Giovanni Arpino
L'OMBRA DELLE COLLINE Non si va mai tanto più in là come quando non sai dove miri. GOETHE, Massime Da q...
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Giovanni Arpino
L'OMBRA DELLE COLLINE Non si va mai tanto più in là come quando non sai dove miri. GOETHE, Massime Da quei sogni e da quel furore tutto quello ch'ai guadagnato, ch'ai perduto, il tuo male e il tuo bene, t'è venuto. SABA, da Mediterranee ... e i colpi si ripetono ed i passi, e ancora ignoro se sarò al festino farcitore o farcito. L'attesa è lunga, il mio sogno di te non è finito. MONTALE, da La bufera e altro
I Sapevo di sognare. La salita era ripida, il sentiero appena tracciato tra le erbe andava su con brusche curve, ogni tanto rabbuiandosi tra le acacie che si sporgevano a grappoli, a ombrello. Tutto pareva felice intorno, in un ordine e silenzio assoluti. Sul sentiero, isolate o a mucchi, secche nel fango, erano le forme biforcute e larghe dei buoi, e altre, appena accennate, minuscole, forse di cani, di volpi. E ogni tanto, tra i fili d'erba asciutta, apparivano i coni leggeri, granulosi, dei formicai. La luce era ancora alta, morbida come il pelo di un coniglio, ben tesa nella sua celeste uniformità di dopo il tramonto. Andavo per il sentiero, con pienezza, con la facilità, la consistenza, la salute di un giovane animale, pronto a godere di tutto, già godendo di me. Vieni, mi invitava la mano di Francesco dalla curva estrema del sentiero. Giovanni Arpino
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1964 – L'Ombra Delle Colline
Francesco non sorrideva, ma io ero certo del suo dolce umore, e sapendo di sognare mi abbandonavo alla vena potente dell'ora sconosciuta e alla fedele bontà di Francesco, sperimentata da sempre. Salivo, bevendo quella luce netta e polposa, sicuro che nessun sbandamento avrebbe potuto far scricchiolare o rompere l'invisibile impalcatura del sogno. Vieni, mi invitava Francesco. Era armato, con triplici bandoliere di cartucce che gli dividevano il petto, coi manici delle bombe a mano che gli spuntavano dalla cintura, la canna dello sten usciva corta di sotto l'ascella. Anche la Colt aveva, ben poggiata sulla coscia, la riconobbi per l'affascinante sagoma bruna. Un'altra arma, un mitra o forse soltanto una doppietta, doveva pendergli sulla schiena. Sotto quell'arsenale, i panni visibili, spicchi di camicia e pantaloni, si mostravano stinti, come quelli di un cacciatore. Vieni, seguitava a invitarmi. In un lampo di gioia entro la gioia riebbi nella memoria il nome di quel sentiero, quel groppo ondulato di colline : Millemosche... Francesco retrocedeva leggero, sollecitandomi con la mano, mantenendo la distanza che ci separava. Doveva esserci un bosco, poco lontano, lo sapevo, un folto di castagni, pioppi, piccole querce, ed era lì che avremmo dovuto fermarci. Francesco infatti ora stava seduto, o forse solo accovacciato nella penombra che fronteggiava il bosco. Certo aveva già scoperto le lepri azzurre, lui aveva sempre sorpreso le lepri azzurre in quel bosco, stavano lunghi minuti a fissarsi con reciproci sguardi accorti, lui e le lepri, immobili. Adesso arrivo e vedrò anch'io queste lepri, mi dicevo, e persino il fiato in gola era diventato un nodo più acuto di felicità, adesso arrivo, mi accuccio davanti alle lepri che ci guardano con gli orecchi diritti tra le felci a ventaglio sotto i castagni, finalmente!, in tanti anni che veniamo per funghi o castagne a Millemosche non sono mai riuscito a scoprire altro che un paio di volpi rosse, e anche quelle fulminee via... Francesco, sempre là intento, non mi chiamava più. Ma quando gli fui proprio all'altezza della spalla, e intanto il cielo dopo il tramonto era diventato di un verde cupo, pennuto, si alzò e indicò al di là del bosco, e non era più la contrada Millemosche, anche il bosco pareva soltanto più una siepe, grande, già meno grande..., e al di là era la casa indicata, Giovanni Arpino
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1964 – L'Ombra Delle Colline
minuscola, coperta d'edera, coi vecchi tetti arrugginiti. Andiamo, ebbe un tranquillo gesto Francesco. E io non potevo dirgli: restiamo qui tra le lepri. Mi tentava quell'ansia sottile, di un ignoto, forse occasione per una gioia superiore. M'era proibito dirgli: restiamo. Ora gli camminavo proprio dietro e vedevo che sulla schiena, sopra i vari cuoi e fermagli delle bandoliere, aveva non una doppietta, ma proprio un parabellum russo, e dall'ascella gli spuntava il sostegno scheletrico dello sten. Tuttavia camminava lieve, con le sue scarpe di corda da cacciatore, e tutta la sua magrezza d'ossa pareva reggere come un niente quel ferro e quel piombo. La casa era davvero piccina, affettuosa, l'edera verdissima si incupiva sotto il cielo ormai ghiacciato dai primi brividi notturni. Ma, una volta arrivati, voltandomi non vidi più il sentiero Millemosche e nemmeno l'onda conosciuta delle colline, c'era una pianura, invece, lontana e come nebbiosa, e di fronte alla casa, tra noi e quella pianura, erano balzati a vivere tre immensi cipressi. Francesco s'era ritirato verso la casa, mi stava alle spalle attento, con l'immobilità del cacciatore che prevede vicino il frullo violento d'una pernice, e io sentivo la sua amicizia che mi proteggeva e mi indicava le cime infinite dei cipressi, incitandomi a scoprirle, a portare attenzione a quell'enorme verde nero. Da cui cominciavano a uscire suoni... E allora vidi che le chiome infinite non erano vegetali, ma cupole e cascate e piramidi di usignoli riuniti, ammucchiati, intrecciantisi e raddoppiantisi, che cantavano, storditi dallo stesso vento del loro cantare... E quasi fui per cadere all'indietro, colpito fulminato da tanta felicità, e invano tendevo il collo per scoprire con lo sguardo la punta estrema e ondulante degli alberi miracolosi... Mi voltai per chiamare Francesco e partecipare con lui, ma Francesco aveva lo sten puntato, era pallido tremante, e con un cenno nervoso dello sten mi impose di guardare nuovamente i cipressi. Non più usignoli, non foglie, e sentii il tremendo urto di sangue, sudore, terrore appena scoprii che le chiome degli alberi erano cumuli di minuscoli teschi corrosi, verdastri, che a milioni tintinnavano sinistramente gli uni contro gli altri... Urlai, anche Francesco urlava, sapevo di aver la bocca spalancata in un grido immenso, mi voltai in cerca di aiuto e alle spalle di Francesco la Giovanni Arpino
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1964 – L'Ombra Delle Colline
minuscola casa andava disfacendosi, l'edera cascando mostrava pezzi di muro, ma non muro, non muro..., bensì grasso in decomposizione, carne marcia lebbrosa che si liquefaceva mandando ronzii di insetti... Sapevo di correre. E mentre correvo il sentiero Millemosche mi si ricostruiva sotto i piedi. Ogni piede, cascando dal vuoto e dal buio, ritrovava una nuova zolla del sentiero che fulmineamente, ansiosamente, s'era obbligata a rinascere... E anche Francesco fuggiva correndo con me, dietro di me, sentivo il suo passo sulle erbe secche rinate e sentivo il tintinnio delle armi che gli battevano sulle ossa... Correvamo, con gli occhi dolorosi di sangue, le bocche aperte come ferite, superando senza fiato la cappella abbandonata di Millemosche, dove tante volte eravamo entrati a frugare tra gli ex-voto scoloriti nella polvere... E l'ombra delle acacie, fuggendoci sui fianchi, ci spingeva nella corsa, con le foglie come impazzite in vortici neri... Sentivo il fiato di Francesco frustarmi alle spalle, non capivo se era sibilo o voce. Poi:... ammazza, ammazza..., sentii infine gridare dalla sua voce secca, perduta. Inutilmente, fuggendo, speravo che dalla schiena di Francesco il parabellum mi balzasse diritto in mano sì che potessi puntarlo davanti a me, a perforare l'aria che mi correva addosso... Ed era notte, ormai. Camminavo per la strada violentemente divisa in luci e ombre, una strada di città. Era senza dubbio una strada di città, anche se le luci piovevano troppo rigide, come da riflettori, anche se i muri parevano quinte di teatro. Ero concreto, camminavo, sapevo della città, tra un attimo certamente sarei sbucato a un crocicchio ben noto, con luci individuabili. Camminavo, la luce mi colpiva in pieno sul fianco, in larghi e densi fasci bianchi dalla mia sinistra e dall'alto. Procedevo contro il muro, il muro-quinta, e dritta sul muro la mia ombra camminava con me, rapida come me, concreta. Ma non potevo voltarmi a guardarla. L'ombra sul muro era la mia, ma era anche ombra di un leone. E se mi fossi azzardato a voltarmi e fissarla, l'ombra m'avrebbe assalito. Camminavo, cercando d'inventare astuzie con gli occhi per spiare l'ombra, ma non potevo, anche l'ombra era in agguato, e muoveva Giovanni Arpino
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1964 – L'Ombra Delle Colline
flessuosamente col suo dorso leonino, feroce e pronta in ogni muscolo. E come io, a tentare, allungavo una mano, un braccio, per misurarmi sul muro, ecco l'ombra della zampa leonina lanciare avanti gli artigli, ciuffi di peli, nettissimi sul muro, miei e nemici. E sapevo che se avessi accennato a correre, anche l'ombra del leone si sarebbe inarcata, e forse allora avrei sentito il soffio, mio e nemico... Finché, una volta raggiunto il crocicchio, le luci colpendomi di fronte... Mi sono svegliato sentendo il sudore gelido alla nuca, e solo dopo un lungo attimo vuoto, affannoso, ho cominciato a distinguere i rumori della pioggia in terrazzo. Fuori, esci fuori..., ho cercato di dirmi. Ma sapevo di dover ancora raccogliere le forze necessarie a respingere l'incubo. La pioggia è quasi dolce, come alla fine di un temporale, e infatti lontano si accendono ancora bagliori di fulmini, in un ammasso di riverberi prolungati, violenti. Dalla finestra entrano soffi d'aria fresca. Esci fuori. E con la gola secca mi trascino fino al terrazzo, per ricadere subito sulla sdraio. Mi percuote il vibrare metallico di qualche palma nel vento, dai terrazzi vicini, e lo sgocciolio dell'acqua dai tetti. Gli spigoli delle case, così nitidi e ripetuti, a ondate geometriche rotte infine da una buia cupola di chiesa, mi entrano nello sguardo, definitivamente beneficandomi. Negli attimi di bagliore per il rivoltolarsi dei fulmini lontani, vedo brillare i tetti bagnati, le antenne, un ciuffo di verde oltre il muro. Ho allungato i piedi sul cemento umido, respiro a bocca aperta, sento qualche goccia colpirmi. Sto meglio. Del resto, nelle ultime settimane sono sempre riuscito a recuperare in modo assai rapido la coscienza, dopo l'incubo conosciuto. Ho sete, ma è meglio che resti fermamente qui ancora un poco, a guardare gli spigoli neri e il rotondo profilo della cupola del Gesù. Mi ancorano come un ubriaco. E mi aiuta lo scoprire a ogni giro d'occhi qualcosa di nuovo, un vetro che luccica, un vaso rovesciato nel terrazzo di fronte, una persiana rimasta aperta a metà. Se mi sbilancio sulla sdraio, posso anche lanciare un'occhiata in via Montefiore, che al poco lume dei lampioni appare lustra e unta di pioggia nella sua pietra giallastra. È una primavera tarda e tormentata per Roma, con frescure e temporali che rimescolano le notti e impongono silenzi inconsueti anche in questi Giovanni Arpino
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vicoli di Trastevere per solito così sonori. Deve essere molto tardi: non c'è occhio acceso di finestra per tutti questi muri, e sporgendomi posso vedere il mucchio di scranne e tavoli dell'osteria accostati al muro e fradici d'acqua. Ora posso andare a bere. Non accendo la luce e con la mano avanti mi azzardo fino in bagno. Nella penombra, meglio non tenti neanche un'occhiata alla mia testa nello specchio, so com'è irta e gonfia. Mi riinfilo nel letto, accendo la luce. È un sogno, non un incubo, mi ripeto come sempre. E oltretutto, ogni tanto riesci anche a trovarci un tuo gusto, tra una paura e l'altra. È solamente un vecchio, lurido sogno. Come è venuto, così se ne andrà. Non c'entra coi nervi, stai benissimo coi nervi, non inventarti scuse coi nervi. Comincio a fumare, aspettando il sonno, e guardo l'acquerello di De Pisis sulla parete di fronte al letto, quelle navi tremule, quella chiesa in un brividio di grigi sulla laguna altrettanto trepida, inconsistente. Prima o poi lo stacco, a che diavolo mi serve qui, starà benissimo in ufficio, penso ottusamente, attento alla cenere della sigaretta. In terrazzo non c'è più che un rado gocciolare, e anche il rigonfio palpitare dei fulmini è andato a seppellirsi oltre l'orizzonte. Un tonfo greve di portone sale adesso sino a far vibrare i vetri della finestra. Mi allungo nel letto rinunziando a ostinarmi in una immediata ricerca di sonno. È più furbo giacermene comodo, le spalle bene appoggiate, e aspettare. "Cosa fai... Dormi?" sentii dire da Francesco. Mi tirai seduto sui talloni, come gli indiani. E del resto quella nostra nicchia ricavata nel folto dei rami d'acacia era stata concepita proprio come un rifugio da indiani, non per riposarsi o dormire. Ci scrutammo, il sole premeva ancora forte agli inizi di quell'ottobre e i grappoli delle foglie pesavano polverosi e immobili sopra di noi. "Adesso tocca a me..." lo avvisai. E lui mi restituì la pistola. Era la 6,35 che avevo sottratto a mio padre. L'altra, la calibro 9, non avevo avuto il coraggio di rubarla al suo fodero di cuoio, nascosto con due caricatori, il binocolo, le sciabole, gambali e divise nel vecchio baule in solaio. Ci guardavamo, e ammiravamo in ogni particolare la pistola, minuscola e opaca sul palmo. Giovanni Arpino
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Il nostro accordo era di tenerla in tasca mezza giornata per uno. A me spettava nel pomeriggio. "Sei proprio sicuro delle pallottole?" domandò ancora Francesco. Non ero sicuro, mi erano sempre parse piccole, erano entrate troppo facilmente, ballando nel caricatore dalla molla già arrugginita. Ma mi rifiutavo di ammetterlo. E poi: non c'era calibro più piccolo di quel 6,35 e che se ne sarebbe fatto, un ufficiale come mio padre, di proiettili spaiati? La studiavamo con scrupolo, dal manico zigrinato alla minuscola leva della sicurezza che, spostata, rivelava un puntino rosso, e non pensavamo ad altro che al primo colpo da sparare. Fino all'estate precedente, in quella stessa nicchia, diversi erano stati i nostri segreti, barbe di granturco da bruciare per sentire l'odore del diavolo, zucche vuotate col coltello e diventate maschere con occhi e bocche per incappucciare mozziconi di candele. "Dovremmo provarla su un coniglio sparandogli in un orecchio..." disse Francesco. "E così sprechiamo un colpo, ce ne sono solo cinque!" gli ricordai. "Allora bisognerà per forza provarla contro un tedesco..." fu d'accordo Francesco. "Sono già tre settimane che l'ho presa, e ancora non abbiamo fatto niente..." dissi. Francesco mi guardò con occhi pungenti. "A parole tu corri sempre, coi fatti si vedrà!" volle ribattere. "Perché il tuo coraggio a chi l'hai mai mostrato?" mi arrabbiai. "Saranno due anni che non piango..." mi fece a denti stretti: "Mi legassero a un palo e mi accendessero il fuoco sotto i piedi, non darei questa soddisfazione a nessuno..." "Sparerò prima di te!" gli risposi soltanto. Ci studiavamo odiandoci, ero più grosso di lui, ma per abbatterlo nella lotta potevo sfruttare solo il peso, essendo le sue braccia secche e resistenti come il metallo. La pistola era nell'erba, e ogni tanto, distogliendo lo sguardo, spiavamo tra le foglie verso il giardino per non lasciarci sorprendere. "Fai il leone, fai il leone..." disse ancora Francesco con la voce rauca per la rabbia: "Abbai ma non mordi..." "Perché li avresti tu i denti che mordono..." "Io sì, io! Sì!" replicò furioso: "...Io non sono il figlio di un Giovanni Arpino
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colonnello..." "Cosa c'entra il colonnello..." "È tuo padre? Allora c'entra!" riprese lui: "Siete tutti una minestra... Tante chiacchiere... e poi via a chi scappa di più... Tutti così i fascisti..." "Il colonnello è sempre stato solo per il re!" risposi. "Tutta una minestra...," insistette Francesco: "E tu sei come loro... Voglio vedere se ti tocca di sparare sul serio..." L'urlo di sua madre ci immobilizzò. "Se non corro subito a far erba per i conigli, quella bestia stasera mi bastona..." sussurrò Francesco. Prese a strisciare verso l'uscita della nicchia. Aveva grandi toppe scolorite sul fondo dei pantaloni, e non portava mai scarpe. Ancora udimmo la voce della donna che lo malediva dal cortile del mezzadro. "Vado..." disse Francesco: "E guai se spari senza di me..." "Faccio quello che mi pare, se voglio mi sparo in un piede!" gli risposi. "Lascia qui la pistola, vieni a far erba anche tu. Così possiamo tornare alla svelta..." "No..." mi ostinai: "Faccio la guardia come ieri. E se passano di nuovo dei tedeschi, vedrai se sparo..." "Così vengono in casa e ci stendono tutti..." mi derise Francesco. "Ho cinque colpi, e di tedeschi non ne abbiamo mai visto più di due alla volta!" replicai. "Crepa..." rispose: "Se vuoi restare, sta e crepa. Mangio un cane se spari un colpo. Col coraggio che hai..., mangio un cane..." Ora il letto mi dà fastidio. E se ancora una volta non riesco a addormentarmi, tanto vale che fumi meglio. Mi alzo, scelgo dalla scatola uno dei sottili sigari olandesi, accendo con cura. Mi riaccomodo col lenzuolo fino al mento, e il muro di fronte, nella penombra, ha il colore dell'acqua stagnante, con macchie più scure quadri, il calendario, lo stelo di un lume - che galleggiano quasi indistinte. Il fresco silenzio notturno è completo, neppur più una goccia in terrazzo. Anche i gatti di via Montefiore devono essersi rintanati per colpa del temporale. Fumo questo sigaro e poi dormo, voglio garantirmi con forza. Il tedesco veniva su per il sentiero, oltre la rete metallica che divideva la Giovanni Arpino
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campagna familiare e la vigna di un avvocato, piena d'erbacce tra i filari e con una villetta dalle persiane cadenti, il tetto quasi sfondato. Ansimante per il caldo, il tedesco s'arrampicava, solo. Già da due giorni pattuglie e soldati isolati passavano per quel sentiero. Si fermavano, anche, sbuffando di noia, frugando attorno con gli occhi forse alla ricerca di frutti. Ma non c'era più frutta sui peschi e sui fichi, e i grappoli di barbera erano appena viola e aspri lungo le viti. Francesco ed io li avevamo visti, in quei pomeriggi, andare e venire, con o senza elmetto, grigi o mimetizzati. Ne studiavamo i dorsi attraversati da cinghie nere, i toraci dove dondolavano mitra o fucili. Sparivano poi lungo il sentiero che raggiungeva la rotabile per il paese e sollevavano sbuffi di polvere nel tufo delle vigne. "Pattugliano, cercando gli sbandati..." dicevo. "Non cercano nessuno, non vedi che non tirano neanche giù il mitra? Non vedi che ridono?" sosteneva Francesco: "Vogliono solo mettersi in mostra, così la gente prende soggezione nel trovarseli in giro persino in collina..." Lui era meglio informato. Ogni sera scendeva in bicicletta in paese a portare il latte in una farmacia, e raccoglieva notizie. Io invece ero chiuso entro la cinta della campagna familiare, secondo l'ordine di mio padre. Non sapevo neppure se avrei ripreso le scuole. Non sono più di dieci o dodici con un sergente in tutta la caserma, sapevo da Francesco, ma girano sempre, anche di notte vanno su e giù per le strade, e magari sparano in aria, o a un gatto, perché ubriachi o per ricordare a tutti chi è che comanda. Ora il tedesco veniva avanti, senza elmetto, pochi capelli incollati sulla fronte. Sembrava vecchio. Lo puntavo con la 6,35 dalla mia nicchia, e gli contavo i passi. Lo vedevo dai ginocchi in su, affaticato. Avrebbe già dovuto scoprirmi, la nostra nicchia da indiani mostrava un gran buco da quella parte. Ma sembrava cieco e intontito dal sole come un vecchio cane, e solamente sbuffava, con affanno, il fucile doveva pesargli attraverso il petto. Avevo la pistola diritta e ferma e mi fu di colpo chiaro in tutto il sangue che avrei sparato. Solo, volevo che prima mi vedesse. Era a non più di tre metri dalla rete e ancora non s'era accorto di niente. Non ha neanche il mitra, riuscivo solo a connettere, ed è un vecchio, se adesso mi volta la schiena e torna indietro come posso ancora sparargli? Giovanni Arpino
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Mi vide e restò fermo, battendo le palpebre senza colore. Era proprio un cane stordito, col berretto nella cintura e le braccia abbandonate lungo il corpo. Il fucile seguitò a dondolargli sullo stomaco mentre lui mi fissava senza espressione. Adesso l'hai trovato chi ti scorcia, ti stende, ti trona, mi roteava perdutamente nel cranio, e stringevo la 6,35 sudata in pugno e il pugno poggiava solidissimamente sull'avambraccio sinistro, proprio come avevo visto negli agguati nei film. Fa ancora un metro e vedi, uno solo, e il cuore non mi batteva neppure, ero duro e felice. Non sapevo se sparare al petto o alla faccia, il cuore forse era riparato dal fucile a tracolla o forse no, ma tutto questo non faceva alcuna importanza per me. Alzò un ginocchio, poi l'altro, avanzando, come per curiosare, e contemporaneamente al colpo che sparai si afflosciò, lento ma subito, a bocca spalancata, e cadde a insaccarsi a non più di mezzo metro dalia rete che ci divideva. Solo allora mi rimbalzò mio padre nella testa. Certamente dormiva, chiuso nel fresco di qualche stanza, le gambe distese e divaricate oltre la poltrona, e non aveva neanche avvertito il colpo. Ma mi prese il terrore, e pur sentendo di dovermi subito muovere e fare, non riuscii per un lunghissimo minuto ad abbassare la pistola, a distogliere gli occhi dalle spalle ingobbite di quella giubba nell'erba oltre la rete. La nuca era di un biondo bianchiccio, compatto nel verde, e non vedevo le mani, sepolte sotto il corpo, solo un gomito si ergeva rigido da un fianco. Poi la paura mi mise affannosamente in azione. "Se tuo padre ti vede fare altre buche, stavolta te ne accorgi..." mi gridò dietro Caterina vedendomi passare di corsa con un badile. Seduta all'ombra dei tigli, a spaccare col martello i noccioli di pesca per estrarne mandorle da usare tritate nell'impasto delle pesche ripiene, forse aveva sentito lo sparo, ma certamente aveva congetturato su qualche cacciatore. C'era un cancello a metà della rete, facile ad aprirsi con una spallata, ma Francesco e io avevamo scavato un cunicolo molto più bello per prevenire i pericoli. Partiva dalla nicchia delle acacie e sbucava oltre la rete proprio in un folto di ortiche. Cominciai a spingere il tedesco verso il cunicolo. Mi sentivo piangere e Giovanni Arpino
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stridere i denti per rabbia, paura, per la forza disperata che non mi bastava a trascinare alla svelta quel corpo così lungo. Due volte si impigliò nelle ortiche, prima col panno, poi col fucile, due volte gemendo lo strappai alle spine sentendomi le ossa far male nello sforzo. Il pollice e l'indice della mano destra mi bruciavano come per una scottatura, forse avevo stretto troppo la pistola, e tirando e spingendo cercavo di non guardare, non sapevo dove l'avevo colpito, non avevo visto traccia di sangue, e torcevo la testa per fissare solo il cunicolo e non avere niente, niente di lui negli occhi. Le sue mani non erano uscite a mostrarsi e solo la nuca seguitava a biancheggiarmi negli occhi, vicina, benché tenessi quasi serrate le palpebre nello sforzo di spingere, tirare, non vedere. Mi infilai a ritroso nel cunicolo, sentendomi gemere a bocca aperta in quel mezzo metro di vuoto nel tufo soffocante, e intanto lo tiravo furiosamente per l'imbottitura delle spalle, non pensando affatto ad altri tedeschi li intorno, e per nulla allo sparo che pure seguitava a ronzarmi nei timpani, ma solo alla voce di mio padre. Annoiata, irritata, poderosa, senza scampo, tra un minuto avrebbe potuto chiamarmi dal giardino, da una qualunque finestra, per spedirmi alla pompa al pianterreno a premere tre o quattrocento volte sul manico di ghisa, dato che con tre o quattrocento colpi, a rubinetto chiuso, l'acqua della cisterna sarebbe risalita fino ai bagni del primo piano. Oppure m'avrebbe chiamato così, oziosamente, soltanto per individuarmi e quindi placarsi. Occupò per intero il cunicolo, non mi restava che bloccarne le uscite col badile. E cominciai a rovesciare tufo già smosso, a ribatterlo col piatto del badile, batterlo e sospingerlo e calcarlo con le suole. Ora era sparito, fucile e tutto, e quando i due orifizi furono otturati mi affannai a sollevare col badile lunghi serpenti spinosi di ortiche e stenderli in nuovo groviglio sul tufo rimosso, e ancora..., e poi di là della rete, altre ortiche, e ancora... Per una striscia profonda un paio di metri, ai due lati della rete, non s'era mai coltivato e le ortiche erano forti come braccia, di ramo grosso e scuro, con solide spine rosate. Venivano persino intese come un rinforzo naturale della barriera posta a confine delle due proprietà. Poi col badile calai qualche colpo disperato sulla cupola delle foglie di acacia, sfondando così il tetto della nostra nicchia indiana. In solaio, ancora trafitto dall'affanno, col bruciore alle mani, rinchiusi la pistola nel baule, seppellendola sotto le divise avvolte nella carta velina, i Giovanni Arpino
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gambali e le sciabole. Sedetti a ripigliar fiato, punte luminose mi guizzavano davanti agli occhi. Oltre la parete dello stanzino era un camerone posto direttamente sotto i tetti, e vi sentivo gli sbattiti confusi e gli squittii dei pipistrelli. Discesi le scale tendendo l'orecchio, e origliando accanto alla porta del salotto udii il respiro greve di mio padre, abbandonato in una poltrona. "Hai sparato, ho sentito il colpo..." mi sussurrò sospettoso Francesco dal recinto dei conigli. Negai senza parlare, senza guardarlo. "Allora è un bracconiere. Ha del coraggio, coi tedeschi in giro. Ne hai visti anche oggi?" domandò. "Se ti muovi di li prima che te lo dica io, ti faccio le ossa nere!" gli urlò sua madre dall'inferriata della cucina. E a me: "E tu Stefano, metti giudizio. Francesco deve lavorare, mica è figlio di signori. Lascialo perdere...". "Domani mattina mi ridai la pistola!" mi ricordò Francesco. "L'ho rimessa in solaio..." risposi. "Hai paura di tuo padre, eh?" ridacchiò lui smuovendo coi piedi tra il trifoglio nel recinto. I conigli si avvicinavano cauti dal loro riparo di fascine. "Hai tagliato il trifoglio nel campo per far presto, invece di strappare le erbe selvatiche. Lo sai che il trifoglio gonfia i conigli... Se se ne accorge tua madre!" mi sfogai finché persi il fiato. "Crepino i conigli..." borbottò lui. E poi, senza guardarmi: "Potevi darla a me quella pistola, avresti visto come me ne sarei andato coi partigiani...". "I partigiani sono solo banditi. Sparano nella schiena!" ribattei tremando. "Lo dice tuo padre colonnello?" s'arrabbiò Francesco avvicinandosi alla rete del recinto: "Si è visto cosa sono generali e colonnelli..." "Non credo più alle storie che ti raccontano in farmacia..." gli voltai le spalle. "Seguita a credere a Gesù Bambino!" mi gridò dietro: "Abbiamo tredici anni, è ora che vieni fuori dalla bambagia..." Alla sera, dopo il giornale radio che mio padre ascoltava pallido, gli occhi socchiusi come ad inseguire chissà quali immagini dietro le parole, mi ritrovai a letto sfinito, le gambe doloranti. Non avevo bisogno di pensare, tutto mi era semplicemente negli occhi, in una sola completa Giovanni Arpino
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visione. Benché fiaccato nei muscoli come per un'infinita corsa in bicicletta, riuscivo a fissare quel tutto, acacie pistola tedesco cunicolo ortiche, gelidamente, quasi esistesse al di là di me, preciso e tuttavia incomprensibile. Anche l'estremo, confuso sospetto, che il tedesco fosse solo svenuto o ferito e che l'avessi sotterrato vivo, potevo esaminarlo con una freddezza sconosciuta, che mi stupiva. E ora, nella memoria, resistendo al sonno, cercavo di scomporre e rallentare i brani di quella compatta immagine che avevo davanti agli occhi, alla ricerca di una traccia di sangue, di un segno che mi rivelasse il punto del corpo colpito. La mano destra mi pareva covasse ancora il contraccolpo dello sparo. Tardi, molto tardi, sentii mio padre nella sua stanza. Ci divideva una parete sottile e una porta dipinti a scene campestri incupitesi col tempo: i ciuffi dei cespugli da verdi erano diventati quasi neri, le acque di un fiume erano solo più una lamina opaca, le carni delle donne e di uno zampognaro s'erano stinte in un innaturale pallore. Mio padre si raschiò la gola, e intanto io lo udivo riporre in perfetto ordine i suoi panni, le scarpe allineate, più in là camicia e cravatta, i pantaloni scrupolosamente ripiegati sullo schienale di una seggiola. Mi tendevo ai suoi passi su e giù per la stanza, ai suoi scricchiolii, unici segni vivi nella grande casa addormentata. E come sempre, quando ero sveglio e restavo in ascolto, lo udii pregare a mezza voce. Arrossivo di rabbia nel buio per la grave offesa che mi veniva da quella sua preghiera. La pronunciava in piedi, gli occhi fermi al muro, come avevo scoperto anni prima spiandolo attraverso la serratura. Teneva le braccia conserte, diritto e immobile nelle goffe pieghe del pigiama che non riuscivano ad ammorbidire il legnoso atteggiamento militare degli arti, e proseguiva nel monologo senza la minima variazione di tono. Ne intendevo frasi intere, e talora solo parole staccate che però non m'era difficile legare insieme. "...Dio Salvatore, proteggi il nostro paese nell'ora della vergogna e della prova... Maledici coloro che ci hanno abbandonato, la Casa Reale, chi si dimostrò indegno di comandare un esercito, un popolo... Proteggi i nostri giovani privi di ogni ideale... Tutela... Illumina... Tu che sai chi merita la Vittoria..." Oltre le porte-finestre che lui, prima di notte, aveva meticolosamente sbarrato passando di balcone in balcone, saggiando ogni gancio di ferro, Giovanni Arpino
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s'udivano i tigli del giardino muoversi nel vento notturno, e lontanissimi fischi di un treno nella pianura che portava a Torino. La stanchezza mi metteva nodi di dolore e tensione nei muscoli, nelle palpebre. Ma mi sembrava di dover respingere il sonno, il più possibile, e immaginavo i tedeschi per le strade del paese, a quell'ora, li vedevo passeggiare con elmetti e stivali per via Cavour e dalla piazza del mercato ai giardini della stazione, su e giù i mitra incrociati sul petto, le voci che se non s'arrochivano in brevi urla pareva rotolassero sillabe crude, ridicole... E Francesco: tornato dopo il tramonto dalla farmacia con le bottiglie vuote del latte, non era venuto a cercarmi con le ultime novità. Lui era convinto che i partigiani avrebbero vinto, e che il Mussolini riapparso alla radio, in quell'ottobre, fosse un fantasma di dischi, firme false sui manifesti, fotografie e timbri inventati dai tedeschi per confondere la gente. Ne discutevano, in farmacia, tutti quelli che lui sentiva parlare nel retrobottega, persone d'ogni sorta, vecchi e operai, e qualche studente, farmacista e contadini che si trattavano col "tu". Adesso anche Francesco dormiva, in una sola stanza con madre e sorelle piccole, o forse era sveglio e pensava alle pistole, a fuggire nei boschi, e al tedesco morto avrebbe potuto credere solo se glielo avessi dissepolto davanti agli occhi... Sentii Milk, il bastardo che alla sera scioglievamo dalla catena, attraversare il giardino di furia, latrando dietro un topo, una faìna... "...Concedici di riscattare il nostro onore macchiato, e fa che la tua benevolenza scenda copiosa sulla nostra disgraziata Patria, sempre tormentata e martire, che possa... e fiorire più grande..." E poi quel respiro raschiante in gola, a finire: "...Dio Salvatore, un uomo ti ringrazia". Già sfregava il fiammifero per l'ultima sigaretta prima del sonno. Ero certo di odiarlo, e mi straziava. Non riuscivo più a schiudere gli occhi nel buio, ancora cercavo un rumore cui aggrapparmi. E forse lui già dormiva, di là, lui che dal 1911 in Libia, cominciando le sue guerre, chissà se aveva mai sparato a qualcuno distante solo mezzo metro. Inutilmente cercavo ancora di combattere il sonno che ormai mi pesava sugli occhi, mi intorpidiva le giunture. E solo per un attimo trascorse l'ombra benigna in cui, ondeggiando, tutto poté apparirmi come non accaduto, non vero... Giovanni Arpino
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Trovo a tastoni il portacenere, schiaccio il sigaro. Ora devo dormire. Dalla finestra cola una luce livida e nello spicchio di cielo che riesco a scrutare oltre il terrazzo vedo nuvole nere, e fiocchi grigi, bassi e stracciati che filano via più rapidi proprio sopra i tetti. Un carretto sta muovendosi riottosamente sui ciottoli di via Montefiore, arrivano stridii da lontane rotaie. Sono le quattro. Devo chiudere la finestra, fare il più possibile di buio. Ora basta: bisogna che dorma. Mi raggomitolo nel letto, non ho pensieri o batticuore, solo questa lucidità nemica che devo soffocare, intorbidare, serrando gli occhi, forzando uno sbadiglio, ammucchiando le ossa... Mi sveglio, e c'è una luce malata che tradisce un altro giorno nuvoloso. Mi sento debole, rinuncio ai pochi movimenti ginnastici abituali, e in bagno mi decido ad affrettare uno dei non infrequenti attacchi di nausea. Poi mi siedo sul bordo della vasca a tossire. E mentre gli occhi mi dolgono e riesco a respirare solo come attraverso uno stretto spiraglio della gola, ascolto questa tosse. È il sigaro, le troppe sigarette, lo so, ma è identica, nel suo lento crescere, ampliarsi, secco spegnersi, a strappi sempre più bruschi, è identica alla tosse di mio padre. Mi bagno un'altra volta gli occhi, cerco di non guardarmi nello specchio, so che tra dieci minuti starò benissimo e potrò radermi e rimettermi insieme senza altri incidenti, ma ora preferisco non vedermi. So di non rassomigliare a mio padre, ma questo significa molto poco rispetto alla tosse che ho dentro, che è la sua. Più del taglio degli occhi o della forma del naso, vale e fa da spia per una segreta identità questa tosse che ogni giorno, a una certa ora, ribolle tra stomaco e gola, come un segno che scatta ad ammonirmi, cioè a dirmi non sei diverso, quindi non sei meglio... Ha quarantadue anni più di me, viviamo a ottocento chilometri di distanza, lui nella vecchia casa ormai assediata da una campagna incolta, con sghembi noccioli dov'erano i peschi e le viti, io sono qui, in questi cinquanta metri quadrati di alloggio romano, tra voci esterne che mi pacificano ma alle quali non appartengo e che ancora tante volte mi risultano estranee, querule o irritanti o buffe: e a una certa ora del giorno si tossisce così, alla fine dando un colpo secco di frusta alla tosse, domandola con sperimentata violenza. E questo segno che sempre prevedo e ascolto, a cui tendo trappole, cercando di confonderlo, snaturarlo, come fosse l'avanguardia di altre Giovanni Arpino
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identità riposte, più gravi e già avviate a rivelarsi. A quest'ora, lui non è ancora fuori del letto. Ha dormito tutto il pomeriggio, da una poltrona all'altra, ogni tanto fingendo qualche minuto di lettura, un moto fino al balcone, una finestra. Poi, dopo cena, ha oziato, ha ascoltato a occhi socchiusi, con un leggero sorriso, qualche canzonetta napoletana alla radio, via via manovrando irritato per un'infinità di stazioni sempre alla ricerca delle stesse secolari canzoni. Ha letto, annotandolo ai margini, qualche vecchio libro o trattato d'arte militare, ogni tanto aprendo uno dei suoi dizionari, da scrutare con la lente che scorre lungo le colonne di fitto carattere tipografico. S'è messo a letto a tardissima ora, tanto per ingannare quel briciolo di notte rimasta vuota. Le sue abitudini, nel giro degli anni, non sono mutate, hanno solo subito un rigonfiamento, come arti di un corpo malato. Ogni operazione quotidiana, dalla lettura del giornale alle abluzioni serali, è andata dilatandosi fino a occupare uno spazio enorme, cui basta appena una giornata intera per riuscire a consumarsi ed esprimersi. S'è addormentato verso il mattino, un sonno leggerissimo e maligno, che Caterina teme e rispetta, alzando gli occhi al cielo e invocando i nomi d'Iddio ogni volta che al pianterreno, in cucina, urta una sedia, le sfugge di mano un cucchiaio, o il cane abbaia storditamente in cortile. Alle dieci del mattino arriva il barbiere. È un vecchio napoletano, grasso e un po' ansimante, che ha conosciuto e sposato durante il servizio militare, quarant'anni fa, una zitella piemontese con qualche soldo. Da dieci anni, ogni mattina alle dieci arriva lentamente, col fiato corto, spingendo la bicicletta a mano per la salita oltre il cancello, fedele all'inevitabile appuntamento che lo lega al colonnello Giacomo Illuminati. «Come sta il colonnello?» sussurra a Caterina che lo aspetta in cortile. «Lui? Meglio del diavolo e dei santi... È la campagna, invece...» risponde la donna. Ma non continua, il barbiere non s'intende di campagna e non c'è gusto a sfogarsi con lui e dirgli di vigne ridotte a gerbido, di contadini pieni di pretese in testa, di pesche che nessuno raccoglie e marciscono sotto gli alberi. «Le dò l'acqua.» Rientra in cucina. Quanto torna, il barbiere è già pronto, con la casacca bianca e il vassoio che regge, bene appostato, tutto l'occorrente, compresa Giovanni Arpino
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la vaschetta in cui la vecchia Caterina versa l'acqua. Sul tavolo di pietra sotto i tigli la valigetta di Liberato Lonero giace spalancata e vuota. «Allora io vado...» sussurra l'uomo. «Vada, vada, buon lavoro» risponde Caterina con astio. «Lei c'è quando scendo? Non vorrei che il cane...» «Non vede che è alla catena? E poi sono anni che viene qui e ancora non ha fatto amicizia con questo stupido di cane» ribatte Caterina. Il barbiere attraversa le stanze a pianterreno senza un rumore, si avvia per le scale. Ha un passo vellutato, e tutti i suoi gesti appaiono raccolti, taciti, come obbedissero a un movimento d'orologeria: perché Liberato Lonero non solo ha bottega di barbiere, è pure il barbiere dei morti, una mano leggerissima e gentile. Mentre sale, già rotea il pennello nella vaschetta, e passa dall'acqua al sapone per aver l'aggeggio prontamente in ordine al momento opportuno. Al sommo delle scale si ferma, ascolta. Dietro la porta dipinta c'è silenzio, e allora l'uomo preme cauto la maniglia. Una volta scivolato nella stanza, si muove rapido, preciso, posa il vassoio sull'angolo del tavolo lasciatogli libero, scosta un poco di tenda. La stanza non è grande, ma risulta gremita di poltrone, inginocchiatoio, sedie, un tavolo con pile di libri e giornali ammucchiati in grandissimo ordine. La penombra lascia intravvedere appena la tappezzeria, definita persiana per i ghirigori intrecciati e i disegni geometrici che si inseguono e si accavallano come in un arazzo. In un filo di luce s'illumina la cornice di gesso dorato che accoglie il ritratto ovale di Giuseppe Verdi, dai colori densi, come umidi. Il letto è un falso impero, con bacchette metalliche che dovrebbero reggere una zanzariera mai approntata. Il colonnello giace perfettamente immobile, le braccia distese sul risvolto del lenzuolo, il naso che balza profondo. La testa poggia su un doppio guanciale, il suo pallore meridionale appare incupito appena in qualche ruga. Forse il sonno non è così cieco da impedirgli un filo di coscienza, tuttavia Lonero mai ha avuto la sorpresa di vederlo trasalire, muovere un gesto. Respirando a bocca aperta, il barbiere insapona, scrupoloso, poi comincia a radere premendo il meno possibile col suo ventre teso sul bordo del materasso, e in ultimo svirgola via con la cocca dell'asciugamani Giovanni Arpino
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le minime tracce di sapone. Raccoglie i suoi strumenti, rialza il vassoio, socchiude la porta. Talora, quando è già con un piede fuori, lo raggiunge un sospiro, un raschio. «Ah, tu, Lonero...» «Signorsì, signor colonnello, buongiorno...» sussurra l'uomo senza attardarsi, richiude con grazia il battente e lieve riprende le scale. Solo più tardi il colonnello Illuminati si alza, Caterina lo sente tossire e muoversi in bagno, e allora s'affanna a preparargli il caffè. Ma deve subire in silenzio, con antica pazienza, quando il vecchio, disceso al pianterreno e scorto il vassoio del caffè, immancabilmente dà in un suo cieco strepito, inveendo contro la tazza, il cucchiaino, la disposizione del pizzo sul vassoio, e mastica ingiurie a proposito della malagrazia, l'imbecillità, il rozzo abuso di confidenza che il mondo gli porta. Solo allora è sveglio, pronto, quindi nemico a tutto. Si ritira nella grande stanza una volta ammobiliata da innumerevoli poltrone e divanetti di giunco. Ora, nella luce che entra dalle finestre ferrate, c'è solo un immenso tavolo. Anche i muri sono nudi, tranne una parete dove pendono lunghe carte militari. C'è la mappa del campo trincerato di Tolmino, una carta con le direzioni d'attacco delle truppe austro-tedesche a destra e a sinistra dell'Isonzo, c'è il piano "T" del generale Capello con le successive linee tratteggiate d'avanzamento degli austro-tedeschi dall'Isonzo fino al Piave. Sul tavolo, altre carte, appunti, un testo di Caviglia, uno dell'austriaco Schwarte, le Note di Capello, i Ricordi di Ludendorff, sedicesimi in collezione con gli ordini d'operazione, i fonogrammi, i bollettini quotidiani, e fogli bianchi tenuti distesi da puntine da disegno. Il problema consiste nel bloccare l'Alpenkorps bavarese che, scattato nella nebbia alle otto del mattino del 24 ottobre 1917, sulla riva sinistra dell'Isonzo, partendo dal campo trincerato di Tolmino, dà il via alla grande offensiva degli Imperi Centrali contro l'Italia. Bisogna inchiodarlo sulla costa Raunza, ma li la cosiddetta "linea di difesa a oltranza" prevista da Cadorna e Capello non schiera che due battaglioni della brigata "Taro". La nebbia, inoltre, rende ciechi i nostri mitraglieri. Cadorna e Capello non hanno mai receduto dai loro concetti offensivi, lasciando ingolfate le linee di retrovia, tutti presi da intenti di attacco, e anche quando s'acconciano a prevedere qualche progetto di difesa, lo Giovanni Arpino
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vogliono elastico, pronto a rovesciarsi come un guanto, sissignori..., in proposito e manovra offensivi. E non hanno prestato fede che con estrema sufficienza alle ultime rivelazioni dei disertori austriaci, cioè all'imminente grande offensiva nemica. Anche quei cervelloni dell'Intesa, quei Galli, quegli Albionici, amici pelosi!, anche loro non hanno creduto alla possibilità di un attacco e così si sono presi il lusso di ritirare dal fronte italiano 99 medi calibri, proprio in settembre!, perdipiù sospendendo l'invio di quelle altre miserabili 102 bocche da fuoco promesse da mesi! In Settembre: cioè quando gli Imperi Centrali, grazie alla rivoluzione russa, hanno potuto trasferire diecine di divisioni dal loro fronte orientale ai teatri d'operazione occidentali... Con cento fucili e due mitragliatrici, cioè con una compagnia della brigata "Napoli", distesa su un chilometro di fronte, come vuoi fermare il 6° battaglione della 12a divisione slesiana lanciata verso Caporetto? Resistesse anche fino all'ultimo e rintuzzasse ogni assalto del gruppo Krauss, il nostro IV Corpo d'Armata rimarrebbe tagliato fuori, una volta raggiunta Caporetto dagli slesiani dal sud... La linea di Volzana davanti all'Isonzo, all'Alpenkorps bavarese e agli slesiani, bisogna fortificare in tempo, e la conca di Plezzo davanti al gruppo Krauss. Ma sono problemi che coinvolgono tutto il nostro schieramento, è necessario snellire la retroguardia, sgomberarla da teatri, ritrovi superflui, casermaggi di disarmati, far piazza pulita di donnacole, dame benefattrici tantopiù ingombranti quantopiù illustri, spazzar via tutte le ganghe di parassiti e intriganti, politici e mestatori bolscevichi, e sveltire finalmente le linee di rifornimento e raccordo. E far subito fuori, meglio se a frustate!, tipi come quegli ufficiali di certi comandi, che spostano due reggimenti di bersaglieri, il 2° e il 9°, in sette giorni, prima dal IV al VII Corpo d'Armata, da questo nuovamente al IV, e qui sbattuti di posizione in posizione finché si ritrovano fermi solo alle due del giorno 24 ottobre, a attacco nemico iniziato! Bisogna tracciare una nuova linea di difesa e rinforzare le due conche con batterie da 75 e batterie someggiate. Con uno schieramento previsto per il solo attacco - roba da generali lustri di alamari, con mantenute al braccio destro! - o inchiodi il nemico al primo assalto o sei costretto a lasciarlo penetrare nel vuoto che tu stesso ti sei lasciato alle spalle, e così dai via libera a bavaresi e slesiani fino al Tagliamento, forse addirittura al Piave! Bisogna variare la nostra strategia, come hanno saputo fare gli Giovanni Arpino
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austro-tedeschi di von Below, di von Arz, dell'arciduca Eugenio, e modificare il tiro delle nostre artiglierie. Quelle tedesche non hanno bisogno di inquadramento, applicano il metodo del tiro calcolato. Con la matita bicolore accenna sulla carta la nuova linea di manovra e crea uno sfiatatoio alle spalle dello schieramento avanzato, una sorta di tozzo imbuto, dal Tagliamento fino all'Isonzo, facile da percorrere per rifornimenti rapidi e truppe leggere. Cadorna ha forze venti volte superiori a quelle che aveva qui il Buonaparte nel 1796, ma il Buonaparte, queste linee geografiche venetofriulane, le aveva misurate e pesate matematicamente, senza inutili e gaglioffi timori per i rapporti di pura forza! Alla faccia dei generali con lavagna e bacchetta... Un secondo caffè sibila nell'angolo della stanza, dove il fornello a spirito ha annerito una lunga striscia di muro. Il colonnello Illuminati soffia sullo stoppino, versa il caffè, pensa a cosa ha detto Garibaldi parlando del soldato in fuga. "...Rompe! Lasciatelo rompere... in certi casi bisogna agire con l'animale uomo come si agisce con l'animale bue... Contentatevi di tenerlo su d'un fianco o alla coda... Lo fermerà il fiume, una montagna, la sete... o una paura più grande... Allora è tempo: riordina, come puoi, gli animali uomini, procura di trovar loro da mangiare, da bere, del riposo: e quando saranno satolli, riposati e rialzati di morale, essi si ricorderanno di una vergognosa fuga, di dovere calpestato e di gloria..." Già. Ma gli è che detti animali uomini devono avere un capobranco che non sia un bue, un cornuto. «Permesso? C'è il contadino che...» è la voce di Caterina dietro la porta. «Non ho niente da dire a quello là!» l'interrompe subito il colonnello. «Lei no, ma lui vorrebbe...» «Lui chi, lui cosa!» urla Illuminati: «Non voglio aver niente a che fare con quella gentaglia. Come devo spiegarmi: in arabo? Si arrangi lei. Non ha sempre ficcanasato lei in queste storie di vigna? Si arrangi! L'avete voluta la repubblica? Godetevela...» Il borbottio di Caterina si allontana. "... d'una vergognosa fuga, di dovere calpestato e di gloria..." dunque. Già, mettilo in testa a Cadorna, che è sempre vissuto lontano dalla truppa, che ha sempre dubitato della truppa, che ritiene il fante italiano incapace di resistere sul Piave e perciò prospetta al governo addirittura Giovanni Arpino
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l'eventualità di una pace separata col nemico. Lui, l'offensore a oltranza, e il suo compare Capello che osa parlare di "contegno poco energico di alcune truppe...". Cadorna: un altro di questi generali piemontesi, è da Custoza che li subiamo, cinici, aridi, che si gloriano d'essere dei craponi, Cadorna come quell'altro, quel giocatore di bocce!, quell'astigiano innominabile, quella testa di popone secco, bell'esemplare di questo nostro popolo di schiavi: basterebbe la sua storia, dalle ore 20 del 24 ottobre del 1917, come comandante del XXVII Corpo d'Armata, fino al settembre di ventisei anni dopo, basterebbe la sua storia a qualificarci per quel che siamo... Questi piemontesi, generali o mezzadri che siano, il loro Giolitti in testa, bancarottiere e doppiogiochista..., questi piemontesi bugiardi, gretti, che non vedono una spanna al di là del proprio interesse e mai, mai hanno avuto un pensiero per il bene della Nazione... E osano sparlare dei Borboni!, loro che ci hanno saccheggiato il Sud, fatto mercato dell'unità patria!, loro sì camorristi, burocrati... Beve il caffè, squadrando dall'alto i primi accenni della nuova manovra strategica che sposterà sulla carta le varie batterie da 75 e ridurrà il fronte del IV Corpo d'Armata, il più minacciato d'aggiramento nella conca di Plezzo. Poi siede e lentamente, riflettendo, alliscia prima il blu quindi il rosso della matita bicolore. I due coni alle estremità della matita devono risultare perfetti e dal temperino infatti si srotolano, senza una briciola, uno stacco, due teneri serpenti di legno. Ripone infine il temperino nella lunga scatola d'argento che l'ha seguito ovunque, dalla tenda di Libia alla trincea sul Carso fino a quest'ultimo assedio, dai terreni delle manovre estive ai tavoli delle tante caserme e ora qui, nella campagna ereditata e nemica, che gli si inselvatichisce intorno quasi a dispetto del suo mare salernitano, profondo, raggiungibile ormai nel suo azzurro solo attraverso le note morbide di una canzone alla radio... La scatola ha aquile ad ali spiegate al posto d'ogni maniglia, e contiene in bell'ordine le gomme, le boccette degli inchiostri di china, un tagliacarte d'avorio, un compasso, il doppio decimetro, elastici di vario colore riuniti in fasci...
II L'appuntamento era al caffè Greco. Giovanni Arpino
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«Perché proprio qui?» le domando. «Niente. Una scaramanzia. Te lo spiego poi» mi risponde con un sorriso. Le brillano gli occhi e ha quella leggera aria trionfante, infantile, che subito le ammorbidisce il volto, appena un'occasione la rende contenta. Invece io, come sempre quando la vedo, mi sento mordere da mille veleni in contrasto. «Dillo, così è finita» la invito di malavoglia. Nega con un cenno, soddisfatta di potermi costringere allo scherzo. E naturalmente è perfetta, persino con il cinturino bianco all'orologio, essendo ormai primavera, anche se tempestosa, anche se la strada fuori è un budello illividito. «Allora?» domando, e spero solo che sia lei a forzare lo spesso silenzio dubbioso che aggrava l'inizio di ogni nostro incontro. Ancora si rifiuta, senza spegnere il sorriso. E riposata, fresca, certo ieri è andata a letto prestissimo per potersi presentare stamattina al meglio delle forze, della buona disposizione. Aspetto che parli e intanto mi perdo dietro al cameriere che va su e giù dondolando, ancora in maniche di camicia, i pantaloni neri svolazzanti alle caviglie. In qualche angolo, sotto i tavolini vi sono piccoli mucchi di segatura. La saletta del bar è vuota, tra le colonne si vede l'uomo dietro il banco, giovane grasso con gli occhiali, che lustra lo zinco manovrando la spugna e intanto borbotta scherzosamente contro la cassiera alzatasi dal suo scranno e intenta a riordinare panini sotto la lastra di vetro. Gli ori e le ombre, e tutte le cornici, i riccioli marmorei, i velluti e le chiazze oscure dei quadri alle pareti mi pesano sulle spalle. Fuori, un garzone è scivolato sul marciapiedi unto d'acqua rovesciando la gerla colma di pacchi, bestemmia, e i camerieri blandamente affacciatisi alla porta lo incoraggiano, ironici. C'è rumore di serrande che s'alzano, commessi si mostrano sulla soglia delle botteghe. Ho ancora negli occhi l'immagine della lista di Roma attraversata nel mattino presto per arrivare fin qui, e mi sento respinto da questo ricordo annuvolato, alberi umiliati dall'acqua notturna, gente in bilico tra le pozzanghere, i volti scontrosi sotto un cielo che ha schiacciato i tetti. «Dunque» la invito di nuovo senza guardarla. E sono sicuro che ha le valigie pronte in portineria, senza un graffio, senza la minima screpolatura nel cuoio, con le sigle ben lucide. «Oh, tutto qui» si rassegna freddamente : «Questo è l'unico caffè di Giovanni Arpino
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Roma dove hanno ì'Amer Picon, anche se non sanno servirlo con la granatina. Dovresti ricordare. E ho pensato...» «Sentimi bene, Lu...» comincio. «Lo so, lo so, non voglio romperti le scatole, sta tranquillo. Non intendo risuscitare proprio niente. Siamo d'accordo. È un viaggio in amicizia e basta. Siamo insieme per spalleggiarci, è inteso, ci puoi contare» e sempre la sua voce esatta, mai che le si imbrogli una sillaba mentre parla, qualunque tensione possa corroderla dentro: «Non romperò, credimi. L'Amer Picon era solo una stupida scaramanzia. Va bene così?» Accenno di si e sono pentito, con molta confusione ma senza dubbio pentito per aver imbrogliato le carte fino a questo punto. Ora c'è anche questo viaggio tra i piedi. È nato per caso, dal rigurgito di nostalgie proprio qualunque, in serate perse al ristorante, nei caffè, a tenerci una compagnia che non era possibile inventare altrimenti. Era sempre apparso improbabile, un fantasma benevolo cui affidarsi ogni tanto : e invece eccolo, dovremmo cominciarlo proprio oggi. «Senti, Stefano» mi fa toccandomi una mano ma subito ritirando la sua: «Non ne hai più voglia, vero? O preferisci andartene per conto tuo? Dillo pure. Non faccio scene, giuro.» «Ma no, no...» «Non sai più se andare o restare. È così ?» «Sarà così...» «Posso darti un consìglio?» Si appoggia coi gomiti al tavolo, attenta, gentile, disposta a qualunque cosa, a ridere o a piangere, a combattere o a cedere, secondo come tirerà l'aria tra pochi istanti, pur di favorirmi, di sacrificarsi a favorirmi comunque. Sento già la sua bontà che si raccoglie e riscalda per concentrarmisi addosso da ogni parte, un mare di premure, di accorgimenti generosi, di preveggenza, e so che vi scivolerò dentro lentamente, senza un gesto, senza pretendere nulla di nuovo e diverso. Riprende : «È sempre successo che al momento di muoverti ti pigli l'umore contrario. Poi ti passa subito, e stai bene, dovresti ricordartene. Ascolta: non buttar via questi pochi giorni di vacanza. Da anni straparli del tuo maledetto Piemonte, e la vecchia casa, e il padre colonnello, eccetera. Ti fa bene, se ci vai. Oltretutto è una visita perfetta: cinque giorni, arrivi risplendi riparti prima di far danno. E a te correre in macchina t'ha sempre scaricato. Io sto qui, ti vengo dietro, taccio, parlo: decidilo tu. Lo sai che Giovanni Arpino
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non faccio problema, che mi va sempre tutto bene. Decidi tu. Anzi, guarda: non pensare neppure a me, parti e non mandarmi neppure una cartolina: benissimo! Non sarebbe la prima volta. Però non buttare via questi pochi giorni. Se rimani a Roma, torni diritto a lavorare come uno scemo. Ti conosco. Era tutto così ben deciso, pulito... Non aver paura, saprei stare ai patti... Non romperò, se è solo di questo che ti spaventi...». «Già» dico. Scuote la testa, non sa più quali altre parole cercare e aspetta. Ha ragione, sa di averla, ma non gliene importa niente, non le procura che nuova tristezza e solitudine l'aver ragione nei miei confronti. «L'hai già preso un caffè?» domando. Annuisce senza più guardarmi. «Ma perché non viene nessuno a chiederci cosa vogliamo qui dentro!» protesto scrutando i camerieri che rimuovono la segatura sotto i tavoli. «Sei stanco. Non hai dormito. È così ?» «No.» «Hai fatto di nuovo quei sogni...» tenta sottovoce. «Ma no!» protesto. Sospira, aspetta e io non so come cominciare, cosa dirle. «Sii ragionevole. Dici sempre che bisogna essere ragionevoli e poi...» mormora. «Va bene» mi decido: «Metti che si parta. E se poi divento il solito energumeno?» Ecco, è di nuovo quasi sicura, ha capito d'essere riuscita a smuovere la prima pietra. Ancora allunga una mano, leggerissima. «Caro» dice : «Tu sei libero di fare e disfare. Anche quando vuoi passare per vittima lo sai benissimo che non muovi un dito se non per il tuo comodo. Detto tra noi, si capisce. Io sarò buonissima, lo giuro. Come te lo devo mettere: in carta bollata? E non pensare adesso a come sarai e a cosa... Come sarai, così andrà bene. Perché sbuffi? Parlo troppo?» «Certe volte sei così brava, bella, buona che bisognerebbe ammazzarti» rispondo. «Capisco perfettamente» mormora con serietà. «Non ho neanche fatto la valigia.» «Ci metterai un minuto. Tra un'ora potremmo... si potrebbe essere fuori Roma.» «Già» dico. Giovanni Arpino
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«E adesso non inventarti subito un'altra pena, bambolo» sorride attenta : «Andiamo tutti contenti nel tuo vecchio, nobile, barboso Piemonte, dai una bella pacca sulla schiena al padre colonnello, fai un po' lo sbruffone romano al caffè coi tuoi amici diventati sicuramente panciuti, e si torna indietro. Cosa vuoi di meglio...» «Va bene, va bene...» «Se l'amore che ti porto non riesce ad essere utile neanche come amicizia in queste cose, allora...» «Eh, no, Laura, così...» Mi guarda, socchiude gli occhi per dirmi che ho ragione, che sa di aver sbagliato, che non accadrà più. «Fidati» sussurra : «Abbi pazienza un minuto, un minuto solo, fidati...» Fuori, il tempo dev'essersi ancora più rabbuiato. I camerieri hanno acceso le luci, nelle salette vuote i velluti rimandano ombre di colore caldo, le vene nel marmo dei tavoli spiccano sanguigne. «Lo so di essere il tuo unico amico» mormora : «E non è un compito facile...» «Va bene, ma non ricadiamo sempre negli stessi discorsi» le rispondo: «Altrimenti si finisce...» «Si» m'interrompe volonterosa: «Però te lo voglio dire ancora una volta: non romperò le scatole. Vedrai. Sono stata bravissima in tutto quest'anno, vero? Di', è vero? E in questo viaggio sarò anche meglio: proprio un vecchio compagno d'armi...» «Lu, non devi sempre...» «Zitto. Non dire niente» sorride trepida : «Sii furbo, sennò mi togli tutto il coraggio. A me va bene così, lo sai, mi va bene comunque. So io! Tu però non togliermi il coraggio, non ti si chiede altro...» «Allora va a casa prima che ricominci a piovere» le dico senza più osare guardarla : «Tra mezz'ora passo a prenderti...» Accenna di si, ma non si alza, le mani congiunte su guanti e borsetta. «Ordina prima questi Amer Picon, per favore» sussurra soltanto distogliendo anche lei gli occhi. Piove, un'acqua grassa che rende scivoloso l'asfalto. Lunghi fumi si alzano dalla campagna, stagnano in brevi valli verdissime dell'erba d'aprile, silenziose sotto il cielo che pare aver raggiunto un uniforme grigio, a perdita d'occhi. Ogni tanto, tra i vapori s'intravvedono gruppi di Giovanni Arpino
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case, paesi, aggrovigliati come gomitoli e coi muri giallobruni impastati dall'acqua. Non abbiamo scambiato parola fin dall'uscita da Roma, la strada è quasi deserta, con radi lentissimi camion che procedono pesantemente, dai finestrini abbassati solo a tratti penetra un improvviso alito d'aria. Sono stanco, le ore di sonno perduto m'hanno annebbiato, ma almeno ho il vantaggio di non riuscire a pensare niente di concreto. Mi sembra impossibile di muovere davvero in questo viaggio, che è stato grandioso mentre lo si costruiva o smontava e che adesso, se riuscissi a esaminarlo lucidamente, m'apparirebbe privo di significato e spinto a forza. Oggi non farò molta strada con questa stanchezza, mi dico. Sento Laura che ogni tanto si volta appena a guardarmi, e tace per mettere più tempo, più chilometri alle spalle, forse anche lei incredula sulla consistenza di questo viaggio. Deve aver deciso di lasciare a me l'occasione o la buona voglia di tirare il primo filo del primo discorso, se ne sta quieta con le mani in grembo, ogni tanto fumando, porgendomi la scatola delle sigarette senza una parola. Durante due o tre sorpassi ha scrutato anche lei la strada, avanti e indietro, quasi a tacita dimostrazione della sua attenta presenza, dedicata a me, al viaggio. «Se vuoi un caffè...» dico. Scuote la testa sorridendo. S'è persuasa a lasciarmi in pace, è evidente, a restarsene vigile al riparo. Tentassi di provocarla, in qualunque modo riuscirebbe a parare il colpo. Ecco, così siamo, e questi sono i nostri calchi dopo la folgore d'amore che è stata, che ci ha ristretti alla rigida sagoma d'una coppia. Lei chiusa nel suo bozzolo, nel rifugio della sua ostinazione, della sua dedizione infinita, illogica, che può continuare e giustificarsi solo moltiplicandosi, inventando nuove manifestazioni e prove di devozione, di minuziosa fedeltà; ed io... Dopo il lungo tempo in cui siamo vissuti persino confusi l'uno nell'altro, con diversità minime e quindi esaltanti, dopo aver dato fondo alla maggiore confidenza e consumato tutta la carica che un amore può dare, eccoci oggi, reciprocamente intimiditi, di nuovo alle prese con mille cautele di parole, di gesti, impegnati in silenzio a reggere la spoglia di ciò che fu comune. Nella memoria, continuo a innamorarmi di lei, a strappi improvvisi e solitari, che non posso confidare, che non mi è più possibile rendere palesi Giovanni Arpino
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: e anche questo - lo so, l'ho imparato - fa parte delle cose che non riesco a spiegarmi, di un procedere turgido e misterioso a me stesso. Non so più vedere la mia esistenza, decifrarla, ed essa prosegue rotolando come una frana di pietre, l'una all'altra funesta... Forse tra Laura e me tutto si è distorto perché allora non ci siamo acconciati a una vita normale insieme, l'unica possibile, che ci avrebbe ricucito quotidianamente, e salvato prima dagli eccessi, oggi dalle differenze. Ci rivediamo negli stessi luoghi, con le stesse parole, sapendo d'essere tornati diversi. Mangiamo, beviamo, ci festeggiamo, conosciamo le reciproche abitudini, siamo attenti a rispettarle, a proteggerle vicendevolmente, e anche questo è uno strazio, una sconfitta. Ci mancò il coraggio di un distacco, forse salubre, Lu è rimasta a Roma, da allora, ostinata a sorvegliare, proteggere, fedele in tutto, e tutto si è come sfumato, annebbiato, in una sorta di tolleranza, di scambievole devozione e solidarietà, complicità. Da più di un anno i nostri sono soltanto rapporti d'amicizia, di umana confidenza, e quando Lu dice, consapevole, d'essere il mio unico amico, lo afferma per aggrapparsi con forza a questa nozione, per felicitarsi quando la riscontra vera, per difenderla con asprezza se le circostanze sembrano volerla mettere in dubbio. «Come va?» Accenna di si, che va bene, che non potrebbe andar meglio, e sorride. Anche a lei sono debitore di questo anno confuso, in cui ho avvertito di non accordarmi più con persone e ricordi, idee e occasioni, se non per accoglierli in un unico impasto di pietà, che più lievita più contribuisce a imprigionarmi in mille avversi laccioli. E questo è il viaggio che mi dovrebbe aiutare a far ordine, a riafferrare il capo di quelle antiche energie vitali in cui ho sempre riposto fiducia. Persino a Lu non posso dire fino a che punto sono sfibrato perché deluso, e torbido perché questo sfioramento, questo languore interno incancreniscono come una malattia vera, astuta, rapida nell'accendere e spostare i suoi focolai. Non posso dirle che mi sento come quei contadini rotti dai lavori e dai contrasti, non importa a che età, e che resistono facendo leva sull'unico appoggio che ancora sentono valido: lo stomaco è buono, dicono, e seguitano ad ammazzarsi d'una fatica che ossa e muscoli non sostengono più, e di dolori che l'animo troppo gracile e nudo non può più contenere. Giovanni Arpino
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«Tu, piuttosto, avrai bisogno di un caffè» la sento dire. «No» rispondo : «Se si potesse correre un po' di più e non si slittasse tanto, forse ce la faremmo ad arrivare fino a Todi, e di lì scendere al lago di Bolsena... Che ne dici? Proviamo?» «Magnifico» ride : «Pur di non fare la via più breve, poi io sono sempre contenta. Mangeremo sul lago, magari sotto l'ombrello. Ma vedrai che non pioverà, ne sono sicura... Ho già fame.» La strada s'arrampica e discende in un fitto grigiore e l'aria è acida, ristagna buia e assorta nelle siepi che ogni tanto rinserrano l'asfalto in una doppia cortina. Macerati coni di pagliai si levano ai margini dei campi. Provo a scuotermi : «Cerchiamo di fare un bel viaggio, Lu, sveglia!... E se incontriamo il giovane Werther lo speroniamo!, un testa-coda da "Mille Miglia"... In fin dei conti la colpa è sua! Ha cominciato lui a lagnarsi di tutto...». Ride, come liberata, e improvvisamente attenta alla campagna, alle siepi immote e lugubri sotto la pioggia. «Vedrai» comincia: «Vedrai l'invidia dei tuoi amici di una volta. Loro: tutti spelacchiati, provincialotti con l'ulcera, alti due dita... Avvocaticchi grigiastri... E tu: fresco, sicuro, diventato a Roma...» «Diventato cosa, Lu.» «Beh, con la posizione che ti sei fatto a Roma, a soli trentatré anni...» «Bella posizione, proprio una straordinaria riuscita...» la contrasto. Mi osserva con un rapido sospetto nello sguardo, ma subito di nuovo sorride in quel suo modo leggero, vittorioso. «Lamentati, allora!» insiste: «Vorrei vedere chi, al tuo posto, arrivato a Roma solo come un cane, senza un soldo, sarebbe riuscito...» «Mettiamoci d'accordo, Lu» dico con calma: «Non parliamo sempre di me, va bene? Di noi e soprattutto di me. Che razza di argomento... Non cacciamoci di continuo problemi d'anima tra i piedi...» «Si» accetta, convinta : «Pensiamo a correre, stiamo allegri, allegri...» Estrae una sigaretta, la rigira tra le dita, la riinfila nel pacchetto. «No...» decide: «Voglio trattarmi con riguardo, voglio star bene... Anche tu, vero? Viaggiamo lisci lisci, senza esagerare, proprio come dei bravi turisti... Piova o no.» «Brava» l'incoraggio. Le larghe macchie dei boschi lontani, che si arrampicano lungo le fiancate dei colli, sembrano smarrirsi nell'orizzonte della pioggia. Da un Giovanni Arpino
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carro fermo sul bordo della strada, una faccia dura e spinosa d'uomo sotto l'ombrello ci guarda fuggir via. «Mi sembra d'essere in movimento già da una settimana...» sospira Lu, deliziata. Cerco di darmi forza, ma sento di non riuscire a sciogliere quei fitti nodi di pentimento, cupa accidia, inimicizia verso me stesso, che tengo sepolti e che dal profondo insidiano ogni umore, fanno sbandare e intrigano ogni buon proposito. Vorrei non essere partito, vorrei... Hai sempre voluto vincere, mi dico, e ancora adesso non sei persuaso che qui sia il male. E ti sei perso, o meglio arruffato come un gomitolo, senza l'intelligenza di un dubbio, proprio mentre seguitavi a credere che tutta la carica vitale buttata a riempire un giorno via l'altro avrebbe contato, alla fine, come una somma di atti positivi, fruttuosi. Sei un energumeno, è certo, ma della specie più grossolana, sei della pasta di quelli che si alzano in piedi sulla trincea e gridano al nemico : spara qui!, e non vuoi capire che il vero coraggio è un altro, un diverso modo di intendere, agire, concepire il mondo dentro e fuori di te... Appena ti muovi crei caos, magari per generosità ma sempre caos, e sei ancora convinto di poter riaccomodare tutto, di mille frammenti sparsi rifare il vaso armonioso del principio... Sei ancora sicuro di riuscire a trascinarti tutti dietro in Paradiso, Lu e il colonnello, la vecchia Caterina e i bei modi, il tedesco ammazzato e il buonsenso paesano, la dignità professionale e l'odio per i pregiudizi... Quand'eri bambino chiudevi gli occhi, credevi l'universo cancellato, e pronto a riapparire, immediato e ubbidiente, al risollevarsi delle tue palpebre. Così adesso ancora ritieni di poter sostenere tu solo storture e dolori, di aver tu la facoltà di forzarli nel giusto, in quello che tu giudichi giusto e pacifico, utile a tutti. Sei uno di quei dannati uomini buoni che per non ferire finiscono col soffocare la vita, propria ed altrui, in successivi gironi di pietà, maledetta immensa pietà da distendere a tonnellate sui mali del mondo, chilometri di buone intenzioni e di comprensione, come cerotti sulle ferite, che così finiscono per suppurare... Ricorda, cerca di capire almeno oggi il senso di quei tuoi gran bei gesti, quando litigasti col domatore di tigri, per esempio, quella sera al circo e non avevi vent'anni, sfidandolo a lasciarti entrare nella gabbia sulla pista, ricorda e cerca di penetrare questa tua smania del buon esempio... Non hai smesso per un attimo di ritenere il mondo addomesticabile con la ragione, ti sei mummificato nelle secche di una ragione intesa solo come garanzia, Giovanni Arpino
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cupola benevola e trasparente in grado d'incappucciare la realtà, che forse è diversa, ambigua belluina oscura, e che potresti aggredire solo facendo della tua vita-ragione un bisturi e poi un martello e poi una trappola dentata... Sennò continuerai a frugare nella melma, a tentoni cercando di mettere le mani su questa tua scheggia particolare di verità, ti insozzerai e se per caso giungerai a toccarla, sarà proprio quell'inutile scheggia a scottarti, incenerirti le dita... Fresco, sicuro a trentatré anni, così ti dice Lu, e non è escluso ci creda: ma tu la sai la confusione d'età che hai dentro, i pensieri incauti d'adolescente che si sfarinano contro la stanchezza del vecchio già pronta a invaderti fino alle unghie, e li senti i grani di polvere nel motore, che stridono, gli fanno perdere colpi... E intanto non smetti, per inerzia, anche con Lu, e te la porti dietro, chiusa nel tuo sacco, convinto di poterla ancora aiutare, di riuscire a risolvere, cioè a vincere ancora, ancora... Sei come il medico che non si stacca dal malato, lo costringe a letto ancora un giorno, un altro, e ottiene soltanto di farlo sentire più bisognoso, più povero... «Per favore, di' qualcosa, rompi, fa il bordello che vuoi... Ma smettila di star zitta...» scatto all'improvviso. Si volta a guardarmi, non ha afferrato bene e si tiene pronta a riparare secondo la prima uscita possibile. Pur di non creare guai. «Com'è bella la campagna, anche se così fradicia» dice infine: «Vien voglia di fermarsi ad ogni curva...» «Quanto mi hai stufato con queste tue georgiche» ne approfitto. «Sapessi tu, con le tue metamorfosi!» ribatte prontissima. Ridiamo, ma ancora diffidando, senza il coraggio di semplici parole vere, intimiditi come sempre dalla sottile, eccessiva sapienza che abbiamo l'uno dell'altro. «Non hai il dovere di divertirmi, oltreché di spupazzarmi in giro» dice Lu: «Non fare sforzi... Non c'è obbligo...» «Bene : rieccoti con la narice palpitante da madre dei Gracchi...» Ride ancora, e restiamo sospesi in quest'equilibrio che ogni tanto riusciamo a inventarci e che appena è trovato risulta antico, solido: ultimo frutto di un tempo che fu perfetto e di cui ci è vietato parlare. «Sembra novembre, c'è l'aria di quando si tagliano le uve» dico. «Oddio, già rivesti i panni del probo piemontese tutto riserbo e poderi» ride Lu. «Aspetta» l'invito fermando sulla piazza di Todi. Giovanni Arpino
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Corro al chiosco, compero larghe fette di porchetta arrostita, tiepida. Seduti in macchina, mangiamo pescando dai cartocci. La carne è grassa e salata, si disfa untuosa tra le dita. Guardiamo in silenzio la piazza, come lacerata e rimessa insieme da mille rammendi e particelle che vanno dal nero al viola. «Che bellezza» sospira Lu. È contenta, si sporge a guardare, mastica e sembra non patire più niente. Invece io non capisco, sto li a far correre gli occhi e tutto è esatto, millimetricamente atteggiato, ma estraneo, al di qua di ciò che abbisogna. La lunga scalinata trema nella pioggia leggera e sotto i portici, nelle buie pozze degli archi, si levano voci cantilenanti. Le lastre di pietra luccicano come un antico metallo, il cielo se ne sta gonfio sul rettangolo chiuso tra i muri. «Quella finestrina lassù...» s'accora Laura. «Andiamo via.» «Devo ancora finire la carne. E ho anche sete» cerca di opporsi. «Butta via» decido nervoso, le dita che non riescono a fermarsi: «Butta!, sennò non mangerai più a Bolsena, come al solito...» Avvio girando per la piazza vuota, una lama d'acqua frigge sotto le ruote, in un attimo si è di nuovo in campagna, a sobbalzi sulla strada tra alberi immobili nella caligine. Mi sta guardando preoccupata, non sa se aiutarmi o darmi tempo. E io guido con gelida rabbia per le curve in discesa, come urtato nei muscoli per il rifiuto cui non sono riuscito a sottrarmi in quel minuto di quiete, là in piazza. «Sta schiarendo» dice Lu. Mi sporgo sul volante e vedo il cielo diviso in qualche crepa d'azzurro. Mi ero già accorto del vicino mutamento di tempo dai voli delle rondini, non più a filo dell'asfalto ma tesi oltre le cime degli alberi. Laggiù, il lago di Bolsena si apre in una tenera macchia grigia tra il verde. «Parla...» la invito. «Già, poi finisci col dirmi che ti faccio venire la filossera, non lo sapessi!» è svelta a ribattere con tono compiaciuto. «Forse è meglio farlo durare, questo viaggio...» provo a riflettere : «Mi basta un giorno solo, ben riuscito, al paese e col colonnello. Ti pare? Se ci sto troppo, ho paura che finirebbe chissà in che tango...» «Perfetto» commenta Lu. Con le unghie arrotola e torce un lembo di carta argentata strappato Giovanni Arpino
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all'involucro delle sigarette. E guarda in avanti la strada che si dipana in ondulazioni fino ad un tratto rettilineo che pare ergersi, lucido e vuoto, là in fondo. «Cos'hai...» domando. «Niente» mi oppone un sorriso: «Solo l'idea di arrivare, ecco... Mi spaventa un po'...» «Non fare la difficile» trascino le parole fingendo un lamento : «Sii come le donne. Si sono sempre salvate, pensando al minestrone e ai rammendi...» «Magari fossi così...» sospira: «Darei una gamba per essere di quella pasta...» «Non pensarci. Adesso scendiamo al lago. Si beve e si mangia come coscritti...» «Con quella porchetta sul piloro...» si lagna, delusa: «Non ce la faccio...» «Ah, no!» protesto: «Pochi scherzi! Si mangia e si beve! Su, sveglia, fa confusione... Intesi?» «Dici che è già ora di buttarla in cagnara?» mormora rilassandosi. Ci sono file di tavolini deserti lungo il lago e un cameriere s'affanna a ciabattare nella sabbia dal ristorante al nostro tavolo. L'acqua si muove increspandosi appena, la tovaglia è umida sotto le mani, nel vuoto arrivano i tocchi di una campana lontanissima. Il cielo si sta sfioccando lentamente, con briciole d'azzurro che appaiono, volano via, tornano più vaste e slabbrate. Fa fresco, una goccia d'acqua cade sulla tovaglia dall'albero vicino. Possiamo sorriderci, e restiamo in silenzio a bere, a guardare la minuscola onda del lago che li sotto ripete il suo ricciolo, stanchissima.
III Devo sforzarmi a ricordare. Non so se frugare nella memoria sperando di far ordine possa costituire un vero aiuto. Ma devo pure provarmi, come un ferito con le ossa fracassate, a terra e solo, cautamente comincia a tastarsi, a cercare dove ancora consiste, dove invece è già perduto, morto. Devo provarmi perché questi ricordi giacciono sepolti, in ispida confusione, e separati da me, un vecchio cumulo di strame da cui sono balzato via, e differente ormai. Giovanni Arpino
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Sono stato bene, normale e lieto e aggressivo finché mi è riuscito di vivere al di fuori di me, tutto teso alle cose pronte a succedere, alle giornate che si drizzavano davanti, da conquistare e investire. Si, sono stato bene, in ufficio, fino a un anno fa, e prima, durante gli studi o soldato, e anche in un tempo più lontano, quando volli lavorare in una fabbrica per qualche mese e il colonnello mi vedeva crescere e agire in modi così inaspettati da sospettare in ogni mio gesto un insulto, e non si degnava di rivolgermi la parola... Ma a me tutto pareva giusto, coerente... Io davo, e il mondo, ufficio o fabbrica, università o caserma, ragazze e amici e compagni, accettava, e mi lasciava sperare, mi lasciava promettere: era un gioco, ci si faceva esperti secondo certe mosse che sicuramente sottintendevano una prova ulteriore, quella si vera, decisiva, nobile... Ciò che davo, e ciò che mi veniva richiesto - nell'aria ammuffita delle aule universitarie, o discutendo con gli operai dentro e fuori fabbrica, o aiutando i vicini di branda a scrivere alla fidanzata, a compilare i vaglia delle "decadi" da spedire a casa... - erano briciole e scorie di me, ma verrà il giorno glorioso, dicevo, dicevamo..., verranno i nostri grandi anni suonanti, e ognuno di noi si butterà nel fuoco, finalmente ruggendo con tutte le sue forze d'uomo esercitate, intatte... Finché risultò chiaro, persino troppo semplice e ironico, che il pretendere di dare in più è colpa, e colpa maggiore anche del richiedere un premio più cospicuo... Sulla scacchiera era possibile solo quella larva di gioco, il resto è sogno superfluo... Ricordo i giorni in cui, per un'infezione, dovetti portare una stretta benda sull'occhio sinistro: dopo breve tempo i contorni della stanza, oggetti e volti, si appiattirono, lo spazio si ridusse a una liscia superficie senza rilievi. Me ne derivava uno sconcerto più morale che fisico, le ore non si consumavano più, il mondo visibile era sordo e banale, cercavo di affrettare i tempi della guarigione con pomate e impacchi, sicuro che il disagio sarebbe scomparso d'incanto, una volta riacquistato l'uso dell'occhio offeso. Finché potei levarmi la benda. Ma ecco che la mia speranza di restituire ogni giusta proporzione allo spazio e ai contorni conosciuti restò delusa, l'occhio tardava a riacquistare il suo potere, come fosse bianco, vuoto... Stanza e oggetti seguitarono per un eterno, abominevole minuto a muoversi lungo la superficie piatta... Ecco, nient'altro che così, idiotamente... E adesso, quindi, più niente bene: me ne sto come ferito, a scrutarmi, a cercare di capire dove devo sbattermi e fare. Giovanni Arpino
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Quel grumo di certezza contadina su cui poggiavo con tanta forza è oggi un'ancora troppo leggera, non mi zavorra più. Inutilmente cerco di ripetermi: ma cosa t'importa, non è il mondo com'è che deve farti da specchio, ormai dovresti averlo imparato..., guardati intorno prima di lamentarti, guarda le miserie altrui e tira il fiato e non sforzarti di capire, non corri più rischi, ma cosa credevi di poter pretendere dalla vita... Mi dico: non ne hai viste abbastanza? Mi dico: ricorda!, l'abuso di giovinezza ti può scavare un fosso che nessuna tardiva prudenza acquisita ti aiuterà più a colmare... Ma i soprassalti d'ironia e di buonsenso che raramente tentano ancora di soccorrermi, di immobilizzarmi alle spalle in un tenace abbraccio protettivo, sono stanchi gesti di una salute che non vuole rassegnarsi e impaurita abbaia nelle ossa, nei pensieri... "La vita di un uomo veramente religioso deve essere sempre simbolica...": è di un poeta tedesco, lo ricordo dal ginnasio, anche se non mi torna il suo nome. Ho impiegato anni a capirlo, a cercare di tradurlo non in uno scudo personale ma in una legge comune, viva e verde e facile, politica, si!, e oggi torna a essere un'acqua che sfugge tra le dita, che non mi riesce di portare alla bocca, porgere a chi ti è vicino e vorresti somigliante. Come in una tromba d'aria infinita, polverosa, mi pare di veder ruotare e confondersi troppi gesti compiuti con una buona volontà dettata dall'imperizia, dal caso, da istantanei immemori sussulti del sangue, e riscopro le vecchie intenzioni fumigare senza fiamma, come legna bagnata, vile... "La vita di un uomo veramente religioso..." torno a ripetere, e so oscuramente cosa vuol dirmi, ma è tornato a essere solo un soffio nel buio, che non capisci se è aria nell'aria oppure un alito umano che ti vuole raggiungere, salvare. Non riesco più a decifrare le sostanze che compongono questo buio, anche se insisto a perseguirle, non so più dare un nome a ciò che dovrebbe rivelarsi e che forse giace al di là delle cose possibili, inautentico... «Allora io vado. E tu cerca di farmi le scarpe, sennò che razza di "vice" sei... Quando torno, se vedo che non hai lavorato meglio di me e cioè non hai cercato di soffiarmi il cadreghino...» così in ufficio ho detto al mio sostituto, prima di partire con Lu, e lui gorgogliò lusingato, senza sospettare quanto gli sarei debitore per un eventuale incidente, anche minimo, in grado di spaccare la rete di questi giorni, anni, filamenti di Giovanni Arpino
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idee, che si incrociano e raddoppiano senza mai offrire un rimedio. E ora mi spaventa la catasta di ricordi in cui debbo frugare, un tempo inerte, dove però si agitano lembi di un'esistenza che ancora attendono di essere legati insieme, e già mi sento cocciuto e ottuso come l'investigatore che ricrea su un foglio, a colpi di matita, la fisionomia di un colpevole sconosciuto, a ogni sgorbio e azzardo di matita ecco una gota che si completa, ecco la fronte che sboccia, ecco un primo occhio che prende a fissare... Vorrei possedere la casta, molecolare sicurezza di mondo che consentiva di dire a mia madre: ho mangiato abbastanza veleno... Il suo sguardo cerchiato, le sue emicranie, la sua fatica, la capacità di soffrire senza ricorso a lontani perché, l'umile risultato familiare inseguito giorno via giorno, non riescono ad esprimersi in una somma più completa. Ho mangiato abbastanza veleno..., e lo diceva quando la si pregava di sedere a tavola e tagliarsi anche lei una fetta dell'eterna torta di riso e polvere di cioccolata, o quando la si invitava a concedere una confidenza, due chiacchiere finalmente distese. Persino di fronte agli atteggiamenti invincibili del colonnello Giacomo Illuminati, marito e padre, quel "mangiato veleno" costituiva una protezione degna del più religioso rispetto, una sacrosanta riserva. Corriamo verso Pisa e Lu si guarda attorno, pacifica, solo un po' aggravata per il vino bianco che abbiamo cercato di bere senza risparmio. Siamo riusciti a ridere, alleggeriti, in perfetto accordo, un minuto fa, quando mi sono provato a rovesciare la leggenda del figliol prodigo, che oggi torna a casa, desideroso come sempre di perdono, e non c'è più padre che possa accoglierlo e perdonarlo, e tutta la fatica e la speranzosa macerazione del cammino si rivelano inutili, goffe... Naturalmente, anche l'agnello grasso è sparito, i parenti prima della fuga hanno certo provveduto a imbandirlo in chissà quale loro festino... La strada è appena macchiata d'acqua ai bordi, dopo Bolsena il cielo sta rivoltandosi in grandi spaccati d'azzurro, Lu aspira fumo con accanimento per resistere al sonno. E intanto io rumino con mascelle indebolite, con delicatezza e rancore quell'enorme ammasso di frantumi, di "mangiati veleni", di polvere con improvvise durissime pietre da triturare: la mia memoria, selvatica, contraria, con i suoi vari perché che rifiutano fin dal principio ogni risposta coerente. Ancora una volta devo uscirne fuori, rinnovato. Giovanni Arpino
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Parlavano forte, tutti insieme, nel, grande salone al pianterreno. Francesco ed io spiavamo dal cortile, bocconi su un carro. Il legno del carro sapeva di fieno nuovo e di stalla, erano i primi giorni di giugno. Non distaccavamo gli occhi da quelle finestre, le persiane erano spalancate ma i ferri e le tendine ci impedivano di vedere. Solo il vociare continuo ci raggiungeva da oltre i muri, pareva gonfiasse la casa. Uscì Caterina di corsa, soda, la treccia nera ben stretta sulla nuca. Strillava divertita, si mise a correre in tondo attorno al tavolo di pietra sotto i tigli e dietro di lei correva mio nonno frustando l'aria con quasi due metri di salsiccia. Cercava di raggiungere Caterina con nerbate sul groppone, poi si fermò, sempre agitando la frusta che perdeva alla cima minuscoli fiocchi di carne rosea. "Adesso puoi andare! Via! Alla benedizione!" gridò soddisfatto. "Il bambino, devo portare via il bambino..." si preoccupò Caterina. "Lascia stare Stefano, è ora che impari a essere uomo. Se è ancora qui, che resti!" ordinò il vecchio. "A nove anni dev'essere uomo, che modo di ragionare... E stia attento a quella salsiccia, se ha rispetto del bene d'Iddio: non vede che si svuota?" e Caterina si avviò borbottando al cancello, da lontano provò ancora a chiamarmi, noi restammo lunghi distesi sul carro. Il vecchio era tornato in casa. Ci muovemmo cauti nel cortile, girando attorno alla Diatto di un mio zio, quadrata e nera sull'erba, col volante che non riuscivamo a toccare se non arrampicandoci sul predellino. "Francesco!" suonò cupa la voce di Doro, suo padre. Dalla porta della cascina ci guardava con l'occhio nero, una magrezza d'ossa che gli spuntava da ogni parte e gli scavava un buco al posto dello stomaco. "Non facciamo niente, siamo qui, è domenica!" risposi io per proteggere l'amico. L'uomo si avvicinava piano, riinfilandosi la camicia nei calzoni. "Adesso me le suona!" mormorò Francesco a bassa voce, rabbioso. "E perché?" sussurrai. "Lo sai tu? Ma vedrai che me le suona..." ripeté Francesco. L'uomo, fermo, guardava anche lui la macchina, ora, le girò attorno, si Giovanni Arpino
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accucciò per lanciare una lenta occhiata sotto le ruote. "Festa, eh?" disse, più che domandare. "Ci sono tutti i miei parenti..." risposi. Ero spaventato, Doro mi tranquillizzava solo quando lo vedevo curvo con la zappa in un filare, le braccia fuligginose che scendevano pesanti a scassare il tufo fra le viti. Già se lo incontravo in cortile mi tenevo a distanza, temendomelo davanti così nero e stecchito, senza mai una parola. Restò anche lui in ascolto delle voci che schiumavano dalla casa. Francesco s'era scostato di un passo, attento ai piedi del padre, che però si staccarono da terra solo per saggiare la consistenza di un pneumatico. "Hanno pulito le grondaie..." spiegai alla svelta: "Ieri è venuto il muratore, ha buttato i nidi dalle grondaie, e i parenti sono venuti a mangiare il riso coi passeri..." "Spero non solo quello..." disse lui: "È proprio una festa. Beh, che gli torni tutto in salute..." Girata la schiena, riprese per il cortile diretto alla stalla. Francesco mi guardò stupito, poi cominciò a pestare i piedi per la contentezza. "Andiamo!" gli dissi: "E se sai star zitto vedrai che teatro..." Dal cortile ci infilammo per la veranda e dopo la stanza ingombra di tavolini e poltrone di giunco trovammo silenzioso riparo nel bugigattolo. C'erano tre buchi rotondi, protetti da una griglia, chiusi da coperchi d'ottone che venivano svitati durante l'autunno per il passaggio di correnti d'aria calda alimentate dal camino del soggiorno. Posammo con precauzione due dei coperchi, avvicinandoci alle griglie, e il lungo salone fu davanti a noi. Venti e più uomini sedevano a tavola e soltanto lo zio della Diatto non s'era ancora tolto il colletto duro. Una fila continua di nere bottiglie correva da un capo all'altro dell'ininterrotta tovaglia. Tutti parlavano forte, intrecciando voci e risa, con gesti a mezz'aria delle mani sospese, e solo di fronte a qualche più reciso giudizio di mio nonno si staccava un attimo di silenzio. Sul muro grigio era visibile nella penombra un affresco stinto e macchiato dall'umidità degli inverni. Un giovane ferito, tra i colori verdognoli e gialli dei panni e un intrico di mani, era in atto d'appoggiarsi lieve alla spalla di una ragazza ancora sorridente, stupita. Sollevava con la destra un lembo della camicia a mostrare un pallidissimo rettangolo dell'addome. Volti e capelli e sbuffi di maniche, grandi nasi e ornamenti Giovanni Arpino
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d'oro e velluto si perdevano tutt'attorno nell'ombra, negli aloni umidi trasudanti dal muro e già venati dal salnitro. Non c'era dolore o tristezza, ma quasi la stupefazione che precede l'immeritato e tuttavia certo disastro, il morire. "È la copia di un quadro famoso, non so più se l'ho visto a Venezia o al museo di Capodimonte a Napoli..." lo riconosceva ogni volta mio padre, compiaciuto: "È di un seguace dei bamboccianti e si chiama... si chiama..." "È sempre stato lì..." gli rispondeva mio nonno: "Il matto che aveva questa casa prima di me chissà da chi se l'è fatto dipingere. Però mi dispiacerà, quando le muffe se lo saranno mangiato..." Ma quel giovane piegato col suo tenero addome senza una goccia di sangue esposto e quell'improvviso, sbalordito e come rigido atteggiarsi di volti e mani e sguardi, non potevano appartenere che a noi soltanto, alla cognizione del vivere della nostra famiglia. Al di là dei colori rosicati dall'umidità io vedevo il nocciolo segreto, intraducibile, di una storia comune, articolata fino all'ultimo ramo e foglia della pianta familiare e il segno di una crudeltà che bisognava saper accettare con pazienza e in silenzio. Le rare volte che ero ammesso in quel salone perennemente buio e chiuso, fresco come una cantina e che la casa custodiva dentro le sue mura quasi fosse il cuore di un labirinto, segreto e rivelazione di tutti gli enigmi del labirinto stesso, mi fermavo davanti all'affresco a scrutare, a indovinare. Il giovane dall'addome ferito ero io, era mio nonno, era di volta in volta uno qualunque dei parenti, tornato nei commenti quotidiani per via d'una improvvisa disgrazia, fallimento, morte. E il volto a sinistra in alto dell'affresco, dalla pelle ormai quasi verde e lo sguardo assente, del tutto distaccato dal giovane ferito e dall'occasione funesta che radunava nel centro tanto interesse e moto, ero ancora io, e mio nonno e ogni altro familiare, era lo stesso parente chiamato in causa, era insomma l'altra parte di noi, la nostra impietà di parola, memoria, giudizio, era la nostra capacità di resistenza e sopravvivenza, pronta a volare e posarsi oltre il nero destino e le trappole quotidiane tese a vincerci. Adesso i molli colori piovevano coi loro riflessi sulle sagome fin troppo concrete dei parenti, piegati su scodelle di ravioli al Barolo, mentre altri ravioli fumavano, immersi in sughi e formaggi, da enormi zuppiere fiorite. Dalla cucina al salone, per una porta continuamente sbattuta, entrava e usciva un mio zio magro, col grembiule di Caterina, furibondo nel suo Giovanni Arpino
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maniaco daffare di cuoco. Un ultimo lembo di salsiccia cruda, mangiata a metri dagli altri prima dei ravioli, gli giaceva annodato attorno al collo. "E poi..." mormorò Francesco. "E poi il riso con quei passeri, e il bollito, e polenta in quattordici modi..." spiegai in un soffio. "Polenta?" "Sì, ma in quattordici piatti diversi..." gli elencai: "Con l'aglio e l'acciuga, al verde, al burro e formaggio, col merluzzo, coi funghi, con la fonduta, fritta o arrostita con l'uovo sopra, e poi non so più come ma c'è chi arriva fino a polenta e gorgonzola e chi invece finisce a polenta e latte..." "Polenta..." stupì ancora Francesco: "Alla fine saranno più di là che di qua..." "Non vomitano mai, non li ho mai visti ciucchi i miei parenti..." risposi. Schiacciati contro la griglia potevamo vederli bene, uno ad uno, duri sulle sedie, gonfi. Bevevano con calma, un dito di vino per volta, sostando col bicchiere sospeso sotto il naso, e ora i discorsi s'erano come placati in uno stormire profondo e senza sosta. Mio nonno era a capotavola, possente, non perdeva una briciola sparsa sul tavolo o il gesto del mignolo d'uno dei commensali. Erano quasi tutti suoi nipoti, figli di due sorelle, e tutti lui aveva aiutato a metter su negozi, commerci, persino una farmacia, due caffè, senza sfiancarli con l'interesse del denaro. Li pesava uno dopo l'altro e tutti insieme, dal cranio alla parola che usciva loro di bocca, sapendo da sempre chi valeva oro e chi paglia, chi l'avrebbe pianto e chi no. Su stretti tavoli allineati lungo il muro erano fitti rettangoli di bottiglie e cartocci di paste, piramidi di biscotti secchi da intingere nell'ultimo bicchiere. "Non si capisce niente di quel che dicono..." sussurrai. "Cosa dovrebbero mai dire! Mangiano..." fece Francesco. Lentamente, ogni tanto qualcuno si sporgeva a fatica, puntellandosi sui braccioli della seggiola a raggiungere uno dei piatti in straordinario disordine in mezzo alla tavola, per cogliere ancora un boccone di vitello tonnato, un raviolo ormai freddo. Oppure alzava controluce il bicchiere del vino per esaminarne il colore, l'ombra interna. Schiacciati dal proprio peso, senza ridere, tardi, s'affidavano a un sigaro, o contemplavano in muta impassibilità l'affresco che li fronteggiava nella Giovanni Arpino
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penombra. "E vanno avanti molto?" domandò Francesco. "Non lo so. Chi può dirlo? Certe volte sono stati a tavola fino al caffelatte del mattino dopo..." Mio nonno si era alzato, avviandosi in cucina seguito dallo zio avvolto nel grembiule. Rientrarono reggendo a quattro mani un asse lunghissimo, accolti da urla, improperi, risate, finti sforzi di vomito, perché sull'asse giacevano allineati in doppia fila oltre venti vasi da notte che subito lo zio in grembiule, di prepotenza e strillando, cominciò a posare davanti a ogni convitato. Mio nonno era tornato a sedere e piluccava, gustando con schiocchi sapienti, dal suo vaso. A piccole dosi col cucchiaino portava alla bocca, fingendo rapimenti di piacere, e subito dopo torcendosi quasi per il disgusto. Gli altri si sporgevano a guardare, schifati, annusando in un coro scomposto. Si riappacificarono con un urlo trionfante appena fu chiaro che si trattava di abili serpenti di cioccolata depositati nel marsala. I rettangoli delle bottiglie sui tavoli lungo il muro erano già stati feriti in profondo, qualche commensale girava col sigaro tra i denti attorno al salone, allisciandosi lo stomaco, qualche altro, dischiusa una porta, sostava immobile, duro e come imbottito dentro la camicia bianca, respirando un po' d'aria. "Oh, dev'essere già finito... Andranno in giardino, adesso..." spiegai un po' deluso a Francesco. Era stata una festa tranquilla rispetto a tante precedenti, che avevano visto mia madre offendersi e quasi piangere alla vigilia. Soprattutto quella volta delle ballerine. "Alla tua età, col diabete..." aveva protestato. "Cosa c'entra il diabete... Non faccio forse le punture? Non metto la saccarina nel caffè?" s'era spazientito il vecchio. "Lo sapesse tuo genero..." aveva tentato ancora mia madre. "E tu diglielo, e digli anche che venga... Perché si fa vivo solo a Ferragosto? Che moglie sei?" si era arrabbiato il vecchio: "Certo, se ha lo stomaco di un passero... Se ci tiene a far figura dentro i suoi bottoni d'oro..." "Feste, e ancora feste, e per chi poi? Per questi parenti che non piacciono neanche a te... Non valgono a peso la carne che gli butti nello stomaco..." aveva lamentato mia madre. Giovanni Arpino
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"Valgano o no, sono i nostri!" s'era incupito lui: "E adesso basta! Sta a vedere che si comincia a dar spiegazione anche alle donne... Su, andate in chiesa... Lasciateci in pace... Quali altre soddisfazioni può prendersi un uomo di questi tempi, in questo buco di mondo... Sarò già morto e tutto giostrerà come prima... Come devo aspettare il morire: a mani giunte?" Anche Caterina s'era offesa duramente quella volta. Infatti, mio nonno e lo zio magro, che arrivava sempre prima degli altri in simili occasioni per intrigare con sughi, fornelli, creme, l'avevano cacciata dalla cucina, impedendole di tirare la pasta dei tagliatelli. Mio nonno stesso e lo zio avevano preparato l'impasto e quando era stato ben sodo, davanti a tutti i parenti la più chiapputa e solida delle due ballerine portate su da Alba con la Diatto vi era stata posta a sedere sopra, nuda, e rossa dalla schiena in giù per le strigliate d'acqua di colonia. Aveva rimosso e calcato la pasta dondolando a destra e a sinistra, senza toccar terra con i piedi, in un coro di incitamenti, tra mani che cacciavano altre mani. Per accompagnare il dondolio, quattro volte il grammofono aveva esaurito e ripreso Valencia. Tutte e due le ballerine, più tardi, erano state servite a tavola come dolce, sedute nude in un mastello e ricoperte di crema Chantilly, con ghirigori di cioccolata fino agli orecchi e fili e fili e punteggiature di ciliege e mandorle candite. Ora, in giardino, passeggiavano lentamente, a gruppi, e chi discuteva di botteghe, chi isolato sogguardava le dalle, le aiuole azzurre delle ortensie. Sul tavolo di giunco erano i caffè, qualche superstite bicchiere di Barolo, la bottiglia del fernet, mezzi toscani abbandonati, scatole di wafers e amaretti. Francesco ed io ci muovevamo in soggezione, ficcando le mani in tasca per pescare una pasta trafugata nel salone deserto, e sperando che qualcuno iniziasse almeno una partita a bocce, con noi in corsa a recuperare le bocce perdute, a misurare le distanze al millimetro in caso d'apparente parità. Attorno a mio nonno, sulla panca, erano cugini e nipoti, i più affezionati e rispettosi. Parlavano tutti della Francia, delle armate tedesche che in quel momento correvano come serpenti tra il Reno e Parigi. "Io non credo che il re, uno dei nostri..., faccia una cosa simile, non ci sarebbe perdono... Un nostro re, noi... in guerra con la Francia... Succedesse, sarò contento di non essere più a questo mondo!" sentenziò mio nonno. Odiava tedeschi e Mussolini, sperava sempre che avesse un incidente Giovanni Arpino
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con tutte le macchine e gli aeroplani che si pavoneggiava d'usare. Ogni anno, fidando nella ricompensa di simile buona nuova, comperava e donava due o tre letti metallici a uno dei reparti dell'ospedale, quello degli incurabili, quello delle partorienti. "E passiamogli pure l'Abissinia!" l'avevo sentito dire tempo prima a mio padre: "Persino io mi son comperato la radio per sentire come andava a finire laggiù... Ma adesso cosa vuole quella crapa pelata? Civilizzare i parigini? Insegnare agli inglesi come si vive?" Per non litigare, mio padre se ne era rimasto al riparo di nuvole di fumo, una sigaretta via l'altra. "Stefano!" aveva poi chiamato. "Comandi!" gli avevo risposto come voleva lui, arrivando di corsa. "Canta al nonno quella canzone tedesca!" m'aveva ordinato. Ero rimasto silenzioso, gli occhi a terra. "Non umiliarlo. E poi perché deve sapere il tedesco..." aveva cercato di difendermi il vecchio. "Per adesso la ricorda solo come un pappagallo. Ma tra qualche anno al ginnasio dovrà imparare la lingua vera e propria... Stefano, canta!" si era irrigidito mio padre. Non m'era riuscito di obbedirgli: pur non sapendo chi avesse ragione, se mio nonno con la sua Francia, e l'America dov'era vissuto un anno, o mio padre che ammirava le divisioni corazzate tedesche, e parlava del nostro disordine, dell'incapacità burattinesca e gaglioffa di tutti noi, o della Libia dorata nelle notti del 1911, quando fuori della tenda i dubat avvolti fino agli occhi nelle coperte riscaldano eterni caffè e il profilo del deserto corre tagliente come una lama... Tutti, in giardino, sedevano discorrendo pacati, ogni tanto bagnandosi con precauzione il labbro con gocce di fernet. Alcuni s'erano appoggiati alla balaustra di pietra, guardando la pianura perdersi nel grigiazzurro serale, e i tetti del paese, ammonticchiati ai piedi della collina. Da certe spine di coppi nuovi, da comignoli e ciminiere, individuavano l'esatta posizione della casa o fabbrica fattasi costruire di recente da un amico, un rivale. Lungo le invisibili linee d'aria che partivano dai campanili congetturavano sulla posizione di altri paesi sommersi nel primo vapore dell'estate, Cherasco o Dogliani. Schiocchi ovattati salivano da un lontano campo di tiro al piattello, e odori acri del tannino usato per la concia nei diversi cuoifici del paese. Giovanni Arpino
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"Se nell'altra guerra abbiamo visto, solo qui!, vendere cartone al posto di cuoio e questi quattro calzolai farsi industriali con catene d'oro sulla pancia, chissà cosa succederebbe stavolta..." avvertiva mio nonno. Attorno annuivano, gravi. "Stasera, per chi si ferma, c'è da aggiustarsi con vitello tonnato, insalata di carne cruda, pesche ripiene. Non mancherà una tazza di brodo..." disse poi il vecchio per svelenire umori e discorso. I parenti riflettevano in solenne silenzio sulla proposta, già sapendo d'accettare. Sarebbero tornati a casa a tarda notte, chi ammucchiato sulla Diatto, chi sottobraccio, in lunga fila catenata con cugini e zii da un lato all'altro della strada, per reggere ed esser sorretto. Ciascuno di loro, mentre sostava sulla panca o mirava le ortensie, il grosso cranio ingombro di cifre, commerci, dolori del mondo, era atteso a casa da una moglie che uscita dai languori e dalle guaine dell'adolescenza sottile, s'era fatta donna poderosa, tra remissioni e avidità, tolleranza e sospetti, un cuore attento e chiuso entro un corpo ormai cilindrico sostenuto da collari di velluto, stecche di balena e fermagli... Guardavo ammirato i loro panciotti tesi sullo stomaco, neri, con orologi che lentamente uscivano a mostrarsi nel ruotare della mano, e in ogni persona era possibile avvertire l'odore di un vicolo del paese, dove camminando attraversavi sentori di cuoio, di ferramenta, panni ammucchiati, tostature di caffè, genziana, e percepivi improvvisi aliti freschi sibilare tra stretti portoni borchiati, da botteghe buie e basse, arcigne al di là di un triplice scalino. Era tardi, la luce del giorno li colpiva immobili nel giardino senza vento, in attesa di mia madre, di Caterina, che al loro ritorno avrebbero riordinato il salone, scaldato il brodo. C'era aria di fieni, a tratti, cani abbaiavano straccamente dai cortili di sparse cascine. "Forza, Stefano, metti gambe se non hai testa, porta il grammofono, e tu Francesco gira la maniglia, sentiamo un atto della Bohème1." già ordinava il vecchio: "Poi stureremo il vermut..." Non gli riuscì di morire prima che il re dichiarasse guerra alla Francia. Nel letto, non poté toccare cibo o goccia d'acqua per quattro giorni. L'ulcera fulminante gli riempiva la bocca di un qualcosa che mia madre e Caterina, perennemente sedute ai lati, gli asciugavano con pezzuole di lino sempre nuove. Mi mandò a chiamare, un pomeriggio. Mi fece sedere a cenni accanto Giovanni Arpino
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alla radio. C'era un discorso di Hitler, la voce scoppiettava attossicata dietro le scanalature di legno dell'apparecchio e io avrei dovuto tradurgli almeno qualche parola. "E tuo padre ti fa imparare delle stupide canzoni tedesche, mentre di questo qui, che è il diavolo!, e chissà cosa sta inventando, non sai dirmi niente..." gli uscì di bocca raucamente. Chiusi la radio vergognoso, ma quando fui alla porta mi richiamò. Mi avvicinai al letto senza alcun timore, malgrado la sua faccia bianchissima, le piccole fitte rughe alle tempie già trasparenti. "E lasciami fare!" borbottò a mia madre che lo voleva zitto e calmo. "Sei Stefano come me..." disse poi fissandomi con gli occhi acquosi: "E anche se figlio di un militare, anche se studierai come io mai ho potuto, ricorda questo..., che a morire non s'impara, non s'impara... Che la morte tradisce sempre..." "Non dirgli queste cose..." lo interruppe mia madre coprendosi la faccia con le mani. "Lui capisce, capisce... E se questa guerra dura, Stefano..., cerca di startene fuori. Ricorda che zio Carlo, il fratello di tua madre, mori a diciassette anni, il giorno dell'armistizio, nel '18..." "Ma Stefano non ha neanche dieci anni, perché lo spaventi..." si oppose mia madre piangendo. Lui ebbe solo più un gesto, come a cancellare le inutili parole che escono da bocca di donna. Poche ore dopo volle che Caterina gli portasse del formaggio, solo da annusare, dato che doveva consumarsi senza poter inghiottire una pillola. Un gran strepito di porte, il mattino seguente, avverti della sua fine la casa e i parenti sparsi a sedere in silenzio per le stanze o in giardino, rigidi e preoccupati nei loro panni scuri, le mani inutili sui ginocchi. Caterina non volle che alcuno lo toccasse, neppure mia madre, restò sola con l'infermiere salito dall'ospedale e lavò il padrone, lo rivesti, lo ricompose dolcemente, non trascurando il fazzoletto in tasca, un altro di seta nel taschino, e la cravatta nuova, i gemelli d'oro ai polsi. Mio padre arrivò da Piacenza abbandonando il reggimento per poche ore, il tempo dei funerali, tutti i parenti gli si strinsero intorno per sapere della guerra, quando sarebbe finita... "Presto..." rispose lui: "Presto, forse nemmeno un mese... Certo non abbiamo fatto sforzi eroici..." Giovanni Arpino
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"Tuo padre dice presto, ma il mio giura che non finirà più!" mi ribatteva Francesco: "Ho già due zii sotto le armi, e la campagna chi finirà per curarla?" "Non fosse per mia madre e per me, mio padre sarebbe già in Africa, a quest'ora..." rispondevo. "Lui è pagato per fare la guerra... Mio padre..." "Ma tuo padre lo comanda un reggimento? Ma lo sai che tra un mese è tutto finito? Guarda là..." gli tappavo la bocca passandogli il binocolo. Laggiù, nella piazza d'armi che apriva la pianura di fronte alle colline, grossi rettangoli grigi sostavano immobili nella luce del mattino. Faceva caldo, l'orizzonte dentato col Monviso era già sommerso dalla celeste caligine di giugno. "Vedi?" potevo dire trionfante a Francesco. I rettangoli grigi si susseguivano l'uno accanto all'altro, come identiche pezze di stoffa su un banco. E qualcosa gli baluginava davanti, gli stivaloni lucidi del principe di Piemonte che passava in rivista le truppe alpine in partenza per il fronte contro la Francia. Il compasso lampeggiante degli stivali avanzava continuo e agile entro la lente del binocolo, mentre le truppe risultavano indistinte, schiacciate contro l'erba secca della piazza d'armi. "Quella è almeno una divisione..." spiegavo soddisfatto a Francesco. "Ma lui, il principe, mica è a cavallo... Non va via con loro, se ne sta qui..." borbottava in risposta. Il nostro antagonismo svaniva però durante le notti, quando, cacciati dai letti per la paura delle donne, ci ritrovavamo in cortile ad ascoltare il tranquillo ronzio di un aeroplano nemico che andava e tornava nel buio. Guardavamo ansiosi verso Torino, dove balenavano luci o si alzavano tiepide strisce bianche di riflettori. Un rombo, a volte, e allora le donne affrettavano la preghiera, la testa avvolta in scialli per proteggersi dalla rugiada. Il padre di Francesco entrava e usciva dalla stalla, approfittando di quella sveglia per un'occhiata alle bestie, per rimuovere una fascina, senza mai parlare. Noi due, pestando nell'erba umida, ridevamo inebbriati di nascosto, o restavamo in attesa di un rombo nuovo, di altri cupi balenii nel cielo al di là delle colline, dov'era la città minacciata. "Vieni qui!" mi gridava soffocata mia madre. Ma noi ci arrampicavamo sugli alberi per scoprire ancora un briciolo di Giovanni Arpino
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quella notte oltre le curve nere dei boschi. "Bisogna che Stefano non stia sempre con quel figlio di un Lenin..." diceva mia madre in un orecchio a Caterina. "Non vorrà che stia solo tutto il giorno. E poi Francesco non dà cattivo esempio, lavora già come un uomo. Suo padre sarà certo un Lenin, ma in quanto a fatica non si lascia passare avanti nessuno..." rispondeva Caterina interrompendo l'ave. Quelle ore di notte, e i soldati con zaini e coperte per le vie del paese, le colonne dei muli e dei cannoni dalle alte e faticose ruote di legno ferrato, portavano ansia e gioia a Francesco e a me. Ci scambiavamo notizie in frenesia: tutto ciò che era guerra ci appariva rivestito come d'una polvere esilarante, tutto ciò che gli altri, da mia madre a Caterina a Doro, fissavano con occhio impietrito, ascoltavano con dolorosi silenzi di sospetto, noi lo assorbivamo attraverso la pelle quasi fosse sostanza capace di farci ridere per ore, toglierci il sonno come una febbre. La gioia fu completa quando ventotto carabinieri occuparono metà della casa. Il principe di Piemonte aveva posto il suo quartiere generale in una villa poco lontana, dove la collina già appariva squarciata per un enorme rifugio antiaereo costruito in gran fretta: una parete di cemento si mostrava tra le gaggie e le viti, al di sopra d'una imboccatura alta e larga come due carri di fieno sovrapposti e che introduceva a due chilometri di galleria. I ventotto carabinieri facevano parte della scorta del principe, altri scaglioni avevano occupato cascine e villette lì attorno. Caterina, vedendoli entrare e uscire con brande che scorticavano gli spigoli dei muri, chini a lavarsi sotto la pompa con l'asciugamani pendulo dalla cintura o alle prese con la cucina da campo che fumava in cortile, levava gli occhi al cielo ringraziando Iddio per aver impedito a mio nonno di vivere i suoi ultimi giorni in tanto sconquasso. Mia madre non riusciva più a liberarsi dall'emicrania, neppure aveva osato chiedere l'intervento del colonnello. "Al posto suo..." la rimbrottava tutti i giorni Caterina: "Ma a cosa serve allora avere un marito con quel grado? Li farebbe sistemare almeno in fondo al giardino, nelle tende... Sono militari o no? Gli alpini in montagna non hanno tetto sulla testa: e perché questi se la devono godere tanto? Gli scriva..." Mia madre sospirava, premendosi il fazzoletto umido sulla tempia. "Si vede che non lo conosci!" le rispose un giorno: "Una volta, una Giovanni Arpino
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sola!, che una mia amica si prese l'ardire di raccomandargli un tale, un poveretto già. quasi prete che stava per finire soldato, ebbene: non mi rivolse più la parola per un mese... Come fosse stata colpa mia, e che colpa!, poi..." "È sempre stato troppo rigido, troppo onesto!" concludeva allora Caterina: "Ma fare i rigidi così è anche superbia... Nella vita bisogna sapersi accordare, guai se si fosse tutti come lui..." E seguitava a tallonare i carabinieri su e giù per la vigna, attenta a che non danneggiassero i filari dei fagioli, i fiori di zucca, non appendessero maglie e camicie lavate ai rami più gracili dei peschi. Francesco e io correvamo felici dalla cucina da campo alla stanza dov'era la rastrelliera dei moschetti, ascoltavamo di notte per confidarceli al mattino, dandoci sulla voce, i passi uditi in cortile, i comandi, le corse improvvise della scorta su e giù per la strada che portava in paese. Udivamo cigolare le buffe biciclette grigioverdi, gli appuntati bestemmiavano in strani dialetti. Il cane, tenuto anche di notte alla catena e frastornato per la troppa gente, guaiva in perpetuo. Nel folto di enormi ciliegi di Spagna, dal rosso cupo come di bargigli, era la villa dove alloggiava il principe. Tra le cupole fronzute apparivano solo i tetti più alti, la guglia di un pinnacolo di latta viola e stinta, arricciolata alla cinese prima di terminare in un parafulmine. Il principe non vi si fermava quasi mai. Correva in auto a Torino, ne ritornava a notte fonda, sconvolgendo il ritmo ormai placido della sua guardia sparsa per la collina. Qualche volta passava la sera presso certi nobili del paese, che organizzavano appositi balli per onorarlo e illuminavano con fievoli luci azzurre il vecchio cortile del loro palazzotto stemmato. Caterina, tornando dalla spesa, raccontava le novità prima ancora di entrare in cucina e posare la borsa del pane, l'olio, la carne. Il principe un sabato aveva attraversato il paese in auto scoperta, era persino sceso a bere un vermut nella pasticceria centrale, aveva sorriso a tutti quelli che gli si erano scappellati davanti. Un'altra volta aveva telefonato di persona a un sarto, almeno così giuravano le lavoranti di quel laboratorio. A tutti era parso più giovane e giocondo che non nelle fotografie. Ma oscurandosi e scuotendo la testa Caterina riferiva anche altre cose. "... Stanotte hanno ballato fino alle sei al palazzo, hanno persino Giovanni Arpino
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vomitato dai balconi. Il principe non s'è visto, ma c'erano tutti i suoi ufficiali, gente di Roma, di Torino... Dodici chili di bignole e non so più quanti gelati e bottiglie di liquore hanno mandato dalla pasticceria, me l'ha detto la commessa... E il principe, che l'aveva promesso, non s'è fatto vedere neanche un minuto! Sembra che si sia già combinata un'amicizia a Torino... Sarà un onore ospitare tanti ufficiali in casa, ma deve anche costare un patrimonio! Per sfoggiare e far lusso andranno in rovina, quelli, a furia di spendere in cene e in balli... Tutte le signore con i vestiti nuovi, per poi finire così, a ballare ubriachi e a vomitare dai balconi... E guai se dici che è una vergogna: sono tutti contenti, parrucchieri pasticceri e sarte, si capisce!... Dov'è finito il timor d'Iddio..." Ascoltavamo a bocca aperta i suoi racconti, anche qualche carabiniere si avvicinava porgendo l'orecchio, pronto però a sottrarsi prima che Caterina potesse chiedergli conferma. "...E pensare che la buonanima credeva che re e principe non avrebbero mai fatto questa guerra!" seguitava lei levando una mano al cielo: "Guardateli adesso! Loro si divertono con quelle bocche fini da bignole, e intanto ieri hanno portato altri venti congelati all'ospedale. Soltanto qui! Immaginiamo cosa deve succedere all'ospedale di Savigliano, in quelli di Torino... Li hanno mandati sulle Alpi con quegli stracci, quelle divise di carta vetrata, nella neve, poveri figli... E adesso li portano giù neri, i piedi o magari tutte e due le gambe in cancrena... I signori si sono sempre divertiti, va bene!, ma almeno lo facciano di nascosto, in questi tempi... Lo sa solo Iddio cosa ancora ci toccherà... Questa è una guerra che porterà disgrazia a tutti..." "Mussolini è nostro come vostro..." potevo solo risponderle. "Non parlare così, finirai col non accorgerti più di quel che dici, e se ti sentono in giro, con la gente incattivita d'oggigiorno, se ti sente il colonnello, il giorno che arriva..." l'avvertiva mia madre con un lamento, gli occhi perduti e fondi per i dolori di testa. "Hai sentito?" mi aggrediva trionfante Francesco: "E mio padre dice che andremo in rovina, causa il vostro Mussolini..." "Creperemo tutti di fame, così dicono..." insisteva Francesco: "Sarà la fine del mondo..." Ricordai all'improvviso le feste di settembre, quando tutta la famiglia, anche le donne e i bambini, girava di villa in villa scambiandosi pranzi, balli in giardino, merende che duravano fino a buio. La Diatto andava su e Giovanni Arpino
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giù per le strade polverose portando grammofoni, dischi di ballabili, tovaglie ricamate e cestini di dolci, di funghi appena colti, di vecchie bottiglie. Le donne avevano grandi cappelli di paglia, e veli, collane, mia madre era pallida di cipria, con le polverine per il mal di testa in una minuscola scatola d'argento, gli uomini giocavano a bocce e cedevano solo al richiamo di certi valzer. Allora le mogli scendevano a chiamarli dal giardino fino al primo filare della vigna, quello in terra battuta e recinto da basse tavole di legno, dove le bocce rotolavano diritte schioccando poi in secchi urti violenti. A volte c'era anche mio padre, stretto quasi impacciato in certi abiti borghesi che sapevano di naftalina, e tutti gli si rivolgevano in lingua anziché in dialetto, inutilmente cercando di fargli bere un secondo vermut, una grappa con la menta. Dal tavolo appartato dei bambini, a venti metri di distanza da quello dei grandi, e dove non arrivavano mai i ravioli al vino e le insalate di funghi, io guatavo quel mondo e contavo i centimetri, i chili, gli anni che ancora me ne separavano. Pensavo al tempo che mi divideva da una vita come quella fissata nella fotografia del nuovo tiro a segno, quasi cento uomini tra seduti e in piedi, esperti di se stessi, tutti i parenti intorno a mio nonno con la cravatta bianca e il pomo del bastone che gli esce dalle mani congiunte, ogni volto profilato e senza infingimenti inutili, i fucili a due canne in spalla o sul ginocchio, un angolo di tovaglia candida con fantasmi di bottiglie ammucchiate, scese da certe vigne nate, cresciute, inverderamate attraverso mille lentissimi ragionamenti... "Se tutto cambia, tu cosa farai?" domandavo indispettito a Francesco. "Io?" rispondeva con una smorfia: "Niente! Non lavorerò proprio per nessuno. Mio padre dice che tutto ci comanda. Il governo comanda, il padrone comanda e anche la vacca nella stalla deve essere servita e riverita. Ha più importanza la vacca di noi. Un bel corno di niente: ecco quello che farò." "Se cambierà tutto e vorranno ancora farmi studiare come un galeotto, scapperò di casa!" dicevo io. "Io farò l'eremita. O il cacciatore..." riprendeva Francesco: "Forse solo il cacciatore. Con un fucile mangi fin che vuoi e mangi bene, lepri e fagiani. E sparerò nel didietro alla prima donna che oserà rivolgermi la parola! Mio padre dice che le donne portano solo disgrazia." Segavamo legna in cortile, alberi secchi e storti posati sul cavalletto, fitti di nodi che torcevano i denti della sega. Ogni tanto dovevamo rialzare lo Giovanni Arpino
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strumento e ungerlo con un pezzo di vecchio lardo. Sotto il cavalletto era già un mucchio di gialla polvere profumata. Dividevamo la legna tagliata in parti uguali, secondo le regole della mezzadria. "... E io piuttosto di avere una Diatto o una Fiat a furia di dire si e grazie in una bottega, vado a piedi tutta la vita..." "Tu farai l'ufficiale con le lasagne in testa come tuo padre, e dirai cento volte al giorno signorsì e signornò!" mi derideva Francesco. "Neanche morto!" rispondevo furibondo. "Dillo un po' a tuo padre, dillo al tuo Mussolini..." "Mio padre, potesse..., a Mussolini gli avrebbe già svuotato un caricatore nella pancia, gliel'ho sentito dire proprio io!" mi difendevo. "E intanto fa il colonnello!" non mi dava requie Francesco: "E tu quando sei a scuola fai il balilla... Io no. Mio padre neanche gratis l'ha presa la divisa per me... Alle donne del fascio ha detto: se gliela date, la vendo, quando è a casa mio figlio deve star dietro alla vacca e a me..." Neppure a me piaceva la divisa da balilla. Solo se la vedevo stirata di fresco da mia madre, il lungo triangolo azzurro del fazzoletto senza una piega, la fascia bene arrotolata nel cassetto accanto al fez e alle giberne, non me ne vergognavo. Ma questo perché ero grosso, i pantaloni corti mi attiravano gli scherni dei balilla più piccoli e degli avanguardisti. A dieci anni non poteva però spettarmi altra uniforme, solo i convittori di certi collegi avevano i pantaloni lunghi dei marinaretti. Andavo alle adunate del sabato non con la mantella prescritta dal regolamento, ma col cappotto, che almeno mi copriva fino ai calzettoni grigioverdi, e tiravo fuori di tasca il fez solo all'ultimo momento. L'inverno seguente, in piazza Cavalli a Piacenza, una domenica mattina, la semplice vergogna si mutò in offesa, in rabbia più profonde. Pioveva, eravamo inquadrati fin dalle otto, eravamo scesi dai viali della circonvallazione allineati per sei, i moschetti in spalla, una banda della milizia avanti alla colonna. Dovevamo rendere omaggio a un console tedesco in visita e cantare una canzone tedesca dopo la sfilata a passo romano. Mia madre m'aveva costretto a infilare sotto la camicia nera una maglia di lana grezza, ruvida, me la sentivo prudere dappertutto, non mi riusciva di star fermo. Inquadrati in piazza davanti al podio bardato e vuoto aspettammo nella pioggia finissima. Fino alle dieci e mezzo avevamo avuto agio di Giovanni Arpino
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riannodarci vicendevolmente la fascia nera attorno alla vita, che marciando si riaggomitolava sempre fino a ridursi a una salsiccia fastidiosa. Alle dieci e mezzo si seppe della sospensione della sfilata, causa la pioggia ed essendo scoperto il podio delle autorità. Capimanipolo e centurioni già urlavano per farci riprendere l'ordine ammollitosi nell'attesa. Cercavo di grattarmi qua e là e di sospingere le maniche della maglia sotto la camicia almeno fin oltre il gomito, ero in prima fila e dallo spiazzo vuoto tra la prima fila e il podio il nostro centurione mi schizzò addosso furibondo. Rimasi immobile sull'attenti mentre urlava insulti e lui, prima di andarsene dopo mille minacce, scostò con violenza l'elastico del mio fez e lo lasciò andare a frustarmi la guancia intirizzita. "E se adesso piangi, ti sbatto mezz'ora sul presentat'arm!" strillò con gli occhi furiosi a pochi centimetri dai miei, pallido dalla fronte ai baffi sottili. Riuscii a non piangere e intorno tutti smisero di canzonare, spaventati. Appena torniamo gli dò una baionettata nei budelli, mi ripetevo furiosamente per resistere al bruciore e alle lacrime. La pioggia seguitava impalpabile, poco dopo arrivò il console con le autorità, subito cantammo, quasi sempre in accordo con la banda, il console ascoltava dal podio, chiuso nel suo cappotto bianco, gli occhi schermati dalle lenti, tra personaggi in divisa che gli si sporgevano alle spalle sussurrando. Le bandiere pendevano inumidite nel grigio. Finita la canzone, squillò una tromba, il federale stringendo coi guanti neri la sbarra del podio ci aizzò con un grande urlo a evviva d'entusiasmo. Questo ci piaceva, dovevamo infilare i fez sulle piccole baionette inastate e agitare i moschetti levandoli a braccio teso, con grida e strepito, in fantasia. Nell'urlare ciascuno poteva sgolarsi con strilli, parolacce. Gridavamo, e il centurione, dietro ai più alti delle prime due file passava chino, insultando, mollando pugni alle reni e calci nei polpacci. "Più entusiasmo, bastardi, porci, figli di..., più entusiasmo!" sibilava percorrendo rapido, rannicchiato, le file in su e in giù, colpendo alla cieca. Riuscii a voltarmi in quel groviglio di braccia, baionette e fez che ballavano, abbassai il moschetto per colpirlo. Mi vide, e vide il segno violaceo lasciatomi dall'elastico sulla guancia, subito capi il moschetto a mezzo metro dalla sua faccia, gli appoggiò sul calcio la mano guantata. "Bravo, forza così... Forza che sei bravo..." mormorò stridendo e prosegui a distribuire altre puntate di stivale nei polpacci dei balilla urlanti. Non riuscii a dirlo a mio padre, temendo mi ascoltasse impassibile, Giovanni Arpino
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senza un commento. E un altro fatto non gli venne raccontato in quel medesimo anno. Fu mia madre a impormi di tacere. Accadde durante il passaggio fulmineo di Mussolini, in una giornata calda di primavera. Sentimmo urlare dalla strada e ci affacciammo, mia madre ed io, sul corso Vittorio Emanuele. Gente correva lungo i marciapiedi, qualche bandiera già appariva ai balconi. "Il duce a Piacenza!, il duce a Piacenza!" urlavano ritmicamente due giovani fascisti percorrendo in bicicletta il corso, lenti per avvisare la gente che si affacciava ai negozi, ai balconi, si sporgeva alle finestre. Scrosciarono serrande, ragazzi già pedalavano in fretta per raggiungere i crocicchi migliori del corso, alcune automobili si staccarono dai marciapiedi per trovare sosta più agevole nei vicoli laterali. Restammo a lungo appoggiati ai davanzali, forse più di un'ora, in strada file di gente s'erano ormai acconciate ad attendere con pazienza, donne e bambini gremivano i balconi, e finalmente al fondo del corso il brusio mugghiò in un'unica voce, densa e diversa. Un corteo di macchine apparve brillando nella luce opaca. Il crepitare degli applausi e delle grida prese a correre lungo i marciapiedi, le auto avanzavano veloci e nella prima, preceduta da due motociclisti, era Mussolini. Mia madre aspettava con un vaso di fiori in mano, affannata, meccanicamente seguitando a spostare le dita da un garofano all'altro, già vedevamo Mussolini e gli altri gerarchi a poche diecine di metri, la gente urlava agitando le braccia e i fazzoletti, sollevando i cappelli, e l'uomo era immobile, le mani scure ben poggiate sui ginocchi. Appariva come un corto tronco quadrato nella giubba bianca, forse sorrideva ai saluti che gli mareggiavano contro dai marciapiedi, ma a noi alla finestra risultava come catafratto sotto la mezzaluna della visiera lucida, sotto il disco candido del berretto. Mia madre confusa scaraventò vaso e garofani oltre il davanzale, il vaso urtò la portiera dell'auto rimbalzando in strada, ma i fiori e un lungo getto d'acqua curvarono fino a inondare le spalle e il petto dell'altro uomo in bianco, seduto accanto a Mussolini. E già l'auto era passata rapida, l'ultima cosa che riuscii a vedere furono gli spessi centimetri di quella nuca abbronzata, chiusa tra il berretto e il collo immacolato della giubba, e il baluginio delle grandissime spalline dorate. "O Signore, Signore..." cominciò a girare per casa mia madre, spaurita: Giovanni Arpino
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"O come sono stupida, che buona a niente, che mani di polenta..." Quando si smarriva per un qualcosa di troppo grave o doloroso o imprevisto, subito con una mano si reggeva la tempia, con l'altra spostava una seggiola, chiudeva il portello d'un armadio, andando su e giù senza connettere. "L'unica volta che lo vedo e a momenti faccio questo bel disastro..., un vetro così pesante, stupida che sono!... E quello chissà chi era... Era Muti? Era Ciano?" seguitava a domandarmi, pallidissima, toccandomi appena una spalla. Mi fece giurare che non avrei detto parola al colonnello, e lunghe ore restammo in attesa di qualche scampanellata sinistra. "... O Signore, se adesso arriva un questurino, qualcuno della milizia... A tuo padre chi glielo fa capire... Un vaso così pesante, che tenevo in casa solo perché era un regalo di quell'altra stupida di... E che non mi è mai piaciuto... Proprio su Ciano... Sempre queste le mie fortune, ogni giorno il suo veleno..." sospirava mille volte senza più riuscire a fermarsi, di continuo spiando in strada attraverso le persiane socchiuse, riordinando ostinata con una mano sola il centrino di pizzo sul tavolo dove ormai non posava più quell'enormità di vaso. Fu un anno diverso, quello. Mia madre dovette ritornare nella casa di campagna, in Piemonte, per far ordine tra le cose lasciate a mezzo dalla morte del nonno: tasse sulla terra, carte da firmare, l'affitto di un piccolo campo, alcuni lasciti. "Cara signora, meglio se si sbriga a venire su..." cominciavano i biglietti postali che Caterina le aveva scritto per mesi. Erano vergati in un inchiostro bigio che tante volte avevo notato su registri lunghi e stretti, dalla legatura in tela, dove mio nonno segnava ogni cosa, i centesimi per il giornale del mattino e le brente del vino nuovo, le elemosine e i miriagrammi del grano, delle patate. Mio padre mi portava a colazione e a pranzo al Circolo degli Ufficiali, vicino a piazza Cavalli. Dalla finestra, a tavola, potevo vedere nella piazza i due Farnese equestri ossidati dagli anni, le molli pieghe delle tuniche che lasciavano scoperti i ginocchi e i muscoli dei polpacci, le teste scontrose voltate l'una di qua l'altra di là, essendo stati, nella parentela, avversari. Sedevo al fondo d'una tavolata di colonnelli e maggiori, non potevo parlare, alle frutta mangiavo solo uva per non imbrogliarmi con le posate. Squadravo di nascosto il cameriere, un soldato dai pantaloni scoloriti che Giovanni Arpino
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gli uscivano di sotto una giacca bianca, e speravo sempre di cogliere un lampo di furbizia in quella faccia rossa di contadino, apparentemente contenta di servire a tavola e così evitare il fronte greco o cirenaico. Durante il pomeriggio studiavo in caserma, in un ufficio poco distante da quello di mio padre, e per interminabili ore mi distraevo guardando dalla finestra in cortile. Il grande fremito dell'estate con Francesco, contando muli e cannoni, in attesa di un fortunato allarme aereo notturno, qui s'era spento. Non c'era aria di guerra, tutto in caserma viveva mollemente nel suo andare quotidiano, soldati attraversavano il cortile con passo strascicato, a volte tirandosi appresso un animale, a volte una lunga ramazza da aia, qualche tromba suonava stentorea spezzando un silenzio di ore, un silenzio polveroso che subito, dopo lo squillo, ricuciva i suoi bordi seppellendo di nuovo l'enorme spazio di terreno vicino ai magri boschi di pioppi del Po, dove il reggimento era accasermato. Dai finestroni che si aprivano nel muro opposto al mio apparivano ogni tanto il braccio e la spalla nuda di un soldato intento a stendere qualche suo panno al sole, o ne usciva un canto pigro, sillabante in oscuro dialetto. D'improvviso, violentissimo, scoppiava nel corridoio l'urlo di mio padre, subito seguito da un precipitare di passi struscianti, di sussurri. Marescialli e capitani s'affrettavano verso l'ufficio del colonnello reggendo carte rinchiuse in fascicoli d'uno smorto giallino, sparivano dopo aver bussato e il corridoio tornava deserto, con gli usci tutti uguali, lucidi d'olio cerato nella parete dipinta di fresco. Più tardi s'apriva la porta della mia stanza e scattavo in piedi, in un attimo infagottando libri e quaderni nella cartella, mio padre aveva già berretto e sciabola, si doveva uscire e anche a me spettava di rispondere al saluto della guardia schierata sotto l'androne odoroso di calce. Alzavo una mano a metà, guardando terra, e dietro di noi il piede ferrato della sentinella ricadeva con un tonfo sordo sul gradino di legno della garitta. A passo veloce per le stradine nebbiose ci dirigevamo al Circolo, ero contento di poter mangiare pastasciutta un'altra volta e non l'eterna minestrina serale di mia madre. Lungo il marciapiedi dovevo stare attento, a non perdere il ritmo del passo, a scattare rapido, fermarmi, scivolar dietro a mio padre, perché gli toccasse comunque il lato migliore per camminare. A volte, senza piegare verso di me il profilo rigido sotto la visiera, il Giovanni Arpino
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colonnello sillabava brevissimo, improvviso, qualche trabocchetto aritmetico, e subito dovevo concentrarmi, distogliere lo sguardo dagli opachi grumi di luce delle vetrine, e rispondere soffocando ogni esitazione... "Calcolami le prime cinque potenze di 2 e di 3... Coraggio, sbrigarsi..." La catenella della sciabola gli tintinnava appena tra gomito e fianco, la viuzza che portava a piazza Cavalli si piegava ad angolo di fronte a noi: e io sapevo che, una volta raggiunta la piazza, ogni pericolo d'esercitazione sarebbe cessato. "...Un operaio compie dato lavoro in 15 giorni, un altro in 12 giorni, un terzo in 10. Quale parte di lavoro farebbero in un giorno solo, lavorando tutt'insieme? Forza!, fa scattare queste frazioni!, è semplice... Usa le meningi..." Ma ecco, si era in piazza Cavalli, già gonfia di nebbia, con radi uomini ammantellati in sosta sotto i portici del palazzo, e anche le scale del Circolo bisognava salirle di buon passo per non perdere le prime parole del giornale radio serale. A tavola, colonnelli e maggiori riprendevano i loro discorsi, sui fatti d'arme quotidiani e sulla vita d'ufficio, sullo stato maggiore e gli avanzamenti. Qualche discussione più accalorata nasceva tra chi giurava sulla decisione della guerra in Africa settentrionale e chi la garantiva in territorio inglese, dopo le fulminee battaglie che si sarebbero svolte attorno a Londra. Anche dei tedeschi li udivo parlare, ma con una diversa cautela, e minuziosi e acidi erano i paragoni tra certi loro carri armati o batterie antiaeree ed i nostri. Un maggiore del distretto provocava molte risate alla fine del pranzo raccontando aneddoti di pastori sardi, di montanari bergamaschi, di furbi e scostumati napoletani appena reclutati e giunti chi con due salami per un certo maresciallo di conoscenza e chi talmente privo di denti che invece d'una riforma stava per guadagnarsi una ferrea denunzia al tribunale militare. Altre risa, più prudenti, suscitavano certi pettegolezzi su alcuni ufficiali rientrati a Piacenza dopo il corso alla scuola di guerra a Roma, o le ostinate, incredibili avventure di un capitano, deciso a sposare non si sa che donnetta, una mezza calza, una scalcagnata, malgrado le negative indagini svolte dai carabinieri e il successivo parere sfavorevole del generale suo superiore. Giovanni Arpino
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Ascoltavo davanti alla mia crema caramellata, e i soldati camerieri erano al fondo del salone, in piedi e taciti, le finestre inquadravano soltanto più un rettangolo buio. Verso le undici rientravamo a casa, la città era sommersa dalla nebbia, con rade e fioche luci schermate che galleggiavano all'altezza dei primi piani. A letto e sveglio, sentivo nella stanza vicina mio padre riporre la sciabola, il mazzo delle chiavi, sfregare in lunghi squittii con l'apposito asciugamani la visiera lucida del berretto, infine pregare e dormire. Fu ancora in quel tempo, dopo il ritorno di mia madre dalla campagna, che l'oscuro panico per il colonnello aumentò in me a un nuovo grado. Era un vuoto, una distanza, che mi procuravano nei suoi riguardi sospetto misto a terrore, e che io inconsciamente cercavo di vincere con caotiche frenesie e dimostrazioni segrete, durante le quali lo uccidevo o lo salvavo da morte, lo derubavo o gli medicavo le ferite infertegli da frecce nemiche, lo denunciavo ai fascisti perché sparlava dello scandaloso armamento delle nostre truppe, del Mussolini burattinaio-comandante di tutte le nostre forze armate, oppure lo pregavo con ogni mio sapere perché mutasse pelle e parole, e diventasse come mio nonno, mangiasse come lui, come lui fosse sempre pronto a ridere, bere, passare al di là delle cose. All'ora di colazione, udivo il suo passo salire l'ultima rampa di scale, poggiando il piede con tanta perfezione che, diceva mia madre, le sue scarpe, quand'erano da risuolare, risultavano ugualmente lise in ogni punto, dall'estremità della suola fino all'ultima mezzaluna del tacco. "Lo Zingarelli!..." l'udii quel giorno urlare lungo le scale e, abbandonando l'asciugamani con cui l'aspettavo dietro la porta per esser pronto a strofinare la visiera del berretto, corsi a frugare tra i libri alla ricerca del vocabolario. Era sulla soglia ad aspettarmi, i due pollici nel cinturone, il volto oscurato dal berretto. "Apri e leggi alla parola mediocre!" disse gelido. "... Mezzano..." cominciai a leggere mentre mia madre ci guardava pallidamente dalla porta della cucina: "... Di grado o media altezza, tra il sublime e l'umile, per la comune dei lettori... Di salute né buona né cattiva... Del ceto di mezzo... Di qualità alquanto inferiore, non superiore, non fine..." "Qui: ripeti!" disse. Giovanni Arpino
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"... Di qualità alquanto inferiore, non superiore, non fine..." sillabai. "Ecco, questo sei tu. Ho incontrato la tua insegnante di matematica, e così ti ha definito: mediocre. Posa il dizionario. A tavola!" pronunciò levandosi il berretto. Per punirmi, chiuse a chiave l'armadio dei libri, dove nelle ore perse già frugavo alla ricerca di qualcosa tra i suoi Bracco, Oriani, Panzini, le poesie di Di Giacomo, D'Annunzio. Mia madre era tornata dalla campagna con una grande cassa piena di abiti del nonno, alla macchina per cucire lavorò giorni finché le riuscì di aggiustarmene due. Benché fossi assai alto per la mia età, la stoffa scura mi incupiva fino a snaturarmi, e guardandomi nello specchio mi parevo un altro, un individuo mal disegnato, che sotto i panni volesse nascondere sinistre imperfezioni. Ero felice d'indossare quegli abiti, ne intuivo il potere, tuttavia essi riuscivano a rendere troppo in evidenza, concreta davanti agli occhi, una preoccupazione che già mi covava dentro e alla quale, talvolta, m'era successo di reagire con facilità proprio perché astratta, non visibile. Alla sera, dopo essermi svestito, vedendo l'abito scuro con una sottilissima riga granata sulla seggiola al fondo del letto, cominciavo a piangere. Cercavo di non farmi sentire e soffocavo i singhiozzi nel cuscino, senza però riuscire a smettere. Ricordavo come avevano chiuso la bara, quel giorno d'estate, con nove viti rapidissime il coperchio aveva sigillato, duro nei rasi, l'uomo a cui più speravo di somigliare. E ora la coscienza della mancata immortalità, mia e di ogni altra cosa, era una condanna che non riuscivo a scuotermi di dosso. Di questo piangevo. "Adesso basta, sono tre sere che hai qualcosa, credi che non me ne sia accorta? Piangi? Dimmi dove hai male..." entrò nella stanza mia madre accendendo la luce. Non risposi, rigido nel letto, gli occhi fermi al soffitto, e come urtato da quell'intrusione. "Parla!" apparve mio padre sulla porta, le mani sprofondate nelle tasche della sua giacca di cammello. Non potevo resistere, mi commuoveva la mano di mia madre che mi riordinava i capelli sulla fronte, delicatamente. "Voglio sapere se c'è Dio! Dov'è! Non voglio che si muoia!..." urlai chiudendo gli occhi per non doverli vedere. Giovanni Arpino
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"Dormi e non metterti in testa simili questioni, pensa alla scuola e alla tua pelandronaggine..." rispose mio padre, calmo, e spense la luce. Anche mia madre dovette uscire dalla stanza, e li sentii discutere nel tinello. "In fin dei conti, se ha dei dubbi di questo genere bisognerebbe far qualcosa, è così sproporzionato in tutto per la sua età..." diceva mia madre. "Dubbi da mezze calze. Un uomo sa che Dio c'è e basta, non ne discute neppure. Stefano deve imparare ad essere uomo, a indurirsi. Siamo già fin troppo circondati da mezze calze in questo paese e di questi tempi..." rispondeva mio padre. "Però..." "Nessun però. Fosse una bambina, lascerei decidere a te. Ma è un maschio, e deve prima di tutto essere duro con se stesso, solo dopo con gli altri. Come è scritto di me nelle mie note caratteristiche. C'è una guerra e non voglio chiedere favori a nessuno: altrimenti potrei fargli dare un cavallo e cavalcando a gambe nude fino a spelarsi gli passerebbero certi grilli..." "Tu pretendi troppo... E' un bambino..." "Non pretendo niente per me. Lo prediligo, ma non posso dirglielo. Un padre deve essere temuto. Quando avrà trent'anni mi capirà. Questo è il dovere di un padre. Soprattutto in un paese come il nostro, tutti con mille aquile sul cappello e tutti senza una coscienza. Te ne accorgerai se questa guerra continua..." concludeva lui. Li immaginavo nel tinello, appoggiati al tavolo, ciascuno con il suo giornale davanti. "Mah!, e poi si dice che i meridionali sono uomini dolci e teneri..." sospirò ancora mia madre. "Il meridionale autentico è l'unico vero uomo che esista, e non risulta ritagliato nel marzapane. Anche se ormai è una mosca bianca!" la zitti il colonnello. La sua tristezza aumentava, in quei tempi, venandosi di un rancore secco, pronto allo scatto, e che traeva alimento a mille fonti: la lettura dei giornali e la mediocrità della giornata in caserma, l'ascolto dei bollettini di guerra alla radio e gli stanchi sospiri di mia madre. Anche certe mie improvvise felicità animali lo incupivano, talvolta, imprigionandolo in assurdi silenzi. Si faceva guerra da solo, raddoppiando le dimostrazioni del proprio rigore, trascorrendo le giornate in caserma dall'alba fino a tarda sera, punendo rudemente l'attendente che al ritorno da una licenza aveva Giovanni Arpino
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osato presentarsi con in mano una torta contadina per il figlio del colonnello. La rinunzia a farsi destinare a una divisione combattente in Africa settentrionale lo rodeva come un costante rimorso. Inutili gli sforzi di mia madre per fargli trovare la casa perfetta, eliminato ogni impiccio tradizionale, dai miei compiti di latino alle dicerie di un conoscente: rientrando, lui riusciva sempre a posare l'occhio, e quindi a rincarare il suo silenzio di condanna, su una briciola fuori posto, su un moto disordinato della regola familiare, anche questi segni, minimi ma rivelatori, della meschinità, del grigiore, dell'assenza di slancio valoroso che dovunque lo assediavano. "Non si può competere..." lamentava mia madre: "La sfuriata per il caffè dell'altro giorno! Come se mi fossi divertita e non avessi buttato soldi per procurargli una volta tanto un caffè vero e non quelle porcherie di surrogati... Proprio lui, che è vissuto a spaghetti e caffè... E adesso mi toccherà bermeli da sola, due etti di caffè a quel che costano!, mi torneranno tutti in veleno... Sarà l'unico in Italia a voler vivere con le razioni della tessera, a costo di diventar tisico..." Alla domenica il colonnello si aggirava a lungo nella sua stanza, il pavimento era sottile, appena un foglio di mattoni che divideva quell'angolo di primo piano dal sottostante negozio di attrezzi agricoli, spartifieno e falciatrici immagazzinati coi denti all'insù. Ascoltavamo dal tinello quel suo andirivieni incessante, dal Iettino di ferro allo scaffale dei libri sormontato da una lunga baionetta austriaca, e mia madre scuoteva il capo senza riuscire a distrarsi. "Su e giù, giù e su, per ore, e quel pavimento che è una pasta frolla, prima o poi gli rovinerà sotto i piedi..." commentava sottovoce. A volte usciva violentemente dalla stanza, duro in volto, gli occhi cerulei come di ferro a contrasto col pallore delle gote, già il berretto in testa, il cinturone allacciato, i guanti. "A camminare!" ordinava. "Comandi!" rispondevo afferrando rapidissimo giacchetta e cappotto. E a passo veloce, senza aprir bocca, percorrevamo due o tre volte la circonvallazione piacentina sotto i platani scheletriti, io alla sua sinistra per non impacciargli la destra pronta a rispondere al saluto dei soldati. A gruppi, questi lo individuavano da lontano, ricomponendosi, e il colonnello, rispondendo a quelle braccia scattate verso i berretti, li scrutava a uno a uno alla ricerca di un bottone mancante, una mollettiera Giovanni Arpino
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allentata. Il suo puntiglio, diventato occhiuto e rabbioso, come dovesse riempire e risolvere un vuoto dell'animo, si scatenava però soprattutto contro gli ufficiali giovani, alle cui spalle piombava come un vecchio lupo geloso. Non c'era giorno in cui non ne scovasse uno, o con la barba mal rasa e straccamente abbandonato in un caffè, o con nastrini di medaglie ridicole, per nulla attestanti atti di valore e campagne militari, e la pagavano cara, era capace di perseguitarli anche se trasferiti da Piacenza. In caserma, poi, a sentire le voci che raggiungevano mia madre e la costringevano a sospiri sempre più lunghi e sconsolati, era un'autentica iradiddio, presente al rancio e al cambio della guardia, nelle latrine e al magazzino viveri: ogni angolo sapeva di calce, di sidol, di straccio sfregato, di olio di gomito, i marescialli impazzivano. Ma nulla di tutto questo lo placava, acuiva anzi la sua nuova, nera tristezza. A mia madre non rivolgeva la parola che in caso di necessità estrema. Lei era la ragione che gli aveva impedito, facendo leva su me, di liberarsi dalle pastoie e dall'umiliazione di quella vita in retrovia. E lei intristiva, cacciando ostinata per la casa una giacca, una camicia bisognosa di bottoni e rammendi, sospirando con gli occhi al cielo quando finalmente la trovava, subito pronta a scoperchiare la macchina per cucire. "Ecco, a che punto..." si risentiva lugubremente pestando sul pedale: "Devo rinnovare il colletto della camicia e non mi dice niente... Che vita! Mai che abbia sentito un cane ridere in questa casa... Come fossimo in clausura... Mai che ti dicano in faccia cosa c'è e la si finisca... Ogni giorno, un muso nuovo..." E si piegava con la bocca a mordere il filo del cucito, una volta terminato il rammendo, gli occhi infossati come dolorosi, il pensiero che correva tacito, misterioso, alla campagna, a Caterina, alle grandi domeniche d'estate ormai perdute e ferme in qualche fotografia, uomini e donne attorno al tavolo di pietra sotto i tigli, i bambini lustri e pettinati in fila, a terra, le gambe incrociate. A colazione e pranzo non si parlava più, con un cenno del dito lui m'indicava il sale da porgergli, con una sola occhiata mi ammoniva per il coltello non esattamente impugnato. Cupo, ascoltava il fluire delle parole alla radio, socchiudendo gli occhi, di certo invadendo gli spazi tra quei nomi, la Sirte, Tobruk, Bengasi, Tripoli..., con la scienza esatta che aveva di ogni luogo, con l'acrimonia che la sua assenza forzata gli iniettava in corpo. Giovanni Arpino
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Con un moto silenzioso delle labbra, d'una spalla, mia madre mi sollecitava a dire qualcosa. "Domani alla palestra Salus et Virtus ho un'eliminatoria di lotta grecoromana... Se vinco, domenica entro in squadra per un incontro importante, contro i lottatori di Padova... anche se sono solo un junior... Verrà a vederci Raicevich..." cercavo di dire. Annuiva seccamente, fisso all'esile fetta di provolone posata nel piatto. "Raicevich, sai..." osavo ancora. "E chi sarebbe costui? Cosa fa qui? Quanti anni ha? Non si vergogna?" ribatteva gelidamente: "Massa di scansafatiche, popolo di schiavi..." Tacevo di colpo, rimestando nel piatto e mia madre mi guardava con un altro cenno di palpebre, che stessi zitto, lasciassi perdere... La voce ora tronfia ora perdutamente briosa della radio tornava a riempire la stanza. "Gran bel popolo..." mormorava ancora lui tra i denti, con disprezzo raddoppiando in una smorfia delle labbra puntate la "p" centrale della parola. Aspettavo l'estate. Ai primi caldi, così afosi e senza una bava di vento in quella città percorsa da torme cieche di soldati che muovevano alla sera dai boschetti lungo il Po fino ai chioschi delle bibite sulla circonvallazione, il ricordo della campagna piemontese, delle vigne color verderame, e Caterina e Francesco, mi rendeva senza fine le giornate. Minutamente ripercorrevo ogni luogo, ero già per la collina dei peschi, allo stagno con la lanterna di notte per attirare rane da friggere in molli camicie di bianchi d'uovo, già spacciavo un coniglio con un secco pugno dietro gli orecchi, a nocche all'ingiù, reggendolo per le zampe posteriori. Caterina l'avrebbe poi sbudellato tra i guaiti del cane alla catena, impazzito per l'odore. Vedevo la pelle fresca del coniglio, da stendere con due pezzi di legno e appendere al sole; Francesco ed io l'avremmo venduta per cinquanta centesimi. Una lira l'avrei guadagnata smuovendo laboriosamente avanti e indietro il mestolo di legno nel paiolo della conserva di pomidoro, controvento per evitare il fumo, un'intera giornata per consumare diecine di chili di pomidoro sul fuoco di legna. Bisognava continuamente rinnovare i ciocchi, grandi e asciutti sulle braci per mantenere costante il bollore, e rimuovere col lungo mestolo sul fondo del paiolo perché l'impasto non s'appiccicasse, non venisse a saper di bruciato. Giovanni Arpino
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A una certa ora c'era da aggiungere spezie, aglio, peperoni, carote, sedani profumati, un catino di basilico, e di nuovo rimestare, mettere legna. Le braccia scottavano fino ai gomiti, il calore infiammava il volto, e l'odore acidulo e ricco dei pomidoro e delle verdure si espandeva nel cortile col fumo del falò. Poi, l'impasto lo si passava dentro una sorta di macchinetta che espelleva le bucce dei pomidoro e riduceva la conserva a una crema vermiglia, da rimettere sul fuoco e far consumare lentamente fino a sera, mentre grandi bolle scoppiavano lentamente alla superficie. Raffreddava in due ore, e la si poteva finalmente versare con l'imbuto, aiutando la colata attraverso l'imbuto con una canna sottile, in oltre cinquanta bottiglie da suggellare in ultimo con un filo d'olio all'imboccatura. Altre lire le avremmo ricavate, noi due ragazzi, sciogliendo sul fuoco l'esile filo di stagno che saldava le scatole delle sardine, del caffè. Lo stagno colato a goccia a goccia, raccolto nella cenere e nuovamente fuso in un solo lingotto, costituiva il più paziente dei nostri lavori in cortile e un guadagno sicuro, come del resto le pesche spaccate in due, messe al sole su una rete a seccare, ricoperte da un velo di garza perché le vespe non potessero sostarvi troppo. Bisognava rivoltarle ogni giorno, a una a una sulla rete, ma anche questo portava una lira, alla fine, e ci ricompensava di tutti quei venti centesimi che non guadagnavamo più, nelle mattine di domenica, accompagnando mio nonno lungo la salita dopo la messa, reggendogli io il colletto duro la cravatta e il panciotto, Francesco il cappello e la giacca. Vedevo che anche mia madre, più degli altri anni, aspettava l'estate. Ma non capivo bene il timore racchiuso in certe sue allusioni, la preoccupazione di allevare per la prima volta un maiale, se Caterina fosse stata d'accordo. "Dobbiamo seminare più grano, più patate, c'è tempo per rifare l'angolo della vigna vecchia..." mi diceva: "E anche tu dovrai metterti sotto a far qualcosa..." "Ma ho sempre fatto..." "Si, per spirito di gioco, senza mai capire la necessità... Mettiti in testa che c'è la guerra e bisogna procurarsi delle scorte... Sei grande come la fame e non ti rendi conto di niente... La nostra è sempre stata una campagna da ricchi, di quelle che non rendono. Bisogna cambiare, fare tante marmellate, allevare polli... Meno male che c'è Caterina..." "Ma Doro è bravo!" Giovanni Arpino
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"Oh, i contadini, vatti a fidare! È un Lenin e pensa solo ai suoi interessi. Quando ha il vino in cantina e la vacca gli fa un vitello all'anno, lui si sente a posto, frutta e galline e orto non gli interessano..." mi spiegava lei: "Dobbiamo metterci sotto... Chissà cosa sta facendo Caterina. Speriamo che abbia seminato più granturco..." "Al maiale ci penserò io!" promettevo. "Bisogna vedere se Caterina è d'accordo, coi maiali non è un vivere facile, pare che rischino mille malattie... Oh, come siamo incapaci!" concludeva mia madre: "E non c'è bisogno di parlare di maiali al babbo, capito? Chissà cosa ci tirerebbe in testa... E che non pensiamo alla gente meno fortunata di noi, che ci occupiamo di maiali come gli speculatori mentre i nostri soldati in Africa, eccetera... Mi sembra già di sentirlo. Non ha bisogno d'essere cimentato anche con queste cose, tanto non metterà piede in campagna, figurati!... Per i salami, gli potrò sempre dire che è stato uno scambio, un regalo..." Ma tutto, giorni e persone, stava diventando più distorto e feroce, e ce ne accorgemmo in giugno, una volta tornati alla casa in collina. Caterina, con la treccia quasi grigia, s'era messa a zappare nell'orto, o tra i filari, a fianco di Doro e di sua moglie. Dopo la morte del nonno, l'aveva finita con le preoccupazioni per maionesi ben sbattute, tagliatelli fatti a mano, né si accontentava di spazzolare pesche sulla soglia della cantina, in sottoveste per raccogliere tutto il fresco che sortiva da quel lunghissimo andito buio scavato sotto la collina. Era tornata contadina, lasciava seccare i gerani nei vasi, e tutto ciò che non prometteva reddito, i tigli o il cane da guardia, un vecchio armadio in solaio e le aiuole delle ortensie, lo giudicava con occhio rapace. Si accaniva a metter uova sotto le chiocce, e altre uova in grandi vasi ricolmi d'acqua e calcina, i conigli di neppure un chilo erano già ritenuti buoni per il pugno in testa o il mercato, un melo con qualche ramo secco veniva subito indicato da abbattere a beneficio della raccolta di legna per l'inverno. "Tempi grami ci aspettano!" seguitava a brontolare, scalza e senza più un sorriso, calciando impietosa il cane che la seguiva dappertutto, dalla cucina alla vigna...: "Tempi pestiferi. Vedrete che quest'anno non tornerete a Piacenza, magari sarà tutta bombardata... Quando c'era il principe era ancora una vacanza, erano ancora rose e fiori rispetto a oggi... Adesso che perderemo la guerra, ci sarà una fame in giro... E tu, lungo come sei, si, non capisci niente, ridi, ridi, Ridolini..., sei solo buono a far perdere tempo Giovanni Arpino
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a me e a Francesco... Metti cognizione, c'è la legna da segare, c'è l'erba da raccogliere per i conigli, c'è da trasportare l'acqua nell'orto che i pomidoro non si bagnano da soli, su, piglia il secchiello, comincia, fatti un po' vedere..." Francesco era cresciuto, non come me, le sue ossa erano tutte in evidenza, ma appariva alto e fuligginoso per i suoi dodici anni. Doro non aveva più neanche l'obbligo di chiamarlo, muovendosi con la zappa in spalla se lo trovava già dietro, scalzo, diretto anche lui alla vigna reggendo in mano la bottiglia d'acqua e aceto. Soltanto in certi pomeriggi di silenzio, col caldo di fine giugno che viveva solo per api e vespe in sordo ronzio tra i fiori dei tigli, riuscivamo a tornare come nelle estati di un tempo, distesi all'ombra bestemmiavamo a turno, sottovoce senza rabbia alcuna, solo intenti a scovare nuove bestemmie. Le mani tese e immobili, ci si teneva pronti a scattare e rinchiudere una mosca tra le dita. Ma finiva subito, nella pace s'infilavano dubbi e discorsi più grandi, e una malinconia quasi furiosa. "Mio padre dice che la Russia non può perdere. Dice che ha troppo grano... Tu sai qualcosa della Russia?" mi domandava. "Niente. Solo la storia di Napoleone..." rispondevo: "Se però stavolta non perde, chissà quando finirà la guerra. Prima che i tedeschi mollino tutto quello che hanno preso..." "Si morirà di fame..." assicurava Francesco: "Si finirà per mangiare anche l'erba e poi moriremo di fame... Prima però diventeremo tutti ladri. Maledetto mio padre: aveva un fucile da caccia e se l'è venduto. Poteva servire, adesso che diventeremo ladri e ci ruberemo il pane di bocca..." "Non ci credo..." rispondevo testardo. "Sarà così e peggio. Caterina dice che dopo le guerre vengono le carestie, le malattie..." "Cosa dai retta a Caterina" mi arrabbiavo: "È solo una bestia da lavoro. È diventata una zingara, venderebbe la sottana... Tu perché le credi?" "A nessuno credo..." rispondeva cupamente Francesco: "Per me possono crepare proprio tutti. Bombardassero finché non c'è più un mattone in piedi, per me va che è un incanto..." Nella stalla c'erano due maiali, uno di Doro e uno nostro. Caterina si alzava all'alba per preparare l'intruglio più tenero, più minuzioso, latte e farina di granturco, semola e acqua tiepida, e raggiungeva Doro che nella Giovanni Arpino
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stalla già smuoveva il letame, rinnovava la paglia. "A ottanta chili gli piantiamo il chiodo in testa!" giurava Caterina: "Non c'è bisogno che arrivino al quintale, questi mangiapane buoni a niente..." Guardavamo i maiali con tenerezza, li mandavamo a pascolare tra l'erba in cortile, un'ora dopo il tramonto, e li facevamo rientrare nella stalla toccandoli appena con un ramo, leggerissimamente per non infliggere lividi al grasso. Ma una mattina gli strilli di Caterina, terribili, ci buttarono tutti alle finestre. "No, no..." gridava inseguendo Doro. L'uomo sembrava impazzito, si sbatteva qua e là per il cortile chiudendosi la testa tra le mani. "Così è la vita, così è la vita!..." urlò con le unghie in faccia. "Venga qui, non perda la testa..." gli gridava dietro Caterina che però s'era fermata per lo spavento e non osava più avvicinarglisi. Dalle finestre scoprimmo la macchia rosea tra le erbe. Uno dei due maiali, quello di Doro, era morto nella notte. Anche Francesco era alla finestra, dall'altra parte del cortile, e tutti, in silenzio, spaventati, guardavamo Doro che si muoveva come un folle, di colpo arrestandosi a dondolare la testa, persino Caterina s'era zittita, le mani alla bocca. "O Signore, ma fate qualcosa..." s'udì mia madre con voce malata a un balcone. Ma Caterina e la moglie di Doro, uscita in cortile, non riuscivano a muoversi. "... Gli dica lei una parola..." stridette solamente la donna cercando di spingere Caterina alle spalle. A un tratto l'uomo riprese la corsa, muto con le mani che si agitavano in aria, scomparve ciondolando nel buio del portico e solo l'urlo delle due donne in cortile ci scaricò nella coscienza l'esatta nozione dell'accaduto, il pozzo sotto il portico e Doro che l'aveva scavalcato. Un vecchio contadino, e poi subito un altro, più giovane, già arrivavano di corsa, richiamati da quelle grida. Corsero al pozzo, chiamarono, c'erano dodici metri di pietra e poi l'acqua, con una corda legata al piede uno dei due, quello più vecchio con la camicia color verderame, si fece calare fino al pelo dell'acqua. Lo reggevano il compagno e Caterina, e s'udirono i suoi urli di comando salire neri e rabbiosi dalle profondità. La moglie di Doro li accanto livida a mani giunte, e mia madre aveva cacciato tutti noi lontano, Giovanni Arpino
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al limite del cortile, Francesco e le sorelle più piccole guardavano laggiù, nel rettangolo d'ombra del portico, gli occhi immobili. Il contadino riapparve tossendo, sputando, liberò il piede dalla corda, non era riuscito a vedere o almeno toccare Doro. Tre ore lavorarono i pompieri e l'appuntato dei carabinieri con un milite per ripescarlo, fin verso mezzogiorno. Contadini li avevano aiutati, muovendosi di corsa per il cortile con corde e scale. Caterina aveva trascinato il maiale morto in un angolo d'ombra, al fresco, sperando di non doverlo seppellire, che il veterinario diagnosticasse un accidente, una polmonite fulminante, non un male infettivo. "Siamo tutti troppo cattivi... Non c'è più che cattiveria a questo mondo..." ripeteva smorta, versando un bicchiere di marsala all'appuntato, spingendo la moglie di Doro sulla spalla perché si piegasse a sedere almeno un momento. Mia madre aveva portato in una stanza le bambine, e Francesco ed io, sbalorditi e in silenzio da ore sotto i tigli, le vedemmo attraverso una finestra aperta, zitte e in fila su un divano a masticare biscotti, le facce bianche nella penombra. "È una luna di disgrazia, malefica, anche lui lo diceva..." borbottava Caterina versando caffè d'orzo da una pentola puzzolente, tante tazzine in fila per pompieri e contadini: "... E certo era già col cervello di traverso per quei due suoi fratelli dispersi, quei due alpini della 'Julia'... In Grecia o in Russia, Francesco?" "Grecia..." rispondeva Francesco senza alzare gli occhi. "Grecia o Russia, non c'è più terra a sostenerci, con la gramizia che abbiamo dentro..." riprendeva Caterina china sulle tazze: "... Vedere gli uomini finire così, in un minuto la vita bell'e andata, non è più neanche un destino d'Iddio..." Francesco scuoteva la spalla, fisso alle formiche su e giù per le loro piste tra i tigli. Mia madre lo fece dormire con me, quella notte. Restammo a lungo senza parole nei letti accostati, voci in cortile ancora discutevano, il cane abbaiava furioso, tacque infine dopo un guaito. "Credi che abbia paura?" fece poi Francesco nel buio: "Neanche un po', giuro!" "Dormiamo, è meglio..." gli dissi. "La campagna..." riprese lui: "Darei fuoco a tutto quello che sa di Giovanni Arpino
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campagna. Adesso hanno finito di prendersela con me a torto o a ragione! Se riesco, comincio subito a fare il garzone ai muratori..." "E tua madre?" "Cosa vuoi che capisca!" borbottò: "Le donne non mi fanno nessuna pena... Anche lui le malediceva sempre..." "E quei tuoi zii?" domandai ancora. "Li dicono dispersi ma sono morti. Da più di un anno non mandano notizie... Figurati se non son morti! Tutto per questa guerra bastarda e chi l'ha comandata..." "Dormiamo, adesso, sennò ci sentono..." sussurrai. "Dormi tu!" rispose: "E sta pur sicuro che io non ho paura, proprio per niente..." Restammo un attimo in agguato a percepire i fruscii della casa, i latrati dei cani lontanissimi sulle colline. "Stavolta glielo faccio io il lavoro al manzo..." bestemmiò Francesco. Era l'impresa a cui suo padre teneva di più. Prima di condurre il manzo al mercato, gli faceva ingollare a viva forza un secchiello di venti chili d'acqua e sabbia, per guadagnare sul peso. Bisognava saper calcolare i tempi esatti, che il manzo non fosse colto da un attacco di peritonite prima del macello. Ed era necessario tener bene d'occhio i negozianti che girano per il mercato con le tasche piene di mozziconi di sigaro, e sveltissimi, mentre palpano il manzo e ne discutono, gli infilano sotto la coda un mozzicone, costringendolo a spurgarsi con improvvisa violenza e quindi a perdere peso. "Dormi?" domandai. "Se continui a dirmelo, mi alzo e vado a coricarmi nel fienile. Lasciami perdere!" fece Francesco. Dal cortile saliva appena un murmure, lo sgranarsi del rosario. Varie donne dovevano essere salite dalle cascine, dopo cena, certo gli uomini avevano fatto gruppo a parte, in un angolo del portico, vicino al pozzo ormai sprangato da tavole legate col fil di ferro, e forse ragionavano bruschi su Doro, su fatica e sfortuna, su quei tempi funesti che rendevano più maligna la vita già segnata di tutti i giorni. Così come il nonno era morto nelle angustie per quella guerra che aveva sperato impossibile, Doro mori un mese prima di vedere Mussolini scacciato dal re, e dal municipio del paese rotolare in rovina per i ciottoli Giovanni Arpino
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della piazza il busto bronzeo del duce : che subito il comandante del presidio locale, messosi personalmente in ronda con un pattuglione di allievi ufficiali armati, fece raccogliere, minacciando i ragazzi che dalle finestre del comune strepitavano in libertà, e sciogliendo i gruppi dei contadini raccoltisi in piazza. "E adesso?" mi domandavo senza capire, seduto con Francesco al riparo delle acacie. "Adesso cosa!" s'era arrabbiato lui: "Li hai visti i tuoi colonnelli!, Mussolini si squaglia e loro gli raccattano le vergogne per strada. Morto un gallo ne canterà un altro. Bisognerebbe accapponarli tutti, cominciando dal re..." "Ma se proprio il re ha spedito via Mussolini!" ribattevo senza riuscire a penetrare tutti quei fatti, e pensavo a mio padre, non arrivando a immaginarlo se soddisfatto o ancora più chiuso, ostile. "È tutt'una banda!" si spiegava Francesco con una smorfia nel volto ossuto, già peloso lungo il labbro superiore: "... Bisognerebbe tirargli il collo, a tutti quanti!, e prenderci la tenuta reale di Pollenzo. Così si dà un taglio a questa guerra... Tanto è perduta." Avevo rubato una bottiglia di fernet dall'armadio in salotto e la bevevamo con precauzione, faticando a ogni sorso per l'amaro che allappava la lingua. "Sei il solito Lenin..." dicevo: "E ai tedeschi non pensi? Sono loro che fanno e disfano..." "Crepino i tedeschi..." "Si, ma intanto hanno certi carri armati! Te li puoi sognare, tu! Non fanno pace, i tedeschi... Si fanno ammazzare tutti prima di arrendersi alla pace..." "Che crepino..." ripeteva lui: "... Che crepi il buono e il cattivo. Meno gente c'è al mondo, meglio è..." Mio padre telegrafò da Piacenza, promettendo in due parole d'arrivare per una brevissima licenza. "Adesso che l'esercito ha di nuovo tutto in mano, magari lo faranno generale... Purché la smettano con questa guerra!, la gente è stufa... Come fanno a non accorgersene, a Roma?" fu il commento di Caterina. Mia madre leggeva più di un giornale, da cima a fondo, cercando di capacitarsi in tanto garbuglio di novità quotidiane. Seduta a cucire, all'ombra, mentre Caterina sbucciava mastelli di frutta da ridurre a Giovanni Arpino
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marmellata, la carne nelle vaste braccia ondulante nel mio sguardo affascinato, era sempre piena di notizie ricavate dalla carta stampata e dalla radio, le recitava l'una in fila all'altra con diversi stupori, dolenti esclamazioni. Certe volte l'ascoltavo per una mezz'ora e non mi riusciva di riemergere affrancato dalla schiuma di tante enormità, erano nuvoli che mutavano colore, forma, consistenza, erano balbettii che intuivo galleggiare su un qualcosa di più rude e diverso, e che nessuno era così bravo da ordinarmi davanti nella sua fisionomia vera. Raccontate dalle donne, apparivano immiserite e ridicole persino le storie della Russia sanguinosa e ghiacciata, così indecifrabile nel mio atlante, solo un vasto ventre giallo e slabbrato, con pochi nomi, poche vene di fiumi... E tutti quei morti, quel rimbombo, questa terra incapace a reggerci... Mussolini rapito era una povera, vergognosa favola, con ghiribizzi baggiani senz'aria di avventura, gli americani in Sicilia non mettevano terrore o mistero, ma quasi una specie di inspiegabile, vistosa allegria. "La buonanima del padrone l'aveva sempre detto..." commentava Caterina in risposta a quel diluviare di novità: "...Mai mettersi contro l'America. Quelli sono ricchi, bruciano il caffè e il grano quando ne hanno troppo. Figuriamoci noi poveri cristi, bisognava esser teste calde come Mussolini... Però anche il re!, prima se ne è servito, poi lo mette alla porta! Non sono gesti da uomini, figuriamoci se sono gesti da re..." Li vedevo, gli americani intenti a bruciare grano e caffè, a lastricare chilometri di strade scaricando sacchi di caffè verdognolo, e ne sentivo l'odore di ricchezza affumicata e spessa, di manna piovuta dal cielo. E vedevo i russi che tra neve e fango non s'erano piegati nel rispetto di quei carri armati tedeschi irti di mitraglie, e li avevano schiantati a migliaia, come un tempo i cavalli e i cannoni di Napoleone, e ora i carri affondavano nel ventre giallo di quella pianura senza nomi, dove le lettere della parola "Mosca" giacevano incredibilmente minuscole... A mezzogiorno, quando Francesco, Caterina ed io, naso all'aria, guardavamo le innumerevoli formazioni di apparecchi nemici nel cielo di perfetto azzurro, mia madre si portava tutte e due le mani alle tempie, sfregandole leggermente, senza più l'ardire d'una parola. "E noi con quelli li volevamo fare i prepotenti..." diceva Caterina enumerando con cura le dozzine di aerei che avanzavano in precisi, inalterabili triangoli, brillando minuscoli: "Altro che dettar legge in Giovanni Arpino
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Abissinia... E c'è stato chi batteva le mani alla guerra... La gente credeva di finirla in un mese, di diventar ricca... Adesso ci castigano..." Discutevamo se gli apparecchi erano partiti da una portaerei tra Sardegna e Sicilia oppure dai campi dell'Africa, e se facevano maggior danno le bombe da cento chili sganciate a grappoli o quelle enormi da mille chili. "È lo stesso! Tanto caca un bue come cento rondini..." strillava Francesco. "Malparlanti!" protestava Caterina: "Ridono, loro..., ridono come due macachi... Tutto il mondo si strappa i capelli e loro credono d'essere alla fiera..." Noi ci rotolavamo contenti sotto le acacie, inventando a squarciagola parole americane inesistenti, congetturando sul parabellum russo, sugli australiani che andavano ubriachi all'assalto. "Chissà cosa gli danno da bere..." rifletteva Francesco: "Anche i nostri nel '15-18 li riempivano di vino e di grappa prima di uscire dalle trincee. Mio padre l'avrà raccontato mille volte..." Il colonnello inviò un secondo telegramma, non sarebbe arrivato prima di settembre. E Caterina ebbe un sospiro di sollievo, non le andava di mostrarsi in agosto agli occhi di mio padre nel pieno dei suoi via vai dalla casa al mercato, con un carretto di pesche o le teste dei polli a grappolo fuori della sporta. "Sarebbe capace di levarmi il saluto..." poteva ridere rivolta a mia madre: "Gli sembrerebbe di far la figura del pitocco, anche se lui con la campagna non c'entra, essendo solo il genero della buonanima..." E mia madre annuiva rassegnata, ogni giorno cedendo di più alle esigenze paesane di Caterina, che avrebbe venduto i piedi del letto per mettere da parte un po' di soldi, un po' di sostanza. Alla sera sedevano con il registro dei conti sul tavolo, sommando le grame lire ricavate dalla vendita delle pesche, sottraendo dalla confusa colonna dell'"avere" i conigli scambiati con qualche chilo di farina. Nel registro era già segnato il pianoforte ceduto a un mobiliere, e che mio nonno aveva suonato con due dita, in certe sue ore notturne, volando e inciampando per arie d'opera e liquidi valzer, stillanti nel silenzio del giardino. "L'affezione che portava a quel piano!" non tratteneva un sospiro Caterina: "... Che tempi!, sembrano passati già cent'anni... Quei pranzi, quello spreco... Mai niente che bastasse... Dunque: bisognerebbe Giovanni Arpino
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comperare i tubi nuovi per la stufa. Se quest'inverno si dovrà vivere barricati qui dentro..." "L'inverno qui?" si spaventava subito mia madre: "In queste bocche di lupi? Ma che vita ci toccherà ancora! Finirà pure..." "Non finirà come due più due fa quattro... Tutti mettono da parte e si preparano al peggio..." non desisteva Caterina: "E poi basterà riscaldare due stanze. Dormire al freddo è tutta salute. La neve per uscir di casa la sbadilerà Stefano, ormai è un uomo..." Stentavo a richiamarmi il colonnello dinnanzi agli occhi. A fatica, quasi ostinandomi in un gioco astratto di memoria, cercavo di collocarlo nel suo ufficio, in caserma, tra le chiacchiere della sala da pranzo del Circolo Ufficiali, e poi in piazza Cavalli o per le acide stradine che portavano al nostro alloggio. Ma era un esercizio inutile, la scacchiera perdeva i contorni, ogni mossa sprofondava nella nebbia. I pigri flussi del ricordo avevano resa torbida la fisionomia dell'intera città, mischiando immagini di scuole, oratori, cortili e viali, come in un mazzo scombinato: e ora anche mio padre, benché lo pedinassi di continuo, non mi balzava incontro come un uomo vivo, era soltanto la spoglia muta ed estranea di una persona che i grandi fatti di quel tempo travolgevano, riducendola e distanziandola, appena un punto microscopico, casuale, su una mappa infinita, mobile, animosa, che l'occhio non riusciva più a contenere. Crescevano giorni nuovi, mugghiando, gonfi di un'aria eccitata: prima di addormentarmi, alla sera, mi confondevo a correre, precipitarmi ad occhi aperti in un universo veloce, dove le braccia carnose e mature di Caterina, gli australiani ubriachi all'assalto con l'elmetto di traverso, le fortezze volanti come splendidi insetti in migrazione si arruffavano nel gomitolo delle cose quotidiane, il coniglio braccato tra le fascine, il solco tra le piantine di pomidoro che succhiava acqua assetato, il letto cigolante e la corsa mia e di Francesco dal cortile fino alla nicchia indiana tra le foglie d'acacia, di dove miravamo con gli archi al nemico, belva o uomo, annidato oltre le ortiche... Quest'universo non era uno spazio vuoto e senza echi, ma una foresta intricata, viva, una popolazione di fatti e presenze e sostanze, e insieme era l'urlo che il domani mi mandava incontro, uno squillo tremendo ma a tratti gravido d'una gioia che penetrava la pelle. Ero incredibilmente felice, e non potevo dirlo. Giovanni Arpino
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Mi sentivo i denti acuti e pronti di un animale cacciatore, una giovane volpe rossa di due anni, finalmente alle soglie di un mondo da scoprire e far suo. Un ordine s'era spaccato, ed io sbilanciato ma ancora più all'erta e febbrile godevo nell'esaminarne qualche sparso frammento, soffocavo dalle risa ricordando il primo verso di una poesia che non potevo più percorrere fino in fondo. Kennst du das Land wo die Zitronen blühen?, sillabavo diecine di volte senza smettere, quasi cantando, e mi rotolavo sul guanciale davanti a questo rudere ormai indecifrabile, secca orma d'un tempo che m'era sprofondato alle spalle. Balzavo al di là di ogni residuo di memoria, al di là dell'immagine stessa di mio padre, correndo verso la foresta, il mistero, l'ora infine scoccata... Al mattino, svegliandomi, guardavo immobile il soffitto. C'era un cielo già scrostato con erbe lungo i margini, impedite ad avanzare verso il centro della cupola. E c'era un rozzo putto dalle gote gonfie che cercava di nascondersi tra quelle erbe, in un angolo. Mi pareva impossibile che altri giorni dovessero trascorrere vedendomi li, ancora fermo, tra quei muri che invece avrebbero dovuto gonfiarsi e volar via, perdersi tra i grandi richiami che il tempo andava sollevando dappertutto... Mai più gli avrei risposto: comandi!... e ancora, cercando di immaginarlo a Piacenza, o forse in viaggio per raggiungerci, la minuscola pistola stretta al fianco, i perenni guanti in mano, mi concentravo in uno sforzo inutile, incattivito e subito disposto ad afflosciarsi, rinnegarsi. Fu quindi un urto grave, una scarica sinistra nelle vene, quando lo rividi, e non era più lui, il colonnello, ma quasi un bruco pesante, diverso a se stesso, uscito a forza da un bozzolo ormai ossificatosi e diventato inutile custodia. Non c'era stato bisogno di Caterina per capire o affastellare notizie su quei giorni di settembre, i soldati della IV Armata in fuga, dilagando per la pianura cuneese dopo l'annunzio dell'armistizio mostravano a tutti il volto e i brandelli di un'Italia angosciata, boccheggiante in cerca di pace e riparo, gli occhi vuoti del cane randagio. Erano diecine di migliaia di uomini, isolati o in branchi sgomenti, chi ridendo perché abile a spiegarsi nel dialetto locale e in corsa verso paesi poco lontani, chi smarrito e ansioso di sapere di treni, di chilometri da percorrere, dei tedeschi prossimi o occulti, nemici. C'era chi reggeva una forma di formaggio o un grappolo di fiaschi, tre coperte, qualcuno trascinava ancora il fucile, altri sostavano sulle spallette dei ponti, ai bivi Giovanni Arpino
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polverosi dei sentieri di campagna, non sapendo più decidersi a nulla. Dal carico che ogni uomo reggeva sul dorso o nello zaino o in enormi improvvisati fagotti si poteva capire con facile pena la sua condizione. L'artigiano aveva sottratto alla caserma finimenti, selle, gli ottoni di una mensa ufficiali, il contadino scatole di carne e un certo tozzo badile, chi aveva raccolto in un telo da tenda pantaloni e camicie, chi s'ostinava alle prese con un mulo restio. Ognuno cercava di fuggire l'incendio e lo sconquasso con una provvista somigliante, che gli potesse valere come bagaglio, salvacondotto, merce di scambio e garanzia. E, tra gli altri, chi procedeva per i selciati dei paesi e le stoppie dei campi senza reggere nulla, solo nella sua giubba sbottonata, le mani in tasca, la barba non rasa, lo si intuiva più povero, pastore o pescatore o manovale vagabondo di lontane province che al momento del disperato e miserabile saccheggio non aveva saputo dove metter sveltamente le mani e perché... Le stalle di campagna occultavano cavalli e muli, i cumuli dei pagliai si imbottivano di fucili e munizioni, i girovaghi delle giostre e dei tirassegni che in quei giorni sostavano sulle piazze e ai bordi dei paesi per le tradizionali feste di fine estate, barattavano panni borghesi, biciclette, un vecchio mantello, con bestiame, binocoli, quarti di carne congelata dai grandi timbri violacei nel grasso... Lo smarrimento, unito al selvatico desiderio di trovar scampo e all'antica povertà, toglieva pudore alle parole, ai gesti. Nei cortili, vecchie contadine già bollivano nei grandi paioli di rame le divise, le coperte militari, tingendole in nero, in blu, sugli angoli delle strade si contrattavano materassi, reti metalliche di brande, cesti di pane raffermo, sacchi di formaggio provolone, senza onta o remora... Ognuno fuggiva con i suoi cenci e le sue piaghe in vista, come un malato buttatosi da un ospedale, tra le fiamme, che non si lascia più fermare e corre sventolando le bende, ignaro degli occhi inorriditi che lo guardano, e spandendo all'intorno la sua aria putrida... Ogni tanto, a un crocicchio, l'auto di qualche grosso ufficiale dalla mano che sollecitava isterica il conducente, si faceva largo nella polvere, ruggendo alto il motore, carica di valigie e involti tenuti con corde dal muso fino alle ruote posteriori, spariva veloce..., e talora un giovane sottotenente si lasciava in mostra, abbandonato sulla panchina d'un viale per lui estraneo e come vuoto, con gli occhi arrossati, la divisa in disordine, la pistola d'ordinanza infilata di traverso nella cintola dei pantaloni. "E' la fine del mondo..." ripeteva Caterina. Giovanni Arpino
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Mia madre aveva distribuito pantaloni e camicie, vecchie maglie e cartocci di frutti, ogni mattina scriveva un espresso a Piacenza sottolineando due volte le righe dell'indirizzo. Caterina scendeva di corsa, ansimando, fino al cancello sorvegliato dai due cani di grigia pietra corrosa, appena udiva il primo tocco della campana. Non voleva che alcuno salisse sino in cortile, non allentava più la catena che teneva uniti i due battenti di ferro del cancello, in ogni volto già cominciava a scorgere un nemico. "C'è chi ringrazia, ma se qualcuno invece spara?" si giustificava, dolorosa: "Con la cattiveria e il si-salvi-chi-può che c'è in giro... Se invece di una camicia vogliono nascondersi qui? Siamo tutte donne, con questi due maccabei che non hanno un briciolo di buonsenso... Altro che guerra finita... Dicono che i tedeschi sparano, che sono già ad Asti, a Torino..." E riprendeva a insistere per i tubi della stufa. Durò lunghissimi giorni quell'agonia, ogni tanto con un sussulto nervoso nuovo, per un carro armato tedesco visto e sparito in piazza, per un treno in sosta forzata nella pianura, che subito era parso gremito di ufficiali e soldati fatti prigionieri a Torino. Si assisteva immobili a tutto, come ai piedi di un moribondo che manda i suoi odori e i suoi gemiti, lentamente ripetendoli per ore, solitario tra gente che lo guarda e non sa cosa fare, anch'essa sola e divisa. Tornavano antiche paure, i contadini si scambiavano notizie prima di scendere in paese, si rifacevano alle inutili esperienze dei padri, testimoni delle gesta tedesche durante la prima guerra mondiale, donne belghe trafitte a baionettate, e i gas e la fame... Ma soprattutto ciascuno pareva avesse gran bisogno solo di restringersi attorno alle proprie ossa, alla visione dell'unico giorno che si andava vivendo e che bisognava portare alla fine. Le umili, intoccabili necessità quotidiane, entro le quali ci si voleva considerare al riparo e nel giusto, assolti, sembravano ai più l'unico schermo da opporre a tutto quel sanguinoso frastuono. Grande soddisfazione nostra era il maiale. Aveva superato agevolmente i settanta chili, avrebbe di certo raggiunto il quintale in novembre. Ogni sera, irsuto e greve com'era, bisognava sospingerlo a quattro mani attraverso il cortile per costringerlo a rientrare nella stalla. Dall'inferriata della sua cucina, la madre di Francesco ci guardava, affannati attorno alla bestia riluttante. E persino mia madre diceva: "Non ficcategli le dita nel grasso, sennò il Giovanni Arpino
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lardo si sciupa..." Di notte, alle volte, lo sentivamo gridare e rotolarsi, pieno di salute e di forza. Lui soltanto poteva mettere di buonumore Caterina, che gli distendeva gli orecchi quant'eran lunghi, gli accarezzava il ventre, i lombi, chiamandolo traditore e unico beato, sola creatura senza fastidi a questo mondo... L'intratteneva pacatamente, al mattino, reggendogli la ciotola sotto il grugno, pronta a complimentarlo e incoraggiarlo ad ogni sorsata di semola. Agli espressi e poi a un telegramma nessuno da Piacenza aveva risposto. Ma un pomeriggio suonò la campana al cancello. Non erano sbandati in cerca di frutta o di abiti, solo una vecchia di conoscenza, che mormorò a Caterina d'aver visto due uomini seduti nel fosso lungo la collina dei peschi. Uno le era parso il colonnello, ma non aveva avuto il coraggio di rivolgergli la parola. Era il colonnello. Come abbandonato su se stesso, così lo vedemmo arrivare sotto i tigli a fianco di Caterina, la barba lunga, in stracci e lurida la divisa, senza più il berretto, vuota la fondina della pistola. Si lasciò abbracciare, ma quasi senza rispondere, e a Caterina che gli si era messa intorno per slacciargli i gambali, il cinturone, incredibilmente non disse niente, la lasciò fare. Restò seduto, privo di parola, un bicchier d'acqua in mano, annuendo a tutte le domande di mia madre sulla salute, la riuscita del viaggio. Al fondo del cortile era intanto apparso un altro uomo, un meridionale piccolo e storto, infagottato in pantaloni militari e una giacchetta blu dalle maniche troppo lunghe. Non osava farsi avanti e solo Caterina riuscì a cacciarlo seduto su una panca in giardino, sorridente e spaurito. Il colonnello dormi un giorno intero e quando riapparve era già diventato più greve, allentato, come febbricitante nei gesti, il pallore delle guance pareva essersi incupito per il veleno di un qualche misterioso succo interiore. Fu il piccolo soldato a raccontarci, in faticosi risucchi di memoria, la vicenda di quei giorni. Il colonnello, solo, aveva aspettato i tedeschi nel cortile della sua caserma. In piedi in mezzo a quel quadrato di polvere, con tutte le medaglie sul petto, la sciarpa azzurra dalla spalla destra al fianco sinistro, la sciabola nel fodero, la divisa nuova dai gradi lucenti, aveva atteso per Giovanni Arpino
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ore sotto il sole di quel giorno di settembre. Durante la notte precedente e fin verso il mattino, il reggimento, rimasto chiuso in caserma per quarantott'ore in attesa di ordini, aveva sfondato la guardia dei pochi ufficiali decisi, s'era volatilizzato, cucine e camerate e uffici a soqquadro, la sola armeria intatta. Dopo, anche gli ufficiali erano spariti... "Capite, signora?" raccontava il soldato ogni tanto bevendo un sorso d'acqua e menta: "... Io sono di Aprigliano, proprio quasi addosso a Cosenza, che ci facevo a scappare? Sono rimasto. Prima in sette, poi tre, poi io solo... E lo vedevo il signor colonnello, dal magazzino viveri... Proprio due mesi fa m'aveva promesso di tirarmi in casa come attendente..." Giunto in caserma, il colonnello Illuminati l'aveva trovata deserta, quel mattino. S'era provato a telefonare, come già per tutto il giorno precedente, al comando di divisione, al comando di zona, ad altre caserme, alla polveriera militare... Dovunque gli aveva risposto il silenzio, o voci estranee, di soldati dispersi, forse saccheggiatori. Allora, bruciate alcune carte e una vecchia bandiera da sempre posta in un angolo dell'ufficio, rivestita la divisa nuova tenuta fino a quel giorno nell'armadio, appuntatevi le medaglie, s'era deciso ad attendere il poi in cortile, immobile nel sole. Aveva anche rialzato alcuni grossi vasi di mortella posti accanto all'androne d'ingresso, certo rovesciati dai fuggiaschi, e aveva abbassato l'asta della porta carraia, per un minimo d'ordine negli occhi. Si irrigidi udendo la macchina avvicinarsi. Ne uscirono tre soldati tedeschi e un graduato, che entrarono di corsa nel cortile coi mitra puntati. Ma, vedendolo, rimasero fermi al limite di quel quadrato al sole, e stupefatti fecero correre gli sguardi ai grandi finestroni allineati lungo i muri, come temendo un agguato. Poi il graduato salutò e indicò l'auto fuori. Il colonnello rispose al saluto, ma prima di muoversi volle sfoderare la sciabola, e una, tre volte tentò di spezzarla sul ginocchio stringendola tra le mani guantate, non gli riuscì e allora la fece rabbiosamente roteare lontano. Si strappò quindi le medaglie e le gettò nella polvere. Si avviò alla porta senza più rispondere al saluto dei tre soldati fermi accanto ai vasi di mortella. "E qui cominciò una vita!" s'agitava a raccontare il soldato di Aprigliano: "Perché scappai subito anch'io, e non sapendo dove andare mi portai alla stazione. Li era pieno di ufficiali e soldati catturati dai tedeschi, Giovanni Arpino
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presero anche me e mi caricarono su un treno, dove rividi il signor colonnello... Un giorno e mezzo il treno rimase bloccato a tre chilometri dalla stazione. Tutti chiedevano acqua, e solo un casellante osava ogni tanto portarcene un secchio, si sentivano anche sparare dei colpi... Ma il colonnello mai disse una parola, mai alzò la testa dai ginocchi. Gli camminavano sui piedi!, e lui nemmeno si voltava a guardare, Gesù! Io credevo che pensasse a qualche pazzia e stavo attento, poi mi presentai, gli dissi chi ero, agli ordini, disponesse... Lui mi riconobbe, mi fece bravo, bravo..., ma mai mi chiese niente... E come riuscii ad arrangiarmi con un poco di pane, mi fece solo cenno di tenermelo..." Dal treno avviato a Bolzano, alcune diecine di ufficiali e soldati, sfondate tre porte, riuscirono a buttarsi, e fu il soldato di Aprigliano a spingere nella schiena il colonnello e scaraventarlo per la scarpata, di notte. Dispersi, camminarono ore per la campagna, senza una parola, riuscirono poi, a una stazioncina quasi vuota, a imbarcarsi su un treno che impiegò due giorni per raggiungere prima Alessandria, poi Asti... "Pure un impermeabile gli avevo trovato!" concluse il soldato: "Ma come dirglielo? Avrei dovuto mettergli le mani addosso e prendergli il portafoglio per pagarlo, e come osare? Lui comperò i biglietti del treno, questo si, e dopo mai più disse parola... Io sempre in piedi nel corridoio, tenendolo d'occhio, ma in piedi per scoprire se alle stazioni c'erano tedeschi... Anche i borghesi avevano paura a vederci... Qualche santo ci ha tenuto sicuramente la mano sulla testa, sennò come sarebbe riuscito ad arrivare fin qui ancora coi gradi sulle maniche?" Caterina aveva approntato una stanza in solaio, ma l'uomo vi si fermò solo due giorni. Gli era presa idea di un parente da anni a Settimo Torinese, e con qualche lira e un abito borghese si decise a raggiungerlo. Il colonnello Illuminati non usci dalla sua camera per salutarlo, e quando l'uomo insistette a gridargli un addio di sotto la finestra, sono Deddeo, signor colonnello, io vado!..., gli rispose, da dietro le persiane, buona fortuna a te... "Devo andare a Piacenza, far subito il trasloco... Tutta la mia roba, la mia singer, le sue divise, il mio servizio d'argento..." si torceva le mani mia madre. Lo ripeté per giorni, finché decise, e lui non si curò affatto di trattenerla. Miracolosamente, due settimane più tardi, un vagone ferroviario stipato di mobili, materassi, pile di seggiole, risalì dondolando la strada di Giovanni Arpino
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campagna. E scaricò in cortile, uno sull'altro, anche i vecchi bauli, le cassette di foggia militare, che avevo sempre visto riempire e svuotare durante innumerevoli traslochi, da Alessandria a Piacenza, a Pola, a Novi, di nuovo Piacenza... Il servizio d'argento era arrivato prima, nella valigia di mia madre. "La mia testa, la mia testa..." diceva lei soltanto, aggirandosi tra i mucchi di mobilia smontata, avvolta in sacchi e paglia, tra casse e cesti, piegandosi a scrutare i nodi d'una corda, la tenuta di un lucchetto. "Non c'è più bisogno di tubi nuovi per la stufa, quelli li sono ancora buoni..." commentò Caterina dopo aver ben studiato tra le masserizie in cortile. Principiò così un tempo violento e assurdo. Tutto ciò che accadeva, incendi e massacri attorno a Cuneo compiuti dai tedeschi per rappresaglia, e le sparatorie notturne, le notizie paurose e crudeli che s'accavallavano nella giornata, in casa s'ammosciavano, private d'ogni senso di commento, di fronte al colonnello. Aveva cominciato una sua vita chiusa, escludendoci dal giro dei suoi pensieri, dalla sua volontaria e segreta vecchiaia. Messe in ordine le divise nel baule in solaio, con le rivoltelle e il binocolo, sistemati i libri in un apposito armadio, usciva dalla sua immobilità solo per un'occhiata al giornale, per accostarsi un attimo alla radio all'ora dei notiziari. Ma qualunque cosa leggesse o ascoltasse, ecco che subito precipitava stecchita contro il suo silenzio di pietra. "Non doveva succedergli un destino simile..." cercava di rendersi conto mia madre, sottovoce muovendosi per la casa coi passi e i gesti di chi sa d'avere un malato al piano di sopra: "A lui, proprio a uno come lui!, che voleva andarsene in Africa... Meno male che quella volta mi sono impuntata... A lui che per re ed esercito avrebbe fatto carte false..." "Così rigido e dover sopportare anni come questi..." rincarava Caterina: "Meno male che non siamo uomini... Nascere donne certe volte è una fortuna... Ma non si avrà una bella vecchiaia, ormai..." Francesco mi chiamava dal cortile ogni volta che aveva una novità sui tedeschi, bruciamenti di case, su strani e confusi scontri a fuoco svoltisi attorno a Cuneo tra tedeschi e borghesi italiani ribelli. "E tuo padre? Che fa? Non va contro i tedeschi?" mi domandava. Non sapevo cosa rispondergli, vedevo il colonnello seduto su una panca a fumare senza muover gli occhi intorno, prigioniero di una riflessione Giovanni Arpino
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continua a cui la realtà che veniva accadendo non poteva togliere o aggiungere. "Quanti anni ha?" cercava di capire Francesco. "Cinquantacinque..." rispondevo vergognandomi un poco. Ma in certi giorni ne dimostrava dieci, venti di più, le braccia incrociate, il passo pigro, riluttante a dirigersi verso il giardino o rientrare in casa. E qualche volta lo sorprendevo a guardarmi mentre passavo svelto con una carriola di legna da ammucchiare in quadrato al riparo d'una tettoia o con un cesto d'erba per i conigli. Mi fissava allora senza una parola, e distoglieva infine lo sguardo come per staccarsi da un'immagine sgradevole, subito da cancellare. Tutte le povere cose della giornata, e parole e lavori, li svolgevamo a distanza, per non risvegliarlo all'attenzione, quasi desiderando che il tempo si consumasse a sua insaputa, senza intaccarlo. "Un ambizioso come lui, che ci vede lavorare come contadini!" proseguiva l'eterna giaculatoria di Caterina: "... Si capisce che non gli va giù... Ma è colpa nostra? Non vuol mettersi in testa che è già una grazia d'Iddio essere vivi, oggi..." Mia madre non le rispondeva neppure, anche lei accanita soltanto più a sommare i minuti atti quotidiani, cuocere e rammendare, tener conti e rattristarsi perché ogni cifra, ogni previsione e controllo non dimostravano che i nuovi progressi dell'indigenza stretta in assedio attorno a noi, alla vigna troppo vecchia e con scarse uve, alla frutta di nessun valore, al borsellino che viveva di centesimi... Il colonnello dormiva solo, scendeva a tavola in ritardo, durante i pomeriggi se ne stava rinchiuso in un salotto a finestre sbarrate, ogni tanto facendosi vivo con un raschiar di gola. E Caterina passava dalla pazienza a una sorda irritazione contadina nei confronti di quella forza e autorità sprecate: "... Siamo tutte donne, e lui che dovrebbe comandarci neanche ci guarda o porta interesse... Non fosse che sono in questa casa da trent'anni...". "Renditi conto!" cercava di acquietarla mia madre. "Si capisce che mi rendo conto!" sgranava in risposta Caterina: "Ma non fa rabbia un uomo così? A cinquantacinque anni, nel pieno delle forze, e in un momento in cui tutti dovrebbero tirarsi su le brache... Farebbe girar la cuffia a una santa! Noi dormiamo e lui scende di notte a rimetter ordine nei Giovanni Arpino
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cassetti delle posate, a lavare la bottiglia del vino in cucina, come se io fossi una zingara o la capintesta degli sporcaccioni... Poi noi ci alziamo, ci sono mille cose da fare, e lui invece dorme, nessuno lo vede più... Mica si pretende che lavori, solo che ci stia dietro, che difenda anche lui l'interesse... Se Iddio vuole non mi sono mai voluta sposare, bei pasti sono i matrimoni... Ma è anche perché siamo così mal fatti che il mondo non funziona e Nostro Signore si rifiuta di guardarci..." I segreti che legavano me e Francesco ora non erano più ilari e gonfi d'aerea sorpresa come nei primi anni di guerra, ci eccitavano ma in modo cupo e pauroso. Le notizie sanguinose, i fatti che precipitavano torvi a confondere la nostra gracile cognizione del mondo non succedevano lontano, da inseguire e inventare con la forza della fantasia, erano già a pochi passi, erano i contadini impiccati nel cortile di una cascina nei boschi, proprio dietro le nostre colline, era un operaio di conoscenza che pareva essersi fatto bandito sanguinario, erano le spie fasciste che battevano le strade del paese, penetravano nelle case, consegnavano ai tedeschi gli uomini nascosti nei solai, nelle cantine. Erano i ragazzi di dodici o tredici anni come noi, che apparivano con le divise mimetiche e i teschi sul petto, in testa a esigue e nere colonne di militi fascisti irti di mitra. "Ne ho visti almeno tre che non mi arrivavano alla spalla!" si disperava Francesco: "E avevano le bombe a mano, quelle col manico!, avevano lo sten..." "Ma combatteranno o li terranno in caserma quando ci sono gli scontri?" riflettevo. "Combattono, sparano, si ubriacano... Potessimo prenderne uno e portargli via tutta quella roba di dosso... Allora sì che potremmo chiamarci col nome di una banda..." "Noi due?" "Prova a rubare una pistola a tuo padre!" ripigliava lui: "E poi la banda la nominiamo subito! Anche noi due soli... Altri ne verranno, ma bisogna intanto combinare qualcosa, così ci si fa conoscere... I fascisti cominciano a tutte le età, e allora perché noi no?" La nicchia tra le acacie era l'unico posto dove riuscivamo a sottrarci per qualche mezz'ora a Caterina, sempre lesta a inventare nuovi lavori. "Però: d'accordo!, la teniamo mezza giornata per uno..." concludeva Francesco. Giovanni Arpino
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"Non sarà mai come avere le bombe col manico e i mitra! Dovremmo scappare, andare coi fascisti e tornarcene indietro carichi delle loro armi..." lamentavo. "Dici così solo perché hai paura di prendere la pistola del colonnello..." si rabbuiava lui. Non era paura, solo quel senso di vuoto, di breve vertigine, che prende quando si è al punto d'abbandonare il ramo dopo essersi dondolati a lungo coi piedi in aria. Capivo di dovermi staccare, era ora, e intanto seguitavo nell'ultima altalena... "Vedrai se la piglio!" finivo per arrabbiarmi e strillare: "Aspetta e vedrai..." E così accadde. Era già dicembre, un inverno gelido con poca neve. Le reti metalliche apparivano coperte d'una brina ghiacciata, i sentieri risuonavano sordi nelle rughe di terra indurita e crostosa sotto le scarpe. I conigli in cortile sporgevano coi musi dal riparo delle fascine aspettando un po' di fieno, un po' di crusca, qualche ramo secco da sbucciare in un rapido arruffio di corpi. A volte, in una piena ora del giorno, mai verso sera, mi precipitavo di corsa fino al viale, al cunicolo, dove il groviglio delle ortiche, benché nudo, pareva massiccio come una barricata di filo spinato, e mi fermavo un attimo a guardare, parendomi incredibile che li sotto giacesse sepolto un uomo. Nella memoria restava esatto il quadro del tedesco ansimante e avanzante, di me con la pistola, poi col badile..., e non sapevo per quali forze e virtù m'era successo di trovargli così remota e immobile collocazione al fondo di me. Un'unica cosa mi stupiva : il silenzio che senza fatica ero riuscito a mantenere nei confronti di Francesco, come se nessuna gloria o piacere avesse potuto venirmi da una così grande confidenza. Tutto pareva nuovamente preso in un lento giro, vita e lontani accadimenti risultavano senza eco, e nei discorsi persino Caterina rimandava certezze e dolori alla nuova stagione. Caoticamente studiavo un po' di latino, pungolato da mia madre che ritrovava un'ombra di quiete quando mi vedeva piegato sul tavolo con un quaderno e un libro davanti. "Dovrai dare l'esame di due anni in una volta!" mi sollecitava seguitando a cucire: "Mettiti sotto, sennò arrivi a giugno senza saper più leggere..." Giovanni Arpino
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Accanto al fuoco, le gambe distese, mio padre fissava la fiamma, una corta pipa spenta in bocca, la giacca di cammello che aveva perso forma ai gomiti, e sulle spalle. A volte, dopo aver a lungo raschiato alla porta, il cane riusciva a farsi aprire e sedeva di fronte al colonnello. Restavano a studiarsi per ore, immobili, ognuno con un suo sottile ansito in gola. Qualcosa, in un modo solitario e quasi nascosto, il colonnello l'aveva tentato: come costruire una nuova cuccia per il cane, inchiodando a triangolo certe tavole, o avvolgere con un poco di paglia due o tre alberelli in giardino, al centro di un'aiuola, per proteggerli dal gelo. Ma subito s'era ritirato da quelle imprese con maggiore amarezza, per rincantucciarsi nuovamente davanti al fuoco a sonnecchiare, a schiudere ogni tanto l'occhio sorpreso e incattivito su Caterina, entrata dalla cucina per dire una parola a mia madre o malaccorta nell'accostare il battente dell'uscio che la divideva dal soggiorno. In seguito, il colonnello Illuminati parve scoprire un certo interesse in un angolo dell'orto, dove s'era messo in capo di crescere una ventina di piante di tabacco. Aveva smosso il terreno con una leggera zappa da giardiniere, l'aveva protetto con un telo. Ogni volta, era rientrato in casa, verso sera, a medicarsi accigliato le minuscole, infinite escoriazioni inflittegli dal lavoro. Da una scatola di metallo estraeva allora garza, alcool, cotone, tutta una serie di cerotti, e nettava e bendava i polpastrelli irritati, rigonfi, le unghie ferite. Infine il tabacco aveva portato al sole le sue foglie d'un verde appena appena tiepido. Subito colte, ingiallirono, umide e rugose. Il colonnello le aveva tritate, in parte, ma i trucioli erano risultati puzzolenti nella pipa. S'era dato allora a un nuovo esperimento, le liste sottili erano state messe a bollire con l'aggiunta di qualche cucchiaino di miele, finché n'era derivato un impasto muffoso, incapace a trattenere il fuoco. L'insuccesso aveva ribadito nell'uomo la consapevolezza per una rinunzia necessaria, definitiva. Dalla sua rigida poltrona di fronte al camino, a me non rivolgeva quasi la parola, né pretendeva di vedermi indaffarato con qualche occupazione salutare come spaccar legna, o con lo studio. Gli andavo e venivo davanti in silenzio, sempre sospettando un richiamo imminente, una domanda, e invece mi lasciava correr via, dalla cucina al cortile, dai libri a Francesco. Rarissime volte s'era lamentato con mia madre, approfittando d'un mio momento d'assenza, e sempre in modo astratto, di rinunzia. "Tuo figlio..." le aveva detto. Giovanni Arpino
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"Dice tuo come se lui non c'entrasse!" si confidava mia madre in cucina, desolata: "E tuo figlio ha fatto questo e tuo figlio non ha fatto quest'altro... Perché non si rivolge a te? E perché tu, anche tu, Stefano!, non hai mai niente da dirgli? Dopotutto è tuo padre... Cerca di capir qualcosa... Non sei più un bambino!" Mi sentivo allontanato, o come presenza inquietante o come non riuscito riflesso di lui, e ne ricavavo, tra i dubbi, almeno un senso concreto di indipendenza. Ma talvolta, quando udivo mia madre e Caterina ridere sottovoce per chissà cosa, in cucina, provavo anch'io un gelido senso d'irritazione, sentendomi respinto non soltanto dall'atmosfera immobile, funerea, che dominava la casa, ma anche da quei rari momenti di smemoratezza e buonumore che le donne consumavano da sole, di là, ignare e perdute in un ricordo di cui non mi volevano partecipe. A quei suoni di voce, il colonnello opponeva un raggrinzirsi delle palpebre socchiuse, un brivido sdegnoso dei tendini lungo la gola, raddoppiando le difese del proprio tetro abbandono. "Sa qual'è la sua unica malattia? Che non può più comandare, ecco tutto!" giudicava Caterina nel suo ininterrotto borbottio:"... Abituato a far correre il prossimo, a metterlo sull'attenti!, adesso che non ha più nessuno sotto, è come un gatto senza le unghie..." Tuttavia, malgrado il peso dell'enorme accidia che l'aggravava e gli rendeva lentissimo anche il semplice gesto di stendere la mano a sfregare un fiammifero contro le mattonelle abbruciate del camino, lui era riuscito a fabbricarsi una sua divisa mentale, che solo un'occasione venuta da fuori avrebbe potuto in parte rivelarci. Successe in uno di quei pomeriggi ghiacciati, di cielo bianco lattiginoso, di rami stecchiti al culmine dei tigli attorno alla casa. All'improvviso, davanti alla porta, si profilarono le ombre di tre uomini, che neppure il cane era riuscito ad avvistare. Certo dovevano aver scavalcato la rete di cinta in qualche punto, il cancello essendo sprangato. Il più vecchio dei tre, dai baffi già bianchi, l'aspetto gentile e quasi allegro dietro le lenti, confabulò un attimo con Caterina, e il colonnello solo dopo un suo lungo pensiero si rassegnò a farli accomodare. Mia madre lasciò la macchina per cucire, io i libri sul tavolo, e riparammo in cucina, dove già sul fuoco riscaldava la caffettiera con l'orzo. La voce del vecchio era spigliata, gli altri due tacevano, il colonnello pareva ascoltare in gran silenzio. Giovanni Arpino
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"Sono partigiani!" sospirò mia madre: "Ci giurerei... Non le ho mai viste queste facce, forse vengono da Cuneo... È pronto il caffè?, almeno vado a versarlo di là, così li guardo meglio... Sono partigiani, lo vogliono con loro, o Signore..." Corsi fuori a chiamare Francesco. Ma quasi subito li vidi tutti e quattro inaspettatamente in cortile, forse per rendere più segreta la conversazione. Passeggiavano lentamente sull'erba strinata dal gelo, mio padre con una sua vecchia mantella tirata fino al mento. E negava, con brevi continui cenni del capo. Più il vecchio dagli occhiali infittiva il suo discorso, ora allargando le braccia, ora con una mano che s'alzava a tagliar l'aria o improvvisa sostava come religiosamente sul petto, più il colonnello ripeteva i suoi secchi cenni di no, e si inchiodava a fissare un punto lontano, appena un'ombra di freddo sorriso sulle labbra. Non riuscivo a notare gibbosità sotto i cappotti dei due uomini più giovani, forse non erano armati, o forse avevano soltanto una semplice pistola in tasca, macché mitra e bombe... Li guardavo dal portico, attento, e i loro fiati si rapprendevano densi e veloci nell'aria. Un lungo minuto restarono silenziosi, quasi distraendosi l'uno dall'altro, i più giovani accanto al recinto dei conigli, il vecchio con gli occhiali come aspettando una parola, che il colonnello, rigido dentro la mantella, lo sguardo perso, non avrebbe mai detto. Bruscamente si divisero con un'improvvisa stretta di mano, e i tre s'avviarono verso la strada. Ma uno dei giovani si voltò di colpo con uno scatto irritato, forse per tornare dal colonnello che li guardava immobile. Subito il signore con gli occhiali lo fermò afferrandogli il braccio, lo spinse via senza rispetto alcuno, due passi avanti giù per la strada... Dalle poche frasi udite, o levate con le tenaglie al marito, mia madre era riuscita a penetrare la proposta che il vecchio aveva rivolto. Avrebbero voluto il colonnello con loro, in un grosso comando partigiano, avevano persino accennato al suo atteggiamento di fronte ai tedeschi in caserma, pochi mesi prima... Ma il colonnello aveva sempre risposto no, solo no. Lui, oltreché comandare, aveva anche e soprattutto appreso a obbedire, così ricostruiva mia madre riempiendo i vuoti della conversazione, decifrando più tardi parole risultate incomprensibili..., e solo l'uomo che sa a chi e per cosa deve obbedire può assumersi una responsabilità di comando. Questo come principio... E poi, la vera questione: non c'era re o Giovanni Arpino
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principe tra quegli uomini che combattevano coi mitra sotto i cappotti, come banditi, si dilungava mia madre reggendosi la tempia, e quasi infervorata... : e il colonnello mai avrebbe potuto associarsi a borghesi, a irregolari, a gente che combatteva in nome di idee strane, forse rispettabili, chissà!, ma fumo, parole, ecco un'altra delle parole famose che adesso arriva a farsi smerciare, come ieri fedeltà... si, la libertà!, ma libertà da chi, da cosa, per far cosa, e poi quale libertà? Un uomo che sa di essere stato tradito dal suo stesso re, può solo dire no a tutti, ormai, anche all'idea della libertà che gli altri gli verniciano sotto gli occhi... La loro libertà cosa potrebbe procurare di meglio a lui, di meno confuso... Nomi, date, e Garibaldi, i re piemontesi, quel '48, i fratelli Bandiera, e i nemici tedeschi..., erano corsi nella conversazione. Potevo immaginare il tono con cui il colonnello aveva pronunciato la parola libertà, con una doppia "b" centrale soffiata in gelido sprezzo... E forse fu in quel momento, durante la cena di quella sera, con lui a capotavola impenetrabile dietro le palpebre, che m'accorsi della sua misteriosa vecchiezza, taciuta agli altri e definitivamente occupata a districare momenti, occasioni, fatti, dalla totale confusione che investiva ormai anche il tempo perduto, anche i dolci caffè gustati nelle nitide notti libiche con stelle grandi come fiori, anche la fuga ripetuta, riuscita, dalla fortezza ungherese durante la prima guerra mondiale, anche i segni bluastri delle ferite giudicate degne di racconti onorevoli..., questi ricordi così bene ordinati, valorosi persino nella loro onesta povertà, e ora in fondo a un pozzo da rovistare alla cieca, e che ripresi in mano si svelavano ingannevoli, falsi da sempre, sprecati... Forse fu proprio in quel giorno che decisi di dover fare qualcosa, ma subito, un balzo, una fuga, rapidi a liberarmi da quei silenzi che spegnevano la vita, dai libri di latino sul tavolo, dalle lunghe parabole dei giorni che si ripetevano uguali senza raccogliere una scintilla dei grandi impeti che tuonavano ovunque. "Domani o dopodomani, scappo..." dicevo a Francesco in cortile: "E se vieni anche tu, quando siamo via giuro che ti faccio una confidenza da toglierti il fiato..." Francesco batteva un piede nella neve, sbuffando. "E dobbiamo andare lontano, Milano o anche più in là, non qui attorno, sennò il colonnello ci ripesca subito..." gli spiegavo. "E cosa fai in una Milano, senza soldi, senza conoscere..." ribatteva lui. Giovanni Arpino
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"I soldi li ho, li prendo a Caterina, non pensarci! Di' solo se vieni o non vieni..." Si stringeva nelle spalle, riflettendo, gli zoccoli a tormentare la neve indurita. "Dicessi Cuneo, dicessi dei partigiani di Alba, di Torino..." borbottava: "Ma Milano, che c'entra..." "Alba, Torino!" mi arrabbiavo: "Posti dove il colonnello ci ritrova dopo due giorni! E poi: partigiani o no, cosa importa? Cominciamo ad andarcene, sennò tutto finisce e noi saremo ancora qui a far erba, a spalare la neve, a farci comandare dalle donne..." "D'accordo, ma Milano..." "Milano per dire! Vuoi Genova? Per me è lo stesso..." rispondevo con furia: "Purché lontano... Del resto quei tipi della farmacia dove porti il latte ti metterebbero coi partigiani? Prova a chiederglielo, sentirai come ti prendono in giro..." "Ti metti a fare il gallo con me?" insorgeva Francesco. "Deciditi: sì o no!" lo minacciavo: "Io qui non resto. Una mattina o l'altra..." "Mangio un cane se scappi, proprio tu!" strepitava Francesco: "Riprendi la pistola al colonnello, poi ti dirò il mio si o il mio no..." Il giorno dopo Natale, in quell'anno, infilai un biglietto nel tovagliolo di mio padre e senza più una parola di confidenza a Francesco, con emozione e cruda felicità, presi il treno per Alessandria e Milano, deciso a combattere. Dopo Alessandria bevvi le sei uova che avrei dovuto consegnare alla professoressa da cui prendevo lezioni di matematica, e mangiai una pagnotta. Poi mi chiusi in un angolo dello scompartimento tenendo ben strette in pugno, al fondo della tasca, le cinquanta lire sottratte al portamonete di Caterina. Ero certo che la fame di uomini avrebbe senza sforzo persuaso qualche comando fascista ad accettarmi, malgrado l'età. Potevo benissimo attribuirmi quattordici, quindici anni, i ragazzi che avevo visto in divisa mimetica e col mitra non erano alti e grossi come me. Coi fascisti era certo più facile, avrei avuto il mitra subito... E mi vedevo col nero di quell'arma in mano, ne saggiavo mentalmente il peso, la poderosa consistenza... Tutto ormai stava per succedere, precipitare velocissimo e irresistibile secondo il desiderio a lungo covato: l'arma dalla canna bucherellata, dal caricatore pieno nella mano sinistra, già riempiva Giovanni Arpino
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ogni vuoto della coscienza, respingendo le ombre... E gonfio di una sostanza che finalmente riusciva a scorrermi nelle vene, avventurosa, esaltando il ritmo del cuore, già mi arrovellavo al pensiero di una seconda fuga obbligata, se per caso m'avessero assegnato non a un reparto combattente, ma a qualche odiosa brigata di spie, o di militi alle stazioni... Sarei allora tornato con mitra e bombe, Francesco si sarebbe deciso a tentare con me, e subito avremmo trovato posto in una banda partigiana, a Torino, a Cuneo... Il colonnello non poteva non capire: avevo lasciato trascorrere in pace persino il giorno di Natale, apposta per non rattristarli, perché si rendessero meglio conto del mio atto... La sera era come la bocca d'un lupo fuori dei finestrini del treno, quasi vuoti gli scompartimenti e il corridoio, a tratti grossi nuvoli rasentavano rotolando i vetri incrostati di ghiaccio lasciandovi sporche gocce di polvere di carbone. Ero ansioso ma saldissimo entro il riparo dell'avventura ormai cominciata e che volevo assicurarmi lunga, completa. Fantasmi di piccole stazioni sparivano nel buio, e durante una lunga sosta in aperta campagna mi parve che il treno giacesse rinserrato tra due lunghe pareti cieche, senza fine. Poi riprese a muggire, stridendo, e nei fiotti neri del vapore vidi fulminar via miriadi di scintille. Arrivai a Milano nel viluppo rumoroso e annerito di gente accovacciata lungo i marciapiedi sotto le gigantesche tettoie della stazione, stravolta dai bombardamenti. Folate di nebbia si rinchiudevano in aloni azzurri attorno alle lampade. Qualche tedesco e coppie di fascisti armati presidiavano un ingresso, un convoglio. Altri militi sedevano al riparo di strette trincee, sbarramenti di sacchetti di sabbia, fumando, i baveri dei cappotti tirati oltre il mento. Non alzavano neppure gli occhi sulla gente perduta in un labirinto di itinerari, e camminando lungo la banchina, indeciso, più volte dovetti forzarmi a pensare che proprio nessuno si sognava di guardar me, nessuno poteva aver in mente di venirmi incontro e interpellarmi all'improvviso con qualche minacciosa domanda. Non osando uscire dalla stazione, mi ritirai nel caldo animale d'una sala d'aspetto gremita di gente sdraiata fino all'estremo lembo d'ogni panchina. Accanto ai piedi, sui ginocchi, sotto la testa, ciascuno aveva stabilito un contatto coi propri miseri involti, borse, valigie... Sull'ultima bancarella in movimento c'erano certi biscotti scuri, dall'aspetto legnoso, ma vi rinunziai Giovanni Arpino
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domando la fame che mi gelava lo stomaco. Dopo aver rovesciato contro il muro un cestino di carta straccia, sedetti a dormire, e a ondate di sonno greve, senza coscienza, interrotto ogni tanto dal mesto rimuoversi dei fantasmi rattrappiti nella penombra, rimasi li finché fu giorno. Era un uomo altissimo, magro, dalla faccia scavata, già vecchio dentro il cappotto consunto. "Forza..." mi ripeteva senza guardarmi: "Ci salti sopra e via... Se qualcuno ti corre dietro, mi ci metto di mezzo io..., su, muoviti che ci facciamo un po' di lire..." Eravamo in una piazzetta sghemba, quasi vuota, a ridosso del Duomo, e quell'individuo, dopo avermi offerto un caffè, per la terza volta cercava di persuadermi a scappare con la bicicletta abbandonata da qualcuno contro lo spigolo d'un portone. Avrei dovuto aspettarlo, dopo la fuga, in un altro slargo, che m'aveva descritto a non più di cinquecento metri di distanza. L'uomo arricciava le labbra nervose sui denti, fisso alla bicicletta, respirando in un sibilo. "Non staremo qui tutta la mattina..." riprese come lamentandosi: "Dai che è uno scherzo... Adesso il caffè l'hai preso, il freddo t'è passato... E allora?" Sentivo i rumori alle spalle, al banco del bar, e non sapevo come fare. In un angolo quasi buio, due vecchi posavano con ritmata lentezza le carte sul tavolo, senza una parola. "Sarà l'unica in tutta Milano senza lucchetto... Tu sei lesto, vero che sei lesto? Salti su ed è prima finito che detto..." L'avevo incontrato a un comando della guardia repubblicana fascista, dove un graduato ci aveva indirizzati a un'altra caserma. Là avrebbero potuto arruolarci tutti e due più facilmente. Usciti dal comando, l'uomo aveva insistito per quel caffè, dal bar aveva scoperto la bicicletta contro il portone. Mi spinse sulla spalla costringendomi a uscire. Mi avviai per la piazza, adagio, ma quando fui davanti alla bicicletta, voltandomi e ridendo gli indirizzai un gestaccio, lui là che mi guardava dai vetri scuri del bar, e subito corsi, a perdifiato per una stradina. Dopo pochi minuti entrai sotto un lungo portico e finii in piazza del Duomo. Seguitavo a voltarmi temendo che m'arrivasse d'improvviso alle spalle, poi decisi di raggiungere subito la caserma, dove forse anche lui si sarebbe diretto. Giovanni Arpino
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Descrissi l'uomo e le sue intenzioni a un ufficiale, in quella caserma posta a un crocicchio di viottoli pantanosi, all'estrema cinta della città. Sacchetti di sabbia occultavano a metà porte e finestre, una voce sbraitava nel cortile. Sul tavolo, l'ufficiale aveva pile di vecchie carte polverose, ma il mitra subito lo scoprii, abbandonato in uno scaffale sopra altre scartoffie. L'uomo giocava a scacchi, da solo, la faccia ombrosa piegata a scrutare la disposizione dei pezzi contrapposti. Ogni tanto aveva un tremito come di febbre, ma quando alzava gli occhi a guardarmi riusciva ancora a sorridere con un lampo di allegria. E tossiva. "E così non hai preso la bicicletta..." ripeteva muovendo con delicatezza una pedina dopo averla tenuta un attimo sollevata, in dubbio: "Bravo, bravo... Abbiamo bisogno di ragazzi come te... Hai quindici anni... Bene, bene, so io dove mandarti..." Sorrise stringendo le palpebre, la camicia nera lo rendeva più pallido, lo sospettai malato, uno che non gliene importa niente di morire. E ogni tanto l'occhio mi sfuggiva al mitra posato sulle scartoffie, lucido. "... Torinese, sei il primo che mi capita di questi tempi... Il posto che ci vuole per te è la Decima. Sai cos'è la Decima Mas? Belle divise!, due battaglioni andranno al fronte tra poco. Tutti ragazzi... Se la spassano, mentre qui si marcisce... Senti: aspetta fuori, ti faccio avere un foglio di via... Hai soldi?" Accennai di no. "... Beh..." storse la bocca deluso: "In cinque o sei ore sei a La Spezia, e là non avrai bisogno di soldi... Aspetta fuori..." Rimasi nel corridoio, le voci che strepitavano in cortile erano più d'una, adesso, un milite mi passò davanti in gran disordine, canticchiando sbadato. Anche i muri apparivano scrostati, e un puzzo arrivava in zaffate improvvise, da qualche angolo che non riuscii a individuare. La voce più forte in cortile, bestemmiando crudelmente, era riuscita a sopraffare le altre. Un lontano, altissimo vetro inquadrava un angolo della caserma, tetti sfondati sotto il cielo d'un grigio minaccioso. Qualche ora dopo ero di nuovo alla stazione, neppure un giorno intero avevo passato a Milano, il treno per La Spezia si avviò lentissimo, faticoso, attraverso una campagna ammuffita dalle nebbie. Stringevo in tasca le cinquanta lire, contento d'essere riuscito a spendere solo pochi centesimi, il treno gremito era di compagnia anche se la gente, seduta spalla contro spalla o in piedi nel corridoio, giaceva ostilmente silenziosa, Giovanni Arpino
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di continuo rincalzando i panni contro il freddo. Mi addormentai e, svegliandomi, vidi un uomo e una donna davanti a me che mangiavano, sbocconcellando pane e pezzi di pollo freddo. Tenevano i cartocci sulle ginocchia e masticavano con calma, senza una parola. Il pollo aveva unto l'involucro di carta, e ogni suo osso veniva accuratamente raccolto in un pezzo di giornale. "Vuoi?" disse l'uomo porgendomi il cartoccio. Intatti, c'erano ancora il collo e un'ala. "Su, prendi..." Era un uomo tarchiato, con grossi baffi e uno sguardo placido. Anche la donna sorrise annuendo convinta. Mangiai triturando con attenzione gli ossicini del collo, i due borbottavano sottovoce, alla fine la donna tirò fuori tre mele dalla borsa e a forza me ne mise una in mano. "E adesso dormi di nuovo? Complimenti..." rise l'uomo quando mi vide riaccomodato contro il legno del sedile, il bavero del cappotto fino agli orecchi. Anche l'altra gente dormiva nella penombra, sbattuta e storta qua e là, il freddo gelava piedi e ginocchi, si arrampicava con acuti brividi tra le scapole. Qualcuno, sfilata una scarpa, aveva raccolto un piede sotto il sedere, coppie in confidenza avevano allungato reciprocamente i piedi sotto i cappotti, costruendo una barriera di gambe tese e infagottate attraverso lo scompartimento. Il dondolare del treno nelle gallerie riuscì ad addormentarmi per lunghissimo tempo. "Cos'era quella carta che hai dato al controllore? Un foglio di via, vero? Dove vai?" domandò più tardi l'uomo sottovoce. "La Spezia, mi arruolo..." dissi. "Ma quanti anni hai?" "Quattordici, quasi quindici..." L'uomo ebbe un'occhiata con la moglie, poi riprese a sonnecchiare. Un gran buio, e un freddo più sottile, a raffiche tese tra lunghi attimi che si afflosciavano invece senza più un alito, ci accolse a La Spezia. Tra il sonno e il nero della notte non ero quasi riuscito a vedere uno spicchio di Genova, stazioni e voci erano fuggite senza che la coscienza arrivasse a percepirle, solo durante una lunga galleria i balenii del mare scurissimo m'erano apparsi tra gli archivolti che foravano la roccia. L'uomo del pollo aveva posato a terra i suoi fagotti, cominciò a parlare sussurrando, come in sospetto. Giovanni Arpino
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"Vieni a dormire da noi... Questa è mia moglie... Mangi, dormi, e domani avrai tutto il tempo per arruolarti..." La donna annui, guardandomi pacifica. Negai, imbarazzato ma senza esitazioni. "Vieni, così parliamo un poco... Sono un ex-sergente d'aviazione... Dammi retta... Sei scappato di casa, eh? E non li hai quattordici anni. Ho occhio, io..." Il vento roteava fischiando sotto la breve tettoia della stazione, spingeva la gente sollevando le falde dei cappotti, qualche marinaio correva con le mani affondate in tasca, il muso avanti. Il treno era già ripartito, faticoso, in rauchi sbuffi di vapore. "Senti..." riprovò l'uomo. "E lascialo stare! Non vedi che non ne vuole sapere? È tardi, dobbiamo sbrigarci..." uscì di colpo la moglie chinandosi a riafferrare i fagotti. "Su, prendi..." aggiunse, e mi ficcò svelta in mano un'ultima mela. Li vidi allontanarsi piegati dai bagagli, nel buio lucido della stazione. Un'altra volta riparai nella sala d'aspetto, era minuscola e gelida, ma vuota, mangiai la mela e corsi a bere un caffè caldo, in gran fretta per non perdere il vantaggio di una panchina bene appostata, dove restai a lungo disteso senza più riuscire a riprendere sonno. Qualche treno ancora sbuffò, oltre un muro si accesero e poi tacquero risate, voci, forse di ferrovieri, o di militi. Una lanterna mi cacciò in piedi, molto più tardi, ma alla pattuglia apparsa alle spalle del globo giallognolo bastò che mostrassi il foglio di via. Se ne andarono battendo con forza gli stivali per riscaldarsi. Al mattino mi tirai su come acciecato e spento per il sonno che mai ero riuscito ad afferrare completamente. Ma subito il fortissimo vento per le strade corresse la sonnolenza e i dolori causatimi dalla panchina. Nuvole correvano via stracciandosi in un cielo cupo. Poi vidi il mare, arricciolato e sporco lontano, sordido attorno a qualche livida lamiera di nave rovesciata tra i moli. Il porto appariva lurido, tra rugginosi arti in abbandono, un gigante morto che la rigidità cadaverica costringe, tra ginocchi inchiodati, leve nelle braccia, pinze di dita, a giacere orribilmente scomposto. La caserma era lontana, quando la raggiunsi mi sentii nuovamente stanchissimo, con la fame che m'aveva infilato una molla nello stomaco e ogni tanto la torceva più stretta. "Macché esame della vista!" urlò un medico in divisa dal fondo dello Giovanni Arpino
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stanzone: "...Via, via! Questi ragazzi sono tutti belli e sani... Forza, muoversi... Falli rivestire, qui non conta neanche la sifilide..." E l'infermiere ci spinse fuori, noi ultimi arrivati in corsa disordinata verso il magazzino. Le divise erano di panno buono, nuovissime, la piega rigida lungo il calzone a sbuffo. Il basco era anch'esso nuovo, lo si portava su un occhio o respinto al fondo della nuca. Nel fardello che ci riempiva le braccia, tra la coperta i maglioni la gavetta e le calze non c'erano mitra o altre armi, solo un corto badile da zappatore. Di corsa attraversammo di nuovo il cortile, sotto il cielo minaccioso, tra le agavi che nella ghiaia resistevano ai morsi del vento. Si cominciò così, con solo uno spettro d'adunata, qualche giro di corsa o di marcia attorno al cortile, al mattino. Il centinaio di marò raccolto in quella caserma era composto da ragazzi robusti, veneti o lombardi o emiliani, i più anziani in ordine di servizio erano arrivati li da trenta giorni al massimo. Passavamo le ore trasferendoci con rancorosa pigrizia qua e là, o nella cantina che serviva da spaccio o sdraiati sulle brande ad aspettare l'ora del rancio. Non c'erano trombe a suonare, né ordini del giorno, un tenente barbuto raramente s'affacciava allo spaccio, un sergente si divideva tra noi e qualche suo lavoro in ufficio, certe vecchie donne in tuta azzurra ramazzavano tra le brande, alla mattina, rispondendo a bestemmie e cornate a chi di noi avanzava proposte oscene o satire sul loro pelo grigio. A mezzogiorno e alla sera, ognuno si accomodava a mangiare dove gli pareva comodo, seduto su un gradino o ai piedi della branda, in cortile o allo spaccio. I maccheroni nella gavetta erano rossi e poco salati ma caldi, se ne potevano avere a volontà, le donne in tuta li rovesciavano a grandi mestoli, a loro volta approfittando del momento per insultarci dalla porta delle cucine, ridendo. Il vento batteva e rimbalzava in cortile, fischiando come sul ponte d'una nave, scricchiolava sordo tra le braccia gommose delle agavi. Lontano e a volte impercettibile era il rumore del mare. Ogni tanto il sergente, guizzando inferocito fuori della sua stanza, afferrava tre o quattro marò, li muniva a forza di rastrelli, costringendoli a riordinare e risistemare la ghiaia in cortile. Ma poco dopo ecco i rastrelli che giacevano nuovamente abbandonati, e lo stesso sergente, dietro i vetri del suo bugigattolo, li guardava, qua e là sulla ghiaia, con occhi vuoti. La mia branda era sotto un finestrone che raccoglieva spifferi crudeli e anche la prima luce del mattino, un lievitare di grigi perenni, spruzzati dai Giovanni Arpino
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venti e dai colori delle piogge, a raffiche o in minuta, appiccicosa nebbia. Ai lati avevo due giovanetti meno alti di me, ma già sui sedici anni, anch'essi volontari. Portavano medagliette al collo e scrivevano a casa molto spesso, mi prestavano il rasoio con cui tentavo di spuntare a filo le basette. A volte erano allegri, entusiasti, brillanti negli occhi mentre nominavano il fronte, i mitra in arrivo, Mussolini, e a volte giacevano in silenzio sulle brande con le mani incrociate sotto la nuca. Ma sempre con un occulto buonumore, un'animalesca pace dentro, perché si ritenevano non solo valorosi ma fortunati, mai avrebbero sperato in tanta bella vita sotto le armi. S'assomigliavano come fratelli, benché Paolo fosse di Udine e Riva venisse da Como. "Ehi, scappato di casa..." mi domandava Riva: "Ma tu non scrivi mai a nessuno? Non stai bene qui? O sei pentito..." Non ero pentito, solo in preda a uno straordinario sbalordimento, vittima di un'opaca febbre che m'impediva di lasciarmi andare completamente tra le cose, i compagni, come sarebbe stato necessario... Subivo senza fastidio le tacite regole comuni e il ritmo quotidiano, ma a testa stralunata, privo di rimorsi ma anche dell'allegria, dell'eccitazione che avevo ritenuto certe... E se Paolo e Riva mi parlavano di Mussolini, dei mitra usciti finalmente dai depositi dopo che i disfattisti li avevano tenuti nascosti per anni e anni di guerra..., potevo annuire senza un pensiero, cosciente solo di dover star zitto, di non lasciarmi mai stupire o impestare da niente, e con una spina acuta di sospetto, che lo smalto vitale sognato non mi riusciva di scoprirlo, non arrivava a giustificarmi li dentro... Tutto era pallidamente lontano: gesti e discorsi, anche gli insulti e gli improvvisi scoppi d'ira tra ragazzi rivali, colavano come un liquido lento, indefinibile, lungo i muri di un pozzo senza risonanza, e nero, incrostato... In certi attimi mi rendevo conto che persino la vecchia caserma di Piacenza, così lucida fino all'ultima gobba di corridoio e all'ultima maniglia, era luogo meno ammorbato di quel rettangolo chiuso tra muretti crostosi, di quel cortile dove i marò si trascinavano ognuno nel suo particolare disordine vagabondo, attendendo la sera, gli incontri oltre i cancelli con prostitute che s'udivano strillare e insolentire nella notte... E tuttavia mi pareva di dover sperare ancora nell'improvviso elettrico tumulto capace di dar fuoco in un attimo a tanta attesa. Mi pareva che da un minuto all'altro potesse scattare furibonda e visibile quell'accelerazione che, sola, avrebbe mutato la vita da un distendersi supino e sonnacchioso in una impresa cruenta, velocissima, Giovanni Arpino
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senza respiro... Niente e nessuno, invece, sopraggiungeva a toccarci: pochi gli ufficiali, e lontani, presi in certi loro andirivieni misteriosi, nelle latrine le vecchie in tuta seguitavano ad arruffarsi strillando, sbattendo le scope contro le avversarie e i ragazzi accorsi ai litigi. Qualcuno aveva già disertato, scomparso con divise e coperte, persino col materasso, non si sapeva se pentito o pauroso o solo perché ladro, altri gridavano di voler passare subito a una brigata nera, a un reparto della milizia fascista, che si fantasticava armato di armi nuovissime. "... E tu, scappato di casa, non dici niente?" domandava Riva: "Perché stai qui? Per i maccheroni due volte al giorno?" "Non è un fascista, sono giorni che te lo ripeto... Non parla, non si sa cos'abbia nella zucca... Non è un fascista..." aggiungeva Paolo squadrandomi con sospetto. Ma subito si dimenticavano di me, e riprendevano i loro quotidiani discorsi sulle armi, sul corso di ragioneria abbandonato, su cosa avrebbero fatto dopo aver respinto gli americani fino in Africa... Coricato tra loro due, mirando al soffitto largamente macchiato d'umidità, inerte tra le voci che mi scavalcavano domandando, rispondendo e ridendo, mi pareva talora di dover pensare al tedesco sotto le ortiche, mi sforzavo di ricordare, di mettere assieme un nocciolo concreto di riflessione nell'ondulante vuoto che mi riempiva il cranio... Ma neppure un filo di commozione riuscivo a raggiungere, o un trasalimento, e anche l'immagine di Francesco, certe sue avverse parole, o i profili di mia madre, del colonnello, vivevano e muovevano oltre uno schermo di sordità che favoriva quel mio giacere sdraiato e insensibile, le giunture pronte a mettersi in azione solo al comando istantaneo che regola lo sgambare, il torcersi di un pupazzo. Le ore gocciolavano eterne e il rumore dei fatti previsti e risanatori non voleva raggiungerci. Forse quell'attesa era stata studiata appositamente, perché di tutti noi messi insieme risultasse, dopo tanti giorni di accidia, vuota prepotenza, belluino abbandono, un impasto di identico sapore, senza differenze o asperità personali, un bruto fascio di braccia sane e dimentiche... Il tenente barbuto metteva la testa tra i battenti dello spaccio, a volte, e lanciava un urlo d'evviva pavoneggiandosi con qualche bomba a mano rimbalzante da un palmo all'altro, molti ad alta voce lo giudicavano un ubriacone, cacciatore di sottane e paracadutista fallito. Lo invidiavano Giovanni Arpino
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solo per le donne, che nessun altro, uscendo di sera in città, riusciva ad avvicinare. "Ehi, torinese, anche stasera vai in branda? Vieni, ci pensiamo noi a farti entrare in un bordello..." mi invitava Riva, già pronto all'uscita mentre Paolo studiava attento nello specchietto la giusta angolatura del basco sulla fronte. Ma non osavo mettermi in giro per la Spezia con quella divisa, mi piaceva solo se me la guardavo in segreto dal petto all'ingiù, se mi specchiavo nel vetro d'una porta. Era una soddisfazione fisica che però avrei avuto vergogna a mostrare agli altri, borghesi sconosciuti fuori... Me ne restavo nella camerata silenziosa e sempre più buia, a immaginare Paolo e Riva a spasso, invidiandoli per le loro voci prepotenti che riempivano la città, le sale e le scale dei bordelli che ora cercavo di inventarmi, dai pizzi delle donne a ogni gesto, a ogni colore e odore sentito descrivere. Persino la fotografia, in quella divisa, m'ero negato, benché ogni giorno s'aggirasse in cortile un ambulante col treppiede e il telo nero, indaffarato non solo a inquadrare busti e gruppi di marò, ma anche a comprar roba, a far scambi, estraendo e occultando ogni sorta di merce in un suo losco paniere. Sulla branda, a notte e solo, ricostruivo un'altra volta, con avidità e sgomento, l'assalto che certi marò ventenni avevano compiuto ai danni di due prostitute stazionanti appena fuori della caserma. Le avevano spogliate e abbandonate nude nel freddo notturno, erano tornati in camerata con indumenti sventolanti, borsette, scarpe di sughero prese a calci tra le brande, gridando furiosi e sazi. Quelle due donne pareva si fossero rifiutate di ripetere certi evviva fascisti, subito i marò s'erano vendicati. Paolo era quasi venuto a pugni con Riva, discutendo il fatto, non avendo Riva apprezzato molto l'impresa. Gli indumenti femminili erano rimasti a lungo inchiodati sopra le brande, le vecchie in tuta avevano subito fatto sparire le scarpe di sughero. I mitra avrebbero dovuto darceli già l'altra settimana, ma non ci sono gli ufficiali, non c'è più un porco di ufficiale in questa repubblica... Forse ce li daranno la prossima domenica, forse partiremo lunedì, no, un altro sabato, per il campo d'addestramento, tra gli Appennini, macché Appennini, a Bergamo, invece... Verrà anche Mussolini quando ci consegneranno la bandiera di combattimento... Se non viene meglio, cosa che ne facciamo di Giovanni Arpino
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un duce sifilitico, non ha la sifilide, ma l'ulcera!, meglio Graziani comunque, Graziani si che è un uomo, gli abissini lui li impiccava, in Africa, ne ha impiccati sempre troppo pochi... L'importante è che si costituiscano questi battaglioni e ci diano i mitra, un po' di bombe, qualche camion e si parta per il fronte, i tedeschi ce l'hanno promesso... Qui si sta marcendo... Non vedo l'ora che si sia ad Anzio... Notizie e commenti scattavano nervosi per ammosciarsi subito come il fuoco lungo un filo di lana, fiamma e di colpo una nera coda di puzzo e cenere. Molti dei marò ventenni avevano frequentato per un paio di settimane un corso di paracadutisti, qualcuno era arrivato quasi alla vigilia del primo lancio, poi l'armistizio di Badoglio!..., e rimpiangevano quel tempo, ora cucivano sulle maniche piccoli paracadute colorati fuori ordinanza, oltre al leone di San Marco. Facevano gruppo a parte, sfoderando improvvisi coltelli dalle tasche, pugni di ferro che saggiavano contro il muro, dopo avervi infilato le dita, sino a scheggiare in profondo la calce, denudando il rosso vivo del mattone. Al di sopra delle brande erano questi segni e anche i battenti delle porte mostravano lunghe ammaccature provocate dalle nocche d'acciaio. I ventenni uscivano tutti insieme alla sera e tornando, se erano riusciti a far rissa in qualche caffè o in un bordello, brandivano in alto trofei, sempre indumenti femminili stracciati, un berretto da marinaio, una lobbia nera, una volta un elmetto tedesco, e minacciavano in branco gli assonnati che sollevando la testa dalle brande cercavano di ottenere silenzio. Per dispetto si abbandonavano a tarda notte a cantare l'inno della Decima che cominciava mordendo rabbioso, "San Marco, san Marco, cosa importa se si muore..." e finiva in certe note lunghe, ormai affaticate. Poi, il silenzio, l'impeto del vento fuori e la pioggia che rodeva i muri picchiando funesta. Un mattino arrivarono due camion in cortile, con due soldati tedeschi al volante, il tenente barbuto raccolse quanti marò riuscì a stanare dai letti, dallo spaccio, dalle latrine, ci spinse urlando bestemmie sui camion che presero a dondolare per una strada verso il mare. Avevamo il nostro corto badile, e su una spiaggetta deserta, fattici scendere, il tenente gridò che si doveva costruire una trincea, prima un fossato nella sabbia e quindi un parapetto di pietre sovrapposte. Sarebbe stata un'ottima esercitazione e insieme un utile baluardo contro eventuali sbarchi nemici. I tedeschi avrebbero pensato loro, più tardi, a infossare davanti alla trincea i reticolati e gli ostacoli di cemento. Giovanni Arpino
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La spiaggia era stretta tra due profonde, rugose colline senza alberi, la roccia affiorava tra il verde avaro dei cespugli. E ii mare era una lamina d'acciaio davanti a noi. Tuttavia la conca, protetta dal vento, lasciava indovinare una sua bellezza, ora sepolta dall'assenza del sole. Cominciammo a scavare nella sabbia appena umida, i corti badili ci obbligavano a stare eccessivamente chini, i due soldati tedeschi passeggiavano fumando da un camion all'altro. Divisi in squadre contrapposte, di malavoglia grattando coi badili, dopo un'ora avevamo svuotato un fosso leggero, profondo forse trenta centimetri. "Basta adesso, che scavino anche quei due... Ma che razza di gente siamo?, muratori, manovali?, ci manderanno ad Anzio a far la guerra coi badili?..." gridavano già più voci e anche il tenente fu d'accordo. Ora non restava che cercare le pietre, ammucchiarle davanti alla trincea, e ci sparpagliammo tutti, ogni tanto raccogliendo qualche pietra meno piccola delle altre, lanciandola al di là del fossato, nel tratto di sabbia tra la linea scavata e il mare. "Ci sono pietre li?" si gridava e sghignazzava da ogni parte, ridendo. Qualcuno, seduto, fumava occultando la sigaretta nel cavo della mano. Altri si erano spinti fino a pochi metri dalla riva e gareggiavano a lanciar sassi lisci, rimbalzanti due o tre volte sul pelo dell'acqua. Anche il tenente fumava, accucciato sui talloni e fissando con faccia scura i camion tedeschi, i due soldati che seguitavano il loro tranquillo andirivieni. Poi: "Risalire sui camion..." gridò. E prese a fischiare con triplici trilli in un suo aggeggio, per raccoglierci inquadrati. I due tedeschi fecero cenno di no, il lavoro non era terminato, bisognava erigere quel parapetto. "Non ci sono pietre, non vedete che non ci sono pietre?" cominciò a urlare il tenente correndogli proprio sotto gli occhi: "Al volante, si torna indietro..." I tedeschi negavano, rossi in faccia, indicando il parapetto mancante. Rifiutarono di salire sui camion. "Vi ammazzo!" urlò fortissimo il tenente e agitava nel pugno chiuso una minuscola bomba a mano: "Noi vogliamo sparare, non siamo i vostri facchini... Vi ammazzo, vi sbatto in mare se non salite subito sui Giovanni Arpino
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camion..." Ci eravamo addossati gli uni agli altri, rumoreggiando in un coro cupo, un ventenne subito avanti a tutti col coltello che gli vibrava in mano. Ma i due tedeschi già s'affrettavano a risalire, e dopo una mezz'ora di viaggio sbalordito e furente sbarcammo in caserma. L'intera giornata la si trascorse disputando attorno all'episodio, molti difendevano i tedeschi che solo dopo nuovi grandiosi fatti di valore e di lealtà da parte nostra avrebbero potuto ricominciare a fidarsi, alcuni sostenevano che era ora di far la voce grossa con quegli alleati pronti solo a metterci il piede sul collo. Anche Paolo e Riva si trovarono in disaccordo, e solo quando si riprese a parlare dei mitra, del loro arrivo imminente, la tensione si allentò. Alla sera il tenente non si affacciò allo spaccio e tutti furono lesti e concordi a immaginarlo in qualche bordello di La Spezia, a smaltire la rabbia e la paura. "Non avete visto che gli tremavano le gambe? Tutta scena: davanti aveva solo due soldati imbranati... Si vedrà col mitra chi ha del fegato, lo si vedrà contro i partigiani..." "Quali partigiani..." "Non sai cosa sono i partigiani, fesso? I banditi, i comunisti, i borghesi pagati da Badoglio... Col mitra li aggiusteremo noi, al fronte si arrangino i tedeschi... Noi siamo truppa speciale, reparti speciali..." "Però Mussolini ha detto che noi, ad Anzio..." "Macché Anzio! Lotta antipartigiana, questo ci toccherà... Allora non sai proprio a cosa serve il mitra..." Venne notte e solo un ufficiale nuovo, la pistola infilata non nella fondina ma direttamente nella cintola, riuscì a vuotare lo spaccio. Era un sottotenente dallo sguardo nero, sospettoso, la mano fissa sul calcio della pistola, come aspettasse solo l'occasione di puntarla. Sgomberammo lo spaccio risalendo in lento tumulto la scala, per scoppiare poi in altre discussioni fuori al buio, finché l'ufficiale riapparso in cortile con la pistola subito spianata, urlò di riparare immediatamente nelle baracche. Riprendeva a piovere, e nei giorni successivi il tenente barbuto apparve solo di lontano, forse era stato destinato a un altro incarico, forse l'avevano messo a sedere in ufficio. I mitra seguitavano a farci parlare per ore. Si disputava sulla scarica che non poteva risultare mortale se sparata a più di venti metri di distanza, e Giovanni Arpino
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anche questo doveva persuaderci che l'arma era tipica per le azioni di guerriglia. Chi aveva tenuto un mitra in mano almeno una volta, da allievo paracadutista, si compiaceva a descriverlo con minuzia, atteggiando le braccia, sventagliando la raffica mentre gli si piegavano le ginocchia, abilmente e lentamente ruotando, oppure si rifiutava ad ogni domanda, scuotendo con superbia la testa come davanti a una scolaresca immeritevole. Finché una notte il sottotenente allucinato entrò urlando tra le brande, la pila accesa in pugno, e ci cacciò in piedi, a vestirsi in un minuto, uscire subito ciascuno col suo badile, bisognava risalire una collina dove i partigiani pareva avessero assalito un posto di blocco e forse incendiato una casa. Divisi in tre squadre di venti uomini l'una, dopo una corsa in camion attraverso la città buia, attaccammo per diversi sentieri la massa oscura delle colline. Non udivamo che il nostro respiro, il sentiero era erto, con improvvisi sassi taglienti, e affondando nel nero di radi alberi, tra brevi gole immote sotto un cielo senza stelle, pareva di inoltrarsi in un vuoto infinito, ciascuno solo col suo badile, distinguendo a malapena la schiena del compagno che gli camminava davanti. La prima squadra, col sottotenente armato di mitra, era accorsa al posto di blocco attaccato, le altre due dovevano scavalcare all'intorno le colline e rientrare in città due ore dopo. Riva camminava dietro di me, Paolo forse era stato preso dal sottotenente. Andavamo avanti adagio, soffiando, nel buio compatto, e dopo varie curve del sentiero anche il lontanissimo e debole ammassarsi della città, tiepida di nebbia e con la dura lastra del mare davanti, scomparve. C'era un odore pungente di erbe, le suole saggiavano spigoli aguzzi di pietre scivolose. "Bisogna essere da manicomio... Coi partigiani in giro, e noi che andiamo a cercarli per dargli una badilata sul sedere..." udii Riva borbottare. "Zitti, state zitti!..." protestava affannato il sergente in capo alla fila, con sottile voce rabbiosa. "... E con un sergente che a quest'ora ci ha già le brache piene..." aggiunse qualcuno alle spalle di Riva. Dall'oscillare del compagno davanti dovevo capire se aveva inciampato in un sasso, o se evitava il ramo di un albero. Tentando con le mani, avevo Giovanni Arpino
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già due o tre volte sfiorato qualche corteccia, ruvida come un pezzo informe di ghisa sotto le dita gelate. Il sentiero pareva non avesse un vero strapiombo sulla sinistra, solo qualche albero e un declivio abbastanza leggero. A destra era una puntuta barriera di roccia, con ciuffi di ispidi cespugli, con larghe pezze di muschio viscido. "Alt..." sentimmo ansimare dal sergente, e ci addossammo ravvicinati a una curva più larga: "Via... Se non siamo matti ci fermiamo qui... Gli venisse un colera... Io non vado avanti di notte con un branco di badili e solo la mia pistola... D'accordo? Dite se siete d'accordo..." Ci riunimmo attorno al sergente sghignazzando e approvando. "Però se qualcuno fuma lo mando avanti da solo..." volle ancora minacciarci: "Sedete, dormite... ma silenzio... E tra un po' torniamo indietro..." Ci accucciammo lungo la curva, le spalle alla roccia, gomito a gomito senza una parola. L'ombra era folta, senza un variare più lucido tra la massa della collina invisibile e il cielo notturno chiuso tra i vapori, talora il remoto strido d'un uccello scattava per spegnersi subito. Ci azzardavamo a scambiare solo una parola sottovoce col vicino, un colpo di tosse del sergente scatenò per un attimo una breve fuga di ironici e trepestati zittii. Le irregolarità della roccia contro la schiena non permettevano un vero riposo, e anche il terreno, dopo un po' che fummo seduti, si rivelò umido. "Cose da pazzi..." brontolava ancora il sergente. "E poi vogliamo ritornare in Africa!, roba da mordersi il didietro a sangue se qualcuno ci capisce qualcosa..." masticava Riva al mio fianco: "Mitra non se ne vedono, gli ufficiali chissà dove sono..." "Allora, torniamo indietro?" sussurravano già da più parti. "Silenzio!" sillabò rauco il sergente. Non c'era quasi vento, e il freddo era una massa pungente che penetrava tra i panni. A sonno ormai scomparso, restammo ancora lungamente in agguato, contando gli stridi degli uccelli lontani. Ogni tanto, un badile, sfuggito di mano, suscitava un cigolio raschiate contro le pietre. "E state fermi, figli di..." esalava subito il sergente. "Speriamo che anche questi partigiani siano degli straccioni sfaticati come noi..." commentò Riva. "Io domani piglio su e vado in una brigata nera..." disse una voce poco distante: "Almeno quelli si cavano delle soddisfazioni, eccome... Mi han detto..." Giovanni Arpino
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"Ehi, sergente, qui c'è un cane..." disse forte qualcuno al fondo della fila. Spingendolo e afferrandolo uno dopo l'altro passammo il cane, una massa pelosa e umida da lupo, fino all'estremità della curva. "Perché non lo portiamo in caserma..." "Si, castrato..." "E zitti..." lamentò il sergente. Il cane, ormai libero, ora ripercorreva all'indietro il sentiero, annusandoci via via, sostando magro e tremante sotto la mano, strofinandosi tra le diverse gambe distese. "Se lo fate abbaiare..." disse appena il sergente. "Mi hai stufato, sergente dell'ostia!" balzò in piedi un'ombra col badile già pronto in aria: "Te lo sistemo io questo cane, altro che abbaiare..." Nel buio, subito, fu una zuffa ansimante, ognuno voleva farsi largo e vibrare almeno un colpo di badile sul corpo del cane già immobile dopo la prima botta. Il gemere feroce dei respiri, l'urto dei corpi che si scontravano impedivano alla voce querula del sergente d'aver ragione. "Basta o sparo, vi dico che sparo..." implorava il sergente. Ma non si era mosso dal suo cantuccio al limite della curva, imprecazioni e scongiuri seguitavano ad arrivare sempre più smorti. "E sparati in bocca che è ora, figlio di... Spara! Fatti vedere!" gli rispose più d'uno. Il viluppo dei corpi si sciolse adagio, con riluttanza, nessuno parlava più, ultimi calci ancora si ostinavano ad affondare nel pelo della bestia massacrata. "Via, via, torniamo..." si udì il sergente precipitarsi lungo il sentiero. Risa e bestemmie lo inseguirono, in disordine si riprese a scendere, ansando stupefatti, avvelenati, il gruppo rimasto più indietro ora dava fiato a una canzone, ferocemente. Rientrammo sparsi in caserma, perso di vista il sergente che in città aveva subito accelerato il passo scantonando per viuzze diverse. Una squadra, quella del sottotenente, s'era già sciolta, i marò dormivano in branda, non pareva che avessero veramente visto i partigiani. La terza giunse un'ora dopo, tra bestemmie contro i camion invano attesi al limite opposto della città. Sentimmo scarponi e badili sbattere sotto le brande tra stanche proteste. "... Stasera una donna nuda non me la leva nessuno..." dissi fermamente a Riva, l'indomani. Giovanni Arpino
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"Vieni con me, torinese al latte, ti insegnamo noi a sverginarti!" propose subito lui. Ma quando finalmente fui per i vicoli diacci del porto, dopo un pomeriggio trascorso in branda a farneticare sugli accesi accadimenti serali che m'aspettavano, il vuoto e lo sbalordimento di quei giorni si mutarono in una sorta di peso dolente, che l'elettrica allegria di Riva e Paolo non riusciva a medicare. "E dai, bevi..." mi incoraggiava Riva al banco di un bar, dove ombre si muovevano oscuramente tra il fumo. "Lascialo perdere!" aveva già cominciato a precisare Paolo: "Se finisce per terra te lo trascini tu, capito?" "Bevi..." insisteva Riva che ormai aveva pagato la bottiglia: "Come nella Legione Straniera, birra e rhum, butta giù che poi gliela facciamo vedere alle donne..." Mi reggevo al banco con forza, ogni tanto quasi certo di poter scrollare di dosso ogni fastidio e raggiungere l'ondata calda di benessere che sembrava lì, vicina, pronta a lasciarsi ghermire. Avevo già comperato, prima di chiudermi in quel bar, un coltello a scatto, me lo sentivo concreto e incoraggiante in tasca, le ombre del caffè si ingarbugliavano in un alone velenoso. Fuori, dopo pochi passi contro un vento gelato, riparammo nel portone e subito il coro delle voci oltre i battenti d'un uscio minuscolo, di là di muri rivestiti in mattonelle bianche, parve caldo e amichevole. "Mi castro se lo lasciano entrare..." sbuffò Paolo. L'uscio si apri e in un'onda di profumi ebbi appena il tempo di volare con gli occhi oltre una scala gremita di teste e di spalle, fino a un pianerottolo lontano dove alcune ragazze stavano appoggiate alla ringhiera, i veli gialli o neri che lasciavano scoperte le schiene, le grosse gambe nude nel fumo e nel trepestio. "No quel flanella lì..." aveva già puntato un dito la vecchia dall'uscio. "Ehi, nonna..." tentò Riva ridendo. Ma la vecchia ebbe uno strillo di richiamo e subito la luce dell'uscio inquadrò un uomo in divisa, un fascista coi teschi lucidi di metallo sul colletto della camicia. "Volete filare?" disse soltanto. "Ma noi siamo sempre venuti!" protestò sveltamente Paolo: "È questo qui che non ha l'età, cosa c'entriamo noi..." L'uomo si richiuse l'uscio alle spalle e me lo trovai davanti, appena più alto di me, le mani in tasca. Anche i suoi pantaloni erano neri, e non Giovanni Arpino
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pareva armato. "Se mi tocchi t'ammazzo..." gridai raucamente. "Portatelo via, ma di volata... Sennò..." fece l'uomo, gelido, senza neppure guardarmi. "Pensaci tu, la colpa è tua!" strillò Paolo stringendosi nell'angolo tra il muro e la porta. "Via, sparire..." disse ancora l'uomo: "O chiamo due o tre amici miei, e vi mandiamo le ossa in sapone..." Sentii Riva che mi trascinava per il vicolo, l'aria m'entrava solida in bocca, in una ripetizione di urti ghiacciati. Paolo non ci raggiunse, e adesso Riva bestemmiava inferocito, rabbiosamente battendo la punta dello scarpone contro il muro. Ero riuscito a tirar fuori il coltello, lo dondolai su e giù, ma senza forza nella mano. "Scemo d'uno scemo, metti via!, li è una tribù di teste furiose..." mi urtò Riva nella spalla: "Non hai visto? Quello è della brigata nera, ci stanno di casa li dentro... In un amen ti ritrovi sbudellato su una spiaggia..." "Se mi toccava l'ammazzavo... Tanto io uno l'ho già fatto fuori, cosa credi... Se te lo racconto..." gorgogliai. "Si, tua zia..." mi riafferrò sotto il braccio e ancora mi trascinò, dopo pochi passi un'altra volta mi rimise appoggiato contro il muro. "Mettiti due dita in gola, vomita..." disse in fretta: "Senti, torinese, io rientro... Cosa ci facciamo in due, qui! Tanto per te è persa, ti faccio riprovare domani nel pomeriggio, quando non c'è quella gente, parola... Io vado, tu mettiti due dita in bocca, poi torni in caserma, ciao..." Presi per il vicolo, andando avanti a caso, inghiottivo aria sperando aiutasse a liberarmi, trovai un paracarro piazzato a metà della salita, al centro della strada, e sedetti per recuperare le forze, l'equilibrio. Una macchia più scura sullo spigolo d'una casa, se intensamente fissata, pareva aiutarmi a regolare il fiato, a ricompormi un centro solido tra le nebbie che mi oscillavano in testa e cercavano di spingermi in giù... Sostai finché mi sentii meno fiacco, urla e risa perdute ogni tanto percuotevano le viuzze da qualche parte, il vento s'era calmato, ripresi a camminare finché le strade s'allargarono tra le macerie del centro cittadino, vidi un giardino nel buio, di nuovo mi piegai su una panchina. Fu il fischio di un treno a scuotermi e solo allora riconobbi la stazione, là dietro i fantasmi irrigiditi degli alberi. All'improvviso tutto mi parve così Giovanni Arpino
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semplice. Senza più un pensiero, ogni residuo di forza ispidamente raccolto solo per tenere a bada la paura e l'enormità indecifrabile che era il mondo, attraversai il giardino, scoprii l'accelerato notturno per Savona, poi Ceva, fino a Torino... Dopo ore di un viaggio immenso, sepolto nella notte, lacerato da brani di sonno che mi costringevano a risvegliarmi più stravolto da freddo e stanchezza, sbarcai alla stazione del paese, il mattino invernale già distillava le sue luci tra la nebbia, la piazzetta oltre la stazione apparve deserta, col chiosco dei giornali sbarrato, i tigli del giardino pubblico che balzavano nudi nel grigio, decapitati d'ogni ramo. Scelsi le strade più vuote per arrivare di là del paese, in campagna, scavalcai la rete di cinta e raggiunto il cortile sedetti su una panca a riprender fiato. Tra poco Caterina, come sempre, si sarebbe fatta viva con rumori di porte e persiane da disserrare al pianterreno. Nel cortile i conigli battevano seccamente le zampe posteriori sotto il cumulo delle fascine. Le finestre della casa del contadino erano chiuse, anche Francesco poteva dormire qualche ora in più, nei mattini d'inverno. C'erano lenzuoli di nebbia depositati in pianura, e rare lingue nevose s'allungavano torbide sui dorsi delle colline. Il freddo pungeva, ma mi sentivo sudato, come per una febbre, anche se ogni scricchiolio e ogni brusco spostarsi delle pupille mi si ripercuotevano acidamente nello stomaco. Sfilai la giubba guardando ancora una volta, e come non credendoci, stupefatto, i due leoni di San Marco, due pezzetti di stoffa gialli e rossi, cuciti sul bavero. La cuccia del cane sotto il portico era vuota, il bastardo doveva essere riuscito a farsi rinchiudere nella stalla al caldo, la sera prima. Rialzai un badile appoggiandolo accanto agli altri attrezzi. Poi m'incamminai verso il giardino e lentamente raggiunsi il fondo del viale, il groviglio raggrinzito delle ortiche. Ecco, ero di nuovo li, e nemmeno sorpreso per l'incredibile facilità e la fortuna del ritorno, né preoccupato per qualche possibile conseguenza. Avevo il cuore freddo, svuotato, come a salutare contrasto dei fumi che si sfilacciavano nel cervello, dove non riuscivo a fissare un chiaro lume d'intendimento, cui riferirmi. Improvvisamente, davanti alle ortiche, con la stanchezza che mi minava alle giunture e la pelle unta per il viaggio, sentii il morso nero della paura pensando all'uomo sepolto, inutilmente morto, li sotto. La casa al fondo del viale era immota e chiusa. Nessuno veniva a raccogliermi. Ripercorsi il Giovanni Arpino
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viale, ogni tanto voltandomi di soprassalto a scrutare, come se qualcosa d'innominabile avesse potuto assalirmi alle spalle. Sempre più rapidi, gli attacchi di paura mi impedivano di star fermo. Girai attorno alla casa, lungo le finestre inchiavardate, senza osare di battere a una porta o lanciare un richiamo, tentando di contrastare la paura e l'orrida confusione con gli sforzi dell'orecchio teso a percepire un rumore familiare. Finii per sedere dietro il tavolo di pietra, le braccia incrociate sulla giubba come su di un cuscino, covando il bisogno di nascondermi e rimpicciolirmi entro qualcosa di caldo, una tana, un buio amico e totale... Cercai di allineare le poche parole che avrei dovuto dire al colonnello, a mia madre, pochissime, sarebbero certo bastate... Anche questo faceva dolore: la consapevolezza di non saper dire tutto, e loro due incapaci di spiegarmi, di farmi misericordiosamente capire che cosa avevo fatto e perché... Dal lato della cucina, una persiana ruotò cigolando.
IV «... Tu sei come un nuotatore in piscina, che non esce anche se gli levano l'acqua» sta dicendo Lu: «Mettessero acido solforico al posto dell'acqua, vorrebbe nuotare lo stesso, dato che perdio!, lui è un nuotatore... Mi spiego?» «Brava, Lu» rispondo: «E quand'è che vai in convento?» C'è un cielo di smalto dietro il duomo, la torre pisana avvampa candida e venata davanti a noi sdraiati sull'erba. Figurine di gente si muovono al fondo del prato verde, sostano ai banchi delle cianfrusaglie in rame, portacenere e ventagli allineati lungo il muro della strada in una sottile lista d'ombra. È un'ora intensa di luce, prima del tramonto, i colori brillano asciutti, tirati, carrozzelle riposano immobili sotto i loro teli bianchi, lontane rondini saettano altissime. «Nessuno mi vuol bene» afferma Lu. «Si, cara, sì...» ribatto. Abbiamo riso durante il viaggio dopo Bolsena, siamo stanchi ma con una lievissima patina di buonumore che lievita senza sforzo. L'erba è fresca e pungente sotto la nuca, stridi lieti di bambini s'affilano nell'aria. E m'accorgo che ci parliamo come attraverso un'ombra che rende fioche le voci, lenti e insistiti i propositi di compagnia. Dovremmo poter riuscire a Giovanni Arpino
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star allungati in silenzio, senza bisogno di parole o di sguardi. «L'avessi io un amico come me...» aggiunge ancora. Lu, ma solo per tenermi sveglio con questo suo lamento benevolo. E ha un ostentato sospiro. «E se si pensasse alla salute?» cerco di rintuzzarla: «Tra poco andiamo sul mare, si mangia...» Ride, anche lei immobile, le mani intrecciate a sorreggere la testa. «Il solito contadino: mi rimpinzi e subito hai l'animo in pace per il beneficio che credi d'avermi offerto...» «Quanta pazienza ti costo!» la derido. Sotto la guancia, e a schiacciarla un poco col palmo della mano, l'erba è più fredda, ma con improvvise venature e brividi tiepidi. Le figure lontane, a spiarle attraverso i fili rasi del prato, appaiono gracili, accennate e subito rotte nel sole che ancora preme sulla pietra. Con l'angolo dell'occhio vedo i piedi incrociati di Lu, i lucidi fermagli delle sue scarpe. «Non ti senti meno vecchio, qui, così?» mormora : «Io ho un peso così dolce nell'anima, come a quindici anni...» «Si» le rimando. «Bisogna dire "anima" o "animo"?» interroga di nuovo. «Non lo so...» Improvvisamente ride, solleva un piede facendone oscillare la punta, lo lascia lentamente ricadere nell'erba. «... In fin dei conti, saresti contentissimo se io fossi una tua sorella» riprende : «E sai cosa faremmo in questo momento, se fossi tua sorella?» «Ci scambieremmo due cartoline a Natale.» «Madonna santa! Posso ben dire d'aver conosciuto tempi migliori!» ribatte stizzita: «Persino come successo in conversazione...» Ma la sento respirare tranquilla e senza tensione, anche la riposta frenesia del viaggio pare essersi quietata. Negli occhi socchiusi mi piove intatta la luce del cielo, quasi irritante nella sua completa innocenza. «Perché non ci siamo sposati, Stefano?» Aspetto un attimo a rispondere, ma mi accorgo che è calma, forse solo un po' di malinconia la punge sotto la vernice di questo momento di pace. «Per stupidità, lo sai... Ecco tutto il perché» le dico: «Ed è già molto essersi salvati così... Così come siamo.» «Si, questo lo so.» Ho gli occhi chiusi ma sento che si è messa seduta. La spio un attimo e Giovanni Arpino
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vedo il suo profilo intento, l'occhio che insegue qualcosa. «E adesso è troppo tardi. Vero?» domanda ancora senza voltarsi. «Ma quante volte ne abbiamo parlato! Sarebbe meglio...» mi cautelo. Annuisce in silenzio mordendosi il labbro. Vorrei tirarmi anch'io a sedere, ma la stanchezza e il fresco dell'erba mi trattengono. Gli zoccoli di un cavallo risuonano crudi e meditati sulla pietra della strada, ma non le ruote della carrozza, certo gommate. «Avere un figlio avrebbe aiutato più te che me... Dopotutto, saresti stato un ottimo padre...» «Niente, Lu, non abbocco... Dovresti saperlo. Sta buona...» mi trincero. «Ah, già, dimenticavo... Meglio non riprodursi, eccetera eccetera. Va bene...» si arrende. Voltandosi a guardarmi, non è già più pacifica, il sorriso si apre, pronto e gentile, a significare mille lodevoli intenzioni, ma quel qualcosa che s'è ostinata a inseguire, rimestare, ora le oscura gli occhi. «Andiamo, vuoi?» propone: «Tanto è inutile: quest'ora non è eterna e neanche questi posti...» «Fame?» «No» sorride ancora : «Ma forse a tavola, sul mare... Non dev'essere così? Comunque non hai l'obbligo di porgermi la battuta come in una commedia...» È già in piedi, si avvia per il rettangolo verde, qualche tenera lingua d'ombra va risalendo il prato, le rondini si stanno abbassando in lunghi vortici. La guardo camminare, vedo che aspira dalla sigaretta con puntigliosa intensità. «Quando ci siamo fermati in quel caffè hai telefonato: all'albergo, vero?» riprende a parlare mentre guido tra le case che vanno perdendo colore e la lista del mare, tiepida e vicina: «Due stanze, scommetto...» «Due stanze» ripeto. «Mi piacerebbe, prima o poi, incontrare qualcuno più imbecille di noi, con rispetti più grandi e nuove, straordinarie categorie di scrupoli... Potrebbe essere un incontro memorabile...» commenta dando fermezza alla voce: «Non lo dico per le stanze, ma in generale... Non metterti in testa che voglia sedurti...» «Quello va bene?» le indico il ristorante, con qualche luce già accesa sotto il cielo ammorbidito dal tramonto. Il mare è grigio e viola, senza un rumore, con un filo di spiaggia abbandonata oltre il parapetto. Giovanni Arpino
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«Forse è meglio che me ne torni a Roma» riprende a tavola fissando al di là della vetrata, il mento nella mano : «Non so se ce la farò a non romperti le scatole, stasera. Anzi: non so proprio perché dovrei farcela...» «... E non inventarti una questione ogni volta che ci si siede a tavola!» la contrasto: «Possibile che ti venga da piangere o disputare appena vedi una tovaglia! È un vizio, dico io...» «Meglio se mi metti sul treno, stasera» seguita con calma : «Domani potresti arrivare in un amen nel tuo Piemonte... A cosa ti servo, qui, che c'entro io...» «Dove sei: al secondo atto della Traviata?» La veranda ha file di tavoli vuoti, a sghimbescio, e appare agghindata fino all'ultimo lembo di muro da piatti variopinti, stampe, ciotole, pesci di legno e di ferro, reti da pesca distese in drappeggi. Anche la ragazza che va e viene indossa un costume arricchito da pizzi e lucidi bottoni, nastri. «Non le dà fastidio vestire così?» domanda Lu con un imprevisto sorriso. La ragazza scuote le spalle, contenta. Ha posato le caraffe dell'acqua e del vino e si ferma a chiacchierare, le dita che appena sfiorano il tavolo. Ogni tanto si volta, rapida, a spiare mentre parla una porta laggiù, come dovesse uscirne un richiamo. Cantilena le sue confidenze, stringendosi tra le braccia magre, il sorriso appena accennato all'angolo della bocca. L'osso dei gomiti le sporge tra i pizzi delle maniche, puntuto e gracile. «... E carina com'è, nessuno, venendo qui dentro, le propone di sposarla? Non dica di no! Non ci credo!» si è riscaldata Lu. «Oh, signora... Sapesse, gli uomini...» ride l'altra: «Mi scusi, torno subito...» È scappata sventolando la sua ruota di pizzi. «Non esagerare» dico piano e verso da bere. Il vino è aspro e tutti i piatti portati in studiato disordine, frittate e recipienti di coccio con sughi e sottaceti e torbide mostarde, gremiscono un tavolinetto accanto a noi, confondendo la scelta. «E poi è anche brutta. Secca come un chiodo» insisto: «Non esagerare...» «È simpatica. Non è bella ma è carina» protesta Lu : «È una ragazza semplice, sarebbe una bravissima moglie, noiosa da spararsi ma piena di bravure e virtù... Hai sentito: tutte le mattine sei chilometri in bicicletta, poi il servizio, il rigovernare, di nuovo sei chilometri... Tu mangia, non sei Giovanni Arpino
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obbligato a discorrere.» La ragazza è tornata nella veranda, si avvicina con un'ombra esitante nel sorriso. Ha una rapida occhiata anche per me. «E lei ha bambini, signora?» «Due» risponde Lu, tranquilla: «Gemelli.» «O che fortuna... Succedesse a me...» ride convinta l'altra. «Come ti chiami ?» la guarda Lu, improvvisamente intenta. «Io?» si stupisce la ragazza: «Clorinda... Clorinda...» «Bellissimo nome» risponde Lu frugando nella borsetta: «Senti, Clorinda, ti piace questo portacipria? Guarda che le pietre sono false, e non è d'oro... Ma ti porterà fortuna. Vuoi vedere che ti sposi entro l'anno?» La ragazza, arrossita, tiene a due mani l'astuccio, ride e guarda Lu che annuisce per intesa. «Ma io, signora... E adesso cosa devo dire...» fa, poi di scatto fugge via scivolando per le mattonelle colorate. «Di' quel che ti pare. Me ne infischio» s'affretta a sfidarmi Lu. «Non dico niente. Non ho visto niente. Continua pure a crederti Caterina di Russia!» alzo le mani. «Data la fortuna che questa signora godeva presso i suoi amanti, il paragone non mi sembra riuscito» distilla Lu in tono sentenzioso. «Adesso mangia» la invito accostando ancora un poco il tavolinetto ingombro. E lei studia tra le ciotole, si lascia poi andare contro lo schienale della seggiola. «Come mai non mi dici che strafaccio, che ho la smania di popolarità...» insiste. «Ripeto : non abbocco» rispondo : «Perché non le regali anche un assegno in bianco? Fa pure. Me, non m'agganci...» Lu beve, cincischia nel piatto, la bocca le si è ribellata in una smorfia dispettosa. Come una spada, sta infilandosi diritta in qualche sua ostinazione, a costo d'uscirne con la testa frastornata. «E dire che mi piaceva, quel portacipria...» comincia: «Ma perché sono così stupida? Sarà per questo che ti credo un grand'uomo, cui è magnifico sacrificare la vita... E magari invece sei un bischero, chissà!, e io mi imbroglio da sola seguitando a inventare e lucidare tutte le tue virtù...» Si volta a scambiare un'occhiata con la ragazza, riapparsa sulla porta ma che ormai non ha più il coraggio di farsi avanti. Stringe tutte e due le mani al petto in un gesto infantile di confidenza, di contentezza, e Lu seguita a Giovanni Arpino
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compiacerla con brevi cenni del capo. «...Si, può darsi che sia così...» riprende: «E tu fai benissimo a comportarti come ti comporti... Dovresti essere un po' più severo, anzi... Mi dai troppo la corda lunga, non pretendi neppure che mi esibisca nel triplo salto mortale... Come sarebbe bello se un giorno, svegliandomi, scoprissi che sei solamente un tanghero, uno sdrunze... Dovrei persino far finta di niente, capisci?, altrimenti come giustificherei tutto questo tempo, questo fanatismo...» «Complimenti! E poi: c'è altro?» mormoro. «Su, minacciami...» ride secca, improvvisa: «Fammi una bella strapazzata! Tanto si sa che io non ho problemi, sono solo una ricca bizzarra, isterica... Non ho il padre tormentoso e lontano, non sono divorata dagli scupoli, non reggo il peso del mondo, non ho... Io devo solo non scocciare, sempre in punta di piedi, far l'amico comprensivo... Guarda, Stefano! Mettimi su un treno, stasera, è meglio... Scusami, è colpa mia, ma finisce male...» «D'accordo» dico: «Ma cominciamo col toglierci di qui...» Fuori, il mare è oscuro, una immobile lavagna sotto il cielo che ancora mantiene un cordone caldo di colori all'orizzonte. Camminiamo lungo il parapetto, la spiaggia sotto è quasi invisibile. A una curva lontana i fari delle automobili strizzano rare luci in subitanee frenesie. Non abbiamo bisogno di tenerci sottobraccio o per mano, i nostri passi si conoscono e sanno misurarsi con precisa giustezza. L'aria è molle e saporosa, come in un raro momento estivo. «Stanca?» «No» risponde seguitando a avanzare adagio, attenta alla punta delle scarpe. Più avanti, un'anziana coppia procede lentamente, le mani dell'uomo spiccano intrecciate sul dorso, la donna ha un moto sicuro per avvolgersi il collo entro la stola di pelliccia. Per un attimo le due sagome sembrano quasi toccarsi, poi subito riprendono il loro distinto andare, silenziose nella penombra. «Hai visto quanti vecchi signori?» dico: «Che razza di stagione la primavera al mare... Mai vista, prima...» Ci appoggiamo al parapetto, l'acqua arriva senza un risvolto di spuma fino alla spiaggia, vaste nuvole di cenere riposano ancora lontano. Le poche case alle nostre spalle paiono essere precipitate in una grande Giovanni Arpino
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inerzia. «Fa qualcosa per me» dice Lu senza voltarsi. «Cosa.» «Non lo so...» sospira. Ruoto sul parapetto per sedermi con le gambe nel vuoto. Un piccolo salto, e potremmo lasciarci andare sulla sabbia, quindi passeggiare lungo l'acqua. La stanchezza sembra passata, ho solo voglia di un caffè, un'insegna lontana nell'ombra indica forse il posto giusto, comunque non mi muoverò di qui finché Lu non sarà più tranquilla. A folate lentissime l'aria va rinfrescando, e le colline sono ormai nere oltre la strada e le case. «... E adesso si torna a Pisa» va mormorando Lu: «In albergo beviamo qualcosa, tutti molto distinti e sorridenti, buonanotte a te buonanotte a me, ci si lava i denti, beninteso in lavandini separati, e poi a dormire... Ma perché! Oh, Stefano, un minuto solo, scusami... Parliamone! Poi mi metti su un treno, o scappi e mi lasci qui, ma adesso parliamone... Lo sai: avrebbe quasi tre anni, e anche noi saremmo diversi, saremmo meglio... Perché ci abbiamo rinunziato...» Mi cade la faccia tra le mani, avrei dovuto prevederlo, e già non so più quali parole mettere insieme per darle aiuto, strapparla alla parentesi assurda che non ho saputo intuire e che ormai ci si è chiusa intorno. Non oso voltarmi, conosco i suoi occhi, in questo momento intenti, ansiosi, e quel tremito all'angolo della bocca. Sento che scivoliamo, lei in attesa e io che inutilmente cerco di inventare un argine... «La bambina, la bambina, parlane!, parla di lei... Non stare zitto così...» sussurra, già presa: «Dimmi come sarebbe se fosse estate, se fosse qui...» S'è seduta sul parapetto, ha appoggiato la tempia alla mia spalla. Tiene le mani in grembo, aspettando, ha il respiro breve, e io non so più dove fermare lo sguardo, da quale punto ricavar forza. «Se fosse estate, se fosse qui...» mi suggerisce in un soffio: «Per piacere, Stefano... Se fosse estate, qui...» «È successo a tanti di rinunciare... E' successo a tutte, Lu!» mi convinco a risponderle: «Perché ricominci...» Ma ho già sbagliato. Non posso più oppormi o cercare di frenarla con un tono irritato, devo corrisponderle. «Cosa m'importa degli altri...» mormora lei, le dita che le si annodano sveltamente in grembo, liberandosi poi una dopo l'altra in un moto nervoso: «C'era, lei! C'era, già fatta! Perché non l'abbiamo lasciata venire... Giovanni Arpino
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Avrebbe tre anni, adesso, sarebbe una così bella bambina... E ci farebbe del bene, lo so, lo so...» Spinge appena un poco con la tempia, per sollecitarmi, convincermi a parlare. «No così, Lu» dipano le parole con voce arida, sentendomi ormai affondare senza rimedio : «È lo sbaglio più grosso... Ci facciamo solo del male... È stupido, è passato tanto tempo...» Annuisce, la testa sempre appoggiata, e so che sorride, perduta, come avvolta e al riparo entro questo suo sommesso delirio che non mi riuscirà di interrompere. «Tre anni, avrebbe, bella... Bella...» sospira, quasi rallegrata nel liberarsi poco a poco : «E persino tu le diresti tutte quelle tiritere... La farebbero dormire contenta, vero? Come erano... Ah, dorme il cane, dorme la gallina, dorme la gatta in cucina, dorme ogni bambino e anche tu sul tuo cuscino...» «Laura, sentimi...» tento. «Ma che sacrificio ti costa!» ribatte lei quietamente: «Non farmi smettere, non adesso, Stefano, non farmi male... Dimmi come giocherebbe con gli altri bambini, e lei così testarda, che non vuole mai fare il morto o il ferito, ma sempre il comandante, la figlia del Corsaro Nero, la capitana...» «Dio, Lu, basta!» «... Che simpatica, che buffa... Ha le trecce, sicuro che ha le trecce... A tre anni può avere le sue treccine, no? Dio, come non m'intendo! Però sarebbe bionda... Noi non siamo biondi, ma lei si, sicuro! Vero, Stefano, vero?» Fa leva con la tempia, piccoli urti da cucciolo perché io riprenda a parlare e l'aiuti a inventare altre immagini. Respira sorridendo al vuoto, al buio. Ho la voce che non riesce a sciogliersi in una parola, e resto immobile impietrito a sostenere il peso del suo capo appoggiato. La so attenta, cosciente di poter superare gli ostacoli del mio rancore già sbriciolato, inutile. «... A quest'ora la laverei in bagno... Sarebbe tutta sporca, tutto uno sbadiglio, povera "contessa", e tu certo non mi saresti di nessun aiuto... Figurati!, solo una bambina, così penseresti... Ma io starei bene, con lei... Avrebbe dei bei pigiama verdi, color erba, color albicocca... Si, proprio... Di' qualcosa anche tu, dimmi...» Giovanni Arpino
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«Non so, giuro che non so...» mi esce solo un filo rauco di voce. Abbocco l'aria tra i denti dischiusi, una improvvisa stanchezza mi sta pugnalando alle spalle. Guardo le nuvole che muovono lentissime dall'orizzonte, in massiccio profilo, rotto laggiù a sinistra da una zampa cinerea che avanza più veloce, dilatando la sua forma paurosa. In un minuscolo cerchio illuminato, lontano, stretto tra le pareti oscure della piazza romana, rivedo Lu, dall'altra parte del tavolo al ristorante, pesano grevi attorno gli odori dei carciofi annegati nell'olio... Parliamo, parliamo: un fiotto immemore di certezze, di aggettivi, di invenzioni, s'ammucchia e dà consistenza alla bambina che sta per nascere, che non abbiamo ancora deciso di allontanare da noi... «Ma si...» picchia Lu con la tempia: «Le faresti quegli strani racconti, tu... Non capisci che si spaventerebbe... Quella storia dell'uomo che al posto dei piedi ha due lepri, una blu e una gialla, la ricordo, sai!, e deve correre correre quando incontra un cane, un cacciatore... Non capisci che la spaventi, povera "contessa"? L'hai inventata tu questa storia, dimmela ancora, dimmela adesso...» «Non ricordo, Lu, credimi...» E vorrei poterle premere la fronte con la mano, spingere fino a cancellarle ogni pensiero, strizzarle via ogni coscienza del tempo andato, e farla nuova, che ride..., a costo di restarmene più solo e in preda a tutte le paure e le incertezze che ormai mi stringono da ogni parte... «...Non sono una sterile, un'isterica... Non lo sono!» tossisce un poco: «C'era, povera "contessa"... Bastava lasciarle il suo tempo! Non sono sterile... Ora sarebbe qui, tre anni avrebbe..., e litigheremmo per lei, avremmo un mucchio di cose in testa e da fare, magari stupide, ma vere... I suoi pigiama color albicocca...» «Buona, Lu, basta col lasciarti andare in questo modo... Lo sai che dopo...» «Ma cosa faccio di male! Perché non mi aiuti!» alza la voce tremando improvvisa : «Va bene, darò fastidio, ma tu non ricordi neanche le cose che prima inventavamo insieme per lei... Come posso parlare da sola! Sempre ne parlo già, da sola! Dimmi come sarebbe adesso, se fosse qui... Sii buono, dimmi come avremmo litigato per il cane, tu che vorresti regalarle un cane e io no, io contro, i cani sono pieni di malattie... Vero che non la spunti col cane?» Giovanni Arpino
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«No» dico: «No...» «Lo sapevo, l'ho sempre saputo...» prende fiato, contenta: «Adesso...» «Devi smetterla, Lu... Buona, smetti... È successo a milioni di donne di...» «Non dire quella parola!» grida in un brivido profondo: «Non dirla, guai! Guai!» «Va bene, non l'avrei detta...,» riprendo stanchissimo: «Ma adesso cerca di ragionare, d'accordo? Ora basta, lo sai che basta...» «Quanto sei stupido» ride leggera scuotendo la testa: «...Più nessuno la vuole, povera "contessa", poverina... Rotolerebbe nell'erba, oggi, e poi, a tavola, per farla mangiare, dovrei dirle che gli spinaci la fanno diventare lunga, con gambe lunghe, lunghissime...» «Lu...» «Non t'arrabbiare» bisbiglia lei, assorta: «...Non voglio che ti arrabbi, non è giusto... Era così facile tenercela... Saremmo in campagna, a quest'ora...» «Lu, cerca di...» «... E io che in campagna non le lascerei vedere un pollo morto, lo stesso pollo prima vivo e poi morto...» Dondola la testa contro la mia spalla, le mani strette e bianche intorno al ginocchio. «Un'altra... Ce n'era un'altra di quelle storie che inventavi per lei, al ristorante...» riprende con voce fioca: «Ah, si, quella dei ventitré matrimoni, della "contessa" che sulla spiaggia incontra ventitré bambini di tutti i colori e li sposa uno dopo l'altro, con tante cerimonie diverse... Com'era? Dimmi, Stefano, cerca di ricordare...» Le stringo il braccio, ma lei sopporta con appena un mugolio di dolore. Sospira prima di rassegnarsi alla sigaretta che le porgo. La prende, infine, a occhi bassi per non dovermi guardare. «Lo so che ti manca il coraggio di volermi altrove, via per sempre...» mormora esausta piegandosi sul fiammifero: «Lo so... Come posso pretendere che tu mi voglia ancora bene!» Ci stacchiamo dal parapetto, le nuvole sono cresciute fino a confondersi col buio tiepido del cielo. Le braccia strettamente chiuse al petto, Lu fuma, con un moto brusco delle labbra agita la sigaretta per scrollarne la cenere. «... Se non sono diventata pazza è solo perché me la sono cresciuta in un cantuccio per conto mio, povera bambina...» dice ancora sorridendo, Giovanni Arpino
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dolorosamente svuotata: «Me la sono sempre tenuta qui nascosta, tutta un "sarebbe", un "farebbe", mille nomi e nessun nome... Chissà perché non ho mai saputo decidere un nome solo, tra i tanti... Non avessi seguitato a immaginarla, ad aiutarla a venir su, prima pensando ai suoi pigiama verdi, poi alle trecce, poi...» È notte, e la strada fila vuota fino a Pisa, spaccando il buio odoroso, anche Lu non ha più la forza di parlare, giace raggomitolata nel suo angolo mordendosi le unghie. Tra le grandi maschere dei palazzi ruotiamo lentamente cercando l'albergo. Grumi opachi di luce dai caffè macchiano all'improvviso l'aria, acciecano pochi metri di viuzze solitarie. «Mi sono comportata ignobilmente, lo so» dice Lu dopo aver accennato un brindisi, appoggiata al banco del bar. Ha lo sguardo intenzionalmente duro, studia attorno con sufficienza: «Non succederà più, credimi! Non ne approfitterò un'altra volta... Adesso cerca di dormire, Stefano, pensa solo alle cose del tuo viaggio. Domani mi vedrai robusta come un bersagliere! Promesso! Non ti ruberò più la parte...» Ci salutiamo alla cima delle scale, lesti per evitare ogni impaccio, ma una volta a letto non riesco a starmene allungato in attesa del sonno. Dalla stradina sembra lievitare fin quassù un silenzio enorme. «Tutto bene?» telefono a Lu. «Benissimo» risponde con tono deciso. Ma capisco che ha appena smesso di piangere, sento il suo respiro sforzarsi per respingere l'ansito d'un ultimo singhiozzo. «Non mi badare, non mi badare...» si precipita a dirmi. «Insomma, Lu...» «Hai ragione» ribatte : «Sono la solita piaga, non darti pena, non preoccuparti: dopotutto sono nella mia stanza, sei libero, perché non esci a cercarti una ragazza?, non potrei proprio darti torto! Io sto qui, che pianga o no cosa t'importa? Se sono stupida, che può importarti?» La voce le si spegne come pressata da un'ansia diversa, crudele. «Non vuoi renderti conto che certi discorsi ci fanno solo danno...» mi provo. «Si, ma si...» le si affina la voce nella ricerca di un timbro più lieto: «Tu però adesso dormi. Non pensare a me. Oppure esci e cercati una bella compagnia. Avresti un milione di ragioni! Ti saluto, ciao...» «Non dire scemenze...» rispondo: «Vorrei soltanto che capissi, una volta per tutte, che ci sono discorsi che fanno male, che bisognerebbe lasciar Giovanni Arpino
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perdere...» «Lo so, lo so» respira forte, cantilenando già calma : «Figurati se non so dirmele da sola certe cose : che non vale la pena di riprodursi in un mondo come questo, che chissà quale razza di padri e madri saremmo, eccetera...» «Se n'è parlato per mesi...» «Sì, mesi» ribatte con improvvisa freddezza: «Tutto giusto: che avremmo finito anche noi col riempirgli la testa di scemenze, al bambino, che non saremmo stati buoni a..., e via dicendo. Tutto ragionato, tutto preciso: anche se è una ragione che non serve, non vale. Ma non preoccuparti: non ne parlerò mai più, vedrai che... Sta tranquillo, dormi, ciao...» «Sei stanca?» «Si, adesso si, quasi morta...» lamenta. «Te l'hanno portata l'acqua?» «Si, grazie, si...» «Non vuoi che venga li ?» domando ancora. Ride con sforzo, in un breve gorgoglio metallico. «Peccato che non abbia un registratore per incidere questa irresistibile proposta...» «Non vuoi?» «Non spingere la tua samaritaggine fino a questo punto» risponde. «Non so più se bisogna farti la corte o se sei di quelle che non pretendono tante storie» insisto. «Non le pretenderei, ma è l'ultimissima moda, dottore... Ritieniti dispensato. Dormiamo» ribatte senza più ridere. «Niente cagnara?» «Dormi» fa, severamente. «Si parte presto, domani...» «Allora chiamami tu, sii gentile» sospira : «Risparmiami l'odiosa voce sconosciuta al telefono... Ciao...» Riappendo anch'io il microfono, e resto inerte a guardare i fili di luce che penetrando tra le persiane si limano sottilmente lungo le costole dell'armadio. «Volevo solo domandarti ancora scusa» mi richiama dopo un momento : «Sei stato anche troppo buono, stasera, e io devo proprio vergognarmi... Lo so che non ti sono utile in niente..., lasciami dire!, parlo e parlo come un mulino a vento..., lo so... Ma tu tienimi un po' da conto lo stesso, Giovanni Arpino
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magari sotto spirito, come una rarità zoologica... Tanto hai sette vite come i gatti, non riuscirò a guastartene più di due o tre... E vedrai che fiori di ragazze ti capiteranno ancora dopo questa rompitrice trentenne, sta sicuro...» «Si, però ora sta calma... Dormi...» «Sono calmissima e dormirò come un ghiro» ride : «Tu dimmi solo una cosa... No, non credermi matta... È una cosa bella, semplice... Vero che la "contessa", se l'avessimo lasciata venire, sarebbe magnifica, un raggio d'oro? Vero? Dillo, per piacere... Mi fa bene. Poi: chiuso!» «Certo Lu, una meraviglia...» «Una perla, vero?» dice, incantata. «Una perla rosa...» mi si distacca con commozione ogni vocale. «Ah, si...» sospira contenta. M'arriva il suo ansimare leggero, e aspetto ancora, in silenzio, cercando di immaginarla appoggiata al cuscino, in una di quelle sue timide camicie da notte, la sigaretta nervosa tra le dita. E forse ha già posato sul lenzuolo il vecchio quaderno di tela a righe, tutto scolorito, logoro ai bordi, dove sono raccolti, ricopiati dalla sua calligrafia larga, saltellante, versi di Saffo, Petrarca, un sonetto di Shakespeare, il "Se" di Kipling, l'ultima parte della seconda elegia di Louise Labé, poesie e aforismi ed esortazioni in tre o quattro lingue... Li rilegge e trasloca e porta appresso da quindici anni, sempre svelta a nascondere il quaderno sotto un indumento, un giornale, se per caso a un occhio estraneo capita di scoprirlo... «...Stefano» dice ancora, commossa: «Non avercela con me... E non sentirti in colpa per tutte le stupidaggini che tiro fuori, "contessa" o no... Credi che non sappia la paura che ho avuto? Sono adulta..., si, come si può dire?, adulta... Credi che non ricordi il terrore che m'ha preso, allora..., quando dovevo decidermi?» «Non dire così... Non farti male...» «Stefano!, ma non cerco di consolarti, o di essere generosa, accidenti!, cerco solo di comportarmi onestamente!...» riprende accalorata: «Lo so anch'io che il mondo è pieno di ragazze che a quest'ora battono la testa contro uno spigolo per la paura d'essere incinte... Figuriamoci! Adesso dormo. Ciao, re della foresta... Dammi un bell'ordine secco!, dimmi cosa devo sognare e io sono sistemata!» «Elefanti, sogna elefanti... Chissà perché, ma pare che portino fortuna...» «Davvero?» ride brevemente: «Dio mio!, sapessi: avrei sempre preferito Giovanni Arpino
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essere tua madre che non tua moglie... Ma per piacere, adesso butta giù questo telefono, posalo!, ti prego... Fammi smettere...» Mi rivolto su me stesso, opponendo fiaccati sentimenti a ogni pensiero.
V Ho perso il senso del tempo. Sui vetri sta spalmata una luce di polvere e sole, si allarga in una macchia opaca fino alla coperta del letto. Non capisco se è pomeriggio inoltrato o mattina, l'orologio segna un'ora indecifrabile, le sette... Una voce in bagno. Canta, e solo adesso la riconosco come la voce di Lu. Un attimo di silenzio, poi ancora una parola lentamente cantata, e un improvviso schianto d'oggetto che si rompe. Ma non è certo uno specchio, perché sento Lu che ride, e allegra piglia a calci la boccetta o portacipria o bicchiere, che più volte scivola, rimbalza dal muro alla porta in nuovi frantumi. Dovrei alzarmi e dare un'occhiata dalla finestra in piazza per riacquistare esatta nozione del tempo. E invece rimango per un lunghissimo minuto a godermi il vantaggio di questa luce malata di là delle tendine, la coperta è di vecchio raso appena fastidioso sotto le unghie, rumori si perdono oltre i muri, nel corridoio dell'albergo. Su un tavolo, valigie aperte, anche quella di Lu, e vestiti in abbandono per sedie e poltrone... Finalmente avverto il disordine delle lenzuola attorcigliate sotto e attorno al corpo. «Buonasera... Va bene così? Qualcosa da ridire?» ruota Lu sulle punte dei piedi, orgogliosa e fresca nel suo abito nuovo, i braccialetti ai polsi. Si muove lieta per la stanza, fingendo di tentare un po' d'ordine ma con rapide occhiate a me, allo specchio, improvvisamente arrossita, trepida. «Dunque... Meglio che t'aspetti giù... Ma fa pure con comodo» decide poi afferrando qualcosa dal tavolo. E sulla porta sosta ancora in un accenno di sorriso. «Forse ti manderò un telegramma, da basso, per spiegarti come sto bene» mormora in fretta, le palpebre socchiuse: «Proprio non mi vergogno a dirlo...» Sento i suoi tacchi allontanarsi lungo il corridoio. Dalla finestra ora rivedo piazza Cavalli, ingombra di baracchette in legno e mattoni, i due Farnese equestri ai lati del rettangolo già paiono oscurarsi nel colore della nebbia serale, muro e diseguali finestre del Giovanni Arpino
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palazzo al fondo della piazza risaltano contro il cielo, cupi per il sole ormai alle spalle. Oscillano distaccati suoni di campana dalla chiesa di San Francesco, dove ieri sera, appena arrivati a Piacenza, sono entrato con Lu e nel buio, oltre i grandi riquadri di sedie scrupolosamente ammonticchiate, due cori si rimandavano arie. Le sillabe latine, trascinate e riprese prima dalle voci femminili poi da quelle maschili, salivano in poderosa certezza tra le nere pietre vuote, finché Lu dalla commozione arrivò quasi a una sorta di infantile spavento. La passeggiata per le stradine deserte fino alla caserma sul Po, il bere in un'antica pasticceria sotto gli occhi sconcertati di una vecchia commessa in grembiule nero, e poi la sosta nel cortile pietroso dove riscoprimmo alla luce dei fiammiferi, disegnata a calce sul muro, una porta per il gioco del calcio, tutto ciò che ora ricordo, parole e passi e gesti, si rimuove adagio, sommerso e placato nel beneficio che Lu ed io abbiamo saputo scambiarci stanotte. Ancora un bicchiere al caffè della stazione, ed era tardissimo, poi il saluto sulla porta delle due camere comunicanti... E appena a letto, già confuso dal sonno, vidi l'ombra del leone, non al mio fianco, ma di fronte. Più mi avvicinavo al muro, più la mia ombra costretta a drizzarsi deformata si rivelava leone, il pelo irto, le zampe anteriori orribilmente levate. Non riuscivo a fermarmi, avrei potuto benissimo inchiodare i piedi e restarmene immobile a fronteggiare l'ombra ormai più alta di me, che dondolava... Ma una feroce voglia di distruzione mi spingeva irrimediabilmente alle spalle e così dovevo avanzare, senza fiato e in pericolo come fossi al comando di un'auto oscillante in indomabile manovra... L'enorme testa sul muro pareva gonfiarsi inturgidita di rabbia, allungando le mani già sarei riuscito a toccarla..., ed ecco che l'ombra ebbe un lungo tremito, cominciò a perdere colore, non più nera e intensa... ma quasi trasparente, e pur dilatata e spaventosa nella sua mobilità mi lasciava vedere il disegno rigido dei mattoni entro i contorni del corpo, le macchie umide e vili nel muro... E precipitandomi per saggiare e riconquistarne l'identità, ebbi sotto le mani e contro la faccia solo il ruvido della calcina, nessun odore ferino o di sangue... Con le spalle appoggiate al muro, non riuscii neppure a ridere di vero sollievo, a sentirmi libero, l'aria mi trafiggeva acuta in gola e inutilmente cercavo di scoprire la sorgente di luce che prima mi aveva sospinto e diviso da dietro, ora non vedevo che una tenera perdita di colori a più piani, come una campagna molle, e docile Giovanni Arpino
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benché misteriosa, senza inganni, che se ne fuggiva infinita... Sveglio, ci misi più di un minuto per riconoscere nell'ingombro sulla poltrona ai piedi del letto la forma accartocciata di Lu che dormiva, una coperta attorno al corpo, un piede nudo e freddo che biancheggiava allungato. Con tenerezza e dolore la raccolsi tra i lenzuoli, e lei quasi gemeva cercando di confondersi, cercando riparo, a occhi chiusi senza più la forza d'una parola, finché una nicchia succosa ebbe luogo tra le fenditure del sonno, una lunga calda consolazione ci permise di riaccostarci, minutamente ritrovarci, senza rinuncia o sosta o pensiero... E adesso, mentre mi lavo, mi rivesto, Lu m'aspetta, seduta a fumare nell'atrio dell'albergo, l'occhio di giaietto vivo sulle cose, e quando scenderò chissà se m'apparirà commossa, segretamente complice e silenziosa, chissà se invece si mostrerà sicura, già disposta a dirmi: «... Stai bene? O ce l'hai con me? Sai che quasi mi decido a coniugare i verbi al futuro, come dicevi una volta di chi si sa vivo, anzi eterno? Su, ora beviti un ricco caffè, un signor caffè...». Sappilo, Lu: vorrei uscire da questa stanza, scendere le scale e poterti venire incontro nitido, ruotante, architettonicamente compiuto come una struttura molecolare ingrandita dieci milioni di volte, libera e pura d'ogni perché. E al contrario, tra poco sarò di nuovo goffo, insolente, se non pentito certo irritato, un'altra volta alle prese con incapacità antiche o appena inventate, con l'inutile rivolta che mi attizzo e combatto dentro..., privo della necessaria perizia che consente a un uomo di destreggiarsi e sopportarsi entro i limiti della sua stessa disordinata materia. Sono fatto di una brutta terra. Fossi rimasto con Francesco, prima operaio e oggi solo più cacciatore con qualche vecchia arma da registrare e rinnovare a colpi di lima, ora non azzarderei un'opinione su ciò che non riesco a puntare nel mirino della doppietta. Avrei ancora partite a carte al caffè, la passeggiata festiva con l'involto dei dolci compuntamente mascherato in carta di giornale, usufruirei di un vocabolario dai corti significati che sfumano e rimbalzano e accoltellano solo nella cerchia complice degli amici. La durezza dei propositi unita ai segreti godimenti casalinghi mi consentirebbe di rimuovere, distanziare ogni dubbio, ogni vana intenzione. Ma mi hanno vinto le mie stesse speranze, e la brutta terra di cui sono composto non può più offrirmi giustificazioni assolute. E Giovanni Arpino
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ancora: delle mie altre capacità, della scienza acquisita, non ho saputo fare che un vile commercio, ne ho ricavato solo paraventi ingannevoli, per qualche tempo leggeri, esilaranti!, da manovrare e spostare come in una recita, secondo le concezioni del mondo che apparivano necessarie al momento. Ho acconsentito e ubbidito e sorriso all'occasione come tutti, anch'io scimmia ammaestrata che afferra la bottiglia del latte, pigia sui pedali del triciclo, si camuffa da marinaio, da maestro di scuola, e ghigna perduta e ringrazia in attesa del suo sconcio premio... Sono cresciuto coi morti, Lu, e ho potuto metterli da parte, collocarli lontano, a furia di sperare nella pace, nella comune e lunga vittoria, cui però non versavo ogni giorno il meglio di me, ma soltanto i deboli vapori di intenzioni inorganiche... E oggi, questi morti è giusto che io torni a scrutarmeli accanto, bisognoso di dargli almeno miglior sepoltura, un posto forse meno giustificato, meno rigoroso, ma più caritatevole nella memoria... Non spaventarti, Lu, tanto tutto andrà avanti come prima, come sempre, persino noi!, persino per colpa nostra!, e non c'è tristezza voluta in questo, a novembre si possono vedere alberi completamente nudi, certi meli ad esempio, non hanno più la minima foglia ma i rami smagriti reggono ancora i frutti, accesi infuocati, piccolissimi pugni vivi nella nebbia degli orti... Sono di questa razza, Lu, inteso?, quindi nessun spavento... Basta solo capire, rendersi conto che non c'è vita sufficiente per vedere compiute le speranze vere, generali, proprio perché anche un uomo come me non ha saputo forzare la sua neghittosa vita e crescerla in progetto, in parte laboriosa dell'avvenire... Compreso questo, allora rimane un mucchio di tempo, anni e anni da consumare, disperdere, persino con buonumore, usufruendo di belle maniere... E adesso, Lu, non credere che mi preferirei morto, anch'io sottoterra nella valletta tra Montà e Monteu Roero, a mezz'ora di macchina da Torino, dove tra i ciuffi polverosi delle gaggie, voli di corvi, di picchi dalla testa rossa, tra i grandi spaccati del tufo, c'è la croce e la lapide per quella battaglia. La terra li è grassa, crostosa se fa caldo, unta e impermeabile nell'acqua dei grandi temporali d'estate, si apre in lunghe strisce piagate sotto le scarpe mentre corri e scivoli forsennato giù per la collina. La breve colonna fascista, un'autoblindata in testa, sta ripiegando da Alba verso Giovanni Arpino
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Torino, e tra le gaggie c'è un posto di blocco di partigiani garibaldini, hanno persino una mitragliera americana, la prima raffica inchioda l'autoblindo, le fiacca la schiena come a un asino decrepito, Dio sergente, Dio staroccato, Dio pelagatti..., la seconda raffica setaccia crudelmente il camion che viene dopo, e dai teli del camion sventagliati via si rovescia qualche fascista crivellato e insieme diecine e diecine di polli, legati a due, a tre, che volano arruffandosi e si lasciano cadere e spennano e rotolano da ogni parte... "... Voglio rispetto! Ho fatto quattro guerre io! Mi dovete del rispetto..." urlò il maggiore fascista, verde come un morto, durante le trattative di resa, dieci minuti dopo. "... Se per le altre posso anche rispettarti, per questa qui prendi, impara..." rispose Cavour, un contadino, bestia d'uomo capace di reggere in spalla da solo la mitragliera americana. E afferrato il maggiore per il fondo dei calzoni, in un unico slancio gli fece spolverare a pancia in giù la chiesa tra la doppia fila dei banchi vuoti, dai gradini dell'altare fino al portone... Tornò il prete di corsa: "... Quelli dell'autoblindo gridano come animali... Bisogna fare qualcosa... I portelli, dal di fuori non si riesce ad aprirli...". Li si sentiva gemere nel chiuso del ferro storpiato. Neanche tutto l'impegno di Cavour riuscì a smuovere di un millimetro il portello. Dal camion, i fascisti disarmati e ammucchiati guardavano con occhi persi, senza più una parola. E come già lontani, lunghi distesi con la povera camicia tirata dall'indietro sulle facce sconciate dal sangue, erano Pedro e Parisot. Francesco seguitava a fissarli, in piedi tra le gaggie, tre fucili appesi alla spalla destra, la cartuccera di Parisot pendula dalla mano. Il comandante Millesimo, il prete, il maggiore fascista furono presto d'accordo e rassegnati: meglio far saltare l'autoblindo col plastico, quei tre feriti almeno l'avrebbero finita di soffrire... "... Tutto questo ferro in malora... Sarà più di un duemila lire... Dio inzuccherato..." borbottava Gallina curvo a preparare il plastico. Prima che partigiano era stato ambulante di stracci, pelli, residuati metallici. Due volte l'autoblindo rotolò in aria, come risucchiata da un vento enorme, fumoso, e ricadde sventrando ciuffi di gaggie. Solo alla terza dose di plastico, insaccatasi nel fianco della collina, non s'udirono più le urla dei feriti. Per un minuto financo il prete restò di pietra a fissare l'ammasso Giovanni Arpino
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annerito immobile tra il verde. Poi: "...E voialtri là, cosa fate... Venite giù... Prendetevi almeno questi polli... O addormentati..." gridava già Cavour ai contadini in piedi tra i lontani cespugli, immobili a guardare sui bordi delle vigne. "... Non vogliono farsi vedere dai fascisti..." spiegò contento un vecchio apparso tra gli alberi. Era tutto un rattoppo, le tasche rigonfie del mendicante: "... Appena avrete rispedito i fascisti col camion, di polli qui non ne resta neanche l'idea... E voi non scappate, adesso? E quei due vostri morti li lasciate all'abbandono?" "Ma no, no, ce li portiamo via..." rispose Millesimo. Già s'era accucciato per terra, ansimando, il mitra ai piedi, una strana smorfia di fatica in faccia. Il camion fascista dondolava gemendo all'attacco della salita, due o tre partigiani lo tallonavano in silenzio con le armi al braccio. Altri frugavano tra le munizioni e i fucili nemici, scalciando via gli elmetti. Qualcuno, al piede della collina, ancora esaminava l'autoblindo storta tra i rami squarciati, o muoveva lento due passi per un'occhiata da lontano ai corpi di Pedro e Parisot. Il prete era scomparso, Cavour con una pistola nuova nella cintola dei calzoni si fece avanti, scuro. "...Millesimo..." disse: "Io non discuto, però i fascisti li avrei rimandati a piedi... Quel camion..." Lo dissuase una scrollata di spalle del comandante. "... Perché si sono buttati allo scoperto... Li avevo tanto avvisati... Ma allora a cosa serve sbranarci tra noi per avere una porca mitraglia pesante... E chi glielo va a dire al padre di Parisot, adesso..." borbottò Millesimo, gli occhi fissi al camion che ormai aveva quasi scollinato e mordeva l'ultima curva tra la polvere. Francesco, avvicinatosi, piegò anche lui sui ginocchi, liberando in silenzio la spalla dal fardello dei tre fucili. "... Giovani quei vostri due... Magari neanche vent'anni... Proprio un'erbetta..." seguitava a ridere il vecchio scemo. Millesimo spostò gli occhi a guardarlo. "Ma da dove vieni fuori, tu... Fila via o ti stacco la testa..." disse senza forza. E il mendicante salticchiando con le mani a protezione delle tasche si allontanò a curiosare verso l'autoblindo. "L'hai capita la musica, adesso? Non vuoi tornartene a casa?..." fece Millesimo. Ma Francesco senza voltarsi negò adagio col capo, riprese in spalla quei suoi fucili e fu in piedi con una curiosa tosse d'imbarazzo. Giovanni Arpino
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Dai filari delle vigne i contadini cominciavano ad avvicinarsi, il passo prudente. Anche il prete per un attimo riapparve, pallido e nero, affannato tra le gaggie. Capisci, Lu? Adesso scendo, e usciremo dall'albergo nell'ombra quieta, saremo dolcissimi l'uno per l'altro, avendo alle spalle questa stanza ingombra di valigie, saponi, portacenere, i cuscini ancora incavati, il tuo ombrello nel fodero, giornali e un libro di fantascienza ripiegato in due... Forse non avremo neppur bisogno di parlare, forse la spinta d'una frenesia bizzarra ci deciderà a ripartire subito, verso Milano, in accordo e convinti, e intanto io ho nuovamente bisogno di tutto... Dico "io", ma intendo anche un "altro", e v'è compreso anche il tuo "tu", come se mi riuscisse di parlarti in quarta persona, come se tu muovessi nella luce che corre dai miei occhi al cristallo che li specchia, ora, qui, mentre annodo la cravatta... E ti vedo sul tavolo, nella fotografia che ti coglie a un anno, alta e rovesciata nell'aria tra le mani di tua madre, un lino lunghissimo ti avvolge lasciando libere solo le braccia, la testa che insuperbisce... E tutte le tue immagini di un tempo, dopo questa prima, mi hanno portato incontro la carne del tuo sorriso che attende doni celesti, che non ha bisogno di sapere troppo, e l'onda asciutta di un tuo corpo misterioso nelle liete vesti quindicenni tra le aiuole di un giardino, chissà dove..., chissà quanto ignara d'ogni possibile maturità... La prima donna nuda ch'io vidi, Lu, stava appesa, braccia e gambe divaricate, a un balcone di Torino, in via Nizza, in un aprile di troppi anni fa... Uscendo di corsa da una chiesa, rattrappito dietro la pistola, me la trovai negli occhi, alla ringhiera di un secondo piano. Il sole le dava addosso, e lei pareva quasi implume, il mento sul petto, il volto invisibile sotto i capelli spiovuti. La carne così bianca, gessosa, non mostrava segni di pallottole, forse le avevano sparato alla nuca, o alla schiena... Avevo quindici anni, e non provai un filo di spavento, solo feroce curiosità, forse un attimo di disgusto per quei piedi scuriti in tanto bianco... E rimasi lì incantato a guardare nella luce le zone carnose che fino allora, in qualche ingarbugliato momento, avevo potuto tentare e stringere solo nel buio di altre vesti, lottando alla cieca... "Vieni via... Via..." sentii infine l'urlo di Millesimo. Lo raggiunsi nel portone, e lui era sudato, un ginocchio a terra, la cintura Giovanni Arpino
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stretta in una collana di bombe. "Ti trono io se ti muovi ancora, capito? Proprio adesso vuoi crepare? Ma non li senti?" gridò furioso alzandomi una mano davanti alla faccia. Dai tetti, da qualche lontana finestra, ultimi cecchini fascisti battevano ancora tratti di strada, improvvisi lamenti di pallottole isolate e ogni tanto una raffica frenetica sventagliata a un'ombra, a un muro. A distanza, emergevano tonfi, forse un mortaio, un anticarro. "Dov'è Francesco..." domandò Millesimo. "Sul campanile, con Bill... È un bel posto..." "Se crepa ancora qualcuno di noi, proprio adesso!, la vedi questa bomba?, la ingoio netta!" urlò di nuovo lui, e mi strinse una spalla con la mano che gli tremava. "Ehi, ma tu..." risi. "Capisci un'ostia!" ribatté a denti stretti. "Quella là al balcone... L'hai vista?" "E lascia perdere i balconi! Ci pensano i partigiani torinesi a stanare quei porci dalle case... Sono più pratici... Noi abbiamo già fatto miracoli, te lo dico io... Fin qui siamo arrivati, qui a Torino!, Dio rimbambito..." strillò. "Diventi matto proprio oggi?" risi ancora. E finalmente Millesimo ritirò il collo teso, la faccia gli si rifece quadra e normale dalla fronte al mento. "Eh?" pronunciò sbattendo le palpebre dietro gli occhiali. Ma rise appena, senza capire. Mi sdraiai sulla pietra dell'andito e sporsi gli occhi a guardare. La donna era là, lunga e sbiadita, quei capezzoli quasi invisibili. Il muro dietro il balcone era profondamente scheggiato dai colpi, la doppia persiana alle spalle della donna inquadrava un largo vuoto nero. "A quest'ora ne avranno presi un bel po', di questi cecchini..." seguitava a brontolare Millesimo: "... Cristo, è finita... Sembra mica vero... Dio, Dio pulcino..." Dalla chiesa uscirono Francesco e Bill, ruotante lento in mezzo alla strada, naso e sten puntati a esplorare finestre. Non s'udivano più colpi, solo qualche lontanissimo soffocato rimbombo, e la strada correva diritta e vuota nel lucido del sole, finendo nella massa verdissima degli alberi attorno alla stazione. "Secondo me: il repulisti è bell'e finito... Certo che qui ci si trova male, con la nostra sola pratica di boschi..." fece Bill, il muso ispido che ancora Giovanni Arpino
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scrutava all'intorno. "Mi sembra di non aver i piedi per terra, ma pensa..." mormorò Francesco con un'occhiata a quel deserto di pietre. Abbassò poi lo sguardo a scrutarsi i pantaloni stracciati, le scarpe di tela e gomma da cui uscivano gli alluci unghiuti. "Capisco più niente..." si lamentava Millesimo muovendo qualche passo smarrito in mezzo alla strada: "Possibile? Più mi guardo in giro più capisco niente..." Respirò con affanno, fissandoci uno per uno prima di parlare. "Sapete una cosa?" disse infine: "Ditelo pure a tutti! Giuro che non ho mai avuto paura come oggi... Paura di restar secco qui, in questa strada porca, proprio all'ultimo momento... Giuro!" Bill cominciò a ridere quietamente, scuotendo la testa, e di colpo Millesimo con una rincorsa aggirò Francesco sferrandogli un tremendo calcio nel didietro. Si piegò poi sul ventre a ridere quando Francesco si voltò sbalordito a guardarlo. "È finita! Ve lo ficcate in testa, straccioni? Diciotto mesi, e adesso: finita! Kaputt Herr Deutsch Kartoffel..." strepitò Millesimo altissimo battendosi con furia le mani sulle cosce, senza più riuscire a smettere. Anche Francesco rideva, e adesso sentivamo le nostre risate rimbalzarci addosso dai muri, volare libere e crude fino ai cornicioni. "E se andassimo alle prigioni... A quest'ora saranno ben piene di nazi..." fece poi Bill. "Le prigioni? Te le regalo... E in più un palazzo... Lo vuoi un palazzo come medaglia al valore, Bill? Ogni notte un letto nuovo, e al primo piano ci tieni i buoi..." gridava forsennato Millesimo. Francesco fissava anche lui la donna al balcone, il fucile in abbandono sulla spalla. "E piantala, biberon..." gli urlò Millesimo: "Adesso si va a discutere di tutto il libero bordello che ricomincia... Ma da oggi pace e bene per tutti, no? Dio bambino..." Bill rideva, frastornato, assentendo con le rughe increspate lungo le guance. S'udì un improvviso vociare lontano, e un gruppetto si scaraventò da un portone, come catapultato, in mille urla e braccia attorno a un cecchino fascista. "Anche noi?..." accennò Bill muovendo già un passo. "Magari è l'ultimo... Lascia che se lo sistemino loro..." alzò la mano Giovanni Arpino
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Millesimo, solenne: "E che requiescat nel suo brodo... Andiamo alla stazione, ci sarà pure un comando... È finita, Bill! E dillo una volta anche tu..." "Si, finita, già... Ma non si va proprio alle prigioni?" pronunciò Bill a bassa voce, aggiustandosi con riluttanza lo sten sotto il braccio. "E voi due piantatela con quella morta! Ma cosa credete di vederci..." ci richiamò Millesimo. Francesco mi diede di gomito, ruotammo sui tacchi, ma la sentivamo ancora dietro di noi, così grossa e immacolata nel battito luminoso del sole. Prima di rimetterci al passo di Millesimo, tutti e due piegammo un'ultima volta la testa a guardarla, evitando però ai nostri occhi di incontrarsi. "... Mica poi belle queste donne... Non che non sapessi!, ma avevo proprio sperato in tutt'altro effetto..." riuscì a dire Francesco, immusonito: "... Chissà poi che razza di bagascia fascista è stata, quella là..." Millesimo cantava spiegato, oscillando un braccio, e Bill gli trottava al fianco col suo andare contadino, un'occhiata lesta a ogni vuoto di portone. Laggiù, verso la stazione di Porta Nuova, un'auto con grappoli di uomini aggrappati da ogni parte usci zigzagando tra gli alberi e per un attimo vedemmo la grande bandiera distesa su tutto il muso del motore. Millesimo alzò le mani nude per saluto, in risposta ruggì un fiotto vittorioso di voci... Avvicinandoci, ci pareva d'essere attirati dal cinguettio di passeri e tordi, avvolti nelle cupole degli alberi di fronte alla stazione. Rasentammo un caffè, fitto di facce dietro i vetri a guardare tra le maglie delle saracinesche abbassate, e Millesimo rise felice davanti a quegli occhi estranei. Bill borbottava ancora sulle prigioni, e Francesco, giunto all'incrocio dei portici, restò un attimo fermo a scrutarsi intorno, dagli alberi colorati nel sole fino al buio degli archi che si ripetevano vuoti. Millesimo, di fronte a via Roma, le spalle al giardino, ruotò dolcemente sui ginocchi come spruzzando una silenziosa raffica di sten, e sorrise da solo, contento, senza una parola. Via Roma era nuda e lucente nella gola degli alti palazzi. E poi? Ebbene, Lu, vennero giorni in cui ogni volto del "poi" ci parve di viverlo come attimo del futuro raggiunto. Qualche settimana soltanto, o forse Giovanni Arpino
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anche meno..., ma ogni ora, di veglia o di sonno, spremeva un succo febbrile, rissoso, ricco di variegate speranze... Belli gli stivali nuovi, alti al ginocchio, morbidi, dono degli industrialotti del cuoio timorosi non soltanto per le loro fabbriche, ma addirittura di non piacere, non riuscire simpatici e concordi al caffè, durante il passeggio e i saluti serali... Dovunque si arrivasse, ecco un giardino con luci tra le foglie per balli, la pistola ancora al fianco, le ragazze smaniose, ecco cassette di vermut in omaggio, e poi un furioso galoppo in auto, in moto, fino a un paese vicino, a metter pace tra teste contrarie in disputa, a dire "basta!" e "amici!" e "adesso cantiamo insieme"... Rientravo in casa con sicurezza, ogni tre o quattro giorni, sbattendo le porte, magari all'alba, e tiravo via con appena un fantasma di saluto al colonnello. In poltrona, intento a consumare tra libri e giornali le ultime ore della sua notte attossicata, sollevava uno sguardo straniero a scrutarmi, senza muovere le labbra, solo un breve cenno del capo... A volte, Lu, mi pare di poter dire: ne ho viste troppe... Ma più spesso avverto come questo "troppo" sia precipitato in un pozzo senza fondo, da cui ora risale soltanto silenzio, o talvolta un murmure acido... Raro un punto fisso di bontà, vivido nel ricordo. "O Francesco, cosa fai qui... Dai i numeri..." gridammo tutti insieme un mattino, sbarcando dall'auto, e stiravamo gambe e braccia indolenzite per la notte trascorsa a cantare, bere e ballare, in corsa tra un paese e l'altro. Francesco ci fronteggiava sul piazzale della stazione, la borsa in mano, come raggrinzito dentro la giacchetta infilata sulla tuta nuova. I cancelli della stazione erano ancora chiusi, il mattino di maggio cominciava appena a sciogliersi dall'umidità della notte. "Non dirmi che vai a Torino a lavorare..." lo squadrai stupefatto. E lui diede solo un'impacciata oscillazione alla borsa, che lasciava sporgere il collo d'una mezza bottiglia. Si strinse nelle spalle sorridendo ai nostri cinturoni, ai nostri stivali. "O Francesco..." gli allungai una mano sulla schiena. "Bisogna pur cominciare, no?" rispose infine come infastidito, deviando gli occhi. "Ma se hai finito di sparare che sarà ieri l'altro..." protestò qualcuno in uno sbadiglio: "Cosa t'è successo? Hai fatto la comunione? O la Fiat s'è messa a profumare di menta..." "Se fai così, ci rovini la piazza..." rise un'altra voce. Giovanni Arpino
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"Cari voi..." borbottava soltanto Francesco, le mani riunite attorno al manico della borsa: "Fate presto a parlare..." "Ma il posto ce l'hai?" volli domandargli. "Ne ho più d'uno, in parola... Ma si capisce che devo stargli dietro, farmi vivo, mica ho ancora un mestiere sicuro in mano, io..." rifletté: "...Però voialtri andate pure a dormire... Cosa fate qui, non aspetterete l'ora del primo treno..." Ci voltò le spalle avviandosi verso il cancello, la tuta larga attorno alle ossa. Ai nostri colpi di clacson in girotondo per il piazzale rispose scostando appena una mano dal corpo. Lo rividi venti giorni dopo, era domenica, mi venne incontro al caffè, facendosi largo tra i giocatori di carte, il collo ossuto gli usciva dal bianco della camicia festiva. "... Se vuoi darmi retta ti spiegherò una cosa..." invitò. Ma prima di confidarsi volle raggiungere una panca al limite della piazza, e un lungo minuto se ne restò silenzioso, i gomiti sui ginocchi, il mento sulle mani, come avesse dieci o vent'anni in più. "... Lo sai che Millesimo è già tornato a far scuola? L'ho incontrato a Torino... Pensa: incontrare Millesimo su un tram!" disse infine, guardando avanti, sottovoce: "A momenti non lo riconoscevo, così incravattato da professore..." Faceva caldo in piazza, ma non mi venne neppure in mente di invitarlo a uscire dal cerchio di sole. "... Lo so cosa avete in testa per oggi..." riprese piano: "... Battere i boschi e scovare l'eremita... Tu non andare!" "Chi te l'ha detto?" gli feci. "Lascia perdere. È così o no..." sospirò come fosse stanchissimo. "L'eremita è sempre stato un fascista di prima classe, e poi una spia... Dicono che ne ha fatti beccare chissà quanti dai tedeschi..." risposi. "... Va bene. Ma questi sono gestacci da carabinieri, lascia che li facciano gli altri. Tu: no..." ripeté soltanto. "Ma se non andiamo a scovarlo noi..." m'opposi. "Non ho detto questo: vedrai che lo beccano anche senza te. Tu però guardati dall'andarci..." ribatté con calma. "... Non so se ragioni giusto... " obiettai. "... D'accordo: tante teste tante idee..." volle spiegarsi con un paziente sorriso adulto: "Ma allora senti qui la mia proposta: ci andiamo insieme, Giovanni Arpino
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noi due soli. Gli altri s'arrangino a battere i boschi per conto loro. Noi pigliamo un nostro giro, e di armi proprio nessuna!, come s'andasse per funghi... Se è da trovare, lo troveremo lo stesso, e sta sicuro che lui un colpo che è uno non lo spara... Ci stai?" "Potrei anche starci, ma..." "Ma che cosa... Se vorrà venire, lo portiamo difilato in caserma al comando. Oppure alla tenenza... Vedrai che capirà al volo... Per porco e matto che sia, ha convenienza a venire con noi, se ci tiene a respirare..." "Parli come se t'avessero fatto il bagno nell'acqua santa!" risi. "Pensala come vuoi..." reagì, ma senza alzare la voce: "...E intanto impara a sfilarti quei due stivali da poliziotto, che ormai è ora..." Di primo pomeriggio eravamo già nei boschi, per un sentiero che portava dove l'eremita, dopo la guerra d'Abissinia, s'era costruito una casupola e viveva imbrogliando con misture d'erbe le vecchie contadine, allevando una capra, due polli. Chissà se era ancora così catramosa la sua barba, che ricordavo diabolica, quando bambini s'andava a spiarlo davanti al portone del mattatoio. Appena spretato, suo lavoro era stato ramazzare rivoli d'acqua e sangue scuro sul cemento del mattatoio fino alla strada, colpi lunghi di una scopa legnosa nella schiuma, e occhiate fosche al cerchio dei ragazzini che guatavano paurosi dalla piazza. Più tardi s'era fatto eremita, compariva in qualche venerdì di mercato su un suo carrettino irrompente furioso per i ciottoli delle strade dietro a un somaro crivellato di colpi. Alle contadine gravide imponeva formule di preghiere a Dio e Mussolini, nei boschi lo si incontrava avvolto nel mantello, un fez rosso in testa, mentre spingeva la capra al pascolo e masticava parole di greco e latino. "... E perché non avrebbe dovuto esser spia?" diceva Francesco: "Aborti o messa cantata, Abissinia o rubar polli, per un elemento così è tutt'uguale... Magari è da 'Cottolengo', vorrai mica che ci si metta a far fuori tutti i crani da 'Cottolengo' che battono queste terre... Faceva anche la borsa nera, e certo in paese quando circolavano solo vecchie e nazi, lui se ne andava a spasso come un papa, questo si..." Ci arrampicavamo tra il folto delle querce, la terra era soffice, con improvvisi slarghi d'umidità nell'ombra più raccolta. A tratti, il muschio faceva scivolare. Ogni sentiero, dopo le sue giravolte, finiva col perdersi tra gli alberi, in un macchione di gaggie, di ortiche, o moriva alla cima di un cocuzzolo sassoso e rapato, di dove le ondulazioni nere e argentee dei Giovanni Arpino
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boschi correvano compatte fino all'orizzonte. "... Là, Monteu... Ricordi? Cristo, sembrano anni, ormai..." diceva Francesco prima di ridiscendere dalla cima, un braccio allungato, poi si esaminava con fredda rabbia i pantaloni domenicali, spruzzati da qualche minuscola goccia di fango. "...Di funghi: neanche l'odore..." riprendeva a discorrere scrutando tra le felci raggruppate ai piedi di un castagno, di una quercia: "...E si che questi son posti buoni... Li hai visti là indietro i segni di qualche fagiano? Anche se ormai non sparerei proprio a un fagiano... Sarebbe come fare un colpo a una gallina..." "Tu sei sicuro che quello là sia rimasto nella baracca ad aspettare il nostro comodo? Cosa te lo fa credere..." domandai. "... E dove vuoi che sia finito! È uno straccione, sta tra un uomo e una volpe... Avrà tanti buchi, ma la sua tana è quella... Dove vuoi che sia finito: a Sanremo?" rise placidamente. "Se lo beccano gli altri..." soffiavo alle sue spalle: "... Ne parlano da giorni, ormai si sono montati a vicenda. Se arrivano prima di noi..." "Pensassero a lavorare, che è tempo!" protestò Francesco, ma senza rabbia: "... Lavora Millesimo, dico Millesimo!, che per diciotto mesi ha avuto i tedeschi a una spanna dal didietro o dal mitra, diciotto mesi!... Persino io lavoro... E anche tu adesso ti rimetti a studiare, no? Siamo mica nati vagabondi..." "Parli come un vecchio..." risi. "A furia di farmi da padre e madre per mio conto..." sorrise anche lui. Poi si fermò sbuffando e restammo qualche minuto appoggiati a un albero, ad annusare i freschi odori delle foglie, delle cortecce umide, dando requie al respiro. Uccelli pigolavano al sole, sui rami più alti, trame quiete di cielo s'indovinavano oltre le chiome immobili delle querce, dei castagni. Lo schianto improvviso d'una raffica schiaffeggiò in due, tre ondate la pigrizia dell'aria. "Mitra!" alzò il pugno Francesco bestemmiando: "C'è ancora un bastardo che gira col mitra... Tanti saluti: il tuo eremita è bell'e sistemato..." Riprendemmo quasi di corsa, ma dopo un attimo Francesco già rallentava, un gesto sconsolato delle braccia. "A cosa serve più correre..." disse: "...Ormai abbiamo tempo da vendere... E sta sicuro che non se lo sono portati dietro, quei bastardi..." Giovanni Arpino
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Prima di raggiungere la capanna ce lo trovammo davanti, la testa piantata nel terriccio, le caviglie che uscivano nude dai sandali. Ci chinammo per rivoltarlo, mostrò i denti tra il pelo della barba, in una smorfia feroce. Il giubbotto militare era bruciacchiato, con cinque o sei fori sanguinosi in diagonale perfetta tra il collo e la cintola. Sotto la barba, gola e tendini apparivano di pelle bianchissima. "Da neanche mezzo metro gli hanno sparato..." studiava sottovoce Francesco con timbro velenoso: "...Ti saluto eremita..." Mi spaventò il gelo sorto a rinserrarmi il cuore in un guscio durissimo. "... Lo porterei giù in spalla, al caffè, glielo sbatterei sul biliardo, a quella brava gente..." seguitava Francesco. Piegati sui ginocchi, ancora lo guardavamo, dalle screpolature immobili nella pelle sulla fronte fino alla barba che già appariva come un intrico nodoso, non più umano. "Salgo alla baracca per un'occhiata... Tu aspettami qui..." riuscii a dire, stupendomi per la voce uscita così normale. Solo una coperta e una corta zappa da orto trovai nell'unico abitacolo, il luogo pareva disabitato da tempo e puzzava. Forse l'eremita, in quell'ultimo mese, aveva preferito bivaccare all'aperto per non raccogliere troppa attenzione. Il piccolo recinto delle galline era vuoto, asciutto il mastello per l'acqua, smunti e ingrigiti i tre filari di pomidoro lungo il muro a mezzogiorno. Restai un attimo fermo nel sole prima di ridiscendere, sentendo il freddo nelle ossa, una lama acuta che frugava quasi volesse separare un muscolo dall'altro... "Le tasche le ha vuote, neanche una briciola..." mormorò Francesco quando tornai. "Possiamo metterlo sulla coperta e trasportarlo fino alla strada, alla cappella, non di più..." dissi, sfiancato: "Se ci vedono con un carico simile, chi gli spiegherebbe che non siamo stati noi? E poi: dove portarlo?" Lentamente cominciammo a discendere reggendo i due capi della coperta, senza più una parola, intenti solo a trovare il giusto appoggio tra il muschio viscido e le erbe. C'era un silenzio enorme, che ancora più minaccioso si raccoglieva dopo un rapido fruscio tra i rami, un improvviso scricchiolare di foglie. Ci attardammo a ricomporlo a lato della strada, disteso sotto la coperta. E già veniva buio, il cielo da verde anneriva curvando lontanissimo, l'ombra precipitava a sciabolate sinistre tra i cespugli. Giovanni Arpino
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Francesco, cupo, guatava la striscia d'erba dove giaceva quel grigio fagotto. Più in là, la massa oscura degli alberi s'era chiusa cancellando ogni residuo di colore. Non riuscivamo a muovere il primo passo, e invano stavo all'erta per percepire un battito violento del cuore, segno d'una liberazione, di un'ansia finalmente riuscita a esplodere e che subito m'avrebbe spinto via, in fuga senza più sosta. "Andiamo..." esortai con voce contratta. Ma Francesco, le mani in tasca, rifiutò la sigaretta offertagli a una spanna dal naso, e ancora guardava il corpo appiattito sotto la coperta, le punte dei piedi che formavano una gobba al fondo della rigida sagoma senza più rilievo. "... L'immondizia che doveva avere nella testa un elemento simile..." brontolò, ma mi accorsi della fatica che gli costava quell'obbligarsi a pensare, a resistere lì, fermo. "Via, andiamo..." dissi. Cominciò a muoversi, e dopo alcuni passi tutti e due ci voltammo per un'occhiata, ma il fiato nero della notte aveva già ingoiato ogni forma. "Non so neanch'io come la racconterò a Millesimo, questa storia..." tentava Francesco: "Meno male che domani torno a lavorare, così non ho tempo per pensarci..." "Piantiamola... Sbrigati..." m'uscì aridamente. Ma lui si fermò di colpo, gli occhi dilatati che solo per caso parvero incrociare i miei. "Niente a nessuno, eh?" gli si accavallarono le parole nel respiro: "Niente, mai!, capito?" "Si..." rabbrividii: "Si... Ma adesso cammina, perché ti fermi ogni mezzo metro..." Allungammo il passo, sentendo l'un l'altro i fiati crescere e con furia dar lena alla corsa. I cani dalle cascine sperdute nei boschi già si rimandavano i loro ululati notturni. Una mosca nel latte. Ecco la prima immagine, il primo giudizio che rapido affiora se penso al cumulo di tempo che segui, una nebbia che è quasi impossibile penetrare a ritroso, una mucillagine inerte in cui riesco appena a sostenermi, gli arti che sbattono disordinatamente. E intorno, come batteri presi da febbre convulsa sotto la lente del microscopio, Giovanni Arpino
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roteano in identica ossessione volti di amici, gesti e azioni che parvero necessari, nozioni e avventure e larve di luoghi amati: ciascuno occupato e bloccato entro il suo breve raggio d'autonomia, ognuno estraneo all'altro. Un formicaio che si rompe e rotola per mille istanti di vite diverse. Prigioniero tra i tanti, anche questo momento, se appena riesco a ridurlo a spoglia immobile e vetrificata di se stesso e l'infilo per esame sotto la lente, anche questo momento, Lu, è sempre quel liquame lattiginoso, quella nebbia che ci impiglia. Noi due ci dibattiamo in coppia, identici e contrari, senza riuscire a trasmetterci un'onda di forza segreta, ma soltanto il ripercuotersi meccanico, amaro, del movimento che ci accomuna... E possiamo anche urlare e inventare le più alte e infuocate parole d'amore, volano via, Lu, volano via..., non ci rinnovano!, non ci ancorano neppure all'appiccicosa poltiglia di ogni giorno, moribonda e tuttavia impegnata a ribattezzare vita, compimento, vittoria ogni tetro colpo che noi vibriamo solo in opposizione a una morte che benché ritardata sarà però anch'essa torpida, anonima, un ennesimo falò di sterpi... «Il ventisette, adesso! Adesso! Il ventisette...» mi sussurra Lu nervosa, e va bene!, allungo un braccio tra i corpi in ressa attorno al tavolo, riesco a posare l'ultimo mucchietto di fiches sul numero, e Lu ha l'occhio lucido, questo ventisette è diventato stasera per lei come una scaramanzia, una segreta prova di forza contro l'assurdo. Il cono di luce piove squallido sulla roulette appannando i colori, le mani della gente, stravolge le facce immobili sotto la patina dell'impassibilità, ora la ruota gira rosicando il silenzio d'attesa con lo sfregolio metallico della pallina. La voce di un croupier si leva cantilenando. «... Non te la prendere, tanto non avrei mai puntato su quel sedici... Ero quasi convinto del trentacinque, invece... Andiamo a bere...» le dico. «Questo ventisette, mai, ma mai vuol venire... Vigliacco!» sospira Lu con rabbia. «Andiamo...» «Finito tutto?» mi guarda preoccupata: «Neanche più un gettone? Ma quanti soldi hai cambiato?» «Ne ho ancora, ne ho ancora... Ma adesso è meglio se si va a bere, dammi retta...» Appollaiati al bar, tra le voci che stormiscono anonime dalle sale da gioco fino a noi, sento che Lu discute col cameriere, pare che l'Amer Picon Giovanni Arpino
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incredibilmente rinvenuto tra le file di bottiglie sia di formula nuova, già composto e agitato all'origine con la granatina. E infatti si rivela un'acquetta amarognola senza nerbo. «Anche questo contro! Non è possibile... Niente che funzioni qui! Ci dev'essere qualcuno che sparge jella...» protesta sottovoce Lu, posa il bicchiere, si guarda attorno con pupille fulminanti. Usciamo, e la piazzetta di Campione è già silenziosa, vellutata sotto il cielo notturno. Un'aria fresca corre dalle colline fino al lago, immobile e nero, fermato laggiù dalle luci di Lugano adagiate in corolla. «Sarai stanco morto...» si preoccupa Lu. «No, non è stata poi una gran tirata...» «Insomma : da Piacenza a Milano alla pacifica Svizzera... E correre subito a versare il nostro obolo...» insiste. «Sto benone.» «Allora andiamo volando a mangiare benissimo! Poi si torna in quella bisca e gli facciamo vedere noi chi siamo... Giuro che il ventisette ha da uscire almeno dieci volte! Lo sento! Però mi lasci cambiare i miei soldi...» «No» dico. «Sempre minorenne, vero ?» sorride luminosa : «Sempre sotto tutela, la povera piccina ritardata...» «Ringrazia Iddio...» «Uffa, andiamo a mangiare...» canticchia accennando un passo di ballo verso il lago, e ride, in una fulminea accensione d'allegria: «Che bello fare i ricchi sciuponi... Come mi piacciono questi luoghi di peccato... Come sei simpatico... Voglio giocare i miei soldini! Voglio ridurmi alla miseria...» Ridiamo, possiamo guardarci negli occhi e fissare in accordo la minuscola finestra oltre l'insegna d'un ristorante, dov'è la nostra stanza per la notte. «Non comperi qualcosa per il colonnello?, un accendisigari, un orologio... Guarda quei negozi... Se domani si arriva al natio borgo...» suggerisce, quieta. «Abbiamo tempo... Domani, a Torino...» rispondo. «Non starai meditando lo scherzo di lasciarmi a Torino!» sospetta all'improvviso: «Non vorrai difendere il mio onore tenendomi nell'ombra... Il colonnello, lo devo vedere! Farò il buon Sancio Panza, la guardia di scorta, la segretaria del dottore importante, vedi tu!, ma a Torino non puoi lasciarmi...» Giovanni Arpino
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«Ma chi ci ha mai pensato!» Sorride, sbuffa, inventa mille gesti di finto nervosismo frugando nella borsetta. «Sei diventato troppo buono, troppo gentile in queste ultime ore...» sospira: «Chissà cosa mi stai combinando in quella tua testa...» «Ah, si, giusto...» «Caro mio, a me non me la fai...» si acciglia buffamente : «Tuttavia : chissà se quel pacifico svizzero cameriere, per portarmi il mio gelato, desidera essere sedotto... Ma allora parli, si esprima il buon giovine!, abbia fede...» «Lu...» dico. «No, discorsi no...» si piega sul tavolo intenerita: «Bevi ancora un po' di vino, non dire niente... Faccio la stupida apposta per rallegrarti un poco...» «Non ho proprio niente da dire... Ti chiamavo soltanto.» «Ecco: basta così. Tu chiamami, io obbedisco...» sorride allungando una mano. «Siamo anche meglio di così, vero?» domando. «Certo, Stefano...» mi picchia dolcemente con le unghie sul palmo della mano, commossa : «Lo siamo sempre stati... Solo: non possiamo darlo troppo a vedere, sennò la gente che direbbe, poveretta?» «Ma lo sai che non capisco più niente, che non so più cosa fare...» mi esce piano di bocca: «Ho la testa che scampana come un bigliardino, un juke-box... E domani si arriva! Ma perché diavolo ci siamo cacciati in questo viaggio!» «Bevi, Stefano, sta tranquillo...» appoggia forte i polpastrelli sulla mia mano, sorridendo intensa : «Non metterti a pensare adesso, proprio adesso, e qui! Hai il trauma della moderazione, nient'altro... Me l'hai spiegato tante volte...» «Io? Ma quando?» «Come!» s'indigna con sicuro proposito: «Io bevo l'oro colato dei tuoi discorsi, non ci dormo la notte, me ne faccio una ragione, cambio vita!, mi rassegno..., e intanto il signorino dimentica... Per mesi abbiamo parlato della moderazione, con annesso trauma, e ora...» «Non ricordo, giuro...» «E mi rinfacci che piango su ogni tovaglia di ristorante! Quando per sere e sere, appena a tavola, ogni volta ricominciavi avvelenandomi ogni minuto...» Giovanni Arpino
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Il cameriere arriva col gelato, è giovane, roseo, gira su se stesso attardandosi a rimuovere piatti su un tavolo vuoto alle nostre spalle. Lu lo fissa impaziente, lo sguardo duro, le labbra che ancora si muovono come se non potessero ritardare la parola. «Mesi...» ripiglia infine, delusa: «Tutti quei ragionamenti... Di te guerriero, gran capo penna bianca!, che non ce la fai a vivere nella pace, che avresti dovuto andare qua e là, mezzo esploratore e mezzo dottor Schweitzer, che ne so!, mezzo Corsaro Nero e mezzo missionario... Per mesi mi hai fatto impazzire col tuo gran fiume Orinoco o il Borneo, e poi le Terre Dissodate o l'Algeria... Il tuo chissà quando, il tuo chissà dove! E questo è niente: perché se si fosse trattato soltanto di fuggire ai mari del sud, figurati se non ti comperavo io il biglietto!, almeno per vederti un po' contento...» «Va bene, Lu, va bene...» «... E adesso invece: niente! Non ricordi!... E quando dicevi che il valore è solo un attimo? Che brandeggiare la spada e appendere trofei non sono che un momento, oggi, mentre si dovrebbe ormai essere diversi, e saper rendere valorosa la vita di tutti i giorni?» «Ho capito... Lo so, basta...» «Eccetera!» continua, e la bocca le trema, il pollice s'infila e riemerge dalla stretta delle altre dita: «Eccetera! Questo era il trauma della moderazione! Così lo chiamavi tu! E ora mi ricaschi addosso dalle nuvole... Come ti odio! Ti darei un pugno sul naso!... Ma perché una donna non può mai allungare un bel pugno sul naso a chi sa lei, quand'è ora...» Mi studia ancora, le labbra socchiuse a inspirare, e rimuove col cucchiaino la sfera del gelato che oscilla compatta nel calice. «Hai ragione...» dico: «Adesso smettiamola, però... Non parliamo più di me, d'accordo?» «E perché no ?» riprende a sorridere socchiudendo gli occhi, in agguato: «Io chi sono? Sono mai stata? Io non c'entro, costituisco si e no una cosa, è un miracolo se posso credermi indispensabile come un orologio, o gli occhiali, mai più in là... Dunque: parliamo proprio di te, gran capo, parliamone!» «Ti sei divertita abbastanza... Su, smettila... Ho la testa...» «Come un bigliardino, lo so, lo so... Anche questa non è nuova! E poi?» oppone fieramente, ostinandosi dietro le ultime gocce del gelato. Giovanni Arpino
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«L'ho sempre detto che bisognerebbe ammazzarti...» «Grazie» risponde impassibile: «Complimenti... Nella tua testabigliardino questo sano concetto non è mai andato perso, eh?» «Lu» mormoro, confuso: «Per piacere... La storia è sempre la stessa: so chi ero, e perché... Ero sicuro del mondo... E adesso non so chi sono, cosa farne di me... Un pezzo d'uomo che non serve, una salute di ferro sprecata... Non vedi che razza d'anni si vive? Certe volte non so più neppure se parlo a te o alla cosa che sei quando ti penso...» «Gentile! A me parli, a me... Non fare il furbo...» risponde con insolita tranquillità: «A me come sono dentro e fuori, appena ottengo il permesso di consistere...» «E va bene, signora Cabala...» «Benissimo, professor Zen!» mi rifà il verso. «Qui sbagli nome...» «Può darsi... Certo non l'indirizzo, però!» ribatte con un sorriso fingendo dolcezza : «Ma tu mettiti bene in testa che devi fare attenzione... Tra un minuto, con tutti quei tuoi bei ragionamenti sul coraggio che hai e che non serve, sulla vita che è un caos, trauma e via discorrendo, tu ritrovi a credere non dico in Gesù Bambino, poverello lui!, ma addirittura nella costola di Adamo, cosa posso dire!, nel paradiso terrestre, nell'atto di dolore, nella resurrezione della carne et amen...» «Sì, si...» rispondo, stranamente rallegrato: «Ma in fin dei conti: perché poi dovrebbe essere giudicato una sconfitta il credere la vita un mistero? Come faccio a saperlo, io... Forse gioia e dolore sono solo minime schegge di questo mistero, una frazione piccolissima... Forse le parole "regno celeste" o "avvento" e le parole "rivoluzione", "libertà", hanno significato sempre la stessa cosa...» Non riesco ad andare avanti e lei ha distolto lo sguardo. Al di là del parapetto, contro la buia parete della collina, avanza sul lago un triangolo di minuscoli lumi, un vapore. Lentissimo muove nel silenzio, e Lu lo segue, accigliata, le pupille nere di solitudine come sempre quando dico cose che sembrano volermi dividere da lei, farmi diverso, togliermi al suo soccorso. Il triangolo luminoso trema rimpicciolendo, il gemito dell'acqua mossa arriva a spegnersi sulla pietra. «Stefano, Stefano...» la sento sussurrare, come lontana: «Non diventare irraggiungibile... Questo no...» Giovanni Arpino
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«Perché? Cos'ho detto di nuovo? Anche di questo s'era parlato, se ricordi tutto...» «Non farmi paura... Non diventare irraggiungibile...» mormora ancora evitando di guardarmi: «Se ti pigliassi una ragazza più giovane, più allegra... Capirei tutto, non dovrei dirlo ma è così... Però non finire troppo lontano, non mettermi paura...» Ogni tanto un'ombra, o coppie di ombre, passano svelte, in silenzio, dirette al casinò. Uno sgualcito e taciturno gruppetto di uomini è sceso da un pullman, subito si è mosso attraverso la piazza, il passo frettoloso, senza uno sguardo ai bar, alle vetrine che gettano fiotti di luce nell'ombra. «Adesso pago il conto e rientriamo là dentro a giocare il tuo ventisette...» decido. «Senti» mi fa, gli occhi ostinati a fissare la collina oltre il lago, e allunga la punta d'un piede a battere leggera contro il mio : «Se mai torno viva da quel tuo paesello, che secondo me non esiste neanche!, che dev'essere tutt'una trappola inventata da te per farmi perdere le tracce..., se mai ne esco fuori intera e non ancora rimbambita, al ritorno ne riparliamo, di queste cose... Mio Dio!, mi fai sentire come una madre dolorosa all'idea che il suo unico figlio va soldato, o prete... In che stato mi sono ridotta... E tu non vuoi deciderti a fare le sole cose che ti sistemerebbero la coscienza: cioè mandare all'inferno l'ufficio, se ormai ti costa tanto e ne sei stufo, mandare all'inferno anche me!, se è necessario..., e ricominciare... Tu hai bisogno di essere allegro, di credere in quello che fai, di sentirti utile, preso fino al collo...» «Davvero ?» rido. «Insomma, smettiamola... Ma perché mi lasci parlare tanto? Per potermi poi dire che sono una baraccona?, che mi inciderai sulla tomba "non tacerà mai quanto ha parlato"?» «Oggi hai battuto il record...» Socchiude gli occhi a scrutarmi, già diversa. «Solo il ventisette... Voglio soltanto stravincere su quel maledetto ventisette... E poi dormire. Vicini. Vero? Dico solo : dormire.» Le parole le sono venute via come una nota lieve, allegra, ma lo sguardo insiste a fissarmi, preoccupato di chissà quale reazione. «Andiamo...» dico: «Non aver pensieri...» «Proviamo in uno di questi bar, se per caso si trovasse un Amer Picon vecchio stampo...» bisbiglia. Giovanni Arpino
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M'infila una mano sotto il braccio, sospira, ci avviamo tra le doppie file di automobili allineate lungo il parapetto che dà al lago. Un vecchio dal pastrano ricoperto di galloni dorati, si avvicina tra le macchine con leggeri inchini propiziatori. «Ti voglio bene...» mormora Lu: «Lasciamelo dire, lasciamelo scappare, ogni tanto... Sennò a chi lo vado a raccontare, a un croupier?» «Ventisette e cavalli, rouge, impair e passe...» le sussurro all'orecchio. «Farabutto...» ride scuotendosi con forza, e batte i tacchi più volte. Il quadrato di luci del casinò chiude la piazzetta, là in fondo. Oltre i vetri del primo piano oscuri fantasmi ci aspettano, aggirandosi e integrandosi con vaghi contorni. I colori d'una bandiera pendono immobili nell'aria buia. Vieni avanti, Lu, ti vedo dall'angolo del caffè, il tuo corpo muove sul marciapiedi con gesti riposati dalle spalle ai ginocchi. Il mattino ti si ritaglia intorno, pulito e corposo, tu placidamente sorridi, e sul tavolo, qui, t'aspetta la tua tazza di caffè nero, un'arancia spremuta. E poi ci sono i giornali, da leggere rispettando il silenzio del primo, cauto risveglio. Tutto il tempo che vuoi, per risalire in macchina. In tre ore saremo a Torino. Ma adesso il lago, là di fronte, è un inchiostro azzurro tra la vasta apertura delle colline, la piazza è vuota, due commesse lucidano in ampi circoli delle braccia le vetrine d'una bottega... Vieni avanti, Lu, proprio così, dolce, senza fretta, con un sorriso che sa e cambia, non fermarti ma moltiplica la durata di questo minuto, fallo durare, rallenta, ti dico che puoi... Finché cammini, mi sembra di poter muovere lo sguardo e trovarmi in esatto equilibrio con ogni cosa, il gesto delle ragazze sui vetri, l'odore tiepido del caffè, la vernice posata sulla chiesa e sugli alberi lontani, sulle insegne spente delle sigarette... La casualità del luogo pare voglia nascondere tra quinte assurde e leziose un interrogativo favorevole, il segreto d'una pace concreta... Com'è profondo e totale il respiro, nell'attimo in cui ti senti padrone, e vivo, in salvo! Adesso me la rido, Lu, ancora pochi passi e sarai qui seduta, ma io me la rido, non hai idea quanto!, perché in un'improvvisa, fulminea raffica d'immagini precipitate a raddoppiarsi, annullarsi, ho rivisto i miei diversi aspetti negli anni, ho risentito, intorno e lungo ogni volto, ogni gesto che Giovanni Arpino
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m'appartiene, voci perdute che trascorrono e si sfaldano come fumi cui basta un alito contrario perché risultino vani... Per raggiungere questa mia forma d'oggi, che tu vuoi, che circondi e difendi, mi sembra d'aver attraversato centinaia di metamorfosi prive di senso. Il bruco che non solo si promuove a farfalla, s'invilisce e ricade bruco, ma è costretto a essere anche salamandra, e poi tigre, e poi tafano... Come non mi avresti amato!, Lu, come sarebbe riuscito ridicolo un nostro incontro!, altrove... Io vestito alla marinara per la prima comunione, ad esempio, e l'orologio che subito dopo dovrà essere riposto ecco che ha da sporgere tra il polsino della camicia e il bordo del guanto di filo... Oppure soldato, con la coscienza della morte vista e inflitta, e tuttavia tornato a trascinarsi inerte dalla latrina alla branda al rancio, per mesi che ricuciono sulle verdi, nuove speranze, l'antica rete italiana di sospetti, di iniquità e differenze, e mentre sempre più stanca è la forza di ribellione e di consapevolezza che cerchi di comunicare agli altri, alle ore che ti circondano... Ti lavi un paio di calzini grigioverdi, ti riattacchi un bottone, sei li con pochi spiccioli in tasca e durante la libera uscita per una Napoli a brandelli, che si riscalda nei vicoli al fuoco di cassette . per la frutta ammucchiate, giri e sosti indeciso tra una pastasciutta e il bordello... E intanto li immagini i piccoli industrialotti al paese: sono di nuovo tranquilli, Francesco si alza alle cinque e s'infagotta in un treno per raggiungere la fabbrica a Torino, tu sei qui, a porgere natiche e mani aperte al fuoco, in un cerchio di uomini taciturni, dai musi senza storia, mentre loro, al tuo paese come in ogni altro paese, svanita ogni preoccupazione dei tempi muovono per le sale del Circolo, la stecca appoggiata indolente alla spalla, ogni attenzione la rivolgono al panno verde del biliardo che li ricompensa degli intrighi quotidiani, le finestre del Circolo danno sulla collina dove riposano ville e vigne che nessuno ha potuto togliergli... Chissà dov'eri, Lu, mentre con un vecchio camioncino carico di manifesti elettorali si andava di corsa a imbrattar muri da un paese all'altro, a gridare verso un po' di gente smunta raccoltasi in piazza, spiegandole come si deve votare, e chi, perché... "Con quei capelli li, lunghi sul collo, chi vuoi che ti pigli sul serio... Ci confonderanno con gli zingari! Per dire le cose che dici, serve anche presentarsi in bellezza, la vuoi capire? Domani, meglio se te li tagli..." mi borbottava contro Francesco, riponendo sul camioncino colla, pennelli, rotoli di manifesti, quei tre o quattro dischi Giovanni Arpino
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già logori. Oppure, Lu, pescando a caso una carta dal mazzo: "A Dio piacendo, finché io vivo, in questa casa si va a tavola alle otto!", diceva a quel tempo il colonnello Giacomo Illuminati. Unica sua rivincita, era inventare minute discipline, sbarramenti d'orario, complicati pedaggi d'abitudine, rispettando i quali si poteva forse sperare in qualche sua occulta remissione dei peccati. M'ero giurato di tenergli compagnia almeno a pranzo, anche se vivevamo ostilmente. Si mangiava ai due opposti lati del tavolo, Caterina andava smuovendo più piatti che cibi, le scarne parole che lasciavamo emergere intendevano solo porre un freno a diversità e contrasti più profondi. Raro lo scambio d'una occhiata, subito pronta a distogliersi quasi timorosa di penetrare oltre lo schermo d'una intimità che voleva reciprocamente conservarsi segreta, insondabile. E a ogni novità che la radio emetteva dal suo angolo, un corrugare di fronte o un gesto della mano muovevano rapidi a sottolineare gli opposti pareri nemici. Se a uno dei due sfuggiva di mano il coltello, il tovagliolo, o schizzava maldestramente dal piatto uno spicchio di mela, l'altro era preso alla gola dalla voglia di sfoderare le proprie opinioni sul mondo e scagliarle addosso all'avversario colto in improvvisa difficoltà... Lui già aveva ritrovato la truce compagnia di giornali che gettavano olio sul fuoco della sua opposizione, e ogni segno di disordine, di smarrimento civile, tendeva ad accoglierlo come puntello di un amaro, solitario conforto. L'immagine di una Patria difficoltosa, in tocchi e proteste, era si ingiuria, però gli nutriva e giustificava la sua giornata d'acrimonia: era lo specchio d'un mondo, d'un vivere, cui bisognava saper dire no, per sempre, con feroci, raddoppiati atteggiamenti di scherno. Ripiegata in bella vista su un tavolo o sulla cornice di marmo del camino, mi lasciava a volte una pagina con titoli e notizie infami, con offensivi spropositi che avrebbero dovuto documentarmi la bassezza toccata da noi così pronti a proclamarci gente nuova, libera, migliore... La rissosa congerie della cronaca che rifletteva lo strazio e le lacrime di un'Italia ammalata ma viva, lui desiderava elargirmela come il sigillo autorevole d'una storia che tutti ci avrebbe seppellito nella vergogna e nell'odio... E proibiva quindi a Caterina di rimuovere il foglio li collocato, perché a lungo restasse in evidenza. Ostinato, continuava a frugare tra le macerie degli anni fuggiti, alla Giovanni Arpino
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ricerca d'un appiglio che rivelasse patenti di decenza, di ineguagliabile nobiltà. Pur disperato, né illudendosi di poter rimuovere il coltello che il tempo suo gli aveva conficcato nel cuore, si accaniva tuttavia in assurdi confronti ed ipotesi, ora pieno di fantasie sulle imprese che i duchi d'Aosta, favoleggiati come ostili ai Savoia, avrebbero potuto e dovuto compiere, ora citando proverbi, versi di canzoni, pulcinellate, a testimonianza d'una saggezza popolare, oscuratasi, ma che presto sarebbe risorta per ridare violentemente a ogni emblema, ogni principio, il suo sacrosantissimo posto di egemonia, di divino rispetto. Alla fine di uno di quegli anni che sono marciti nella nostra storia come un tronco rosicato da milioni di larve parassite, volli portarmi in casa una ragazza. Avremmo potuto benissimo dormircene in albergo e festeggiare l'anno nuovo a modo nostro, e solo un moto di sacrilego antagonismo mi obbligò a introdurla attraverso la veranda, zittendoci emozionati, poi subito allegri e timorosi lungo le scale al buio. A riparo infine nella mia camera, un'esilarante frenesia ci provocò mentre ascoltavamo i passi del colonnello e di Caterina per la casa, trovò stimoli per ore nel debole rinnovarsi della solita vita al pianterreno. Finché udii bussare alla porta, e il brontolio di Caterina in corridoio. Puntai i ginocchi contro la coperta, e nel vuoto rizzatosi a nascondiglio subito la ragazza si rimpicciolì. "Lui ha già capito... Vergogna!" fece Caterina attraverso lo spiraglio della porta: "Ha persino spento la radio... È bianco come un morto... Mai visto così... Scappate via, o stavolta succede qualche disgrazia..." La ragazza rideva, soffocando i singulti, la scalciai mentre si agitava con le unghie e coi denti. "Ma cosa dici... Cosa salta in testa, a te e a lui..." cercai di rispondere. Ma già Caterina scendeva le scale, sospirando un accenno di preghiera. Tornò dopo pochi minuti, ansimante, socchiuse più largo lo spiraglio per infilarvi un'occhiata paurosa. "Le dico che finirà per venir su... Vi ammazza tutti e due!, prende la pistola e vi ammazza..." le usci in un gemito: "La faccia scappare, quella li... Scappi anche lei, andatevene a Torino... Dio!, ci fosse ancora la povera signora... Che gente, che casa stiamo diventando! Scappate... Lui viene su e spara, giuro che spara..." "... E che spari... E vedremo chi sparerà..." le rinfacciai furibondo. Di colpo misi a nudo la ragazza, che ebbe uno strillo, invano cercò di Giovanni Arpino
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riafferrare i lembi del lenzuolo. "... Madonna, o Madonna..." restò impietrita Caterina: "Adesso viene... E cosa faccio, io? E se perde la testa e inferocisce anche con me?" Fuggi a mani giunte, e la ragazza non rideva più, mi guardava sbalordita non osando muoversi, le mani al petto, i ginocchi rattrappiti. Il colonnello non lasciò la poltrona al pianterreno per tutta la notte. Ascoltammo il suo andirivieni furioso sotto di noi, il rimuovere e lo sbattere dei libri, d'una seggiola, della porta che dava in giardino. Un mugolio ossesso pareva a volte trasudare dai muri, un "... bisogna morire!" l'udii chiaro, sillabato, esplodere nel chiuso della stanza dove si riteneva insultato e prigioniero. Ma non mosse piede fino alle scale. "... Ho mal di pancia... Dimmi dov'è il gabinetto... Cristo, la cretina che sono a darti retta..." lamentava la ragazza con gli occhi sbattuti dal sonno. "... Non ti muovi di qui! Canta, ridi, crepa... Ma non ti muovi..." le rispondevo senza guardarla. A tardo mattino, ancora sentii bussare alla porta, un'altra volta la ragazza si seppellì sotto le lenzuola. "Ecco una frittata, di due uova..." brontolò Caterina a faccia scura porgendo il vassoio tra i battenti dischiusi : "... Ma andate via, via!... Se passate dalla veranda, lui non se ne accorge, pover'uomo... È ancora nella poltrona! Bel rispetto! Bei propositi per l'anno nuovo, con tutto lo studio che c'è in ballo..." Ecco tutta la moneta che s'è spesa, Lu. Guarda: la faccio rimbalzare, e il suo suono non è più d'oro... Le irsute discussioni al Circolo Operaio o nelle sezioni dei partiti, con vino nero sul tavolo, Stalin nel cranio e un enorme lievito di speranze che gonfiavano nella notte e inacidivano poi in fabbrica, ogni mattina, valgono come questi gesti perduti, scivolati via quale acqua ai bordi d'una pietra ben ferma, d'una sincerità che bisognava saper affrontare, conoscere, far propria anche a costo di perdersi nelle vene del suo più doloroso segreto... Valgono come le briciole d'un sapere spigolato tra professori distratti, ignari, valgono come uno qualunque dei miei giorni attuali, in ufficio a Roma, a distillare il fumo di una necessità che pretendiamo reale, rispettabile... Valgono come le risorse che oggi ci si inventa, ci si scambia, per mettere un goccio d'olio nelle giunture degli anni, per rinnovare un volto adatto a seppellire anche la vanità dei ricordi... Basta, Lu, siediti, bevi il caffè, scompiglia il mazzo di queste carte, non fanno più gioco. Meglio abbaiargli subito contro, a questo corteo d'ombre Giovanni Arpino
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che comincia pomposo, elettrico, e finisce indecifrabile, meglio respingerlo con violenza nel suo limbo, è una piaga aperta anche il suo sforzo di costituire, con tanti fantasmi, un verosimile corpo... La tua tazzina ora è vuota, un grumo denso di zucchero e sugo d'arancia è al fondo del bicchiere, i giornali scompaginati possiamo abbandonarli sul tavolo. Sento la tua voce che parla, e questo può bastare, anche se non ti rispondo, se non so cosa dici, perché ridi... Ma tu continua, muovi le labbra, non inciampare in qualche pericoloso silenzio... Non ci rimane che dar fondo a questo viaggio, Lu, la strada è dolce e veloce fino a Torino, corre tra risaie che appariranno verdissime, quelle nuvole lassù non sono vere nuvole di pioggia. Tra poche ore usciremo dalla pianura, i corvi planeranno lenti, con sagace indifferenza, lungo i declivi delle colline. Vedrai che sapremo sostenere con giudizio la nostra minima parte di pace.
VI «Là...» sussurra Francesco. Il cane è già scattato, le zampe rigide e caute. Soffia, trema nell'erba profonda. Si volta un attimo a guardarci, di nuovo schizza via annusando, inverte la breve corsa affannata e ristà immobile, un brivido lungo la spina dorsale. Francesco seguita a eccitarlo con sommessi schiocchi della lingua tra i denti. Ed ecco, improvviso ingarbugliato nel volo, un piccolo fagiano s'alza tra le gracili triangolazioni dei fagioli appena piantati, al limite del campo. «Lo sapevo... Ce ne deve essere un'intera famiglia in pastura li sotto...» sorride Francesco. Poi: «... E stagli dietro, o imbambolato...» incita il cane che si dibatte confuso. Il fagianotto ha già picchiato verso il basso in frullante parabola. Sparisce nel folto di ortiche e gaggie che scoscendono al fiume. Riprendiamo a camminare, le mani in tasca, il cane guizza e sosta davanti a noi, sternutendo felice, dimentico. Pollini di pioppi vagano innumerevoli cullandosi in lunghe spirali per l'aria di seta. Il cielo è altissimo, d'un azzurro immacolato. «Hai visto? Non ci dà dentro... Sono le prime volte che lo provo, ma anche a te non sembra quel granché di cane, vero?» commenta Francesco. Giovanni Arpino
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I talloni ben piantati nel terreno smosso, l'erba ai polpacci, sostiamo immobili davanti al fiume. L'acqua quieta e traditora si separa pigramente attorno a una pietra, un ramo sprofondato. Il corso motoso è come la pelle d'un vecchio serpente, sparisce alla curva torcendosi in una doppia lenta spira. «Proprio là si è buttato...» precisa Francesco e fa un nome, tendendo il braccio verso un gorgo lontano del Tanaro. Subito ricordo mani e volto di quell'uomo, un conciatore, ci era sempre parso così vecchio e mal destinato anche allora... Ripeto il nome, aggiungo: «Perché?». «Debiti... Ma anche il vino, anche la bestialità che vien fuori... Cosa vuoi che possano contare i debiti, da soli?...» risponde Francesco scontroso. Ci è difficile parlare, vecchi ingombri di pudore ostacolano il desiderato abbandono, da oltre un'ora ci scambiamo avaramente notizie quasi fossimo intenzionati a ritardare ogni vera confidenza possibile. In silenzio, guardiamo oltre il fiume la grande parete di tufo grigio che al culmine si arricciola di cespugli e chiazze d'erbe selvatiche. Lungo i cinquanta metri che strapiombano lisci fino alle acque, corrono perpendicolari rughe profonde, più scure, come vene disseccate. «Certo che per voltar pagina non c'è niente di meglio del Tanaro...» aggiunge Francesco soddisfatto, e mi provoca con l'angolo dell'occhio, attento. «Non per gente come noi» rispondo : «Vedrai che proveremo qualche piacere anche da vecchi, mentre si stapperà una bottiglia con dita che tremano... Sono sicuro...» Lui sorride, annuisce, smette di spiarmi. «Non ricordo più il nome di quella rocca» dico mirando la parete grigia. «"Leonessa" o "Leona"» mi fa: «Dicono che ci siano anche tombe di soldati romani, d'un accampamento... Un bel salto, da lassù. Con un tuffo: ciao Rosina...» «E piantala! Non mi dirai che ti prendono certi pensieri...» lo derido. Si volta a guardarmi, il volto aguzzo appena rappreso in una smorfia di compiacimento. «A me è venuta fuori una qualche razza balorda...» si lascia andare con circospezione : «Pigliassi le cose sul serio, come fanno gli altri, o sarei al manicomio o addio Francesco... No, non sederti lì: sembra asciutto, ma è Giovanni Arpino
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fradicio...» Risaliamo tra l'erba, il cane guaisce lontano, i campi giacciono in profili ondulati interrotti da pochi gelsi. Laggiù è appena visibile il disegno delle colline nel sole, qualche aspro spigolo di cascina si fa largo accanto a un pagliaio smagritosi nell'inverno. «Per questi fossi, una volta, si trovavano gamberi d'acqua dolce larghi due dita... Adesso neanche più un rospo...» brontola Francesco studiando i solchi. Si accuccia per ricevere il cane che sta correndoci incontro di furia, il muso ben sollevato oltre l'erba. Lo costringe pancia a terra, gli esamina con scrupolo i lunghi orecchi, scostando i peli per scoprire eventuali spine. «E tutti i giorni? Come va la vita?» finisco per decidermi. Continua a ispezionare il cane, che inghiotte aria ansimando ed è incrostato di fango dal muso alla coda. «L'hai visto anche tu...» risponde senza sollevare la testa : «Arrivi da Roma, entri al caffè, e subito mi trovi con gli scacchi sul tavolo e un altro fatepocofratelli di fronte... E se non fossero gli scacchi, sarebbe il pinnacolo, o i tarocchi in tre...» Rovescia delicatamente gli orecchi dell'animale per scrutarli all'interno. «Anche al caffè, tutto come sempre...» continua: «I soliti tavoli, le solite facce... E quando suona il telefono, trenta voci che avvertono la padrona: "Se chiedono di me, di' che sono appena uscito...". Insomma: questa nostra repubblica fondata sul lavoro...» Ridiamo sommessamente, stando accosciati ci arriva forte dalla terra l'odore della stoppia marcita, dei residui di letame sparso durante i lavori d'autunno. Tra le erbe, vive macchie più acute distinguono la menta selvatica, i ciuffi densi del trifoglio. «Per me: basta non consumare, non provar bisognò... Questa è l'unica regola» seguita calcolando le parole con astuzia svagata : «Un paio di brache di fustagno, per esempio... Scelte quelle, sei a posto per una cinquina d'anni, in fatto di decenza... Ogni tanto trovo un vecchio fucile, lo risistemo, lo vendo. Oppure fabbrico qualche falso avancarica, o un pistolone, sai quella roba che la gente oggi si diverte a appendere ai muri... Capito? Non ho più il fisico per lavorare, io... Lavorare è un lusso...» Il cane vorrebbe sfuggirgli, si agita frenetico con un lamento timoroso nel respiro. Finalmente libero, ha balzi scomposti, fremiti che gli scuotono la pelliccia inzaccherata. «Tempi per le donne, ormai, questi...» conclude Francesco tirandosi in Giovanni Arpino
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piedi, subito accorto a posare altrove lo sguardo: «Sai chi sta bene? Mia sorella... Lei si che sembra fatta apposta per godersi il mondo... Ma la tua amica, a proposito: perché non è scesa dall'auto?» «Sai come sono fatte... Avrà voluto lasciarci soli per un po', a parlare...» rispondo, e occhieggio le ondulazioni lontane dei campi, come potessi vedere la macchina sul sentiero e Lu seduta ad aspettarci. Da un'ombra di sorriso salitogli alle labbra, capisco il suo cauto apprezzamento per Lu, che l'antica diffidenza, la segreta timidezza gli impediscono di rendere palese. «Torniamo?» propone brusco, avviandosi: «È ora che ti faccia vedere da tuo padre... Siete appena arrivati... Ce l'hai un giornale vecchio in macchina? Non vorrei che il cane sporcasse...» «Mai più visto il colonnello?» domando. «Una volta ogni sei mesi... Passa per la strada marciando duro e fisso come avesse l'attaccapanni sotto la giacca, naturale...» Nel sole che va piegando, anche le colline hanno acquistato un disegno più preciso, il colore del cielo s'è fatto consistente. Alle nostre spalle la trincea d'ombra degli alberi che costeggiano Tanaro è diventata massiccia e oscura. Ritorniamo verso il sentiero senza una parola, respirando gli odori d'acqua e di erba. «Senti un momento...» riesco finalmente a esprimermi trovando posto a sedere accanto a un gelso: «... Diciamoci due parole, via!, scarichiamo un vagone di Padreterni!, se vuoi..., ma parliamo... Se non ci riusciamo neanche noi!... Sennò cosa sono tornato a fare... Domani già riparto...» Ride silenziosamente, piega con cautela i ginocchi e siede anche lui, attento però a sostenersi con la schiena all'albero per non poggiare un solo centimetro dei pantaloni nel verde umido. «Va bene, va bene» acconsente : «E cosa vuoi dire, cosa dobbiamo fare...» A testa china, si dondola seguitando imbarazzato a fissare l'erba. È rasato a lucido, i pori della pelle appena visibili. E ha rosee anche le mani, lunghe, molto diverse dalle grinfie di un tempo. Solleva le pupille spaesate e attende che parli. «Ho fatto male a andar via, è così ?» comincio di forza : «Avrei dovuto restare qui, sarei stato utile, forse... E anche adesso dovrei decidermi a restare... Dimmelo pure, non credere di offendermi o di...» S'oppone con un gesto reciso, e nega guardando i campi deserti, le Giovanni Arpino
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rocche di tufo oltre Tanaro, già oscure. È arrossito per la violenza che gli ho imposto, ma seguita a muovere le mani rendendomi chiaro che accetta, che parlerà, che non vuole sfuggirmi, ormai. Cerca le parole meno traditrici, e io devo star calmo. «No, non pensare stupidaggini simili, neanche per un momento...» dà inizio infine staccando lentamente ogni sillaba : «Il massimo che avresti potuto fare, qui, era di diventar sindaco, occuparti delle fognature, pensa un po'..., e saresti andato in processione al Corpus Domini, con il tricolore sulla pancia...» Sposta gli occhi a spiarmi, in un ultimo sospetto, i denti dischiusi gli deformano il solito sorriso inalberato a protezione. «... Non che non servano anche le fognature, anzi...» aggiunge ironico: «Ma per te, per la tua testa..., sarebbe stata la morte del pidocchio... Credimi: se non altro sono stato assessore persino io, una volta...» «Però, tu...» Subito alza la mano, e ancora la agita, per cancellarsi come argomento. «Io non sono un buon esempio...» risponde quietamente: «Me ne sto nel mio buco come una marmotta... Non piglio più niente sul serio, è deciso... Vuoi saperlo? Non voglio più niente! Non dirmi che non te ne sei accorto alla prima occhiata, al caffè...» «Ma come è possibile, come è successo...» lamento sottovoce, soprattutto perché non vada smarrito il filo del discorso: «Gente come noi, come te... Proprio tu: eri già diventato un fior di meccanico, avresti potuto levarti un mucchio di soddisfazioni...» Sorride tranquillo, le rughe delle guance gli si approfondiscono fino al collo, le mani si disintrecciano per poi cominciare a battere piano, ritmate, l'una contro l'altra, nocche a nocche. «... E il vivere che è una trappola...» pronuncia infine: «Inutile agitarsi... L'abbiamo sbagliata allora. Avevamo l'occasione e nessuno se n'è accorto.» Butto via la sigaretta a metà, la seguiamo mentre fuma tra l'erba, esilmente. Ogni tanto un frusciare più violento ci avverte del cane, in corsa tra i filari dei fagioli, nei cespugli delle ortiche. «... Un milione o due bisognava trovarne, altroché storie...» si spiega con calma: «Solo così si fanno nascere le cose nuove... Dovevamo mettere di mezzo tutti, magari padri e madri... Non per politica, figurati se proprio adesso penso alla politica!, ma per essere onesti, far giustizia, andare Giovanni Arpino
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almeno una volta fino in fondo...» Tira il fiato e mi fissa, gli occhi come sbalorditi per le parole guizzate fuori a colpirci. «... E ancora oggi bisognerebbe tirare a sorte un nome ogni domenica e impiccarlo in piazza, diecimila paesi diecimila piazze diecimila fratellini che dondolano... Se te lo dico io, che rispetterei la vita dell'ultimo dei topi, e lo sai...» «Non la pensavi così, allora» ribatto. «Ho sbagliato. Sempre stato un minchione...» brontola placidamente : «Ma qualcuno ha forse avuto il genio di spiegarci il contrario? No. Qualcuno è forse saltato fuori a dire: ehi!, bei ragazzi, è ancora lontana l'ora di dormire? No. Tu si, tu saresti stato tra i pochi disposti a far piazza pulita, gran raffiche a destra e a sinistra!, magari senza capire il perché... Tu l'avresti fatto... Ma ormai: perso il manico, per riprendere il coltello bisogna farsi tagliare le dita... E poi: c'è ancora un coltello?» Ride, mi guarda cercando approvazione. «Sai una cosa?» rispondo rassegnato: «La lapide è questa: il partigiano onesto, l'uomo onesto, è stato un tale che a un bel momento ha creduto giusto smetterla di rafficare, e oggi è un talaltro che rimpiange giorno e notte di non aver rafficato abbastanza.» «... E chiuso l'incidente» commenta lui, agitandosi dalle spalle ai ginocchi, provocato, in un violento accordo che ci impedisce persino di scambiarci un riso fraterno. «... Ma te lo immagini Robespierre che stacca quaranta teste al giorno e poi, alla sera, va al caffè con un Talleyrand o anche un Benedetto Croce?» m'invento con gelida rabbia: «Noi, invece, pronti! Arrivano in vagone letto i vecchi antifascisti a predicare, a dirci: siate beneducati... E subito gli stendiamo il tappeto rosso sotto i piedi... Figurati se ci viene in mente che è ora di far tutto da soli!» «...Siamo troppo buoni» aizza Francesco: «Ma ci pensi a un Lenin che con un bell'inchino chiede allo zar il permesso di far fuori un po' di proprietari in Ucraina?» Sorride, si volta intimidito : «Qualcosa, delle rivoluzioni, di storia..., due o tre libri li ho letti anch'io...». Ha una smorfia, mentre la destra uscitagli fulminea di saccoccia si stende ironica, l'indice ripetutamente piegato e ritratto su un grilletto immaginario. Giovanni Arpino
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«... Lo spavento che mi piglia quando ci vedo così ignoranti...» s'acquieta poi: «Io sono niente, ma più si va avanti più mi accorgo che chi ha studiato se ne intende ancora di meno, non sa darsi mai una spiegazione...» «... E chi vuoi che ci dia retta...» provo a riflettere: «Chi ti sta a sentire quando dici di quei ventimila morti partigiani, che sapevano quel che facevano... Non erano disgraziati alpini in Russia, o poveri diavoli sbattuti in Africa... Noi più o meno si sapeva cosa andava fatto e perché si rischiava la ghirba...» Ha un gesto di stanchezza, per spostare ogni antica reminiscenza, rimpicciolirla via. «Non è ora che voi due andiate dal colonnello? Si fa tardi... E poi, tutto questo parlare...» brontola appena. «Sta lì, non muoverti, almeno un momento...» lo invito a bassavoce. Il cane s'è avvicinato tra l'erba, in rapida smania, ma vistici tranquilli è corso via, in insensati zigzag, mugolando contento. «... E su, parla... Siamo qui per parlare...» lo invito. «Ma cosa vuoi ancora che dica!» replica Francesco fingendosi snervato : «Uno fa i suoi conti, vede che siamo una razza di gente impossibile a imparare, vede che i trent'anni li ha più che passati..., eccetera, e allora si dice: basta, non m'immischio più, non voglio più niente. Lo so, lo so anch'io che è sbagliato. Sono il primo a ripetermelo tutte le mattine quando mi tiro su dal letto...» «Chissà. Forse potremmo essere contenti così come siamo, se non sapessimo ciò che siamo stati...» rispondo. «Cristo!» ride sommessamente: «Ma tu sei venuto qui da Roma solo per mettermi il pepe sul didietro?» Dall'erba trasuda un fresco umido che arriva alle ossa, e l'aria spinge gli odori del fiume, si muove in estenuati scricchiolii tra le canne selvatiche. «Tanto: è inutile... Non avremo un'altra Primavera come quella là. E allora: ferma i buoi!» conclude Francesco con improvvisa forza stringendo le mani, la pelle stirata gli diventa bianca dalle unghie ai polsi. «... Ma forse esageriamo...» ricomincio per non dargli occasione di rialzarsi subito : «Magari anche a noi basterebbe una casa, due o tre figli, la gabbia coi canarini... Cosa ci servirebbe, adesso, ciò che volevamo allora? Non siamo più gli stessi...» «I figli, i canarini...» ride rilassandosi un poco: «Chissà, magari Giovanni Arpino
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basterebbero davvero... Nascendo adesso, però. Certe volte ho un'invidia così maligna per chi oggi ha quindici anni... La bellezza di non saper niente!, di essere venuti dopo, d'essere magari anche un po' più stupidi... Noi: spenti come fiammiferi, anche se ci guardiamo bene dal riconoscerlo, anche se romperemmo il muso a chi osasse dircelo... Non abbiamo saputo far giustizia, e ormai nessuno ce la può regalare. Quindi: pace ai popoli.» «Ah, si capisce: pace!» mi esce lugubremente. «E staremo a vedere se sbagliamo anche questa, come abbiamo sbagliato la prima...» suggella lui. «Bella razza di pace senz'ossa...» mi obbligo a dire: «Certe volte sembra un vero schifo, una cosa da vergognarsi... Ma allora cosa ne dici della gente che balla, va in macchina, mangia meglio... Sta più al comodo, dopotutto... E noi volevamo anche questo, no? Ogni tanto mi sembra di pretendere troppo, da me, da tutti... Forse la gente è contenta così, siamo noi che sbagliamo, forse la gente, miliardi di gente!, se ne sta allegra, non pensa, inghiotte, ronfa e tutto le va bene com'è...» «... Ed è carogna» replica, annoiato: «Era carogna, continua a esserlo. Avremmo almeno dovuto cacciarle nel cranio il nuovo comandamento : non essere carogna. Toglierle ogni illusione di appiccicarsi al solito "ciascuno per sé e Dio per tutti"... È su questo tavolo che ci siamo giocati il settebello come una scartina qualunque. E allora: punto e a capo.» Un doppio, improvviso suono di clacson ci divide, subito Francesco è in piedi con uno scatto di sollievo, fischia al cane, ci incamminiamo in silenzio. L'orlo dorato delle colline ha reso più soffice il cielo. Per un sentiero che s'arrampica lontano tra il verde appare un carro di fieno. Due buoi lo trascinano, nel vuoto si rompe la voce rauca del contadino che li sollecita al colmo della salita. «E Millesimo?» domando. «Il professor Millesimo, vuoi dire...» mi rimanda Francesco con un riso senza suono: «Per carità... Non vado quasi più a trovarlo... Se ne sta come morsicato da un serpente, non si riesce a scambiare due parole. Ma forse lo fa apposta, quando vede uno di noi... Dammi retta : meglio se non vai a cercarlo.» «Anche di politica non si interessa? Non è possibile...» domando ancora. «Eh...» sospira per rendere più evidente lo sforzo che gli costa rispondermi : «Prima che la politica diventi giustizia, noi saremo letame, noi...» Giovanni Arpino
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Accanto alla macchina, Lu aspetta, ha gli occhi stanchi, rientra a sedere e senza guardarci richiude la portiera con mano nervosa. «Non è colpa mia, signora...» si difende Francesco trascinando la voce : «Si comincia a discutere, e allora...» «Siediti, siediti...» gli taglio la parola. «Non ho più l'abitudine a ganasciare tanto... M'hai fatto perdere il fiato...» si commisera ancora lui forzando il cane a starsene immobile sul sedile tra un mucchio di giornali. «... Eppure, senti qui!, a me continua a venire quest'idea: sai gli alberi mozzati a metà, quei gelsi..., che paiono morti, e poi gli spunta un ciuffo di verde più vivo e ardito di prima? Così mi sembra di gente come noi, certe volte... Sarà perché non sono mai stato abituato a rassegnarmi...» m'incoraggio a dire mentre in macchina risaliamo il sentiero, e si procede lentamente, a sobbalzi tra i sassi e i solchi rugosi lasciati dalle ruote dei carri. «Se lo dici tu che hai studiato...» schernisce Francesco da dietro, ma con una prudente vena di rispetto nella voce: «Però non farmi più pensare, adesso... Non macinarmi la testa, va bene?, in fin dei conti sono sempre poco più di un contadino...» Lo scruto nello specchietto retrovisore, lo vedo dalla fronte al mento, solido e caldo mi rincuora per un attimo il contatto con la sua faccia, quelle pupille acute e rapide nel fissare. È finita. Non abbiamo più bisogno di confessarci. Avverto che l'ansia biliosa, impegnata da anni a corrodermi i sostegni d'ogni pensiero, s'è annacquata rispecchiandosi in Francesco, si va ritirando per sempre in una pozza lontana e ben circoscritta, al fondo di me. Di nuovo, uno sguardo o un gesto sono tornati a bastare e dir tutto, hanno riconquistato un terreno che le giravolte di parole dubbiose avevano cercato di intorbidare, camuffare... Le mani sul volante, automatiche nell'obbedire alle sollecitazioni della strada, continuo a spiarlo nello specchietto, e ogni cosa mi sembra chiarita tra noi due, ogni concetto e ricordo sono tornati ad aderire entro i loro spazi, hanno trovato pace, già riposano cementati l'un l'altro... Sì, è così : la forte felicità di risvegliarsi torpidi e affamati in un canneto, tra molli vapori di nebbia estiva, il mitra che esce dalla coperta, anche lui come uno dei tanti arti che si divincolano dopo il sonno e subito si bloccano per prestar ascolto alla famiglia delle pernici avviata in fila Giovanni Arpino
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indiana pettegolando, la madre in testa, alla pastura tra l'erba lungo il fiume..., è stata una felicità totale. Inutile struggersi per ingabbiarla con estenuate nostalgie. E guai a giudicarla ripetibile!, guai ad augurarla, ad imporla agli altri! È solo una cosa da tacere, o tuttalpiù da scambiarci nel lampo di un'occhiata, tra noi... «Ma perché continuate a intendervela in questo modo... E io chi sono, che ci faccio, qui... Dove ho finito per cacciarmi...» lamenta Lu. «La tua amica: l'hai fatta esperta della legge?» domanda Francesco esasperando il timbro del dialetto perché risulti ancora più indecifrabile : «La legge degli uomini di qui, dico: prima i tagliatelli, poi le carte, e solo al terzo posto le donne... Se gliel'hai insegnata, stasera ci diamo un'andatura che merita... Ti combino io una cena mascolina da scintille... Almeno questo: tanto, chi l'ha in culo l'ha in casa... Alle otto, al caffè.» «Oddio, ma cosa borbottate... Ma avrò qualche diritto più di quel povero cane...» esala Lu. I campi si vanno oscurando e la strada risale per curve sommerse tra le vigne, le case del paese si affacciano all'improvviso alla cima di una cresta collinosa piazzando sagome scomposte, tozze, contro il vivido smalto del cielo. «E Andreina?» domando. «Andreina?» ripete Francesco. Ha un riso breve, esitante, poi si appoggia più comodo per parlare mentre irrigidisce la presa della mano sulla collottola del cane accucciato. «Te la voglio raccontare franca e intera» si spiega : «Andreina ha già il bagaglio d'un bambino... Un furbone gliel'ha rifilato e poi via di corsa facendo polvere... Ma lei: contenta lo stesso. Ogni mattina trotta in fabbrica, cuce quaranta pantaloni, alla domenica tira fuori la sua cinquecento e sta un'ora dalla pettinatrice... Cosa ti dicevo? Son tempi per donne! Sono loro che capendo niente di quest'assurdità di mondo, accettano tutto, corrono, si agitano, insegnano ai gatti a arrampicarsi... E secondo me, Andreina ha ragione a non volersi sposare, anche potendolo...» «Ecco, ci mancava pure un'Andreina, volevo ben dire...» bisbiglia Lu, accorata: «Senta, Francesco, la smetta subito con questa storia, altrimenti Stefano non torna più a Roma, adotta il bambino e magari si diverte anche a insegnargli il catechismo...» «Andreina è una delle sorelle di Francesco» l'avverto tardivamente. Giovanni Arpino
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«Scommetto che questa signora piacerà al colonnello!» ride lui toccandomi una spalla. Lu si volta a guardarlo, con uno dei suoi migliori sorrisi di conquista. E vincendo la fatica gli parla, una mano allungata fino agli orecchi del cane, già tenta di ingolfarlo con l'impegno d'un viaggio a Roma, così indispensabile... Entriamo in paese, la luce alta del tramonto s'incunea densa ai crocicchi, riverbera negli androni. Guardiamo i muri grigi, i vicoli che ruotano sassosi ai lati della strada maestra, qualche ragazzo in bicicletta passa alzandosi a dondolare forte sui pedali, e fischia. Alcune campane si rimandano suoni subito smarriti. M'accorgo che anche in Lu l'avidità di scrutarsi intorno s'è come ispidamente contratta. «Scaricami al caffè...» suggerisce Francesco. Rallento al bivio, e lui è lesto a uscire, sollecitando il cane. Si china al vetro per un saluto e tra le fessure delle palpebre studia un'ultima volta Lu, cercando di reprimere la soggezione. «Alle otto, allora...» dice: «Ah, questo: sai che il colonnello, in ogni Natale, fa un regalo a Andreina e un altro al bambino? Quest'anno: due lenzuola e un berretto di lana a quadri... Adesso che lo rivedi, non impiantargli uno di quei tuoi discorsi... Ormai è andata in questo modo, e allora i vecchi galantuomini, quelli di razza buona, tanto vale lasciarli morire tranquilli...» «Se è intelligente, potrebbe anche offendersi a essere trattato con comprensione eccessiva...» ribatte subito Lu, puntigliosa. Francesco sorride, arrossendo appena, e ormai cerca di guardare me solo, per evitarsi ogni imbarazzo. «Oh, no...» risponde poi in un fiato: «Se è intelligente, fingerà di non capire... Farà di tutto per darsi contento. Vero, Stefano?» «Non crederai che sia venuto da Roma a qui per discutere o far questioni...» dico. Lo vediamo allontanarsi lungo il marciapiedi, fino alla porta del caffè, il cane lo segue ciondolando stracco dietro il guinzaglio. Non ci sente ripartire, e allora si volta, ha un gesto con la mano, resta fermo a guardarci. «Cos'hai...» domando. Ma Lu si nasconde le labbra nel cavo della mano, l'occhio immobile a fissare la strada, le povere insegne scolorite sui muri. «Niente, niente...» si rassegna infine a rispondere: «Sono un impiastro... Lasciami stare...» Giovanni Arpino
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«Non stai bene ? Vuoi che ti trovi una stanza in albergo? C'è, un albergo...» Scuote la testa in un impeto nervoso, e respira pesantemente. «Macché albergo...» dice cercando di rilassarsi contro lo schienale: «È solo che... Insomma, mi sento stranita, cretina... O sei tu!, col tuo maledetto dono di farmi sentire cretina dappertutto... E non lo sono, non lo sono!» Cerco di ridere, e non voglio voltarmi a vedere se Francesco è ancora là, in attesa sui gradini d'ingresso del caffè. «Ho soltanto più paura, ormai... No, non dir niente, non ho bisogno di niente...» mormora Lu: «Ma facciamo presto, ti prego... Portami via di qui, appena puoi...» «... Mangia solo più insalata, mattina e sera, e un uovo ogni due giorni... Certe battaglie, lo strepito!, se oso presentare qualcos'altro in tavola... Il perché, però, l'ho capito... Secondo me, vuole dimagrire, alla sua età!, vuole poter rientrare in una delle sue divise, da morto... Che testa dura!, e che disperazione mette addosso agli altri!» mi ha spifferato rapida Caterina nell'unico momento in cui siamo rimasti soli. «E tu?» «Io?» ha sbattuto le palpebre, sorpresa, prima di voltarsi e scappar via, una mano svelta a nascondere la treccia mal fatta sulla nuca: «Io come? Adesso vada, vada, è meglio... Non la lasci sola, quella povera signora o signorina... Se gli gira, chissà cosa sarebbe capace di dirle, lui...» Seguo Lu e il colonnello in visita alla casa, li sento discorrere, mi precedono d'una stanza. Quando attraverso il corridoio che separa le due file di camere al primo piano, quando mi richiudo una porta alle spalle, già i loro passi si sono allontanati, le voci sono andate oscurandosi oltre un muro. L'ultima luce entra a radere tagliente per le finestre che il colonnello ha via via spalancato. Nelle chiazze aperte dai lumi accesi, le pareti risultano smorte, gli spigoli dei mobili schizzano avanti, grevi, le tappezzerie paiono tumefatte dall'umida pressione degli anni. Il verde primaverile in giardino s'addensa caotico, e anche il viale appare invaso dall'erba, ridotto a un esangue sentiero tra i cespugli selvatici che s'affoscano a ridosso d'un ultimo filare di peri. Dal terrazzo scruto la gobba della collina, laggiù, nera per le ortiche allargatesi come un enorme polipo in letargo. Nella chioma del pino che dà inizio al viale, i passeri vanno Giovanni Arpino
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raccogliendosi per la notte in crepitante pigolio. E la pianura corre in un unico respiro confondendo i suoi grigi fino al sipario lontanissimo delle Alpi, violaceo e preciso per il sole da poco scomparso e che ancora lima ogni punta, ancora suddivide una porzione di cielo in vasti raggi d'un azzurro morente. Parlano, di là, loro due, e forse il colonnello, a ogni complimento sulla casa, su un mobile, su una finestra che accoglie il verde e i boschi lontani, s'inchina secco, con un sorriso che a volte, misterioso, emerge ad approvazione d'una affinità segreta finalmente riuscita a manifestarsi, quindi a ottenere un immediato, complice rispetto. Ora va a cominciare un tardivo tè, in salotto, con una zuccheriera d'argento rinvenuta chissà come, chissà dove, in questo accidentato groviglio di muri, nicchie, ripostigli e corridoi ammuffiti, porte e legni d'armadi gonfiatisi e che subito gemono sotto la mano. Sul centrino del tavolo, le tazze rilucono, ancora vuote, ma già Lu muove nella sua recita, partecipe di cucchiaini e manici sottili, limone affettato, minuscolo bricco del latte, e parla e sorride aggraziata, o mi fiammeggia contro, improvvisa con gli occhi, come a dirmi: «... Sapevi di questo, e mi hai trascinata qui ugualmente senza darmi il tempo di cambiar abito, senza concedermi un'ora dal parrucchiere, e si che t'avevo tanto pregato a Torino... Mi hai fatto arrivare a mani vuote!, e adesso darei l'anima per avere uno scialle da regalare a Caterina...» Dietro di lei, a picco sul divano nella loro cornice dorata, i due rosei, eterni innamorati della stampa inglese seguitano ad accostare appena le labbra, socchiuse le palpebre della donna e inanellati i riccioli biondi sulla nuca, alta la cravatta dell'uomo e candida tutt'intorno al solino dalle punte solo un poco ripiegate... M'accorgo di esistere a malapena, come tollerata anche se necessaria comparsa presa a testimone d'un impegno, d'un teatro che s'incanta di sé, della propria dignità, riscattata e finalmente libera di mettersi alla prova, di vincere... Ma Caterina, di là del muro, già s'agita con eccessivo rumore come avesse qualcosa da far sapere, e questo segnale subito infantilmente mi punge. Infatti: «... Tutto a posto? Manca niente?» mi inietta pronta appena entro in cucina: .«Adesso si sbrighi, lei che può! Guardi nell'armadio del colonnello, di sopra! È chiuso a chiave, però la chiave è nel cassetto del comò, il primo... Avrei già guardato io, avessi mai avuto l'ardire... Non vorrei che nascondesse la rivoltella! Mille volte si lamenta di non poter Giovanni Arpino
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morire..., e che Nostro Signore fa di tutto per dimenticarlo quaggiù... Vada, dia lei un'occhiata, ma presto, e attenzione...» Salgo le scale, tentando il buio d'ogni gradino, dal salotto mi raggiunge il murmure concorde delle loro due voci. Spalanco i battenti dell'armadio, con cautela per non sentirli cigolare. Nel vuoto, appesa a una gruccia, si mostra soltanto la sua divisa migliore, le medaglie già appuntate sul lato sinistro della giubba. I nastrini che reggono il peso del bronzo e dell'argento si sovrappongono fianco a fianco in esatta simmetria. I calzoni ripiegano perfettamente, con la loro banda nera traversata da un filo rosso, sino a sfiorare i gambali lucidati di fresco. Una busta gialla s'appoggia a triangolo contro un gambale, e reca, sottolineata in una grafia anche troppo leggibile, la scritta: "Mie ultime volontà". Al fondo dell'armadio, in una breve piramide d'ombra, è solo una scatola, con due spazzole nuove, una pezzuola immacolata, arnesi evidentemente necessari a mantenere in quotidiano ordine la divisa, i gambali, la visiera del berretto, adagiato li su un piccolo riquadro di feltro. Chissà perché, non appare la sciarpa azzurra, non la sciabola. Deve averle scartate in obbedienza a un'esatta prefigurazione di se stesso, allungato immobile, senza alcun eccesso d'orpelli, senza fastidiosi tintinnii. Richiudo i battenti cercando di non arenarmi in alcun pensiero, e lungo le scale m'afferra, immotivato, un ricordo di mia madre. Con la mano, a tavola, rilisciava la tovaglia nella breve area attorno al suo piatto, allineando le briciole di pane in una schiera sottile, via via lesta a mimetizzarsi sotto una posata. Intanto le rughe del lino si ridistendevano, obbligate dalle dita in manovra a riprendere la tensione originaria. Seguitano a parlare, loro due in salotto. «... Sì, ha ragione, una casa di questo genere meriterebbe molte cure... Quella santa donna di mia moglie...» va dicendo il colonnello: «Ma adesso lei deve permettermi d'essere franco!, signorina... E cioè: io sarò lieto di accogliere i suoi consigli, lieto e onorato..., ma solo quando avrà saputo farsi sposare da quel mascalzone di mio figlio...» Lu ha un riso secco, che subito affonda, e frettolosamente mormora qualcosa. «... Si, mascalzone è un termine che ha tanti significati...» ribatte asciutto il colonnello: «Ma per quel che riguarda mio figlio, se lei me lo concede!, detti significati glieli affibbio tutti... Spigoli lei, mia cara, tra la benevolenza e la critica...» Giovanni Arpino
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E ancora: «...Lo so che Stefano ha sempre avuto il passo sbagliato, come una volta si diceva di certi cavalli...» riprende: «... E ormai il mio maledetto destino m'ha legato le mani, m'ha derubato d'ogni autorità! Ma lei..., una persona come lei!, dovrebbe riuscire a... Beh, non voglio proprio costringerla a parlarmi di queste cose. Mi consideri un trapassato, è più conveniente!». «Ma perché... Ma no... Sono io, piuttosto... Stefano è...» sussurra Lu, lievitando. E posso immaginarla, di là della porta, con gli occhi intenti, il mento nella mano, concentrata a soppesare una confidenza che sia in grado di rendere più agevole il discorso, e più fitto, più articolato e senza frane pericolose, il loro imprevisto accordo. «Dunque... Via Giulia. M'ha detto che abita in via Giulia, vero? Quando alloggiavo a Roma, nel benedetto '12, si, proprio nel '12, dopo la Libia..., via Giulia era una cosa, un territorio...» ha già mutato registro il colonnello. Sento che Lu rimuove le tazze e i cucchiaini sul tavolo, i tocchi brevi s'infiltrano appena nel fluire addomesticato delle voci. Al fondo delle scale, non sapendo decidermi a oltrepassare la porta o allontanarmi, ricompongo il volto di lui, così come l'ho ritrovato dopo troppo tempo. Un'umida luce è entrata nei suoi occhi, appannandone l'acciaio e, quasi per un'occulta premeditazione, intende dar calma, allontanare tutto ciò che una volta poteva apparirgli meritevole di immediato odio, di sprezzo. Un gesto incauto, una parola malnata in bocca altrui, ora se li lascia sfuggire davanti senza piombargli addosso col puntiglioso aculeo che gli era proprio. Alle tempie, dove la pelle, distaccata dall'osso, crepita in un reticolato di minutissime rughe, raro sale il sangue a dar colore in quel grigio così pallido, estremo ricordo d'un avorio mediterraneo che gli anni si sono accaniti a strizzare con sovrapposte ceneri. Le mani vibrano ancora, improvvise, ma quasi subito si ritraggono riunite sul petto, desiderose di sosta, e la voce, scattata nell'acuto, dopo due parole ecco che ripiega, abbandona l'impennata, e pigra si spegne. La testa ha un moto sdegnoso, si atteggia di lato profilandosi mentre qualcuno gli parla, lo sguardo erra come alla ricerca d'una forza segreta, vicina, da catturare, ma sono atti meccanici, d'una scontrosità dolente, in Giovanni Arpino
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armi solo più per frenare l'eco delle voci che gli corrono incontro. Non avendo raggiunto la saggezza della vecchiaia, ora opaca ora astuta, egli si trattiene per cautela, per non dover più erigere altre elaborate trincee contro un mondo che da fuori gli si asserraglia intorno sempre più enorme, misterioso. Solitario, si disimpegna quindi da ciò che lo provoca e lo contrasta nell'ultima viva curva quotidiana, come un soldato sperduto nel deserto, privo di mappa e di bussola, e nondimeno attento a controllare e misurarsi le poche gocce d'acqua rimastegli, quasi potessero durare all'infinito... Esco dalla veranda, il giardino è ormai un intricato labirinto di forme oscure sotto il cielo lucido, trafitto da un'unica stella. Mi avvio per il viale, l'erba aspra e folta ha reso irregolare il terreno, i cespugli sono così alti e in disordine da impedire la prospettiva digradante della vigna. Il polipaio delle ortiche è calato dalla curva della collina, arriva fin qui in un groviglio ferroso e massiccio, senza il minimo varco... Se nessuno si deciderà a tentare un rimedio, tra due o tre primavere anche il fondo del viale risulterà sommerso... Me ne sto fermo, e penso al tedesco li sotto. Ormai, la sua morte m'è estranea, e i gesti di quel perduto pomeriggio, che pure ho stampati così vividamente nell'occhio, non m'appartengono più. Mi perdo, ozioso, quasi con vanità, attorno alle possibili congetture di un manovale spesato per far fronte al danno e all'ingombro di queste ortiche, per sradicarle e seppellirle, e che forse potrebbe rinvenire sotto la zappa, all'improvviso, un fucile, un brandello di cuoio, un bottone o un osso... Ma è un'immagine fiacca, che rimpicciolisce e si disfa prima ancora di riuscire a provocare il più labile timore... Giro sui tacchi, a quest'ora Francesco già m'aspetta al caffè. Tutto ciò che Lu e il colonnello stanno dicendosi, posso indovinarlo da qui, nella buia cortina del viale. So i dolci e manovrati sorrisi che Lu può aprire, so gli spiragli che il colonnello, curioso di sapere, lascia ingenuamente dischiusi nella conversazione per raccogliere notizie che subito ecciteranno veementi strali su di me, su cosa sto facendo, come avrei potuto far meglio, di più e maggiormente in anticipo... Forse Lu ha estratto una sigaretta, il colonnello Illuminati gliel'accende. Non ha mai approvato le donne che fumano, ma nella sua appassionata e totale parzialità è intimamente disposto a giustificare ogni superficiale abbandono in chi gli risulta degno di simpatia, di un rispetto che non è più Giovanni Arpino
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di questo 'mondo... Senza volerlo, m'hanno definitivamente messo da parte, e m'accorgo di camminare tra le aiuole imbarbarite delle ortensie, delle zinnie, rallentando il passo, più solo, si, ma come uno strano, buffo esaminando allontanato dall'aula, dove il consesso dei docenti è riunito a decidere della sua preparazione, disposizione, bontà... E fulminea me ne deriva un'oscura gioia senza nome. Eccoli, passeggiano lenti lungo la balaustra di pietra davanti alla casa, il fischio di un treno viene su dalla pianura e dopo un attimo, nell'ombra lontana, la fila dei finestrini illuminati, appena percepibili, trascorre senza altri rumori. «... E allora? Non vai a fare la tua rimpatriata?» mi domanda il colonnello. Guardo Lu, che mi rimanda un tranquillo sorriso. «... La signorina rimane con me, naturalmente!» aggiunge il colonnello, compiaciuto : «Dormirà nella camera del terrazzo... Cosa aspetti? Va' pure, va' pure dai tuoi degni compari... Non sei corso da Roma per questo? Ma niente chiavi di casa: sarò ancora in piedi, come al solito, quando rientrerai...» Anche Lu ha un cenno esperto del capo, come desiderosa di allontanarmi. Ruoto con l'auto, mi appaiono di fronte, accostati e tranquilli, nel fiotto crudo dei fari. «Fa' attenzione per la strada!» il colonnello alza la voce, trionfante nell'impeto d'esercitare un tono di comando e di accondiscendenza insieme : «E non tracannare tutte le porcherie che ti verseranno nel bicchiere! Non comportarti come il solito lavandino...» «Ciao, attenzione...» grida Lu, contenta di poter far coro. La strada picchia in discesa tra i vecchi alberi che si disuniscono nel buio. Mi sembra di fuggire come un ladro, già vorrei essere rimasto... Ma forse è proprio questo precipitarmi via a creare vantaggio, a scaricare sotto pelle una felicità di moto che formicola, aumenta... Non perdo tempo a scrutarla, proprio se me la lascio sommuovere dentro, animalesca nei suoi balzi, potrò farla durare... «... E voi due, cosa fate li, per conto vostro...» ci affronta l'avvocato con voce vinosa. È alto, grosso, e appare sconvolto dall'abbandono con cui s'è concesso al pranzo. La camicia gli esce dalla cintola, e i suoi gesti, nell'oscurità del giardino, si muovono inutilmente minacciosi. Giovanni Arpino
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Le ultime bottiglie ci hanno sbattuto qua e là, chi è ancora nella stanza dalle finestre spalancate e tra grandi urla discute delle difficoltà nel lavoro, nelle famiglie, e chi in giardino, al buio, ha trovato sosta, e cerca di smaltire gli eccessi delle carni, dei sughi. «... Sempre siete stati di quelli che si appartano, come se foste chissà chi... Bella razza di amici...» lamenta ancora l'avvocato, funebre : «Tornate dentro, vedrete che invenzioni, stasera... Tornate!, o piglio la doppietta e vi impallino il sedere...» Ondeggiando, ci abbandona tra gli alberi, e Francesco lo segue con occhio incrudelito. Conosciamo l'uomo, è di quelli che al caffè, al ristorante, sempre lungamente tardano a infilare due dita nella tasca interna della giacca, al momento di pagare il conto. Ma a casa sua, quando l'assale la febbre, spacca le botti con l'ascia, rovescia chili di carne sul tavolo, pretendendo una complicità inesausta e sottomessa da parte di chi è seduto alla sua mensa. «... Ma perché non gli spari davvero!, a lui o a un altro, è lo stesso...» dico: «Almeno crei qualche vedova felice...» «... Se cominciassi, me ne resterei solo in tutto il paese...» rimanda Francesco. Non abbiamo più voglia di parlare, gli argomenti affrontati nel pomeriggio ci pesano tra i pensieri, hanno eretto una barriera che ci puntella ma vieta, anche, di abbandonarci a nuove confidenze. «... Guardali, divertiti... Cominciano appena adesso...» mi indica Francesco. Oltre le finestre, nella stanza della villetta, gli amici si sono nuovamente raccolti attorno al tavolo. E c'è chi, in piedi tra i piatti e le bottiglie, si va sfilando i pantaloni, mentre tutt'intorno, con macchine fotografiche e minuscole cineprese, lo ritraggono in un coro scomposto di incitamenti. L'uomo sul tavolo, senza scarpe, accenna goffi passi di danza per accordarsi al ritmo d'un disco, dondola tra gli ostacoli pericolanti, e ora piega sui ginocchi per trovar posto a sedere nel disastro delle bottiglie. «... E mica è tutto...» avverte Francesco: «Poi montano la pellicola, e alla fine vedrai più di un'ora di film, pezzi di corride, gente in mutande, incidenti di macchina, la torre Eiffel, spiagge, mani che fanno gestacci... Un bordello incredibile, roba da manicomio...» «Non diciamolo a nessuno, ma i nostri vecchi erano meglio... Almeno si Giovanni Arpino
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divertivano...» sbadiglio. «Guardalo, quel medico che balla...» acconsente Francesco : «Roba da dargli una falcettata alle caviglie... Medico della mutua, ha messo su una sala raggi e li brandeggia dal mattino alla sera... Hai un raffreddore? E lui ti fa tre lastre! La gente: contenta! Le sembra d'essere bene accudita... E tutti gli altri: come lui, avvocati o ingegneri che siano... Alla domenica mattina: messa e un chilo di bignole per i bambini...» «Andiamo via... Sono ciucco. Sono stanco morto...» cerco d'alzarmi. Ma l'avvocato sta arrivandoci addosso, la doppietta tra le mani. «...No, no...» si lamenta disperato: «Se ve ne andate, guardate cosa faccio...» Già ha sparato, contro la fila di camicie e lenzuola stese ad asciugare nel giardino. «Bravo... Così svegli la moglie...» gli dice soltanto Francesco. «S'affacci e provi a parlare!» urla l'altro agitando la doppietta: «Si mostri a una finestra, quella!, e le scarico addosso l'altra canna...» Poi crolla a sedere, sfiatato, e dalla panca ancora lancia un richiamo vedendoci incamminati per il viale: «... Francesco, bastardo!, almeno tu rimani... Non piantarmi qui... Sto male...». Il cielo è stellato sopra la strada, l'aria punge viva tra le siepi che risalgono la collina. Giunti alla curva più alta, dove ha inizio la discesa, vediamo il paese, una scarsa manciata di lumi che ammiccano nel buio, qua e là irregolarmente raggrumati. «Tredicimila abitanti, quattordici chiese, duemilacinquecento morti in guerra... E vualà!» pronuncia Francesco nel fumo della sigaretta, sogguardando. «Mi sento in tocchi... Andiamo a dormire...» rispondo. «Si...» è d'accordo e si avvia per l'acciottolato in disordine: «Intanto ti dirò di Bill, com'è finito...» Sento la sua voce farsi più concreta, stringersi attorno a ogni parola e strapparla al vuoto, decisamente, marcandola con nitido timbro. È al manicomio, Bill..., mi si stampa in testa..., al manicomio per tre anni... Gli hanno dato al cervello le ventitré schegge estrattegli dal braccio, dopo la guerra. Ricordo subito, nettamente, la bomba a mano che gli scoppiò a pochi metri, e che lui aveva preso a calci per un intero pomeriggio, sfottendola. "...Schifosa..." le aveva urlato contro: "...Neanche di te ci si può Giovanni Arpino
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fidare..." "E piantala, Bill, o ti sparo in una chiappa..." s'era stufato Millesimo. Ma l'altro aveva seguitato a scalciare la bomba per il prato, maledicendo il destino che gli forniva soltanto armi difettose. Le ventitré cicatrici non riuscirono a procurargli una minima pensione, quel riconoscimento che il contadino e partigiano Bill era ormai sicuro di tenere nel caldo della tasca. Tornato a casa, l'uomo si senti derubato, cominciò a guardare il campo gerbido sotto la finestra della stalla, senza più voglia di sottostare alla necessità di zapparlo. "... Adesso mi dicono che ho fatto niente... Mi mandano e rimandano da Cuneo a Roma!, il professor Millesimo avrà già scritto quaranta lettere, per me... Risultato: non ne ho il diritto!..." azzardava talvolta a lamentarsi. Fu così che cogitò un sistema capace di inserirlo nel labirinto dell'ufficialità. Con una bottiglia di petrolio, prese a incendiare qualche pagliaio, finché l'intera borgata a pochi chilometri da Alba perse il sonno. E allora Bill organizzò una squadra di volontari, che notte su notte batteva la collina per sorvegliare le cascine minacciate dall'oscuro incendiario. "... Lasciate che ci pensi io..." disse al sindaco e al maresciallo dei carabinieri della vicina tenenza: "...Ne ho snidati di fascisti... L'incendiario, ve lo tiro fuori come un leprotto..." La squadra dei volontari si divideva i compiti, dopo il tramonto, spartendo spicchi di campagna da accudire. Bill correva da un avamposto all'altro con la doppietta in spalla, la bottiglia di petrolio sotto la camicia. Rimasto solo per un attimo, appiccava il fuoco a un pollaio, un fienile, quindi di gran corsa radunava i contadini e li convogliava con maestria a manovrar secchi, mastelli, tini a maniglia, per domare le fiamme. "... Per prenderlo, lo prenderemo di certo..." assicurava al maresciallo che sopravveniva in motocicletta il mattino seguente: "... Però la cosa più importante è avere una squadra di pompieri, due o tre uomini esperti... Un incendio in campagna è sempre un pericolo... Lei ha visto che ci so fare, maresciallo, perché non appoggia la mia domanda a Cuneo? Sarei un caposquadra di pompieri che conosce il suo lavoro, lei ha capito..." I militi lo agguantarono con la ventiduesima bottiglia tra le mani, dietro un fienile, soltanto qualche mese dopo. La bizzarria del caso gli impedì di pareggiare il conto tra le ferite e gli incendi, la bizzarria della legge cancellò ogni sfumata interpretazione del fatto, caricandogli in dote tre anni di manicomio per infermità mentale. Giovanni Arpino
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«... E ti giuro che qualche volta lo invidio» commenta Francesco : «Credi che noi si sia con tutti i giovedì in ordine? Scommetto che lui si diverte, là dentro... Un giorno o l'altro vado a trovarlo...» «Buonanotte» dico. «A domani» mi saluta, al fondo della stradina che si arrampica tra i filari fino alla casa. Rientro, e il colonnello è seduto al tavolo, le tempie tra le mani, una grossa lente appoggiata sulla pagina in esame. Ha lasciato la porta aperta, durante la veglia, e ora sfila gli occhiali, mi scruta concentrato. «La tua stanza è quella di sempre» comunica infine: «E in quanto alla signorina...» Alzo le mani, tentando un sorriso. «Ci siamo capiti!» approva. Ma appena in bagno, sotto la luce vedo sul bordo del lavabo un capello di Lu, serpentino, e allora m'infilo per il corridoio, tento la maniglia. «Stefano...» la sento mormorare. Si rizza a sedere, la debole lampada allarga appena una macchia di chiarore dal tavolo al guanciale. «Sei ubriaco...» mi guarda con occhi sbarrati: «Non credere che io, qui...» «Ma chi ti tocca...» rido senza forza: «Volevo solo sapere se stai bene...» Sospira, le mani le si stringono nervose sul risvolto del lenzuolo. «Non riesco a chiudere occhio...» confessa rapidamente, agitandosi : «Caterina in due minuti ha fatto cose pazzesche: un pollo, il purè, persino un budino... Toh, guarda, non mi ha lasciato venire a letto senza ciò che era rimasto del budino...» E mi indica il tavolo dove accanto al piatto col cioccolato è un minuscolo tovagliolo, la forchetta e il cucchiaio. «... Come devo fare? Posso darle una mancia, domani? Non capisco più niente... E tuo padre: vuole soltanto che gli si racconti di te, dei tuoi successi a Roma...» la voce le esce tra asciutti singhiozzi. «... Calmati, su...» riesco appena a dire. «Te ne sei andato senza neppure scaricare le valigie, guarda che camicia da notte mi hanno dato..., di tua madre...,» piange, ora, scuotendosi dalla gola al petto. Respinge la mano che le porgo. «Lasciami stare... Davvero!, scusa, lasciami stare o dò di stomaco...» si Giovanni Arpino
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lamenta: «Come faccio con Caterina? Gliela posso dare o no la mancia?» «Sei pazza... Si offenderebbe!» «Non so più come comportarmi... Tutte le arie che mi davo...» esala reprimendo le lacrime: «E tu: non mi hai mai detto che erano così, non mi hai spiegato bene le cose...» «Sì, Lu, d'accordo, ma adesso non agitarti tanto...» mi alzo e prendo il budino sul tavolo. «Non posso» rifiuta lei : «Ho già dovuto mangiare non so più quanto...» «Su, coraggio...» le avvicino il cucchiaio. «No, no...» «Su, "contessa"... Solo per festeggiare...» ricomincio: «Ecco... In bocca a te, in bocca a me, in bocca al can... ahm!, così, brava!» «Stefano...» inghiotte, congiunge le mani: «Sii buono... Basta...» Mi alzo, la saluto con la mano, sento che la faccia mi si deforma in un sorriso che dev'essere soltanto una . smorfia di stanchezza. «Vado...» le dico, e le parole mi si confondono in gola: «Adesso ti lascio dormire... E non far confusioni! Dovresti essere contenta! Hai costretto il colonnello a una tale compostezza!» «Sentirò gli uccelli, domattina presto, da qui...?» domanda con voce esile. «Migliaia... Passeri e merli...» le assicuro. «Grazie...» ha un ultimo sospiro: «Cosa dici, Stefano: sarà questo il miglior ricordo della mia vita?» Torno nella mia stanza, non accendo la luce; mi corico e sento l'oscurità che si dilata e muove in gorghi sempre più vasti, finché sulla sottile lama di sicurezza dove appoggio la nuca ecco il sonno che arriva a colpirmi. «Vivi in pace e da' pace!» ammonisce il colonnello tendendomi la mano. Ha una rapida luce d'apprensione negli occhi acquosi, ma socchiude prontamente le palpebre per riuscire a fronteggiarmi con un'estrema riserva di severità. Lu è corsa via, verso la porta della cucina, a ringraziare Caterina che le sorride, le mani nascoste sotto il grembiule, impietrita e confusa nell'abbraccio. «Potrò scriverle, vero?» mormora poi Lu tornando, e il colonnello le risponde con un inchino. «... Tu: punta in alto! E sentiti in competizione solo e sempre con te Giovanni Arpino
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stesso!» mi instilla ancora schiudendo appena le labbra, le pupille gli si spostano dai miei occhi a quelli di Lu. Scendiamo la strada, Lu agita la mano al finestrino, il colonnello è rimasto al limite del cortile, le braccia conserte, ci segue dalla curva che domina la collina fino al cancello. Non si muoverà finché la macchina non sarà scomparsa tra gli alberi che affondano verso la pianura. So che Lu fa di tutto per non tradire la commozione, preme le labbra con le dita e si concentra sulle gobbe della strada, sul verde delle gaggie che hanno invaso il declivio dove anni fa, nel terreno pulito, si allineavano centinaia di peschi. Il sole del mattino rade l'erba e le foglie spremendone toni smaltati. Dobbiamo ancora salutare Francesco, ci aspetta al caffè, e domattina saremo senz'altro a Roma, rientrerò in ufficio con appena mezza giornata di ritardo. «...E adesso, mio Dio!, adesso: cosa faremo? Oh, perché non sono rimasta! M'avesse detto mezza parola in più, non me ne sarei mai andata...» non trattiene Lu, senza fiato, la mano stretta a pugno come per non lasciarsi sfuggire un'ultima ombra di energia. «... Buona, non aver pensieri... Buona...» posso soltanto risponderle cercando di dare un tono svagato alle parole. «Gli scrivessi anche tutti i giorni, a cosa potrei servirgli?, se non so dirgli di te, di cosa fai, che sei contento... Che siamo contenti...» continua Lu: «Non vuole sentire altro, ormai... L'hai capito?» Accenno di si, e già rientriamo in paese, le strade scorrono vuote e umili nel sole. Francesco è in piedi dietro la porta a vetri del caffè. «Per piacere, non fermarti troppo... È meglio se scappiamo via subito...» prega Lu. «Non vuoi una pasta? Alla crema... Sono buone, qui» propongo. Ma lei rifiuta senza guardarmi. Il caffè è buio, con freddi e lividi fili di luce che ristagnano lungo le curve della macchina-espresso. Qualche giornale sportivo è già spiegato sui tavoli, nelle nere scansie dietro la cassa s'ammucchiano i mazzi di carte bisunte, tenuti da elastici. Sotto il braccio, Francesco ha un lungo, sottile rotolo di tela, me lo porge cercando di apparire indifferente. «Mi dispiace per ieri sera» brontola : «Avrebbe potuto andar meglio...» «Infischiatene» gli rispondo : «So come succede. E poi mi sono anche divertito.» «Due caffè» ordina lui, scontroso, i gomiti appoggiati al banco. Giovanni Arpino
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E subito una bambina che sporge appena dietro il piano di marmo si agita per arrivare a premere con forza sulle maniglie della macchinaespresso. «Sarà rimasto contento, tuo padre...» riprende Francesco. «È invecchiato» dico. «Si capisce» sospira lui : «Però sta in campagna, all'aria buona, e ha un doppiopetto di pensione... Pensa a mia madre: dopo sessant'anni di lavoro, dovrebbe cavarsela con si e no diecimila al mese. Non ci fosse Andreina...» La bambina appoggia le tazzine dei caffè sul marmo e aggiunge due cucchiai di zucchero. Francesco rimescola, assentendo nel giro di qualche suo pensiero. «Insomma» s'obbliga infine a dirmi : «Non ritornare quando avremo i capelli bianchi. Capito?» «E tu: non ti deciderai mai a un viaggio? Roma non è ancora Africa...» cerco di ribattergli. Pronto, sogghigna : «Meglio non muoversi di qui, quando si ha una testa come la mia. Meglio non dar spettacolo in giro per il mondo...». «Salutami Millesimo, se lo incontri...» gli raccomando. Annuisce, con quella voluta svogliatezza che gli affiora quando ha qualcosa di importante da confidare. «Questo rotolo... Non indovineresti mai cos'è...» si decide infine : «È quel Lenin che tenevamo in sezione, una volta... Adesso la sezione è volante, chi ha ancora voglia di litigare per la politica si raduna in un'osteria di là della stazione, al venerdì sera... Neanche più una lira per pagarsi l'affitto d'uno scantinato... Meglio se lo tieni tu, a me quel ritratto fa venire il nervoso, ormai...» «Ma era un ricordo di Bill... Mi sembra di vederlo mentre lo dipinge con quel pennino, quegli inchiostri trovati in sacrestia... Lo sten da una parte, gli inchiostri dall'altra... Ci tenevi tanto!» lo contrasto. Rifiuta con la mano prima di parlare. «Non posso più vedermelo davanti!» conclude: «Portatelo a Roma. Chissà che laggiù non faccia miracoli...» La bambina dietro il banco ci guarda senza capire, afferra le due monete sul marmo e le intasca non distraendosi però dal ritratto dispiegato. Lenin, in groppa al cavallo bianco, rompe galoppando tra le nubi contro un cielo cilestrino qua e là logoro per le pieghe della tela. E sotto le nubi, polsi che ancora reggono catene spezzate si levano, induriti dai troppi passaggi Giovanni Arpino
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d'inchiostro rosso, lanciano avanti grosse dita su cui lo sguardo nero, obliquo, di Lenin, si ferma in scrupolosa prospettiva. «E tuo padre: dorme ancora?» brontola improvvisamente irritato Francesco alla bambina stupefatta: «Perché non corri a dirgli che una volta i caffettieri si alzavano alle cinque del mattino...» «Adesso vado» lo avverto arrotolando la tela. «Già» acconsente : «E saluta la tua amica. Io non esco, ho già qui il giornale...» «... Avanti, cosa ti costa scendere fino al marciapiedi! Lei ci tiene!» Mi oppone il suo sorriso d'imbarazzo, poi gira brusco la schiena, avviandosi a un tavolo oltre la stanza del biliardo. «Ti scriverò...» gli grido dietro. «Mangio un cane se mi scrivi...» alza la voce dal fondo, ridendo: «L'hai sempre promesso, poi mai un rigo... Va' sereno, va'...» Ritorno in macchina, e Lu ha un immediato, docile sorriso, ripone accuratamente il rotolo di tela tra i bagagli senza far domande. «Dimmi dove vuoi dormire, stasera. Così studiamo una tabella di viaggio» la invito. «Per me è lo stesso...» risponde: «Conviene, Firenze?» «Senz'altro...» Le colline filano via adagiandosi in forme più placate, l'erba dei campi è lucida, i massicci appezzamenti del grano arrivano fino ai bordi dell'asfalto con lunghe pennellate d'un verde compatto. «... Stefano!, e adesso: come finisce? Come finisce?» mormora Lu. «Come vuoi che finisca... Finisce in niente!, come sempre, come tutto...» rispondo con calma: «Sta allegra! Hai fatto l'impossibile per strapiacere, per conquistare anche il cane... Ci sei riuscita. Già tutti ti rimpiangono... Non ti basta?» «Ma tu, tu...» prende coraggio: «Davvero non sei pentito, deluso? Avevi sperato chissà che cosa in questo viaggio!, avevi...» «Sto benone. Credimi o no : sto benone» dico. «Mi gira la testa. Mi sembra di non aver mai capito niente in vita mia...» si lascia andare. Ma subito ha un chiaro, nuovo sorriso per cancellarmi ogni possibile sospetto. Abbassa il vetro del finestrino per abboccare l'aria fresca, a occhi chiusi. Poi m'accorgo che non c'è spigolo di cascina, fila d'alberi o sentiero tra i campi che anche lei non insegua con un'occhiata di struggimento Giovanni Arpino
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mentre volano via. «Vedrai che a Roma, tra due o tre giorni, tutto ti sembrerà ancora meglio, ricordando...» cerco di consolarla: «Però adesso non commuoverti... D'accordo, tesoro?» «... Stefano, cosa mi dici! Hai deciso di meritarti un'aureola?» ride commossa: «Sta attento: non farmi sperare troppo in questa vita da promessi sposi...» Dai rami dei fitti cespugli lungo l'asfalto scoccano le gazze, battendo nell'aria ali e code spruzzate di bianco. Le seguo con l'angolo dell'occhio, poi torno a fissare la strada che fulminea si consuma venendoci incontro per curve e rettilinei deserti. Le foglie degli alberi, rigide su per i telai degli olmi, tenere e rabbrividite nei pioppi, rilucono d'un verde lavato e puro, che via via cresce rinforzando la sua delicata pellicola nel sole. Ebbene si, diamoci pace..., riesco a dirmi ormai senza fatica. Tutto è ancora qui, tutto è ancora presente, un minuto o un giorno o un anno possono confondere la nostra storia, un minuto o un giorno o un anno possono restituirci l'animo di ritrovarla, renderla nuovamente piena di noi... Non esiste ricordo da abbandonare come fosse una fredda, stanca cenere cui più non somigliamo: ogni vero ricordo è ancora un richiamo, una verità che ci lavora nelle ossa, un febbrile atto di sfida al buio di domani... Forse ci toccherà soggiacere a un'eterna rassegnazione, e dovremo saper sorridere, mitemente, con dolore educato, entro le spire dell'obbligo quotidiano. O forse un nuovo slancio, un benefico fulmine, ancora ci attendono, più in là, per rapirci in una più ricca, misteriosa ondata, per renderci esperti d'una salvezza umana che ancora abbisogna del nostro intervento... Forse laggiù dove s'annida il pericolo, noi, proprio noi!, risorgeremo salvatori... Per ora, già chiaro risulta questo vantaggio: non ci sarà condanna per l'impresa che risultò impossibile, per la qualità non raggiunta; saremo condannati solo se rifiuteremo d'esprimere il bene segreto che ci attende nell'umile alba d'ogni giorno... FINE
Giovanni Arpino
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