, una precisa ridondanza con una vera e propria epidemia lessicale, semantica e sintattica. In altri termini, la psicanalisi si era trasformata in un piano di referenza sociale, in un Grund di senso dal quale nessun’altra articolazione di senso poteva prescindere. Lo stesso potremmo dire oggi del “senso economico” che pare intridere ogni aspetto della nostra esistenza sociale, assumendo persino una valenza etica e assiologica e diventando una linea di demarcazione tra appartenenza o non-appartenenza a un determinato gruppo sociale. Oppure, ancora, un certo “scientismo” diffuso, tantoché l’artista inglese Damien Hirst, noto per le sue provocazioni, ha intitolato New Religion (2007) la sua nuova opera, proprio riferendosi all’attuale preminenza ideologico-religiosa della scienza. Ciò che comunque distingue le rappresentazioni sociali dalle semplici formazioni ideologiche è soprattutto la sua apparente spontaneità, come se si trattasse di un processo silente, che avviene nei reconditori più dislocati del senso. Il suo carattere coercitivo, dunque, è ben distinto da quello dell’ideologia: esso è per così dire strutturale, poiché — diciamo noi — la rappresentazione sociale tende a divenire-reale, cioè ad assumere il ruolo di un essente sociale che costituisce la realtà sociale stessa, nella sua imprescindibile oggettività. “In primo luogo esse, (le rappresentazioni sociali) convenzionalizzano gli oggetti, le persone e gli eventi che incontriamo nel nostro percorso, fornendo loro una forma precisa, assegnandoli a una data categoria e definendoli in maniera graduale quale modello di un certo tipo, distinto e condiviso da un gruppo di persone. (…) In secondo luogo, le rappresentazioni sono prescrittive, cioè si impongono a noi con forza irresistibile, forza che è la combinazione di una struttura che è presente addirittura prima che noi cominciamo a pensare e di una tradizione che stabilisce cosa dobbiamo pensare” (Farr-Moscovici, 1984, pp. 27-29). L’altro côté della normotipia afferisce alla nozione husserliana di
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Lebenswelt sulla quale ci siamo già in parte soffermati. Curiosamente, con un certo parallelismo nei confronti di Wittgenstein, anche Husserl al termine del suo percorso di pensiero giunge ad uno strano allacciamento con un livello per così dire vitalistico: il logicismo del Tractatus alla fine perviene alle Lebensformen delle Ricerche logiche in quanto base coesistente dei vari “giochi linguistici” su cui è fondabile non soltanto una logica vera e propria, ma anche qualunque forma di comunicazione; la fenomenologia, in quanto evoluzione di un fondazionalismo logico abbastanza esasperato, finisce anch’essa per agganciarsi alla “vita” in generale come correlazione intermonadica di infiniti vissuti soggettivi. In effetti è come se, dopo un processo parossistico di esclusione del reale, quest’ultimo sottentrasse con le vesti di un variegato e sempre cangiante caleidoscopio vitalistico, il quale, peraltro, risulta già mediato da ulteriori categorizzazioni. Ciò che è stato espunto dall’astrazione logicistica, rientra nella forma fondazionalistica dell’orizzonte trascendentale che rende possibile qualsiasi logica e qualsiasi matematica: come dire che uno scientismo senza umanismo non può che rivolgersi in se stesso e trovare il proprio fondamento in ciò che aveva preventivamente espunto, così come e contrario un umanismo senza scienza non rappresenta null’altro che la rimozione dei suo medesimi meccanismi funzionali. Orbene, la Lebenswelt che compare significativamente nella Crisi delle scienze europee, sembra tentare una giunzione tra simbolico e reale che la stessa fenomenologia sembrava aver in parte tralasciato (a parte l’approfondimento husserliano della dimensione hyletica dell’esperienza, epperò mai del tutto compiuta). Mentre nelle rappresentazioni sociali prevale l’aspetto simbolico, nella Lebenswelt Husserl cerca una radicalizzazione nel reale, ossia tenta di radiografare i punti di sutura o imbiettatura tra senso e non-senso. Infatti la maglia strutturale che sostiene il “mondo-della-vita” concerne soprattutto i rapporti hyletici e l’intersoggettività fenomenologica così come enucleata nelle Meditazioni cartesiane: “sulla base del sistema fungente dei poli egologici si costituisce per ogni soggetto il ‘mondo per tutti’ in quanto mondo per tutti” (Husserl, 1950, p. 135). Per certi versi, la Lebenswelt si costituisce attraverso una collazione di differenti livelli di alterità, senza che d’altronde se ne possa trovare un qualche rapporto stabile e definito: il “mondo per tutti” si dispiega mediante una generalizzata estraneità, coniugando tra di loro il livello hyletico-materiale della percezione, l’esperienza dell’Alter-ego, la temporalità in tutte le sue gradazioni, dalla semplice ritenzione intenzionale al puro flusso impersonale e inconscio degli Erlebnisse. E. Paci descrive molto bene questa
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condizione che, a nostro parere, rispecchia puntualmente la struttura paradossale del reale lacaniano: “tutto il mondo è per me ‘nell’orizzonte cinestetico’ del mio Leib. Tutto il mondo è per l’altro Leib nel suo orizzonte cinestetico. La materia comune nella quale ci muoviamo io e l’altro Leib è ciò che ciascuno di noi sperimenta come corporeità spaziotemporale materiale, come mondo delle cose, come sfondo hyletico nel quale siamo radicati sia io che l’altro. Questo sfondo è la radice hyletica che io e l’altro abbiamo dentro di noi, sia la materialità esterna, materialità spaziotemporale che limita i nostri movimenti” (Paci, 1963, p. 186). La “rappresentazione sociale” moscoviciana mette in risalto l’aspetto prescrittivo e finzionale di determinati sistemi di senso in grado di orientare e motivare l’azione sociale; la Lebenswelt mette in luce il carattere ambivalente di questa struttura, in quanto necessariamente “contaminata” con il reale: essa diviene così sia il piano di referenza “oggettivo” cui ogni esperienza umana fa “riferimento”, sia quella dimensione “reale” di cui, paradossalmente, ne-siamo. “Non dobbiamo più comprendere come un Per Sé possa pensare un altro a partire dalla sua solitudine assoluta, o possa pensare un mondo precostituito nel momento stesso in cui lo costituisce: l’inerenza del sé al mondo o del mondo al sé, del sé all’altro o dell’altro al sé, ciò che Husserl chiama Ineinander, è inscritta silenziosamente in una esperienza integrale (...), è all’anima di Eraclito che ci riconduce, a un concatenamento di orizzonti, un Essere aperto” (Merleau-Ponty, 1968). Se dunque la normotipia così come l’abbiamo abbozzata possiede anche soltanto in minima parte la struttura della Lebenswelt, emergono senz’altro delle criticità teoretiche che fanno il paio con quelle enucleate nella nostra indagine: e cioè il ritrovare all’interno di una serra simbolico-normativa degli elementi paradossali che sembrano continuamente inocularvi degli “slarghi” di non-senso. Quando Merleau-Ponty allude significativamente a un Essere aperto di tipo eracliteo, sembra infatti riecheggiare il contenuto delle nostre formule: Cs=oDE s+1; S1FS2 ~S, cioè c’è sempre un senso-orizzonte in più e ogni senso è mutuamentente incluso in un altro e in un altro ancora, senza prevaricazione o gerarchia di sorta.
2.3.5 Logica normotipica L’orizzonte moscoviciano ha messo in luce gli aspetti referenziali, nor-
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mativi e prescrittivi della normotipia; la Lebenswelt husserliana, invece, dimostra da un lato il carattere “reale” della normotipia, ma dall’altro ne ha ovviamente evidenziato il carattere aporetico e insensato. Il senso, come abbiamo osservato, costituisce una sorta di “zonizzazione” climatica all’interno di un debordamento infinito che implicherebbe la sua insensatezza: ma ciò che induce questa esclusione astraente che tenta di “allontanare” il reale insito nel senso stesso è un’altra formazione di senso: la normotipia, appunto. Abbiamo così evidenziato i seguenti punti caratterizzanti la normotipia: 1) essa è un senso finzionale, cioè dipende da una sorta di “masterizzazione” che rende egemone un determinato senso, senza tuttavia alcuna motivazione intrinseca: in questo modo diciamo che la sua posizione è imposturale, cioè viziata sin dall’inizio dall’arbitrarietà; 2) nonostante tale imposturalità, però, la normotipia possiede un carattere normativo e normalizzante, cioè diviene il canone di riferimento per qualsiasi altro senso, così come determina ciò che è normale e ciò che è anormale; 3) in questo modo essa diviene un piano di referenza, ossia il ciò rispetto a cui ogni senso di auto-determina. Questo significa che qualsiasi senso ulteriore tende a masterizzarsi e, tendenzialmente, a conformarsi alla masterizzazione normotipica; 4) tutto ciò non riesce tuttavia a celare il fatto che la normotipia sia un senso come un altro, cioè integri i momenti paradossali riassunti nelle nostre formule: S=S/~S; S0~S; Cs=oDE s+1; S1FS2 ~S,. Detto diversamente, la normotipia nasconde in sé dei pezzi di reale che non cessa di occultare, ma che la conducono suo malgrado verso uno scivolamento infinito. A questo punto, tuttavia, dovremmo approfondire in maggiore dettaglio il meccanismo “masterizzante” in se stesso e la sua ridondanza all’interno degli altri sensi, poiché proprio in esso si condensano gli aspetti contraddittori che abbiamo sinora visto caratterizzare la normotipia. Per giungere a questo approfondimento è necessario introdurre un’ulteriore nozione che prende il nome dalla psicologia “ecologica” di J.J. Gibson: l’affordanza. Noi ne traiamo soprattutto i significati di “invarianza” e di “possibilità” (da intendersi, però, come “possibilità di invarianza”). Ogni masterizzazione, cioè ogni fissazione di un senso mediante astrazione ed esclusione (del reale), ha a che fare con un’affordanza. Gibson pensava a quest’ultima come a quella circostanza ambientale invariante che induce delle modificazioni adattive nell’animale: nel nostro linguaggio, significa l’inserzione di un pezzo di reale nell’ambito del simbolico, reale tuttavia che il senso non può controllare se non occultandolo con una cortina di significanti. È come se l’affordanza mantenesse dei “buchi” all’interno della normotipia, per
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farli “funzionare” in qualità di generatori di senso e di ulteriori invarianze. Definiamo questa sorta di “panspermia” di invarianze “processo di narcisizzazione del senso”. Si tratta di un’espressione metaforica, che ben poco ha in comune con l’omonimo disturbo della personalità; tuttavia essa rende molto bene l’idea di un conatus insito nel senso di allargare epidemicamente i propri confini e di produrre quante più possibili invarianze. In fondo, è quella “padronanza” che abbiamo visto essere una sua caratteristica essenziale: non è una semplice proprietà estrinseca, come se il senso umano costituisse una delle strategie adattive volte a difendersi o ad allargare il controllo del territorio; semmai è ciò che fa sì che esso possa essere utilizzato anche in tal modo, ossia delinea quello spazio connettivale in cui uomo e reale s’incontrano traumaticamente e si definiscono reciprocamente. L’invarianza affordanziale, dunque, ricopre il buco del reale con la fissazione di un senso, ma poi tende a “narcisizzare”, cioè a propagare questa fissazione iterandola anche lungo altre linee di senso: questa iterazione l’abbiamo definita ridondanza ed è un fenomeno abbastanza evidente nella normotipia economica che caratterizza la nostra epoca e che si esplicita nella ripetizione di lessico e significati di tipo economicistico (Latouche, 2002, p. 33). Da un punto di vista differente, Foucault è giunto probabilmente a conclusioni analoghe con le sue definizioni di enunciato e archivio: l’idea di fondo è che il senso si articoli in formazioni d’esteriorità che non sono né oggettive, né soggettive ma che funzionano per cumulo e dispersione. Sulla stessa linea si pone anche un’ontologia della documentalità (Ferraris, 2007), ove il “documento” assume un’esistenza efficace e performativa in un ambito sociale grazie ai processi di iscrizione, registrazione e memorizzazione. Foucault nell’Archeologia del sapere dice di voler “descrivere un insieme di enunciati non come la totalità chiusa e pletorica di un significato, ma come una figura lacunosa e frammentaria; descrivere un insieme di enunciati, non in riferimento all’interiorità di un’intenzione, di un pensiero o di un soggetto, ma secondo la dispersione di una esteriorità; descrivere un insieme di enunciati, non per ritrovarvi il momento o la traccia dell’origine, ma le forme specifiche di un cumulo, non significa certamente mettere in luce un’interpretazione, scoprire un fondamento, mettere in evidenza degli atti costitutivi; non significa neppure decidere su una razionalità o percorrere una teleologia. Significa stabilire quella che volentieri chiamerei una positività” (Foucault, 1969, p. 168). L’invarianza affordanziale non rappresenta dunque un significato occulto e originario che reggerebbe un intero sistema di senso; né tantomeno vi si nasconde la verità, intesa nel modo tradizionale: semmai, osserva Foucault, si
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tratta di una “piegatura” del Fuori, dell’incidenza d’evento o del reale stesso. In questa prospettiva, “l’analisi degli enunciati li tratta nella forma sistematica dell’esteriorità. Abitualmente, la descrizione storica delle cose dette è tutta quanta permeata dalla contrapposizione tra interno ed esterno, e tutta quanta condizionata dal proposito di ritornare da questa esteriorità — che non sarebbe altro che contingenza o pura necessità materiale, corpo visibile o incerta traduzione — verso il nucleo essenziale dell’interiorità” (ivi, p. 162). Il senso normotipico assume un’autonomia referenziale, che non è la semplice oggettivazione dello Spirito di cui si occupava Dilthey: esso invece diviene il reale medesimo che, come abbiamo visto, non fa alcuna distinzione tra soggetto ed oggetto. Allora “l’analisi degli enunciati si effettua dunque senza riferimento a un cogito. Essa non pone la questione di colui che parla, che si manifesta o si nasconde in ciò che dice, che esercita prendendo la parola la sua sovrana libertà, o che si sottomette senza saperlo a delle costrizioni che non percepisce bene. In pratica essa si colloca al livello del ‘si dice’, e con ciò non si deve intendere una specie di opinione comune, di rappresentazione collettiva che s’imponga a ogni individuo; non si deve intendere una grande voce anonima che parli necessariamente attraverso i discorsi di ciascuno; ma l’insieme delle cose dette, le relazioni, le regolarità e le trasformazioni che vi si possono osservare (...). ‘Chiunque parla’, ma ciò che dice, non lo dice da una posizione qualunque. È necessariamente implicato nel meccanismo di un’esteriorità” (Foucault, 1969, pp. 64-65). È il Fuori, come gioco di forze, che s’invagina creando un mondo chiuso e una soggezione: ciò avviene attraverso un doppio movimento — la dispersione-rarefazione e il cumulo — cosicché un senso diviene ad un certo punto “imperativo” e prescrittivo e non si può dire più nulla, né enunciare alcunché in una determinata sfera socio-culturale che non faccia riferimento a questo sfondo normotipico. Se riassumiamo dunque il meccanismo che soggiace alla normotipia così come all’archivio foucaultiano, dobbiamo affrontare una certa interferenza di un Fuori che non cessa però di ritrarsi ed occultarsi: buco del reale affordanza in quanto “misto” di reale e simbolico fissazione del senso-Master narcisizzazione in quanto propagazione del senso-Master ridondanza del senso-Master Ciò che sorprende nella normotipia è la sua tendenza a “reificare”, cioè a divenire-reale essa stessa. Quasi obliando la sua origine imposturale e finzionale, essa tende a divenire il l’“essere” o, meglio, la
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Lebenswelt in cui gli esseri umani vivono e sopravvivono. Questa evenienza l’abbiamo analizzata abbastanza acribicamente nel caso del tardocapitalismo (Bazzanella, 2006), il quale, oltre alla propria valenza normotipica (cioè all’essere il ciò-rispetto-a-cui ogni senso si articola), ha palesato la tendenza a voler imitare il reale nella sua medesima processualità (ossia coniugando impossibilità e permanenza del moto circolare). Se dunque affrontiamo la questione gettando un occhio alla questione della temporalità e della spazialità, potremmo definirla come una tendenza all’eternizzazione immobilizzante: ogni normotipia non è altro che una finzione dell’ ! ’ '9$* o del quod quid erat esse, una teatralizzazione difensiva che simula il reale mettendolo continuamente in gioco attraverso una narrazione mitopoietica che introduce la storia e la narratività. Di fatto, ciò che la normotipia vuole celare è proprio l’accidentalità della propria origine, l’essere cioè intaccata sin dal principio dal reale in quanto evento traumatico della sua istituzione. Per éiûek il paradosso del tempo si situa proprio a questo livello: “se il trauma potesse essere temporalizzato/storicizzato con successo, la dimensione stessa del tempo imploderebbe/collasserebbe in un Adesso eterno senza tempo” (Zizek, 2000, p. 100). In altri termini è proprio l’”eternità” dell’eterno ritorno del reale, immanente nell’arbitrarietà paradossale dell’istituzione normotipica medesima, che si pone alla base della storicità e del tempo come successione orientata d’eventi, e non viceversa: l’eternità non è l’illusione mitizzata di una temporalità originaria in cui l’essente è destinato a divenire e deperire. “L’Eternità non è atemporale semplicemente nel senso di continuare al di là del tempo; piuttosto, è il nome dell’Evento o Taglio che sostiene, apre, la dimensione della temporalità come serie/successione d(e)i tentativi falliti di afferarla” (ibidem). In questa prospettiva, la normotipia cerca di eternizzarsi per rinsaldarsi al reale che l’ha originata; ma per far ciò è condannata a un’”eterna” finzione, ossia a mettere in gioco il reale collateralmente, nei suoi effetti enigmatici e “traumatici” di “traccia” o cicatrice.
2.3.6 Normotipia e reale G. Bateson e successivamente E. Goffman hanno introdotto nell’ambito degli studi sociali la nozione di “cornice” (frame). “La cornice di un quadro — osserva Bateson — dice all’osservatore che nell’interpretare il quadro egli non deve impiegare lo stesso tipo di ragionamento che potrebbe impiegare per interpretare la carta da parati esterna alla cornice” (Bateson, 1972, p. 228). Si tratta in altri termini di seguire
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quel tratto differenziale che isola un contesto dal metacontesto: ciò che usualmente si definisce “contesto” infatti non serve solo all’attribuzione di significato a costanti e variabili di un enunciato in una determinata lingua L, ovvero non ha soltanto una funzione interpretativa nell’ambito dei linguaggi formalizzati. Esso ci offre delle vere e proprie marche distintive che svolgono una funzione per così dire “ontologica” nell’ambito di una comunità e che direzionano così i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti. Molte realtà sociali, infatti, “esistono” soltanto in virtù di un sistema determinato di cornici-contesti che ne definiscono il funzionamento e che forniscono quelle regole implicite che prescrivono le modalità in cui gli attori sociali devono atteggiarsi nei suoi confronti. Nella finzione scenica messa in gioco al teatro, ad esempio, lo spettatore riconosce una serie di cifre che fanno sì che egli non confonda la dinamica attoriale con la realtà circostante, che si disponga alla cosiddetta “fruizione estetica”, che rispetti intervalli e scansioni temporali ormai tradizionalizzati in un determinato genere drammatico, etc. Ci troviamo ad affrontare una specie di affastellamento di cornici, tutte elicitate da precise marche di riconoscimento, come ad esempio la stessa struttura architettonica del teatro, l’aprirsi del sipario, l’illuminotecnica, e così via. Il caso del teatro però non può essere considerato un fatto specifico e limitato a pochi appassionati, bensì può divenire un vero e proprio modello della vita sociale intera, con tutte le sue articolazioni finzionali e rituali. “Al centro dell’interesse sono solo i problemi drammaturgici incontrati da un attore nel presentare la sua attività di fronte ad altri. Questi problemi drammaturgici possono sembrare banali, ma si verificano in ogni momento e dovunque nella vita sociale, offrendo precise dimensioni per un’analisi metodologica formale” (Goffman, 1959, p. 25). Detto brevemente, dunque, la cornice assolve una funzione metacomunicativa e tenta una differenziazione di tipo logico (Bateson, 1972, p. 229); concerne il senso stesso della vita sociale in generale e conferisce un significato a catene di eventi che senza di essa risulterebbero del tutto insensati. Nell’antropologia del “rito”, ad esempio, una delle difficoltà analitiche dipende soprattutto dall’incapacità di discernere le cornici indigene o “emiche” e parallelamente dall’ingredienza di cornici allogeniche. Ciò non vale soltanto per le popolazioni culturalmente più lontane da noi, ma si applica anche ai fenomeni sociali che viviamo ogni giorno, quando molteplici incomprensioni e anomalie comportamentali dipendono proprio da un fraintendimento dei contesti e delle loro marche di riconoscimento. Molte abitudini comportamentali della società contemporanea, ad esempio, hanno un carattere eminente-
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mente ritualizzante, con elementi di finzione e di demarcazione che distinguono schematicamente i confini temporali e spaziali del rituale stesso: “prese tutte assieme, le strutture primarie di un particolare gruppo sociale costituiscono un elemento centrale della sua cultura, specialmente nel senso che emergono interpretazioni riguardo alle principali classi di schemi, la relazione di queste classi l’una con l’altra, e la somma totale di forze e di agenti che questi modelli interpretativi riconoscono essere sparsi nel mondo” (Goffman, 1974, p. 69). La realtà sociale, quindi, appare strutturata in modo molto complesso, cioè essa è attraversata da molteplici regimi di senso con stratificazioni e intrecci talvolta indiscernibili: è come se, con Sloterdijk, l’uomo mettesse in gioco livelli drammaturgici finzionali, molteplici e diversificati, passando da l’uno all’altro in una sorta di “messa in scena” di un rapporto referenziale. Detto altrimenti, la struttura di senso tipicamente umana è riuscita ad integrare perfettamente una sostanziale autoreferenzialità con l’illusione di continui e sempre più raffinati rapporti referenziali con il reale. In questo modo, la funzione di chiusura operata dalla cornice delimita un debordamento che rischierebbe di scoprirsi insensato. Ebbene, in quale posizione collochiamo quella metacornice che abbiamo chiamato normotipia? E quali spazi troviamo per il reale, segregato sempre di più in un Fuori irraggiungibile, che fa per così dire capolino quando meno ce l’aspettiamo e con effetti drammaticamente traumatici? Lo diciamo con un aforisma: la normotipia è una cornice senza cornice, ovvero essa rappresenta quel paradossale metacontesto o — per dirla con Goffman — quella paradossale “struttura primaria” che nega il proprio carattere di framework e cela le proprie marche distintive. L’orizzonte normotipico è il ciò-rispetto-a-cui ogni nostra espressione simbolica e ogni nostra azione hanno senso; kantianamente, è l’apriori trascendentale in cui qualche “oggetto sociale” può esistere e presentarsi alla nostra facoltà conoscitiva. Ma per conformarsi in siffatto modo, esso non può commisurarsi ad alcuna ulteriore cornice: in altre parole, non se ne può sapere, poiché ogni riflessione sarebbe condannata al fallimento e al non-senso, come più volte espresso dalla nostra formula S1FS2 ~S. Noi ci siamo e ne siamo, ma non possiamo saper-ne: in sostanza, l’aporia di Essere e tempo e l’impossibilità di una comprensione della Temporalität in quanto senso dell’essere in generale. Ciò significa che il framework infinito e caratterizzato dall’aprirsi e dal rinchiudersi
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relativo e finzionale di infiniti contesti e metacontesti, è possibile soltanto a partire da un “luogo” definitivo e non tematizzabile, del quale peraltro non vi può essere più cornice ulteriore. Questa cornice senza cornice costituisce un rituale assoluto, come se non vi fosse alcuna marca differenziale che selezioni i momenti del rito dalla vita normale. In questo rituale assoluto, seguendo l’ipotesi di De Martino, assistiamo parimenti a una destorificazione altrettanto radicale, cioè a un intervallo indefinito senza tempo. La normotipia in quanto tale tende a un siffatto allargamento rituale, potendo solo in tal maniera “reificarsi” e assurgere a quell’eternità o impossibilità che è invece tipica del reale. Dobbiamo comunque cautelarci rispetto alle aporie dell’autoaffezione e dell’autoreferenzialità che abbiamo visto caratterizzare - non a caso - proprio il dilemma della temporalità: l’apparente autosufficienza della normotipia è invero il frutto di un’ulteriore finzione, cioè essa costituisce una sorta di “messa in scena” primaria, di schematismo “finzionale” della struttura del senso. È il modo in cui il soggetto affronta il non-senso del reale, senza nemmeno approssimarlo troppo, ma facendone una sorta di pantomima: la normotipia diviene il piano di referenza per qualsiasi senso ulteriore in quanto “mima” il reale stesso come un “velo di Maja”, “perché IL REALE CHE RITORNA HA LO STATUS DI UN’ULTERIORE APPARENZA: proprio perché è reale, e cioè per il suo carattare traumatico ed eccessivo, noi non possiamo integrarlo nella (ciò che percepiamo come) nostra realtà, e siamo quindi costretti a esperirlo come un’apparizione da incubo” (Zizek, 2002a, p. 134). Reale e senso normotipico, allora, sono così mischiati tra di loro che non ne possiamo distinguere i tratti differenziali, né delimitarli in spazi autonomi e confrontabili. In effetti quella che éiûek definisce l’attuale “passione per il reale” (Zizek, 2002b, p. 16) descrive una particolare condizione dell’uomo contemporaneo che non riesce più ad accontentarsi delle “grandi narrazioni”, rappresentanti goffi orizzonti di senso o sfere protettive in grado di scongiurare l’eccessiva prossimità del non-senso; oggi, invece, si manifesta una tendenza che mira proprio allo strato normotipico, cioè alla supposta realtà o piano di referenza, ma “l’idea stessa che, sotto le apparenze fuorvianti, giaccia nascosta qualche ultima Cosa Reale troppo orribile per poter essere guardata direttamente, è in effetti l’ultima apparenza: questa Cosa Reale è uno spettro fantasmatico la cui presenza garantisce la consistenza del nostro edificio simbolico, consentendoci così di evitare di fare i conti proprio con la sua costitutiva inconsistenza” (ivi, p. 35).
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2.3.7 Il sinecismo normotipico Proviamo a formalizzare le osservazioni appena fatte, integrandole con la nostra notazione precedente. La normotipia ¿ costituisce innanzitutto una struttura di senso, cioè integra la nostra formula fondamentale: I=S/~S o, se chiamiamo con J il reale: I=S/J. Ciò significa che la normotipia sorge sulla scorta di un’affordanza, cioè di un’invarianza simbolica che non è senza rapporti con il reale. Inoltre della normotipia, almeno in linea teorica, non possiamo avere alcun meta-senso, cioè essa costituisce il “da-cui” e “rispetto-a-cui” qualsiasi senso “ha senso”. Possiamo esprimere questa tesi con una notazione appena modificata del “paradosso della riflessione”: IFSm ~S, ogni metasenso Sm che rifletta sulla normotipia implica di fatto una perdita di senso essendo-ne paradossalmente ri-flesso, in una ripetizione infinita (e come se, tra ri-flessione e ri-petizione, ci fosse uno straordinario sodalizio, una sorta di identità che non è senza rapporti con la temporalità e la ritualità stessa). L’altro aspetto filosoficamente rilevante della normotipia è il suo carattere finzionale: essa, in altri termini, si pone come propaggine del senso incuneandosi nel non-senso, ma poi tende suo malgrado a reificarsi, cioè a divenire-reale. Il passaggio che vogliamo sottolineare è un lasco di nutazione o vacillamento tra reale e realtà: per Lacan, la realtà è il reale sommato al simbolico, l’abbiamo visto; ma la normotipia pur fungendo da piano di referenza e, quindi, da paradossale commistione di senso e non-senso, tende per sua natura a re-ificarsi, cioè a divenire-reale. Tutto ciò — e qui insiste la sorpresa — dipende da una certa teatralizzazione, cioè da un inganno imposturale: dapprima la normotipia si fonda su una masterizzazione ingannevole, secondariamente finge il proprio carattere in-sensato e reale, eternizzandosi in una staticità e omeostaticità che ricorda il Todestrieb freudiano. Orbene, per formalizzare questa intenzionalità normotipica, dobbiamo articolare paradossalmente l’auto-identità I=I, cioè la permanenza della normotipia; la referenzialità che significa la coincidenza con il reale: I=J o l’inclusione nel reale: IKJ; la sensatezza e, quindi, I=S/J. Congiungendo queste formule: I=I; IKJ; I=S/J e cercando di risolverle, giungiamo alla seguente espressione: I=(S/J)KJ. La normotipia è quel senso S che intrecciato al reale è incluso o coincidente con il reale stesso; e la finzione F è quella funzione che rende il senso S un insieme vuoto e che, quindi, rende vera la I=(S/J)KJ: il limite per la funzione finzionale F(S, I, J) per S "
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si profila così: Gs: (s;S) tale che IKJ. Sostenere questa tesi, significa di fatto affermare che il senso della finzione normotipica protratto al limite non può che essere insensato o inesistente: esso giunge così al limite nella sua aderenza al reale, da esserne inghiottito perdendo necessariamente le proprie funzioni di padronanza e sensatezza. Si tratta di un rischio-limite permanente nel caso della normotipia, rischio particolarmente evidente oggi nel caso della normotipia tardocapitalistica che denuncia palesi indici patologici, cioè una sorta di psicotizzazione del senso in cui — seguendo Lacan — raggiungiamo una perfetta sovrapponibilità di simbolico e reale. Il sistema IJ, cioè il plesso ambivalente normotipia-reale, soffre di un equilibrio instabile che rischia di debordare nel non-senso nelle sue differenti determinazioni: il non-senso come l’Umgreifende jaspersiano in cui il senso è suo malgrado incluso: S0~S; e il non-senso in quanto paradosso dell’onnisenso o della riflessione parossistica: S1FS2 ~S. Ci troviamo indubbiamente innanzi a un’aporia: la normotipia sorge grazie a una finzione e continua a fingere “ciò che non è” nell’illusione dell’eternità. Potremmo esprimere la situazione un po’ brutalmente dicendo che con essa il senso vuole temporalizzarsi, cioè esser-tempo nelle sue ambivalenti determinazioni del divenire assoluto e dell’!'9*. Strana µ'µ#4's davvero, ma che descrive molto bene l’impasse che siamo costretti a maneggiare. Tuttavia, la normotipia tende per sua natura a sfuggire una psicotizzazione immanente nei suoi meccanismi funzionali: da un lato essa possiede un conatus totalizzante, cioè tende a divenire il reale; dall’altro, per le leggi fondamentali dell’echologia, si situa in un contesto inflazionistico di normotipie, cioè coesiste con infinite ulteriori normotipie. Nella nostra analisi del tardocapitalismo cui abbiamo già fatto cenno, in effetti evidenziammo come ogni normotipia si costituisca necessariamente all’interno di una collezione di ulteriori normotipie: per dirla brevemente, “c’è sempre una normotipia in più”, il che equivale a dire che abbiamo sempre un ulteriore piano di referenza, e un altro, e un altro ancora. Dal punto di vista “sferologico” questa circostanza individua una sorta di “buccia di cipolla” di tipo batesoniano, nella quale struttura più orizzonti simbolici si sovrappongo l’uno sopra all’altro in vista di una maggiore efficacia difensiva nei confronti del Fuori. La formula di questa circostanza è dunque la seguente: Cn=0DEI+1. Ovviamente la linea di rimando di una normotipia è identica a quella di qualsiasi altro senso, per cui abbiamo una serie inclusiva con una certa stratificazione gerarchica (la “normotipia” della base americana
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di Guantanamo, all’interno di una più ampia normotipia “militare” americana, all’interno a sua volta di una normotipia geo-politica globalizzata e legata al tardocapitalismo). Nell’ambito di questa pluralità normotipica assistiamo a un “gioco referenziale”, nel quale una normotipia oscilla e rimanda referenzialmente a un’altra normotipia. In altre parole è come se essa rifuggisse l’esito psicotico della reificazione totale e invece interagisse relazionalmente con un altro livello di referenza. La formula della funzione finzionale F, che aveva palesato un’insensatezza implicita, riesce a ricevere in tal modo un nuovo senso: lim S ":f(S, I, J):Gs:(s;S) tale che IKJ, ma esiste sempre una normotipia Im tale che Im e I costituiscono due insiemi disgiunti: ImLI. Posta una normotipia I quale piano di referenza di un insieme di sensi e posta la tendenza a divenire-reale di questa normotipia, esiste sempre un’altra normotipia cui la prima rimanda come al proprio senso, dando quindi senso anche a se stessa. Diciamo anche che ogni normotipia “slitta”, cioè non rimane sempre la stessa (I=I) ma scivola attraverso mille infinite normotipie: l’auto-identità (o autonimia) già rilevata, manifesta il carattere imposturalmente totalizzante di ogni normotipia e, tenta di dissimulare la radice strutturale della propria costituzione evidenziata dalla formula: IKJ. Allorquando viene meno la sua intrinseca capacità totalizzante, la normotipia, rimanda a un’altra normotipia, sino a quel momento sopita, come ai suo piano ulteriore di referenza e come suo proprio contenitore di senso. Abbiamo consolidato così alcuni strumenti per definire un particolare “gioco referenziale” che chiamiamo sinecismo normotipico: quando due normotipie si trovano “accoppiate” e rimandano l’una all’altra secondo un movimento di oscillazione, esse si intrecciano a tal punto da divenire i propri esclusivi piani di referenza. Proviamo a fare un esempio: i costumi e le usanze di una determinata popolazione rimandano sovente a un sostrato di principi e regole legislative che costituiscono tuttavia un altro livello di sapere formalizzato. Si dice anche abbastanza significativamente, nel linguaggio giuridico, che ubi societas, ibi ius, marcando tuttavia la differenza delle due normotipie, quella per così dire “etica” che riguarda l’effettivo comportamento regolamentato dall’abitudine degli attori sociali, e quella giuridica che invece concerne il piano formalizzato dei principi, nei quali quei medesimi comportamenti negli anni sono stati astratti e codificati. Dal nostro punto di vista ci troviamo di fronte a un sinecismo echologico, dimodoché un piano rimanda all’altro e viceversa, senza l’interferenza di
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alcun piano ulteriore. Talora infatti diciamo che la legge non è sufficientemente pronta a regolamentare dei fenomeni sociali nuovi; talora invece invochiamo il “diritto” come l’ultimo livello per discernere ciò che è giusto e regolare, da ciò che è ingiusto e immorale. I logici antichi definivano questo mutuo rimando con il termine diallele, dove un termine viziosamente fonda l’altro e viceversa: se però nell’ambito astratto della logica ciò può apparire aporetico, nell’ambito di una logica normotipica il diallele è un meccanismo funzionale molto frequente e molto più diffuso di quanto ci possiamo immaginare.
2.3.8 Il sistema ST Nonostante una certa difficoltà teoretica, abbiamo perlomeno conseguito una base dalla quale continuare la nostra indagine speculativa sul problema della temporalità. E per certi versi ci dobbiamo ricollegare all’ipotesi heideggeriana del 1962 di una certa relazionalità reciproca tra spazio e tempo. Orbene, dal punto di vista echologico, lo spaziotempo (che d’ora innanzi chiameremo sistema ST) costituisce un sinecismo normotipico, cioè un accoppiamento a mo’ di diallele di due normotipie che si rimandano reciprocamente secondo un “senso” per così dire sussultorio; oppure — come dice Heidegger — che aprono un “‘frammezzo’ che temporalizzando e spazializzando oscilla pendolarmente” (Heidegger, 1989, p. 378). Questa tesi ci dice innanzitutto una cosa un po’ sorprendente, soprattutto se valutata alla luce delle nostre precedenti osservazioni: se infatti il tempo appariva come un “fuorisenso” o l’emergenza del reale, ora appare come un senso particolarmente strutturato che fa da orizzonte a qualsiasi nostro sapere e che deriva dal tentativo di “re-integrare” l’evento accidentale e traumatico (eterno) dell’istituzione del senso medesimo. Il tempo, tuttavia, non riesce ad essere autonomo, ma deve, per svolgere la sua funzione di sfondo referenziale, accoppiarsi allo spazio. In questo modo il sistema ST si sostiene dal punto di vista della sensatezza grazie a una relazione sinecistica tra lo spazio e tempo. Questa relazione può essere letta dal punto di vista semantico, ovvero lo spazio costituisce il dominio di assegnazione del tempo e, viceversa, il tempo rappresenta il dominio di assegnazione dello spazio. Si tratta dunque di una relazione simmetrica, nella misura in cui lo spazio dà significato al tempo, e il tempo dà significato allo spazio. Se, dunque, potremmo concordare con Elias che il tempo è un sistema simbolico collettivo atto a direzionare l’azione e la conoscenza dell’uomo, dobbiamo d’altronde estendere questa tesi alla spazialità: ciò non significa sol-
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tanto propendere per una normotipizzazione dello spazio e del tempo, ma implica una comprensione molto complessa del rapporto reciproco di queste due dimensioni. Cerchiamo allora di riassumere ciò che potrebbe significare una concezione del sistema ST come sinecismo normotipico: 1) spazio e tempo costituiscono delle formazioni di senso normotipico, ovverosia dei sistemi di referenza collettivi che, attraverso la narcisizzazione affordanziale, concernono tutti i sistemi di senso di un determinato gruppo sociale. Come abbiamo visto, però, ogni normotipia si fonda su un momento di sutura tra senso e non-senso e, per essere sensata, deve essa stessa slittare, cioè contaminarsi in qualche maniera con il non-senso; 2) spazio e tempo, dunque, sono quelle normotipie che “danno senso” allo slittamento: esse articolano quindi il rimando estensionale e il rimando intensionale nella loro indiscernibilità, cioè cercano di suturare nel reciproco rimando le derive infinite in un senso e nell’altro, cercando così un controllo “simulato” del non-senso; 3) ogni normotipia e, quindi, a fortiori il sistema ST, si articola attraverso un movimento contraddittorio, poiché da un lato tende a psicotizzare, ossia a re-ificarsi o, come diciamo con linguaggio deleuze-guattariano, a divenire-reale; ma dall’altro, per avere senso, rimanda a ulteriori normotipie e, quindi, cambia continuamente il proprio assetto. Nel caso del singolo individuo la psicotizzazione può in effetti creare delle patologie: l’ansia paranoica della territorializzazione e dell’occupare spazio; l’angoscia nevrotico-ossessiva per il passare del tempo e per la morte. A livello normotipico, invece, ciò normalmente non avviene e, anzi, assistiamo a continui cangiamenti. Che poi questo fenomeno riguardi lo spazio e il tempo, d’altronde, non deve apparire così bizzarro: lo spazio e il tempo, infatti, al livello normotipico di cui stiamo parlando, sono formazioni simboliche continuamente soggette a mutamento, cosicché lo spazio rinascimentale appare decisamente diverso dallo spazio classico e ancora di più dallo spazio contemporaneo (Foucault, 1966; 1984); 4) ogni normotipia costituisce una formazione di senso imposturale e finzionale: la funzione F della finzionalità normotipica implica una sostanziale insensatezza della normotipia, qualora essa sia soggetta a riflessione. Da qui risulta facilmente comprensibile l’espressione agostiniania “quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio” che non fa altro che integrare la formula: S1FS2 ~S. Per sfuggire l’insensatezza tempo e spazio si sono associati in una par-
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ticolare struttura echologica che rende funzionale ed efficiente il diallele: il sinecismo normotipico che implica il reciproco rapporto referenziale e fondativo dei due sensi normotipici. Se provo a spiegare che cos’è lo spazio, non posso che abbandonarmi all’atto diveniente della misurazione; se invece affronto l’essenza del tempo, finisco mio malgrado per fissare nello spazio gli istanti temporali che caratterizzano il divenire. Il tempo non può che spazializzarsi; lo spazio non può che temporalizzarsi: quando Heidegger allude allo Zeit-Spiel-Raum, probabilmente, ci vuole indicare un meccanismo siffatto, un lasco aperto dall’Ereignis che dispiega un reciproco relazionarsi (e fondarsi) tra spazio e tempo (sebbene poi l’Ereignis stesso sia inquadrabile nell’ambito del Geschick dell’essere, cioè di un’ulteriore normotipizzazione); 5) il sinecismo echologico incarna il miglior stratagemma del senso per occultare la propria insensatezza attraverso i processi di regressus. In altri termini il sistema ST costituisce quell’inteialatura simbolica che ha consentito l’originarsi e lo sviluppo del pensiero logico e nello stesso tempo dimostra da un lato l’aporia di ogni processo riflessivo (il dar-senso al da-cui e al rispetto-a-cui quel medesimo senso si articola) e dall’altro l’impossibilità di uscire da un orizzonte normotipico che non cessa di velare il reale etico-eterno-evenemenziale della sua fondazione; 6) il processo di oscillazione che tiene legato assieme il sistema ST ci dimostra come i vari approcci al problema della temporalità non abbiano fallito per una propria deficienza speculativa: il primato assegnato al tempo da Kant, Husserl, Heidegger e Bergson definisce soltanto un momento della nutazione, in cui la “verità” della spazializzazione ha a che fare con un divenire dell’anima. Di contro, le topologie del secondo Heidegger o la stessa topologia di Lacan e Sloterdijk enfatizzano l’altro momento dell’oscillazione, ove la dinamica intensionale del tempo non può che esplicarsi nei rapporti estensionali dello spazio. Tempo e spazio rimangono dimensioni differenziate, però legate alla medesima radice (il non-senso dell’ ! ’ "#$%&'!): “questo originario è la radice comune di entrambi in quanto altro rispetto a essi, e tuttavia tale da aver bisogno di loro — come la radice ha bisogno di ‘tronchi’ — per essere fondamento che ha radici (l’essenza della verità)” (Heidegger, 1989, p. 369). Si evidenzia dunque lo strano rapporto dello spazio e del tempo con il non-senso: “l’abisso è l’unità originaria di spazio e tempo, quell’unità unificante che sola fa sì che essi si divarichino separandosi” (ivi, pp. 370-371).
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2.3.8 Sistema ST e godimento Lacan, a questo punto della nostra ricerca, pare un introdurre un elemento quantomeno spiazzante: lo spazio e il tempo hanno in qualche modo a che fare con il godimento. Non è che l'analista francese ne abbia mai parlato esplicitamente, poiché talora sembra ancorato a una determinazione ancora kantiana della spazio-temporalità. Eppure, attraversando i suoi scritti, emergono degli allacciamenti inquietanti che rafforzano la nostra idea di un rapporto privilegiato e funzionale del sistema ST con la dimensione del reale. La topologia dei nodi borromei e la concezione di una temporalità "pulsatile" dell'inconscio sembrano infatti mettere assieme l'istanza eternizzante di Parmenide (il ritorno delle cose sempre allo stesso posto) con l'istanza divenirale di Eraclito (l'impossibilità), l'immota resistenza con l'evento "tychico", ossia, detto brevemente, fanno affiorare in tutta la sua evidenza la struttura contraddittoria e paradossale del "reale". Il godimento intrattiene in effetti una relazione specifica con esso, e a tal punto da identificarvisi; costituisce quell'"apparecchio" che ci consente di affrontare il reale e che, però, proprio in tale funzione, manifesta un'ambiguità costitutiva che lo porta a dare un piacere orgasmico intensissimo oppure il dolore acuto di una ferita che lacera le membra. Per tali ragioni, come abbiamo visto, il reale non può essere incontrato: potremmo in quest'ottica definire unitariamente i registri lacaniani del simbolico e dell'immaginario come quelle formazioni (di senso) che preservano il soggetto nei confronti del reale (Lacan, XI, p. 41) attraverso delle formazioni fantasmatiche (che sono appunto uno strano intreccio di significante e di a piccolo, l'altro immaginario). Il sinecismo ST ha mostrato come il dualismo spazio-tempo, ancorché parzialmente ridotto dal relativismo einsteiniano, sia per così dire strutturale e metta in gioco un andamento oscillatorio cui corrispondono grosso modo tutti gli altri dualismi impliciti in ogni riflessione sulla spazio-temporalità e che, nel suo gioco di continuo rimando, tende ad occultare l'abissalità immanente nello spazio e nel tempo stessi. Il reale infatti tentativamente occultato dal sistema ST si pone da una parte come un buco che alimenta nel suo assentarsi il senso, dall'altra è pure qualcosa di cui il senso ne-è (S0~S). Questo esser-ne costituisce il cruccio lacaniano e la posta in gioco della pratica analitica e dell'etica tout court, ovvero dell'inserzione creativa del significante nel reale: e questo -ne, soprattutto nell'ultimo Lacan, ha a che fare con il "godimento" e con il suo esser paradossalmente sempre un godimento dell'Altro.
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Potremmo dire allora brevemente che laddove si gode, si gode spazio-temporalmente e colui che gode è sempre l'Altro: ciò rafforza la nostra tesi che in qualche maniera il sistema ST abbia a che fare privilegiatamente con il reale, ma in modo siffatto che permanga una costante ed essenziale ambiguità di rapporto. Il godimento e il suo dimensionamento spazio-temporale, infatti, ci segnalano che quando pensiamo o agiamo nello spazio e nel tempo, pur trattadosi di entità simboliche e linguistiche, affrontiamo per certi aspetti dei pezzi di reale; ma colui che gode e che quindi affronta "realmente" il reale è l'Altro, cioè, secondo la concezione lacaniana, il sistema delle leggi e del linguaggio (e, quindi, mutatis mutandis il sistema normotipico). Le tracce oscene e rimosse del reale sono sempre ricoperte dall'insieme indefinito di significanti e formalizzazioni che costituiscono il simbolico, cosicché l'intero edificio della cultura umana risulterebbe spaziotemporale in quanto sistematica forclusione della jouissance del soggetto individuale e godimento di quell'Altro normotipico che si è assunto l'onere dell'incontro traumatico con il reale. D'altronde il reale stesso s'insinua nelle maglie dello spazio e del tempo, nella misura in cui il sistema ST in quanto normotipia si fonda necessariamente su una soggezione affordanziale che nella sua invarianza integra la formula del senso I=S/J. Il godimento ci fornisce così un ulteriore indizio riguardante la giunzione sussistente tra logica e dimensione spazio-temporale: se infatti la logica sorge sulla base di una singolare tangenza con il reale (l'istituzione simbolica), questa ha a che fare con il godimento (il godimento della scrittura joyceana, dell'annodamento lacaniano, del gesto "astrattivo" tout court) e, quindi, con un dimensionamento spazio-temporale che concerne paradossalmente l'Altro normotipico. Osserva significativamente Lacan: "il pensiero è godimento" (Lacan, XX, p. 70), ma ciò non vuol dire certamente che nell'atto del pensare in se stesso si goda automaticamente, poiché il godimento è sempre il godimento di un Altro e, pertanto, un godimento "perduto". La componente sublimatoria immanente in ogni atto creativo-astrattivo, contorna e addomestica il reale, ma ciò facendo forclude un godimento che non cessa di iscriversi in una tracciatura spazio-temporale e in una narrazione mitopoietica che fantasmizza quest'evento e lo collettivizza in una struttura normotipica alienata. La logica in se stessa è così un siffatto tipo di fantasmizzazione, il racconto di un mondo algido e inumano che cela la dimensione del godimento (reale) che vi soggiace: in breve, la logica "gode" nella misura in cui si iscrive, si traccia materialmente, manifestando tale scrittura e tale tracciatura il momento di sutura tra
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simbolico e reale, e la necessaria "perdita" del soggetto in quanto luogo cicatriziale in cui il reale occultato lascia i propri segni. Ma chi gode è sempre la logica stessa, e non il logico! In tale prospettiva, Z izek rilegge le Età del mondo di Schelling nel senso di una narrazione mitopoietica che narra del gesto o della decisione "oscena" alla base del lógos umano: "ciò che Schelling cercò di portare a termine con i Weltalter è esattamente questa narrativa fantasmatica mitopietica che spiega l'emergere del lógos stesso fuori dal Reale protocosmico e prelogico; tuttavia, proprio alla fine di ognuna delle tre successive stesure dei Weltalter — e cioè, proprio nel punto in cui il passaggio da mythos a lógos, dal Reale al Simbolico, avrebbe dovuto essere spiegato — Schelling fu costretto a porre un misterioso atto di Ent-Scheidung, un atto che era in un certo senso più primordiale del Reale del 'Passato eterno' stesso" (Zizek, 2000, p. 74). È l'astrazione logica in se stessa, l'imbrigliare un godimento che tuttavia non smette di assillarci come rimosso osceno immanente in ciascheduno, ciò che ogni sistema normotipico cerca di occultare, facendosene carico e godendo al posto nostro. Il godimento è reale, è il reale "eterno" (in quanto "atto" creativo e istitutivo della logica e della normotipia), ma il modo più prossimo in cui si manifesta è l'aporetica di uno spazio-tempo che, pur costituito simbolicamente, non cessa di esibire la propria lacunosità e la propria famigliarità con l'insensatezza del reale. In altre parole, il sistema ST è quell'orizzonte normotipico "debole" che pur proteggendoci dal non-senso e pur sobbarcandosi l'incontro con il reale, non cessa di far trapelare le tracce di questo reale medesimo, fungendo così da struttura matriciale del senso in quando unione logica del senso con il non-senso: S=S/~S.
2.3.10 La marca della soggezione e il carattere normotipico del tempo Il tempo normotipico, ossia il tempo pubblico in quanto senso “finzionale” commisto al non-senso, costituisce un sistema IJ, un senso prescrittivo-normalizzante che tuttavia non cessa di avere rapporti con il reale dal quale tenta di salvaguardarsi e che potrebbe essere definito una sorta di cristallizzazione di godimento. Analogamente potremmo dire dello spazio, in quanto la Terra — come osservano DeleuzeGuattari — è la deterritorializzazione stessa (Deleuze-Guattari, 1991, p. 77): esso costituisce parimenti un sistema IJ, ossia una forma difen-
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siva di padronanza nei confronti della terra insensata e deterritorializzante e, quindi, mantiene un raccordo segreto con il reale ctonio. Questi due sistemi che evitano all’uomo l’incontro tychico con il reale, sono già delle formazioni di senso. Ma non solo: essi sono interrelati in modo tale da fornirsi reciprocamente il fondamento referenziale. Il sistema ST è un sinecismo referenziale che mette in relazione due normotipie: (IJ) r (IJ). La relazione r è simmetrica, cioè è tale che T S e S T, il tempo rimanda allo spazio e lo spazio rimanda al tempo. Si tratta, insomma, di un insieme chiuso, che preso nella sua integrità diviene autoreferenziale. Per come è strutturato il sistema IJ, tuttavia, esso si fonda a sua volta su una serie di affordanze imposturali, cioè implica un livello per così dire primario in cui reale e simbolico s’incontrano. Tali finzioni primarie svolgono due funzioni differenziate, ovvero servono in primis da “punto di capitone” à la Lacan, da aggraffatura in cui il mantello del simbolico entra in contatto e si aggancia al reale, facendo così funzionare il simbolico medesimo; secondariamente fungono da copertura di un buco, da cortina difensiva e compromissoria che occulta l’ingredienza inoppugnabile del reale all’interno delle maglie del simbolico. Quindi l’espressione IJ indica che la normotipia nasconde da un lato il reale in se stesso, facendosene carico ma anche occultandolo, dall’altro lo mette in gioco nella misura in cui la normotipia in se stessa slitta e scivola continuamente verso altre normotipie. Nell’analisi che abbiamo sin qui condotto, sono dunque emerse due evidenze che dovremo cercare di mettere assieme, per non incorrere nel dualismo aporetico fatto affiorare da Ricoeur: 1) il tempo, così come lo spazio, costituisce la cicatrice o la sutura del rapporto traumatico tra reale e simbolico, e si struttura di conseguenza come “il godimento del’Altro” (poiché è sempre l’Altro che affronta il reale e, ciò facendo, gode, nella doppia valenza della jouissance lacaniana, cioè di estremo dolore e piacere orgasmico). L’analisi del processo logico di istituzione simbolica, ci ha poi mostrato come lo spazio e il tempo abbiano a che fare con la stessa “soggezione” che “pone” un “soggetto” e, quindi, un significato: lo spazio-tempo, dunque, è innanzitutto un “punto di soggezione” o “marca di senso” nella misura in cui esso costituisce e sostiene la struttura del senso, dove il termine “punto” o “marca” indica sia un luogo determinato nell’ambito del senso, sia lo stesso punto di sutura che “chiude” la ferita inferta dal reale al simbolico con il godimento che ne consegue. In altre parole il senso è spazio-temporale, nella misura in cui mette in gioco se stesso e il non-senso, facendo godere sempre un Altro. Un siffatto rapporto
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non può significare semplicisticamente che il tempo costituisce il Fuori, il non-senso che scardina l’articolazione del senso. Tempo e spazio sono già delle simbolizzazioni finzionali, ma così essenziali da costituire dei modi fenomenologici del senso stesso. 2) Quando però ci interroghiamo con Agostino sull’essenza dello spazio e del tempo, c’immettiamo d’emblée nell’orizzonte normotipico e, quindi, in un sistema combinato in cui spazialità e temporalità si associano in un gioco oscillante del rimando. E questo discorso concerne parimenti il cosiddetto tempo dell’anima e il tempo del mondo: entrambi, nella misura in cui riflettiamo, ci porgono innanzi agli occhi un sistema normotipizzato che, anche se lo sforziamo con una riflessione iterata e reiterata, alfine non fa altro che traslarci sul problema della spazialità, riproponendo così i medesimi problemi di qualsiasi metanormotipia. J ! I (!
;=;=;=;=;=;=;=;=;=;=@(J)=;=;=;=;=;=;=;=;=;=;
!)
! J Nel grafo soprastante riportiamo la struttura del sistema IJ: il reale è l’orizzonte esterno in-sensato nei confronti del quale la normotipia implica una “chiusura” sferica. All’interno della normotipia stessa, tuttavia, il reale si ritrova parentetizzato accanto alla @ in grassetto, che abbiamo visto costituire il punto di soggezione. Questa @, che tra l’altro rappresenta il soggetto tout court, costituisce soprattutto un’impostura, poiché camuffa l’invarianza reale o affordanziale con una sorta di cortina fumogena fatta di significanti. Altrove (Bazzanella, 2004) l’abbiamo semplicemente definita significato, indicando senz’altro, con Lacan, una sostituzione metaforica, nella misura in cui la finzione si gioca attraverso un significante come un altro, ma manifestando parimenti una funzione di blocco e di referenza. In altri termini, il grafo mostra come il reale si articoli sia all’esterno, nel Fuori impossibile cui non si potrà mai accedere, sia nella prossimità del soggetto-significato, dove appunto la soggezione è già una finzione necessaria al senso.
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L’obiezione che in questo modo non faremmo altro che traslare il problema soggetto-oggetto, tempo oggettivo-tempo soggettivo, su un altro piano, collide con i meccanismi che stanno alla base della costituzione del senso: il reale è sempre lo stesso, sia che lo reperiamo all’esterno di una supposta serra normotipica, sia che lo reperiamo nei meandri delle soggezioni fondamentali a quella stessa normotipia. Ciò significa che la differenziazione tra una temporalità aristotelica e una temporalità agostiniana perde del tutto significato, essendo entrambe le temporalità già normotipizzate e riferite al medesimo Fuori con il quale esse si rapportano in quanto “punti di soggezione”. Anche nel caso di Heidegger, la differenziazione tra un tempo pubblico deietto e un tempo inteso come senso dell’essere dell’Esserci finisce ineluttabilmente per sfumare in una paradossale coincidenza: in Tempo e essere, infatti, lo spazio-tempo o Zeit-Raum, viene accoppiato all’interno dell’Ereignis, a sua volta integrato in un Geschick dell’essere che si presenta palesemente come una normotipizzazione, come una “storia dell’essere” che diviene referenza per ogni senso. “L’essere in quanto evento-appropriazione è la storia; di qui va determinata l’essenza di quest’ultima, indipendentemente dalla rappresentazione del divenire e dello sviluppo, indipendentemente dall’osservazione e spiegazione storiografica” (Heidegger, 1989, p. 475). Detto diversamente, argomentando dello spazio-tempo ci ritroveremo sempre, nostro malgrado, in un orizzonte normotipico e, anche quando vorremo riflettere su tale orizzonte, non potremo far altro che accontentarci del gioco basculante della referenza sinecistica, cioè di un passaggio oscillante tra spazialità e temporalità che non riuscirà giammai a raggiungere un livello originario. Il tempo, dunque, pur essendo una “marca di senso” o una cifra di sensatezza (nella misura in cui di-mostra la sutura del reale e il godimento “forcluso” che ne deriva), costituisce UN SENSO COME UN ALTRO e si inserisce in un contesto inflazionistico di infiniti ulteriori sensi all’interno dei quali si paleserà nelle forme derivate di una normotipia. Messo alle corde poi, come qualsiasi altro senso, ci mostrerà la struttura cicatriziale che costituisce il senso propriamente detto, ovvero integrerà le usuali formule del senso: S=S/~S; ~(S=S/~S) (S=~S); ~S=~S; S0~S cui dovremmo aggiungere la formula dell’insensatezza della ri-flessione: S1FS2 ~S.
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2.3.11 “Il reale che finge” Il senso è il modo, la tecnica o antropotecnica, l’éthos, il meta-rituale con cui l’uomo affronta il reale. “Da un lato, il mondo, luogo in cui accalca il reale, e dall’altro la scena dell’Altro, in cui l’uomo come soggetto deve costituirsi, deve prendere posto come colui che porta la parola, ma potrà portarla solo in una struttura che, per quanto si ponga come veridica, è una struttura di finzione” (Lacan, X, p. 126). Paradossalmente, però, questo medesimo senso articolato nel campo dell’Altro e strutturato a partire da un soggetto finzionale, così apparentemente aereo e inesistente, è anch’esso un “pezzo” di reale, è un “Altro reale” (ivi, p. 197). La sfera sloterdijkiana con la quale ci proteggiamo dall’esterno minaccioso, è esterna essa stessa; il grande Altro lacaniano è anche l’Altro primordiale, il non-senso di un reale che finge di essere simbolico. Il rischio dunque è proprio questa inversione: noi siamo-già soggetti a una finzione e ciò che finge è proprio quel reale che credevamo di aver incantenato con i nostri giochi di prestigio simbolico. È quello che d’altronde emerge dalla nostra formula S0~S ed è forse l’essenza della concezione heideggeriana della verità come !"# ’ $%&'!. Questa proposizione è sempre falsa e ciò significa che istituisce un contesto finzionale dove sia S che ~S sono altrettante finzioni, dal potenziale poietico infinito. La normotipia in se stessa cerca per un suo moto naturale di re-ificarsi, cioè di divenire-reale, ma essa in genere collide sempre con il meccanismo dell’impossibilità di una metanormotipia e, quindi, con la necessità di uno scivolamento indeterminato. Per certi aspetti, lo spazio e il tempo, attraverso il sinecismo normotipico, si pongono in una posizione privilegiata, dacché contengono il rimando o il footing del senso nell’ambito di un gioco à deux: ecco perché lo Zeit-Raum heideggeriano è soprattutto uno Zeit-”Spiel”-Raum, un gioco dell’appropriazione e dell’espropriazione, un giro infinito, quasi incantatorio, che, però, tende a fare dello spazio-tempo un’entità reale. Insiste qui la sovversione che proponiamo: la normotipia spazio-temporale non dipende da uno spazio e un tempo reali, nei confronti dei quali cerca di difendere l’uomo sovrapponendovi una certa illusione di controllo e misurabilità. Il vero movimento in gioco è esattamente contrario, è un contromovimento: in effetti, è lo stesso sistema ST che, attraverso il meccanismo del sinecismo normotipico finge di essere “reale” e, quindi, ci offre lo spazio e il tempo come realtà a se stanti e autosufficienti. Lo scacco heideggeriano di Essere e tempo si situa proprio a questo livello, cioè nell’aver inteso la temporalità come un connotato originario ed essenziale del senso e nell’aver ritrovato poi, dopo una lunga e suggestiva analisi, un tempo
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finzionale e normotipico. Emerge in questo quadro un movimento a doppia mandata: la normotipia in se stessa è un pezzo di reale che finge d’avere senso; ma alla fine è la medesima normotipia che cerca di divenire-reale finzionalmente, camuffandosi come qualcosa di originario che gode sempre al posto nostro. Espresso altrimenti, siamo in questo caso di fronte a una finzione di finzione, cioè alla specificità per Lacan dell’animale-uomo (Zizek, 2000, p. 82): la normotipia in quanto produzione simbolica umana è senz’altro una finzione che maschera la realtà, pur cercando un’asintotica aderenza ad essa; ma d’altra parte è pure una “finzione di finzione”, cioè una Verità o reale che alla fine imita uno statuto finzionale che non c’è, illudendo così il soggetto di una lontananza del reale insussistente. Il reale, insomma, è-già-qui, ma noi lo vestiamo di uno statuto finzionale che non possiede, cioè fingiamo di fingere. M. Serres sembra spiegare molto bene questi passaggi (Serres, 1994): dal suo punto di vista, ad esempio, la nascita della geometria non è secondaria rispetto ad un rapporto perlopiù “pratico” dell’uomo con la natura. Quando l’uomo egizio inventò la misura e la divisione geometrica degli spazi, non pensò ad uno spazio astratto e formalizzato per applicare le sue leggi alla “terra” reale: fu l’ombra proiettata dalle piramidi che gli suggerì una nuova metodica di organizzazione e segmentazione delle terre. La stessa geometria euclidea riporta nella terminologia utilizzata un esplicito rimando alla sfera “pratica” o “etica” del rapporto dell’uomo con il reale: rette, angoli, segmenti sono tutti significanti tratti dalla sfera semantica della coltivazione e si riferiscono esplicitamente ad antiche pratiche di misurazione agreste. In altri termini, lo spazio si presentò all’uomo sin dal principio con i tratti normotipici di una modalità etico-difensiva nell’evitare o controllare quanto più possibile il reale, e solo successivamente queste normotipie divennero reali, fingendo appunto un tempo e uno spazio assoluti, preliminari a qualsiasi misurazione e a qualsiasi simbolizzazione finzionale. Doppia finzione, dunque: il primo livello normotipico in cui il soggetto disegna un proprio spazio e un proprio tempo addomesticati e simbolizzati; un secondo livello in cui la finzione finge di essere qualcosa di reale, illudendo in un “al di là” metafisico e più originario; un terzo e ultimo livello, in cui alla fine è il reale medesimo che “finge” duplicemente, da un lato concedendosi alla misurazione, dall’altro illudendo l’uomo della “realtà” di questa medesima misurazione. Il sistema ST d’altra parte in tale matassa finzionale costituisce una normotipia tra infinite altre: esso di fatto non possiede alcun privilegio specifico, sebbene il medesimo meccanismo di soggezione-significato
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che abbiamo visto funzionare all’interno della normotipia, funzioni anche all’interno di una collezione di normotipie. In sostanza, esiste un processo di soggezione che conferisce una certa egemonia ad una normotipia particolare. In tempi antichi probabilmente la normotipia ST risultava egemone, anche se probabilmente era scissa, ossia assistevamo all’egemonia della normotipia spaziale (Sloterdijk, 2001b, p. 29) oppure a quella temporale, in modo separato. Tutti i riti legati alla terra e alla sua fertilità, i colonialismi e le grandi esplorazioni, oppure le escatologie delle varie religioni avevano in effetti sullo sfondo alcune normotipie di riferimento di questo genere. Oggi, invece, la normotipia egemone pare quella tardocapitalistica, cioè un senso economicistico del mondo: questa normotipia ha sempre funzionato nell’ambito delle costruzioni di senso umano e, in questa prospettiva, ha indubbiamente ragione Marx. Tuttavia, è soltanto nella modernità e, soprattutto, nella contemporaneità che la normotipia capitalistica diviene veramente egemone e condiziona tutte le altre normotipie. Ciò che allora cercheremo di analizzare nelle prossime pagine sono proprio le influenze che tale normotipia può sortire sul sistema ST: come è mutato — ci chiediamo allora — il nostro modo di concepire lo spazio e il tempo nell’epoca del tardocapitalismo? Lo stesso relativismo — lo diciamo a titolo di suggestione — non costituisce forse il momento di cesura tra il primato del sistema ST, primato peraltro via via affievolito, e il suo decadimento nei confronti della “materia” e dell’economicismo?
2.3.12 Struttura normotipica del tardocapitalismo Dobbiamo innanzitutto stabilire che cosa significhi normotipia egemone in ambito echologico. Ogni normotipia infatti si ritrova all’interno di una collezione di infinite normotipie, poiché ogni senso ha il proprio contesto referenziale, il proprio da-cui e rispetto-a-cui. Se dovessimo presentare un grafo di questa condizione inflazionistica, dovremmo ricorrere a ciò che abbiamo già proposto a proposito del senso in generale:
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J " ("
n-n-n-n-n-n-n-n-n-n-E(J)-n-n-n-n-n-n-n-n-n-n
")
" J Nell’ambito del défilé infinito delle normotipie, c’è un processo di soggezione che fissa e blocca una normotipia, facendone finzionalmente una metanormotipia. Questo blocco o masterizzazione opera una chiusura, una zonizzazione sferologica che ha una funzione difensiva nei confronti del reale. Quest’ultimo sta comunque dietro al processo di soggezione, nel suo ambiguo ruolo di invarianza finzionale: il soggetto che ne esce — E — tende ad assoggettare le altre normotipie, pur essendo da parte sua soggiogato e sog-getto al reale stesso. Si tratta di una sorta di fistola o infistolimento, in cui il reale esterno, il Fuori tenuto sempre a distanza, si fa invece più prossimo, sotto “mentite spoglie”. In altri termini la radicalizzazione di E, la sua istituzione ed “erezione” fittiziamente trascendente, occulta un pezzo di reale che si ficca all’interno del simbolico e che spingerà successivamente la normotipia a re-ificarsi e a divenire-reale. Ebbene, la normotipia egemone nell’epoca contemporanea è quella tardocapitalistica: essa costituisce il da-cui e il rispetto-a-cui di ogni altra normotipia, l’orizzonte donde ogni senso, anche quello più minuscolo e inifluente, trae la sua direzione essenziale. Ma come si articola questa normotipia? Come riesce a reggere la sua egemonia, a fronte di un pullulo di ulteriori normotipie, non ultima il sistema ST che, grazie al suo sinecismo, pare ben attrezzato nei confronti del non-senso? Dal nostro punto di vista, la strategia del tardocapitalismo si gioca in due momenti fondamentali: 1) innanzitutto esso non radicalizza il movimento rimandativo dell’intensione, cioè dell’inclusione-sussunzione delle altre normotipie abbozzando una struttura gerarchica, ma, anzi, si pone paradossalmente a latere o in modo “estensionale”, mescolandosi all’interno delle altre normotipie; 2) secondariamente, attraverso il meccanismo del “lasco echologico”, il tardocapitalismo “finge” di lasciare spazi di libertà alle normotipie concorrenti e ciò per aprirsi infiniti spazi di decorso e, quindi, garantire la propria apparente sensatezza. Uno dei rischi di ogni normotipia egemone è in effetti l’eccesso di fis-
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sazione e l’immobilità che l’egemonia comporta: come sappiamo, il senso ha senso se deborda, ossia se lascia-spazio al non-senso. Qualora, invece, un sistema di senso sclerotizzi il proprio assetto e tenda alla totalizzazione (secondo un processo che abbiamo definito significativamente integralismo, poiché ne va di una supposta e insensata integrità del sistema), ci troviamo di fronte a una paradossale negazione del non-senso che conduce nuovamente a un non-senso “di ritorno”: è il significato della nostra formula ~(S=S/~S) (S=~S). Il tardocapitalismo ha invece la caratteristica peculiare di una normotipia egemone che mette in gioco una rivoluzione continua. Se infatti il sistema ST si basava su un rimando pulsatile e ondulatorio tra due poli, il tardocapitalismo sembra aver esteso questo processo, aprendosi continue e sempre nuove linee di rimando. Come hanno dimostrato bene Marx e Deleuze-Guattari (Zizek, 2004, pp. 162-163), infatti, il capitalismo non costituisce una formazione di senso reazionaria, che a fronte di interessi particolari di tipo economico-politico, conserva lo status quo: esso è una rivoluzione continuamente in atto, che muta i propri assetti e persino la propria natura, che integra in sé tutte le istanze innovatrici e solo in apparenza antagonistiche che vi si formano all’interno. Il modo in cui il tardocapitalismo mantiene dunque il proprio carattere di perenne rivoluzione e il modo in cui sostiene sempre una certa sensatezza potrebbero essere assimilabili a un sinecismo multiplo: con più raffinatezza rispetto al sistema ST, esso bascula e oscilla attraverso infinite ulteriori normotipie che lascia liberamente basculare nel proprio seno. È un senso che scivola e rimanda da una normotipia all’altra, senza mantenere alcuna posizione di eminenza o di egemonia, ma disponendosi in una condizione di indifferente lateralità o di meta-ritualità deprivata delle proprie cifre distintive. L’indifferenza è in questo quadro la cifra echologica che caratterizza il tardocapitalismo: ogni senso divergente o non consentaneo viene indifferentemente accettato, senza l’inserzione di alcuna gerarchia o assiologia precostituita. In tale maniera, tuttavia, il piano referenziale che viene messo in gioco tradisce una somiglianza quantomai estremizzata al reale stesso: esso diviene indifferente, incircoscrivibile, assolutamente “aperto” e, ciò nondimeno, immobile e stabile (l’eternità del rituale “assoluto” destorificato). Ne consegue che il carattere finzionale-simbolico del nostro modo di vivere e di abitare oggi il mondo risulta assolutamente occultato e il Fuori paradossalmente addomesticato non è mai stato così prossimo e “amico”. Nella congerie di finzioni normotipiche che caratterizzano la nostra età, ciascuna possiede il proprio spazio e il proprio valore nei confronti di un reale che ormai
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coincide del tutto con la normotipia tardocapitalistica. “Qui incontriamo la differenza lacaniana tra realtà e Reale: ‘realtà’ è la realtà sociale delle persone reali che interagiscono e sono coinvolte nel processo produttivo; mentre il Reale è la logica spettrale ‘astratta’, inesorabile del capitale che determina cosa succede nella società reale” (Zizek, 2000, p. 22).
2.3.13 L'esclusione tardocapitalistica del sistema ST Una delle caratteristiche emergenti del tardocapitalismo è dunque quella di articolare indifferentemente una molteplicità di normotipie, verso le quali esso stesso tende a decorrere. L'indifferenza è appunto la caratteristica echologica che la distingue dalle altre normotipie egemoni delle epoche passate: in essa coesistono paritariamente infinite ulteriori normotipie. Il rischio implicito in ciascuna normotipia è quello di fissarsi in una specifica strutturazione di senso e conseguentemente di scadere nel non-senso per eccesso di senso: il tardocapitalismo sfugge il rischio di "integralizzarsi" (cioè di chiudersi in una totalità autoreferenziale, come gli antichi imperi o le teocrazie) attraverso un movimento continuo di spostamento da una normotipia all'altra. Esso è in quest'ottica una rivoluzione continuamente in atto, talché ogni posizione appena raggiunta non è che provvisoria, sempre sul punto di precipitare in una condizione del tutto nuova. Le normotipie verso cui slitta il tardocapitalismo sono "adiacenti", cioè coesistono in uno statuto di com-planarità: perciò esso è eminentemente un senso ed ha senso, cioè riesce a tenere assieme il senso e il non-senso attraverso un movimento continuo da una normotipia ad un'altra. Dobbiamo dunque valutare la posizione del sistema ST nell'ambito di questa complessa processualità: trattandosi di una normotipia all'interno di un sistema egemonico di tipo capitalistico, essa si dovrebbe situare in modo adiacente e indifferente accanto ad altre normotipie, come quella religiosa, scientifica, artistica, e così via. Ma è proprio così? È possibile che lo spazio-tempo sia divenuto un senso per così dire ininfluente o di secondo piano in un'epoca in cui invece i valori determinanti sono ben altri? Abbiamo prima notato come lo spazio-tempo sia una componente essenziale del senso e in quale maniera entri in gioco nell'ambito dei processi di soggezione: esso, in sostanza, porta i "segni" invarianti e affordanziali del reale nel suo rapporto traumatizzante con il simboli-
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co. Ora, il tardocapitalismo tenta di fatto di portare a compimento l'addomesticamento del non-senso attraverso una sorta di processo finzionale di imitatio del reale, ma ciò comporta almeno due momenti decisivi: 1) un processo di desoggettivazione, in cui il Soggetto diviene il tardocapitalismo tout court nella sua assoluta e paradossale indifferenza; 2) un processo di esclusione di quei momenti invarianti in cui il non-senso fa breccia e si mantiene all'interno del tessuto del simbolico. Ciò significa che di fatto, proprio a cagione della sua specificità, il tardocapitalismo mira all'eslcusione del sistema ST. Questo processo si articola inizialmente in una sorta di "indifferenziazione" che rende lo spazio-tempo una normotipia adiacente simile ad infinite altre: nel tardocapitalismo la definizione di uno spazio delimitato e la determinazione del tempo non sono più così strategici come nell'Ottocento, poiché i processi globalizzanti e il relativismo fanno di ogni luogo "un luogo come un altro" e di ogni istante "un isante come un altro". Questo passaggio viene ulteriormente corroborato dal predominio del sapere scientifico e dallo sviluppo delle tecniche che notoriamente prescindono da un preciso hic et nunc: le produzioni industriali ormai sono delocalizzate e non è più decisivo il rapporto salario/tempo lavorato perché ormai le macchine lavorano indifferentemente al posto dell'uomo. L'indifferenziazione, tuttavia, conduce nel caso del sistema ST ad una vera e propria esclusione, nella misura in cui il tardocapitalismo tenderebbe per un suo moto proprio all'onnisensualità, cioè all'essere l'unica fonte di senso normotipico nel suo moto rivoluzionario infinito. Questa esclusione si compie paradossalmente attraverso un'estensione parossistica degli spazi e dei tempi: lo spazio è un onni-spazio, non solo limitato ai confini del nostro pianeta, ma esteso all'intero universo e invaginato in infiniti mondi virtuali; il tempo, nella sua indifferenza, incarna l'eterno ritorno delle "cose" e, quindi, una sorta di eternità insensata che ricorda quella del reale. La conseguenza dell'esclusione del sistema ST si condensa nella definitiva destituzione del soggetto o, piuttosto, in uno spostamento in cui le marche affordanziali non sono più interne al singolo individuo o alla comunità, ma alla normotipia tardocapitalistica nella sua totalità. Il Soggetto è la normotipia stessa in quanto si è fatta carico, al posto dell'uomo, del rapporto traumatico con il reale, ma se questo processo porta a termine l'addomesticamento del Fuori messo in atto sin dai primi manufatti del neolitico, esso implica d'altra parte una paradossale "perdita di mondo", che equivale ad una sorta di alloppiamento onirico nel quale siamo immersi (come se fossimo inclusi nostro mal-
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grado nel sogno di un Altro, senza possibilità di risveglio). Come osserva Zizek, "forse è qui che va individuato uno dei principali pericoli del capitalismo: nonostante sia globale ed abbracci il mondo intero, esso sostiene una costellazione ideologica che è, stricto sensu, 'senza mondo', privando così la grande maggioranza delle persone di una qualsiasi mappa cognitiva dotata di significato" (Z izek, 2008, p. 83). In altri termini, l'esclusione del sistema ST comporta da un lato il rischio dell'insensatezza dell'intera normotipia, in quanto monoliticamente invariante e incapace di sostenere la struttura del senso S=S/~S, dall'altro lato espone gli individui ad una indifferenza insopportabile in cui l'insensatezza della propria esistenza si fa davvero palpabile. Oggi noi siamo nel "senza-tempo" e nel "senza-spazio", cioè "senza-mondo", ma non siamo più nemmeno in grado di "dire" questo "noi", in quanto ormai senza-soggetto e "poiché il paradosso del soggetto è che esiste solo attraverso la propria radicale impossibilità, attraverso un 'osso in gola' che sempre impedirà di raggiungere la proizek, 2000, p. 36). pria piena identità ontologica" (Z Nel tardocapitalismo tutto è divenuto rito, tutto è destorificato ed eternizzato senza alcuna differenza tra reale e simbolico, poiché è il simbolico stesso ad "imitare" totalmente il reale: i tempi sono ormai indifferenti, troppo accelerati da essere percepiti o fissati in una pseudo-eternità; gli spazi sono moltiplicati ed estesi all'infinito, tantoché non ha più significato parlare di "luoghi" o di contrade in senso heideggeriano. Il reale insomma è ormai qui, è il senso medesimo nella sua configurazione tardocapitalistica in quanto Soggetto che ha preso su di sé l'onere dell'incontro traumatico con l'Altro. Uno degli effetti più evidenti dell'esclusione del sistema ST e della conseguente desoggettivazione lo intravvediamo in un particolare decorso delle psicopatologie contemporanee: a nostro avviso, al di là delle sindromi primarie dipendenti da specifiche eziologie biologiche o genetiche, gran parte degli altri disturbi mentali pare strettamente correlata alle strutturazioni di senso che generalmente regolano una comunità umana in un determinato periodo storico, ovvero, in breve, pare connessa solidalmente (per "consentaneità" o "dissonanza") al sistema normotipico egemone (Bazzanella, 2004, pp. 145-211). In altri termini, c'è un riflesso abbastanza immediato sul senso individuale del depotenziamento soggettivo e dell'indifferenziazione delle dimensioni spazio-temporali. Lo spazio e il tempo indicano indubbiamente una padronanza "debole" nei confronti del reale, poiché — al di là del loro carattere normotipico — essi recano ancora e ineludibilmente le tracce traumatiche e affordanziali-invarianti dell'Altro, sono "commiste" con
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il Fuori. Ma questa paradossale "debolezza" è quella che caratterizza i processi di soggezione e nell'impossibilità che articola, garantisce una certa sensatezza della propria esistenza. L'egemonia del tardocapitalismo, invece, fa sì che l'uomo contemporaneo, detto in poche parole, non sappia più di esistere (Recalcati, 2007, p. 106) perché non sa più collocarsi (as-soggettarsi) nello spazio e nel tempo. Egli manca di quegli appoggi affordanziali che implicano una commistione di senso e non-senso, ma che proprio in tale labilità per-mangono in quanto invarianze. Il dilagare delle sindromi ansioso-depressive (genericamente classificate come "disturbi dell'umore") deriva principalmente dall'inadeguatezza del soggetto nei confronti di un mondo eterno e immortale che è pure infinitamente esteso. La "morte" diviene sempre più insostenibile poiché ad essa fa da contralto l'eternità del sistema simbolico: che cosa significa morire? E che cosa significa abitare nella propria dimora, essere radicati sulla terra, se lo spazio globale è divenuto infinito e mille e mille altri spazi virtuali vi si sovrappongono senza distinzione? Dove siamo, dove abitiamo? Ecco le domande senza risposta che stanno assillando l'uomo contemporaneo e che lo stanno conducendo in maniera "intrinseca" (e non estrinseca come vorrebbero U. Beck e A. Giddens) a una "società del rischio" che è insicura paradossalmente per un eccesso di sicurezza. Ci sono troppo spazio e troppo tempo, o non ci sono più spazio e più tempo, cosicché l'animale-uomo si trova "gettato" in un Aperto senza limiti che non riesce più a territorializzare: egli è disperso nel Fuori insensato, contro il quale non riesce più a circoscrivere un "luogo" a mo' di baluardo difensivo o di serra di senso. L'ansia e la depressione dipendono da una messa in crisi di un uomo immerso in un orizzonte referenziale caratterizzato dall'onnitemporalità e dall'onnispazialità: il sogno delirante, divenuto "apparentemente" concreto, dell'eternità e dello spazio infiniti, da un lato pare segnare la vittoria del simbolico sul reale e quindi l'assunzione di un'acme di sicurezza mai raggiunta precedentemente nella storia, ma dall'altro implica una de-soggettivazione radicale, poiché tale vittoria viene conseguita attraverso un'indifferenza parossistica, sacrificando talune essenziali componenti del senso e, in particolare, la fondamentale commistione con il non-senso.
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