ROBERT McCAMMON L'ORA DEL LUPO (The Wolf's Hour, 1989) Prefazione Tutte le ore del lupo ... um elfe kommen die wolfe, um...
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ROBERT McCAMMON L'ORA DEL LUPO (The Wolf's Hour, 1989) Prefazione Tutte le ore del lupo ... um elfe kommen die wolfe, um zwolfe bricht das gewölbe. [... alle undici arriva il lupo, alle dodici si aprono le tombe dei morti.] FILASTROCCA TEDESCA PER AIUTARE I BAMBINI A IMPARARE LE ORE DEL GIORNO Chi si trovi, superate le Alpi, a varcare le mura papali della città di Avignone, potrà con interesse visitare il Museo Calvet con il suo ricco lapidario, ricettacolo delle enigmatiche commistioni tra civiltà romana conquistatrice e precedenti culture locali. E incontrare faccia a faccia l'icona di una bestia - la cosiddetta «Tarasque di Noves», dal luogo di rinvenimento non lontano, nelle Bouches-du-Rhône - di cui colpisce anzitutto l'inesorabile maestà. La creatura, che poggia le zampe su due teste mozze barbute, presenta una sorta di criniera e indubbiamente qualcosa di leonino; ma il lungo muso zannuto può ricordare piuttosto quello di un lupo, soddisfatto in un sogghigno silenzioso. Gli archeologi ammettono di non comprendere esattamente il significato di tale figura, forse un simbolo della Morte divoratrice e del Silenzio eterno come tante icone del tardo periodo di La Tène; e probabilmente da simili enigmatici precedenti il carattere ibrido della Tarasque, il più noto esponente del bestiario fantastico del Sud della Francia (tanto da dar nome alla città di Tarascona), si modulerà in espressioni variegate lungo il corso dei secoli. Ma estinto il leone europeo in un passato remoto, a sostenere il servizio per la Grande Dea della vita e della morte resterà tra le fiere anzitutto il lupo, acclamato villain del folklore fino alle grandi codificazioni delle fiabe: ed è interessante notare come ancora la Bestia che infierirà nel Gévaudan tra il 1764 e il '67 (ma anche tutte le sue meno note sorelle francesi tra il secolo precedente e i successivi, da Evreux 1633-34 all'Auxerrois 1731-34 e di nuovo 1817, a Brive 1783, nel Vivarais 1809-16, nella Gargaille 1819, a Tendu-Mosnay 1878, nel Cézallier 194651...) presenti dell'arcaica Tarasque la grande ombra lupesca. Un lupo-
orco, dunque, o piuttosto il precipitato di simboli e paure caricati sul dorso del canis lupus, fratello e avversario dell'animale più caro all'uomo - come a enfatizzare nel rapporto tra somiglianza d'aspetto e diversità di natura la rifrazione tra polarità opposte dello stesso animo umano. Presente già in graffiti e pitture preistoriche, nelle culture con scrittura il lupo verrà accostato a divinità della guerra (come Ares/Marte) e della morte (gli dèi inferi dei greci, Ade, e degli etruschi, Ajta, con il capo coperto da una pelle di lupo). La tradizione indoeuropea associa l'animale all'aspetto magico e terrifico della sovranità - da Romolo, figlio della lupa, circondato dalla scatenata schiera dei lupi-capri Luperci, al nordico Odhinn con gli ululanti Geri e Freki ('Ghiottone' e 'Vorace') e le società cultuali del furore guerriero, in particolare gli ulfhednir pelli-di-lupo; e tuttavia non dimentica i commerci del predatore con dimensioni più oscure e caotiche. Ancora per i Vichinghi, i due lupi Skoll e Hati ('Traditore' e 'Odio'/'Nemico'), cresciuti da una gigantessa e rimpinzati del midollo spinale di assassini e adulteri, incalzano rispettivamente il carro solare e la luna e alla fine li inghiottiranno; e poco dopo, durante la battaglia escatologica, lo stesso Odhinn verrà ingoiato dal gigantesco lupo Fenrir, partorito con altre mostruosità dal malefico dio Loki attraverso una bizzarra fecondazione gastrica. Più indietro, la mitologia greca aveva conosciuto un Apollo Liceo, cioè appunto 'Lupesco', antico dio dei pastori scongiuratore di lupi - ma lupo egli stesso e fratello dell'orsa Artemide, con echi ferini che le imbarazzate letture classiche tenderanno a elidere ed eludere. La madre di Apollo e Artemide, Leto, camuffata da lupa e accompagnata da un branco ululante, avrebbe viaggiato dalla terra degli iperborei a Delo per sfuggire al controllo della rivale Era, legittima (e irritata) coniuge dello Zeus padre dei frugoletti: e il gioco rituale di camuffamenti cui la storia allude razionalizzando non può che far rizzare le orecchie agli antropologi, pur restando largamente misterioso in termini di interpretazione. Ma alla soluzione di identificare l'arcaica figura del lupo/sterminatore di lupi con Apollo Febo, cioè lo Splendente, non dovette risultare estranea l'associazione onomastica tra lukos, appunto 'lupo', e leukos, 'luce' - un'affinità il cui significato non è chiarissimo ai filologi e che interessa il più vasto bacino delle lingue indoeuropee. Si pensi ai probabili patronati di etnie come gli anatolici lukka, un 'popolo del mare' temuto dagli egizi, e in qualche rapporto con i lici di età classica: anzi in ambito greco un ennesimo epiteto di Apollo, Licio - cioè di Licia, una delle regioni-matrici della sua individuazione teologica - interviene a complicare la sciarada delle assonanze. Alla stessa
costellazione di richiami potrebbe rimandare anche il citato Loki (da logi, 'fiamma'?), il dio-demone nordico padre del lupo Fenrir: nella sua equivoca figura (malevola ma talora inaspettatamente solidale, come il trickster o 'buffone divino' di parecchie culture più o meno arcaiche) la predicazione cristiana tra i sassoni sceglierà di identificare il diavolo, il Lucifero Figlio del Mattino delle parole di Isaia. E d'altra parte gli intrecci simbolici tra lucis diurna e lupus che con il suo ululato ne marcherebbe i limiti - alba e soprattutto crepuscolo - rimanda a suggestioni così antiche e diffuse da far pensare a un'origine preistorica. Come osserva Barry Lopez nella sua ampia monografia sul miglior nemico dell'uomo: Il legame tra il lupo e un periodo di penombra, sia esso l'alba che il tramonto, pur essendo quest'ultimo per eccellenza l'ora del lupo, suggerisce due immagini in apparenza contraddittorie. La prima è il lupo creatura dei primi albori, simbolo del passaggio dall'oscurità all'illuminazione, all'intelligenza, alla civiltà. La seconda è una creatura del vespro, simbolo del ritorno all'ignoranza e alla bestialità, un percorso a ritroso nel mondo delle forze oscure. Quindi, nel Medioevo, il lupo era il compagno di santi e del Diavolo. Il suo ululato mattutino elevava lo spirito, come il canto del gallo annunciava l'alba, la fine della notte e le ore del lupo. L'ululato notturno terrorizzava l'anima: le ore del lupo (fame, stregoneria, carneficina) erano imminenti.1 Dove l'idea dell'ora si dispiega in tutta la sua latitudine analogica: proprio il nordico Fenrir, partorito insieme all'immane serpente Jormungand e alla luttuosa ragazza Hel poi Signora degli Inferi (ma le parentele zoologicamente equivoche non ripugnano al pensiero mitico), richiama il tramonto non del giorno ma del mondo e dell'assetto divino che vi presiede (il cosiddetto Ragnarökkr, 'crepuscolo degli dèi'); e già il mito greco di Licaone, su cui dovremo tornare, associava alla sua stirpe maledetta di uominilupo la fine di una razza (pre)umana con il diluvio di Deucalione. Prima ancora che un'espressione suggestiva o un buon titolo per romanzi, insomma, l'ora del lupo costituisce una radicata categoria simbolica. Proprio le citate dimensioni di ambiguità ravvisate nel lupo (nunzio dell'alba o del crepuscolo, erede di mostri ibridi, doppio oscuro del cane, icona di ferocia sovrana e insieme di distruttività caotica) lo rendono, in qualche modo, una figura-limite cui l'uomo si paragona o contrappone con u-
n'intensità peculiare di emozioni. Che certo trova base concreta in motivi storico-economici, e dall'Eurasia alle Americhe l'animale ammirato nelle società di cacciatori finisce demonizzato in quelle basate su agricoltura, allevamento e vita cittadina: il nome stesso dell'animale trattiene in radice l'ambiguità del concetto di «predatore» (il varka dei gruppi indoeuropei, da cui il lupus latino, il vlk slavo e il wolf/wulf germanico) - non senza ampie estensioni simboliche. La lupa di Romolo e Remo, secondo un'interpretazione riportata già da Tito Livio, poteva essere prosaicamente una prostituta, alla luce di una diffusa simbolizzazione della bestia predatrice nel segno della voracità sessuale: come spiegherà un bestiario del XIII secolo, sia la femmina del lupo che la meretrice «saccheggiano i beni dell'uomo», e tracce di tali suggestioni rimangono in varie lingue moderne (in inglese wolf whistle, 'fischio del lupo', è quello di ammirazione un po' volgare al passaggio di una piacente signora, e in francese elle a vu le loup, 'lei ha visto il lupo', richiama la perdita della verginità). Nel Medioevo, il lupo predatore immagine degli eretici (come i falsi profeti e i nemici del gregge del Buon Pastore delle parabole evangeliche) è contrapposto agli animali domestici «innatamente buoni»; e a parte la bestia di Gubbio - un brigante tutto umano, secondo alcuni - ammansita da San Francesco, è vera e propria cronaca nera quella che immortala famosi lupi criminali come il codamozza (appunto detto) Courtaud, che infuriò con il proprio branco attorno e fin dentro Parigi tra il 1447 e il 1450, o nel 1685 la belva di Ansbach in Germania, ritenuta la reviviscenza di un defunto borgomastro (al punto che quando la abbatterono venne dileggiata in panni e maschera con le fattezze dell'uomo). Anche la «dedizione quasi patologica» (come la definisce Lopez) con cui gli allevatori di bestiame americani uccidevano i lupi spesso torturandoli, può comprendersi solo in una lettura più ampia che riguardi simboli, incubi e pulsioni di un'intera società - sedimentando idee come la svalutazione dell'animale quale immagine del Diavolo, la prova di virilità impastata di sadismo e una presunta benedizione divina nello sterminare chi uccide il bestiame e rende gli uomini poveri. Ma spesso la decifrazione è più difficile, a fronte di sovrapposizioni culturali e credenze di gruppi ristretti, talora decisamente esoteriche: e se assimilazioni al lupo sono attestate nelle culture più diverse (dagli eroi predatori come l'arciladro Autolico del mito greco, «il lupo stesso», figlio di Ermes dio dei ladri e nonno di Odisseo, ai guerrieri-lupo delle tribù native americane), il tipo di adesione all'icona ferina conosce un'estrema varietà di modulazioni - dalla mimesi rituale fino a esperienze-limite che potremmo definire licantropiche.
Alcuni autori hanno ravvisato affinità tra il lupo mannaro e l'uomo selvatico di tutta una tradizione europea (e non soltanto), transitato dagli dèi silvani del paganesimo attraverso feste e folklore del Medioevo, brutale ed erotico insieme - e la sua controparte, la donna selvatica assai più inquietante, mangiatrice di bambini e occasionalmente ninfa sessuale. Ma al di là di analogie con altre figure bestiali della tradizione, resta il fatto che nell'immaginario occidentale proprio il lupo rappresenti la soglia prima del passaggio al non-umano, con l'accesso a caratteristiche naturali di volta in volta auspicate (capacità predatoria, ferocia ecc.) o deprecate (bestialità). Una situazione cui virtualmente accedono all'infanzia grandi padri di popoli come Romolo o Attila (considerato figlio di una donna e di un lupo oppure un levriero), o «casi» di pubblica curiosità come i cosiddetti «bambini-lupo» (allevati in realtà da animali di varie specie, insigniti di illustri riconoscimenti letterari, da Rousseau a Kipling, e di una classificazione propria da Linneo quali esemplari di un improbabile Homo ferus), ma che invece può procedere per scelta del singolo o per appartenenza a particolari gruppi etnici, clan o società iniziatiche. Tra i casi più noti della tradizione europea vanno ovviamente rammentati i vichinghi berserkir, 'quelli vestiti di pelli d'orso', e ulfhednir, 'quelli vestiti con pelli di lupo', membri di società cultuali che con sostanze inebrianti e droghe capaci di inibire il dolore fisico si lasciavano possedere dalla furia guerriera di Odhinn (Voden in norreno - antico alto tedesco Wuotan, basso tedesco Wodan, antico inglese Woden - cioè appunto 'furore'; si veda wut, nel tedesco moderno 'rabbia/furia') quale Signore della guerra. Al punto che, come ricorda Petoia nel suo splendido repertorio licantropico, dopo la conversione dei germani al cristianesimo la condizione di tali eroi furenti verrà «accettata come una sorta di malattia, di disgrazia, di triste sorte da sopportare»2 e una forma di possessione demoniaca. Emblematico è poi il mito di Licaone, l'antico re dell'Arcadia che insieme al suo clan imbandisce a Zeus carne umana e finisce punito con una mutazione collettiva in lupi e con il diluvio: e se le versioni discordano (per l'indicibilità rituale di talune pratiche, l'oggettiva pluralità di tradizioni, e un misto di imbarazzo e ripugnanza dei mitografi classici) la vicenda si riconnette plausibilmente al misterioso culto storico con sacrifici umani celebrato in onore di Zeus sul locale monte Liceo. In una regione che aveva conservato tradizioni particolarmente arcaiche rispetto al resto della Grecia, il rituale di questo strano banchetto sacro prevedeva di far trovare visceri umani nella ciotola di uno dei partecipanti. Ciò avrebbe segnato -
con alcuni atti simbolici, tra i quali una nuotata - la mutazione novennale in lupo del candidato, destinata a prolungarsi qualora egli avesse consumato altra carne umana: ma il significato del rito e del mito connesso restano a oggi discussi. Una mimesi rituale associata a società iniziatiche segrete e a prassi non esattamente tranquillizzanti (antropofagia, omicidio) ritorna del resto nella storia anche recente: basti pensare alle inchieste sugli Uomini-pantere della Guinea ex francese (1922) e del Senegai (1930), o ai crimini attribuiti agli uomini-coccodrillo di Sierra Leone e Alto Volta. Com'è noto, l'italiano lupo mannaro viene dal latino lupus hominarius, cioè lupo mangiatore di uomini oppure 'lupo simile all'uomo'; in modo simile si sono formati l'inglese wer(e)-wolf, dove wer sta per 'uomo' (latino vir), il tedesco werwolf, il francese loup-garou (con garou per wer, oppure tautologicamente per garwolf - che già significherebbe 'uomo-lupo') e l'antico francese warouls, warous, vairout, varivals. Recentemente, in realtà, è stato proposto che il wer germanico si colleghi a una radice riguardante il 'vestire', ciò che permetterebbe di considerare il Werwolf' come il 'rivestito da lupo', eventualmente anche in riferimento a prassi magico-cultuali. Il termine usato dagli autori latini, versipellis (da qui vertit pellem, 'che muta/rivolta la pelle') guarda invece alla credenza che il pelo del lupo mannaro crescesse verso l'interno del corpo; e all'associazione 'lupopelle/pelliccia' rimandano l'antico slavo vlùkodlakù, lo sloveno volkodlak, il polacco wilkolak, il russo volkolak, e il bulgaro vùlkolak. In effetti la credenza nella possibilità che l'uomo si muti in forma animale (e particolarmente in fiere) è pressoché universale: per citare solo qualche esempio, a parte gli orsi mannari della Scandinavia, si pensi ai buda abissini e alle altre iene mannare dell'Africa, oppure ai leoni e leopardi mannari pure africani; a volpi e orsi mannari dell'area subartica, altaica e siberiana, e alle tigri mannare dell'Asia centrale, India e Malesia - mentre trasformazioni in orso, volpe e tigre concorrono nell'area cino-mongolica; alle volpi Ninko giapponesi, o ai giaguari mannari del Sud America. Ma nell'esperienza occidentale è appunto il lupo a far da mattatore, fin da un passato antichissimo. Certo la tipologia delle mutazioni è variegata, e i «mannarologi» (specie di formazione occultista) le distinguono in fisiche e non fisiche. Per le prime, si andrebbe dalla più o meno rapida (o completa) trasformazione in animale del corpo fisico dell'uomo - talora attraverso l'uso di mezzi magici - alla bilocazione dell'uomo in un corpo fisico di lupo (materializzato per l'occasione), fino alla possessione di un animale tramite lo spirito del man-
naro. Le mutazioni non fisiche riguarderebbero invece l'aura, il corpo astrale, il piano del sogno, la mente o la personalità, l'incanalazione medianica dello spirito di un lupo oppure un più semplice, costante collegamento magico con l'animale (in quest'ultimo caso, ovviamente, non potrebbe parlarsi di vera trasformazione). Circa le cause, generalmente la metamorfosi da uomo a lupo è letta dal mito in chiave di punizione di un comportamento umano da parte degli dèi: e anche nel folklore la mutazione avviene spesso in seguito alla violazione di regole morali (la donna adultera, secondo tradizioni del Caucaso) o - anche involontaria - di un tabù, oppure in seguito a condanna/maledizione/sortilegio da parte di creature non umane come il troll, o umane come stregoni (nel caso dei lupi mannari della Russia bianca), operatori del sacro (per le comunità irlandesi punite dall'abate Natale e da San Patrizio) oppure altri lupi mannari. Altre volte si tratta di una capacità maturata da uno stregone o sciamano (presso navajos - il cui termine per indicare il lupo, mai-coh, è appunto sinonimo di 'stregone' - ciukci, eskimesi e lapponi); oppure di una caratteristica legata alla semplice appartenenza a talune etnie, avvertite come più primitive e bestiali (nell'esperienza greca, per esempio, è il citato caso delle popolazioni dell'Arcadia e, in minor misura, della Tessaglia, ritenute capaci di metamorfosi proprio per la conservazione di usi cultuali antropofagici). Oppure a rilevare sarebbero le modalità di nascita (i nati con parto podalico presso gli slavi, i nati con un certo incantesimo per assicurare il parto indolore per i danesi, l'ultima nata di sette figlie per gli scandinavi), o piuttosto la data - come nell'idea, diffusa in più parti d'Europa, che ogni bambino partorito a Natale (più raramente all'Epifania, o a Capodanno) sia destinato alla licantropia, «poiché la sua nascita [...] diviene un evento dissacrante e profanante in rapporto alla nascita del Cristo o [...] alla particolare natura delle vigilie di alcune festività liturgiche»3. Alcune tradizioni collegano poi la licantropia a una serie di mali, come l'epilessia, eventualmente in rapporto con la luna e le infrazioni dei relativi tabù (mal di luna) - ciò che in seguito tornerà in termini irrigiditi e semplificati nella vulgata cinematografica; oppure a talune sostanze, come per infezione causata dalla cosiddetta «acqua licantropica», lasciata dalle orme di un mannaro. Non mancano casi in cui la trasformazione riguarda un uomo già morto, come il citato borgomastro di Ansbach o il re inglese Giovanni Senza Terra: ma qui il discorso si complica trasfondendo il motivo licantropico in altri filoni (vampirismo ecc.) che ci porterebbero lontano. Tornando invece alla trasformazione di uomini vivi, spesso essa
avviene grazie all'uso di particolari indumenti, attraverso una mimesi rituale dai fondamenti arcaicissimi (è il caso dei lupi mannari germanici citati nel VII secolo da Bonifacio di Magonza, che si trasformavano vestendo pelli di lupo o cinture di pelle umana) o anche con unguenti magici o formule di incantesimo - come quella dei lupi mannari dell'antica Russia riportata da Italo e Paola Sordi in un pionieristico saggio popolare degli anni Settanta. [I mannari! si ritiravano nella foresta, cercavano un tronco abbattuto e vi piantavano un coltello di rame: ciò fatto, intonavano [...] Nel mare, nell'oceano, sull'isola di Buian, nella vasta pianura sul frassino splende la luna. Nel verde bosco, nell'oscura valle, intorno al tronco va un ispido lupo. Sotto ai suoi denti saranno le bestie cornute: ma nella foresta non penetra il lupo. E nella valle il lupo non scende. Luna, o luna dalle corna d'oro fondi le pallottole, spunta il coltello, spezza la mazza nodosa, abbandona al terrore la bestia e l'uomo e il serpente. Sfugga loro il lupo grigio, non sia lacerata la calda pelliccia. Salda è la mia parola, più forte del sonno e della parola del guerriero! Poi saltavano per tre volte il tronco e si trasformavano in lupi4. Come estremamente vari, a seconda delle tradizioni e della modalità di trasformazione, risultano i limiti connessi allo status di licantropo (non poter alzare gli occhi al cielo, non poter avanzare davanti a una croce o al fuoco acceso, non potersi esimere dal lacerare un indumento gettatogli addosso ecc.), i sistemi per riacquisire fattezze umane dopo la crisi (con o senza l'intervento altrui), le terapie per guarire - ove ritenuto possibile - e per prevenire la licantropia in soggetti predisposti. Per quanto attiene alla dimensione temporale, in genere la mutazione si collega a peculiari cadenze del calendario (banalizzate, si è detto, dal mito cinematografico nel richiamo alla luna piena, ma nel folklore ben più va-
riegate) e può avere durata variabile. Se abbiamo già visto la mutazione novennale dei licantropi arcadi, per esempio i neuri - una tribù della Russia occidentale di cui parla Erodoto - sarebbero stati soggetti alla mutazione in lupi una volta l'anno per vari giorni consecutivi; e molti secoli dopo Olao Magno discetterà delle scorribande dei lupi mannari di Prussia, Livonia e Lituania a Natale, per saccheggiare le case e abbandonarsi a corali, turpissime bevute. Per il letterato cristiano la scelta del periodo assumeva risvolti particolarmente sacrileghi, ma l'origine della storia doveva collegarsi ai riti pagani di Jul, il mezzo inverno (ancora il rapporto lupo/luce?) - dei quali potrebbe sopravvivere traccia nella citata convinzione che i nati a Natale diventino lupi mannari. Sempre a Natale e secondo Olao, i lupi mannari della Livonia avrebbero sperimentato l'esperienza della trasformazione per un tempo prefissato con una nuotata simile a quella degli antichi colleghi arcadi (ma il collegamento tra licantropia e immersione in acqua torna in tradizioni anche italiane e francesi). Affinità con i mascheramenti rituali di Jul, del resto, e analoghi scopi di fertilità andrebbero ravvisati in un'altra festa, i romani Lupercali (15 febbraio), dove a scorrazzare erano i luperci, sacerdoti lupi-capri compagni di Romolo. Anche in tema di difesa contro il licantropo esiste un'ampia pluralità di vedute: si va dalla difesa passiva (di chi per esempio porti al collo o coltivi attorno a casa avena, vischio o frassino, oppure mangi alcuni cibi apotropaici - ad Haiti, per esempio, gli scarafaggi fritti con aglio e olio di ricino) a quella attiva (buttando addosso al mannaro un mantello, impaurendolo con una luce violenta ecc.) fino all'eliminazione vera a propria: e il sistema più noto e consacrato dal canone cinematografico prevede l'uso di armi (o pallottole) d'argento, meglio se benedette, cui far seguire preferenzialmente la decapitazione e il rogo delle spoglie (per evitare un ritorno del mannaro come vampiro). Quanto al motivo folklorico della ferita riportata dal lupo che permetterebbe di identificarlo in un uomo similmente vulnerato, ne troviamo traccia già nel Satyricon di Petronio (dove però la storia del versipellis è di intrattenimento, e qualcuno ne relativizza il valore documentario), e tornerà con valore probatorio in vari processi a lupi mannari. Non è questa la sede per una monografia sulle metamorfosi uomoanimale (un punto fondamentale di riferimento è il famoso saggio di Frank Hamel Human Animals5) o più specificamente sulla licantropia: ciò che rileva è la complessità di un fenomeno «che difficilmente può essere dominato da tentativi di spiegazione unitaria e [...] si presta a interpretazioni plurime e talvolta discordanti»6. E che a maggior ragione può far apprezza-
re questo romanzo di Robert R. McCammon, capace di discostarsi da una vulgata (moderna) un po' insipida in termini originalissimi e insieme estremamente rispettosi della dignità del mito. È vero, Michael Gallatin meglio, Mikhail Gallatinov, nato a San Pietroburgo nel 1910 - il suo ruvido mentore Wiktor e gli altri del branco non hanno bisogno di litaniare l'antico canto dei mannari russi per ottenere la mutazione (e le crisi del giovane nel metabolizzare la licantropia sono tra le più impressionanti di questa letteratura): ma il profilo ferino e paradossalmente umanissimo del protagonista e le sue gesta quale agente segreto (erede dunque di arciladri e guerrieri di infinite epopee) restituiscono gli echi, come ululati dagli abissi del passato, dei grandi eroi-lupi. Con una linea di pensiero in parte analoga a quella sulle streghe, l'Occidente cristiano vede a un certo punto evolvere - meglio, involvere - la figura del licantropo da semplice malato, plausibilmente affetto da melancolia (la prima connessione tra licantropia e malattia depressiva risale addirittura al medico greco Marcello di Side, II secolo d.C), oppure da oggetto di biasimevole superstizione (il tema torna con qualche frequenza in omelie, testi penitenzali, tema di rinuncia battesimale) ad alleato del diavolo, che da lui otterrebbe la fatale capacità di mutare. Ciò che Sant'Agostino negava, parecchi demonologi agli albori del mondo moderno riterranno possibile: e se per il Malleus maleficarum (1486) la trasformazione è solo un'illusione che colpisce l'osservatore, perché soltanto Dio può mutare la sostanza delle creature, in genere i sostenitori della trasformazione reale (come Jean Bodin) e quelli della sua illusorietà si troveranno concordi su una linea rigorista contro i presunti licantropi. In una celebre incisione di Lucas Cranach, il lupo mannaro che si trascina carponi con un bimbo tra i denti (e, alle spalle, tranci di corpi straziati) non ha nulla di veramente animale: e in effetti i casi giudiziari documentano una realtà confusa, sordida e oggettivamente disturbante, dove la psicopatologia criminale si sposa alla superstizione e alla criminalizzazione di elementi socialmente marginali. Senza maggiori distinguo in questa sede, incontriamo per esempio Michel Verdung e Pierre Bourgot, processati nel 1521 e mandati al rogo dopo una confessione (estorta, ci informa l'illuminato Johan Wier) infarcita di patti con il diavolo e metamorfosi lupesche; Giles Garnier, bruciato vivo nel 1574 per l'uccisione di alcuni bambini nella zona di Lione; Peeter Stubbe, giustiziato a Bedburg presso Colonia nel 1590 per omicidio, incesto, stupro e sodomia come lupo mannaro (il libello che descriveva - e illustrava in vignette - i crimini e l'esecuzione rappresentò all'epoca un vero successo
pulp); un sarto che aveva violentato, torturato a morte, poi incipriato e vestito i corpi di alcuni bambini, bruciato come lupo mannaro a Parigi nel 1598; Jacques Roulet, un barbone di Caude presso Angers, processato sempre nel '98 ma riconosciuto debole di mente ed epilettico, e dunque sfuggito alla pena di morte; e il quattordicenne Jean Grenier, condannato a morte nel 1603 in seguito a una delirante confessione a base di fantasie licantropiche - ma poi anche lui semplicemente imprigionato in un convento francescano a Bordeaux e lì rimasto per i successivi otto anni a scorrazzare carponi, del tutto fuori di sé. Più raramente, tuttavia, i processi testimoniano l'esistenza di un'altra immagine di lupo mannaro, positiva (almeno secondo i nostri parametri), quale strenuo difensore di greggi e raccolti contro stregoni e forze del male: è il caso per esempio di un certo Thiess, un contadino della Livonia processato nel 1692 e condannato a dieci frustate per superstizione e idolatria (sui rapporti tra tale modello e il fenomeno dei cosiddetti benandanti friulani, che tuttavia non ritenevano di trasformarsi in lupi, si rimanda alle ricerche di Carlo Ginzburg). Con il tempo, comunque, i presunti lupi mannari tornarono ad essere considerati anzitutto dei malati, passando dalla competenza dei demonologi a quella dei medici. Ma gli echi di bestialità, superstizione e delitto evocati dall'antieroe dei vecchi pamphlet riaffioreranno nell'Uomo lupo della letteratura popolare, tra strazi assortiti e fantasie di perversione (basti pensare al provocatorio soprannome le lycanthrope del truce Pétrus Borei scrittore di storie nere nelle Francia della prima metà dell'Ottocento). Se infatti il mannaro ha antiche e venerabili frequentazioni letterarie - dagli episodi licantropici delle Metamorfosi di Ovidio e del Satyricon di Petronio, alla saga islandese dei volsunghi, alla canzone di gesta Guillaume de Palermo e al romantico Lai du Bisclavret di Maria di Francia, e l'elenco potrebbe continuare - l'età moderna gli assicurerà una circolazione più diffusa e popolare ma anche connotati (in genere) più atroci e miserabili. A partire dagli episodi licantropici di The Albigenses, di Charles Robert Maturin, 1824, e The Phantom Ship di Frederick Marryat 1839, dal racconto Hugues the Werewolf di Sutherland Menzies, 1838, e dal primo romanzo sul tema, il diluviale Wagner the wher-wolf di George William Reynolds, pubblicato a puntate in settantasette fascicoli tra il 1846 e il 1847; e via proseguendo attraverso Alexandre Dumas (Le Meneur des Loups 1857), il duo Erckmann & Chatrian (Hugues-le-loup, 1876), Guy de Maupassant (Le Loup, 1882), Rudyard Kipling (The Mark of the Beast, 1888), Edith Nesbit (The White Wolf, 1898), Saki (Gabriel-Ernest, 1907 e The
Interlopers, 1919), Algernon Blackwood (in vari racconti), Elliot O'Donnell (Werewolves, 1912), Luigi Pirandello (Mal di luna, 1913), Guy Endore (The Werewolf of Paris, 1933), e un po' tutti i grossi nomi della leggendaria rivista americana Weird Tales, Lovecraft e Howard compresi; e ancora con Jack Williamson (Darker than you Think, in Italia Il figlio della notte, 1948), Tanith Lee (Lycanthia, 1981), Whitley Strieber (Wolfen, 1978), S.P. Somtow (Moon Dance, 1989), Laurell K. Hamilton (nei romanzi del ciclo di Anita Blake) e infiniti altri, oggi anche felicemente antologizzati7. E d'altro canto il trattamento riservato al lupo mannaro da questi molti e spesso illustri autori raramente ha reso giustizia al suo antico statuto di «superuomo» (secondo il termine usato nel titolo italiano di un affascinante studio di Gaël Milin8) - o almeno di combattente coraggioso, in delicato rapporto con la propria natura ma non semplicemente succube di essa. Una situazione analoga, del resto, a quella riflessa dal cinema, interessato molto presto al tema del lupo mannaro (già in pellicole USA del 1913 e 1914, basate su leggende indiane): anzi proprio attraverso la grande codificazione su schermo da parte dell'americana Universal, che lungo il ventennio trenta/quaranta rimastica a beneficio di immense platee le inquietudini in bianco e nero dell'espressionismo tedesco, l'Uomo lupo entrerà a far parte degli «orribili quattro»9 insieme agli altri «mostri classici» - cioè Dracula, la creatura di Frankenstein e la Mummia. Certo l'irrigidimento dell'Uomo lupo a stereotipo ne coglie la peculiarità di mostro periodico ma la banalizza mestrualmente al plenilunio, recupera la dimensione patologica degli antichi resoconti ma la patetizza in sofferenze romantiche per una maledizione non cercata, omicidi non voluti e frustrati tentativi di guarire. Pellicole celebri come The Werewolf of London del 1935 o The Wolf Man del '41, che consacra la maschera sofferta dell'attore Lon Chaney Jr. nei panni (e peli) di Larry Talbot poi protagonista di una raffica di sequel, hanno modellato l'immaginario degli spettatori un po' in tutto il mondo, facendo incontrare l'erede di Licaone con gli altri mostri del cinema e persino con Gianni e Pinotto. Passato poi il testimone della teratologia filmica dall'americana Universal all'inglese Hammer, Oliver Reed riceverà la pelliccia per un'unica volta, in The Curse of the Werewolf del '60; mentre figura chiave dell'horror iberico in una fortunata (e deliziosa) serie di pellicole su sfondi variegati e avventurosissimi lungo gli anni settanta sarà il sanguigno Waldemar Daninsky di Paul Naschy (alias Jacinto Molina), un Uomo lupo dalle migliori intenzioni. Ma anche opere successive come The
Howling (L'ululato, capostipite di tutta una serie) di Joe Dante, 1980, An American Werewolf in London (Un lupo mannaro americano a Londra) di John Landis, 1981, The Company of Wolves (In compagnia dei lupi) di Neil Jordan, 1984, Silver Bullet (Unico indizio la luna piena) di Daniel Attias, 1985, Wolf (Wolf - La bestia è fuori) di Mike Nichols, 1994, Cursed (Cursed - Il maleficio) di Wes Craven, 2004, o la trilogia canadese di Ginger Snaps (tra il 2000 e il 2004, anno di Ginger Snaps: The Beginning, in Italia Licantropia) - che pure meritano menzione in un elenco ben più ampio - non hanno fatto dimenticare la tormentata malinconia delle prime maschere cinematografiche. E quand'anche l'Uomo lupo appaia come un valido combattente non privo di caratteri «piacenti», come in recenti riletture delle vecchie macedonie all monsters nel segno dell'azione (la saga di Underworld di Len Wiseman, 2003-06, una sorta di Romeo e Giulietta con licantropi e vampiri) e del trionfo di effetti speciali (il Van Helsing di Stephen Sommers, 2004, dove l'infettato protagonista mantiene una qualche avvenenza anche in panni lupeschi), la sua figura è messa sempre in ombra da quella del succhiasangue - analogamente, del resto, a quanto avviene in romanzi contemporanei come quelli di Laurell K. Hamilton (dove pure il licantropo è figura fortemente erotica). In tale panorama L'ora del lupo rappresenta dunque un'opera importante e in qualche modo di svolta - oltre che di godibilissima lettura. Come tante volte nel mito, una qualche affinità deve correre tra l'eroe e il mostro, lupo contro lupo: e contro Adolf (da Edelwolf, 'il lupo nobile') Hitler, e i sedicenti eredi degli antichi berserkir e ulfhednir, è proprio un licantropo a dover scendere in campo. E attraverso amori e agguati, colpi di scena e ricordi, a pretendere per la sua specie una dignitosa, affascinante e genuina dimensione di umanità. FRANCO PEZZINI* Note 1. Barry Lopez, Lupi. Dalla parte del miglior nemico dell'uomo, Piemme, Casale Monferrato, 2002, pp. 278-9. 2. Erberto Petoia, Vampiri e lupi mannari, Newton Compton, Roma, 1991, p. 81. 3. Alfonso M. di Nola, Introduzione, in Petoia, op. cit, p. 14. 4. Italo e Paola Sordi, L'uomo lupo, Armenia, Milano, 1974, pp. 12-13.
5. Frank Hamel, Animali umani, Mediterranee, Roma, 1974. 6. Alfonso M. di Nola, op. cit, p. 16. 7. Basti citare il monumentale Storie di lupi mannari, a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1994. 8. Gaël Milin, Il Licantropo: un superuomo?, Ecig, Genova, 1997. 9. Come li chiama Fabio Giovannini, nella sua monografia Mostri. Protagonisti dell'immaginario del Novecento da Frankenstein a Godzilla, da Dracula ai cyborg, Castelvecchi, Roma, 1999, in particolare p. 84. * Saggista, critico letterario. Prologo l. La guerra continuava senza fine. Nel febbraio del 1941 era dilagata come una tempesta di fuoco dall'Europa fino alle spiagge dell'Africa nordoccidentale, dove il comandante delle truppe tedesche di Hitler, un ufficiale molto capace di nome Erwin Rommel, era arrivato a Tripoli in soccorso degli italiani e aveva cominciato a ricacciare le forze britanniche fino al Nilo. Lungo la strada costiera da Bengasi attraverso El Aghelia, Agedabia e Mechili, i carri armati Panzer e i soldati dell'Africa Korps continuavano ad avanzare attraverso un terreno infuocato, in mezzo a tempeste di sabbia, fra canali che avevano dimenticato il sapore della pioggia e formazioni rocciose a picco che precipitavano per centinaia di metri fino a pianure piatte e desolate. L'enorme massa di uomini, cannoni anticarro, camion e carri armati marciava in direzione est e, dopo aver strappato la fortezza di Tobruk ai britannici il 20 giugno 1942, avanzava verso l'obiettivo primario che Hitler tanto desiderava: il Canale di Suez. Il controllo di quella via d'acqua fondamentale avrebbe permesso alla Germania nazista di interrompere bruscamente i trasporti marittimi alleati e di continuare la marcia verso est, aprendosi rapidamente una strada fino al ventre molle della Russia. Nelle ultime giornate torride del giugno 1942, l'VIII Armata britannica, composta in gran parte da soldati ormai esausti, si trascinava verso una stazione ferroviaria chiamata El Alamein. Gli ingegneri piazzavano freneticamente sulla scia dei soldati alcuni campi minati dallo schema complesso, sperando di ritardare i Panzer in avvicinamento. Girava voce che
Rommel fosse a corto di benzina e di munizioni ma, nelle loro buche scavate nella dura terra bianca, i soldati potevano sentire il terreno tremare per le vibrazioni prodotte dai carri armati nazisti. E mentre il sole picchiava e gli avvoltoi giravano in cerchio, colonne di polvere si alzavano all'orizzonte verso ovest. Rommel era arrivato a El Alamein e nessuno avrebbe potuto impedirgli di cenare al Cairo. Il sole tramontò, rosso sangue in un cielo latteo. La giornata del 30 giugno stava per finire e le ombre avanzavano lentamente attraverso il deserto. I soldati dell'VIII Armata attendevano, mentre nelle tende i loro ufficiali studiavano mappe macchiate dal sudore e le squadre di ingegneri continuavano ad ampliare i campi minati nel territorio che si estendeva fra loro e le linee tedesche. Apparvero le stelle, luminose in un cielo senza luna. I sergenti controllavano le riserve di munizioni e urlavano agli uomini di pulire le loro buche - si faceva di tutto per distogliere le menti dei soldati dalla carneficina che sarebbe sicuramente iniziata all'alba. Parecchi chilometri a ovest, dove motociclisti in esplorazione su BMW rigate dalla sabbia e autoblindo da ricognizione rombavano nell'oscurità al limitare dei campi minati, un piccolo aereo Storch color sabbia atterrò su una pista delimitata da fuochi di segnalazione blu, agitando l'aria con la scia prodotta dall'elica. Sulle ali si stagliavano dipinte le svastiche nere naziste. Appena le ruote dello Storch smisero di girare, un'auto militare scoperta si avvicinò da nordovest con i fari anteriori schermati. Dall'aereo scese un Oberstleutnant tedesco, con indosso l'uniforme polverosa color marrone chiaro degli Afrika Korps e grossi occhiali per difendersi dalla sabbia che turbinava. Portava una malridotta cartella marrone ammanettata al polso destro e venne rapidamente salutato dall'autista della macchina, che gli tenne aperta la portiera. Il pilota dello Storch rimase ad aspettare nella cabina, seguendo gli ordini dell'ufficiale. Poi l'auto militare rombò tornando nella direzione da cui era venuta e, appena uscì dal raggio visivo, il pilota bevve un sorso dalla borraccia e cercò di dormire un po'. L'auto militare salì una piccola cresta, con le ruote che sputavano una scia di sabbia e pietruzze taglienti. Dall'altra parte si trovavano le tende e i veicoli di un battaglione di ricognizione; tutto era immerso nel buio, a eccezione del debole bagliore delle lanterne dentro le tende e dello scintillio occasionale dei fari schermati, quando una motocicletta o un autoblindo si spostava per qualche commissione. L'auto militare si arrestò davanti alla tenda più grande e centrale; l'Oberstleutnant aspettò che gli venisse aperta la portiera prima di
scendere. Mentre camminava verso l'entrata, sentì il tintinnio di alcune scatolette e vide numerosi cani ossuti rovistare nella spazzatura. Uno degli animali avanzò verso di lui, le costole in evidenza e gli occhi incavati per la fame. L'uomo gli diede un calcio prima che l'animale potesse raggiungerlo. Lo stivale lo centrò su un fianco, facendolo indietreggiare, ma il cane non emise alcun suono. L'ufficiale sapeva che quelle brutte bestie avevano i pidocchi; l'acqua era molto preziosa e all'uomo non piaceva affatto l'idea di doversi strofinare la pelle con la sabbia per toglierseli. Il cane si allontanò, la pelle livida che mostrava i segni di altri stivali, la morte per fame già decretata. L'ufficiale si fermò poco prima dell'entrata della tenda. Si rese conto che c'era qualcos'altro là fuori. Appena oltre il margine della vera oscurità, al di là del punto in cui i cani rovistavano nella spazzatura alla ricerca di avanzi di carne. Poteva vedere i suoi occhi. Scintillavano verdi, catturando un frammento di luce dalla lanterna di una tenda. Lo fissavano senza sbattere le palpebre, non mostrando timore né elemosinando cibo. Era un altro maledetto cane, pensò l'ufficiale, anche se riusciva a vederne solo gli occhi. I cani seguivano gli accampamenti e si diceva che avrebbero leccato l'urina da un piatto se qualcuno gliel'avesse offerta. All'uomo non piaceva il modo in cui il bastardo lo guardava; quegli occhi erano astuti e freddi, e l'ufficiale fu tentato di allungare una mano per prendere la Luger e spedire un altro cane nel paradiso dei musulmani. Quegli occhi lo mettevano molto a disagio, perché non mostravano alcuna paura. «Tenente colonnello Voigt. L'aspettavamo. Prego, entri». Il lembo della tenda era stato tirato indietro. Il maggiore Stummer - un uomo dal viso marcato con i capelli rossi tagliati molto corti e gli occhiali rotondi - gli rese omaggio e Voigt annuì in cenno di saluto. All'interno della tenda si trovavano altri tre ufficiali, in piedi intorno a un tavolo coperto di mappe. La luce delle lanterne si riversava sui visi teutonici cesellati e abbronzati dal sole, rivolti con grande aspettativa verso Voigt. Il tenente colonnello si fermò sulla soglia della tenda; il suo sguardo vagò verso destra, oltre i cani ossuti e affamati. Gli occhi verdi erano spariti. «Signore?», chiese Stummer. «C'è qualche problema?» «No». La sua risposta fu troppo veloce. Era stupido lasciarsi turbare da un cane, si disse. Una volta, al comando di un cannone da 88, aveva personalmente dato l'ordine di distruggere quattro carri armati inglesi con una
tranquillità maggiore di quella che sentiva in quel momento. Dov'era andato il cane? Nel deserto, naturalmente. Ma perché non era andato a rovistare tra le scatolette come gli altri? Be', era ridicolo perdere tempo a pensarci su. Rommel l'aveva mandato lì per avere delle informazioni e aveva intenzione di riportarle al quartier generale dell'Armata Panzer. «Non c'è nessun problema, a parte l'ulcera gastrica, uno sfogo sul collo dovuto al calore e il fatto che vorrei tanto rivedere la neve prima di diventare matto», disse Voigt mentre entrava nella tenda e il lembo si chiudeva dietro di lui. L'ufficiale tedesco rimase in piedi vicino al tavolo con Stummer, il maggiore Klinhurst e gli altri due ufficiali del battaglione. I suoi intransigenti occhi azzurri esaminarono le mappe che mostravano il deserto crudele e striato dai canali tra il Punto 169 - la piccola cresta che aveva superato - e le fortificazioni britanniche. Cerchi disegnati in rosso indicavano i campi minati, mentre quadrati blu mostravano le molte casematte costellate di filo spinato e mitragliatrici, che si sarebbero dovute superare nella spinta verso est. Le mappe rivelavano anche la posizione delle truppe e dei carri armati tedeschi, indicati con linee e quadrati neri. Su ogni mappa era stampigliato il timbro ufficiale a inchiostro del battaglione di ricognizione. Voigt si tolse il berretto a tesa piatta, si asciugò il sudore dal viso con un fazzoletto già usato ed esaminò le mappe. Era un uomo grosso e dalle spalle larghe, la cui carnagione chiara si era indurita diventando brunita. Aveva i capelli biondi striati di grigio alle tempie e folte sopracciglia quasi completamente grigie. «Suppongo che queste siano aggiornatissime, giusto?», chiese. «Sì, signore. L'ultima pattuglia è rientrata venti minuti fa». Voigt borbottò con fare evasivo, percependo che Stummer si aspettava un complimento sulla ricognizione approfondita e totale dei campi minati eseguita dal suo battaglione. «Non ho molto tempo. Il feldmaresciallo Rommel sta aspettando. Quali sono le sue raccomandazioni?» Stummer fu deluso dal mancato riconoscimento del lavoro del suo battaglione. Gli ultimi due giorni (e notti) alla ricerca di una breccia nelle fortificazioni britanniche erano stati duri e pesanti. Lui e i suoi uomini si trovavano ai confini del mondo, vista la desolazione che li circondava. «Qui». Prese una matita e la usò per picchiettare su una delle mappe. «Crediamo che la strada più facile per passare si trovi in quest'area, poco a sud della cresta Ruweisat. I campi minati sono più radi e, come vede, c'è un vuoto nel raggio di fuoco tra queste due casematte». Toccò due quadrati blu. «Uno sforzo concentrato potrebbe facilmente aprire un varco per passare».
«Maggiore», disse stancamente Voigt, «niente è facile in questo maledetto deserto. Se non otterremo il carburante e le munizioni che ci servono, ci ritroveremo appiedati a lanciar sassi prima della fine della settimana. Piegatemi le mappe, per favore». Uno degli ufficiali di grado inferiore cominciò a farlo. Voigt aprì la cartella e ve le infilò. Poi la richiuse, si asciugò il sudore dal viso e si mise il berretto. Per tutto il volo di ritorno alla postazione di comando di Rommel e per tutta la notte si sarebbero svolte discussioni e riunioni informative; ne sarebbe seguito un movimento di truppe, carri armati e rifornimenti verso le aree che Rommel aveva deciso di attaccare. Senza quelle mappe, la decisione del feldmaresciallo sarebbe stata lasciata all'azzardo, come il lancio di un dado. La cartella adesso aveva un peso soddisfacente. «Sono sicuro che il feldmaresciallo vorrebbe che le dicessi che ha fatto un lavoro davvero straordinario, maggiore», ammise alla fine Voigt. Stummer sembrò compiaciuto. «Brinderemo tutti al successo dell'Armata Panzer Afrika sulle rive del Nilo. Heil Hitler». Voigt alzò rapidamente la mano e gli altri - tutti tranne Klinhurst, che non si faceva scrupoli nel manifestare la sua avversione per il partito - risposero allo stesso modo. Poi la riunione terminò e Voigt si allontanò dal tavolo, camminando a passo spedito fuori dalla tenda, verso la macchina che lo aspettava. L'autista era già pronto ad aprirgli la porta; il maggiore Stummer uscì per assistere alla partenza di Voigt. Questi era ormai a pochi passi dalla macchina quando intravide un rapido movimento alla sua destra. Voltò la testa in quella direzione e subito le gambe gli diventarono di burro. A meno di un braccio di distanza c'era un cane nero con gli occhi verdi. Evidentemente era sbucato dall'altra parte della tenda e gli era arrivato addosso con rapidità tale che né l'autista né Stummer avevano avuto il tempo di reagire. La bestia nera non era come gli altri cani selvaggi affamati; era grosso come un mastino, alto quasi ottanta centimetri al garrese e aveva lungo il dorso e le cosce muscoli che si tendevano come fasci di corde di pianoforte. Aveva le orecchie appiattite lungo il manto lucente della testa e gli occhi erano luminosi come lampade da ferrovieri che segnalano verde; fissarono con risolutezza il volto di Voigt e in essi l'ufficiale tedesco riconobbe l'intelligenza di un assassino. Non era un cane, si rese conto. Era un lupo. «Mein Gott», esclamò con uno sbuffo, come se qualcuno gli avesse dato
un pugno nello stomaco ulcerato. Il lupo mostruoso e muscoloso gli fu subito addosso, con la bocca aperta a scoprire le zanne bianche e le gengive scarlatte. Il tedesco sentì il fiato caldo dell'animale sul dorso del polso dov'era ammanettata la cartella, e quando capì con orrore quello che il lupo stava per fare, allungò la mano sinistra verso l'impugnatura della Luger che teneva nella fondina. Il lupo serrò con forza e rapidità la mascella sul polso di Voigt e poi, con una torsione decisa del muso, gli spezzò le ossa. Una piccola scheggia lacerò la carne dell'ufficiale tedesco e il sangue rosso zampillò formando un arco e schizzando la fiancata dell'automezzo militare. Voigt urlò, incapace di aprire la fondina per prendere la Luger. Cercò di allontanarsi, ma il lupo piantò gli artigli nel terreno rifiutando di muoversi. L'autista della macchina era bloccato dallo shock e Stummer urlava per chiedere aiuto agli altri soldati che erano appena tornati dal pattugliamento. Il suo volto brunito aveva assunto un colore giallastro. Le mascelle del lupo si stavano facendo strada; i denti cominciavano a toccarsi attraverso le ossa rotte e la carne sanguinante. Gli occhi verdi lo fissavano con aria di sfida. Voigt urlò: «Aiutatemi! Aiutatemi!», e il lupo lo ricompensò scuotendo il muso; il movimento fece tremare l'ufficiale, gli provocò un dolore lancinante attraverso ogni nervo del corpo e gli recise la mano. Sul punto di svenire, Voigt estrasse con forza la Luger dalla fondina proprio mentre l'autista piegava la sua pistola Walther e mirava alla testa del lupo. Puntò l'arma contro il muso macchiato di sangue dell'animale. Ma mentre le due dita degli uomini si stringevano sui grilletti, l'animale improvvisamente scartò da un lato, continuando a serrare il polso di Voigt e proiettando l'ufficiale proprio davanti alla canna della Walther. La pistola dell'autista esplose un colpo con un crac! stridente e contemporaneamente la Luger fece fuoco contro il terreno. Il proiettile della Walther attraversò la schiena di Voigt e uscì aprendogli nel petto un buco cerchiato di rosso. Mentre si accasciava a terra, il lupo gli strappò via la mano dal polso. Le manette scivolarono e caddero, ancora attaccate alla cartella. Con un rapido movimento della testa, l'animale gettò via la mano tremante che teneva fra le mascelle piene di sangue. L'arto cadde in mezzo ai cani affamati, che si avventarono sul nuovo rifiuto. L'autista sparò di nuovo, con il volto immobile per il terrore e la mano che reggeva la pistola scossa da un tremito violento. Una piccola zolla di terra si sollevò alla sinistra del lupo mentre con un balzo l'animale si spostava di lato. Tre soldati arrivarono correndo da un'altra tenda, portando
tutti pistole mitragliatrici Schmeisser. Stummer gridò: «Uccidetelo!», e Klinhurst uscì con la pistola in mano dalla tenda che costituiva il quartier generale. Ma l'animale nero si lanciò rapidamente in avanti sul corpo di Voigt. I suoi denti trovarono la manetta di metallo e vi si strinsero intorno. Quando l'autista sparò per la terza volta, il proiettile attraversò la cartella e sibilò rimbalzando sul terreno. Klinhurst prese la mira, ma prima che potesse premere il grilletto, il lupo sfrecciò via zigzagando e corse verso est, avvolto dall'oscurità. L'autista fece fuoco nuovamente, vuotando il caricatore, ma non si sentirono urla di dolore. Altri soldati uscirono dalle tende e in tutto l'accampamento si udirono grida di allarme. Stummer corse accanto al corpo di Voigt, lo rovesciò e si ritrasse disgustato di fronte a tutto quel sangue. Deglutì con forza, la mente turbinante per la velocità alla quale tutto era accaduto. Poi si rese conto di quale fosse il nocciolo della questione: il lupo aveva preso la cartella contenente le mappe della ricognizione e si era diretto a est. A est. Verso le linee britanniche. Quelle mappe mostravano anche la posizione delle truppe di Rommel, e se gli inglesi ne fossero venuti in possesso... «Sali!», gridò Stummer, scattando in piedi come se gli fosse stata infilata una sbarra di ferro su per il culo. «Sbrigati, per l'amor di Dio! Sbrigati! Dobbiamo fermare quella bestia!» Corse oltrepassando l'auto militare fino a un altro veicolo poco lontano: un autoblindo gialla con una mitragliatrice pesante fissata al cofano. L'autista lo seguì e altri soldati corsero alle motociclette BMW e ai sidecar, anch'essi equipaggiati con mitragliatrici. Stummer scivolò nel sedile del passeggero, l'autista avviò il motore e accese i fari, i motori delle motociclette borbottarono e rombarono, i loro fanali avvamparono gialli e Stummer urlò «Vai!» al suo autista, con la gola che già sentiva il cappio del boia. L'autoblindo scattò in avanti, sollevando pennacchi di terra con le ruote, e quattro motociclette le girarono intorno, accelerarono e la oltrepassarono rombando. A quasi cinquecento metri di distanza, il lupo stava correndo. Il suo corpo era un motore progettato per la velocità e la distanza. Gli occhi erano serrati fino a diventare due fessure e la mascella era stretta con forza intorno alle manette. La cartella picchiava per terra con un ritmo regolare; il respiro del lupo era un rombo basso e potente. La figura in corsa deviò di qualche grado sulla destra, salì una collinetta rocciosa e scese di nuovo,
come se stesse seguendo un percorso prestabilito. Le zampe sollevavano schizzi di sabbia; davanti all'animale, scorpioni e lucertole scappavano via alla ricerca di un riparo. Le orecchie del lupo si mossero rapidamente. Un rombo si avvicinava veloce da sinistra. L'animale affrettò il passo, con le zampe che picchiavano contro la sabbia compatta. Il rombo si avvicinava ancora di più... molto di più... e adesso era quasi direttamente alla sua sinistra. Un fanale sorpassò l'animale, tornò indietro e si fissò sulla figura che correva. Il soldato nel sidecar della motocicletta gridò: «Eccolo!», e tolse la sicura alla mitragliatrice. Orientò la canna verso l'animale e aprì il fuoco. Il lupo si bloccò immediatamente alzando una nuvola di terra, e i proiettili tracciarono uno schema preciso nel terreno che aveva davanti. La motocicletta lo oltrepassò velocemente, con il guidatore che armeggiava con i freni e il manubrio. Poi il lupo cambiò direzione e cominciò a correre di nuovo a velocità massima, dirigendosi sempre a est, sempre serrando le manette tra le fauci. La mitragliatrice continuò a far sentire la sua voce. I proiettili traccianti incisero linee arancioni nell'oscurità e rimbalzarono dalle pietre come mozziconi di sigaretta. Ma il lupo zigzagò avanti e indietro, il corpo perfettamente aderente al terreno e, mentre i proiettili gli sibilavano intorno, l'animale superò un'altra collinetta e uscì dalla portata del fanale. «Laggiù!», urlò al vento il mitragliere. «È andato oltre quella collina!» L'autista svoltò con la motocicletta e si diresse all'inseguimento, con la terra bianca che turbinava nel raggio del fanale anteriore. Spinse al massimo il motore, che rispose con un rombo tipico delle macchine tedesche. Raggiunsero la cima della collina e cominciarono a discenderla - e il fanale mostrò, proprio al disotto, un canale profondo due metri e mezzo che aspettava come se stesse ghignando. La motocicletta vi si schiantò, si ribaltò e la mitragliatrice si azionò, sventagliando un ampio arco di proiettili che rimbalzarono ai lati del canale e finirono per attraversare i corpi dell'autista e del mitragliere. La motocicletta si accartocciò e il serbatoio esplose. Dall'altra parte del canale, che il lupo aveva superato con un unico scatto delle zampe posteriori, l'animale continuò a fuggire, schivando i pezzi incandescenti di metallo che gli picchiettavano intorno. Tra gli echi dell'esplosione udì il rumore di un altro cacciatore, stavolta proveniente da destra. La testa del lupo si piegò da un lato, avvistando il fanale del sidecar. La mitragliatrice cominciò a fare fuoco e i proiettili col-
pirono il terreno intorno alle zampe del lupo e sibilarono sorpassando il suo corpo, mentre l'animale correva velocemente e disperatamente, disegnando cerchi e angoli. Ma la motocicletta stava coprendo rapidamente la distanza che li separava, e le pallottole si avvicinavano al bersaglio. Un proiettile tracciante balenò così vicino che il lupo poté sentire l'odore acre del sudore dell'uomo che aveva toccato la cartuccia. Poi velocemente cambiò di nuovo direzione, balzando in alto mentre le pallottole danzavano sotto le sue zampe, e procedette con difficoltà in un canale che tagliava il deserto in direzione sudest. La motocicletta avanzò lungo il bordo del canale, con l'occupante del sidecar che esaminava attentamente il fondo usando il piccolo faro. «L'ho colpito!», dichiarò. «Sono sicuro di aver visto i proiettili andare a segno». Sentì i peli sulla nuca drizzarsi. Mentre spostava il fanale, l'enorme lupo nero che correva dietro la motocicletta fece un balzo in avanti, avvicinandosi al sidecar e impattando violentemente con il corpo contro l'autista. Due costole dell'uomo si ruppero come pezzi di legno marciti e, quando il tedesco venne scaraventato via dal sedile, il lupo sembrò alzarsi sulle zampe posteriori e lanciarsi sul parabrezza come potrebbe saltare un uomo. La coda schiaffeggiò con disprezzo il mitragliere; il tedesco riuscì faticosamente a gettarsi a terra e la motocicletta continuò per circa cinquecento metri prima di ribaltarsi sulla cresta e schiantarsi sul fondo. Il lupo nero continuò a correre, tornando a dirigersi verso est. Ormai la rete di canali e collinette era finita e il deserto era piatto e roccioso sotto le stelle splendenti. Ma il lupo continuò a correre, con il cuore che cominciava a battere più rapidamente e i polmoni che aspiravano nelle narici l'odore pulito della libertà, come fosse il profumo della vita. Voltò di scatto la testa verso sinistra, lasciò le manette e afferrò con le mascelle la maniglia di pelle della cartella, in modo che non picchiasse più per terra. Resisté all'impulso di sputarla via, dato che aveva mantenuto il sapore nauseante del palmo della mano di un uomo. Poi un altro rombo gutturale arrivò da dietro, più basso delle voci degli altri due cacciatori. Il lupo guardò alle sue spalle e vide un paio di lune gialle procedere a grande velocità attraverso il deserto, seguendo le tracce dell'animale. Il fuoco delle mitragliatrici esplose - una scarica rossa sopra le lune doppie - e i proiettili sollevarono la sabbia a meno di un metro da un fianco del lupo. L'animale procedette a zig zag e si girò, controllò la sua velocità e scattò di nuovo in avanti; la successiva lunga scarica di proiettili traccianti gli sfiorò i peli lungo la spina dorsale.
«Più veloce!», urlò Stummer all'autista. «Non perderlo!» Sparò un'altra raffica e vide la sabbia sollevarsi mentre il lupo piegava di scatto a sinistra. «Maledizione!», disse. «Tienila ferma!» L'animale aveva ancora la cartella di Voigt e si stava dirigendo proprio verso le linee britanniche. Che razza di bestia poteva rubare una valigetta piena di mappe invece di brandelli di cibo dal mucchio della spazzatura? Quel dannato mostro doveva essere fermato. I palmi delle mani di Stummer erano sudati e il tedesco si sforzava di inquadrare bene l'animale con l'arma, ma il lupo continuava a spostarsi, a tagliare e poi a riprendere velocità come se... Sì, pensò Stummer. Come se fosse in grado di pensare come un uomo. «Tienila ferma!», gridò. Ma la macchina prese un dosso, facendogli perdere di nuovo la mira. Il tedesco doveva sventagliare con una raffica il terreno davanti all'animale e sperare che la bestia finisse in mezzo ai proiettili. Si preparò al rinculo dell'arma e premette il grilletto. Niente. La mitragliatrice era bollente come il sole di mezzogiorno e si era inceppata o surriscaldata. Il lupo lanciò un'occhiata all'indietro, valutando il rapido avvicinamento della macchina. Poi rivolse di nuovo la sua attenzione al percorso che gli si apriva davanti - ma era troppo tardi. Proprio di fronte c'era un recinto di filo spinato, a meno di due metri. Le zampe posteriori dell'animale si tesero e il corpo saltò lasciando la terra. Ma il recinto era troppo vicino per riuscire a evitarlo completamente; il petto del lupo venne tagliato dai nodi del filo spinato e, mentre il corpo lo superava, la zampa destra posteriore rimase impigliata nelle spire. «Adesso!», urlò Stummer. «Passagli sopra!» Il lupo si dibatté, con i muscoli che gli si laceravano lungo il corpo. Artigliò la terra con le zampe anteriori, ma invano. Stummer si era alzato in piedi, con il viso sferzato dal vento, mentre l'autista premeva a tavoletta l'acceleratore. All'autoblindo mancavano ormai cinque secondi per schiacciare il lupo sotto gli pneumatici. Stummer non avrebbe mai creduto a quello che vide in quei cinque secondi, se non ne fosse stato testimone in prima persona. Il lupo si contorse e con gli artigli anteriori afferrò il filo spinato che intrappolava la zampa, lo allargò e lo tenne aperto mentre si divincolava liberandosi. Poi si mise di nuovo a quattro zampe e sfrecciò via. L'autoblindo abbassò il filo spinato sotto il suo peso, ma il lupo non era più lì. I fari ancora lo illuminavano; Stummer vide che l'animale procedeva a salti invece di correre, balzando a destra e a sinistra, toccando a volte terra
con una sola zampa posteriore prima di saltare di nuovo zigzagando in un'altra direzione. Il cuore di Stummer cominciò a battere all'impazzata nel petto. Lui sa, si rese conto. Quell'animale sa... Sussurrò: «Siamo in un campo min...» Poi la ruota anteriore sinistra della macchina colpì una mina e l'esplosione sbalzò il maggiore Stummer fuori dalla macchina, come fosse una girandola. Lo pneumatico posteriore sinistro fece scoppiare un'altra mina e la ruota anteriore destra, ormai ridotta a brandelli, ne colpì una terza. L'autoblindo cedette, il carburante si incendiò e fece a pezzi le giunture; subito dopo la macchina rotolò su un'altra mina e rimase solo un centro di fuoco rosso e di metallo bruciato che volava verso l'alto. A una sessantina di metri di distanza il lupo si fermò e guardò indietro. Osservò il fuoco per pochi istanti, gli occhi verdi illuminati dalla distruzione, poi si girò bruscamente e continuò ad attraversare il campo minato verso la salvezza dell'Est. 2. L'uomo che aspettava sarebbe arrivato presto. La contessa si sentiva elettrizzata come una liceale al primo appuntamento. Era passato più di un anno dall'ultima volta che l'aveva visto. Non sapeva dove fosse stato durante quel periodo, né cosa avesse fatto. E non le importava. Non erano affari suoi. Le era stato detto che aveva bisogno di un rifugio sicuro e che il Servizio l'aveva usato per un incarico pericoloso. Non era prudente sapere più di questo. La donna si sedette davanti allo specchio ovale nello spogliatoio color lavanda - mentre le luci dorate del Cairo scintillavano attraverso la portafinestra che dava sulla terrazza - e si mise con cura il rossetto. Nella brezza notturna riusciva a percepire l'odore della cannella e della noce moscata; le fronde delle palme sussurravano educatamente nel cortile sottostante. La donna si rese conto di stare tremando, così posò il rossetto prima di impiastricciarsi la bocca. Non sono una candida vergine, disse a se stessa con un certo rimpianto. Ma forse anche questo faceva parte della magia di quell'uomo; durante la sua ultima visita lì, l'aveva sicuramente fatta sentire come una liceale alla scuola dell'amore. Rifletté che forse era tanto eccitata perché in tutto quel tempo - e attraverso una processione di cosiddetti amanti - non aveva mai più sentito un tocco come il suo e lo desiderava ardentemente.
Si rese conto di essere il tipo di donna da cui sua madre una volta le aveva detto di stare lontana, quando era in Germania prima che quel pazzo squilibrato facesse il lavaggio del cervello alla nazione. Ma anche questo faceva parte di quella vita e il pericolo la rinvigoriva. Meglio vivere che esistere, pensò. Chi le aveva detto quella frase? Oh, sì. Era stato lui. Si passò una spazzola d'avorio fra i capelli biondi, che avevano lo stesso taglio di Rita Hayworth e le cadevano delicatamente sulle spalle. Aveva avuto la benedizione di possedere ossa piccole, zigomi alti, occhi marroni chiari e di essere snella. Non era difficile mantenere la linea in quel luogo, perché la cucina egiziana non le piaceva molto. Aveva ventisette anni, era stata sposata tre volte - ciascun marito più ricco del precedente - e possedeva una quota di maggioranza nel quotidiano inglese del Cairo. Negli ultimi tempi aveva letto il suo giornale con maggiore interesse, mentre Rommel avanzava sul Nilo e gli inglesi combattevano valorosamente per arginare la marea nazista. Il titolo di testa del giorno precedente era stato ROMMEL COSTRETTO A UNA BATTUTA D'ARRESTO. La guerra sarebbe continuata, ma sembrava che almeno per quel mese nessuno avrebbe fatto il saluto a Hitler a est di El Alamein. La contessa sentì il debole ronzio del motore della Rolls Royce Silver Shadow, mentre la limousine si accostava alla porta principale, e il suo cuore sobbalzò. Aveva mandato l'autista a prenderlo allo Shepheard's Hotel, seguendo le istruzioni che le erano state date. Lui non alloggiava lì, ma aveva preso parte a una riunione - una conferenza informativa sullo svolgimento di una missione, così la definivano. Lo Shepheard's Hotel, con il suo rinomato atrio di sedie di vimini e tappetini orientali, era zeppo di ufficiali inglesi stremati dalla guerra, giornalisti ubriachi, tagliagole musulmani e, naturalmente, occhi e orecchie nazisti. La dimora della contessa, nella periferia orientale della città, costituiva un luogo più sicuro per lui rispetto a un albergo pubblico. E notevolmente più civilizzato. La contessa Margritta si alzò dalla toeletta. Dietro di lei si trovava un paravento decorato con pavoni blu e dorati; la donna prese il vestito di un pallido verde marino che vi pendeva, lo infilò dal basso e lo abbottonò. Un ultimo sguardo ai capelli e al trucco, un veloce spruzzo della nuova fragranza di Chanel sul bianco collo e fu pronta ad andare. Ma no, non ancora. Decise di aprire un bottone in posizione strategica, in modo da mettere in evidenza i seni. Poi fece scivolare i piedi nei sandali e aspettò che Alexander salisse nello spogliatoio. L'uomo lo fece dopo circa tre minuti. Il maggiordomo picchiettò delica-
tamente alla porta e lei disse: «Sì?» «Il signor Gallatin è arrivato, contessa». L'accento di Alexander era decisamente inglese. «Digli che scendo subito». La donna ascoltò i passi del maggiordomo muoversi lungo il pavimento di tek del corridoio. Non era così desiderosa di vederlo da scendere dabbasso senza farlo aspettare; faceva parte del gioco tra signore e signori. Così lasciò passare altri tre o quattro minuti, poi trasse un respiro profondo e lasciò lo spogliatoio senza affrettarsi. Camminò lungo il corridoio fiancheggiato da armature, lance, spade e altre armi medievali. Appartenevano al precedente proprietario della casa, un simpatizzante di Hitler che era fuggito dal paese quando gli italiani erano stati sconfitti da O'Connor nel 1940. Alla contessa le armi non piacevano molto, ma sembravano armonizzare con il tek e la quercia della casa, e in ogni caso avevano un certo valore e la facevano sentire protetta in ogni momento. La donna raggiunse l'ampia scalinata dalle ringhiere di quercia intagliata e scese al primo piano. Le porte del soggiorno erano chiuse; era lì che aveva dato istruzione ad Alexander di condurlo. Si concesse qualche secondo per calmarsi, mise il palmo di una mano davanti alla bocca per controllare rapidamente l'alito - sapeva di menta, grazie a Dio - e poi aprì le porte con nervosa decisione. Lampade d'argento risplendevano su tavoli bassi e lucidati. Un piccolo fuoco tremolava nel caminetto, perché dopo mezzanotte la brezza del deserto diventava fredda. Bicchieri di cristallo e bottiglie di vodka e scotch catturavano la luce e la riflettevano sul decanter appoggiato contro la parete a stucco. Il tappeto ritraeva numerose figure intrecciate in arancione e grigio, e sulla mensola del caminetto un orologio ticchettava verso le nove. Ed eccolo lì, seduto su una sedia di vimini, con le gambe incrociate all'altezza delle caviglie e il corpo rilassato, come se fosse lui il proprietario di quell'area ed esigesse che non vi fossero intrusioni. Stava fissando pensoso il trofeo sulla parete sopra la mensola del caminetto. Ma improvvisamente i suoi occhi trovarono lei... e l'uomo si alzò dalla sedia con grazia. «Margritta», disse e le offrì le rose rosse che teneva in mano. «Oh... Michael, sono bellissime!» La sua voce era bassa e possedeva l'inflessione regale delle pianure tedesche del Nord. Avanzò verso di lui non troppo in fretta! si ammonì. «Dove hai trovato delle rose al Cairo in questo periodo dell'anno?» Lui accennò un sorriso e la donna poté vedere i suoi denti forti e bianchi.
«Nel giardino del tuo vicino», rispose; la contessa sentì una traccia dell'accento russo che tanto la sconcertava. Cosa ci faceva un gentiluomo nato in Russia a lavorare nel servizio segreto britannico in Africa del Nord? E perché il suo nome non era russo? Margritta rise mentre prendeva le rose dalle mani dell'uomo. Naturalmente stava scherzando; il giardino di Peter Van Gynt aveva effettivamente un letto di rose impeccabile, ma il muro che separava le due proprietà era alto quasi due metri. Michael Gallatin non poteva averlo superato e in ogni caso il suo vestito color cachi era immacolato. Indossava una camicia di un azzurro tenue e una cravatta di un grigio delicato con strisce marroni, e aveva un'abbronzatura brunita dovuta al deserto. La donna odorò una delle rose: erano ancora bagnate di rugiada. «Sei bellissima», disse lui. «Hai cambiato pettinatura». «Sì. È la nuova moda. Ti piace?» Lui allungò una mano per toccarle una ciocca. Le sue dita la accarezzarono e la mano si mosse lentamente verso la guancia; un tocco gentile le sfiorò la carne e sulle braccia di Margritta apparve la pelle d'oca. «Hai freddo», disse lui. «Dovresti stare più vicina al fuoco». L'uomo mosse una mano lungo la linea del mento della donna, sfiorandole le labbra con le dita, e poi la ritrasse. Le si avvicinò e le mise un braccio intorno alla vita. Lei non si fece indietro e trattenne il respiro. Il volto di lui le era proprio davanti, a pochi centimetri; gli occhi verdi dell'uomo catturavano uno scintillio rosso dal focolare, come se le fiamme sfavillassero al loro interno. La bocca di Michael si diresse verso il basso. Margritta sentì un dolore attraversarle il corpo. Poi le labbra dell'uomo si fermarono, a meno di cinque centimetri da quelle della donna, e disse: «Sto morendo di fame». Lei sbatté le palpebre, non sapendo cosa dire. «Non mangio da colazione», continuò l'uomo. «Uova in polvere e manzo essiccato. Nessuna meraviglia che l'VIII Armata combatta con tanto ardore: i soldati vogliono andare a casa e avere qualcosa di commestibile». «Del cibo», disse lei. «Oh. Sì. Del cibo. Ho detto al cuoco di prepararti la cena. Montone. È il tuo piatto preferito, vero?» «Sono lieto che te ne sia ricordata». La baciò dolcemente sulle labbra e poi le sfiorò il collo con una delicatezza che le fece salire un brivido lungo tutta la schiena. Poi la lasciò, le narici infiammate dalla fragranza di Chanel e dal suo pungente profumo di donna. Margritta gli prese la mano. Il palmo era ruvido, come se fosse abituato a posare mattoni. La donna lo guidò verso la porta; quando vi furono quasi
giunti lui disse: «Chi ha ucciso il lupo?» Lei si fermò. «Come, scusa?» «Il lupo». Michael indicò la testa di un lupo dal manto grigio appesa sopra il caminetto. «Chi l'ha ucciso?» «Oh... hai sentito parlare di Harry Sandler, vero?» Lui scosse la testa. «Harry Sandler. Il grande cacciatore americano. Due anni fa era su tutti i giornali, quando uccise un leopardo bianco in cima al Kilimangiaro». Gli occhi di Michael ancora non mostravano di aver capito chi fosse. «Siamo diventati... buoni amici. Mi ha mandato lui il lupo dal Canada. È una creatura bellissima, non trovi?» Michael bofonchiò qualcosa sommessamente. Guardò gli altri trofei in mostra che Sandler aveva dato a Margritta - la testa di un bufalo d'acqua africano, un cervo maestoso, un leopardo pezzato e una pantera nera - ma il suo sguardo tornò verso il lupo. «Canada», disse. «In quale luogo del Canada?» «Non lo so con esattezza. Mi sembra che Harry abbia detto che viene dal Saskatchewan». Scrollò le spalle. «Be', un lupo è un lupo, ti pare?» Lui non rispose. Poi le rivolse uno sguardo penetrante e sorrise. «Un giorno devo conoscere il signor Harry Sandler», disse. «Peccato che tu non fossi qui una settimana fa. Harry è passato dal Cairo tornando a Nairobi». Poi gli strattonò scherzosamente il braccio per distogliere la sua attenzione dal trofeo. «Vieni, prima che la tua cena si freddi». Nella sala da pranzo Michael Gallatin mangiò i medaglioni di montone seduto a un lungo tavolo, sotto un lampadario di cristallo. Margritta spiluccò un'insalata di cuori di palma e bevve un bicchiere di Chablis, mentre chiacchieravano su quello che stava accadendo a Londra - i lavori teatrali di successo in quel momento, la moda, i romanzi e la musica: tutte cose che a Margritta mancavano tanto. Michael disse di aver molto apprezzato l'ultimo libro di Hemingway e che quello scrittore era davvero perspicace. Mentre parlavano, Margritta studiò attentamente il viso di Michael e si rese conto, sotto la luce più intensa del lampadario, che era cambiato nell'anno e cinque settimane che erano passati dal loro ultimo incontro. I cambiamenti erano sottili, ma comunque presenti: aveva più rughe intorno agli occhi, e forse anche più striature grigie nei lucenti capelli neri corti. La sua età costituiva un altro mistero; poteva avere dai trenta ai trentaquattro anni. Tuttavia, i suoi movimenti possedevano la sinuosità della gioventù e aveva un'enorme forza nelle spalle e nelle braccia. Le sue mani erano un
enigma: erano vigorose, dalle dita affusolate da artista - le mani di un pianista - ma il dorso era chiazzato di sottili peli neri. Erano anche le mani di un operaio, abituato al lavoro duro, eppure maneggiavano il coltello e la forchetta d'argento con grazia sorprendente. Michael Gallatin era un uomo alto, forse un metro e novanta, con un petto ampio, fianchi stretti e gambe lunghe e snelle. Durante il loro primo incontro, Margritta si era chiesta se avesse mai praticato l'atletica leggera, ma la sua risposta era stata: «A volte corro per il piacere di farlo». La donna sorseggiava lo Chablis, studiando l'uomo oltre il bordo del bicchiere. Chi era veramente? Cosa faceva per il Servizio? Da dove veniva e quali erano i suoi legami? Aveva il naso a punta e Margritta aveva notato che annusava ogni pietanza e bevanda prima di consumarla. Il suo viso era bello e tenebroso, rasato di fresco e dai tratti marcati, e quando Michael sorrideva era come se apparisse un bagliore - ma non le lasciava vedere spesso quel sorriso. Nei momenti di riposo quel volto sembrava diventare ancora più scuro... e quando guardava con tutta la potenza di quegli occhi verdi, il loro colore le faceva pensare a quello dell'ombra profonda di una foresta primordiale, un luogo di segreti che era meglio lasciare inesplorati. E forse anche un luogo di grandi pericoli. L'uomo allungò una mano per prendere il bicchiere d'acqua a calice, trascurando lo Chablis, e Margritta disse: «Ho dato la serata libera ai servitori». Lui sorseggiò l'acqua e posò il bicchiere. Poi infilzò la forchetta in un altro pezzo di carne. «Da quanto tempo Alexander lavora per te?», chiese. La domanda era completamente inaspettata. «Da quasi otto mesi. L'ha raccomandato il consolato. Perché?» «Ha...» Michael si interruppe, ponderando le parole. Un odore non affidabile stava quasi per dire. «L'accento tedesco», finì la frase. Margritta si chiese chi dei due fosse pazzo, perché se Alexander fosse stato più inglese avrebbe indossato la Union Jack al posto della biancheria intima. «Lo nasconde bene», continuò Michael. Annusò il montone prima di mangiarlo e masticò prima di parlare di nuovo. «Ma non abbastanza. L'accento inglese è finto». «Alexander ha passato i controlli della sicurezza. Sai quanto sono rigidi. Posso raccontarti la storia della sua vita, se vuoi sentirla. È nato a Stratford-on-Avon». Michael annuì. «La città di un drammaturgo, se è mai esistito. C'è l'impronta dell'Abwehr in questa faccenda». L'Abwehr, come Margotta ben sapeva, era il servizio informazioni e controspionaggio di Hitler. «Una
macchina verrà a prendermi alle 7 del mattino. Penso che anche tu dovresti andartene». «Andarmene? Andare dove?» «Via. Fuori dall'Egitto, se possibile. Forse a Londra. Credo che qui per te non sia più sicuro». «È impossibile. Ho troppi obblighi. Mio Dio, possiedo un quotidiano! Non posso andarmene senza preavviso!» «D'accordo, stai al consolato. Ma penso che dovresti lasciare l'Africa del Nord appena possibile». «La mia nave non ha alcuna falla», insistette Margritta. «Ti sbagli su Alexander». Michael non disse nulla. Mangiò un altro pezzo di montone e si pulì delicatamente la bocca con il tovagliolo. «Stiamo vincendo?», gli chiese lei dopo qualche momento. «Stiamo resistendo», le rispose. «Con le unghie e con i denti. La rete di rifornimenti di Rommel si è spezzata e i suoi Panzer stanno esaurendo il carburante. L'attenzione di Hitler è concentrata sull'Unione Sovietica. Stalin sta chiedendo un attacco alleato dall'Ovest. Nessuna nazione, nemmeno una forte come la Germania, può reggere una guerra su due fronti. Quindi, se riusciamo a contenere Rommel finché non esaurirà le munizioni e il carburante, potremo ricacciarlo indietro fino a Tobruk. E anche oltre, se siamo fortunati». «Non sapevo che credessi alla fortuna». Inarcò un sopracciglio biondo chiaro. «È un termine soggettivo. Da dove vengo, fortuna e forza bruta sono la stessa cosa». Lei colse al volo l'opportunità. «Da dov'è che vieni, Michael?» «Da un luogo molto lontano da qui», rispose; il modo in cui lo disse le fece capire che non avrebbero discusso oltre della sua vita personale. «Abbiamo il dessert», disse Margritta quando lui ebbe finito di mangiare, allontanando il piatto. «Una torta al cioccolato, è in cucina. Farò anche del caffè». La donna si alzò, ma lui fu più veloce. Fu al suo fianco prima che lei potesse fare due passi e disse: «La torta e il caffè più tardi. Avevo un altro dessert in mente». Le prese la mano e la baciò, lentamente, un dito alla volta. Lei gli mise le braccia intorno al collo, mentre il cuore le batteva forte. La sollevò fra le braccia senza alcuno sforzo e poi prese una rosa dal vaso blu al centro del tavolo in cui erano state sistemate.
La portò su per le scale, lungo il corridoio delle armature, fino alla sua camera con il letto a baldacchino e la vista sulle colline del Cairo. Si spogliarono a vicenda a lume di candela. Lei ricordava che le braccia e il petto dell'uomo erano molto villosi, ma si meravigliò accorgendosi che era stato ferito; il petto era attraversato da lunghi cerotti. «Cosa ti è successo?», chiese mentre con le dita gli sfiorava la carne brunita. «Sono solo rimasto impigliato...», osservò mentre la sottoveste di pizzo fluttuava fino alle caviglie, poi la sollevò per toglierle i vestiti da sotto e la adagiò sulle fresche lenzuola bianche. Anche lui ormai era nudo e, con i muscoli esposti al lume di candela, sembrava ancora più massiccio. Adagiò il corpo accanto a quello di lei e la donna sentì un altro odore sotto la tenue acqua di colonia al tiglio. Era un aroma di muschio, che la fece di nuovo pensare alle foreste verdi e ai venti freddi che soffiavano dove la natura era selvaggia. Le dita di lui disegnarono lentamente dei cerchi intorno ai suoi capezzoli, poi la sua bocca fu su quella di lei e il loro calore si unì, fluì l'uno nell'altra, e lei tremò fin dentro l'anima. Qualcos'altro sostituì le dita di lui: la rosa vellutata, che si muoveva delicata intorno ai capezzoli induriti e le stuzzicava il seno come se fossero baci. Michael portò la rosa in basso lungo la linea del ventre di lei, si fermò per girare intorno al suo ombelico e poi scese ancora nel cespuglietto dei peli biondi, girando in cerchio e stuzzicandola con un tocco delicato che le fece arcuare il corpo e la riempì di desiderio. La rosa si mosse lungo il centro umido del desiderio, andando su e giù tra le cosce tese; poi anche la lingua di lui si spostò laggiù e Margritta gli afferrò i capelli e gemette mentre le sue anche si muovevano ondeggiando per andargli incontro. Lui smise, fermandola al punto limite, e ricominciò, la lingua e la rosa, agendo in contrappunto come dita su un delicato strumento dorato. Margritta sussurrò e gemette mentre calde ondate si formavano dentro di lei e si infrangevano attraverso i suoi sensi. E poi giunse, l'esplosione massima che la sollevò dal letto e le fece urlare il nome di lui. La donna si sdraiò di nuovo all'indietro, come una foglia d'autunno, piena di colori e avvizzita ai bordi. Lui le entrò dentro, calore contro calore, e lei si aggrappò alla schiena dell'uomo e si tenne come un cavaliere nella tempesta; i fianchi dell'uomo si mossero con deliberazione, non con frenetica libidine, e proprio quando lei pensava di non poterlo più accettare, il suo corpo si aprì e desiderò di portarlo nel luogo in cui sarebbero diventati una sola creatura con due no-
mi e due cuori che battevano, e allora anche le dure sfere della virilità di lui le sarebbero entrate dentro, invece di essere semplicemente premute contro la sua zona umida. Lei lo voleva tutto, ogni centimetro, e tutto il liquido che lui poteva darle. Ma, persino nel mezzo del vortice, sentì che lui si stava trattenendo, come se ci fosse qualcosa in Michael alla quale nemmeno lui poteva arrivare. Nella loro cella di passione, lei credette di sentirlo ringhiare, ma il suono venne attutito dalla pressione contro la sua gola e quindi non poté essere sicura che non si trattasse della sua stessa voce. Le giunture del letto cigolarono. L'avevano fatto per tanti uomini, ma mai in modo così eloquente. Poi il corpo dell'uomo sussultò - una volta, due, tre. Cinque volte. Michael tremò, le dita che torcevano le lenzuola aggrovigliate. Lei chiuse le gambe intorno alla schiena di lui, incitandolo a restare. Le labbra di Margotta trovarono la sua bocca e lei assaporò il sale prodotto dal suo sforzo. Si riposarono per un po', parlando di nuovo, ma stavolta con voci sussurrate, e l'argomento non fu Londra né la guerra, ma l'arte della passione. Poi lei prese la rosa dal comodino dov'era posata e seguì la scia fino alla zona più dura di lui, che era nuovamente infiammata. Era una macchina meravigliosa, e lei lo colmò di amore. Petali di rose giacevano sulle lenzuola. La candela era bruciata quasi tutta. Michael Gallatin giaceva supino, dormendo con la testa di Margritta sulla spalla. Respirava facendo un rumore sommesso e roco, come un motore ben tenuto. Ancora più tardi lei si svegliò e lo baciò sulle labbra. Lui dormiva profondamente e non rispose. La donna avvertiva un piacevole dolore in tutto il corpo; si sentiva distesa e formata di nuovo a immagine di quell'uomo. Gli guardò per un attimo il viso, consegnando quelle fattezze dure alla memoria. Era troppo tardi per lei per provare il vero amore, pensò. C'erano stati troppi corpi, troppe navi che erano passate nella notte; sapeva di essere utile al Servizio come rifugio e collegamento per gli agenti che avevano bisogno di un posto sicuro... questo era tutto. Naturalmente era lei a decidere con chi andare a letto e quando, ma gli uomini erano stati tanti. I volti si erano confusi insieme - ma quello di lui era rimasto a parte. Lui non era come gli altri. Ed era diverso da tutti gli uomini che aveva conosciuto. Quindi chiamiamola pure infatuazione da liceale e finiamola qui, pensò. Lui aveva la sua destinazione e lei aveva la sua, ed era improbabile che il porto fosse lo stesso.
Lei scese dal letto, attenta a non svegliarlo, e andò nuda nel grande bagno che separava la stanza da letto dallo spogliatoio. Accese la luce, scelse una camicia da notte di seta bianca, la infilò con un movimento rapido e poi prese da una stampella una vestaglia di ciniglia marrone - da uomo - e la avvolse intorno a un manichino femminile nella camera da letto. Un pensiero: forse una spruzzata di profumo tra i seni e una spazzolata ai capelli prima di andare veramente a dormire. La macchina arrivava alle sette del mattino, ma lei ricordava che a Michael piaceva alzarsi alle cinque e mezza. Margritta camminò, con la rosa ormai sfatta in mano, ed entrò nello spogliatoio. Una piccola lampada Tiffany bruciava ancora sul tavolo. Annusò la rosa, ne odorò gli aromi mischiati e la mise in un vaso. L'avrebbe premuta tra la seta per conservarla. Trasse un respiro soddisfatto, poi prese in mano la spazzola e guardò nello specchio. L'uomo era in piedi dietro il paravento. La donna ne vedeva il viso riflesso al di sopra delle sue spalle; nel secondo di calma in cui poté osservarlo, prima che il terrore la assalisse, si rese conto che era il volto perfetto di un assassino: privo di emozione, pallido e piuttosto comune. Era il tipo di volto che si confonde facilmente nella folla e che non si ricorda un attimo dopo averlo visto. Margritta aprì la bocca per chiamare Michael. 3. Si sentì un piccolo colpo di tosse e dall'occhio di un pavone uscì un lampo di fuoco. Il proiettile colpì Margritta nella nuca, esattamente dove l'assassino aveva mirato. Sangue, pezzetti d'osso e di cervello schizzarono il vetro; la testa della donna cadde tra le boccette di cosmetici. Il killer uscì da dietro il paravento, rapido come un serpente, con indosso un vestito nero aderente, la piccola pistola con il silenziatore ghermita da una mano guantata. Lanciò uno sguardo verso il piccolo rampino rivestito di gomma che era agganciato alla ringhiera del terrazzo e la cui corda scendeva fino al cortile. Lei era morta e il lavoro era finito, ma sapeva che lì c'era anche un agente britannico. Guardò l'orologio. Mancavano ancora quasi dieci minuti prima che la macchina andasse a prenderlo oltre il cancello. Era un tempo sufficiente a spedire all'inferno quel maiale. Tenne la pistola bassa e cominciò ad attraversare il bagno. Poi vide la camera da letto della puttana, una candela consumata che tremolava, una
figura tra le lenzuola. Puntò l'arma in direzione della testa e tenne fermo il polso con l'altro braccio: era l'atteggiamento di un sicario. Il silenziatore attutì il rumore - una volta, poi una seconda. La figura nel letto sobbalzò sotto la forza dei proiettili. Poi, come un bravo artista che vuol rimirare il risultato della sua opera, tirò via le lenzuola da sopra il cadavere. Solo che non era un cadavere... Era un manichino, con due fori di proiettile nella spaziosa fronte bianca. Un movimento, alla sua destra. Qualcuno veloce. Il killer entrò nel panico e si voltò per evitare un colpo, ma una sedia gli si schiantò contro schiena e costole, e perse la pistola prima di poter premere il grilletto. L'arma finì nelle pieghe del lenzuolo, fuori dalla vista. Era un uomo corpulento, quasi un metro e novanta per centoquindici chili, tutto muscoli. Il respiro lasciò la sua bocca come il ruggito di una locomotiva che esce da una galleria; il colpo con la sedia lo fece barcollare ma non lo mise fuori combattimento. L'assassino strappò via la sedia dalla morsa del suo avversario prima che questi potesse usarla di nuovo e scalciò, colpendo con lo stivale lo stomaco dell'uomo. Il calcio suscitò un soddisfacente grugnito di dolore e l'agente inglese, un uomo con una vestaglia marrone, andò a sbattere contro la parete tenendosi la pancia. L'assassino scagliò la sedia. Michael la vide arrivare osservando la flessione delle mani dell'uomo; quando si spostò per scansarla, la sedia finì in pezzi contro la parete. Poi l'uomo gli fu addosso, serrandogli le dita intorno alla gola, conficcandole selvaggiamente nella trachea. Michael cominciò a vedere piccole macchie nere girare davanti agli occhi; nelle narici sentì l'odore acre del sangue e della materia cerebrale - l'olezzo della morte di Margritta che aveva avvertito un secondo dopo aver udito il sussurro mortale del silenziatore. Quell'uomo era un professionista, capì Michael. Erano uomo contro uomo e soltanto uno sarebbe rimasto vivo di lì a qualche minuto. E allora così doveva andare. Michael alzò rapidamente le mani, spezzando la presa dell'assassino e picchiando forte con il palmo della mano destra contro il naso dell'uomo. Avrebbe voluto conficcarglielo nelle ossa nel cervello, ma il killer reagì velocemente girando la testa per deviare il colpo. Il naso si accartocciò ed esplose comunque, e gli occhi dell'uomo si riempirono di lacrime per il dolore. Fece due passi indietro barcollando e Michael lo colpì alla mandibola con una rapida combinazione sinistro-destro. Il labbro inferiore
dell'assassino si spaccò, ma l'uomo afferrò il colletto della vestaglia di Michael, lo sollevò da terra e lo scagliò via, facendogli attraversare la porta della camera da letto. Michael si schiantò nel corridoio e finì contro una delle armature, che cadde con grande clangore dal suo sostegno. L'assassino nazista arrivò attraversando la porta, con un rivolo di sangue alla bocca e, mentre Michael cercava con grande sforzo di alzarsi, un calcio lo raggiunse alla spalla e lo fece volare per altri due metri e mezzo lungo il corridoio. Il killer si guardò intorno, gli occhi che gli brillavano alla vista di tutte quelle armature e armi; per un istante il suo volto mostrò un barlume di riverenza, come se fosse finito in un tempio sacro della violenza. Sollevò una mazza ferrata - con l'impugnatura di legno e una catena lunga quasi un metro attaccata a una palla di ferro chiodata - e la roteò gongolante sopra la testa. Avanzò contro Michael Gallatin. L'arma medievale fischiò in modo sinistro mentre ruotava alla ricerca del cranio di Michael, ma l'agente inglese si piegò e indietreggiò spostandosi fuori portata. La mazza roteò dall'altra parte prima che lui potesse riacquistare l'equilibrio; i chiodi di ferro sferzarono il tessuto di ciniglia marrone, ma Michael balzò all'indietro, scontrandosi con un'altra armatura. Mentre il metallo cadeva a terra, Gallatin afferrò uno scudo e si girò, bloccando il colpo seguente della mazza ferrata che era indirizzato alle sue gambe. Dal metallo lucidato si alzarono alcune scintille e la vibrazione salì lungo il braccio di Michael fino alla spalla ferita. Poi l'assassino sollevò la mazza per frantumargli il cranio - e Gallatin lanciò lo scudo, colpendo con il bordo le ginocchia del sicario e facendogli cedere le gambe. Mentre il killer cadeva a faccia avanti, Michael cominciò a prenderlo a calci sul viso, ma si controllò: un piede rotto non avrebbe aiutato la sua agilità. L'assassino si stava alzando in piedi, con la mazza ferrata ancora in mano. Michael corse verso la parete e sollevò uno spadone dai ganci che lo reggevano, poi si voltò per affrontare l'attacco successivo. Il tedesco guardò con circospezione lo spadone e prese un'ascia da battaglia, gettando via l'arma più corta. Si studiarono l'un l'altro per qualche secondo, cercando ciascuno un'apertura, poi Michael fintò un affondo e l'ascia lo parò con un forte rumore metallico. L'assassino si lanciò in avanti con l'ascia sollevata e schivò un colpo dello spadone. Ma l'arma di Michael era pronta a deviare l'attacco; l'ascia colpì l'elsa dello spadone, creando delle scintille blu, spezzò la lama e lasciò Gallatin con in mano un moncone. L'assassino roteò l'ascia in direzione del volto della sua preda, con il corpo pronto al piacere
dell'urto. In una frazione di secondo Michael aveva giudicato l'angolazione e la dimensione dell'impatto. Si rese conto che un passo all'indietro avrebbe fatto il gioco del suo avversario, come anche un passo da uno qualunque dei lati. Così avanzò, incalzando l'assassino, e dato che i colpi in viso sembravano non sortire alcun effetto, indirizzò il pugno nella cavità esposta dell'ascella, cercando con le nocche il punto di pressione di vene e arterie. L'assassino urlò per il dolore, il braccio gli si intorpidì e perse il controllo dell'ascia, che lasciò la mano dell'uomo infilandosi per cinque centimetri nella parete rivestita di pannelli di quercia. Michael gli assestò un colpo sul naso già fracassato, facendogli piegare rapidamente la testa all'indietro, e lo fece seguire da un pugno sulla punta del mento. Il tedesco grugnì, sputò sangue e cadde contro la ringhiera del secondo piano. Gallatin lo seguì, portò il braccio indietro per colpirlo alla gola - ma improvvisamente le braccia dell'assassino si lanciarono in avanti e le mani carnose si chiusero di nuovo sul collo di Michael, sollevandolo da terra. Gallatin picchiò, ma non aveva presa. Il killer lo teneva quasi a distanza di un braccio, e dopo qualche secondo gli sarebbe venuta l'idea di gettarlo oltre la ringhiera, sul sottostante pavimento a mattonelle. Una sessantina di centimetri sopra la testa di Michael c'era una trave di quercia, ma era liscia e levigata, e quindi non offriva alcun punto di appiglio. Il sangue pulsava nel cervello di Gallatin e un sudore untuoso gli usciva dai pori - e nel suo profondo qualcos'altro si destò e cominciò a svegliarsi da un sonno di ombre. Le dita del killer premevano sulle sue arterie, interrompendo il flusso del sangue. L'assassino lo scosse, in segno di disprezzo ma anche per assicurarsi una presa più salda. La fine era vicina; il tedesco poteva vedere gli occhi dell'altro uomo cominciare a sporgere. Michael allungò le braccia e con le dita graffiò il legno di quercia. Il suo corpo tremò violentemente, un movimento che l'assassino interpretò come l'avvicinarsi della morte. Lo era, ma per lui. La mano destra di Michael Gallatin cominciò a piegarsi e contorcersi. Perle di sudore gli corsero lungo il viso e le sue fattezze mostrarono una sofferenza atroce. I peli neri sul dorso della mano si incresparono mentre i muscoli si alteravano. Si udì lo scoppiettare delle ossa che si spezzavano. La mano si fece nodosa, le nocche si gonfiarono, la carne diventò macchiettata e spessa, i peli neri cominciarono ad allungarsi. «Muori, figlio di puttana!», disse l'assassino in tedesco. Chiuse gli occhi,
concentrato nello strangolare quell'uomo fino a ucciderlo. Mancava molto poco ormai... molto poco. Sotto le sue mani si mosse qualcosa. Sembravano delle formiche che correvano avanti e indietro. Il corpo stava diventando più pesante e più grosso. Sentì l'odore pungente di un animale. L'assassino aprì gli occhi e guardò la sua vittima. Quello che stava stringendo non era più un uomo. Urlò e cercò di gettare quell'essere oltre la ringhiera - ma due paia di artigli si infilarono nella trave di quercia e vi rimasero; poi il mostro alzò una rotula ancora dall'aspetto umano e colpì il tedesco sul mento con una forza che quasi gli fece perdere i sensi. L'assassino lasciò la presa e, ancora urlando ma stavolta con voce alta e sottile, cercò di allontanarsi in tutta fretta. Cadde sull'armatura finita a terra, strisciò carponi verso la porta della camera da letto, guardò alle sue spalle e vide gli artigli del mostro liberarsi con forza dalla trave. La bestia cadde a terra, si dimenò e si liberò della vestaglia di ciniglia marrone. Adesso l'assassino, uno dei migliori della sua razza, capì il vero significato dell'orrore. Il mostro si drizzò, strisciando verso di lui. Non era ancora completamente formato, ma i suoi occhi verdi lo inchiodarono, promettendogli una terribile agonia. La mano del killer si chiuse su una lancia. La scagliò verso la creatura, che balzò di lato ma non riuscì a evitare che la punta lo cogliesse sulla guancia sinistra deforme, disegnando una linea scarlatta sul nero. L'assassino scalciò disperatamente, cercando di superare la porta della camera da letto e di arrivare alla ringhiera della terrazza - e poi sentì delle zanne chiudersi su una caviglia con una forza tale da rompergli le ossa come se fossero fiammiferi. La mascella si aprì e si chiuse di scatto sull'altra gamba all'altezza del polpaccio. Altre ossa si frantumarono; l'assassino ormai era menomato e bloccato. Il tedesco urlò invocando Dio, ma non ricevette risposta. Si sentiva solo il suono rauco proveniente dai polmoni del mostro. Il killer alzò le mani per farsi schermo, ma mani umane non avrebbero potuto fare nulla. La bestia gli balzò addosso e il sicario si trovò davanti al viso il muso umido e gli occhi spaventosi che lo fissavano. Poi il muso si abbassò verso il petto dell'uomo, le zanne scintillanti. Il tedesco sentì sullo sterno come una martellata, seguita da un'altra che quasi lo divise a metà. Gli artigli erano al lavoro, le unghie sollevavano spruzzi rossi. L'assassino
si dibatté e lottò meglio che poteva, ma non servì a nulla. Gli artigli della bestia gli penetrarono i polmoni, lacerarono il tessuto e affondarono nella parte più interna dell'uomo. Poi il muso e i denti trovarono la preda pulsante; con due torsioni del capo il cuore venne strappato via come un frutto troppo maturo. Le zanne schiacciarono il cuore e la bocca ne accettò il succo. Gli occhi dell'assassino erano ancora aperti e il corpo si contorceva in preda agli spasmi, ma tutto il sangue stava fuoriuscendo e non ne rimase per mantenere in vita il cervello. Lanciò un gemito orribile accompagnato da tremiti - e il mostro lanciò la testa all'indietro e fece echeggiare un grido che risuonò in tutta la casa come una campana a morto. Poi, infilando il naso nel buco profondo, la bestia cominciò il suo pasto, dilaniando furioso i misteri più nascosti di un uomo. Dopo, quando le luci artificiali del Cairo si smorzarono e i primi raggi violetti del sole cominciarono a sorgere sulle piramidi, un essere in parte animale e in parte uomo cadde in preda agli spasmi e vomitò nella dimora della contessa Margritta. Dalla sua bocca uscivano orribili pezzi e frammenti di cibo, una strisciante marea rossa che finiva sotto la ringhiera e sopra il bordo del pavimento a mattonelle sottostante. La creatura nuda in preda ai conati di vomito si rannicchiò in posizione fetale tremando violentemente, e in quella casa di morte nessuno la sentì piangere. La sagra della primavera l. Il sogno lo fece destare di nuovo; giaceva nel buio mentre folate di vento urlavano contro le finestre e una persiana solitaria sbatteva. Aveva sognato di essere un lupo che sognava di essere un uomo che sognava di essere un lupo che sognava. E in quel labirinto di sogni si erano inseriti frammenti di ricordi, che volavano come le tessere di un mosaico esploso: i volti color seppia di suo padre, di sua madre e di una sorella più grande, che sembravano usciti da una fotografia con il bordo bruciato; un palazzo di pietre bianche sbrecciate, circondato da una folta foresta primordiale in cui gli ululati dei lupi parlavano alla luna; un treno a vapore che passava, con il fanale anteriore scintillante, e un giovane che gli correva accanto lungo i binari, sempre più veloce, verso l'entrata di una galleria che si trovava davanti.
E nel mosaico dei ricordi, un volto vecchio, duro e dalla barba bianca, le cui labbra si aprivano per sussurrare: Vivi libero. Si sedette sui talloni e si rese conto che non giaceva nel suo letto ma sul freddo pavimento di pietra davanti al caminetto. Nell'oscurità sonnecchiavano alcuni tizzoni, aspettando di essere attizzati. Si alzò in piedi, il corpo nudo e muscoloso, e camminò verso le alte finestre a balcone che si affacciavano sulle colline selvagge del Galles del Nord. Il vento marzolino infuriava dietro i vetri e gocce vaganti di pioggia e nevischio colpivano le finestre davanti al suo viso. Fissò dall'oscurità nell'oscurità, e sentì che stavano arrivando. L'avevano lasciato in pace troppo a lungo. I nazisti venivano spinti verso Berlino dalla vendicativa marea sovietica, ma l'Europa occidentale era ancora nella morsa di Hitler. Adesso, nel 1944, stavano avendo luogo grandi avvenimenti, eventi con un grande potenziale di vittoria o un terribile rischio di sconfitta. E lui sapeva benissimo quali sarebbero state le conseguenze di quella sconfitta: un solido dominio nazista sull'Europa occidentale, forse uno sforzo intensificato contro le truppe russe e una battaglia selvaggia per il territorio tra Berlino e Mosca. Anche se i loro ranghi erano stati assottigliati, i nazisti erano ancora gli assassini meglio disciplinati del mondo. Potevano ancora deviare la macchina da guerra russa e riprendere ad avanzare verso la capitale dell'Unione Sovietica. Il paese di origine di Mikhail Gallatinov. Ma ormai lui era Michael Gallatin e viveva in un'altra terra. Parlava inglese, pensava in russo e rifletteva in una lingua più antica di queste due lingue umane. Stavano arrivando. Li sentiva avvicinarsi, con la stessa sicurezza con cui sentiva il vento turbinare nella foresta a sessanta metri di distanza. Il subbuglio del mondo li stava portando sempre più vicini alla sua casa su quella costa rocciosa, che la maggior parte degli uomini rifuggiva. Stavano arrivando per un motivo. Avevano bisogno di lui. Vivi libero, pensò, e la sua bocca si piegò con l'accenno di un sorriso. Ma era un sorriso amaro. La libertà era un'illusione, lì nel riparo della sua casa, su quella terra tempestosa dove il villaggio più vicino, Endore's Rill, si trovava a più di ventidue chilometri a sud. Per lui gran parte della libertà era l'isolamento e si era reso conto sempre più, mentre monitorava le trasmissioni a onde corte tra Londra e il Continente, ascoltando le voci parlare in codice attraverso le scariche statiche, che i legami dell'umanità lo
avevano incatenato. Così non avrebbe rifiutato di farli entrare quando fossero arrivati, perché lui era un uomo e anche loro lo erano. Avrebbe ascoltato ciò che avevano da dire, avrebbe persino potuto valutarlo brevemente prima di rifiutare. Avevano fatto un lungo viaggio su strade impervie e lui forse avrebbe offerto un riparo per la notte. Ma il suo servizio verso la sua patria d'adozione era finito e adesso toccava ai giovani soldati con il volto sporco di fango e le dita nervose sul grilletto del fucile. I generali e i comandanti potevano urlare gli ordini, ma erano i giovani che morivano per eseguirli; era stato sempre così nel corso dei secoli e da questo punto di vista il futuro della guerra non sarebbe mai cambiato. Visto com'erano fatti gli uomini. Be', non c'era modo di tenerli lontani dalla sua porta. Avrebbe potuto chiudere con un lucchetto il cancello che si trovava alla fine della strada, ma loro avrebbero trovato il modo di superarlo o di tagliare il reticolato di filo spinato ed entrare. Gli inglesi avevano una grossa esperienza nel tagliare il filo spinato. Quindi era meglio lasciare il cancello aperto e aspettarli. Potevano arrivare domani, o dopodomani, o la settimana dopo. In qualsiasi momento; lui sarebbe stato ancora lì. Michael ascoltò per un momento la canzone della natura selvaggia, con la testa piegata leggermente da un lato. Poi tornò al pavimento di lastre di pietra davanti al caminetto, si adagiò, avvolse le braccia intorno alle ginocchia e cercò di riposare. 2. «Ha scelto un posto decisamente isolato per vivere, eh?» Il maggiore Shackleton si accese un sigaro e abbassò con la manovella il finestrino anteriore della lucida Ford nera per permettere al fumo di uscire. La punta del sigaro scintillava rossa nell'uggioso crepuscolo del tardo pomeriggio. «A voi britannici piace questo tempo, vero?» «Temo che non abbiamo altra scelta che farcelo piacere», rispose il capitano Humes-Talbot. Sorrise il più educatamente possibile, le narici aristocratiche infiammate. «O almeno accettarlo». «Giusto». Shackleton, un ufficiale dell'esercito degli Stati Uniti con il volto simile alla punta di un'ascia da battaglia, scrutò fuori le nuvole grigie e basse e la pioggerella sgradevole. Erano più di due settimane che non vedeva il sole e ormai il freddo gli faceva dolere le ossa. L'autista dell'esercito inglese, un uomo più anziano e dalla schiena rigida, separato dai
suoi passeggeri da un vetro, li stava portando lungo una stretta strada ciottolosa che si snodava tra i dirupi scuri e avvolti dalle nuvole e una fitta foresta di pini. L'ultimo villaggio che avevano superato, Houlett, era diciotto chilometri dietro di loro. «È per questo che siete tanto pallidi», continuò, come un bulldozer che attraversa un ricevimento nel quale si offre il tè. «Qui tutti hanno l'aspetto di fantasmi. Se verrà mai in Arkansas, le mostrerò io un sole primaverile». «Non sono sicuro che il mio programma lo permetterà», rispose HumesTalbot e abbassò di un giro e mezzo di manovella il suo finestrino. Era pallido e magro, un ufficiale di stato maggiore ventottenne che aveva sfiorato la morte scendendo a candela in una trincea di Portsmouth mentre un caccia Messerschmitt urlava passandogli una ventina di metri sopra la testa. Ma questo era avvenuto nell'agosto del 1940, e adesso nessun aereo della Luftwaffe osava attraversare la Manica. «E così Gallatin si è distinto nel servizio prestato in Africa del Nord?» I denti di Shackleton erano stretti intorno al sigaro e il mozzicone era bagnato di saliva. «È stato due anni fa. Se è fuori dal servizio da allora, cosa vi fa pensare che sia in grado di occuparsi di questo lavoro?» Humes-Talbot lo fissò con occhi azzurri inespressivi dietro gli occhiali. «Perché», disse, «il maggiore Gallatin è un professionista». «Lo sono anch'io, figliolo». Shackleton aveva dieci anni di servizio in più del capitano inglese. «Questo non mi mette in condizione di paracadutarmi in Francia, le pare? E io non sono rimasto seduto sul mio osso sacro negli ultimi ventiquattro mesi, questo glielo garantisco, maledizione». «Sì, signore», convenne l'altro uomo, semplicemente perché capì di doverlo fare. «Ma i suoi... colleghi hanno chiesto aiuto in questa faccenda e, dato che è di beneficio per entrambe le parti, i miei superiori hanno pensato...» «Sì, sì, sì, questo già lo so». Shackleton zittì l'uomo con un gesto impaziente della mano. «Ho detto ai miei che lo stato di servizio di Gallatin mi scusi, del maggiore Gallatin - non mi convince. Dipende dalla sua mancanza di esperienza sul campo, ma devo comunque dare un giudizio basandomi su un incontro di persona. E non è in questo modo che lavoriamo negli Stati Uniti. Laggiù noi teniamo conto dello stato di servizio». «Qui noi teniamo conto delle persone», disse Humes-Talbot con una certa freddezza. «Signore». Shackleton fece un debole sorriso. Be', almeno aveva irritato quel ragazzino arrogante. «Il vostro servizio segreto può anche aver raccomandato
Gallatin, ma questo non significa proprio un cazzo per quanto mi riguarda. Chiedo scusa per il francesismo». Fece uscire il fumo dalle narici, mentre gli occhi catturavano un riflesso rosso. «Mi hanno detto che Gallatin non è il suo vero nome. Si chiamava Mikhail Gallatinov. È russo. Vero?» «È nato a San Pietroburgo nel 1910», fu la risposta cauta. «Nel 1934 è diventato cittadino della Gran Bretagna». «Sì, ma nel suo sangue c'è la Russia. Non ci si può fidare dei russi. Bevono troppa vodka». Batté nel portacenere dietro il sedile dell'autista, ma sbagliò mira e quasi tutta la cenere gli cadde sulle scarpe pulite e lucenti. «Allora, perché ha lasciato la Russia? Forse era ricercato per un crimine?» «Il padre del maggiore Gallatin era un generale dell'esercito e un amico dello zar Nicola II», disse Humes-Talbot mentre osservava la strada aprirsi nello scintillio giallo dei fari. «Nel maggio del 1918, il generale Fëdor Gallatinov, sua moglie e la figlia di dodici anni furono giustiziati da estremisti del partito sovietico. Il giovane Gallatinov fuggì». «E?», lo pungolò Shackleton. «Chi l'ha portato in Inghilterra?» «È venuto da solo, lavorando a bordo di un mercantile», disse il capitano. «Nel 1932». Shackleton fumò il sigaro riflettendoci sopra. «Un momento», disse con voce pacata. «Lei sta dicendo che si è nascosto alle squadre di assassini in Russia da quando aveva otto anni fino ai ventidue? Come ci è riuscito?» «Non lo so», ammise Humes-Talbot. «Lei non lo sa? Diavolo, credevo che voi sapeste tutto di Gallatinov. O come si chiama. Non avete fatto verificare i suoi trascorsi?» «C'è un buco nel suo passato». L'uomo più giovane vide avanti a sé il debole bagliore delle luci, attraverso i pini. La strada stava curvando, portandoli in direzione del luccichio delle lanterne. «L'informazione è riservata e vi possono accedere solo le più alte cariche del servizio segreto». «Ah sì? Be', questo basta a dirmi che non lo voglio per questo lavoro». «Immagino che il maggiore Gallatin abbia fatto i nomi degli individui che erano rimasti fedeli al ricordo del circolo reale e che lo aiutarono a sopravvivere. Esporre quei nomi sarebbe... diciamo non molto prudente?» Le piccole case e le strutture raggruppate di un villaggio stavano spuntando dalla pioggerella. Una piccola insegna bianca su un palo recitava ENDORE'S RILL. «Le rivelo una voce che gira, se permette», disse HumesTalbot, volendo lanciare una bomba a mano all'odioso americano. «Mi è stato detto che il monaco pazzo Rasputin visse a San Pietroburgo e godette... di legami con numerose signore di ottimo lignaggio fra il 1909 e il
1910. Una di queste signore, oserei dire, era Elana Gallatinov». Guardò il viso di Shackleton. «Rasputin potrebbe essere il vero padre di Michael Gallatin». Dalla gola di Shackleton giunse un piccolo colpo di tosse dovuto al fumo del sigaro. Si sentì picchiettare. Mallory, l'autista, tamburellò con le nocche sul vetro e mise il piede sul freno della Ford. La macchina stava rallentando, le spazzole del tergicristallo rimuovevano ritmicamente il nevischio e la pioggia. Humes-Talbot abbassò il vetro divisorio e Mallory disse con un marcato accento di Oxford: «Chiedo scusa signore, ma credo che dovremmo fermarci a chiedere indicazioni. Questo potrebbe essere il luogo adatto per farlo». Indicò una taverna illuminata da una lanterna, che era apparsa sulla destra. «Sicuramente lo è», convenne il giovane e alzò di nuovo il vetro mentre Mallory fermava la grossa macchina davanti alla porta della taverna. «Torno fra un attimo», disse Humes-Talbot mentre si alzava il bavero del cappotto intorno al collo e apriva la portiera. «Aspetti», gli disse Shackleton. «Mi farebbe bene un po' di whisky per scaldarmi il sangue». Lasciarono Mallory in macchina e salirono una serie di gradini di pietra. Un'insegna cigolava appesa a due catene sopra la porta d'ingresso; Shackleton alzò lo sguardo per leggerla e vide una pecora dipinta e le parole THE MUTTON CHOP. All'interno una stufa di ghisa bruciava con il muschio dolce della torbiera e lampade a olio pendevano da ganci affissi alle pareti di legno. A un tavolo sul fondo della taverna erano seduti tre uomini che parlavano a voce bassa, bevevano birra e alzarono lo sguardo smettendo di chiacchierare alla vista degli ufficiali dell'esercito in uniforme. «Benvenuti, signori», disse da dietro il bancone una donna attraente dai capelli neri con un marcato accento gallese. Aveva gli occhi azzurri e scrutò velocemente i due visitatori con una meticolosità che sembrò casuale. «Cosa posso fare per voi?» «Del whisky, piccola», disse Shackleton, facendo un largo sorriso con il sigaro ancora in bocca. «Il veleno migliore che avete». La donna stappò una bottiglia senza etichetta e gli riempì un bicchierino scuro da liquore. «È l'unico veleno che abbiamo, se non contiamo la birra chiara e quella scura». Con aria di sfida fece un debole e seducente sorriso. «Per me niente, ma vorrei un'informazione». Humes-Talbot si scaldò le mani davanti alla stufa. «Cerchiamo un uomo che vive da queste parti. Si chiama Michael Gallatin. Sa...»
«Oh, sì», disse la donna con gli occhi che le brillavano. «Conosco Michael». «Dove vive?» Shackleton annusò il whisky e pensò che gli avesse bruciacchiato le sopracciglia. «Nei paraggi. Non riceve visitatori». La donna passò uno straccio sul bancone. «Non molti». «Ci sta aspettando, piccola. È una questione ufficiale». La donna rifletté per qualche momento, guardando la lucentezza dei loro bottoni. «Prendete la strada che attraversa Rill. Procede per dodici chilometri e poi diventa sterrata, o fangosa, come potrebbe essere adesso. Si divide in due. La strada a sinistra è quella più impervia. Porta al suo cancello. Se è aperto o no, dipende da lui». «Lo apriremo se non lo sarà», disse Shackleton. Si tolse il sigaro di bocca e mandò giù il whisky locale, facendo un largo sorriso alla donna. «Alla salute», gli disse lei. Le ginocchia dell'uomo si piegarono mentre il whisky gli scendeva lungo la gola, bruciando come un rivolo di lava. L'americano pensò per un attimo di aver inghiottito vetro frantumato o pezzetti della lama di un rasoio. Sentì il sudore uscirgli dai pori e soffocò nel petto un colpo di tosse perché la donna lo stava guardando, sorridendo con aria di chi la sa lunga, e che fosse dannato se sarebbe mai caduto con il sedere per terra davanti a una donna. «Allora, ti piace, piccolo?», chiese lei con aria innocente. Shackleton ebbe paura di rimettere il sigaro in bocca, temendo che il fumo si incendiasse e gli facesse saltare in aria la testa. Gli bruciavano gli occhi per le lacrime, ma strinse i denti e batté il bicchierino sul bancone. «Ha... bisogno... di invecchiare», riuscì a gracchiare; il suo viso s'infiammò quando udì ridere gli uomini seduti al tavolo sul fondo del locale. «Infatti sta invecchiando», convenne lei, facendo una risata sommessa che sembrava il fruscio di una tenda di seta. Shackleton fece per prendere il portafoglio, ma la donna disse: «Offre la casa. Lei sa stare allo scherzo». Lui fece un sorriso, più triste che divertito, e Humes-Talbot si schiarì la gola e disse: «La ringraziamo per l'informazione e per l'ospitalità, signora. Vogliamo andare, maggiore?» Shackleton borbottò qualcosa che probabilmente era un suono d'assenso e seguì con le gambe pesanti HumesTalbot fino alla porta. «Maggiore, caro?», chiamò la barista prima che uscisse. Lui guardò indietro, desideroso di uscire da quel calore soffocante. «Può ringraziare
Michael per il suo drink, quando lo vede. Questa è la sua riserva privata. Nessun altro tocca quella roba». Shackleton uscì dalla porta del Mutton Chop sentendosi proprio un montone fatto a pezzi, come recitava l'insegna del locale. Ormai si era fatto completamente buio, mentre Mallory li portava via da Endore's Rill, tra i boschi sferzati dal vento e le montagne scavate dalle dita del tempo. Shackleton, con il viso leggermente cereo, si forzò a finire il sigaro e poi lo gettò via dal finestrino. Il mozzicone disegnò una scia di scintille, come una cometa cadente. Mallory lasciò la strada principale - un sentiero fangoso per i carri - e svoltò in quella più impervia sulla sinistra. Gli assi della macchina gemettero mentre gli pneumatici della Ford procedevano a fatica fra le buche; le molle del sedile ululavano come sfiatatoi premuti e Shackleton veniva spintonato e sballottato. Il giovane capitano britannico era invece abituato alle strade disagevoli, per cui serrò la maniglia sopra il finestrino della sua portiera e sollevò leggermente il sedere dal sedile di pelle. «Quest'uomo... non vuole... essere localizzato» fu tutto ciò che Shackleton riuscì a dire, mentre la Ford sobbalzava più di qualsiasi carro armato che avesse mai pilotato. Che il Signore abbia pietà del mio osso sacro dolorante! pensò. La strada continuò, un sentiero di tortura, attraverso i fitti boschi verdi. Alla fine, dopo altri tre o quattro chilometri terribili, i fari trovarono un alto cancello di ferro. Era spalancato e la Ford lo attraversò. La strada fangosa si appianò un po', ma non di molto. Ogni tanto la macchina prendeva un dosso e i denti di Shackleton sbattevano fra loro con una forza che gli avrebbe tagliato la lingua se lui non l'avesse tenuta arrotolata all'indietro. Il vento turbinava attraverso la foresta su entrambi i lati della strada e il nevischio scendeva copioso; improvvisamente Shackleton si sentì molto lontano dall'Arkansas. Mallory azionò il pedale del freno. «Ehi! Che cos'è?», chiese HumesTalbot, guardando lungo il cono di luce formato dai fari. In mezzo alla strada c'erano tre grossi cani, il cui manto era increspato dal vento. «Mio Dio!» L'ufficiale inglese si tolse gli occhiali, pulì rapidamente le lenti e se li infilò nuovamente. «Credo che quelli siano lupi!» «Diavolo, bloccate queste maledette portiere!», gridò Shackleton. La Ford rallentò a passo d'uomo. Quando il pugno dell'ufficiale americano abbassò con forza la chiusura dal suo lato, i tre animali sollevarono i musi all'odore del metallo caldo e dell'olio del motore, poi svanirono nell'oscuro muro di alberi alla sinistra. La Ford riprese velocità con le mani di
Mallory, coperte di macchie dovute all'età, salde sul volante; la macchina fece una lunga curva attraverso la foresta e uscì su un viale d'accesso coperto con lastre di pietra. E lì si trovava la casa di Michael Gallatin. Sembrava una chiesa, fatta di pietre rosso scuro tenute insieme da malta bianca. Shackleton si rese conto che un tempo doveva essere stata una chiesa, perché aveva una stretta torre sormontata da una guglia bianca, con un sentiero intorno. Ma la cosa veramente straordinaria di quella struttura era che aveva l'elettricità. Dalle finestre del primo piano si riversava la luce, e in alto le lastre di vetro colorato della torre della chiesa luccicavano di blu scuro e rosso cremisi. Sulla destra si trovava un edificio più piccolo, probabilmente un capanno da lavoro o un garage. Il viale d'accesso faceva un cerchio davanti alla casa; Mallory fermò la Ford e tirò il freno a mano. Picchiettò sulla finestra di divisione e quando Humes-Talbot l'ebbe abbassata chiese un po' a disagio: «Devo aspettare qui, signore?» «Sì, per il momento». L'ufficiale inglese era consapevole del fatto che il vecchio autista era stato fornito dal gruppo del servizio segreto, ma non c'era motivo che sapesse più di quello che era assolutamente necessario. Mallory annuì, un servitore obbediente, e spense il motore e i fari. «Maggiore?» Humes-Talbot indicò in direzione della casa. I due ufficiali lasciarono la macchina sotto il nevischio sferzante, le spalle raggomitolate nei soprabiti. In cima ai tre gradini di pietra c'era una porta graffiata di quercia con un batacchio verde di bronzo: era un animale, che serrava un osso tra i denti. Humes-Talbot sollevò l'osso e con esso si alzò anche la mascella inferiore zannuta della bestia. Batté contro la porta e aspettò, cominciando a tremare. Si sentì togliere un paletto. Shackleton avvertì lo stomaco gorgogliare per la miscela della strega al Mutton Chop. Poi la porta si aprì su cardini ben oliati e la figura di un uomo dai capelli neri venne delineata dalla luce. «Entrate», disse Michael Gallatin. 3. La casa era calda. Aveva lucidi pavimenti di quercia e in una nicchia alta fino al soffitto, rivestita di travi di legno, un fuoco ardeva in un caminetto di semplici pietre bianche. Dopo che il capitano Humes-Talbot ebbe consegnato a Michael la lettera di presentazione firmata dal colonnello Valentine Vivian dell'«Ufficio di Controllo dei Passaporti di Londra», Shackle-
ton si diresse verso il caminetto per scaldarsi le mani rubiconde. «È stata dura arrivare fin qui», borbottò l'americano, strofinandosi le dita. «Non poteva scegliere un posto più isolato?» «Non sono riuscito a trovarlo», rispose con voce sommessa Michael, leggendo la lettera. «Se avessi voluto ricevere visitatori inaspettati, avrei comprato una casa a Londra». Shackleton sentì di nuovo il sangue pizzicargli le mani e si voltò per esaminare meglio l'uomo per conoscere il quale aveva fatto tanta strada. Michael Gallatin indossava un maglione nero, con le maniche tirate su fino all'avambraccio, e pantaloni color cachi, sbiaditi e consumati. Ai piedi aveva dei mocassini marroni sporchi. I suoi folti capelli neri, striati di grigio sulle tempie, erano tagliati in stile militare, corti ai lati e sulla nuca. Sul viso aveva una barbetta grigia che mostrava forse i due o tre giorni in cui la pelle non veniva toccata dal rasoio. Sulla guancia sinistra aveva una cicatrice che iniziava proprio sotto l'occhio e continuava fino all'attaccatura dei capelli. La cicatrice di una lama, pensò Shackleton. E c'era anche mancato poco. Be', dunque Gallatin aveva avuto esperienza nel combattimento corpo a corpo. E allora? L'americano stimò che fosse alto un metro e novanta, centimetro più centimetro meno, e che pesasse intorno ai cento, centocinque chili. Sembrava in forma, un tipo atletico dalle spalle larghe, forse un giocatore di football, o di rugby o comunque lo chiamassero gli inglesi. Quell'uomo sembrava possedere una forte energia nascosta, come una grossa molla compressa che stava per esplodere. Tuttavia questo non lo rendeva pronto per una missione nella Francia occupata dai nazisti. Gallatin aveva bisogno del sole; era pallido come se fosse ibernato e probabilmente non vedeva un sole luminoso da sei mesi. Diavolo, per tutto l'inverno in quel maledetto paese probabilmente non c'era stato nient'altro che il buio. Ma l'inverno ormai stava per finire e all'equinozio di primavera - il 21 marzo - mancavano solo due giorni. «Sa che nel suo terreno ci sono dei lupi?», gli chiese Shackleton. «Sì», rispose Michael e ripiegò la lettera dopo aver finito di leggerla. Era passato molto tempo dall'ultima comunicazione del colonnello Vivian. Doveva trattarsi di una cosa importante. «Non uscirei fuori a camminare, se fossi in lei», continuò Shackleton. Infilò una mano nella tasca interna del soprabito, ne estrasse un sigaro e ne tagliò l'estremità con una tronchesina. Poi accese un fiammifero sulle pietre bianche del focolare. «A quei gran bastardi piace la carne». «Sono delle bastarde». Michael fece scivolare la lettera in tasca.
«Qualunque cosa siano». Shackleton accese il sigaro, diede una lunga tirata e fece uscire del fumo blu. «Se vuole concedersi un po' d'azione, dovrebbe procurarsi un fucile e andare a caccia di lupi. Lei sa come usare un fucile, vero, caro...» Si interruppe, perché improvvisamente Michael Gallatin gli fu davanti; i suoi occhi color verde pallido lo gelarono fin nelle ossa. La mano di Michael si alzò, afferrò il sigaro e lo tolse dai denti dell'altro uomo. Lo spezzò in due e lo gettò nel fuoco. «Maggiore Shackleton», disse con una traccia di accento russo ammorbidita dalla fredda gentilezza britannica, «questa è casa mia. Lei mi chiederà il permesso di fumare qui. E quando lo farà, io le dirò di no. Ci siamo capiti?» Shackleton farfugliò e arrossì in viso. «Quello era... quello era un sigaro da cinquanta centesimi!» «Il fumo che emette sembra quello di un sigaro da mezzo centesimo», gli disse Michael, fissando l'uomo negli occhi per qualche altro secondo per assicurarsi che il messaggio fosse chiaro, e poi rivolse la sua attenzione al giovane capitano. «Mi sono ritirato. Questa è la mia risposta». «Ma... signore... non ha ancora sentito quello che siamo venuti a dirle!» «Posso immaginarlo». Michael camminò fino alle portefinestre e guardò fuori, verso la linea scura dei boschi. Aveva sentito l'odore della sua riserva di vecchio whisky diffondersi dalla pelle di Shackleton e accennò un sorriso, sapendo come l'americano - abituato a un liquore blando - doveva aver reagito. Buon per Maureen, al Mutton Chop. «Tra gli alleati è in atto un'iniziativa di collaborazione molto rischiosa. Se la questione non fosse importante per gli americani, il maggiore non sarebbe qui. Ho ascoltato il traffico radio attraverso la Manica sul mio apparecchio a onde corte. Tutti quei codici, frasi su fiori per Rudy e violini che devono essere accordati. Non riesco ad afferrare tutti i messaggi, ma capendo il suono delle voci: sono piene di grande eccitazione e di tanta paura. Direi che questo rivela un'invasione imminente da parte delle forze alleate». Guardò verso Humes-Talbot, che non si era mosso né si era tolto il soprabito bagnato. «Nel giro di tre o quattro mesi, direi. Quando l'estate renderà più calmo il mare nella Manica. Sono sicuro che né il signor Churchill né il signor Roosevelt vogliono far sbarcare sulle spiagge di Hitler un esercito di soldati in preda al mal di mare. Quindi un qualsiasi giorno tra giugno e luglio rappresenta il momento giusto. Agosto sarebbe troppo tardi; gli americani si troverebbero a combattere verso est durante il momento peggiore dell'inverno. Se conquistano le zone di sbarco in giugno, riusciranno a costruire le linee di
rifornimento e a scavare le posizioni difensive al confine con la Germania in tempo per le prime nevicate». Inarcò le sopracciglia. «Ci sono andato vicino?» Shackleton lasciò che il fiato uscisse sibilando dai denti. «È sicuro che questo tizio sia dalla nostra parte?», chiese a Humes-Talbot. «Permettetemi di fare qualche altra congettura», disse Michael, mentre indirizzava lo sguardo verso il giovane capitano e poi di nuovo verso Shackleton. «Per avere successo, un'invasione attraverso la Manica dev'essere preceduta dall'interruzione delle comunicazioni tedesche, dalla distruzione dei magazzini di munizioni e carburante e dallo scatenamento di una atmosfera generale di inferno sulla terra. Ma un inferno tranquillo, con fiamme fredde. Mi aspetto che le reti di partigiani abbiano una notte impegnata a far saltare in aria binari di ferrovie; forse nello schema c'è anche posto per gli americani. Un assalto di paracadutisti seminerebbe il panico dietro le linee, con il risultato che i tedeschi dovrebbero correre in dieci direzioni diverse allo stesso tempo». Michael camminò fino al focolare, accanto al maggiore, e offrì il palmo delle sue mani al calore. «Mi aspetto che quello che volete che faccia abbia attinenza con l'invasione. Naturalmente non so dove né quando con esattezza dovrebbe avere luogo, e non voglio questa informazione. Un'altra cosa di cui vi dovete rendere conto è che l'alto comando nazista sospetta sicuramente un tentativo d'invasione nel giro dei prossimi cinque mesi. Con i sovietici che attaccano da est, i tedeschi sanno che il tempo è maturo - almeno dal punto di vista degli alleati - per un attacco dall'Ovest». Si strofinò le mani. «Spero che le mie conclusioni non siano troppo sbagliate...» «No, signore», ammise Humes-Talbot. «Ha fatto centro». Michael annuì e Shackleton disse: «Ha qualcuno che spia a Londra per suo conto?» «Ho i miei occhi, le mie orecchie e il mio cervello. Non mi serve altro». «Signore?» Humes-Talbot era rimasto in piedi quasi sull'attenti, ma rilassò la schiena e fece un passo avanti. «Possiamo... almeno ragguagliarla sull'obiettivo della missione?» «Sprecherebbe il suo tempo e quello del maggiore. Come ho detto, mi sono ritirato». «Ritirato? Dopo un misero incarico sul campo in Africa del Nord?» Shackleton fece un rumore fastidioso con le labbra. «Lei è stato un eroe durante la battaglia di El Alamein, vero?» Aveva letto lo stato di servizio di Gallatin durante il viaggio da Washington. «È penetrato nel quartier
generale di un comandante nazista e ha rubato le mappe che indicavano lo schieramento delle truppe, è così? Capirai che impresa! A meno che lei non abbia mancato di cogliere il concetto, maggiore, la guerra sta continuando. E se non conquistiamo una testa di ponte in Europa nell'estate del '44, potremmo trovarci con il culo in mezzo all'acqua per lungo tempo, prima di poter fare un altro tentativo». «Maggiore Shackleton?» Michael si voltò verso di lui; l'intensità del suo sguardo fece pensare all'americano di stare fissando i vetri verniciati di verde di un altoforno. «Lei non menzionerà più l'Africa del Nord», disse con voce calma, ma piena di minaccia. «Io... ho deluso un amico». Il suo sguardo si offuscò per un attimo, poi tornò con la massima intensità. «L'Africa del Nord è un argomento chiuso». Al diavolo quell'uomo, pensò Shackleton. Se avesse potuto, avrebbe preso a calci Gallatin fino a farlo cadere a terra. «Intendevo solo dire...» «Non m'interessa cosa intendeva dire». Michael guardò verso HumesTalbot e vide che il capitano era ansioso di continuare la spiegazione; poi sospirò e aggiunse: «D'accordo. Stiamo a sentire». «Sì, signore. Posso?» Si interruppe, sul punto di togliersi il soprabito. Michael gli fece cenno di procedere e, mentre i due ufficiali si toglievano i cappotti, Michael si diresse a una sedia di pelle nera dallo schienale alto e si sedette rivolto verso le fiamme. «È un problema di sicurezza, in realtà», disse Humes-Talbot, facendo il giro in modo da poter valutare l'espressione del maggiore Gallatin. Era di profondo disinteresse. «Naturalmente lei ha ragione: ha a che fare con i piani d'invasione. Noi e gli americani stiamo cercando di risolvere tutte le questioni in sospeso entro il primo di giugno. Per esempio facendo uscire da Francia e Olanda i nostri agenti, la cui sicurezza potrebbe essere compromessa. C'è un agente americano a Parigi...» «Il suo nome in codice è Adam», lo interruppe Shackleton. «Parigi non è più un paradiso terrestre», commentò Michael, intrecciando le dita. «Non con tutti quei serpenti nazisti che vi strisciano dentro». «Esatto», continuò il maggiore, prendendo le redini del discorso. «In ogni caso, i ragazzi del servizio segreto americano hanno ricevuto un messaggio in codice da Adam poco più di due settimane fa. Diceva che si stava preparando qualcosa di grosso, di cui non aveva ancora tutti i dettagli. Ma ha detto che di qualunque cosa si tratti, avviene sotto la massima sicurezza. Ne è venuto a conoscenza da un artista a Berlino, un certo Theo von Frankewitz».
«Un momento». Michael si piegò in avanti e Humes-Talbot vide un lampo di concentrazione nei suoi occhi, come il luccichio del metallo di una spada. «Un artista? Perché un artista?» «Non lo so. Non riusciamo a scovare nessuna informazione su questo von Frankewitz. In ogni caso, Adam ha inviato un altro messaggio otto giorni fa. Era lungo solo un paio di righe. Ha detto che lo sorvegliavano e che aveva delle informazioni che dovevano essere portate fuori dalla Francia da un corriere. Ha dovuto porre fine alla trasmissione prima di poter entrare nel dettaglio». «La Gestapo?» Michael guardò Humes-Talbot. «I nostri informatori non indicano che la Gestapo abbia preso Adam», disse l'uomo più giovane. «Pensiamo che sappiano che è uno dei nostri e che lo tengano sotto sorveglianza continua. Probabilmente sperano che li conduca ad altri agenti». «Quindi nessun altro può scoprire qual è questa informazione e portarla fuori dal paese?» «No, signore. Deve entrare qualcuno dall'esterno». «E naturalmente stanno monitorando la sua radiotrasmittente. O forse l'hanno trovata e distrutta». Michael si accigliò, guardando il legno di quercia bruciare. «Perché un artista?», chiese di nuovo. «Cosa può saperne un artista di segreti militari?» «Non ne abbiamo idea», disse Humes-Talbot. «Si rende conto della nostra situazione difficile». «Dobbiamo scoprire cosa diavolo sta succedendo», disse Shackleton. «La prima ondata dell'invasione sarà quasi di duecentomila soldati. Novanta giorni dopo lo sbarco alleato, progettiamo di avere più di un milione di ragazzi laggiù a prendere a calci il culo di Hitler. Ci giochiamo la partita in un solo giorno - una sola carta da scoprire - e faremo bene a sapere cos'hanno in mano i nazisti». «La morte», disse Michael; nessuno degli altri due uomini commentò. Le fiamme crepitavano e sputavano scintille. Michael Gallatin aspettò di sentire il resto. «Lei verrebbe portato in aereo sulla Francia e paracadutato vicino al villaggio di Bazancourt, a circa novanta chilometri a nordovest di Parigi», disse Humes-Talbot. «Uno dei nostri le verrà incontro laggiù. Da lì, sarà portato a Parigi e le verrà dato tutto l'aiuto che le serve per giungere fino ad Adam. Questo è un incarico di alta priorità, maggiore Gallatin, e perché l'invasione abbia qualche possibilità di riuscita, dobbiamo sapere cosa ci
troviamo contro». Michael guardò il fuoco bruciare. Poi disse: «Mi dispiace. Trovate qualcun altro». «Ma signore... la prego, non prenda una decisione affret...» «Ho detto che mi sono ritirato. Questo mette fine alla questione». «Be', perfetto!», disse pieno di rabbia Shackleton. «Ci rompiamo il culo a venire qui, perché un idiota ci ha detto che lei è il migliore nel suo campo e lei dice di essersi "ritirato"». Pronunciò con disprezzo quella parola. «Dalle mie parti questo è solo un altro modo di dire che un uomo ha perso il suo coraggio». Michael fece un debole sorriso che servì solo a far infuriare ancora di più Shackleton, ma non rispose. «Maggiore, signore?», provò di nuovo Humes-Talbot. «La prego, non ci dia la sua risposta definitiva adesso. Non vuole almeno riflettere sull'incarico? Forse potremmo restare qui per la notte e discuterne di nuovo domattina...» Michael ascoltò il rumore del nevischio contro le finestre. Shackleton pensò alla lunga strada per tornare a casa e sentì l'osso sacro dolergli. «Potete restare per la notte», convenne Michael, «ma io non andrò a Parigi». Humes-Talbot fece per parlare di nuovo, ma decise di abbandonare momentaneamente l'argomento. Shackleton borbottò: «Fiamme dell'inferno!», ma Michael rifletté solo sulle fiamme che aveva acceso lui. «Abbiamo portato con noi un autista», disse Humes-Talbot. «C'è la possibilità di trovare un posto anche per lui?» «Metterò una branda davanti al fuoco». Si alzò è andò a prenderla nel suo magazzino; Humes-Talbot lasciò la casa per chiamare dentro Mallory. Mentre i due uomini erano via, Shackleton ficcanasò in giro. Trovò un antico Victrola di palissandro, con un disco sul piatto. Si intitolava La Sagra della Primavera ed era di un certo Stravinskij. Be', c'era da aspettarsi che a un russo piacesse la musica russa. Probabilmente erano un mucchio di stupidaggini slave. In una notte come quella gli avrebbe fatto bene ascoltare una canzone vivace di Bing Crosby. A Gallatin piacevano i libri, questo era sicuro. Volumi come L'Uomo dalla Bestia, Carnivori, Storia dei Canti Gregoriani, Il Mondo di Shakespeare e altri libri con titoli russi, tedeschi e francesi riempivano gli scaffali. «Le piace la mia casa?» Shackleton sobbalzò. Michael gli era arrivato da dietro, silenzioso come la foschia. Stava trasportando una branda pieghevole, che aprì e mise da-
vanti al caminetto. «La casa intorno al 1840 era una chiesa luterana. La costruirono i sopravvissuti di un naufragio; le scogliere sono solo a un centinaio di metri da qui. Costruirono anche un villaggio, ma la peste bubbonica li spazzò via otto anni più tardi». «Oh», disse Shackleton, asciugandosi le mani sui pantaloni. «Le rovine erano ancora robuste. Decisi di provare a rimettere in sesto questa struttura. Mi ci vollero quattro anni pieni e ci sono ancora molte cose da fare. Nel caso se lo stesse chiedendo, sul retro ho un generatore che funziona a benzina». «Immaginavo che quaggiù non arrivassero le linee elettriche». «No. Non fino a qui. Voi dormirete nella stanza della torre, dove morì il pastore. Non è una stanza molto grande, ma il letto è per due persone». La porta si aprì e si chiuse; Michael gettò un'occhiata alle sue spalle e vide Humes-Talbot e l'autista. Li guardò fissi per qualche secondo, senza battere le palpebre, mentre l'uomo anziano si toglieva il cappello e il soprabito. «Lei può dormire qui», disse Michael, indicando la branda con un gesto della mano. «La cucina è dietro quella porta, se volete del caffè o qualcosa da mangiare», disse a tutti e tre. «Io ho degli orari che potreste trovare insoliti. Se sentite che sono alzato nel cuore della notte... restate nelle vostre stanze», aggiunse, con uno sguardo che fece drizzare i peli sulla nuca di Shackleton. «Vado di sopra a riposare». Michael cominciò a salire le scale. Si fermò e scelse un libro. «Oh... il bagno e la doccia sono dietro la casa. Spero che non vi dia fastidio l'acqua fredda. Buonanotte, signori». Salì i gradini e dopo qualche attimo si sentì una porta chiudersi piano. «È un tipo maledettamente strano», borbottò Shackleton, poi si trascinò in cucina per trovare qualcosa da mettere sotto i denti. 4. Michael si mise seduto sul letto e accese una lampada a olio. Non aveva dormito, solo aspettato. Prese in mano l'orologio da polso dal tavolino accanto al letto, anche se sapeva in base alla sua percezione del tempo che erano le tre passate. E infatti erano le tre e sette. Annusò l'aria e socchiuse gli occhi. Sentiva l'odore di fumo del tabacco. Burley e latakia: una miscela potente. Conosceva quell'aroma... e se ne sentì attirato. Era ancora vestito, con i pantaloni cachi e il maglione nero. Scivolò nei mocassini, prese in mano la lampada e ne seguì lo scintillio giallo giù per
la rampa circolare. Un paio di ciocchi nuovi erano stati aggiunti nel camino, dove bruciava un fuoco lento. Vide una nuvola di fumo di pipa fluttuare sopra la sedia di pelle nera dallo schienale alto, posta di fronte alla fiamme. La branda era vuota. «Parliamo, Michael», disse l'uomo che si faceva chiamare Mallory. «Sì, signore». Gallatin prese una sedia e si accomodò, posando la lampada su un tavolo che si trovava fra i due uomini. Mallory - non era il suo nome vero, ma uno dei tanti - rise sommessamente, serrando fra i denti il bocchino della pipa. Nei suoi occhi brillava il bagliore del fuoco e adesso non sembrava minimamente vecchio e malfermo come quando era entrato nella casa. «"Restate nelle vostre stanze"», disse, poi rise di nuovo. La sua vera voce, non mascherata, possedeva un tono cavernoso. «È stata un'ottima mossa, Michael. Gli hai fatto cascare le palle dalla paura, a quel povero yankee». «Ma le ha?» «Oh, è un ufficiale piuttosto abile. Non lasciarti ingannare dai modi bruschi e da spaccone; il maggiore Shackleton conosce il suo lavoro». Lo sguardo penetrante di Mallory scivolò verso l'altro uomo. «E anche tu». Michael non rispose. Mallory fumò la pipa in silenzio per un attimo, poi disse: «Non è tua la colpa di quello che è accaduto a Margritta Phillipe in Egitto, Michael. Conosceva i rischi e faceva il suo lavoro bene e con coraggio. Hai ucciso il suo assassino e smascherato Harry Sandler, rivelando che era un agente dei nazisti. Anche tu hai fatto il tuo lavoro bene e con coraggio». «Non abbastanza». Quella faccenda gli provocava ancora una sorta di dolore che lo attanagliava allo stomaco. «Se quella notte fossi stato attento, avrei potuto salvare la vita di Margritta». «Era arrivato il suo momento», disse Mallory in tono piatto, l'affermazione di un professionista nell'arena della vita e della morte. «E adesso dovresti smettere di rimuginare sulla sua morte». «Quando troverò Sandler». Il viso di Michael era tirato e si fece rosso. «Ho capito che era un agente tedesco appena Margritta mi ha mostrato il trofeo con la testa di lupo che le aveva detto di averle spedito dal Canada. Per me era chiarissimo che si trattava di un lupo dei Balcani, non canadese. E per Sandler l'unico modo per uccidere un lupo dei Balcani era di andare a caccia con i suoi amici nazisti». Harry Sandler, il grande cacciatore americano di cui si era occupata anche la rivista Life, era scomparso dopo
l'assassinio di Margritta, senza lasciare tracce. «Dovevo obbligare Margritta ad abbandonare la casa quella stessa notte. Immediatamente. Invece ho...» Serrò le mani sui braccioli della sedia. «Lei si fidava di me», disse con voce quasi sussurrata. «Michael», disse Mallory, «voglio che tu vada a Parigi». «È così importante da esserne coinvolto anche lei?» «Sì. È vitale». Tirò una boccata di fumo e si tolse la pipa di bocca. «Avremo una sola possibilità che l'invasione abbia successo. Al momento la cornice temporale è la prima settimana di giugno. È soggetta a cambiamenti, in base al tempo e alle maree. Dobbiamo assicurarci di aver previsto e risolto tutti i potenziali disastri, e posso dirti che osservare questi comandanti incasinare le cose lascia molto spazio per gli errori peggiori che si possano immaginare». Borbottò e fece un sorriso tirato. «Noi dobbiamo fare la nostra parte per fare trovare la casa pulita quando ci trasferiranno. Se la Gestapo tiene d'occhio Adam con tanta attenzione, puoi essere certo che possiede delle informazioni che non vogliono che escano dal paese. Dobbiamo sapere quali sono. Con il tuo... talento speciale, c'è la possibilità che tu riesca a entrare e uscire sotto il naso della Gestapo». Michael contemplava il fuoco. L'uomo seduto accanto a lui era una delle tre persone al mondo che conosceva la sua natura di licantropo. «C'è un altro aspetto della faccenda che dovresti considerare», aggiunse Mallory. «Quattro giorni fa abbiamo ricevuto un messaggio in codice dalla nostra agente Echo a Berlino. Ha visto Harry Sandler». Michael guardò il viso dell'altro uomo. «Era in compagnia di un colonnello nazista che si chiama Jerek Blok, un ufficiale delle SS, che è stato il comandante del campo di concentramento di Falkenhausen vicino a Berlino. Quindi Sandler si sta muovendo in ambienti altolocati». «Si trova ancora a Berlino?» «Non abbiamo ricevuto da Echo notizie che indichino il contrario. Lo sta tenendo d'occhio per noi». Michael borbottò sommessamente. Non aveva idea di chi fosse Echo, ma ricordava il viso rubicondo di Sandler da una fotografia sulla rivista Life, in cui sogghignava mentre posava un piede - fasciato da uno stivale sulla carcassa di un leone in una prateria del Kenya. «Naturalmente possiamo farti avere i dossier su Sandler e Blok», disse Mallory. «Non sappiamo quale possa essere il collegamento fra di loro. Echo ti contatterebbe a Berlino. A quel punto sarebbe a tua discrezione decidere cosa fare».
A mia discrezione, pensò Michael. Era un modo educato di dire che se sceglieva di uccidere Harry Sandler, se la sarebbe dovuta cavare da solo. «Tuttavia la tua prima missione è di scoprire quello che sa Adam». Mallory lasciò che una scia di fumo gli uscisse dalla bocca. «Questo è imperativo. Potrai riferire l'informazione tramite il tuo contatto francese». «E Adam? Non volete portarlo via da Parigi?» «Se possibile». Michael ci rifletté sopra. L'uomo che in quel frangente si faceva chiamare Mallory era tristemente noto per quello che non diceva quanto per quello che diceva. «Vogliamo chiarire tutti i punti in sospeso», disse Mallory dopo qualche attimo di silenzio. «Ho la tua stessa curiosità, Michael: perché in questa faccenda è coinvolto un artista? Von Frankewitz non è nessuno, un pittore scadente che realizza ritratti sui marciapiedi di Berlino. In che modo è coinvolto in un segreto di stato?» Gli occhi di Mallory trovarono quelli di Michael. «Farai il lavoro?» Nyet, pensò. Ma sentì nelle vene una pressione simile al potere di una fornace a vapore in cui si accumulava il calore. Negli ultimi due anni non era passato giorno che non pensasse a come la sua amica, la contessa Margritta, era morta mentre lui dormiva nell'abbraccio della passione appena consumata. Trovare Harry Sandler poteva aiutarlo a dare un colpo di spugna al passato. Probabilmente il risultato non sarebbe stato quello, ma avrebbe comunque provato soddisfazione a dare la caccia al cacciatore. E la situazione con Adam e l'imminente invasione rappresentavano questioni vitali di per sé. Come poteva l'informazione di Adam avere effetti sul giorno dello sbarco alleato e sulle vite di migliaia di soldati che si sarebbero precipitati a riva in una fatidica mattinata di giugno? «Sì», disse Michael con la gola contratta. «Sapevo di poter contare su di te all'undicesima ora», disse Mallory con un debole sorriso. «È l'ora del lupo, vero?» «Ho una richiesta da fare. Sono un po' arrugginito come paracadutista. Vorrei arrivare sul posto con un sottomarino». Mallory rifletté brevemente sulla richiesta, poi scosse la testa. «Mi dispiace. È troppo rischioso, con le navi pattuglia tedesche e le mine nella Manica. Un piccolo aereo da trasporto è l'alternativa più sicura. Ti manderemo subito in un posto dove potrai affinare le tue abilità e fare qualche salto di allenamento. Sarà facile come mangiare una fetta di torta, come dicono gli yankee».
Michael aveva i palmi delle mani bagnati e serrò i pugni. C'erano solo due cose che lo spaventavano: essere rinchiuso e il vuoto. Non sopportava il rombo e lo scoppiettio degli aerei, e quando non aveva i piedi a terra si sentiva più debole e meno abile. Ma non c'era scelta; avrebbe dovuto sopportare e andare avanti, anche se l'addestramento con il paracadute sarebbe stato una vera e propria tortura. «D'accordo». «Splendido». Il tono della voce di Mallory rivelava che sapeva sin dall'inizio che Michael Gallatin avrebbe accettato di svolgere quel compito. «Stai bene, vero Michael? Dormi abbastanza? Fai pasti equilibrati? Non consumi troppa carne, spero». «Non troppa». La foresta era popolata da un grosso branco di cervi e daini, più cinghiali e lepri. «A volte sono preoccupato per te. Hai bisogno di una moglie». Michael rise, nonostante la serietà e le buone intenzioni di Mallory. «Be'», si corresse l'alto ufficiale, «forse no». Parlarono ancora a lungo, naturalmente della guerra, perché era quello il loro punto d'interesse comune; mentre il fuoco consumava silenziosamente i ciocchi di quercia e il vento gemeva prima dell'alba, il licantropo al servizio del re si alzò e salì le scale per andare nella sua camera da letto. Mallory dormì nella sedia di fronte al camino, mostrando di nuovo il volto pacato di un vecchio autista. 5. L'alba giunse grigia e tempestosa come il crepuscolo del giorno precedente. Alle sei una musica orchestrale svegliò il maggiore Shackleton e il capitano Humes-Talbot, le cui schiene scrocchiarono e gemettero mentre i due uomini si trascinavano fuori dal letto stretto e scomodo del pastore morto. Avevano dormito vestiti, per tenere lontano il freddo che entrava dagli infissi delle finestre di vetro colorato; scesero al piano di sotto segnati da rughe per nulla tipiche della carriera militare. Il nevischio sferzava le finestre; Shackleton pensò di urlare. «Buongiorno», disse Michael Gallatin, sulla sedia di pelle nera davanti a un fuoco appena acceso, con una tazza di fumante tè Earl Grey della Twinings in mano. Indossava una vestaglia di flanella blu scura e non aveva le scarpe. «In cucina sono pronti tè e caffè. E anche delle uova strapazzate e salsicce locali, se volete fare colazione». «Se le salsicce sono forti come il whisky, penso che rinuncerò», disse
Shackleton, aggrottando la fronte per il disgusto. «No, sono molto leggere. Servitevi pure». «Dov'è Mallory?», chiese Humes-Talbot guardandosi intorno. «Oh, ha fatto colazione ed è andato fuori a cambiare l'olio della macchina. Gli ho lasciato usare il garage». «Cos'è questo fracasso?» Shackleton pensò che quella musica desse l'idea di eserciti di demoni che si scontravano all'inferno. Si avvicinò al Victrola e osservò il disco che girava. «Stravinskij, vero?», chiese Humes-Talbot. «Sì. La Sagra della Primavera. È la mia composizione preferita. Maggiore Shackleton, questa è la parte in cui i vecchi del villaggio si riuniscono in cerchio e guardano una giovane ballare fino a morire in un rito pagano di sacrificio». Michael chiuse gli occhi per qualche secondo, immaginando note viola e cremisi saltellare freneticamente. Li aprì di nuovo e fissò il maggiore. «In questo periodo il sacrificio sembra essere un argomento particolarmente popolare». «Non saprei». Gli occhi di Gallatin facevano innervosire l'ufficiale americano; erano decisi e penetranti, e possedevano un potere che faceva sentire il maggiore debole come una salvietta di carta. «Sono un fan di Benny Goodman». «Oh sì, conosco la sua opera». Michael ascoltò la musica fragorosa e martellante per qualche altro attimo; rifletteva l'immagine di un mondo in guerra, che lottava contro la propria barbarie, ma quest'ultima vinceva chiaramente. Poi si alzò in piedi, sollevò la puntina senza graffiare il disco a 78 giri e lasciò che il Victrola esaurisse la carica. «Accetto la missione, signori», disse. «Scoprirò quello che volete sapere». «Davvero? Voglio dire...» Humes-Talbot si impappinò. «Credevo che avesse già deciso». «È così. Ma ho cambiato idea». «Oh, capisco». In realtà non capiva affatto, ma non avrebbe indagato oltre i motivi dell'uomo. «Be', è bello sentirlo, signore. Eccellente. Naturalmente le faremo fare una settimana di addestramento. Farà qualche lancio con il paracadute per allenarsi e lavorerà sulla lingua, anche se dubito che ne abbia bisogno. E appena tornati a Londra metteremo insieme tutte le informazioni che le serviranno». «Sì, fatelo». Il pensiero del volo sulla Manica fino in Francia gli faceva accapponare la pelle, ma avrebbe dovuto affrontare la sua paura al momento giusto. Trasse un profondo respiro, felice di aver preso la decisione de-
finitiva. «Se volete scusarmi, vado a fare la mia corsa mattutina». «Lo sapevo che lei era un corridore!», disse Shackleton. «Lo sono anch'io. Quanto fa?» «Più o meno sette chilometri». «Io ne ho fatti anche dieci. Carico delle attrezzature da campo. Ascolti, se ha una seconda tuta da riscaldamento e un maglione in più, vengo con lei. Non mi dispiacerebbe rimettere un po' in circolazione il sangue». Specialmente dopo aver cercato di dormire in quello strumento di tortura, pensò. «Non porto una tuta da riscaldamento», gli disse Michael, poi si tolse la vestaglia. Sotto era completamente nudo. Piegò l'indumento sullo schienale della sedia. «È quasi primavera. E la ringrazio maggiore, ma corro sempre da solo». Superò Shackleton e Humes-Talbot, entrambi troppo stupiti per muoversi o parlare, e uscì dalla porta nella fredda luce del mattino, sotto il nevischio. Shackleton afferrò la porta prima che si chiudesse. Osservò incredulo l'uomo nudo cominciare a correre a passi lunghi e decisi lungo il viale d'accesso, poi attraverso il campo erboso verso il bosco. «Ehi!», urlò. «E i lupi?» Michael Gallatin non guardò indietro... e dopo un attimo svanì nella linea degli alberi. «È uno strano tipo, non crede?», chiese Humes-Talbot, scrutando oltre la spalla dell'altro uomo. «Strano o no, credo che il maggiore Gallatin possa riuscire nell'impresa», disse Shackleton. Il nevischio lo schizzò sul viso; l'uomo tremò nonostante l'uniforme che indossava e chiuse la porta contro il vento. 6. «Martin? Vieni a dare un'occhiata a questo!» L'uomo che era stato chiamato si alzò immediatamente dalla scrivania ed entrò nell'ufficio più interno, con le scarpe che ticchettavano sul pavimento di cemento armato. Era molto robusto, aveva le spalle larghe e indossava un costoso vestito marrone, una camicia bianca immacolata e una cravatta nera. I capelli grigi erano pettinati all'indietro. Le sue fattezze erano morbide e carnose come quelle dello zio preferito da qualunque bambino, un uomo a cui piaceva raccontare le favole al nipote prima che si addormentasse. Le pareti dell'ufficio più interno erano coperte da mappe sulle quali
spiccavano frecce e cerchi rossi. Alcune frecce erano state eliminate e ridisegnate più volte, e molti cerchi erano stati cancellati con tratti rabbiosi. Altre mappe giacevano sulla grande scrivania dell'ufficio, insieme a pile di carta che dovevano essere firmate. Era stata aperta una piccola scatola di metallo, in cui erano attentamente sistemati boccette di acquerelli e pennelli di crini di cavallo di varie dimensioni. L'uomo dietro la scrivania aveva spostato la sua sedia dallo schienale rigido in un angolo della stanza priva di finestre, vicino a un cavalletto sul quale era posato un dipinto incompiuto: si trattava di un acquerello di una casa colonica bianca, dietro la quale si stagliavano picchi frastagliati di montagne. Sul pavimento intorno ai piedi dell'artista c'erano altri dipinti di case e della campagna, tutti accantonati prima di essere completati. «Qui. Proprio qui. Lo vedi?» L'artista indossava gli occhiali e picchiettava con il pennello contro un'ombra sfumata al limitare della casa colonica. «Vedo... un'ombra», rispose Martin. «Nell'ombra. Proprio qui!» Picchiettò di nuovo sul punto, con più forza. «Guarda meglio!» Sollevò il dipinto, sporcandosi le dita con gli acquerelli, e lo avvicinò al viso di Martin. Martin deglutì forte. Vedeva solo un'ombra. Sembrava una questione importante, così decise di affrontarla con molta cautela. «Sì», rispose. «Penso... di vederlo». «Ah!», disse sorridendo l'altro uomo. «Ah! Allora c'è!» Parlava tedesco con un forte - e alcuni sostenevano rozzo - accento austriaco. «Il lupo, lì nell'ombra!» Con l'estremità di legno del pennello indicò uno scarabocchio scuro che Martin non riuscì a distinguere. «Il lupo in agguato. E guarda qui!» Prese un altro dipinto, davvero malfatto, che raffigurava un serpeggiante torrente di montagna. «Lo vedi? Dietro quella roccia?» «Sì, mein Führer», disse Martin Bormann, fissando una roccia e un paio di righe disegnate male. «E qui, in quest'altro!» Hitler gli offrì un terzo dipinto da vedere, un campo di stelle alpine bianche. Puntò un dito imbrattato di rosso verso due macchioline scure tra i fiori soleggiati. «Gli occhi del lupo! Vedi? Si avvicina furtivo! Sai cosa significa, vero?» Martin esitò, poi scosse lentamente la testa. «Il lupo è il mio simbolo fortunato!», disse Hitler, mostrandosi leggermente agitato. «Lo sanno tutti! Ed ecco che il lupo appare nei miei dipinti di sua volontà! Hai bisogno di un presagio più chiaro di questo?»
Ci risiamo, pensò il segretario di Hitler. Adesso rientriamo nel vortice di segni e simboli. «Io sono il lupo, non capisci?» Hitler si tolse gli occhiali, che solo poche persone, oltre a quelle della cerchia più interna di collaboratori, gli vedevano indossare. Li chiuse e li fece scivolare nella custodia di pelle. «Questo è un presagio del futuro. Del mio futuro». Sbatté le palpebre di quei suoi occhi azzurri dallo sguardo deciso. «Del futuro del Reich dovrei dire, naturalmente. Questo non fa che ripetermi quello che già so essere vero». Martin aspettò senza parlare, fissando il dipinto della casa colonica con il suo scarabocchio incomprensibile nell'ombra. «Schiacceremo gli slavi e li ricacceremo nelle loro topaie», continuò Hitler. «Leningrado, Mosca, Stalingrado, Kursk... nomi su una mappa». Ne afferrò una, lasciandovi sopra delle impronte rosse, e la spinse con sdegno sulla scrivania. «Federico il Grande non prese mai in considerazione la sconfitta, mai! Sì, aveva generali fedeli. Aveva dei collaboratori che obbedivano ai suoi ordini. Mai nella mia vita ho visto un'insubordinazione così ostinata! Se vogliono farmi del male, perché semplicemente non mi puntano una pistola alla tempia?» Martin non disse nulla. Le guance di Hitler stavano diventando rosse e i suoi occhi sembravano gialli e umidi... un pessimo segno. «Ho detto di avere bisogno di carri armati più grandi», continuò il Fürher «e sai cosa mi hanno risposto? Carri armati più grandi consumano più benzina. È questa la loro scusa. Pensano a tutti i modi possibili per tarparmi le ali. Carri armati più grandi consumano più benzina. Be', la Russia non è forse un enorme pozzo di petrolio? E i miei ufficiali sono tornati terrorizzati dagli slavi e rifiutano di combattere per la linfa vitale della Germania! Come possiamo sperare di contenere gli slavi, senza carburante? Per non parlare dei raid aerei che distruggono le fabbriche di cuscinetti a sfera! Sai cosa dicono al Fürher? Dicono sempre mein Fürher, con una voce che fa venire la nausea, come quando si mangia troppo zucchero. I cannoni antiaerei hanno bisogno di più munizioni. I nostri camion che trainano i cannoni antiaerei hanno bisogno di più carburante. Vedi come boicottano il lavoro?» Sbatté di nuovo le palpebre; l'altro uomo vide poi la consapevolezza sul viso di Hitler, come se fosse una luce fredda. «Oh, sì. Eri con noi alla riunione di questo pomeriggio, vero?» «Sì, mein... sì», rispose il segretario. «Ieri pomeriggio». Guardò il suo orologio da tasca. «È quasi l'una e mezza».
Hitler annuì con aria assente. Indossava la vestaglia damascata di cachemire, un dono di Mussolini, e pantofole di pelle; lui e Bormann erano soli nell'ala amministrativa del suo quartier generale a Berlino. Fissò le sue opere, le case disegnate con linee incerte e i panorami che avevano una falsa prospettiva; poi immerse il pennello in una tazza piena d'acqua e lasciò che i colori si attenuassero. «È un presagio», disse, «che io disegni un lupo senza nemmeno rendermene conto. Questo significa vittoria, Martin. La completa e totale distruzione dei nemici del Reich. Interni ed esterni», aggiunse, lanciando uno sguardo eloquente al suo segretario. «Ormai dovrebbe sapere, mein Fürher, che nessuno può ribellarsi alla sua volontà». Hitler sembrò non prestargli ascolto. Era occupato a rimettere tutti i dipinti e i pennelli nella scatola di metallo, che teneva chiusa a chiave in cassaforte. «Quali sono i miei impegni per oggi, Martin?» «Alle otto un incontro a colazione con il colonnello Blok e il dottor Hildebrand. Poi una riunione dei collaboratori dalle nove alle dieci e mezza. Il feldmaresciallo Rommel dovrebbe arrivare all'una per fornire i ragguagli sulle fortificazioni del Vallo Atlantico». «Ah». Gli occhi di Hitler si illuminarono di nuovo. «Rommel. Lui sì che è un uomo che ha una bella mente. L'ho perdonato per l'Africa del Nord. Adesso è tutto a posto». «Sì, signore. Alle sette e quaranta di stasera accompagneremo il feldmaresciallo in aereo sulla costa della Normandia», continuò Bormann. «Poi fino a Rotterdam». «Rotterdam». Hitler annuì, rimettendo la scatola di dipinti nella cassaforte. «Confido sul fatto che il lavoro stia procedendo secondo il programma. È vitale». «Sì, signore. Dopo un giorno a Rotterdam, torneremo in aereo al Berghof per una settimana». «Il Berghof! Sì, me n'ero dimenticato!» Hitler sorrise, evidenziando le occhiaie scure. Il Berghof, la dimora di Hitler nelle Alpi Bavaresi, sopra il villaggio di Berchtesgaden, era stata la sua unica vera casa dall'estate del 1928. Era un luogo di venti corroboranti, panorami che avrebbero sbalordito Odino e ricordi che la mente richiamava con piacere. Tranne per Geli, naturalmente. Aveva conosciuto Geli Raubal lì, il suo unico vero amore. Geli, l'adorata Geli con i capelli biondi e gli occhi ridenti. Perché l'amata Geli si era fatta esplodere il cuore con un colpo di pistola? Ti amavo Geli,
pensò. Non ti bastava? Avrebbe trovato Eva ad aspettarlo al Berghof, e a volte quando la luce era fioca e i suoi capelli erano pettinati all'indietro, Hitler poteva socchiudere gli occhi e vedere il volto di Geli, il suo amore perduto... sua nipote, che aveva ventitré anni quando si era suicidata nel 1931. Gli faceva male la testa. Guardò il calendario, i giorni di marzo sulla scrivania, in mezzo al disordine. «È primavera», si rese conto. Da dietro i muri, dalla città oscurata di Berlino, giunse un ululato. Il lupo! pensò Hitler, con la bocca spalancata. No, no... una sirena che segnalava un'incursione aerea. Il suono aumentò e diventò quasi un gemito, per come veniva sentito dietro le mura della Cancelleria del Reich. In lontananza si udì il rumore di una bomba che esplodeva, un suono come quando una pesante ascia si abbatte sul tronco di un albero. Poi un'altra bomba, altre due, una quinta e una sesta in rapida successione. «Chiama qualcuno», ordinò Hitler, mentre il sudore freddo gli luccicava sulle guance. Martin sollevò il telefono sulla scrivania e compose un numero. Altre bombe caddero, il rumore della distruzione che aumentava e poi diminuiva. Le dita di Hitler afferrarono il bordo della scrivania. Gli sembrava che le bombe stessero cadendo a sud. Vicino all'aeroporto di Tempelhof. Non abbastanza vicine da averne paura, ma tuttavia... Gli schianti e gli scoppi delle esplosioni lontane cessarono. Ormai si sentivano solo l'ululare - simile a quello di un lupo - della sirena che avvertiva dei raid aerei e l'affollarsi degli abitanti nei dintorni della città. «Un raid di disturbo», lo informò Martin dopo aver parlato con il capo della sicurezza di Berlino. «Qualche cratere sul campo d'aviazione e delle case a schiera incendiate. I bombardieri se ne sono andati». «Maledetti porci!» Hitler si alzò, tremando. «Che vadano all'inferno! Dove sono i caccia notturni della Luftwaffe quando abbiamo bisogno di loro? Dormono tutti?» Si avvicinò a una delle mappe che mostravano le fortificazioni difensive, i campi minati e i bunker di cemento armato sulla costa della Normandia. «Per fortuna c'è Rommel. Churchill e quell'ebreo di Roosevelt verranno in Francia, prima o poi. Troveranno una calda accoglienza, ti pare?» Martin convenne che sarebbe stato così. «E quando manderanno i cannoni, loro staranno a Londra, seduti alle loro scrivanie lucidate a bere tè inglese e a mangiare quei... come chiamano
quelle specie di biscotti?» «Crumpet», disse Martin. «A bere tè e mangiare crumpet!», Hitler continuò infuriato. «Ma noi daremo loro qualcosa di speciale da masticare, vero Martin?» «Sì, mein Fürher», rispose il segretario. Hitler borbottò e si spostò verso un'altra mappa, che riguardava una faccenda più immediata; mostrava il percorso dell'ondata slava che minacciava di rompere gli argini in Russia e di rovesciare il sudiciume di cui era composta nella zona della Polonia occupata dai tedeschi e in Romania. Piccoli cerchi rossi mostravano sacche di divisioni tedesche intrappolate, ciascuna formata da quindicimila uomini, che si assottigliavano lentamente. «Voglio altre due divisioni corazzate qui». Hitler toccò uno dei punti di pressione, dove in quel momento, a centinaia di chilometri di distanza, soldati tedeschi combattevano contro l'attacco dei russi per aver salva la vita. «Le voglio pronte a combattere nel giro di ventiquattr'ore». «Sì, mein Fürher». Trentamila uomini e quasi trecento carri armati, pensò Martin. Da dove sarebbero arrivati? I generali a ovest avrebbero sbraitato se avessero perso altre truppe, e quelli all'Est erano troppo impegnati per occuparsi di ulteriori scartoffie. Be', da qualche parte si sarebbero trovati uomini e carri armati. Era la volontà del Fürher. Punto. «Sono stanco», disse Hitler. «Credo che adesso riuscirò a dormire. Chiudi tutto, per favore». Camminò faticosamente fuori dall'ufficio e lungo il corridoio, un piccolo uomo con indosso una vestaglia. Anche Martin era stanco: era stata una giornata molto lunga. Lo erano tutte. Prima di spegnere la lampada della scrivania, girò intorno al tavolo e sollevò il dipinto della casa colonica con la sbavatura scura che formava un'ombra. La guardò a lungo e intensamente nell'oscurità. Forse... solo forse... quello era davvero un lupo, che si avvicinava furtivo all'angolo dell'edificio. Sì, adesso Martin riusciva a vederlo. Era proprio lì, dove il Fürher aveva indicato. Un presagio. Martin ripose il dipinto sul cavalletto. Hitler probabilmente non l'avrebbe mai più toccato, e chissà dove sarebbero finiti tutti quei quadri? Il lupo era lì. Più Martin guardava, più l'immagine diventava chiara. Il Fürher era sempre il primo a vedere quei presagi, e naturalmente questo faceva parte della sua magia. Martin Bormann spense la lampada, chiuse a chiave la porta dell'ufficio e camminò nel lungo corridoio fino al suo appartamento. Nella camera da
letto, sua moglie Gerda dormiva profondamente, con un dipinto di Hitler sulla parete sopra la sua testa. 7. «Maggiore Gallatin?», disse il copilota dai capelli neri alzando la voce sopra il rombo soffocato dei propulsori. «Sei minuti alla zona di lancio!» Michael annuì e si alzò in piedi, con le labbra serrate sul volto serio. Agganciò il moschettone del cavo di dispiegamento intorno al binario che passava sopra la sua testa per tutta la lunghezza del velivolo di trasporto e camminò fino al portello chiuso. Sopra c'era una fioca luce rossa di avvertimento, che soffondeva di cremisi l'interno dell'aereo. Era il 26 marzo e l'orologio da polso di Michael segnava le due e diciannove minuti. Cercò di isolarsi mentalmente dagli sbandamenti e dai dondolii del C-45 e cominciò a esaminare i nastri della sacca che conteneva il paracadute, assicurandosi che fossero agganciati con eguale pressione a entrambi i lati dell'inguine. Un nastro che si stringeva sui testicoli a quasi mille piedi di altezza non rappresentava propriamente il suo ideale di esperienza piacevole. Controllò le fibbie delle cinghie sul petto e poi il lembo superiore della sacca, accertandosi che niente ingarbugliasse le funi mentre il paracadute fluttuava gonfiato dal vento. Doveva essere un paracadute nero, dato che c'era semilunio. «Tre minuti, maggiore», disse l'educato copilota, un ragazzo del New Jersey. «Grazie». Michael sentì l'aereo virare gentilmente a destra, con il pilota che correggeva la rotta per evitare i riflettori o una postazione antiaerea. Michael respirò lentamente e profondamente, osservando il bulbo rosso sopra il portello. Il cuore gli batteva forte e il sudore bagnava l'interno della sua tuta verde scura. Indossava un berretto nero di maglia e aveva il viso imbrattato con pittura da mimetizzazione nera e verde. Sperò che si lavasse via facilmente, perché avrebbe attirato l'attenzione sull'avenue des Champs Élysées. Attaccato al corpo con una cinghia c'era un sacchetto contenente una lama pieghevole, un coltello con il bordo dentellato, una 45 automatica e alcuni proiettili. C'era anche una scatoletta, chiusa con una lampo nella sua giacca, con dentro due barre di cioccolato e della carne di manzo essiccata e salata. Immaginò che il calore del suo corpo ormai avesse già fatto sciogliere il cioccolato.
«Un minuto». La luce rossa si spense. Il ragazzo del New Jersey tirò un saliscendi e il portello del C-45 si aprì scivolando, lasciando entrare il vento, che sembrava urlare. Michael avanzò immediatamente in posizione, mettendo gli stivali sul bordo e puntellando le braccia ai fianchi del portello. Sotto di lui si estendeva una pianura nera che poteva essere una foresta fitta o un oceano insondabile. «Trenta secondi!», urlò il copilota superando il rumore del vento e dell'elica. Qualcosa luccicò molto più in basso. Il respiro di Michael diventò corto. Un altro bagliore: una lingua di luce che si alzava dalla terra e perlustrava il cielo. «Accidenti», disse l'altro uomo. Il riflettore piegò verso l'alto. Hanno sentito il nostro motore, si rese conto Michael. Adesso sono in caccia. La luce si mosse in varie direzioni, e il suo raggio tagliava l'oscurità a meno di cento piedi sotto gli stivali di Gallatin. Lui era pronto, ma gli si stringevano le budella. Ci fu un'esplosione rossa a sinistra del riflettore, seguita da un rombo e da un lampo bianco a circa cinque o seicento piedi sopra il C-45. L'aereo tremò per l'onda d'urto, ma rimase in rotta. Un secondo proiettile antiaereo esplose più in alto e più a destra, ma il riflettore stava tornando indietro per fare un altro passaggio. Il ragazzo del New Jersey, con il volto pallido, afferrò la spalla di Michael. «Maggiore, siamo fottuti!», urlò. «Vuole annullare il lancio?» L'aereo stava acquistando velocità e stava per fare una virata repentina per allontanarsi dalla zona. Michael sapeva che non c'era tempo per pensare. «Vado», rispose e saltò dal portello con il sudore che gli scorreva sul viso. Piombò nell'oscurità, con il cuore gonfio e lo stomaco che gli arrivava all'addome. Serrò i denti, le braccia incrociate a stringere i gomiti. Sentì il sibilo dell'aereo che passava e poi un colpo da slogare le ossa quando il cavo di dispiegamento venne tirato, e il paracadute uscì dalla sacca con un pop debole, quasi gentile. Quando il paracadute si aprì, la rapidissima discesa di Michael Gallatin venne frenata. Gli sembrò che i suoi organi interni, i muscoli e le ossa si trovassero in brutale collisione fra loro, con le rotule che scattarono tanto in alto da arrivare quasi a colpirlo al mento. Poi l'uomo drizzò le gambe e afferrò le funi principali del paracadute, con il cuore che ancora batteva all'impazzata per l'impatto con l'aria. Sentì un'altra esplosione proveniente dal cannone antiaereo, che però finì in alto e a destra, e non corse alcun pericolo di venire colpito dalle schegge. Il
riflettore virò verso di lui, si fermò e cominciò a ruotare di nuovo in direzione opposta, alla caccia dell'intruso. Michael guardò verso la terra scura sottostante, alla ricerca del segnale che sapeva doversi aspettare. Ricordò che doveva arrivare dall'Est. La mezza luna era sopra la sua spalla sinistra. Si girò lentamente sotto la seta gonfiata ed esaminò il terreno. Eccola! Una luce verde... intermittente, che disegnò un rapido tatuaggio. Poi di nuovo l'oscurità. Guidò il paracadute verso la luce e alzò lo sguardo per assicurarsi che le funi fossero tutte libere. Il paracadute era bianco. Maledizione! pensò. Conta pure sul servizio di rifornimento, per rovinare tutto! Se un soldato tedesco a terra avesse notato il paracadute bianco, Michael se la sarebbe vista molto brutta. La squadra del riflettore probabilmente aveva già chiesto via radio una macchina da ricognizione o una pattuglia di motociclisti. Adesso non soltanto era in pericolo lui, ma anche la persona che gli aveva segnalato con la luce verde intermittente. Chiunque fosse. Il cannone antiaereo si fece di nuovo sentire, il rombo di un tuono lontano. Ma il C-47 era già sparito da molto tempo, diretto di nuovo in Inghilterra attraverso la Manica. Michael augurò buona fortuna ai due americani e rivolse la sua attenzione alle difficoltà che si trovava ad affrontare. Per adesso non poteva far altro che cadere. Al momento di toccare terra sarebbe stato pronto all'azione, ma per ora ondeggiava alla mercé di un paracadute bianco. Michael alzò lo sguardo, ascoltando il sibilo del vento tra le pieghe della seta. Gli risvegliò un ricordo... tanto tempo prima... un mondo e una vita... tanto tempo prima, quando conosceva l'innocenza. Improvvisamente, in un lampo di memoria, il cielo diventò azzurrissimo e sopra la sua testa non c'era più un paracadute bianco, ma un aquilone di seta bianca, che si srotolava dalla sua mano per prendere il vento della Russia. «Mikhail! Mikhail!», chiamava una voce di donna, in un campo pieno di fiori gialli. E Mikhail Gallatinov, che aveva otto anni ed era ancora del tutto umano, sorrideva con il sole di maggio sul viso. Il palazzo bianco l.
«Mikhail!», chiamava la donna da lontano, nel passato. «Mikhail, dove sei?» Un attimo dopo Elana Gallatinov vide l'aquilone, poi i suoi occhi verdi scorsero il figlio, in piedi all'estremità più lontana del prato, al limitare della fitta foresta. In quel giorno, il 21 maggio 1918, la brezza soffiava da est e portava con sé un debole odore di polvere da sparo. «Vieni a casa!», disse al bambino; poi lo osservò mentre la salutava con la mano e cominciava a riavvolgere il filo dell'aquilone, che si tuffò verso il basso come un pesce bianco. Dietro la donna alta dai capelli neri, la cui pelle era del colore della porcellana, si stagliava la dimora dei Gallatinov: un edificio a due piani di pietre russe marroni, con un tetto rosso e molto ripido costellato di comignoli. Intorno alla casa crescevano grossi girasoli; un viale d'accesso di ghiaia partiva dalla dimora, attraversava i cancelli di ferro e si congiungeva alla strada di terra che portava al villaggio più vicino, Moroc, quasi nove chilometri a sud. La città più vicina era Minsk, a più di settanta chilometri a nord, e le strade per raggiungerla erano tutte sterrate. La Russia era una nazione molto vasta e la casa del generale Fëdor Gallatinov era un granello di polvere sulla testa di uno spillo. Ma i quattordici acri di prati e boschi erano il mondo dei Gallatinov, e lo erano stati da quando lo zar Nicola il aveva abdicato, il 2 marzo del 1917. E con le ultime parole dello zar nella sua dichiarazione di abdicazione - «Possa il Signore Dio aiutare la Russia!» - la madrepatria si era trasformata in un'assassina dei suoi figli. Ma il giovane Mikhail non sapeva niente di politica, dei Rossi che combattevano i Bianchi e di uomini freddi e spietati di nome Lenin e Trotskij. Fortunatamente il bambino non sapeva niente dei villaggi rasi al suolo da fazioni rivali a meno di centocinquanta chilometri di distanza da dove lui riavvolgeva un aquilone di seta; non sapeva niente della carestia, né di donne e bambini che si contorcevano in preda agli spasmi quando venivano appesi agli alberi, né di canne di fucili macchiate da pezzi di cervello. Sapeva che suo padre era un eroe di una guerra, che sua madre era bella, che a volte sua sorella gli pizzicava le guance e lo chiamava straccione, e che quella era la giornata di un picnic tanto atteso. Recuperò l'aquilone, lottando con il vento, e poi lo strinse gentilmente fra le braccia e corse attraverso il prato, in direzione di sua madre. Però Elana sapeva le cose che suo figlio ignorava. Aveva trentasette anni, indossava un lungo vestito bianco di lino primaverile, e il grigio aveva cominciato a spuntarle sulla fronte e sulle tempie. Intorno agli occhi e agli
angoli della bocca si erano delineate rughe profonde, non dovute all'età ma a un costante tumulto interiore. Fëdor era stato lontano alla guerra per troppo tempo ed era rimasto gravemente ferito in una piccola zona paludosa che si chiamava Kowel, dov'era avvenuto un eccidio. Ormai erano finiti le opere liriche e i festival pieni di luminarie di San Pietroburgo; erano spariti i rumorosi mercati di strada di Mosca; erano cessati i banchetti e le feste nei giardini reali dello zar Nicola e della zarina Alexandra, e nelle loro ombre erano rimasti gli scheletri del futuro. «L'ho fatto volare, madre!», urlò Mikhail quando le si avvicinò. «Hai visto quanto in alto?» «Oh, quello era il tuo aquilone?», chiese lei, con finta sorpresa. «Credevo che fosse una nuvola legata a una corda!» Lui capì che lo stava prendendo in giro. «Era il mio aquilone!», insistette; la madre gli prese la mano e disse: «Adesso sarà bene che tu scenda sulla terra, mia piccola nuvola. Dobbiamo andare al picnic». Gli strinse la mano - il bambino era caldo come la fiamma di una candela - e lo guidò verso casa. Nel viale d'accesso c'erano la carrozza e due cavalli che l'uomo di fatica aveva portato dalla stalla, mentre la dodicenne Alizia stava uscendo dalla porta d'ingresso con in mano uno dei cestini di vimini per il picnic. La domestica e Sophie, la compagna di cucito di Elana, portarono fuori l'altro cestino e aiutarono Alizia a sistemarli sul retro della carrozza. Poi dalla casa uscì Fëdor, con una coperta marrone arrotolata sotto un braccio; con l'altra mano si manteneva in equilibrio aiutato da un bastone con l'impugnatura a forma di aquila. La gamba destra, dilaniata dai proiettili di una mitragliatrice, era rigida e percettibilmente più magra della sinistra, ma l'uomo aveva imparato a muoversi con grazia; mentre adagiava la coperta sul retro della carrozza, sollevò il viso incorniciato dalla barba grigia e guardò il sole. Dopo tutti quegli anni, Elana sentiva ancora il battito del cuore accelerare quando lo guardava. Era un uomo alto e snello, con il fisico di uno spadaccino, e anche se aveva quarantasei anni e il suo corpo portava cicatrici di stocchi e ferite di proiettili, aveva un aspetto giovanile e possedeva una curiosità e un'energia vitale che a volte la facevano sentire vecchia. Il viso di Fëdor, con il naso lungo e sottile, la mascella quadrata e gli occhi marroni infossati, era un tempo più duro e aspro, il volto di un uomo che aveva raggiunto spesso i suoi limiti. Adesso però si era addolcito grazie alla nuova realtà che viveva: era in pensione dal servizio alla madrepatria, e avrebbe vissuto gli anni che gli restavano lì, su quell'appezzamento di terra lon-
tano dal centro del tumulto. Il suo pensionamento forzato, dopo l'abdicazione dello zar, non aveva rappresentato una pillola facile da inghiottire, ma adesso che si era sciolta lui si sentiva stordito, come un relitto a cui mancava una parte. «Che bella giornata», disse l'uomo mentre osservava il vento soffiare attraverso gli alberi. Indossava la sua uniforme marrone, accuratamente stirata, con appuntato un gran numero di medaglie e nastri, e sulla testa aveva il berretto con la visiera nera che ancora recava il sigillo dello zar Nicola II. «Ho fatto volare l'aquilone!», disse Mikhail a suo padre, pieno d'entusiasmo. «L'ho fatto salire quasi fino al cielo!» «Bravo», rispose Gallatinov e allungò una mano verso Alizia. «Mio angelo dorato. Aiutami a salire, per favore». Elana osservò Alizia aiutare il padre a entrare nella carrozza, mentre Mikhail era in piedi con l'aquilone tra le braccia. La donna toccò la spalla di suo figlio. «Vieni, Mikhail. Assicuriamoci di aver preso tutto». Misero anche l'aquilone sul retro del veicolo e Dimitri chiuse con un paletto il coperchio del baule. Poi Elana e Mikhail si misero seduti davanti a Fëdor e Alizia, nell'interno rivestito di velluto rosso, e salutarono con un cenno della mano Sophie, mentre Dimitri schioccava le redini e i due cavalli sauri cominciavano il loro viaggio. Mikhail guardò fuori dal finestrino ovale mentre Alizia disegnava e i loro genitori parlavano di cose che lui ricordava appena: il festival di primavera a San Pietroburgo, il palazzo in cui vivevano quando lui era nato, persone i cui nomi erano familiari solo perché li aveva sentiti in precedenza. Osservò il terreno leggermente ondulato lasciare spazio alle foreste di querce gigantesche e ai sempreverdi, ascoltò il cigolio delle ruote e il debole tintinnio delle tirelle dei cavalli. Il dolce profumo dei fiori di campo fluttuò nella carrozza, mentre passavano un prato in fiore; Alizia sollevò lo sguardo dal suo disegno quando Mikhail scorse un gruppo di cervi al limitare del bosco. Il bambino era rimasto chiuso in casa da metà ottobre fino alla fine di aprile, seguendo pazientemente le lezioni che Magda - la tutrice dei due bambini - gli impartiva, e svolgendo i compiti. Adesso i sensi di Mikhail insorgevano con l'inizio inebriante della primavera. Il grigiore dell'inverno era stato bandito dalla terra, almeno per un po', e il mondo del bambino indossava bellissimi vestiti verdi. Il picnic di maggio rappresentava un'escursione annuale, un rituale che li collegava alle loro vite a San Pietroburgo. Quell'anno Dimitri aveva trova-
to per loro un ottimo posto, sulle sponde di un lago a circa un'ora di viaggio dalla casa dei Gallatinov. Il lago era blu e increspato dal vento; mentre Dimitri portava la carrozza in un prato, Mikhail sentì i corvi gracchiare in cima a una quercia gigantesca e nodosa. Il lago era circondato da una foresta e la sua distesa color smeraldo non era interrotta da villaggi né abitazioni per centocinquanta chilometri a nord, sud e ovest. Dimitri arrestò la carrozza e ne puntellò le ruote con una zeppa, poi lasciò abbeverare i cavalli all'acqua del lago, mentre i Gallatinov scaricavano i cestini per il picnic e distendevano la coperta in un punto del prato che dava sul lago blu. Mangiarono il loro pasto composto da prosciutto arrosto, patate fritte, pane nero di frumento e torta allo zenzero con la glassa di zucchero. Una delle cavalle scalciò e saltò nervosa per qualche momento, ma Dimitri la fece calmare; Fëdor si mise seduto a guardare verso il bosco. «Sente l'odore di un qualcosa di selvaggio», disse a Elana mentre versava a entrambi un bicchiere di vino rosso. «Bambini!», ammonì. «Non allontanatevi troppo da noi!» «Sì, padre», disse Alizia, che però si stava già togliendo le scarpe e sollevando l'orlo del vestitino rosa per andare a sguazzare nell'acqua. Mikhail scese al lago con lei e andò alla ricerca di belle pietre, mentre la sorella scalpicciava nelle acque basse. Dimitri era in piedi lì vicino, seduto su un albero caduto a osservare le nuvole che scivolavano via silenziose, con una carabina al fianco. L'incantevole pomeriggio passò. Con le tasche piene di pietre, Mikhail si adagiò sul prato soleggiato e osservò i suoi genitori che parlavano, seduti insieme sulla coperta del picnic. Alizia giaceva accanto al padre e dormiva; ogni tanto la mano dell'uomo si muoveva per toccarle un braccio o una spalla. Improvvisamente Mikhail si rese conto che la mano di suo padre non l'aveva mai sfiorato. Non sapeva il perché, né capiva il motivo per cui gli occhi di suo padre diventavano gelidi come il mese di gennaio, quando incontravano i suoi. A volte il bambino si sentiva un piccolo essere che viveva sotto una roccia, altre volte non gli importava; ma sentiva sempre un dolore acuto nel profondo del cuore. Dopo un po', la madre posò il capo sulla spalla del padre, e la coppia dormì al sole. Mikhail guardò un corvo circolare sopra le loro teste, con il luccichio blu del lago che si tingeva di nero sulle ali dell'animale; poi il bambino si alzò in piedi e andò fino alla carrozza per prendere l'aquilone. Corse avanti e indietro, lasciando che il filo gli si srotolasse tra le dita; una brezza catturò la seta e la gonfiò, e l'aquilone veleggiò fluido nell'aria.
Mikhail cominciò a gridare verso i suoi genitori, ma dormivano entrambi. Anche Alizia stava dormendo, con la schiena premuta contro il fianco del padre. Dimitri era seduto sull'albero caduto, immerso nei suoi pensieri, con il fucile appoggiato sulle ginocchia. L'aquilone fluttuò ancora più in alto. Il filo continuò a svolgersi. Mikhail spostò le dita per avere una presa migliore. La brezza era forte oltre le cime degli alberi; ghermì l'aquilone, lo scagliò a destra e a sinistra e fece suonare il filo come la corda di un mandolino. L'aquilone continuava a salire ancora più in alto - troppo, decise in quel momento il bambino. Cominciò a riavvolgere il filo. Poi il vento colpì l'aquilone da una strana angolazione, lo sollevò e lo rovesciò allo stesso tempo, e il filo si tese eccessivamente e si spezzò a circa due metri sopra l'asticella del legno di balsa. Oh, no! fu sul punto di gridare il bambino. L'aquilone era stato un regalo della madre per il suo ottavo compleanno, il 7 marzo. E adesso stava volando via in balia del vento, sopra le cime degli alberi, verso la fitta foresta. Oh, no! Guardò verso Dimitri e cominciò a gridare per avere aiuto. Ma l'uomo di fatica aveva le mani premute contro il viso, come se in preda a un'agonia personale. Gli altri membri della famiglia dormivano e Mikhail pensò a quanto il padre detestasse venire svegliato mentre faceva un pisolino. Dopo qualche attimo l'aquilone sarebbe finito sopra la foresta e quindi la decisione se restare lì a guardarlo andare via o seguirlo, nella speranza che cadesse quando il vento fosse calato, doveva essere presa subito. Bambini! ricordò le parole di suo padre. Non allontanatevi troppo! Ma quello era il suo aquilone, e perdendolo avrebbe spezzato il cuore di sua madre. Guardò di nuovo verso Dimitri: l'uomo non si era mosso. Stavano scorrendo secondi preziosi. Mikhail si decise. Attraversò di corsa il prato e si infilò nel bosco. Alzò lo sguardo, riuscendo a intravedere l'aquilone tra le foglie verdi e l'intreccio dei rami. Mentre seguiva gli spostamenti erratici del giocattolo di seta bianca, tirò fuori una manciata di pietre lisce dalla tasca e la lasciò cadere a terra per segnare il sentiero da seguire al ritorno. L'aquilone continuò ad andare avanti, e così fece anche il bambino. Meno di due minuti dopo che Mikhail aveva lasciato il prato, tre uomini a dorso di cavallo giunsero al lago dalla strada principale. Indossavano tutti vestiti scuri e rappezzati da contadini. Uno di loro portava un fucile appeso intorno alla spalla; gli altri due erano armati con pistole, che tenevano infilate nelle cartucciere. Continuarono ad avanzare fino al punto in cui la famiglia Gallatinov dormiva al sole; quando uno dei cavalli sbuffò e
nitrì debolmente, Dimitri si guardò intorno e si alzò in piedi, mentre alcune gocce di sudore gli luccicavano sul viso. 2. Fëdor Gallatinov si svegliò quando tre ombre caddero su di lui. Sbatté le palpebre, vide i cavalli e i cavalieri, e mentre si alzava a sedere si svegliò anche Elana. Alizia guardò in alto, strofinandosi gli occhi. «Buon pomeriggio, generale Gallatinov», disse il capo dei cavalieri, un uomo con il viso lungo e magro e delle folte sopracciglia rosse. «Non ti vedo dai tempi di Kowel». «Kowel? Chi... chi sei?» «Io ero il tenente Sergei Schedrin. Dell'Armata della Guardia. Forse non ti ricordi di me, ma sicuramente ricordi Kowel». «Certo che la ricordo. Tutti i giorni della mia vita». Gallatinov si alzò in piedi a fatica, appoggiandosi al bastone. Il suo viso era diventato rosso per la rabbia. «Cosa significa tutto questo, tenente Schedrin?» «Oh, no». L'altro uomo tese un dito e lo mosse avanti e indietro. «Adesso sono semplicemente il compagno Schedrin. Anche i miei amici Anton e Danalov erano a Kowel». Lo sguardo di Gallatinov guizzò verso i loro volti: quello di Anton era largo e con le guance pesanti, mentre quello di Danalov aveva la cicatrice di un colpo di baionetta che partiva dal sopracciglio sinistro e arrivava fino all'attaccatura dei capelli. I loro occhi erano freddi e leggermente curiosi, come se stessero esaminando un insetto sotto una lente d'ingrandimento. «Abbiamo portato con noi anche il resto della nostra compagnia», aggiunse Schedrin. «Il resto della vostra compagnia?» Gallatinov scosse la testa, non comprendendo le parole dell'uomo. «Ascolta!» Schedrin piegò la testa da un lato, mentre il vento gemeva tra gli alberi. «Eccoli, stanno sussurrando. Senti quello che dicono: "Giustizia. Giustizia". Li senti, generale?» «Stiamo facendo un picnic», disse Gallatinov in tono deciso. «Gradirei che ve ne andaste, signori». «Sì», replicò Schedrin. «Sono sicuro che lo gradiresti. Hai davvero una bella famiglia». «Dimitri!», gridò il generale. «Dimitri, spara un colpo di avvertimento sopra...» Si girò verso l'uomo di fatica, ma ciò che vide gli strinse il cuore in una morsa di ferro.
Dimitri era a circa quindici metri di distanza e non aveva ancora armato il fucile, né l'aveva alzato in posizione di sparo. Fissava il terreno, con le spalle curve. «Dimitri!», gridò un'altra volta Gallatinov, ma sapeva che non avrebbe avuto risposta. Gli si seccò la gola e afferrò la mano gelida di Elana. «Grazie per averli portati qui, compagno Dimitri», gli disse Schedrin. «Il servizio che ci hai reso verrà ricordato e premiato». A Mikhail, che si spostava rapidamente nella foresta inseguendo l'aquilone, sembrò di sentire suo padre gridare. Il cuore gli batté forte: probabilmente si era svegliato e lo stava chiamando. Ben presto avrebbe ricevuto un bel po' di scudisciate. Ma l'aquilone stava scendendo e il filo si era impigliato nella cima di una quercia. Poi il vento lo liberò e il giocattolo di seta bianca si sollevò di nuovo. Mikhail continuò a seguirlo, facendosi strada tra la fitta boscaglia e morbide masse spugnose di foglie morte e muschio. Altri tre metri, altri sei, altri dieci. Dei rovi gli si impigliarono nei capelli; si liberò con uno strattone, chinò la testa sotto i rami spinosi e lasciò cadere a terra un altro ciottolo per segnare la strada del ritorno. L'aquilone si tuffò in picchiata, cadde tra i rami di un sempreverde e tornò beffardo a volare libero. Poi salì di nuovo in alto nel cielo azzurro; Mikhail lo guardò allontanarsi, con il volto punteggiato da sole e ombra. Qualcosa si mosse nel sottobosco, a meno di tre metri sulla sinistra. Il ragazzino rimase perfettamente immobile mentre l'aquilone prendeva velocità e volava via. Ciò che si era mosso adesso era in silenzio, qualunque cosa fosse. E aspettava. Ci fu un altro movimento, alla destra del bambino. Il leggero crepitio causato da un peso sulle foglie secche. Mikhail deglutì. Ebbe l'impulso di chiamare sua madre, ma era troppo lontana per sentirlo e non era il caso di provocare rumori forti. Silenzio completo, tranne il sibilo del vento tra gli alberi. Mikhail sentì il puzzo di un animale: era un fetore bestiale, di una creatura che aveva nell'alito carne putrefatta. Si sentì osservato da entrambi i lati da due animali e pensò che se fosse scappato gli sarebbero saltati addosso da dietro. Provò l'impulso di urlare e di fuggire a capofitto nel bosco, ma lo represse: non poteva cavarsela scappando. No, no. Un Gallatinov non fugge mai, gli aveva detto una volta suo padre. Mikhail sentì una goccia di sudore scivolargli lungo la schiena. Gli animali aspettavano una
sua decisione ed erano molto vicini. Si girò, con le gambe tremanti, e iniziò a tornare lentamente indietro, seguendo la pista di ciottoli. Un Gallatinov non fugge mai, pensò Fëdor. Il suo sguardo percorse rapidamente il prato. Mikhail. Dov'era Mikhail? «La nostra compagnia è stata massacrata a Kowel». Schedrin si sporse in avanti, stringendo il pomello della sella. «Massacrata», ripeté. «Ci ordinarono di attraversare a capofitto una palude e di lanciarci contro un nido di filo spinato e di mitragliatrici. Sicuramente lo ricordi». «Ricordo una guerra», rispose Gallatinov. «Ricordo tragedie che si susseguivano una dopo l'altra». «Per te fu una tragedia. Per noi fu un massacro. Ovviamente obbedimmo agli ordini. Eravamo buoni soldati dello zar. Come potevamo non farlo?» «Quel giorno obbedimmo tutti agli stessi ordini». «Sì, è vero», convenne Schedrin. «Ma alcuni obbedirono con il sangue di uomini innocenti. Le tue mani sono ancora rosse, generale. Vedo il sangue colare via». «Guarda meglio». Gallatinov avanzò spavaldo verso di lui, nonostante Elana tentasse di trattenerlo. «Su di esse c'è anche il mio sangue!» «Ah», annuì Schedrin. «È vero. Ma non abbastanza, secondo me». Elana ansimò. Anton aveva estratto la pistola dalla fondina e l'aveva puntata. «Falli andare via!», disse Alizia con gli occhi pieni di lacrime. «Ti prego, falli andare via!» Danalov estrasse la pistola e alzò il cane. Gallatinov si mise davanti alla moglie e alla figlia, con gli occhi scuri di rabbia. «Come osate puntare un'arma contro di me e la mia famiglia!» Sollevò il bastone. «Andate all'inferno, maledetti. Abbassate quelle pistole!» «Dobbiamo leggere un proclama», disse Schedrin imperterrito. Tolse dalla bisaccia un pezzo di carta arrotolato e l'aprì. «Al generale Fëdor Gallatinov, al servizio dello zar Nicola il, eroe» - sorrise debolmente - «di Kowel e comandante dell'Armata delle Guardie. Dai sopravvissuti dell'Armata, che soffrì e venne massacrata dall'incompetenza dello zar Nicola e della corte imperiale. Non potendo punire lo zar, puniremo te. E così il caso verrà chiuso con nostra piena soddisfazione». Gallatinov si rese conto di trovarsi davanti a un plotone d'esecuzione. Dio solo sapeva da quanto tempo gli davano la caccia. Si guardò rapidamente intorno: non c'era via di uscita. Mikhail. Dov'era il ragazzo? Il cuore gli batteva forte e aveva le mani sudate. Alizia cominciò a singhiozzare,
ma Elana rimase in silenzio. Gallatinov guardò le armi e gli occhi degli uomini che le puntavano. Non c'era via di scampo. «Lasciate andare la mia famiglia», chiese. «Nessun Gallatinov lascerà vivo questo posto», gli rispose Schedrin. «Comprendiamo quanto sia importante eseguire bene un compito. Compagno, considera questa... la tua Kowel personale». Slacciò il fucile e fece scattare l'otturatore per inserire un proiettile. «Cani maledetti!», gridò il generale Gallatinov e fece un passo avanti, per colpire in viso Schedrin con il bastone. Anton gli sparò al petto prima che potesse riuscirci. Lo schiocco della pistola fece sobbalzare Elana e sua figlia, e il rumore riecheggiò nel prato come uno strano tuono. Un gruppetto di corvi saltò fuori dalla cima di un albero e spiccò il volo per mettersi al sicuro. Gallatinov venne scaraventato all'indietro dalla forza del proiettile e cadde in ginocchio sull'erba. Sul davanti dell'uniforme cominciò ad allargarsi una macchia cremisi. Il generale boccheggiò, senza trovare la forza di alzarsi in piedi. Elana urlò e si gettò accanto al marito, abbracciandolo come se potesse proteggerlo dalla pallottola successiva. Alizia si girò e iniziò a correre verso il lago; Danalov le sparò due volte alla schiena prima che si fosse allontanata di tre metri. La ragazzina cadde, un sacchetto di carne insanguinata e ossa spezzate. «No!», disse Gallatinov, facendo forza sulla gamba sana. Dalla bocca cominciava a colargli del sangue e i suoi occhi brillavano di terrore. Fece per alzarsi, con Elana ancora aggrappata a lui. Schedrin premette il grilletto del fucile e la pallottola colpì Gallatinov al volto. Frammenti di ossa e cervello schizzarono sul vestito di Elana. Il corpo agonizzante del generale cadde all'indietro, trascinando con sé la donna sopra i cestini da picnic, le bottiglie di vino e i piatti sporchi di briciole. Danalov sparò a Gallatinov nello stomaco; Anton gli ficcò altri due colpi in testa, mentre Elana continuava a urlare. «Oh, santo Dio», esclamò Dimitri con voce strozzata, poi corse alla riva del lago per vomitare. Mikhail sentì una serie di schiocchi sonori, seguiti da un urlo. Si fermò, come fecero anche le belve che lo seguivano. Si rese conto che era la voce di sua madre. Con il volto teso per la paura, cominciò a correre nella foresta, incurante del pericolo alle sue spalle. I rampicanti gli afferrarono la camicia e cercarono di farlo inciampare. Il
bambino seguì la pista di sassi nel sottobosco, scivolando con gli stivali sulle rocce coperte di muschio e affondando fino alla caviglia in pozze di foglie morte. Poi uscì dalla foresta, arrivò nel prato e vide tre uomini a cavallo e alcuni corpi scomposti a terra. Sull'erba verde brillava qualcosa di rosso. Mikhail sentì lo stomaco stringersi, le ginocchia bloccarsi e vide uno degli uomini far scattare l'otturatore del fucile e puntare l'arma contro sua... «Madre!», gridò; la sua voce riecheggiò con orrore nel prato. Anton e Danalov guardarono verso il bambino. Elana Gallatinov, in ginocchio, con il vestito bianco grondante sangue, lo vide e urlò: «Scappa, Mikhail! Scap...» Il proiettile la colpì in fronte, sotto l'attaccatura dei capelli. Mikhail vide la testa di sua madre esplodere. «Prendete il bambino!», ordinò Schedrin. Anton sollevò la pistola fumante. Mikhail fissò ipnotizzato l'occhio nero della canna dell'arma. Un Gallatinov non fugge mai, pensò. Vide il dito dell'uomo contrarsi sul grilletto. Uno schizzo di fuoco partì dalla canna; Mikhail udì un ronzio di vespa e sentì un calore sulla guancia sinistra. Un ramo si spezzò alle sue spalle. «Uccidilo, dannazione!», urlò Schedrin inserendo un'altra pallottola nel fucile e facendo voltare il cavallo. Danalov stava mirando contro Mikhail e Anton stava per far partire un secondo colpo. Un Gallatinov fuggì. Il bambino si girò rapidamente, con l'urlo della madre che gli risuonava nella testa, e scappò nella foresta, mentre una pallottola si piantava con un rumore smorzato in un albero alla sua destra, cospargendogli i capelli di schegge. Inciampò in un rampicante, barcollò e fu sul punto di cadere. Si udì lo schiocco roco di un colpo di fucile e il proiettile gli passò sopra la testa, mentre Mikhail cercava di mantenere l'equilibrio. E poi il bambino acquistò velocità, lanciandosi nel sottobosco, scivolando sulle foglie morte e lottando contro grovigli di rovi. Ruzzolò in un fosso, si rialzò, si arrampicò fuori e riprese a correre, dirigendosi nel cuore della foresta. «Andiamo!», disse Schedrin agli altri. «Non possiamo lasciarci sfuggire quel piccolo bastardo!» Piantò i tacchi nel fianco del cavallo ed entrò tra gli alberi, seguito da vicino da Anton e Danalov. Mikhail sentì il rombo degli zoccoli. Si arrampicò su una collina rocciosa e discese dall'altro lato, in parte correndo e in parte scivolando. «Lag-
giù!», sentì gridare uno degli uomini. «L'ho visto! Da questa parte!» I rovi frustavano il viso di Mikhail e gli strappavano la camicia. Ricacciò indietro le lacrime, continuando a correre. Risuonò uno sparo, che colpì il tronco di un albero a un metro e mezzo da lui. «Non sprecare proiettili, idiota!», ordinò Schedrin, intravedendo per un istante la schiena del bambino prima che i rami ne coprissero la fuga. Mikhail continuò a correre, con le spalle curve, aspettandosi da un momento all'altro l'impatto di una pallottola di piombo. I polmoni gli bruciavano e il cuore gli batteva all'impazzata nel petto. Osò gettare un'occhiata alle sue spalle. I cavalli e gli uomini lo inseguivano, sollevando una scia di foglie morte. Guardò di nuovo avanti, piegò a sinistra e si infilò nel sottobosco verde fitto di rampicanti. Il cavallo di Anton inciampò nella tana di uno scoiattolo. L'animale nitrì e cadde; il ginocchio destro di Anton picchiò contro una roccia aguzza e si spaccò in due come un frutto troppo maturo. L'uomo urlò di dolore, mentre il cavallo si contorceva nel tentativo si rialzarsi, ma Schedrin e Danalov continuarono l'inseguimento. Mikhail si fece strada nel sottobosco, scendendo in una valle coperta di verde. Sapeva benissimo cosa sarebbe successo se quegli assassini l'avessero catturato, così la paura gli metteva le ali ai piedi. Perse l'equilibrio su un letto di aghi di pino e scivolò in un punto in cui nell'ombra erano cresciuti dei funghi rossi. Si rialzò e riprese a correre; dietro di sé udì un cavallo nitrire e un uomo gridare: «È qui! Sta scendendo!» Davanti a lui si stagliava la fitta foresta, con i sempreverdi a formare una barriera, grosse spire di rovi e cespugli di bacche rosse. Si diresse nel punto più folto, sperando di potersi gettare tra i rovi e di riuscire a farsi strada fino al fondo, dove gli uomini a cavallo non avrebbero potuto seguirlo. Allungò le braccia, si aprì con le mani sanguinanti un varco tra le piante color smeraldo. .. e si trovò di fronte il muso di una belva. Era un lupo, con gli occhi castano scuro e il manto lucente color ruggine. Mikhail cadde all'indietro con la bocca aperta, ma l'urlo venne soffocato dallo shock. Il lupo spiccò un balzo. Spalancò le fauci e scavò con i denti dei solchi sulla spalla sinistra del ragazzo, gettandolo a terra. Il colpo tolse a Mikhail il fiato e la capacità di ragionare. I denti del lupo si chiusero sulla sua spalla e stavano per strapparne la carne e frantumarne le ossa, quando il cavallo con Sergei Schedrin in sella irruppe dai cespugli e si impennò, con gli occhi spalancati per il
terrore. L'uomo perse il fucile e gridò aggrappandosi al collo del cavallo, quando vide il lupo sotto i suoi stivali. L'animale lasciò la spalla di Mikhail, si girò con un movimento fluido ed elegante e azzannò il ventre del cavallo, che con un gemito strozzato scalciò furiosamente e cadde su un fianco, intrappolando sotto di sé le gambe di Schedrin. «Gesù Santo!», gridò Danalov, trattenendo il cavallo in cima alla collina. Due secondi dopo, il grande lupo grigio che lo stava seguendo balzò sul fianco dell'animale, aggrappandovisi con gli artigli per salire in sella, poi piantò le zanne dietro il collo di Danalov. Scosse l'uomo come una bambola di pezza, spezzandogli la spina dorsale, disarcionandolo e gettandolo a terra. Il cavallo si dimenò e cadde, rotolando giù dalla collina in un turbinio di foglie morte e aghi di pino. Un terzo lupo, biondo e con gli occhi azzurro ghiaccio, balzò in avanti e afferrò il braccio che Danalov stava agitando. Con un movimento selvaggio la belva strappò l'arto all'altezza del gomito; le ossa spezzate sbucarono dalla carne dell'uomo. Il corpo di Danalov sussultò e si dimenò. Il lupo grigio che l'aveva sbalzato di sella chiuse le fauci sulla gola e gli schiacciò la trachea con una singola, micidiale stretta. Mentre Schedrin lottava per districare le gambe, il lupo dal pelo rosso finì di sventrare il cavallo. Dall'ampio squarcio si riversarono fuori rotoli di intestini fumanti e l'animale strillò. Un'altra belva, di color bruno chiaro con striature di grigio, balzò fuori dai cespugli e atterrò sulla gola del cavallo, squarciandola con le zanne e gli artigli. Schedrin urlava - un suono acuto, stridulo - conficcando le dita nel terreno nel tentativo di liberarsi. Lì accanto Mikhail si drizzò a sedere, stordito e non del tutto cosciente, mentre dalla ferita alla spalla colavano sangue e saliva di lupo. In cima alla collina Anton sentì i rumori della lotta e si afferrò il ginocchio maciullato. Cercò di trascinarsi attraverso il boschetto, mentre il suo cavallo annaspava per rialzarsi sulla zampa spezzata. L'uomo era riuscito a percorrere a malapena due metri e mezzo - abbastanza per infiammargli allo spasimo ogni nervo del corpo - quando due lupi più piccoli, uno di colore bruno e l'altro rosso scuro, sbucarono insieme dai cespugli e gli afferrarono un polso ciascuno, spezzando le ossa con un rapido scatto della testa. Anton gridò invocando Dio, ma in quella foresta Dio aveva le zanne. I due lupi, agendo di concerto, gli fracassarono le spalle e la gabbia toracica. Poi l'animale dal pelo rosso lo afferrò alla gola, e la belva dal pelo
bruno scuro strinse le fauci intorno alla testa dell'uomo. Mentre Anton tremava e gemeva, ridotto a un involucro privo di volontà, gli animali gli schiacciarono la gola e gli spaccarono il cranio in due, come se fosse un vaso di coccio. Artigliando il terreno con le mani, Schedrin era riuscito in parte a liberarsi dal terribile peso che lo schiacciava. Mentre dagli occhi gli scendevano lacrime di terrore, si aggrappò a un piccolo alberello e continuò a tirare. L'alberello si spezzò. L'uomo sentì il fetore del sangue e un'ondata di calore nauseante sul viso, poi girò la testa e si trovò davanti le fauci della belva di colore bruno chiaro. Dalla bocca dell'animale colava del sangue. La bestia lo fissò negli occhi per circa tre secondi, e Schedrin singhiozzò: «Ti prego...» Il lupo balzò in avanti, afferrò tra le zanne la carne del viso e la strappò dal cranio, come se fosse una maschera. I muscoli rossi ormai scoperti danzarono e il teschio batté i denti. Il lupo piantò le zampe sulle spalle di Schedrin e inghiottì il volto lacerato dell'uomo, con un brivido di eccitazione. Gli occhi senza palpebre lo fissavano dal cranio insanguinato. Arrivò il lupo grigio, muscoloso e dalle spalle larghe, e spezzò il collo della preda. L'animale dal pelo color ruggine staccò la mandibola di Schedrin e strappò via la lingua penzolante. Poi il lupo di color bruno chiaro afferrò il cranio del morto, lo spezzò in due e si mise a banchettare. Mikhail gemeva piano, cercando disperatamente di restare cosciente, con i sensi brutalizzati. Il lupo color ruggine che gli aveva morso la spalla si girò verso di lui, cominciando ad avanzare. Arrivò a un metro dal bambino e si fermò, annusando l'aria per cogliere l'odore di Mikhail. I suoi occhi scuri fissarono il ragazzino in volto e ne incrociarono lo sguardo. Passarono i secondi. Mikhail, prossimo allo svenimento, lo fissò a sua volta, e nel delirio di dolore e shock pensò che la belva gli rivolgesse una domanda, che forse era: Vuoi morire? Mikhail, sostenendo lo sguardo penetrante dell'animale, allungò una mano di lato e prese un pezzo di ramo. Lo sollevò con mano tremante, pronto a colpire il lupo sulla testa quando lo avrebbe attaccato. Il lupo si fermò. Rimase immobile, i suoi occhi due voragini scure senza fondo. Poi l'animale grigio diede all'altro lupo un brusco colpetto alle costole, e quel momento ipnotico di morte si spezzò. Il lupo color ruggine sbatté le palpebre, grugnì un whuff - un suono che indicava che aveva capito - e si
allontanò per continuare a banchettare sui resti di Sergei Schedrin. Il lupo grigio frantumò lo sterno del cadavere e infilò il muso per estrarne il cuore. Mikhail stringeva il pezzo di legno talmente forte che le nocche della mano erano diventate bianche. In cima alla collina, uno degli animali che stavano divorando il cadavere di Anton emise un basso ululato, che crebbe rapidamente di intensità riecheggiando nella foresta e spaventando gli uccelli, che lasciarono gli alberi librandosi in volo. Il lupo biondo dagli occhi azzurri smise di masticare il torso maciullato di Danalov e sollevò la testa nel vento, rispondendo con un ululato che fece correre un brivido lungo la schiena di Mikhail e scacciò il dolore che gli annebbiava la mente. Anche l'animale color bruno chiaro prese a ululare, seguito da quello color ruggine, e tutti cantarono insieme in strana armonia con i musi sporchi di sangue. Alla fine il lupo grigio alzò la testa ed emise una nota lamentosa e discordante che zittì gli altri. Il suono tremolò, aumentò di forza e volume, cambiò tonalità e diventò più acuto. Poi il lupo grigio smise improvvisamente; tutti gli animali tornarono a occuparsi della carne di cavallo e di uomo. Da lontano giunse un ululato che durò circa quindici secondi, si affievolì e si spense. Negli occhi di Mikhail danzavano macchie scure. Si appoggiò una mano sulla spalla. Dalla ferita aperta si riusciva a vedere il tessuto muscolare, di un colore rosa brillante. Stava per gridare e chiamare i suoi genitori, quando le immagini dei cadaveri e della carneficina gli piombarono di nuovo nella mente e lo sconvolsero. Ma non al punto di impedirgli di rendersi conto che prima o poi il branco di lupi lo avrebbe fatto a pezzi. Quello non era un gioco. Non era una favola raccontatagli da sua madre alla luce dorata della lampada. Non era una fiaba di Hans Christian Andersen o di Esopo: quella era una questione di vita o di morte. Scrollò la testa per allontanare l'oscurità. Scappa, pensò. Un Gallatinov non fugge mai. Devo scappare... devo... Il lupo dal pelo bruno chiaro striato di grigio e quello biondo iniziarono a litigarsi i brandelli rossi del fegato di Danalov, azzannandosi l'un l'altro. Poi la bestia bionda si fece da parte, permettendo all'animale dominante di divorare i pezzi di carne. Il lupo grigio dalle spalle larghe stava facendo a brandelli i fianchi del cavallo. Mikhail si allontanò da loro lentamente, spingendosi all'indietro con gli stivali. Continuò a osservare gli animali, in attesa di un attacco; il lupo biondo lo fissò per un secondo, con gli occhi azzurri scintillanti, poi iniziò
a mangiare le interiora del cavallo. Mikhail si spinse all'interno del boschetto, con l'aria che gracchiava dai polmoni ad ogni respiro. In mezzo ai rovi e ai rampicanti verdi perse conoscenza e cadde nell'oscurità. Il pomeriggio passò. Il sole iniziò a calare. Ombre azzurre disegnarono merletti nella foresta e si formarono sacche di aria gelida. I cadaveri rimpicciolirono, ridotti a piccoli ammassi di carne. Il rumore delle ossa che si spezzavano era il fantasma del rumore dei colpi di pistola. Dai frammenti spuntava il midollo rosso. I lupi mangiarono a sazietà, poi si infilarono dei pezzi di carne in gola, per rigurgitarli più tardi. Con il ventre pieno, iniziarono ad allontanarsi tra le ombre che si allungavano. Tranne uno. Il grosso lupo grigio annusò l'aria e andò vicino al corpo del bambino. Accostò il naso alle ferite ancora sanguinanti sulla spalla di Mikhail e sentì l'odore penetrante del sangue mischiato a saliva di lupo. La belva rimase a lungo a fissare il volto del ragazzino, senza muoversi, come assorto in una meditazione solenne. Sospirò. Il sole era quasi scomparso. A est, dove l'imbrunire avanzava, vaghi puntini di stelle apparvero sulla foresta. Una luna crescente brillava sulla Russia. Il lupo si sporse in avanti e con il muso incrostato di sangue rovesciò il ragazzino sulla pancia. Mikhail gemette piano, si mosse, poi ricadde nell'incoscienza. Il lupo strinse delicatamente ma saldamente le fauci intorno al collo del bambino, sollevandone da terra il corpo con grande facilità. La bestia cominciò ad attraversare a grandi passi la foresta, guardando a destra e a sinistra con gli occhi color ambra, i sensi all'erta alla ricerca del nemico. Alle sue spalle, gli stivali del bambino strisciavano per terra, scavando solchi tra le foglie. 3. A un certo punto sentì da qualche parte un coro di ululati. Risuonarono nell'oscurità, sulla foresta e sulle colline, sul lago e sul prato in cui alcuni cadaveri giacevano tra i denti di leone. Il canto dei lupi divenne più forte, si spezzò in note discordanti e poi ricompose l'armonia. E Mikhail si ritrovò a gemere in una rozza imitazione dell'ululato, mentre il dolore gli tormentava il corpo. Sentiva il sudore scendergli sul viso, e le ferite gli bruciavano terribilmente. Cercò di aprire gli occhi, ma le palpebre erano in-
collate dalle lacrime asciutte. Nelle narici aveva l'odore di sangue e carne, e sentiva un fiato caldo sul viso. C'era accanto a lui qualcosa che emetteva un suono come di un mantice costante. L'oscurità misericordiosa si chiuse ancora una volta su di lui, e Mikhail scivolò tra le sue pieghe di velluto. Lo svegliò il dolce e acuto trillare degli uccelli. Sapeva di avere ripreso conoscenza, ma per un istante si chiese se fosse in paradiso. In quel caso, Dio non gli aveva guarito la spalla, né gli angeli gli avevano tolto dagli occhi le lacrime appiccicose con un bacio. Dovette quasi strapparsi le palpebre per riuscire ad aprirle. Luce solare e ombra. Pietre gelide e odore di argilla antica. Si alzò a sedere, con la spalla che gli faceva molto male. No, non era in paradiso, capì. Era ancora nell'inferno in cui era precipitato il giorno prima. Doveva essere passato almeno un giorno, pensò. La luce era quella dorata del sole mattutino, che splendeva tra l'intrico di rami e rampicanti che si vedeva da una grande finestra ovale senza vetro. I rampicanti erano penetrati all'interno e si erano attaccati al muro decorato da un mosaico, le cui figure - con in mano delle candele - erano sbiadite al punto da diventare dei fantasmi. Mikhail alzò lo sguardo, nonostante le proteste dei muscoli del collo, ancora rigidi e doloranti. Sopra di lui c'era un soffitto alto, attraversato da travi di legno. Era seduto sul pavimento di pietra di una stanza ampia; la luce del sole entrava da una serie di finestre, alcune delle quali conservavano frammenti di vetro rosso. Festoni di piante rampicanti, inebriate dal sole primaverile, decoravano le pareti e pendevano dal soffitto. Il ramo di una quercia era entrato da una delle finestre e alcuni piccioni tubavano tra le travi. Improvvisamente gli venne in mente che si trovava molto lontano da casa. Madre, pensò. Padre. Alizia. Il cuore batté con ritmo irregolare e nuove lacrime gli scesero sulle guance. Gli occhi gli bruciavano, come ustionati dalla vista di ciò a cui aveva assistito. Erano tutti morti. Tutti. Si dondolò, fissando nel vuoto. Tutti morti. Tutti. Ciao ciao. Piagnucolò e tirò su con il naso. Poi si drizzò di nuovo a sedere, la mente sconvolta dalla paura. I lupi. Dov'erano i lupi? Decise di restare seduto in quel posto. Ci sarebbe rimasto finché qualcuno non fosse venuto a prenderlo. Non sarebbe passato molto tempo. Sa-
rebbe sicuramente venuto qualcuno. Vero? Sentì una zaffata pungente e guardò alla sua destra. Sulla pietra coperta di muschio vicino a lui c'era un pezzo di carne sanguinolenta, forse di un fegato. Accanto c'erano una decina di mirtilli. I polmoni di Mikhail si bloccarono. Un urlo rimase sospeso nella sua gola serrata. Si allontanò velocemente dalla macabra offerta, emettendo un suono lamentoso e animalesco, trovò un angolo e vi si rannicchiò. Rabbrividì e vomitò i resti del picnic. Non sarebbe venuto nessuno, pensò. Mai. Cominciò a tremare e a gemere. I lupi erano stati lì e potevano tornare presto. Se voleva sopravvivere, doveva trovare il modo di andarsene da quel posto. Rimase seduto, rannicchiato e tremante, finché non fu in grado di costringersi ad alzarsi in piedi. Le gambe erano malferme e minacciavano di cedere. Ma poi Mikhail riuscì ad alzarsi completamente, con una mano premuta contro la ferita pulsante sulla spalla, e barcollando uscì dalla stanza: si trovò in un lungo corridoio decorato con altri mosaici e statue coperte di muschio, prive di testa o di braccia. Vide un'uscita alla sua sinistra e attraversò il portale. Si trovò in quello che doveva essere stato, anni - decenni - prima, un giardino. Era abbandonato e invaso da foglie morte e piante di verga d'oro, ma qui e là qualche fiore robusto era riuscito a spuntare dal terreno. C'erano altre statue, in posa come sentinelle mute. Nel punto di intersezione di alcuni sentieri c'era una fontana di pietra bianca, piena di acqua piovana. Mikhail si fermò, mise le mani a coppa nell'acqua e bevve. Poi ne versò un po' sul viso e sulla ferita che aveva sulla spalla: la pelle scorticata bruciò, facendolo lacrimare. Ma si morse il labbro inferiore e resistette, poi si guardò intorno per capire esattamente dove si trovasse. Il sole gettava luci e ombre sui muri e sulle torrette di un palazzo bianco. Le pietre erano del colore delle ossa sbiancate; i tetti dei minareti e delle cupole a bulbo avevano il colore verde chiaro del bronzo antico. Le torri del palazzo si allungavano tra le cime degli alberi. Scale di pietra salivano in spirale fino a delle piattaforme di osservazione. Quasi tutte le finestre erano state rotte, infrante da rami di quercia, ma ne rimanevano alcune: erano fatte di pannelli di vetro colorato, alcuni rosso scuro, altri blu, verde smeraldo, ocra e viola. Il palazzo, un regno abbandonato, aveva eretto mura di pietra bianca intorno al giardino ma non era riuscito a tenere fuori la foresta. In mezzo ai vialetti geometrici erano spuntate delle querce, che con il pugno brutale della natura avevano distrutto l'ordine creato dall'uo-
mo. Dalle crepe nei muri erano entrati i rampicanti, che avevano spostato pietre pesanti quaranta chili. Un cespuglio di prugnoli era spuntato sotto i piedi di una statua, rovesciandola e spezzandole il collo, poi aveva abbracciato la sua vittima. Mikhail camminò in quella verde devastazione e vide più avanti un portone piegato di bronzo. Vi si avvicinò barcollando e usò tutte le sue forze per aprire il pesante battente di metallo decorato. I cardini cigolarono. Si trovò davanti un altro muro, formato dalla foresta fitta. E in quel muro non c'erano portoni. Non c'erano sentieri che portavano a casa. C'erano solo alberi. Mikhail si rese subito conto che potevano estendersi per chilometri e in ogni chilometro avrebbe potuto trovare la morte. Gli uccelli cantavano, stupidamente felici. Mikhail sentì anche un altro suono: uno sventolio, stranamente familiare. Guardò verso il palazzo, alzando gli occhi verso le cime degli alberi. E lo vide. Il filo del suo aquilone si era arrotolato intorno alla piccola guglia in cima a una cupola a bulbo. Sventolava nella brezza come una bandiera bianca. Qualcosa si mosse a terra alla sua destra. Mikhail ansimò, fece un passo indietro e andò a sbattere contro il muro. A circa dieci metri da lui, dal lato opposto della fontana, c'era una ragazza con una tunica color fulvo. Era più grande di Alizia, probabilmente aveva quindici o sedici anni. Portava i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e fissò Mikhail per qualche secondo, con i suoi occhi azzurro ghiaccio: poi, senza dire una parola, andò fino al bordo della fontana, si chinò e accostò la bocca all'acqua. Mikhail la sentì bere con la lingua. La ragazza alzò gli occhi guardinga, poi riprese a lappare. Quindi si asciugò la bocca sull'avambraccio, si scostò i capelli biondi dal viso e si drizzò. Si girò e cominciò a tornare verso il portale da cui era entrato Mikhail. «Aspetta!», gridò il bambino. Lei non aspettò. Scomparve nel palazzo bianco. Mikhail era di nuovo solo. Doveva essere ancora addormentato, pensò. Un sogno aveva appena attraversato il suo campo visivo ed era tornato nel mondo del sonno. Ma il dolore pulsante alla spalla era molto reale, come anche quello provocato dalle altre contusioni. I suoi ricordi... anche quelli erano terribilmente reali. E decise che doveva esserlo anche la ragazza. Attraversò cauto il giardino abbandonato, un passo dopo l'altro, e tornò dentro il palazzo. La ragazza non c'era. «Ehi!», gridò Mikhail, in piedi in mezzo a un lungo corridoio. «Dove sei?» Nessuna risposta. Si allontanò dalla stanza in
cui si era svegliato. Trovò altre stanze, sotterranei con il soffitto alto, per la maggior parte senza mobili, alcuni con tavoli e panche di legno di fattura rozza. Una stanza sembrava essere un'enorme sala da pranzo, ma sui piatti e sulle coppe di peltro, che giacevano inutilizzati da tempo, scorrazzavano le lucertole. «Ehi!», continuò a gridare Mikhail, con voce sempre più debole man mano che le forze gli venivano a mancare. «Non ti farò del male!», promise. Entrò in un altro corridoio, buio e stretto, diretto verso il centro del palazzo. Dalle pietre umide gocciava acqua e sulle pareti, sul pavimento e sul soffitto era cresciuto del muschio verde. «Ehi!», gridò Mikhail; la sua voce si incrinò. «Dove sei?» «Proprio qui», arrivò la risposta alle sue spalle. Mikhail si girò di scatto, con il cuore che gli martellava, e si appiattì contro il muro. A parlare era stato un uomo snello con i capelli castano chiaro striati di grigio e una barba ispida. Indossava lo stesso tipo di tunica di colore fulvo della ragazza bionda: una pelle di animale, a cui era stato tolto il pelame. «Che cos'è tutto questo rumore?», chiese l'uomo, con tono leggermente irritato. «Io... non so... dove... sono». «Sei con noi», rispose lui, come se questo spiegasse tutto. Qualcuno arrivò alle spalle dell'uomo e lo toccò sulla spalla. «Questo è il nuovo bambino, Franco», disse una voce di donna. «Sii gentile». «È stata una tua scelta. Sii gentile tu. Come si fa a dormire con questo miagolio?» Franco ruttò, poi improvvisamente si girò e se ne andò, lasciando Mikhail con una donna bassa e rotondetta dai lunghi capelli rossicci. Era più vecchia di sua madre, stabilì il ragazzino. Il suo volto era segnato e coperto da una fitta rete di rughe. Il corpo robusto da contadina, con le braccia e le gambe massicce, era completamente diverso dalla figura slanciata di sua madre. Sotto le unghie di quella donna c'era il ricordo della terra. Anche lei indossava una tunica fatta di pelle di animale. «Il mio nome», disse la donna, «è Renati. E tu come ti chiami?» Mikhail non riuscì a rispondere. Si appiattì contro il muro coperto di muschio, troppo spaventato per muoversi. «Non ti morderò», disse Renati. Lo sguardo dei suoi languidi occhi castani guizzò rapidamente alle ferite sulla spalla del ragazzino, poi tornò sul suo volto. «Quanti anni hai?» «Sett...» No, non era esatto. «Otto», ricordò.
«Otto», ripeté Renati. «E che nome dovrei usare, se volessi cantarti una canzone di buon compleanno?» «Mikhail», rispose, poi sollevò leggermente il mento. «Mikhail Gallatinov». «Oh, sei un orgoglioso piccolo bastardo, vero?» La donna sorrise, mostrando denti irregolari ma molto bianchi; il suo era un sorriso riservato, anche se non privo di cordialità. «Be' Mikhail, qualcuno vuole vederti». «Chi?» «Qualcuno che risponderà alle tue domande. Vuoi sapere dove ti trovi, vero?» «Sono... in paradiso?», riuscì a chiedere. «Temo di no». Gli tese un braccio. «Vieni figliolo, camminiamo insieme». Mikhail esitò. La mano di lei aspettava la sua. I lupi! pensò. Dov'erano i lupi? Poi fece scivolare la mano in quella della donna; lei gliela strinse nel suo palmo ruvido e lo condusse ancora più all'interno del palazzo. Arrivarono a una scala di pietra, illuminata dai raggi di luce che penetravano da una finestra senza vetro. «Fai attenzione a dove metti i piedi», gli disse Renati; poi scesero la scala. Sotto, nell'oscurità fumosa, c'era un dedalo di corridoi e di stanze che odoravano di terra di cimitero. Qui e là bruciavano mucchietti di pigne, segnando un percorso attraverso le catacombe. Su entrambi i lati si vedevano delle cripte, con i nomi di chi vi era sepolto e le date di nascita e di morte offuscate dal tempo. Poi il bambino e la donna uscirono dalle catacombe ed entrarono in una sala più grande, con un focolare in cui scoppiettava un fuoco di ceppi di pino. Il fumo acre si spandeva nell'aria in cerca di un punto di sfogo. «Eccolo qui, Wiktor», annunciò Renati. Intorno al fuoco erano rannicchiate diverse figure, tutte con indosso quella che sembrava una tunica di pelle di daino. Si mossero e guardarono verso l'ingresso. Mikhail vide i loro occhi brillare. «Portalo più vicino», disse un uomo seduto su una sedia, ai margini della luce del focolare. Renati sentì il bambino rabbrividire. «Fatti coraggio», gli sussurrò; poi lo guidò avanti. 4. L'uomo di nome Wiktor era seduto e stava a guardare impassibile men-
tre il bambino veniva portato alla luce rossastra. Era avvolto in un mantello di pelle di cervo, con un alto colletto di pelliccia di lepre bianca. Indossava sandali di pelle di cervo e intorno alla gola portava una collana di piccole ossa allacciate insieme. Renati si fermò, con una mano sulla spalla sana di Mikhail. «Si chiama Mikhail», disse. «Il suo cognome è...» «Non ci interessano i cognomi qui», la interruppe Wiktor, con un tono di voce che indicava l'abitudine ad essere obbedito. I suoi occhi color ambra scintillavano del fuoco riflesso, mentre studiava attentamente il bambino dalla punta sporca degli stivali alla cima dei capelli neri arruffati. Contemporaneamente anche Mikhail esaminava colui che sembrava essere il re del sottobosco. Wiktor era un uomo grosso, con le spalle larghe e il collo taurino. Aveva una testa pelata a forma di ghianda e una barba grigia che gli attraversava il petto robusto, arrivandogli sullo stomaco. Il bambino vide che sotto il mantello non indossava vestiti. Il viso dell'uomo era increspato e costellato di linee dure; il naso era a punta e con le narici larghe. Gli occhi infossati guardavano Mikhail senza sbattere le palpebre. «È troppo piccolo, Renati», disse qualcun altro. «Rimandalo indietro». Si sentì una risata secca; il bambino guardò le altre figure. L'uomo che aveva parlato - un ragazzo lui stesso, di appena diciannove o vent'anni aveva i capelli rossi scuri lisciati all'indietro che gli arrivavano alle spalle. Era l'ultimo a dover parlare, perché aveva le ossa piccole e un aspetto molto fragile, tanto da risultare quasi inghiottito dal mantello che indossava. Accanto a lui sedeva una giovane donna magra, più o meno della stessa età, con capelli castani scuri ondulati e occhi grigi come il ferro. La ragazza dai capelli biondi sedeva davanti al fuoco e fissava Mikhail. Non lontano era rannicchiato un altro uomo, intorno ai quarant'anni, con i capelli neri e le fattezze asiatiche di un mongolo. Oltre il fuoco giaceva una figura rannicchiata sotto una coltre di mantelli. Wiktor si piegò in avanti. «Mikhail, dicci chi erano quegli uomini e come sei finito nella nostra foresta». La nostra foresta, pensò Mikhail. Era una strana cosa da dire. «Mia... madre e mio padre», sussurrò. «Mia sorella. Loro sono... tutti...» «Morti», disse Wiktor in tono piatto. «Assassinati, a quanto sembra. Hai parenti? Persone che ti verranno a cercare?» Dimitri, fu il suo primo pensiero. No, Dimitri era rimasto lì sulla riva del lago, con il fucile in mano, e non l'aveva alzato contro gli assassini. Quindi anche lui doveva essere uno di loro, anche se era rimasto in silenzio. Sophie? Non sarebbe venuta qui da sola. Dimitri avrebbe ucciso anche lei,
oppure anche quella donna era un'assassina? «Io non...» La voce di Mikhail si spezzò, ma il bambino si fece coraggio. «Penso di no, signore», rispose. «Signore», lo prese in giro il ragazzo dai capelli rossi, poi rise di nuovo. Lo sguardo di Wiktor guizzò da un lato, con gli occhi che brillavano come monete di rame; la risata cessò. «Raccontaci la tua storia, Mikhail», lo invitò l'uomo. «Noi...» Era una cosa difficile da fare. I ricordi erano taglienti come la lama di un rasoio e lo ferivano profondamente. «Noi... eravamo andati a fare un picnic», cominciò. Poi raccontò di un aquilone che veniva portato dal vento, di colpi d'arma da fuoco, della sua fuga nella foresta e dei lupi selvaggi. Lungo le guance gli cominciarono a scorrere le lacrime e il suo stomaco vuoto si rivoltò. «Mi sono svegliato qui», disse. «E... accanto a me... c'era una cosa sanguinolenta... penso che appartenesse a uno di quegli uomini». «Maledizione!», si accigliò Wiktor. «Belyi, ti avevo detto di cuocerlo!» «Ho dimenticato come si fa», rispose il giovane dai capelli rossi, scrollando le spalle. «Lo passi su un fuoco finché brucia! Questo evita che il sangue scorra via! Devo fare tutto io?» Wiktor guardò di nuovo Mikhail. «Ma hai mangiato le bacche, vero?» I mirtilli, ricordò Mikhail. Un'altra cosa strana... lui non aveva parlato di bacche. Come faceva Wiktor a sapere che erano lì? A meno che... «Non le hai toccate, vero?» L'uomo inarcò le folte sopracciglia grigie. «Be', forse non ti biasimo. Belyi è un idiota totale. Ma devi mangiare qualcosa, Mikhail. Mangiare è importante per la tua forza». Il bambino pensò di aver ansimato... o forse no. «Togliti la camicia», gli ordinò Wiktor. Prima che le dita intorpidite di Mikhail potessero trovare i piccoli bottoni di legno, Renati fece un passo avanti e li aprì. Tolse gentilmente il tessuto dai solchi che il bambino aveva nella spalla e gli sfilò la camicia. Poi sollevò l'indumento sporco, portandolo al naso, e inalò profondamente. Wiktor si alzò dalla sedia. Era alto quasi due metri e avanzò verso Mikhail come un gigante. Il bambino fece un passo indietro, ma Renati gli agguantò un braccio e lo tenne fermo. Wiktor gli afferrò la spalla ferita, non senza qualche difficoltà, e guardò i solchi incrostati che ancora stillavano sangue. «È brutta», disse alla donna. «Gli verrà un'infezione. Un po' più a fondo
e avrebbe perso l'uso del braccio. Sapevi cosa facevi?» «No», ammise lei. «Mi è solo sembrato buono da mangiare». «Allora hai una pessima mira». Wiktor premette la carne e Mikhail serrò i denti per soffocare un gemito. Gli occhi dell'uomo scintillarono. «Guardalo. Non fa il minimo rumore». Premette di nuovo le ferite, da cui uscì un liquido spesso che aveva un odore selvaggio e cattivo. Il bambino trattenne le lacrime. «Allora non ti dispiace soffrire un po', vero?», chiese Wiktor. «È un'ottima cosa». Lasciò la spalla del ragazzo. «Se diventi amico di qualcuno nel dolore, hai un amico per la vita». «Sì, signore», disse Mikhail con voce roca. Alzò lo sguardo verso l'uomo e vacillò. «Quando... quando posso andare a casa, per favore?» Wiktor ignorò la domanda. «Voglio presentarti gli altri, Mikhail. Conosci lo sciocco della compagnia, Belyi. Accanto a lui c'è sua sorella Pauli». Annuì in direzione della giovane magra. «Quella è Nikita». La mongola. «Davanti al fuoco c'è Alekza. Stai mostrando i denti, mia cara». La ragazza bionda accennò un sorriso... un sorriso famelico. «Credo che tu abbia già incontrato Franco. Preferisce dormire di sopra. Conosci Renati e conosci me». Si sentì tossire profondamente; Wiktor indicò la figura che giaceva sotto i mantelli. «Andrei non si sente bene oggi. Dev'essere qualcosa che ha mangiato». La tosse continuò e sia Nikita che Pauli si inginocchiarono accanto alla figura. «Vorrei andare a casa adesso, signore», insistette Mikhail. «Ah, sì». Wiktor annuì; il bambino vide lo sguardo dell'uomo offuscarsi. «La questione della casa». Tornò vicino al fuoco, dove si inginocchiò e offrì i palmi delle mani al calore. «Mikhail», disse in tono calmo mentre la tosse di Andrei si placava, «molto presto avrai...» Si interruppe, cercando le parole giuste. «Bisogno di... chiamiamola... una famiglia». «Io... ho una...» La voce del bambino si spezzò. La sua famiglia giaceva morta, nel prato. Le ferite sulla spalla gli pulsarono di nuovo. Wiktor allungò una mano nel fuoco e prese un pezzo di ramo incandescente, tenendolo nel punto in cui le fiamme non l'avevano ancora bruciato. «La verità è come il fuoco, Mikhail», disse. «Guarisce o distrugge. Ma non lascia mai mai - immutato ciò che tocca». Girò lentamente la testa e fissò il ragazzo. «Puoi sopportare le fiamme della verità, ragazzo?» Mikhail non rispose - non riuscì a farlo. «Credo che tu possa riuscirci», disse Wiktor. «Se non è così... allora sei già morto». Fece cadere il ramo nelle fiamme e si alzò in piedi. Si tolse i sandali e
levò le braccia muscolose da sotto il mantello, posandole sulle spalle del bambino. Poi chiuse gli occhi. «Fatti indietro». Renati diede uno strattone a Mikhail, con voce tesa. «Dagli spazio». Davanti al fuoco Alekza si sedette sulle anche, con i bei capelli biondi che le scendevano sulle gambe, scintillando come oro filato. Nikita e Pauli stavano a guardare, in ginocchio ai due lati di Andrei. Belyi si passò una mano sulle labbra, mentre il suo viso pallido era diventato arrossato e ansioso. Gli occhi di Wiktor si aprirono. Erano assenti, fissi su un punto lontano forse una zona selvaggia della mente. Il sudore scintillò sul viso e sul petto, come se l'uomo stesse cercando di sforzare qualcosa al suo interno. Mikhail disse: «Cosa...», ma Renati lo zittì rapidamente. Wiktor chiuse ancora una volta gli occhi. I muscoli delle spalle tremarono e il mantello di colore fulvo con il colletto di lepre bianca scivolò a terra. Poi l'uomo chinò il corpo in avanti, piegando la colonna vertebrale, e toccò terra con la punta delle dita. Emise un sospiro profondo, immediatamente seguito da un respiro. La sua barba pendeva fino a toccare il suolo. Nel giugno dell'anno prima, Mikhail e sua sorella erano andati in treno con i genitori a vedere un circo a Minsk. C'era un artista il cui bizzarro talento aveva colpito Mikhail. L'Uomo di Gomma si era piegato nella stessa posizione che adesso aveva assunto Wiktor e la sua colonna vertebrale si era allungata con secchi crepitii, come quando si schiacciano dei bastoncini. Quello stesso suono proveniva adesso dalla spina dorsale di Wiktor, ma dopo qualche secondo fu chiaro che, invece di allungarsi, il suo torace si stava comprimendo. Fasci di muscoli emersero intorno alla gabbia toracica e corsero lungo le cosce dell'uomo, come matasse vibranti di cavi di pianoforte. Il sudore gli brillava sulla schiena e sulle spalle, e una serie di peli sottili cominciò improvvisamente a formarsi e allungarsi sulla carne lucida, come nuvole che si muovono su un prato d'estate. Le spalle si piegarono in avanti, i muscoli si tesero verso l'alto sotto la pelle. Le ossa scoppiarono, producendo dei suoni vivaci, e si sentì il rumore dei tendini che si piegavano e poi si formavano di nuovo come cardini che stridevano. Mikhail fece un passo indietro, scontrandosi con Renati. Lei gli tenne il braccio; il bambino rimase in piedi a contemplare un demone dell'Ade combattere con la carne di un uomo. Peli grigi e corti emersero dalla testa, dalla nuca, dalle braccia, dalle natiche, dalle cosce e dai polpacci di Wiktor. Le guance e la fronte dell'uomo
si incresparono di peli, e la barba si avvinghiò intorno alla gola e al petto come una pianta di vite fantasmagorica. Perle di sudore colarono dal naso, che si spezzò e cominciò a cambiare forma, facendolo grugnire. Si portò le mani al viso; Mikhail vide la carne contorcersi sotto le dita coperte di peli grigi. Il bambino cercò di voltarsi e di scappare, ma Renati disse: «No!», e lo tenne con più forza. Non poteva sopportare oltre di guardare; sentiva che il cervello gli stava per esplodere, e ne sarebbe uscito del liquido nero come la melma di una palude. Sollevò una mano, mettendosi le dita sugli occhi... ma lasciò una fessura, attraverso cui osservò l'ombra di Wiktor contorcersi sulla parete alla tremolante luce del fuoco. L'ombra era ancora quella di un uomo, ma stava rapidamente cambiando. Mikhail non poteva tapparsi le orecchie... il crepitio delle ossa e lo stridio dei tendini stavano per farlo impazzire. L'aria fumosa aveva un odore fetido, come l'interno della gabbia di una bestia. Vide l'ombra contorta sollevare le braccia, come a supplicare. Si sentì un respiro rapido e leggero. Mikhail chiuse la fessura tra le dita. Il respiro cominciò a rallentare e a diventare più profondo, uno stridore roco. Poi, alla fine, si sentì il rombo regolare di un soffietto. «Guardalo», disse Renati. Lacrime di terrore gli rigarono gli occhi. Sussurrò: «No... ti prego... non costringermi!» «Non lo farò». Renati gli lasciò il braccio. «Guarda se scegli di farlo. Altrimenti... non guardare». Mikhail si tenne la mano sugli occhi. Il respiro simile a un soffietto si avvicinò. Il calore gli sfiorò le dita. Poi il rumore del respiro diminuì, mentre l'essere indietreggiava. Mikhail tremò, soffocando un singhiozzo. La verità è come il fuoco, pensò. Si sentiva già come un mucchio di cenere, bruciato in maniera irriconoscibile. «Te l'avevo detto che era troppo piccolo». Belyi sogghignò dall'altra parte della stanza. Il suono di quella voce beffarda fece scintillare una fiamma in mezzo alla cenere. Dopotutto rimaneva ancora qualcosa da bruciare. Mikhail trasse un profondo respiro e lo trattenne, con il corpo tremante. Poi lo emise e si tolse la mano dal viso. A meno di tre metri di distanza, il lupo dagli occhi color ambra e il manto grigio lucente era seduto sulle anche e lo osservava con intensa attenzione. «Oh», sussurrò Mikhail, che sentì le ginocchia piegarsi. Cadde a terra, la
testa che gli girava. Renati fece per aiutarlo ad alzarsi, ma il lupo emise un grugnito profondo e la donna indietreggiò. Mikhail venne lasciato ad alzarsi da solo. Il lupo stette a guardare, con la testa piegata leggermente da un lato, mentre il bambino si rimetteva a fatica in ginocchio; per il momento non riuscì a fare di più. La spalla gli faceva molto male e la mente gli turbinava come un aquilone che cerca di bilanciarsi. «Guardatelo!», disse Belyi. «Non sa se urlare o farsela sotto». Il lupo si girò verso Belyi e serrò rapidamente la mascella a pochi centimetri dal naso del giovane. Il ghigno sardonico del ragazzo svanì. Mikhail si alzò in piedi. Wiktor si rivolse di nuovo verso di lui e avanzò. Il bambino arretrò di un passo, poi si fermò. Se fosse morto, avrebbe raggiunto i suoi genitori e sua sorella in paradiso, molto lontano da qui. Aspettò di vedere cosa sarebbe successo. Wiktor camminò verso di lui, si fermò... e annusò la mano di Mikhail. Il bambino non osò muoversi. Poi, soddisfatto da quel che aveva annusato, il lupo sollevò la zampa posteriore e schizzò un rivolo di urina sullo stivale sinistro del bambino. Il liquido caldo e dall'odore acido gli inzuppò i pantaloni, arrivandogli fino alla pelle. Il lupo finì il suo compito e tornò indietro. Spalancò la bocca, con le zanne scintillanti, e sollevò il muso verso il soffitto. Mikhail, lottando per non svenire di nuovo, sentì la mano forte di Renati serrargli il braccio. «Vieni», lo sollecitò. «Vuole che mangi qualcosa. Proveremo prima con le bacche». Il bambino le permise di guidarlo fuori dalla camera, mentre si sentiva le gambe di legno. «Adesso andrà tutto bene», disse lei, sembrando sollevata. «Ti ha marcato. Questo significa che sei sotto la sua protezione». Prima di allontanarsi del tutto, superando il passaggio ad arco, Mikhail guardò indietro. Sulla parete vide un'ombra disegnata dal fuoco, che si alzava in piedi barcollando. Renati prese la mano del bambino e insieme a lui salì i gradini di pietra. L'entrata grandiosa l. Gradini di pietra, pensò Michael. Proprio l'ideale per fratturarsi una ca-
viglia. Sbatté le palpebre e tornò dal suo viaggio interiore. Era circondato dall'oscurità. Sopra di lui era aperto un paracadute bianco, sibilante nel vento che ne faceva vibrare le funi tese. Guardò verso il basso e intorno a sé: non c'era traccia del lampeggiante verde. Una caviglia fratturata non sarebbe stata piacevole e sicuramente non avrebbe costituito il modo migliore per iniziare la missione. In mezzo a cosa stava scendendo? Un campo paludoso? Una foresta? Solida terra coltivata che gli avrebbe piegato le ginocchia come una caramella morbida? Sentì che il terreno si stava avvicinando rapidamente e afferrò le funi del paracadute, incurvando leggermente il corpo in previsione dell'impatto. «Ora», pensò, e si preparò. Piombò con gli stivali su una superficie che cedette sotto il suo peso come cartone ammuffito; poi sbatté contro un qualcosa che ondeggiò e scricchiolò, ma gli impedì di precipitare ulteriormente. L'imbracatura gli si strinse sotto le braccia, quindi il paracadute si era incastrato in un punto sopra di lui. Alzò lo sguardo e vide un foro irregolare da cui spuntavano le stelle. Si rese conto di essere caduto attraverso un tetto. Era seduto sulle ginocchia sotto una volta di legno marcito. Da qualche parte nella notte, due cani si misero ad abbaiare. Agendo in fretta, Michael sbloccò l'imbracatura e si liberò del paracadute. Stringendo gli occhi riuscì a distinguere intorno a sé mucchi di qualcosa. Ne afferrò una manciata: era paglia. Era precipitato in un fienile. Si alzò in piedi e iniziò a liberare il paracadute, per poi tirarlo all'interno dal foro nel tetto. Più in fretta! si disse. Ora si trovava nella Francia occupata da nazisti, cento chilometri a nordovest di Parigi. La zona doveva essere piena di sentinelle tedesche con motociclette e autoblindo, e i messaggi radio probabilmente stavano già trasmettendo: Attenzione! Paracadute avvistato vicino a Bazancourt! Pattugliare tutti i terreni e i villaggi circostanti! Ben presto la situazione si sarebbe fatta difficile. Tirò il paracadute all'interno del sottotetto, poi cominciò a seppellirlo nel grosso cumulo di paglia insieme alla sacca. Quattro secondi più tardi sentì il fruscio provocato dall'apertura del paletto di una porta. Si irrigidì e rimase immobile. Poi da sotto provenne un leggero cigolio di cardini. Nel fienile entrò un bagliore rossastro. Michael estrasse silenziosamente il pugnale dal fodero e scoprì alla luce della lanterna di trovarsi proprio sull'orlo del soppalco. Pochi centimetri ancora e sarebbe caduto. La lanterna perlustrò il fienile, illuminandolo. Quindi si
sentì: «Monsieur? Où êtes-vous?» Era una voce roca di donna, che gli chiedeva dove fosse. Michael non si mosse, né ripose il pugnale. «Pourquoi est-ce que vous ne me parlez pas?», continuò la donna, incitandolo a parlarle. Poi sollevò la lanterna e ripeté, con la nitida cadenza contadina della Normandia: «Mi avevano detto di aspettarti, ma non sapevo che mi saresti caduto sulla testa». Michael attese qualche altro secondo prima di sporgersi oltre il bordo del solaio. La donna aveva i capelli scuri e indossava un maglione di lana grigio sopra un paio di pantaloni neri. «Sono qui», disse piano; lei face un balzo indietro e sollevò la luce verso di lui, che la rimproverò: «Non negli occhi». La donna abbassò la lanterna di qualche centimetro. Michael riuscì a intravederne il volto: mascella quadrata, zigomi sporgenti, sopracciglia scure non depilate e occhi color zaffiro. Aveva un corpo asciutto e l'aria di essere in grado di muoversi rapidamente quando la situazione lo richiedeva. «A che distanza siamo da Bazancourt?», le chiese. Lei aveva notato il buco nel tetto, circa un metro sopra la testa dell'uomo. «Guarda da te». Michael lo fece, sporgendo la testa dal foro. A meno di cento metri di distanza c'erano lampade accese alle finestre di case con il tetto di paglia, raggruppate intorno a un grosso appezzamento ondulato di terreno agricolo. Michael pensò che al ritorno dalla missione avrebbe dovuto fare i complimenti al pilota del C-45 per l'ottima mira. «Andiamo!», lo incitò bruscamente la ragazza. «Dobbiamo portarti in un posto sicuro!» Michael stava per abbassarsi e rientrare nel solaio, quando sentì il rombo sordo di alcuni motori provenire da sudovest. Il cuore gli si bloccò. Tre paia di fari si avvicinavano rapidamente, mentre le ruote sollevavano la terra della strada di campagna. Auto da ricognizione, dedusse. Probabilmente cariche di soldati. E a chiudere la fila c'era un quarto veicolo, più lento e con un carico molto più pesante. Sentì il rumore dei cingoli e capì con un senso di gelo allo stomaco che i nazisti non volevano correre rischi: avevano portato con loro un Panzerkampfwagen, un carro armato leggero. «Troppo tardi», disse Michael. Guardò le auto separarsi e circondare Bazancourt da ovest, nord e sud. Sentì un comandante gridare «Fuori!» in tedesco; alcune figure scure balzarono giù dalle auto prima ancora che le ruote smettessero di girare. Il carro armato si dirigeva sferragliando verso il fienile, sorvegliando il lato orientale del villaggio. Gallatin aveva visto
abbastanza da rendersi conto che era in trappola. Si abbassò e tornò all'interno del solaio. «Come ti chiami?», chiese alla ragazza francese. «Gabrielle», rispose lei. «Gaby». «D'accordo, Gaby. Non so quanta esperienza hai di queste cose, ma ti servirà tutta. Qualcuno da queste parti è a favore dei nazisti?» «No. Odiano quei porci». Michael udì un forte cigolio: era la torretta del carro armato che girava, mentre il veicolo si avvicinava al retro del fienile. «Mi nasconderò quassù meglio che posso. Se - o meglio quando - cominceranno i fuochi d'artificio, resta lontana». Estrasse dalla fondina la sua 45 e inserì un caricatore. «Buona fortuna», le disse - ma la luce della lampada era già svanita, insieme a lei. Il paletto della porta del fienile si richiuse stridendo. Michael guardò attraverso una fessura tra le tavole e vide alcuni soldati muniti di torce elettriche sfondare a calci le porte delle case. Uno dei soldati lanciò a terra un bengala, che illuminò l'intero villaggio con una luce bianca e accecante. Poi i nazisti iniziarono a fare uscire gli abitanti dalle loro case, minacciandoli con le armi e radunandoli intorno al razzo che faceva luce. Un individuo alto e magro, con il cappello da ufficiale, camminava avanti e indietro di fronte a loro; accanto a lui c'era un'altra figura enorme, con le spalle larghe e le gambe grosse come tronchi d'albero. I cingoli del carro armato si fermarono. Michael guardò verso il retro del fienile attraverso un buco nel legno. Il carro armato si era fermato a meno di cinque metri di distanza e i tre uomini dell'equipaggio erano usciti a fumarsi una sigaretta. Uno di loro portava a tracolla un fucile mitragliatore. Michael sentì l'ufficiale tedesco gridare «Attenzione!» in francese, rivolto agli abitanti del villaggio. Muovendosi silenziosamente tornò alla fessura per riuscire a vedere cosa stesse succedendo. L'ufficiale era in piedi davanti al gruppo di persone, con l'altro uomo qualche passo più indietro. La luce del bengala illuminava le pistole, le mitragliette e i fucili puntati per radunare gli abitanti del villaggio. «Sappiamo che in questa piazza è caduto uno che ha fatto volare aquilone!», continuò l'ufficiale, storpiando la lingua francese. «Ora noi vogliamo afferrare questo intruso in nostri guanti! Chiedo a voi, umani di Bazancourt, dov'è l'uomo che vogliamo mettere in gabbia?» Col cavolo che ci riuscirete, pensò Michael, e armò la sua 45. Tornò al buco nel legno. L'equipaggio del carro armato ciondolava accanto al veicolo, parlando e ridendo animatamente: sembravano ragazzi in libera uscita. Era in grado di sopraffarli? si chiese Michael. Poteva sparare
prima a quelli armati di mitragliette e poi a quello più vicino al portello, in modo che il bastardo non saltasse dentro e chiudesse... Sentì il basso brontolio di un altro motore e lo sferragliare di altri cingoli. L'equipaggio del carro armato si mise a gridare e a fare cenni; Michael osservò un altro carro armato fermarsi sulla strada polverosa. Dal portello uscirono due uomini, che iniziarono a parlare del paracadutista che avevano segnalato alla radio. «Ne faremo salsicce!», promise uno degli uomini del primo carro armato, agitando la sigaretta come fosse una sciabola. Il paletto della porta del fienile scattò. Michael si rannicchiò contro la parete di fondo del fienile, mentre la porta si spalancava e i fasci di luce di due o tre torce elettriche iniziavano a perlustrare l'interno. «Vai prima tu!», sentì dire uno dei soldati. Un'altra voce ribatté: «Zitto, idiota!» Gli uomini entrarono nel fienile, seguendo le torce. Michael rimase immobile, una forma scura nel buio, con il dito appoggiato leggermente sul grilletto dell'arma automatica. Qualche secondo più tardi, Michael si rese conto che quegli uomini non sapevano per certo che fosse nascosto lì. Fuori, nella piazza del villaggio, l'ufficiale stava gridando: «Tutti coloro che coabitano con nemico saranno severamente penetrati!» I tre soldati continuarono a perlustrare il fienile, rovesciando a calci scatole e attrezzi per dimostrare di aver svolto un lavoro accurato. Poi uno di loro si fermò e alzò la torcia verso il solaio. Michael sentì un pizzicore alla spalla, quando il fascio di luce la sfiorò per poi rivolgersi verso destra. Verso il buco nel tetto. Sentì l'odore del sudore generato dalla paura, non sapendo se era il proprio o quello dei tedeschi. La luce illuminò il soffitto e iniziò a muoversi dritta verso il buco. Più vicina. Sempre più vicina. «Mio Dio!», esclamò uno degli altri. «Guarda qui, Rudy!» La luce della torcia si fermò, a meno di un metro dall'orlo del buco. «Cosa c'è?» «Qui». Si sentì il tintinnio di alcune bottiglie. «È Calvados! Qualcuno ha nascosto qui una scorta di liquore!» «Probabilmente è stato un dannato ufficiale. Che porci!» La luce della torcia si spostò, questa volta lontano dal buco; sfiorò le ginocchia di Michael, ma Rudy stava già dirigendosi verso le bottiglie di acquavite di mele che l'altro aveva tirato fuori dal nascondiglio. «Non fatevi vedere da Harzer!», li avvertì il terzo soldato, con una voce da adolescente spaventato. Diciassette anni al massimo, pensò Michael. «Chissà cosa vi farebbe quel
maledetto Boots!» «D'accordo, andiamo via di qui». Di nuovo la voce del secondo soldato. Le bottiglie tintinnarono. «Aspettate. Dobbiamo finire il lavoro prima di andarcene». Un altro scatto, ma questa volta non era il paletto della porta, bensì il meccanismo di una mitraglietta. Michael si appiattì contro la parete, il volto coperto di sudore freddo. L'arma fece fuoco, sforacchiando la parete sotto di lui. Poi si fece sentire una seconda mitraglietta, un cupo abbaiare che sputò proiettili attraverso il pavimento del solaio, gettando in aria paglia e schegge di legno. Anche il terzo soldato sparò verso l'alto, lanciando a zig zag una sventagliata di pallottole che fece schizzare via pezzi dalle assi a mezzo metro sulla destra di Michael. «Ehi, idioti!», gridò uno degli uomini del carro armato quando si placò il rumore degli spari. «Smettete di allenarvi al tiro al bersaglio nel fienile! Qui fuori ci sono taniche di benzina!» «Al diavolo quei bastardi delle SS», disse Rudy a bassa voce, poi insieme agli altri due uscì dal fienile con il suo bottino di bottiglie di Calvados. La porta rimase accostata. «Chi di voi è sindaco?», stava gridando l'ufficiale - Harzer? - ansioso e furibondo. «Chi comanda qui? Si faccia subito avanti!» Michael controllò di nuovo dal foro nel legno, alla ricerca di una via d'uscita. Gli arrivò una zaffata di odore di benzina: uno degli uomini del secondo carro armato, parcheggiato in mezzo alla strada, stava versando nel serbatoio il contenuto di una latta. Altre due erano pronte all'uso, lì accanto. «Ora possiamo parlare», disse una voce da sotto il solaio. Michael si girò silenziosamente, si accovacciò e aspettò. Il fienile si illuminò della luce di una lampada. «Sono il capitano Harzer», disse la voce. «Questo è il mio compagno, Boots. Avrà notato che è vestito in modo adeguato al nome, con pesanti stivali». «Sì, signore», rispose impaurito un uomo anziano. Michael tolse la paglia dai fori dei proiettili nel pavimento e guardò in basso. Nel fienile erano entrati cinque tedeschi e un anziano francese con i capelli bianchi. Tre tedeschi erano soldati, con l'uniforme grigio scura e gli elmetti a forma di secchio per il carbone; stavano in piedi accanto alla porta e portavano tutti micidiali mitragliette Schmeisser nere. Harzer era un
uomo magro con la severa rigidità che Michael associava ai nazisti convinti: era come se avesse una sbarra di ferro infilata su per il culo fino alle scapole. Accanto a lui stava l'uomo chiamato Boots - la figura grande e grossa, con le gambe massicce che Michael aveva visto alla luce del bengala. Boots era alto probabilmente uno e novanta e pesava circa centoventi chili. Indossava l'uniforme da aiutante, con un berretto grigio sulla testa dai capelli cortissimi color sabbia, e ai piedi portava un paio di stivali di lucido cuoio nero, dalle suole spesse almeno cinque centimetri. Alla luce rossastra delle lampade, in mano a due dei soldati, il viso ampio e squadrato di Boots era tranquillo e sicuro di sé: il volto di un assassino che ama il proprio lavoro. «Ora siamo solitari, monsieur Gervaise. Non deve temere nessuno di altri. Ce ne occuperemo noi». La paglia scricchiolò sotto i passi di Harzer, che camminava avanti e indietro, continuando a massacrare la lingua francese. «Sappiamo che chi ha fatto volare aquilone è caduto qui vicino. Pensiamo che qualcuno nel vostro villaggio dev'essere il suo contocco... il suo agente. Monsieur Gervaise, chi può essere questa persona?» «La prego, signore... Non... Non posso dirle niente». «Oh, non sia così assoluto. Qual è il suo nome di battesimo?» «Hen... Henri». Il vecchio tremava; Michael lo sentiva battere i denti. «Henri», ripeté Harzer. «Voglio che rifletti prima di rispondere, Henri: sai dov'è caduto chi ha fatto volare aquilone, e chi è la persona qui che sta aiutando lui?» «No. La prego, capitano. Le giuro che non lo so!» «Oh, che peccato», rispose Harzer con un sospiro; Michael lo vide fare un cenno a Boots. L'uomo possente fece un passo avanti e sferrò un calcio a Gervaise, colpendolo al ginocchio sinistro. Si sentì il rumore di ossa frantumate; il francese cadde nella paglia, urlando. Michael vide chiodi metallici luccicare sulla suola degli stivali dell'assassino. Gervaise si afferrò il ginocchio fratturato e gemette. Harzer si chinò verso di lui. «Non hai riflettuto, vero?», disse picchiettandolo sul cranio coperto di capelli bianchi. «Usa tuo cervello! Dov'è caduto chi ha fatto volare aquilone?» «Non posso... oh, mio Dio... non posso...» Harzer esclamò «Merda», e fece un passo indietro. Boots pestò con forza il ginocchio destro del vecchio. Le ossa si spezzarono, schioccando come colpi di pistola, e Gervaise urlò di dolore. «Allora, ancora non ti siamo insegnati a riflettere?», gli chiese Harzer.
Michael sentì puzzo di urina. La vescica del vecchio aveva ceduto. Nell'aria c'era anche l'odore del dolore, simile a quello acre che precede una violenta tempesta. Gallatin sentì i propri muscoli cominciare a muoversi e contrarsi sotto la pelle, e il sudore bagnargli il corpo sotto la tuta mimetica. Poteva trasformarsi, se lo voleva. Ma si fermò sull'orlo della follia selvaggia... a cosa sarebbe servito? Le Schmeisser avrebbero fatto facilmente a pezzi un lupo quanto un essere umano, e il modo in cui erano distanziati i soldati rendeva impossibile togliere di mezzo tutti e tre più i carri armati. No, no, c'erano cose che un essere umano riusciva a fare meglio e una di queste era rendersi conto dei propri limiti. Respinse la trasformazione, la sentì passargli sopra e allontanarsi come una pioggerella di aghi. Il vecchio singhiozzava e implorava pietà. Harzer disse: «Sospettavamo da tempo che Bazancourt fosse un centro di spie. Mio compito è stanarle. Capisci che questo è mio lavoro?» «La prego... non mi faccia più del male», sussurrò Gervaise. «Ti uccideremo». Era un'affermazione, priva di emozioni. «Trascineremo fuori tuo cadavere per mostrare agli altri. Poi porgeremo di nuovo nostre domande. Vedi, la tua morte salverà altre vite, perché finalmente qualcuno parlerà. Se nessuno farà, incendieremo il villaggio». Harzer scrollò le spalle. «Ma tanto a te non importerà più». Fece un cenno con il capo verso Boots. Michael si irrigidì... ma sapeva di non poter fare niente. Il vecchio spalancò la bocca in un urlo di terrore e cercò di trascinarsi via con le gambe mutilate. Boots gli sferrò un calcio nelle costole; si udì un rumore come quello di un barile che si sfonda e Gervaise gemette, afferrandosi i frammenti d'osso spuntati dalla carne. Il calcio successivo, sferrato con lo stivale chiodato, colpì il vecchio alla clavicola, spezzandola. Gervaise si contorse come un pesce preso all'arpione. Boots cominciò a massacrare il vecchio a calci e pestoni, agendo con lentezza e calcolata precisione - un calcio nello stomaco per spappolare gli organi, un pestone a una mano per spezzare le dita, un calcio alla mandibola per dislocarla e far saltare via i denti, come tanti dadi gialli. «Questo è mio lavoro», disse Harzer rivolto al viso maciullato e sanguinante. «È quello per cui pagano me, capisci?» Boots diede un calcio alla gola del vecchio, sfondandogli la trachea. Gervaise iniziò a soffocare. Michael vide che il volto di Boots era lucido di sudore; l'uomo era serio, i suoi lineamenti sembravano scolpiti nella pietra, ma gli occhi azzurro chiaro esprimevano piacere. Michael tenne lo sguardo
fisso sul volto di Boots. Voleva imprimerselo nella mente. In un ultimo tentativo disperato, Gervaise cercò di trascinarsi verso la porta, lasciando tracce di sangue sulla paglia. Boots lo lasciò fare per qualche secondo, poi piantò con forza un piede al centro della schiena del vecchio e gli spezzò la spina dorsale, come se fosse un manico di scopa. «Portalo fuori», ordinò Harzer, poi si girò e si diresse subito a grandi passi verso gli altri abitanti del villaggio e i soldati. «Ne ho trovato uno d'argento!», esclamò un soldato mostrando un dente. «Ne ha altri?» Boots sferrò un calcio al corpo tremante, colpendolo sul lato della testa e facendo volare via qualche altro dente. I soldati si chinarono a cercare l'argento tra la paglia. Poi Boots seguì Harzer; due dei soldati afferrarono Gervaise per le caviglie e trascinarono il cadavere fuori dal fienile. Michael rimase nel buio, con le narici piene dell'odore del sangue e del terrore. Rabbrividì... gli si erano drizzati i peli sulla nuca. Sentì Harzer gridare: «Attenzione! Il vostro sindaco se n'è andato da questa vita e vi ha lasciati soli! Vi farò due domande... e voglio che riflettiate bene prima di rispondere...» Basta, pensò Michael. Ora avrebbe fatto lui le domande. Si alzò e andò al buco nel legno. L'odore di benzina era più forte. L'uomo del secondo carro armato stava finendo di versare l'ultima tanica. Michael capì cosa fare e sapeva di doverlo fare subito. Camminò sotto il foro, si issò sul tetto e si accovacciò. «Dov'è caduto chi ha fatto volare aquilone?», stava chiedendo Harzer. «E chi sta aiutando lui?» Michael prese la mira e sparò. Il proiettile colpì la tanica di benzina che il soldato teneva in mano. Accaddero due cose contemporaneamente: la benzina schizzò fuori dalla latta, spargendosi sui vestiti del tedesco, e dai bordi del foro provocato dal proiettile partirono alcune scintille. Harzer smise di gridare. La latta di benzina esplose e l'uomo prese fuoco come una torcia. Mentre il soldato ballava e si contorceva, e le fiamme danzavano azzurre nella pozza di carburante intorno all'imboccatura del serbatoio, Michael rivolse la sua attenzione ai tre uomini d'equipaggio sul carro armato proprio sotto il tetto del fienile. Uno di loro aveva visto il lampo dell'arma automatica e stava sollevando il fucile mitragliatore. Michael gli sparò, trapassandogli la gola, e la mitraglietta fece partire una girandola di traccianti nel cielo.
Un altro soldato stava per gettarsi a capofitto nel portello. Michael gli sparò, ma il proiettile rimbalzò sul metallo. Fece fuoco di nuovo. Stavolta l'uomo lanciò un grido e si afferrò la schiena, rotolando giù dal fianco del carro armato e precipitando a terra. Michael registrò il fatto che nel caricatore della Colt erano rimasti tre colpi. L'altro soldato si mise a correre, cercando un riparo. Michael balzò giù dal tetto. Atterrò sul carro armato, accanto al portello principale, con un tonfo che gli vibrò nelle gambe. Sentì Harzer chiamare a gran voce un mitragliere e ordinare ai soldati di circondare il fienile. Il portello era ancora aperto, con il bordo macchiato di sangue tedesco. Michael colse un movimento alla sua destra, quasi alle sue spalle, e si girò di scatto mentre un soldato sparava con il fucile. Il proiettile gli passò tra le ginocchia e rimbalzò sul battente del portello. Michael non aveva il tempo di prendere la mira; non fu necessario, perché dopo un istante una sventagliata di proiettili colpì il tedesco al petto e lo sollevò in aria prima di sbatterlo al suolo. «Entra!», gridò Gaby, con in mano la Schmeisser fumante che aveva tolto al primo uomo a cui Michael aveva sparato. «Sbrigati!» La ragazza allungò un braccio, afferrò una maniglia di ferro e si issò sul carro armato. Michael rimase impietrito per un istante. «Non capisci il francese?», gli chiese Gaby bruscamente, con gli occhi pieni di fuoco e di rabbia. Rispose un fucile: due proiettili rimbalzarono sulla corazza del carro armato e Michael non ebbe bisogno di ulteriori incitamenti. Balzò dentro il portello, in un compartimento stretto e illuminato da una piccola lampadina rossa. Gaby lo seguì, allungò un braccio, chiuse il portello e lo bloccò con il gancio. «Lì sotto!», disse Gaby spingendolo più all'interno del carro armato; Michael si sistemò su uno scomodo sedile di pelle. Davanti a lui c'erano un pannello di indicatori strumentali, una sbarra che sembrava essere il freno a mano e diverse leve del cambio. Sul pavimento si trovavano alcuni pedali e davanti agli occhi di Gallatin c'era una stretta feritoia di osservazione. Ce n'erano altre a sinistra e a destra, e attraverso quella di sinistra vide il soldato bruciare a terra accanto all'altro carro armato, mentre un altro spuntò fuori dal portello e gridò: «Torretta, ruotare a destra di sessantasei gradi!» La torretta e il tozzo cannone del carro armato iniziarono a muoversi. Michael appoggiò la bocca della sua arma automatica alla feritoia e premette il grilletto, facendo schizzare via un pezzo della spalla del soldato. Il tedesco si ritirò all'interno del mezzo, ma la torretta continuò a girare.
«Metti in moto!», gridò Gaby, con voce velata dal terrore. «Speronalo!» Sui fianchi corazzati risuonavano i colpi dei proiettili, come la gragnola di pugni di una folla inferocita. Michael aveva visto quel tipo di carro armato in Africa settentrionale e sapeva come manovrarlo: usando le leve si regolavano gli ingranaggi e la velocità dei cingoli, ma non ne aveva mai pilotato uno. Cercò invano il modo di avviarlo, poi la mano di Gaby gli passò davanti al viso, girò una chiave nel circuito di accensione, e si sentì un fragore stridente e sferragliante, seguito dal cupo rombo di un ritorno di fiamma. Il carro armato tremò con il motore in funzione. Michael premette quella che sperava fosse la frizione e si mise a lottare con il cambio. Di certo non si trattava di una berlina Jaguar: gli ingranaggi sfregarono l'uno contro l'altro e alla fine si innestarono alla velocità del catrame fresco. Il carro armato balzò in avanti e Michael picchiò il capo contro il poggiatesta imbottito. Sopra di lui, dalla feritoia nel compartimento del servente al pezzo, Gaby vide alcune figure saltare sul carro armato; infilò la canna della Schmeisser nell'apertura e crivellò di proiettili due paia di gambe tedesche. Michael premette al massimo l'acceleratore e tirò forte una delle leve. Il cingolo destro si fermò mentre il sinistro continuava a muoversi, facendo girare il carro armato verso destra. Non era la direzione in cui Michael voleva andare, perciò provò un'altra leva e stavolta fu il cingolo sinistro a bloccarsi mentre il destro continuava a funzionare, facendo girare bruscamente il mezzo verso sinistra e in direzione del nemico. Il veicolo vibrò, ma rispose ai comandi delle mani alleate come faceva a quelle dell'Asse. Michael vide che la torretta dell'altro carro armato stava per raggiungere i sessantasei gradi. Frenò bruscamente. Il cannone dell'altro carro sputò fuoco. Si udì uno stridio fortissimo, e un'ondata di calore intenso colpì il viso di Michael attraverso la feritoia. Rimase confuso per un istante, non sapendo se era stato ridotto in un milione di pezzi, poi giunse l'esplosione, tra i campi, a circa trecento metri di distanza dietro Bazancourt. Non aveva il tempo di sentirsi sconvolto, né certamente di farsi prendere dal panico. Premette di nuovo l'acceleratore e il carro armato continuò la sua brusca virata verso sinistra. I cingoli lanciavano in aria metri di terra. Poi davanti a lui si parò l'altro carro armato, con il cannone sulla torretta che sputava ancora qualche lingua di fuoco. «La scatola dietro di te!», gridò Gaby. «Infila una mano lì dentro!» Proiettili di mitragliatrice rimbalzarono stridendo sulla torretta, facendo
chinare istintivamente la ragazza. Michael infilò una mano nella scatola e ne estrasse un proiettile rivestito d'acciaio. Gaby tirò una leva, ne ruotò un'altra e si sentì il rumore di un metallo che si apriva. «Mettilo qui!», ordinò la ragazza, poi aiutò Michael a infilare il proiettile nella culatta del cannone. Gaby la chiuse, con il volto imperlato di sudore. «Continua a farci andare dritti!», gli disse, poi tirò un'altra leva. Qualcosa gemette e iniziò a caricarsi. L'altro carro armato iniziò ad arretrare e la torretta ruotò di nuovo per esplodere un altro colpo. Michael manovrò le leve e continuò ad avanzare, dirigendosi dritto verso il mostro. Dal portello emerse la testa di un uomo, che gridò qualcosa che Michael non riuscì a sentire sopra il rombo del motore. Ma poteva intuire quale fosse l'ordine: torretta, girare a novanta gradi. Così avrebbero potuto infliggere un colpo letale. Il cannone ruotò alla ricerca del bersaglio. Michael fece per usare di nuovo i freni, ma si bloccò. Questa volta probabilmente si aspettavano che frenasse. Continuò a premere l'acceleratore; un proiettile vagante colpì la feritoia di osservazione alla sua destra, facendogli volare scintille tutt'intorno. «Reggiti forte!», lo avvertì Gaby, poi tirò una leva rossa etichettata Feuern. Michael provò contemporaneamente due diverse sensazioni: gli sembrò che i timpani gli schizzassero fuori dalle orecchie e che tutte le ossa gli venissero strappate dalle articolazioni. Ma capì immediatamente che i suoi guai erano nulla paragonati a quelli dell'equipaggio dell'altro carro armato. Nell'accecante luce rossa dell'esplosione e delle fiamme, Michael vide l'intera torretta venire via come una verruca tagliata da un bisturi. Il cannone sparò in cielo mentre la torretta volava in aria, capovolgendosi due volte per poi piombare nella polvere. Dal corpo del mostro uscirono due torce umane, che corsero via urlando in cerca della morte. Michael sentì puzzo di cordite e carne bruciata. Nel carro armato ci fu un'altra esplosione che fece piovere pezzi di metallo, e lui frenò e sterzò bruscamente a destra per superare la carcassa sventrata. I soldati tedeschi fuggivano gridando dalla traiettoria del carro armato. Michael scorse due figure dalla feritoia: «Fuoco! Fuoco!», stava gridando Harzer, impugnando la Luger, ma il proverbiale ordine tedesco ormai non esisteva più. A pochi passi di distanza, Boots osservava impassibile la scena. «Ecco lì il figlio di puttana!», esclamò Gaby. Allungò un braccio, sbloccò il portello e lo aprì prima che Michael potesse impedirglielo. La ragazza
sporse fuori la testa e le spalle, prese la mira con la Schmeisser e fece saltare via gran parte della testa di Harzer. Il corpo del tedesco fece tre passi indietro prima di crollare; Boots si gettò a terra. Il carro armato li superò rombando. Michael afferrò Gaby per la caviglia e la tirò dentro. La ragazza chiuse il portello, mentre dalla bocca della Schmeisser saliva un fumo azzurrino. «Attraverso i campi!», gli disse Gaby, e lui tirò dritto alla massima velocità possibile. Michael fece un sorriso forzato. Era sicuro che il capitano Harzer avrebbe convenuto che Gaby aveva solo fatto il suo lavoro. Il carro armato proseguì attraverso il campo, allontanandosi dal villaggio e dalle sporadiche scariche di colpi d'arma da fuoco, sollevando nuvole di fitta polvere gialla. «Ci rintracceranno con le auto da ricognizione», disse Gaby. «Probabilmente stanno già chiamando aiuto. Ci conviene uscire da qui finché possiamo». Michael non aveva nulla da obiettare. Tirò fuori un altro proiettile da cannone dalla scatola di legno dietro il suo sedile e lo incastrò contro il pedale dell'acceleratore. Gaby si arrampicò e uscì dal portello, aspettò che Michael la raggiungesse, poi gettò dal carro armato la Schmeisser e saltò giù. Lui la imitò un paio di secondi dopo, atterrando finalmente sul gessoso suolo francese. Per un istante non riuscì a ritrovare la ragazza tra la polvere. Poi scorse un movimento alla sua sinistra; Gaby restò sorpresa e senza fiato quando lui le giunse silenziosamente alle spalle e l'afferrò per un braccio. La ragazza francese aveva recuperato la mitraglietta e con un cenno indicò avanti. «Il bosco è da quella parte. Sei pronto a correre?» «Sempre», rispose Michael. Cominciarono a precipitarsi verso la fila di alberi a circa trenta metri di distanza. Michael si trattenne, in modo da non superare la ragazza. Arrivarono al bosco senza problemi. In piedi in mezzo agli alberi, Michael e Gaby videro passare due auto da ricognizione, che seguivano il carro armato a rispettosa distanza. Avrebbero continuato così come minimo per qualche chilometro. «Benvenuto in Francia», disse Gaby. «Ti piacciono le entrate grandiose, vero?» «Ogni entrata a cui sopravvivo è grandiosa». «Aspetta a farti le congratulazioni. Abbiamo ancora molta strada da percorrere». Si mise la Schmeisser a tracolla e strinse bene la cinghia. «Spero che tu abbia un cuore forte: io viaggio veloce». «Cercherò di stare al passo», promise Michael.
Gaby si girò, con totale e implacabile determinazione, e iniziò a muoversi silenziosamente nel sottobosco. Michael la seguì a circa tre metri e mezzo di distanza, con l'orecchio teso a sentire se qualcuno o qualcosa dava loro la caccia. Ma nessuno li stava seguendo; con la morte di Harzer era venuta meno ogni iniziativa e non c'erano soldati impegnati a perlustrare il bosco. Pensò all'assassino con gli stivali lucidi e chiodati. Uccidere un vecchio era facile; si chiese come se la sarebbe cavata Boots contro un avversario feroce. Be', la vita era piena di possibilità. Continuò a seguire la ragazza francese, e la foresta li nascose. 2. Dopo più di un'ora di camminata a passo veloce in direzione sudovest, e dopo aver attraversato alcuni campi e strade con la Schmeisser di Gaby armata e pronta a sparare e le orecchie di Michael pronte a captare ogni suono, la ragazza disse: «Aspettiamo qui». Si trovavano in un boschetto al limitare di una radura e davanti a loro Michael vedeva una casa colonica costruita in pietra. L'edificio era in rovina, con il tetto crollato; distrutto forse da una bomba vagante degli alleati, da un colpo di mortaio o dai soldati tedeschi delle SS alla ricerca di partigiani. Persino la terra intorno all'edificio era annerita e pochi ceppi carbonizzati erano tutto ciò che restava di un frutteto. «Sei sicura che sia il posto giusto?», chiese Michael alla ragazza; era una domanda stupida, e lo sguardo gelido che lei gli rivolse lo espresse chiaramente. «Siamo in anticipo sul previsto», spiegò la ragazza, inginocchiandosi con la Schmeisser in grembo. «Non potremo entrare ancora per...» Si interruppe per controllare le lancette luminose dell'orologio che portava al polso. «Dodici minuti». Michael si inginocchiò accanto a lei, colpito dalla sua abilità a orientarsi. Come aveva trovato la direzione? Usando le stelle, ovviamente, oppure conosceva il percorso a memoria. Ma, anche se erano nel posto esatto in cui dovevano trovarsi a una determinata ora, nella zona c'era solo quella casa colonica distrutta. «Devi avere fatto molta esperienza con i carri armati», le disse. «Non esattamente. Avevo un amante tedesco che era il comandante dell'equipaggio di un carro armato. Ho imparato tutto da lui».
Michael inarcò le sopracciglia. «Tutto?» Lei gli lanciò un'occhiata, poi distolse subito lo sguardo; gli occhi di Michael sembravano brillare come le lancette dell'orologio e la fissavano. «Era necessario che... facessi il mio dovere per il bene del paese», spiegò, un po' agitata. «Quell'uomo possedeva informazioni su un convoglio di camion». Sentì che lui la stava osservando. «Ho fatto quello che dovevo fare. Tutto qui». Michael annuì. Quell'uomo, aveva detto lei. Niente nomi, nessuna emozione. Quella guerra era pulita quanto una gola tagliata. «Mi dispiace per quello che è accaduto al villaggio. Io...» «Lascia perdere», lo interruppe lei. «Non è colpa tua». «Ho guardato il vecchio morire», continuò Michael. Ovviamente aveva già visto la morte in passato. Molte volte. Ma la fredda precisione dei calci e dei pestoni di Boots gli faceva ancora torcere le budella. «Chi era l'uomo che l'ha ucciso? Harzer lo chiamava Boots». «Boots è - era - la guardia del corpo di Harzer. Un assassino addestrato dalle SS. Ora che Harzer è morto, probabilmente lo assegneranno a un altro ufficiale, magari sul fronte orientale». Gaby si interruppe, fissando un riflesso di luce lunare sulla canna della Schmeisser. «Il vecchio - Gervaise - era mio zio. Era l'ultimo parente che mi era rimasto. Mia madre, mio padre e i miei due fratelli sono stati uccisi dai nazisti nel 1940». La sua era la semplice esposizione di un fatto, senza alcuna traccia di emozione. Ogni emozione, pensò Michael, era stata cancellata dalle fiamme, come la vita in quel frutteto. «Se l'avessi saputo», le disse, «avrei...» «No, non avresti fatto niente», ribatté lei in tono secco. «Avresti fatto esattamente quello che hai fatto, altrimenti la tua missione sarebbe fallita e tu saresti morto. Il mio villaggio sarebbe stato comunque dato alle fiamme e tutti gli abitanti passati per le armi. Mio zio conosceva i rischi. È stato lui a farmi entrare nella Resistenza». Lo guardò negli occhi. «La cosa importante è la tua missione. Una vita, dieci vite, un villaggio perduto non hanno importanza. Abbiamo un obiettivo più grande». La ragazza distolse lo sguardo dagli occhi scintillanti e penetranti dell'uomo. Se riusciva a ripeterselo più e più volte, pensò, forse la morte non sarebbe apparsa così insensata. Ma nel profondo della sua anima carbonizzata ne dubitava. «È ora di entrare», disse Gaby, dopo aver controllato di nuovo l'orologio. Attraversarono la radura, con la ragazza pronta a sparare con la
Schmeisser e Michael che annusava l'aria. Sentì odore di paglia, di erba bruciata, la fragranza di sidro dei capelli di Gaby, ma niente pelle sudata a indicare soldati appostati per un'imboscata. Seguendo la ragazza all'interno della casa colonica distrutta, Michael colse la traccia di uno strano odore oleoso... un odore metallico, pensò. Olio su metallo? La ragazza gli fece strada nella massa di travi spezzate e pietre, fino a un mucchio di cenere, intorno a cui Michael sentì di nuovo l'odore oleoso e metallico. Gaby si inginocchiò e infilò la mano nella cenere; Michael udì aprirsi i cardini di un piccolo vano. Non si trattava di cenere, ma di un mucchio di gomma mimetizzata, abilmente dipinto e sistemato. Le dita di Gaby trovarono un volano oliato, che la ragazza girò più volte verso destra. Poi tirò fuori la mano e Michael udì dei chiavistelli aprirsi sotto il pavimento della casa colonica. Gaby si alzò in piedi. Un portello si sollevò con facilità, con la cenere di gomma ammucchiata sopra. I cardini e gli ingranaggi metallici erano lucidi di olio e alcuni gradini di legno scendevano nel terreno. «Entrez», disse un giovane francese con i capelli neri e la carnagione giallastra; poi fece cenno a Michael di prendere le scale e scendere letteralmente nel sottosuolo. Michael entrò nell'apertura e Gaby lo seguì immediatamente. Nel passaggio, proprio di fronte a loro, c'era un altro uomo, più anziano e con la barba brizzolata, con in mano una lanterna. Il primo uomo chiuse il portello e bloccò il volano dall'interno, poi fece scattare tre chiavistelli. Il corridoio era stretto e con il soffitto basso; Michael dovette chinarsi per seguire l'uomo con la lanterna. Poi giunsero a un'altra scala che scendeva, questa volta di pietra. Le pareti erano costituite di blocchi di antica pietra grezza. In fondo alla scala c'erano un'ampia sala e una serie di corridoi che si diramavano in direzioni diverse. Una fortezza medievale, dedusse Michael. Dai cavi soprastanti pendevano alcune lampadine, che emettevano una luce fioca. Da un altro punto giungeva un ronzio, simile a quello di macchine da cucire in funzione. Su un grande tavolo nella sala, stesa sotto le lampadine, c'era una mappa; Michael si avvicinò e vide le strade di Parigi. Il volume delle voci aumentò: c'erano persone che parlavano in un'altra stanza. Udì il ticchettio di una macchina per scrivere o per codificare. Una bella donna più anziana entrò nella sala con una cartellina portadocumenti, che ripose in uno dei numerosi schedari. Gettò una rapida occhiata a Michael, fece un cenno con la testa a Gaby e tornò al suo lavoro. «Allora, ragazzo», disse qualcuno in inglese, una voce ruvida come il
suono di una sega, «non sei scozzese, ma dovremo accontentarci». Michael aveva sentito dei passi pesanti pochi secondi prima della voce, quindi non venne colto di sorpresa. Si girò e si trovò di fronte a un gigante dalla barba rossa, con indosso un kilt. «Pearly McCarren al tuo servizio», disse l'uomo, con un forte accento scozzese che gli fece schizzare dalla bocca saliva e vapore nell'aria fredda del sotterraneo. «Re della Francia scozzese. Vale a dire da questa parete a quella laggiù», aggiunse scoppiando a ridere. «Ehi, André!», disse all'uomo con la lanterna. «Che ne dici di tirar fuori un bel bicchiere di vino per me e il mio ospite, eh?» L'uomo uscì dalla stanza e prese uno dei corridoi. «Non è il suo vero nome», disse McCarren a Michael, accostando la mano alla bocca come se stesse rivelando un segreto. «Ma non riesco a pronunciare quasi nessuno dei loro nomi di battaglia, perciò li chiamo tutti André!» «Capisco», rispose Michael, non riuscendo a reprimere un sorriso. «Avete avuto un problemino, eh?», continuò McCarren, rivolgendo la sua attenzione a Gaby. «Quei bastardi stanno intasando le frequenze radio da un'ora. Vi hanno quasi beccato?» «Quasi», rispose la ragazza in inglese. «Zio Gervaise è morto». Non aspettò che McCarren le esprimesse le condoglianze. «E anche Harzer e diversi altri nazisti. Il nostro socio ha un'ottima mira. Abbiamo anche distrutto un carro armato: un Panzerkampfwagen II, con il simbolo organizzativo della XII Divisione Panzer SS». «Ottimo lavoro». McCarren scribacchiò un appunto su un taccuino, strappò la pagina e premette un campanello accanto alla sua sedia al tavolo della mappa. «È meglio far sapere ai nostri amici che i ragazzi della Panzer SS si aggirano da queste parti. I modelli II sono macchine vecchie, è evidente che stanno raschiando il fondo del barile». Consegnò il foglio alla donna che aveva portato la cartella e che si allontanò subito. «Mi dispiace per tuo zio», disse McCarren. «Avete fatto davvero un ottimo lavoro. Avete ucciso Boots?» Gaby scosse la testa. «Era Harzer il bersaglio importante». «Hai ragione. Ma mi fa male all'anima sapere che quel grosso figlio di puttana è vivo, vegeto e scalciante, come si dice in giro». I suoi occhi celesti, nel volto tondo come una luna piena, bianco come il gesso di Dover e con il doppio mento, si fissarono su Michael. «Vieni qui a dare un'occhiata al cappio in cui stai per infilare il collo». Michael fece il giro del tavolo e si mise accanto a McCarren, che lo sovrastava di quasi dieci centimetri ed era grande quanto la porta di un fieni-
le. Lo scozzese indossava un maglione marrone con le toppe sui gomiti e un kilt blu e verde: i colori del reggimento Black Watch. I capelli erano più scuri della barba incolta, che aveva la sfumatura arancione delle scintille di pietra focaia. «Il nostro amico Adam vive qui», disse McCarren battendo con un dito massiccio sul labirinto di boulevard, avenue e tortuose strade secondarie. «In un edificio di pietra grigia in rue Tobas. Diavolo, sono tutti di pietra grigia, vero? Comunque abita nell'appartamento numero otto, all'angolo. Adam è un archivista, lavora per un ufficiale tedesco poco importante che si occupa delle forniture per i nazisti in Francia: cibo, vestiti, carta per scrivere, carburante e pallottole. Si può capire molto sui soldati dalle forniture inviate dall'alto comando». Picchiettò sul labirinto di strade. «Adam va al lavoro a piedi ogni mattina, seguendo questo percorso». Michael osservò il dito seguire la rue Tobas, girare in rue St. Fargeau e poi finire in avenue Gambetta. «L'edificio si trova qui, circondato da un alto reticolato sormontato da filo spinato». «Adam lavora ancora?», chiese Michael. «Anche se la Gestapo sa che è una spia?» «Esatto. Dubito che gli affidino più di qualche scartoffia per tenerlo occupato, però. Guarda qui». McCarren prese un fascicolo accanto alla mappa e lo aprì. All'interno c'erano delle fotografie in bianco e nero, sgranate e ingrandite, che porse a Michael. Ritraevano due uomini, uno con indosso un abito con cravatta e l'altro con una giacca di colore chiaro e un berretto. «Gli uomini della Gestapo seguono Adam dappertutto. Se non questi in particolare, altri. Hanno affittato un locale nel palazzo di fronte al suo e sorvegliano in continuazione il suo appartamento. Pensiamo anche che abbiano modificato le linee telefoniche in modo da poter ascoltare le sue telefonate». McCarren guardò Michael negli occhi. «Stanno aspettando, capisci». Michael annuì. «Aspettano di prendere due piccioni con una fava». «Esatto. E forse sperano, grazie a quei due piccioni, di risalire a tutto il nido, e questo ci toglierebbe di mezzo in un momento cruciale. Comunque hanno intuito che Adam sa qualcosa, e di sicuro non vogliono che quell'informazione trapeli». «Avete qualche idea di cosa possa trattarsi?» «No. E nemmeno nessuno nella Resistenza. Non appena la Gestapo ha scoperto che Adam sa quello che sa, hanno cominciato a stargli addosso come zecche su un terrier». Il francese dalla barba brizzolata che McCarren aveva chiamato André
portò una bottiglia impolverata di vino di Borgogna e tre bicchieri. Li posò sul tavolo accanto alla mappa di Parigi e poi se ne andò, mentre McCarren versava un bicchiere di vino per Michael, per Gaby e infine per sé. «All'uccisione dei nazisti», disse sollevando il bicchiere. «E alla memoria di Henri Gervaise». Michael e Gaby si unirono al brindisi. McCarren bevve rapidamente il vino. «Perciò capisci qual è il problema, amico?», chiese lo scozzese. «La Gestapo ha chiuso Adam in una gabbia invisibile». Michael sorseggiò il vino forte e aspro ed esaminò la mappa. «Adam va al lavoro e torna a casa seguendo lo stesso percorso ogni giorno?», chiese. «Sì. Posso fornirti gli orari, se ti servono». «Mi serviranno». Lo sguardo di Michael seguì il tracciato delle strade che si incrociavano. «Dobbiamo arrivare ad Adam mentre va o viene dal suo appartamento», decise. «Scordatelo», replicò McCarren versando un altro po' di vino nel bicchiere. «Ci avevamo già pensato. Avevamo intenzione di avvicinarci in auto, far fuori i bastardi della Gestapo, e portarlo via, ma...» «Ma», lo interruppe Michael, «vi siete resi conto che Adam sarebbe stato immediatamente ucciso, se a sorvegliarlo ci fossero stati altri agenti della Gestapo oltre a quelli, e non sareste mai riusciti a farlo uscire vivo da Parigi anche se fosse sopravvissuto al prelevamento. Inoltre, chiunque si trovasse in quell'auto molto probabilmente sarebbe finito crivellato di proiettili o catturato dalla Gestapo, e questo non sarebbe stato un bene per la Resistenza. Giusto?» «Più o meno», rispose McCarren, scrollando le gigantesche spalle. «E allora come faremo a contattare Adam per strada?», chiese Gaby. «Chiunque lo fermasse anche solo per qualche istante verrebbe immediatamente arrestato». «Non lo so», ammise Michael. «Ma secondo me dobbiamo procedere in due fasi. Prima dobbiamo avvertire Adam che qualcuno è venuto ad aiutarlo. Poi dobbiamo portarlo via, cosa che potrebbe essere...», borbottò, «difficile». «D'accordo», disse McCarren. Aveva lasciato perdere il bicchiere e ora stava tracannando il vino di Borgogna direttamente dalla bottiglia. «È quello che abbiamo detto io e i miei commilitoni del reggimento Black Watch a Dunkerque quattro anni fa, quando i nazisti ci avevano costretto a indietreggiare fino alla costa. Dicemmo che sarebbe stato complicato uscirne, ma che l'avremmo fatto, perdio». Sorrise amaramente. «Be', la maggior parte di loro è due metri sottoterra e io sono ancora in Francia».
Bevve un altro sorso, poi posò con un tonfo la bottiglia sul tavolo. «Abbiamo studiato la situazione in tantissimi modi, amico mio. Chiunque vada a prendere Adam si farà catturare dalla Gestapo. Punto». «Ovviamente avete una sua foto», disse Michael. Gaby aprì un'altra cartella e gli porse alcune istantanee in bianco e nero: scatti di fronte e di profilo - il tipo di foto usate per i documenti di identità - di un uomo biondo, magro e serio sulla quarantina, dall'aspetto pallido e slavato e con un paio di occhiali tondi dalla montatura di metallo. Adam era il genere di uomo che si mimetizza contro una carta da parati bianca, senza tratti particolari, con un'espressione senza personalità, nient'altro che un volto da dimenticare subito dopo averlo visto. Un contabile, pensò Michael. O un cassiere di banca. Michael esaminò il fascicolo, scritto a macchina in francese, dell'agente il cui nome in codice era Adam. Altezza, un metro e settantotto. Peso, sessantuno chili e mezzo. Ambidestro. I suoi interessi comprendevano la filatelia, il giardinaggio e l'opera. Aveva parenti a Berlino. Una sorella a... Michael tornò a una parola: opera. «Adam frequenta l'Opéra di Parigi?», chiese. «Sempre», rispose McCarren. «Non ha molto denaro, ma ne spende gran parte per quella stupida lagna». «Divide un palco all'Opéra con altri due uomini», disse Gaby, intuendo dove voleva arrivare Michael. «Possiamo scoprire esattamente di quale palco si tratta, se vuoi». «Possiamo fare arrivare un messaggio all'uno o all'altro degli amici di Adam?» La ragazza rifletté per qualche istante, poi scosse la testa. «No. È troppo rischioso. Per quanto ne sappiamo, non sono suoi amici, ma solo impiegati statali che affittano il palco insieme a lui. Uno di loro potrebbe lavorare per la Gestapo». Michael rivolse di nuovo la sua attenzione alle fotografie di Adam e si accertò di conoscere bene ogni centimetro di quel volto scialbo e senza espressione. Dietro quel viso, pensò, era nascosto un qualcosa di molto importante. Ne sentiva nettamente l'odore, così come riusciva a fiutare il vino di Borgogna nell'alito di Pearly McCarren e l'aroma muschiato della polvere da sparo sulla pelle di Gaby. «Troverò il modo di arrivare a lui», dichiarò. «In pieno giorno?», chiese McCarren inarcando le sopracciglia arruffate color di fiamma. «Con i nazisti che lo sorvegliano?»
«Sì», rispose Michael in tono deciso. Sostenne lo sguardo di McCarren per qualche secondo, poi lo scozzese grugnì e distolse gli occhi. Michael ancora non sapeva come avrebbe fatto a portare a termine la missione, ma un modo doveva esistere. Non era certo saltato giù da un maledetto aereo, rifletté, per rinunciare solo perché la situazione sembrava impossibile. «Mi serviranno un documento d'identità e i permessi stradali appropriati», disse. «Non voglio essere arrestato prima di arrivare a Parigi». «Seguimi». McCarren lo guidò lungo un corridoio fino a un'altra stanza, dove c'erano una macchina fotografica su un treppiede e due uomini al lavoro a un tavolo, intenti ad applicare gli ultimi ritocchi su alcuni lasciapassare e documenti d'identità nazisti contraffatti. «Ti scatteremo una foto e poi invecchieremo i documenti», spiegò lo scozzese. «Questi ragazzi sono degli esperti. Vieni, da questa parte». Entrò nella stanza accanto, dove Michael vide scaffali con diverse uniformi naziste, pezze di stoffa grigio scuro e verde, berretti, elmetti e stivali. Tre donne erano impegnate alle macchine da cucire, attaccando bottoni, gradi e mostrine. «Sarai un ufficiale addetto alle comunicazioni, incaricato di mantenere in funzione le linee telefoniche. Quando te ne andrai da qui, saprai tutto sui sistemi di cablaggio dei tedeschi e sarai in grado di snocciolare le tue unità e la loro posizione anche nel sonno. Occorreranno due giorni di studio intensivo. Il tempo servirà anche ai crucchi là sopra per calmarsi. Andrai a Parigi con un autista. Uno dei miei André. Abbiamo una bella auto di servizio, tutta lucida, nascosta non molto lontano da qui. Il grande capo dice che sai bene il tedesco, perciò a partire dalle 8 non parlerai altro». Tirò fuori un orologio da tasca e lo aprì. «Questo ti dà circa quattro ore per lavarti e dormire un po'. Credo che tu ne abbia bisogno». Michael annuì. Quattro ore di sonno erano più che sufficienti per lui e voleva togliersi dalla faccia la pittura di guerra e la polvere. «Avete una doccia qui sotto?» «Non esattamente», rispose McCarren con un leggero sorriso e lanciando un'occhiata a Gaby, che li aveva seguiti. «Questo posto è stato costruito dai romani quando Cesare era un grande condottiero. Amavano fare un bel bagno. Gaby, ti occupi tu del nostro amico?» «Da questa parte», disse Gaby, poi si diresse fuori dalla stanza, con Michael a pochi passi di distanza. «Gaby?» McCarren aspettò che la ragazza si girasse e lo guardasse. «Hai fatto davvero un ottimo lavoro là fuori».
«Merci», rispose lei, senza alcun segno di piacere per la lode. I suoi occhi blu zaffiro, splendidi su quel volto cesellato e impolverato, si fissarono su Michael Gallatin. Lo guardarono solo con freddo rispetto professionale. Un assassino che ne guarda un altro, pensò Michael. Era contento che combattessero per la stessa causa. «Seguimi», gli disse la ragazza, e lui obbedì, addentrandosi nei gelidi corridoi sotterranei. 3. «Ecco la vasca», gli disse Gaby, e Michael vide una cisterna di pietra larga circa quattro metri e mezzo e profonda uno, piena d'acqua in cui galleggiavano alcune foglie morte e dell'erba. «Ecco il sapone», disse la ragazza, gettandogli un mattoncino bianco che aveva preso da uno scaffale di legno su cui c'erano diversi asciugamani, dall'aspetto logoro ma puliti. «Abbiamo cambiato l'acqua appena due giorni fa». Indicò un grande cannello di pietra che spuntava dal muro sopra la cisterna. «Spero che non ti dia fastidio farti il bagno in acqua già usata da altri». Michael fece il suo miglior sorriso. «Basta che sia stata usata solo per quello». «No, abbiamo un altro posto per quelle cose». «Le comodità di casa», disse Michael; improvvisamente Gaby si tolse il maglione impolverato e iniziò a sbottonarsi la camicetta. Lui la guardò spogliarsi, senza sapere come reagire, e lei lo guardò a sua volta mentre si toglieva la camicia. «Spero che non ti dispiaccia», disse senza interrompersi, allungando una mano dietro la schiena per sganciarsi il reggiseno. «Devo lavarmi anch'io». L'indumento cadde a terra e la ragazza rimase a seno nudo. «Oh, no», le assicurò Michael. «Non mi dispiace affatto». «Ne sono contenta. E se anche fosse, non avrebbe importanza. Alcuni uomini sono... capisci... restii a fare il bagno con le donne». Gaby si tolse stivali e calze, e cominciò a sbottonarsi i pantaloni. «Non capisco perché», rispose Michael, più a se stesso che a lei. Si tolse il berretto e sbottonò la tuta. Senza esitare Gaby si spogliò dell'ultimo indumento intimo e, completamente nuda, si diresse verso una serie di gradini di pietra che scendevano nell'acqua. Li discese; Michael la sentì trattenere il fiato quando l'acqua, salendo lungo le cosce, le arrivò allo stomaco. Acqua di sorgente, rifletté. Distribuita da antiche tubature romane in quello che fungeva da bagno comune, forse all'interno di un tempio. Gaby
scese l'ultimo gradino, con l'acqua che le arrivava al seno, e finalmente liberò il respiro che stava trattenendo. Lì sotto faceva già abbastanza freddo anche senza avere la pelle bagnata, ma Michael non aveva voglia di andare a Parigi senza farsi il bagno per due giorni. Si tolse le mutande e scese i gradini. L'acqua gelata lo colpì prima alle caviglie, quindi alle ginocchia e poi... Be', era un'esperienza che avrebbe difficilmente dimenticato. «Rinvigorente», commentò a denti stretti. «Sono davvero impressionata. Devi essere abituato ai bagni gelati. È così?» Prima che lui potesse rispondere, Gaby andò al centro della vasca e ficcò la testa sott'acqua. Riemerse subito e si scostò i folti capelli neri dal viso. «Il sapone, per favore?» Michael glielo lanciò e lei lo prese al volo, poi iniziò a insaponarsi i capelli. Il sapone odorava di sego e avena, decisamente non era di una marca acquistata in una boutique parigina. «Sei stato molto in gamba, giù a Bazancourt», disse la ragazza. «Non particolarmente. Ho solo approfittato di un'occasione». Si abbassò in acqua fino al collo, cercando di abituarsi al gelo. «Lo fai spesso?», gli chiese lei, con i capelli pieni di schiuma. «Approfittare delle occasioni?» «È l'unico modo di agire che conosco». Il modo del lupo, pensò. Si prende ciò che viene offerto. Gaby si insaponò le braccia, le spalle e il seno, con movimenti rapidi ed efficienti invece che lenti e seducenti. Qui non veniva offerto niente, pensò Michael. Gaby stava solo svolgendo un compito. Sembrava del tutto incurante del fatto che il suo corpo agile e asciutto si trovasse a meno di due metri di distanza da lui. E quella mancanza di preoccupazione - quella sicurezza di essere capace di affrontare qualunque problema si presentasse lo affascinava. Ma l'acqua gelida permetteva solo qualche fremito, nessun eccitamento. Michael la osservò insaponarsi la schiena fin dove riusciva ad arrivare: non gli chiese di aiutarla. Poi la ragazza si insaponò il viso, si immerse di nuovo sott'acqua e ne riemerse con le guance arrossate. Gli gettò il sapone. «Tocca a te». Michael si sfregò via dal viso i colori mimetici. Il sapone ruvido gli irritò la pelle. «Le luci», disse, indicando con la testa le due lampadine che pendevano dai fili alle pareti. «Come fate a far arrivare l'elettricità qui sotto?» «Ci siamo attaccati alle linee che alimentano un castello a circa tre chilometri da qui», rispose Gaby. Fece un sorrisetto, con i capelli ancora pieni di schiuma. «I nazisti lo usano come posto di comando». Si sciacquò di nuovo i capelli, togliendo il resto del sapone: la schiuma le galleggiava
intorno come una ghirlanda di pizzo. «Usiamo l'elettricità solo tra mezzanotte e le cinque di mattina, e ne consumiamo poca in modo che non se ne accorgano». «Peccato che non abbiate uno scaldabagno». Michael immerse la testa sott'acqua e si bagnò i capelli, poi li insaponò e li ripulì dalla terra. Si strofinò di nuovo petto, braccia e viso, si sciacquò e sorprese Gaby a fissare il suo volto, non più mimetizzato. «Non sei inglese», affermò la ragazza, dopo aver studiato per qualche secondo il suo aspetto senza i colori di guerra. «Sono cittadino britannico». «Forse lo sei... ma non sei inglese». Gli si avvicinò. Michael sentì il profumo naturale della sua pelle pulita e pensò a un meleto fiorito sotto il sole di primavera. «Ho visto molti inglesi, catturati dai tedeschi nel 1940. Non hai il loro aspetto». «E qual era?» La ragazza scrollò le spalle. Si avvicinò ancora un po'. Gli occhi verdi di Michael avrebbero potuto ipnotizzarla, se lei gliel'avesse permesso, perciò gli fissò la bocca. «Non lo so. Forse... sembravano ragazzini intenti a giocare. Non si rendevano conto di chi avevano contro, quando hanno provato a combattere contro i nazisti. Tu sembri...» Si interruppe, con l'acqua gelida sul seno. Cercò di esprimere quello che pensava. «Tu hai l'aspetto di un uomo che combatte da moltissimo tempo». «Sono stato in Africa settentrionale», rispose Michael. «No. Non è quello che intendevo. Con te sembra... che la tua guerra sia qui». Gaby gli premette le dita sul cuore. «La tua battaglia è al tuo interno, vero?» Ora toccò a lui distogliere lo sguardo, perché Gaby riusciva a vedere troppo nel profondo. «Non è così per tutti?», le chiese, poi iniziò a camminare nell'acqua dirigendosi verso i gradini. Era ora di asciugarsi e concentrare la mente sulla missione. La luce delle lampadine tremolò. Una volta, poi una seconda. Diminuì fino al marrone, poi si spense e Michael rimase in piedi nel buio con l'acqua fino alla cintola. «Un attacco aereo», spiegò Gaby. Michael udì un tremore nella sua voce e si rese conto che alla ragazza non piaceva il buio. «I tedeschi hanno interrotto la corrente elettrica». Si sentì un rumore distante, soffocato come quello di un colpo di martello su un cuscino. L'esplosione di una bomba, oppure un colpo di cannone di grosso calibro, pensò Michael. Seguirono altri scoppi, sentiti più con il
corpo che con le orecchie, e le pietre vibrarono sotto i piedi dell'uomo. «Stavolta potremmo vedercela brutta», disse Gaby, non riuscendo a nascondere la paura nella voce. «Reggetevi forte, gente!», gridò qualcuno in francese, da un'altra stanza. Ci furono un rimbombo e un sussulto; Michael udì il soffitto spezzarsi con uno schiocco simile a un colpo di pistola. Schegge di pietra caddero in acqua. Le bombe stavano cadendo molto vicino, oppure una batteria di cannoni della contraerea stava riempiendo il cielo di esplosioni. Polvere romana si insinuò nelle narici di Michael e il colpo successivo sembrò cadere nel raggio di cinquanta metri dal suo cranio. Un corpo caldo e tremante si strinse a lui. Gaby si aggrappò alle sue spalle, e Michael la strinse tra le braccia. Frammenti di pietra piombavano in acqua intorno a loro. Sei o sette pezzi grossi come ciottoli caddero sulla schiena di Michael. Un'altra esplosione spinse Gaby a stringerglisi ancora di più, piantandogli le dita nella carne, e in un momento di silenzio tra un'esplosione e l'altra, lui la sentì ansimare e gemere in attesa che cadesse la bomba successiva. Gallatin rimase in piedi con i muscoli tesi, ad accarezzare i capelli bagnati di Gaby mentre le bombe cadevano e i cannoni dell'antiaerea tuonavano. Poi, un minuto dopo, non rimase altro che il suono del loro respiro. I loro cuori battevano all'impazzata e Michael sentì il corpo di Gaby tremare per la forza del battito. Qualcuno in un'altra stanza tossiva e una voce quella di McCarren - gridò: «Qualcuno è ferito?» Altre voci risposero che non c'erano feriti. «Gaby?», chiamò McCarren. «Tu e l'inglese state bene?» La ragazza tentò di rispondere, ma aveva polvere in gola e nelle narici e le sembrava di stare per svenire. Odiava il buio, il senso di reclusione e i colpi martellanti che le avevano riportato alla mente un momento terrificante di quattro anni prima, quando si era nascosta in un seminterrato insieme alla sua famiglia mentre gli aerei della Luftwaffe bombardavano il suo villaggio radendolo al suolo. «Gaby?», gridò McCarren, un po' agitato. «Stiamo bene», gli rispose Michael in tono calmo. «Siamo solo un po' scossi». Lo scozzese sbuffò di sollievo e andò a controllare un'altra zona. Gaby non riusciva a smettere di tremare, a causa dell'acqua fredda e del sangue che le si era gelato nelle vene. Teneva la testa appoggiata sulla spalla dell'uomo e improvvisamente si rese conto che non conosceva - e
non doveva conoscere - il suo vero nome. Era una delle regole del gioco. Ma sentì l'odore della sua pelle in mezzo a quello della polvere nell'aria, e per un istante pensò - ma no, ovviamente era impossibile - che la sua pelle avesse un leggerissimo odore selvatico, come quello di un animale. Non era sgradevole, solo... diverso, in un modo che non riusciva a identificare. Le lampadine tremolarono di nuovo. Si accesero e si spensero più volte, come se qualcuno - una mano tedesca - girasse gli interruttori che regolavano il flusso di elettricità. Poi si riaccesero e rimasero accese, anche se a un livello di fioca luce brunastra. «Via libera», disse Michael, e Gaby alzò gli occhi per guardarlo in volto. Gli occhi dell'inglese sembravano leggermente luminosi, come se assorbissero tutta la luce disponibile; quella vista la spaventò, anche se non sapeva esattamente perché. Quell'uomo era diverso: in lui c'era qualcosa... qualcosa di indefinibile. Lo fissò negli occhi, mentre il tempo si misurava in battiti cardiaci, e credette di scorgere qualcosa di primordiale, di guizzante dietro quegli occhi verdi, come un fuoco dietro un vetro gelato. Era consapevole del calore del corpo di lui, del vapore che cominciava ad alzarsi dai pori della sua pelle, e aprì la bocca per parlare - cosa avrebbe detto non lo sapeva, ma sapeva che la sua voce avrebbe tremato. Michael parlò per primo, usando il proprio corpo. Le volse le spalle, salì i gradini fino allo scaffale degli asciugamani e ne prese uno per sé e uno per lei. «Ti prenderai un malanno», disse a Gaby, offrendole l'asciugamano per invitarla ad abbandonare l'acqua gelata. La ragazza uscì dalla vasca e Michael sentì il proprio corpo rispondere guardando l'acqua scivolarle dai seni, lungo l'addome piatto e le cosce lucide. Poi lei gli fu di fronte, gocciolante, con i capelli neri lisci e bagnati, e Michael la avvolse delicatamente nell'asciugamano. L'uomo si sentiva stringere la gola, ma riuscì lo stesso a parlare. «È meglio che mi riposi», disse fissandola negli occhi. «Ho avuto una notte eccitante». «Sì», convenne Gaby. «Anch'io». Si strinse nell'asciugamano e lasciò impronte bagnate sulle pietre del pavimento, andando a riprendere i vestiti. «La tua stanza è in fondo al corridoio», gli disse indicandola con un cenno. «È a destra dopo il secondo arco. Spero che non ti dia fastidio dormire su una branda, la coperta però è bella pesante». «Va benissimo». Quando era stanco riusciva a dormire nel fango e sapeva che si sarebbe addormentato meno di due minuti dopo essersi steso sulla branda. «Verrò a chiamarti quando sarà ora di alzarsi», gli disse ancora Gaby.
«Lo spero», rispose lui asciugandosi i capelli. Sentì il suono dei passi della ragazza che usciva dalla stanza; quando abbassò l'asciugamano, Gaby non c'era più. Michael allora si asciugò il corpo, raccolse i vestiti e prese il corridoio che la ragazza aveva indicato. Sul pavimento prima del secondo arco c'erano un cero in un candeliere di ottone e una scatola di fiammiferi, e Michael si fermò ad accendere lo stoppino. Seguì la fiamma nella stanza, che era una sala dall'odore di chiuso e dalle pareti macchiate di umidità, che conteneva una branda stretta - e dall'aria decisamente scomoda - e una sbarra metallica fissata al muro da cui pendevano alcune grucce. Michael appese i vestiti: puzzavano di sudore, polvere e gas di scarico, con una traccia di carne bruciata. Pensò che dopo la fine della guerra avrebbe potuto affittare il suo senso dell'odorato, magari a un profumiere. Una volta, in una strada londinese, aveva trovato un guanto bianco da donna, e in quell'oggetto aveva sentito odore di chiavi d'ottone, tè e limoni, profumo Chanel, la dolce fragranza di terra di un costoso vino bianco, il sudore di più di un uomo, la lontana traccia di una rosa antica e naturalmente l'odore della gomma dello pneumatico Dunlop passato sopra il guanto mentre si trovava in mezzo alla strada. Nel corso degli anni e con la pratica aveva appreso che gli odori avevano per lui la stessa forza della vista. Ovviamente la sua abilità era più forte quando si trasformava, ma ormai questa capacità era penetrata anche nella sua vita da umano. Michael alzò la coperta della branda e si infilò a letto. Le molle gli si conficcarono nella schiena, ma era stato pugnalato da lame ben più affilate. Si sistemò sotto la coperta, poi soffiò sulla candela per spegnerla, appoggiò il candeliere sulle pietre accanto alla branda e posò la testa su un cuscino imbottito di piume d'oca. Il suo corpo era stanco, ma la sua mente voleva vagare, come un animale irrequieto in gabbia. Restò a occhi spalancati nel buio e ascoltò il suono dell'acqua che gocciava lentamente lungo un muro. La tua battaglia è al tuo interno, aveva detto Gaby. Vero? Sì, pensò Michael. E gli venne in mente quello su cui rifletteva ogni giorno e ogni notte sin da quando era bambino nella foresta russa: Non sono umano. Non sono un animale. Cosa sono? Un licantropo. Una parola inventata da uno psichiatra, un uomo che studiava pazienti deliranti in manicomi, con gli occhi vitrei alla luce della luna piena. I contadini in Russia, Romania, Germania, Austria, Ungheria, Yugoslavia, Spagna e Grecia usavano tutti nomi diversi, ma che coincidevano nel significato: lupo mannaro.
Non umano. Non un animale, pensò Michael. Cosa sono, agli occhi di Dio? Ah, ma nel bosco dei suoi pensieri c'era un'altra svolta. Michael immaginava spesso Dio come un grosso lupo bianco che avanzava su una distesa innevata sotto un cielo risplendente di stelle. I Suoi occhi erano dorati e limpidissimi, e le Sue zanne bianche estremamente aguzze. Dio aveva un odorato in grado di riconoscere bugie e tradimento in tutto il firmamento, e strappava via il cuore ai traditori, mangiandolo ancora sanguinante. Era impossibile sfuggire al freddo giudizio di Dio, il Re dei Lupi. Ma allora il Dio degli uomini come considerava il licantropo? Come una pestilenza o un miracolo? Naturalmente Michael poteva solo ipotizzarlo, ma di una cosa era sicuro: c'erano ben poche occasioni in cui non desiderava poter essere un animale per tutta la vita e correre libero e selvaggio nella verde casa di Dio. Due gambe lo ostacolavano, quattro zampe lo facevano volare. Ormai era ora di dormire, di raccogliere le forze per la mattina seguente e il compito che lo attendeva. C'erano molte cose da imparare e molto a cui fare attenzione. Parigi era una bella tagliola con le ganasce dentate, in grado di spezzare con la stessa facilità il collo di un essere umano come quello di un lupo. Michael chiuse gli occhi, scambiando l'oscurità esterna con quella interiore. Ascoltò l'acqua gocciare... goccia... goccia. Trasse un lungo respiro profondo, espirò con un sussurro e lasciò questo mondo. La trasformazione l. Si alzò a sedere e sentì l'acqua gocciolare lungo un muro di pietre antiche. Aveva la vista oscurata dal sonno e dalla febbre, ma al centro della stanza ardeva un fuocherello di rami di pino e alla sua luce rossastra Mikhail riuscì a distinguere la figura di un uomo in piedi accanto a lui. Disse la prima cosa che gli venne in mente: «Padre?» «Non sono tuo padre, ragazzino». Era la voce di Wiktor, con un tono leggermente agitato. «Non chiamarmi più così». «Mio... padre». Mikhail sbatté le palpebre, cercando di concentrarsi. Wiktor torreggiava su di lui indossando la tunica di pelle di cervo con il colletto di lepre bianca, con la barba grigia che gli pendeva sul petto. «Dov'è... mia madre?»
«È morta. Sono tutti morti. Lo sai già: perché insisti a chiamare i fantasmi?» Il ragazzino si premette una mano sul volto. Sudava, ma dentro sentiva freddo, come se fosse luglio sulla pelle ma gennaio nel sangue. Le ossa gli pulsavano, come se un'ascia non affilata cercasse di abbattere un albero di legnoferro. Dov'era? si chiese. Suo padre, sua madre e sua sorella... dov'erano? Cominciò tutto a tornargli alla mente dal buio della memoria: il picnic, gli spari nel prato, i corpi distesi sull'erba macchiata di sangue. E gli uomini che lo inseguivano, il fragore degli zoccoli dei cavalli nel sottobosco. I lupi. I lupi. La sua mente si bloccò e i ricordi fuggirono come bambini davanti a un cimitero. Ma dentro di sé sapeva dov'era - nelle profondità del palazzo bianco - e sapeva che l'uomo in piedi di fronte a lui, come un re barbaro, era al tempo stesso più e meno di un essere umano. «Sei con noi da sei giorni», disse Wiktor. «Non mangi niente, neppure le bacche. Vuoi morire?» «Voglio andare a casa», rispose Mikhail con voce debole. «Voglio stare con mia madre e mio padre». «Sei già a casa», ribatté Wiktor. Qualcuno tossì violentemente e Wiktor guardò con i suoi intensi occhi color ambra verso il punto in cui la forma di Andrei giaceva sotto una coperta di mantelli. I colpi di tosse si trasformarono in un rantolo e il corpo di Andrei sobbalzò. Quando il suono della malattia mortale svanì, Wiktor rivolse di nuovo la sua attenzione al ragazzino. «Ascoltami», ordinò, poi si accovacciò davanti a Mikhail. «Presto starai male. Molto presto. Ti serviranno tutte le tue forze, se vuoi sopravvivere». Mikhail si teneva lo stomaco, che era caldo e gonfio. «Sto già male». «Non quanto lo sarai tra poco». Gli occhi di Wiktor luccicavano come monete di rame alla fioca luce rossa. «Sei un cucciolo esile», affermò. «I tuoi genitori non ti facevano mangiare carne?» Non attese una risposta, ma afferrò Mikhail per il mento con le dita contorte e sollevò il viso del bambino in modo che fosse illuminato il più possibile dalla luce del fuoco. «Pallido come un budino al latte», disse. «Non sarai in grado di sopportarlo. Lo vedo». «Sopportare cosa, signore?» «La trasformazione. La malattia che ti colpirà». Wiktor gli lasciò il mento. «Allora non mangiare. Sarebbe uno spreco di ottimo cibo. Sei finito, no?» «Non lo so, signore», ammise Mikhail, poi tremò per un brivido di fred-
do nelle ossa. «Lo so io. Ho imparato a riconoscere le canne forti da quelle deboli. Nel nostro giardino ci sono molte canne deboli». Wiktor indicò l'esterno, fuori dalla stanza, mentre Andrei veniva colto da un altro accesso di tosse. «Tutti nasciamo deboli», disse al ragazzino. «Dobbiamo imparare ad essere forti, altrimenti moriamo. È un semplice fatto della vita e della morte». Mikhail era stanco. Pensò a uno straccio che una volta Dimitri aveva usato per pulire la carrozza e si sentì come quel vecchio straccio bagnato. Si distese di nuovo, sul giaciglio fatto di erba e aghi di pino. «Ragazzino?», chiese Wiktor. «Sai qualcosa di quello che ti sta succedendo?» «No, signore». Mikhail chiuse gli occhi e li serrò forte. Gli sembrava che il suo viso fosse fatto della cera delle candele in cui per gioco infilava il dito, per osservarla solidificarsi. «Non lo sanno mai», disse Wiktor, soprattutto a se stesso. «Sai qualcosa sui germi?», continuò, rivolgendosi di nuovo al ragazzo. «I germi, signore?» «Germi. Batteri. Virus. Sai cosa sono?» Anche stavolta non attese una risposta. «Guarda qui». Si sputò nella mano e piazzò il palmo bagnato di saliva davanti al viso di Mikhail. Il ragazzino lo guardò obbediente, ma non vide altro che saliva. «È qui dentro», disse. «La pestilenza e il miracolo. Proprio qui, nella mia mano». Ritirò la mano e Mikhail lo guardò leccare via la saliva. «Io ne sono pieno», gli spiegò Wiktor. «Nel sangue e negli organi interni. Nel cuore e nei polmoni, nell'intestino, nel cervello». Si toccò il cranio calvo. «Ne sono infestato», disse, poi fissò intensamente il ragazzo. «Proprio come te, in questo momento». Mikhail non era sicuro di capire di cosa stesse parlando quell'uomo. Si drizzò di nuovo a sedere, con la testa che gli martellava. Aveva il corpo scosso sia dai brividi che dalla febbre, malvagi complici nel tormentarlo. «Era nella saliva di Renati». Wiktor toccò Mikhail sulla spalla, dove un bendaggio fatto di foglie e una specie di impasto marrone di erbe preparato da Renati era stato applicato alla ferita infiammata e piena di pus. Il tocco fu molto leggero, ma il dolore lo fece sobbalzare, togliendogli il fiato. «Adesso è dentro di te, e ti ucciderà, oppure...» Si interruppe e scrollò le spalle. «Ti insegnerà la verità». «La verità?» Mikhail scosse la testa, perplesso e con la mente confusa. «Su che cosa?» «Sulla vita», rispose Wiktor.
Il suo alito arrivò sul viso del ragazzo: odorava di sangue e carne cruda. Mikhail vide alcuni frammenti rossi nella barba dell'uomo, insieme a pezzetti di foglie ed erba. «Una vita oltre ogni sogno - o incubo, dipende dal tuo punto di vista. Alcuni potrebbero definirla una disgrazia, una malattia, una maledizione». Quest'ultima parola era stata pronunciata con scherno. «Io la chiamo nobiltà, e se potessi rinascere preferirei solo un'altra vita: vorrei vivere come un lupo sin dalla nascita e non conoscere quella bestia chiamata essere umano. Capisci cosa sto dicendo, ragazzino?» Nella mente di Mikhail c'era un unico pensiero: «Voglio andare subito a casa», disse. «Mio Dio, abbiamo fatto entrare nel branco uno sciocco!», esclamò Wiktor, quasi urlando. Si alzò in piedi. «Ora non hai altra casa che questa, insieme a noi!» Con il sandalo spinse un pezzo ancora intatto di carne che si trovava sul pavimento accanto al giaciglio del ragazzo: era carne di coniglio, e sebbene Renati l'avesse passata alcune volte sulla fiamma, stillava ancora un po' di sangue. «Non mangiare!», tuonò Wiktor. «In effetti ti ordino di non mangiare! Prima morirai, prima potremo farti a pezzi e mangiare te!» Queste parole provocarono a Mikhail un brivido di puro terrore, ma il suo volto, madido di sudore, restò impassibile. «Perciò non toccarlo, mi hai sentito?» Con un calcio Wiktor spostò il pezzo di carne di coniglio un po' più vicino a Mikhail. «Vogliamo che tu diventi debole e muoia!» La sua filippica venne interrotta dalla tosse di Andrei. Wiktor voltò le spalle al ragazzino e attraversò la stanza, si inginocchiò accanto ad Andrei e sollevò la coperta. Mikhail lo sentì sibilare tra i denti. L'uomo grugnì e disse con voce sommessa: «Mio povero Andrei». Poi improvvisamente si alzò, lanciò un'occhiataccia a Mikhail e uscì a grandi passi dalla stanza. Il ragazzo restò perfettamente immobile, ascoltando il rumore dei sandali di Wiktor che saliva le scale. Il fuocherello scoppiettò e fece scintille, e il respiro di Andrei sembrava il brontolio dei vagoni merci su un binario lontano. Mikhail rabbrividì, pieno di gelo, e fissò il pezzo sanguinolento di carne di coniglio. Ti ordino di non mangiare, aveva detto Wiktor. Mikhail fissò la carne e guardò una mosca volargli lentamente intorno. L'insetto si posò sulla carne e vi camminò sopra felice, come se cercasse un punto tenero da cui trarre il primo sorso di succhi. Ti ordino di non mangiare. Mikhail distolse lo sguardo. Andrei tossì stremato, ebbe uno spasmo, poi rimase di nuovo immobile. Cosa aveva? si chiese Mikhail. Perché stava così male? Il suo sguardo tornò sulla carne di coniglio. Pensò a zanne di lupo, spalancate e fameliche, e immaginò un grosso mucchio di ossa per-
fettamente leccate e ripulite, bianche come la neve di ottobre. Lo stomacò gli miagolò come un gattino. Distolse di nuovo lo sguardo dalla carne. Era così piena di sangue, così... orribile. Nei piatti dorati sulla tavola dei Gallatinov non si sarebbe mai trovata una cosa cruda come quella. Quando sarebbe tornato a casa, e dov'erano sua madre e suo padre? Oh, sì. Morti. Tutti morti. Sentì che la mente gli veniva afferrata da qualcosa, come un segreto stretto da un pugno, e non riuscì più a pensare ai suoi genitori né a sua sorella. Fissò la carne di coniglio e gli venne l'acquolina in bocca. Solo un boccone, pensò. Solo uno. Sarebbe stato così brutto? Mikhail allungò una mano e toccò la carne. La mosca gli ronzò sorpresa intorno alla testa, finché lui non la scacciò via. Ritirò la mano e guardò le leggere macchie scarlatte sulla punta delle dita. Le annusò. Un odore metallico, il ricordo di suo padre che oliava una spada d'argento. Poi si leccò le dita e sentì il sapore del sangue. Non era un sapore cattivo, né particolarmente buono. Era leggermente affumicato e un po' amaro. Ma nonostante questo, gli fece brontolare più forte lo stomaco e venire ancora di più l'acquolina in bocca. Se fosse morto, i lupi - e Wiktor era uno di loro - lo avrebbero fatto a pezzi. Quindi doveva vivere: era una semplice verità. E se voleva vivere, doveva ingoiare per forza la carne sanguinolenta. Scacciò di nuovo la mosca ostinata e prese la carne di coniglio. Al tatto era liscia e leggermente oleosa. Forse c'era anche un po' di pelo, ma non la guardò troppo attentamente. Serrò bene gli occhi e aprì la bocca. Lo stomaco gli si rivoltò, ma doveva riempirsi prima di potersi svuotare. Si spinse la carne in bocca e dette un morso. I succhi della carne gli inondarono la lingua: erano dolci e forti, un assaggio di natura selvaggia. Mikhail aveva la testa che gli pulsava e la schiena che gli faceva male, ma i denti lavoravano come se fossero i padroni e tutto il resto del corpo fosse al loro servizio. Strappò pezzi di carne e li masticò: era un coniglio vecchio e coriaceo, molto muscoloso, per niente disposto a farsi ingoiare senza lottare. Sangue e succhi gli colarono sul mento mentre mangiava e Mikhail Gallatinov - a sei giorni e un mondo intero di distanza dal ragazzino che era prima - lacerò la carne con i denti e la ingoiò con la soddisfazione della fame. Quando arrivò alle ossa, le ripulì per bene e cercò di spezzarle per prenderne il midollo. Una delle ossa più piccole si aprì, con il midollo roseo esposto. Mikhail infilò la lingua nell'osso spezzato e ne tirò fuori il sangue rappreso. Mangiò come se fosse il miglior pasto del mondo servito su un piatto d'oro. Poco dopo le ossa ormai svuotate gli caddero dalle dita; Mikhail si acco-
vacciò di fronte al mucchietto e si leccò le labbra. Il fatto lo colpì con forza spaventosa: la carne sanguinolenta gli era piaciuta. Gli era piaciuta moltissimo. E non era tutto. Ne voleva ancora. Andrei fu colto da un altro accesso di tosse, che terminò con un suono strozzato. Il corpo si mosse e Andrei chiamò con voce debole: «Wiktor? Wiktor?» «Se n'è andato», disse Mikhail, ma Andrei continuò a chiamare Wiktor con voce ora forte ora debole. In quella voce si sentiva terrore, e anche una terribile stanchezza. Mikhail si trascinò carponi sulla pietra fino ad Andrei. In quel punto c'era un cattivo odore, acre e putrefatto. «Wiktor?», mormorò Andrei, con il volto nascosto tra le pieghe dei mantelli, da cui spuntavano solo i capelli color castano chiaro, bagnati di sudore. «Wiktor... ti prego... aiutami». Mikhail allungò una mano e tolse il mantello dal viso di Andrei. Si trattava di un ragazzo di diciotto o forse diciannove anni, e il suo volto - lucido di sudore - era grigio come un vecchio strofinaccio. Guardò Mikhail con gli occhi castani infossati e gli afferrò il braccio con le dita ossute. «Wiktor», sussurrò Andrei. Cercò di sollevare la testa, ma il collo non aveva abbastanza forza. «Wiktor... non lasciarmi morire». «Wiktor non è qui». Mikhail cercò di liberarsi, ma le dita lo strinsero più forte. «Non lasciarmi morire. Non lasciarmi morire», lo implorò il ragazzo, con gli occhi spenti. Tossì piano una volta e Mikhail vide il suo petto sottile e giallastro sobbalzare. Il colpo di tosse successivo fu più forte e quello ancora dopo scosse tutto il corpo. La tosse di Andrei si trasformò in soffocamento; Mikhail cercò di liberare il braccio, ma Andrei non lo lasciava. Dal petto di Andrei arrivò un rantolo orribile, un suono liquido, ripugnante, viscido. La sua bocca si spalancò e il ragazzo tossì violentemente, mentre dai suoi occhi scorrevano copiose le lacrime. Qualcosa colò dalla bocca di Andrei. Qualcosa di lungo, bianco e strisciante. Mikhail sbatté le palpebre e sentì il sangue defluirgli dal viso, mentre guardava il verme bianco strisciare sulle pietre accanto alla testa del malato. Andrei tossì un'altra volta e nei suoi polmoni si sentì il rumore di una massa pesante che si disfaceva. E a quel punto gli uscirono a fiotti dalla bocca. I vermi bianchi si intrecciavano e si aggrovigliavano tra loro, i primi puliti e bianchi come fantasmi, quelli successivi macchiati di sangue
rosso vivo proveniente dai polmoni. Andrei rabbrividì ed ebbe un conato di vomito, con gli occhi fissi sul ragazzino impietrito dallo shock, ma non riuscì a spalancare la bocca abbastanza da permettere a tutti i vermi di venire fuori. Cominciarono a uscirgli anche dalle narici; il ragazzo malato soffocò e si strozzò, mentre il carico veniva espulso dal suo corpo. Continuavano a venire fuori, ora di colore rosso scuro e più lenti nei movimenti; nel vederli spargersi sul pavimento Mikhail urlò e con uno strattone si liberò il braccio, lasciando frammenti di pelle sotto le unghie di Andrei. Cercò di alzarsi in piedi, ma inciampò e cadde all'indietro picchiando forte il fondoschiena. Andrei si sporse verso di lui, cercando di ritrovare la sua mano e alzandosi dal suo giaciglio di mantelli, con i vermi neri di sangue che gli schiumavano dalla bocca. Anche Mikhail cominciò a soffocare, mentre allontanandosi precipitosamente sulle pietre sentiva la carne di coniglio tornargli su: la inghiottì di nuovo, immaginando zanne di lupo che lo facevano a pezzi. Andrei si alzò in ginocchio e poi, con un orribile colpo di tosse che sembrò strappargli i polmoni, espulse un groviglio nero di vermi, grosso come il pugno di un uomo. Si riversarono dalla bocca e giù lungo il petto, seguiti da strisce scure di solo sangue. Andrei cadde in avanti. Era nudo, e il suo corpo aveva già il colore grigio-giallastro di un cadavere. I suoi muscoli asciutti ebbero un tremito, la sua carne ondeggiò e fremette sotto un velo di sudore. Mikhail vide un'ombra diffondersi sulla schiena di Andrei: peli bruni gli stavano spuntando dai pori. Nel giro di pochi secondi la schiena e le spalle di Andrei erano coperti di peli, che si stavano diffondendo anche sui glutei e sulle cosce, scurendogli le braccia, spuntando dalle mani e dalle dita. Andrei sollevò la testa e Mikhail lo vide colto dalla trasformazione, con il sangue che ancora gli colava sulla mandibola che si stava allungando. I suoi occhi si erano infossati sotto una fronte sporgente, i peli del cuoio capelluto erano lunghi e lucidi e la gola striata di peli scuri. Andrei rabbrividì quando la sua spina dorsale iniziò a spezzarsi e torcersi, poi spalancò la bocca zannuta per urlare - una spaventosa unione di angoscia animale e umana. Una mano afferrò Mikhail per la collottola e lo sollevò dal pavimento. Un'altra mano - dalle dita ruvide e decise - gli allontanò la testa da quello spettacolo raccapricciante. Venne spinto contro una spalla e sentì l'odore muschiato della pelle di cervo. «Non guardare». Era la voce di Renati. «Non guardare, piccolo», disse, posandogli saldamente una mano sulla nuca. Ma Mikhail riusciva ancora a sentire, e questo era già abbastanza sgra-
devole. Le urla metà di uomo, metà di lupo continuarono, unite al rumore di ossa che si spezzavano. Qualcun altro entrò nella stanza e Renati gridò: «Esci!» Chiunque fosse, si allontanò subito. Le urla si trasformarono in un ululato acuto e stridulo, che fece venire la pelle d'oca a Mikhail e lo fece quasi impazzire; il bambino serrò gli occhi, mentre Renati lo teneva saldamente alla nuca. Mikhail si rese conto in quel momento di averle gettato le braccia al collo. L'ululato straziante echeggiava nella stanza. Poi ci fu un gemito strozzato, come una macchina che perde energia e si ferma. Qualche altro respiro rantolante e poi il silenzio. Renati mise Mikhail a terra. Il bambino tenne il volto girato dall'altra parte mentre la donna si avvicinava al cadavere e vi si inginocchiava accanto. Nikita, il mongolo dagli occhi a mandorla e dai capelli neri come il carbone, entrò nella stanza, lanciò una rapida occhiata a Mikhail e poi alla donna. «Andrei è morto», dichiarò. Era una semplice affermazione. Renati annuì. «Dov'è Wiktor?» «È andato a caccia. Per lui». Indicò Mikhail con un gesto del pollice. «Meglio così, allora». Renati allungò una mano, raccolse una manciata di vermi sanguinanti e li gettò nel fuoco, dove si contorsero bruciando. «Wiktor non voleva guardarlo morire». Nikita avanzò e si mise a fianco di Renati, e mentre parlavano - qualcosa a proposito di un giardino - la curiosità spinse Mikhail ad attraversare la stanza. Si fermò tra Nikita e Renati e guardò il cadavere di Andrei. Era la carcassa di un lupo dal pelo bruno e dagli occhi scuri e ciechi. La lingua penzolava in una piccola pozza di sangue. La zampa destra era la gamba di un essere umano e all'estremità delle zampe anteriori c'erano due mani umane, le cui dita artigliavano le pietre del pavimento come se cercassero di strapparle via. Invece di provare orrore, Mikhail sentì una fitta di dolore al cuore. Le dita erano pallide e ossute, ed erano le stesse che solo pochi momenti prima gli avevano afferrato il braccio. Il potere assoluto della morte lo colpì con piena forza in un punto tra il mento e la sommità della testa. Ma fu un colpo che gli schiarì le idee: in quell'istante capì che sua madre, suo padre e sua sorella se n'erano andati per sempre, e così anche i giorni dei sogni a occhi aperti sul destino di un aquilone. Renati lo guardò e gli ordinò bruscamente: «Stai indietro!» Mikhail obbedì e solo allora si rese conto che stava pestando i vermi. Nikita e Renati avvolsero la carcassa in un mantello di pelle di cervo, la sollevarono e la portarono via, in una sezione del palazzo bianco in cui regnavano le ombre. Mikhail si accovacciò accanto al fuoco, il sangue che gli scorreva nel-
le vene simili a fiumi ostruiti dal ghiaccio. Fissò il sangue scuro di Andrei sulla pietra. Rabbrividì e tese i palmi verso il bagliore del fuoco. Ricordò che Wiktor gli aveva detto: Presto starai male. Molto presto. Non riusciva a scaldarsi. Si sedette più vicino al fuoco, ma nemmeno il calore sul viso riusciva a scongelargli le ossa. Sentì un solletico nel petto e tossì. Tra le umide mura di pietra il rumore fu assordante, come un colpo d'arma da fuoco. 2. I giorni si susseguivano uno dopo l'altro e nella stanza non c'era la luce né del sole né della luna, solo il bagliore del fuoco e le scintille che scaturivano quando qualcuno - Renati, Franco, Nikita, Pauli, Belyi o Alekza alimentava le fiamme con qualche ramo di pino. Wiktor non si occupava mai del fuoco, come fosse sottinteso che un compito tanto umile era indegno per lui. Mikhail si sentiva stanco e passava la maggior parte del tempo a dormire ma, quando si svegliava, di solito accanto a lui c'erano un pezzo di carne quasi cruda, delle bacche e un po' d'acqua in una tazza ricavata da una pietra scavata. Mangiava senza domande né esitazioni, ma la pietra era troppo pesante da sollevare, perciò doveva chinarsi e lappare l'acqua. Un'altra cosa che aveva notato era che, chiunque cuocesse la carne, la stava gradualmente lasciando sempre più al sangue. E non era solo carne di muscolo. Ogni tanto c'era un pezzo rosso e violaceo, che sembrava strappato dalle interiora di qualche creatura. All'inizio Mikhail si era rifiutato di toccare quei bocconi raccapriccianti, ma non gli veniva messo accanto niente di nuovo finché non aveva mangiato quello che c'era, così aveva imparato ben presto a non lasciare niente - per quanto crudo o orripilante altrimenti sarebbero arrivate le mosche. Aveva anche imparato che vomitare era inutile: nessuno ripuliva. Una volta si era svegliato rabbrividendo di freddo fuori ma bruciando sotto la pelle, sentendo un coro di lupi che ululavano lontano. All'inizio ne fu terrorizzato. Visse alcuni secondi di folle panico, in cui ebbe voglia di farsi strada a unghiate fuori dalla stanza, attraversare correndo il bosco e tornare nel posto in cui i suoi genitori giacevano morti, per trovare un fucile con cui spararsi alla testa; ma quando il panico passò, come un'ombra, rimase seduto ad ascoltare quella che per lui era musica, con le note che salivano al cielo e si intrecciavano l'una all'altra come rampicanti estivi. Per un breve momento pensò addirittura di essere in grado di capire il lin-
guaggio di quegli ululati: era una sensazione strana, come se improvvisamente avesse imparato a pensare in cinese in modo frammentario. Era un linguaggio misto di gioia e struggimento, come il sospiro di qualcuno che corre in un campo di fiori gialli, con il cielo azzurro che si estende infinito in tutte le direzioni, e che stringe in mano un filo spezzato, là dove doveva esservi un aquilone. Era il linguaggio del desiderio di vivere per sempre e della consapevolezza che la vita è una bellezza crudele. Gli ululati riempivano di lacrime gli occhi di Mikhail e lo facevano sentire piccolo, un granello di polvere trasportato dal vento su una terra di dirupi e abissi. Una volta, svegliandosi, si era trovato davanti al viso le fauci di un lupo dal pelo biondo, che lo fissava con occhi azzurro ghiaccio fermi e penetranti. Mikhail era rimasto completamente immobile, con il cuore che gli batteva all'impazzata, mentre il lupo gli annusava il corpo. Anche lui sentiva l'odore del lupo: l'odore dolce di peli lavati dalla pioggia e un alito che portava ancora il ricordo del sangue fresco. Rabbrividì, rimanendo lì disteso come se fosse legato, mentre il lupo biondo lo annusava lentamente al petto e alla gola. Poi, scuotendo la testa, l'animale aprì la bocca e fece cadere sulle pietre accanto alla testa di Mikhail undici more intatte. Il lupo si ritirò fino al bordo della zona illuminata dal fuoco, si accovacciò e lo osservò mangiare le more e lappare l'acqua nella pietra cava. Un dolore sordo e pulsante cominciò a diffondersi nelle ossa di Mikhail. Muoversi - persino respirare - divenne un tormento. E il dolore aumentava, ora dopo ora, giorno dopo giorno, e qualcuno lo puliva quando evacuava e qualcun altro gli rimboccava la coperta di pelle di cervo, come un neonato. Tremava di freddo e i brividi facevano scattare il dolore che gli correva nei nervi, facendolo gemere e piangere. Nella semioscurità sentì delle voci. Quella di Franco: «È troppo piccolo, ti dico. Quelli piccoli non sopravvivono. Renati, volevi così tanto un figlio?» E Renati, arrabbiata: «Non ho chiesto il parere di uno sciocco. Stai per conto tuo e lasciaci in pace!» Poi la voce di Wiktor, lenta e precisa: «Il colorito non va. Credi che abbia i vermi? Dagli qualcosa da mangiare e vediamo se lo trattiene». Un pezzo di carne sanguinolenta venne spinto alle labbra di Mikhail: e il ragazzino, perso in un mare di dolore, pensò: Non mangiare. Ti ordino di non mangiare, e sentì la ribellione disserrargli le mascelle. Venne assalito da una nuova ondata di dolore, che gli fece scendere le lacrime sul viso, ma accettò il cibo e lo afferrò con i denti, per non farselo portare via. Gli giunse la voce di Nikita, leggermente ammirata: «È più forte di quello che sembra. Fai attenzione che non ti stacchi le dita!»
Mangiava tutto quello che gli davano. La sua lingua cominciò a desiderare il sangue e i fluidi, e riusciva a distinguere cosa stesse mangiando coniglio, cervo, cinghiale selvatico o scoiattolo, a volte persino il muschio carnoso di un ratto - e a capire se era stato appena ucciso oppure era morto da ore. La sua mente smise di ribellarsi al pensiero di consumare carne sanguinolenta: mangiava perché aveva fame e perché non c'era nient'altro. A volte gli venivano date solo more o un'erba ruvida, ma mandava giù tutto senza lamentarsi. La vista gli si offuscò e tutto assunse contorni grigi. Gli occhi gli pulsavano di dolore e persino la fioca luce del fuoco gli procurava fastidio. Poi non seppe con certezza quando perché il tempo era distorto - l'oscurità si chiuse su di lui e rimase cieco. Il dolore non lo abbandonò: salì a un nuovo livello, e i suoi muscoli si irrigidirono e schioccarono come le assi di una casa sul punto di crollare per la pressione interna. Non riusciva ad aprire la bocca abbastanza per mangiare la carne e ben presto si rese conto che qualcuno gli infilava dentro carne già masticata. Una mano gelata gli sfiorò la fronte e persino quel tocco leggero gli tolse il fiato. «Voglio che tu viva». Era la voce di Renati a sussurrargli nell'orecchio. «Voglio che tu lotti contro la morte, mi hai sentito? Voglio che tu lotti per resistere. Se sopravvivi a questo, piccolo, scoprirai delle meraviglie». «Come sta?», chiese la voce di Franco, un po' preoccupata. «È dimagrito». «Non è ancora uno scheletro», ribatté Renati irritata, poi continuò, in tono più gentile. «Sopravviverà, ne sono sicura. È un lottatore, Franco: guarda come digrigna i denti. Sì. Sopravviverà». «Ha un lungo cammino da percorrere», disse Franco. «Il peggio deve ancora venire». «Lo so». La donna rimase in silenzio per molto tempo; Mikhail sentì le sue dita accarezzargli dolcemente i capelli bagnati di sudore. «Quanti altri non sono vissuti quanto lui? Mi servirebbero dieci mani per contarli tutti. Ma guardalo, Franco! Guardalo come si sforza e combatte!» «Quello non è combattere», osservò Franco. «Credo che stia per cacare». «Be', l'intestino funziona ancora! È un buon segno! È quando si blocca e si gonfia, che sai che moriranno! No, questo ha un'anima d'acciaio, Franco. Io queste cose le intuisco». «Spero sia vero», rispose l'uomo. «E spero che non ti sbagli su di lui». Fece qualche passo, poi riprese: «Se muore... non è colpa tua. È solo... così
che funziona la natura. Lo capisci?» Renati gli rispose con un suono soffocato di assenso. Più tardi, mentre gli accarezzava i capelli e gli sfiorava la fronte con le dita, Mikhail la sentì cantare sottovoce: una ninnananna russa che parlava di un uccello azzurro in cerca di una casa, che trova riposo quando il sole di primavera scioglie il ghiaccio invernale. Cantava con voce dolce e melodiosa, un sussurro tutto per lui. Mikhail ricordò qualcun altro che gli cantava quella ninnananna, ma sembrava accaduto così tanto tempo prima. Sua madre. Sì. Sua madre, che dormiva stesa in un prato. Renati continuò a cantare... e per qualche istante Mikhail rimase ad ascoltarla senza provare dolore. Un salto nel tempo, un buio durato giorni. Dolore. Dolore. Mikhail non aveva mai provato un dolore simile e, se nel corso della sua giovane vita avesse mai immaginato di conoscere un simile tormento, si sarebbe rifugiato in un angolo e avrebbe chiesto urlando alla mano di Dio di portarlo via. Gli sembrò di sentire i denti muoversi nella bocca, sfregando l'uno contro l'altro negli alveoli scorticati e sanguinanti. Si sentiva spezzato nelle articolazioni, una bambola di stracci vivente trafitta di spilli. Il suo battito cardiaco era un suono di tamburo per i dannati e Mikhail cercò di aprire la bocca per urlare, ma i muscoli della mandibola si tesero e lo scorticarono come filo spinato. Il dolore aumentava, diminuiva, ricresceva fino a un nuovo livello. Un momento si sentiva una fornace e quello successivo una casa di ghiaccio. Si rendeva conto che il suo corpo sussultava, si contorceva, si piegava in una nuova forma. Le ossa si arcuavano e si torcevano, come fossero bastoncini di zucchero. Non aveva alcun controllo su queste contorsioni: il suo corpo era diventato una strana macchina, apparentemente intenta ad autodistruggersi. Cieco, incapace di parlare o urlare, a malapena in grado di respirare a causa dell'angoscia che gli attanagliava i polmoni e del cuore che gli batteva all'impazzata, Mikhail sentì la spina dorsale cominciare a deformarsi. I muscoli impazzirono: gli fecero drizzare il torso, gettando le braccia all'indietro, gli piegarono il collo e gli schiacciarono il viso come se fosse compresso in una morsa d'acciaio. Ricadde sulla schiena quando i muscoli si rilassarono, poi venne rialzato di nuovo di colpo quando si contrassero come cuoio asciugato al sole. Al centro di quel vortice di dolore, l'essenza di Mikhail Gallatinov lottava per non perdere la voglia di vivere. Mentre il suo corpo si dibatteva e i muscoli si tendevano, pensò all'Uomo di Gomma e decise che una volta finito tutto poteva unirsi a un circo e diventare il più grande Uomo di Gomma mai esistito. E poi il dolore lo assalì di nuovo, lo afferrò per le budella e lo scosse.
Sentì la spina dorsale gonfiarsi e allungarsi con uno stridio di nervi traumatizzati. Dalla terra dei fantasmi gli giunsero delle voci: «Tienilo fermo! Tienilo fermo! Si spezzerà il collo!» «...brucia di febbre...» «Non riuscirà mai a sopravvivere... troppo debole...» «Aprigli la bocca! Si staccherà la lingua con un morso!» Le voci si allontanarono in un turbinio di rumori. Mikhail sentiva tutto ma non era in grado di impedire le contrazioni del suo corpo, e mentre era disteso su un fianco le ginocchia si sollevarono fino al petto. Il centro del dolore era la spina dorsale, il cranio era una pentola in ebollizione. Le ginocchia gli toccarono il mento e si bloccarono. Digrignò i denti e nel cervello sentì un ululato, come se si alzasse un vento di tempesta intento a divellere le fondamenta di tutto quello che esisteva prima. Il fragore del vento aumentò, divenne un suono che cancellò tutto tranne che se stesso, e la sua forza raddoppiò e triplicò. Mikhail si immaginò di attraversare correndo il campo di fiori gialli, mentre lunghe strisce di nuvole nere si muovevano veloci verso la casa dei Gallatinov. Si fermò, si girò e gridò: «Madre! Padre! Alizia!», ma dalla casa non giunse risposta e le nuvole erano affamate. Si girò e continuò a correre, con il cuore che gli batteva all'impazzata: sentì uno schianto, guardò indietro e vide la casa volare a pezzi per il vento. Ed ecco che le nuvole ora inseguivano lui e stavano per avvolgerlo. Cercava di fuggire, ma non riusciva a correre abbastanza veloce. Più veloce. Più veloce. La tempesta gli tuonava alle calcagna. Più veloce. Il cuore che gli batteva. Un urlo fortissimo nelle orecchie. Più veloce... E da lui esplose una trasformazione. Dalle mani e dalle braccia gli spuntarono peli scuri. Sentì la spina dorsale contorcersi, piegandogli le spalle. Le sue mani - ora non più mani - toccarono la terra. Corse più velocemente, con il corpo piegato in due, e i vestiti cominciarono a squarciarsi. Il vento li strappò via e li lanciò in cielo. Mikhail si tolse le scarpe con un calcio e correndo sollevò terra e fiori con le dita dei piedi. La tempesta cercò di raggiungerlo, ma ormai il ragazzo procedeva a quattro zampe, correndo dal passato al futuro. La pioggia cadde su di lui: pioggia fredda e purificante, e Mikhail alzò il viso verso il cielo e... si svegliò. Buio su buio. Le palpebre sigillate dalle lacrime. Con uno sforzo riuscì ad aprirle, e nei suoi occhi si insinuò un leggero barlume rossastro. Il fuocherello ardeva ancora e nella stanza c'era un forte odore di cenere di pino. Mikhail si tirò su e si mise accovacciato, ogni movimento uno sforzo doloroso. I muscoli gli pulsavano ancora, come se fossero stati tesi al massimo
e poi messi in una nuova forma. Il cervello, la schiena e l'osso sacro gli facevano male. Cercò di alzarsi in piedi, ma la spina dorsale urlò. Desiderava moltissimo un po' d'aria fresca, il profumo del vento della foresta: era per lui una necessità fisica, che lo spinse a muoversi. Si portò carponi, nudo, sulle pietre grezze, lontano dal fuoco. Tentò più volte di alzarsi in piedi, ma le sue ossa non erano pronte. Si trascinò a quattro zampe fino alla scala e la salì come un animale. Una volta in cima, si trascinò fino a un corridoio coperto di muschio e dette a un mucchio di scheletri di cervo solo un'occhiata distratta. Ben presto vide davanti a sé una luce: era rossastra, dell'alba o del tramonto. Entrava dalle finestre senza vetri e colorava le pareti e il soffitto, e nei punti in cui arrivava il muschio non aveva attecchito. Mikhail sentì l'odore dell'aria fresca; il profumo fece scattare nel suo cervello qualcosa che si mise a ronzare come gli ingranaggi di un orologio da tasca. Non era più la fragranza pungente e fiorita della tarda primavera. Aveva un odore diverso, un aroma secco con un cuore freddo: il fuoco in lotta con il gelo. Era l'odore dell'estate che terminava. Era passato del tempo. Questo era chiaro. Si sedette, stordito dai propri sensi, e si passò la mano sulla spalla sinistra. Le dita trovarono dei solchi di carne rosa e qualche frammento di crosta si staccò dalla pelle e cadde a terra. Gli facevano male le ginocchia e gli sembrava importante alzarsi in piedi prima di proseguire. Fece un tentativo. Se le ossa avevano i nervi, erano in fiamme. Riusciva quasi a sentire il rumore dei muscoli che si piegavano, come i cardini cigolanti di una vecchia porta rimasta chiusa da tempo. Aveva il volto, il petto e le spalle coperti di sudore, ma non si arrese e non urlò. Il suo scheletro gli sembrava sconosciuto. Di chi erano quelle ossa, conficcate come schegge spezzate nella sua carne? Alzati in piedi, si disse. Alzati e cammina... come un uomo. Si alzò. Il primo passo fu come quello di un bambino: esitante, incerto. Il secondo non andò meglio. Ma il terzo e il quarto gli dissero che sapeva ancora camminare; attraversò il corridoio fino alla stanza dal soffitto alto, in cui la luce del sole colorava le travi di arancione e i piccioni tubavano sopra di lui. Qualcosa si mosse tra le ombre sul pavimento alla sua destra. Sentì uno scricchiolio di foglie. Due corpi erano distesi lì intrecciati, e si alzavano e abbassavano lentamente. Era difficile stabilire dove finiva uno e cominciava l'altro. Sbatté le palpebre per liberare gli occhi dall'ultima foschia del sonno. Una delle figure sul pavimento gemette - un gemito di donna - e Mikhail vide pelle umana coperta di peli animali che spuntavano e ondeg-
giavano e poi sparivano di nuovo nella carne umida. Un paio di occhi azzurri lo fissarono dal buio. Alekza afferrò una spalla su cui peli color castano chiaro andavano e venivano come maree. Franco girò la testa e vide il ragazzino in piedi nel punto in cui il sole incrociava l'ombra. «Mio Dio!», mormorò Franco sconvolto. «Ce l'ha fatta!» Franco si staccò da Alekza con un suono umido e balzò in piedi. «Wiktor!», gridò. «Renati!» Le sue grida echeggiarono nei corridoi e nelle stanze del palazzo bianco. «Tutti! Venite qui subito!» Mikhail fissò il corpo nudo di Alekza. La ragazza non accennò a coprirsi. Sulla sua carne splendeva un lucido velo di sudore. «Wiktor! Renati!», continuava a gridare Franco. «È vivo! È vivo!» 3. «Seguimi», disse Wiktor un mattino di fine settembre; Mikhail lo tallonò come un'ombra. Si lasciarono alle spalle le sale piene di sole e scesero in un punto del palazzo bianco in cui l'aria era gelida. Mikhail indossava la veste di pelle di cervo che Renati aveva fatto per lui e se la strinse meglio addosso mentre insieme a Wiktor continuava a scendere in profondità. Si era reso conto, nel corso delle ultime settimane, che i suoi occhi si abituavano rapidamente al buio e che alla luce del giorno era in grado di vedere con assoluta limpidezza, riuscendo addirittura a contare le foglie rosse di una quercia a una distanza di cento metri. Ma Wiktor voleva mostrare qualcosa a Mikhail, lì sotto nell'oscurità, e si fermò ad accendere, con le braci di un fuocherello che aveva alimentato precedentemente, una torcia di stracci e grasso di cinghiale. La luce della torcia tremolò e l'odore del grasso che bruciava fece venire l'acquolina in bocca al ragazzo. Scesero in un'area in cui i dipinti murali che ritraevano monaci con tonache e cappucci avevano conservato i colori. Uno stretto passaggio portava attraverso un arco e dei cancelli di ferro fino a una stanza enorme. Mikhail guardò in alto, ma non riuscì a vedere il soffitto. Wiktor disse: «Ecco qui. Resta dove sei». Mikhail obbedì e Wiktor iniziò a fare il giro della stanza. La luce della torcia rivelava scaffali di pietra colmi di libri spessi e rilegati in cuoio: erano centinaia. No, di più, pensò Mikhail. I libri riempivano ogni spazio disponibile ed erano ammucchiati in pile sul pavimento. «Questo», disse piano Wiktor, «è il lavoro che eseguivano i monaci che vivevano qui cento anni fa: copiare e conservare manoscritti. Qui dentro ci
sono tremilaquattrocentotrentanove volumi». Lo dichiarò con orgoglio, come se parlasse di figli prediletti. «Teologia, storia, architettura, ingegneria, matematica, lingue, filosofia... sono tutte qui». Fece un ampio gesto circolare con la torcia. Sorrise leggermente. «I monaci, come vedi, non avevano una grande vita sociale. Mostrami le mani». «Le... mani?» «Sì, sai... quelle due cose alle estremità delle braccia. Fammele vedere». Mikhail sollevò le mani verso la luce della torcia. Wiktor le esaminò. Grugnì e annuì. «Hai le mani da studioso», disse. «Hai avuto una vita privilegiata, vero?» Mikhail si strinse nelle spalle, non capendo la domanda. «Si sono presi molto cura di te», continuò Wiktor. «Sei nato in una famiglia aristocratica». L'uomo aveva già visto gli abiti che indossavano la madre, il padre e la sorella di Mikhail: erano di ottima qualità. Adesso erano stracci buoni per fare le torce. Alzò una mano dalle dita sottili e la rivolse verso la luce. «Ero un professore all'Università di Kiev, molto tempo fa», disse. Nella sua voce non c'era nostalgia, solo ricordi. «Insegnavo lingue: tedesco, inglese e francese». Nei suoi occhi passò un lampo di durezza. «Ho imparato a mendicare in tre lingue diverse il denaro per dare da mangiare a mia moglie e a mio figlio. La Russia non dà molto valore alla mente umana». Wiktor continuò a camminare, illuminando i libri con la torcia. «A meno che, ovviamente, tu non riesca a escogitare un metodo più economico per uccidere», aggiunse. «Ma immagino che tutti i governi siano più o meno uguali: avidi e poco lungimiranti. È la maledizione dell'uomo avere una mente ma non il senno per usarla». Si fermò per estrarre delicatamente un volume da uno scaffale. Non aveva più la copertina sul retro e le pagine di pergamena pendevano dal dorso. «La Repubblica di Platone», disse Wiktor. «In russo, grazie a Dio. Non conosco il greco». Annusò la rilegatura come se fosse un profumo inebriante, poi rimise il volume a posto. «Le cronache di Giulio Cesare, le teorie di Copernico, l'Inferno di Dante, i viaggi di Marco Polo... tutto intorno a noi ci sono gli ingressi a tremila mondi». Mosse la torcia in un delicato movimento circolare e si portò un dito alle labbra. «Shhh», mormorò. «Resta in perfetto silenzio e sentirai il rumore di chiavi che girano, qui sotto nel buio». Mikhail ascoltò. Sentì un leggero fruscio, non una chiave nella serratura, ma un ratto da qualche parte della enorme stanza. «Ah, be'...» Wiktor si strinse nelle spalle e continuò a esaminare i libri.
«Ora appartengono a me». Di nuovo, l'ombra di un sorriso. «Posso onestamente affermare di possedere la biblioteca più grande di qualsiasi altro licantropo al mondo». «Sua moglie e suo figlio», disse Mikhail. «Dove sono?» «Morti. Tutti e due». Wiktor si fermò a togliere le ragnatele da alcuni volumi. «Sono entrambi morti di fame, dopo che perdetti l'impiego. Era una situazione politica, capisci. Le mie idee avevano fatto arrabbiare qualcuno. Per un po' abbiamo fatto i vagabondi. E anche i mendicanti». Fissò la luce della torcia; Mikhail vide i suoi occhi color ambra sfavillare di fuoco. «Non ero molto bravo a mendicare», disse piano. «Dopo la loro morte, partii da solo. Decisi di lasciare la Russia, di andare magari in Inghilterra. Lì ci sono uomini istruiti. Presi una strada che mi portò ad attraversare questo bosco... e un lupo mi morse. Si chiamava Gustav: fu il mio maestro». Spostò la torcia in modo che la luce cadesse su Mikhail. «Mio figlio aveva i capelli scuri, come i tuoi. Ma era più grande. Aveva undici anni. Era davvero un bravo ragazzo». La torcia si mosse e Wiktor la seguì per la stanza. «Hai fatto molta strada, Mikhail. Ma ne hai ancora molta da percorrere. Hai sentito i racconti sugli uomini lupo, vero? Ogni bambino viene mandato a letto spaventato da queste storie, almeno una volta». «Sì, signore», rispose Mikhail. Suo padre aveva raccontato a lui e ad Alizia storie di uomini maledetti che diventavano lupi e facevano a pezzi gli agnelli. «Sono bugie», disse Wiktor. «La luna piena non c'entra niente. E neppure la notte. Possiamo subire la trasformazione quando vogliamo... ma imparare a controllarla richiede tempo e pazienza. Hai il primo, imparerai la seconda. Alcuni di noi mutano selettivamente. Sai cosa vuol dire?» «No, signore». «Siamo capaci di controllare quale parte cambia per prima. Le mani in artigli, per esempio. O le ossa facciali e i denti. Il compito è dominare mente e corpo, Mikhail. Per un lupo - e per un uomo - è odioso perdere il controllo di se stesso. Come dicevo, è una cosa che dovrai imparare. E non è un compito facile, assolutamente: ti occorreranno anni per padroneggiarlo, se mai ci riuscirai». Mikhail si sentiva combattuto: ascoltava quello che diceva Wiktor solo con una parte della mente... l'altra era tesa al ratto che grattava nel buio. «Hai mai letto qualcosa di anatomia?» Wiktor prese da uno scaffale un libro molto spesso. Mikhail lo guardò con espressione vacua. «Anatomia: lo studio del corpo umano», spiegò Wiktor. «Questo è scritto in tedesco e
ci sono illustrazioni del cervello. Ho riflettuto molto sul virus nei nostri corpi e sulla ragione per cui noi possiamo trasformarci ma gli uomini normali no. Credo che il virus colpisca qualcosa all'interno del cervello. Qualcosa sepolto da tempo e che doveva essere dimenticato». Parlava con tono eccitato, come se si trovasse di nuovo su una cattedra universitaria. «Questo libro», continuò rimettendo a posto il primo volume e prendendone un altro che si trovava accanto, «è una filosofia della mente, proveniente da un manoscritto medievale. Sostiene che il cervello dell'uomo sia fatto a molteplici strati. Al centro c'è l'istinto animale: la natura della bestia, diciamo...» Mikhail era distratto. Il ratto continuava: sgrat, sgrat. Un brontolio gli risuonò nello stomaco, come un rintocco in una campana vuota. «... ed è quella parte del cervello a venire liberata dal virus. Quanto poco sappiamo della macchina meravigliosa che abbiamo nel cranio, Mikhail. Capisci cosa intendo?» Mikhail non capiva, a dire la verità. Tutto quel parlare di bestie e cervelli non gli faceva alcuna impressione. Si guardò intorno, con i sensi all'erta: sgrat, sgrat. «Puoi avere tremila mondi, se vuoi», gli disse Wiktor. «Sarò la tua chiave, se scegli di imparare». «Imparare?» Distolse la sua attenzione dalla fame. «Imparare cosa?» Wiktor aveva finito la pazienza. «Non sei stupido! Smetti di comportarti come se lo fossi! Ascolta quello che sto dicendo: voglio insegnarti quello che c'è in questi libri! E anche quello che conosco del mondo! Le lingue: francese, inglese, tedesco. E poi storia, matematica e...» «Perché?», lo interruppe Mikhail. Renati gli aveva detto che il palazzo bianco e la foresta sarebbero stati la sua casa per il resto della sua vita, come per gli altri del branco. «A cosa mi servirebbero queste cose, se rimarrò qui per sempre?» «A cosa ti servirebbero?», lo schernì Wiktor, sbuffando di rabbia. «A cosa gli servirebbero, dice!» Avanzò brandendo la torcia e si fermò proprio di fronte a Mikhail. «Essere un lupo mannaro è una cosa meravigliosa. Un miracolo. Ma siamo nati umani e non possiamo abbandonare la nostra umanità, anche se la parola "umano" a volte ci fa vergognare profondamente. Sai perché non sono sempre un lupo? Perché non mi limito a scorazzare nella foresta notte e giorno?» Mikhail scosse la testa. «Perché quando assumiamo la forma del lupo, invecchiamo come i lupi. Se trascorressimo un anno da lupi, tornando alla forma umana ci ritroveremmo sette anni più
vecchi. E per quanto io ami la libertà, i profumi, e... la grandiosa meraviglia di tutto questo, amo di più la vita. Voglio vivere il più a lungo possibile e voglio sapere. Il mio cervello brama la conoscenza. Ti dico: impara a correre come un lupo, sì; ma impara anche a pensare come un uomo». Si toccò la testa calva. «Se non lo farai, sprecherai questo miracolo». Mikhail guardò i libri che riusciva a distinguere alla luce della torcia. Sembravano molto grossi e polverosi. Come era possibile leggere un solo libro così grosso, figuriamoci tutti? «Sono un insegnante», disse Wiktor. «Lascia che ti insegni». Mikhail ci pensò su. Quei libri lo spaventavano, per certi versi: erano enormi e minacciosi. Suo padre aveva una biblioteca, anche se i libri erano più sottili e avevano i titoli in oro sul dorso. Ricordò l'istitutrice che si occupava di lui e di Alizia: Magda, una donna grassa e con i capelli grigi che arrivava a casa loro in calesse. Magda diceva sempre che era importante conoscere il mondo, in modo da trovare il proprio posto se ci si perdeva. Mikhail non si era mai sentito così perso in vita sua. Scrollò le spalle, ancora diffidente: non gli erano mai piaciuti i compiti. «D'accordo», disse, dopo un istante. «Bene! Oh, se gli amministratori dell'università potessero vedere adesso il loro professore!» Grugnì. «Strapperei loro il cuore per mostrare come batte!» Ascoltò il fruscio delle unghie dell'intruso. «La prima lezione non si trova in un libro. Hai lo stomaco che brontola e anch'io ho fame. Trova il ratto e avremo da mangiare». Picchiò ripetutamente la torcia sul pavimento sprizzandone scintille finché le fiamme non si spensero. La stanza rimase nell'oscurità. Mikhail cercò di ascoltare, ma il suo battito cardiaco era una distrazione fragorosa. Un ratto era un bel pasto sostanzioso, se sufficientemente grande: questo sembrava grande abbastanza per due. Mikhail aveva mangiato i ratti che Renati gli aveva portato. Il sapore era quello di un pollo filaccioso, ma il cervello era dolce. Guardò lentamente a destra e a sinistra, nel buio, con la testa inclinata per captare il rumore. Il ratto continuava a grattare, ma era difficile individuarne la posizione. «Scendi al livello del ratto», suggerì Wiktor. «Pensa come un ratto». Mikhail si accovacciò. Poi si stese sulla pancia. Ah sì, ora il fruscio lo diresse verso destra. La parete di fondo, pensò. Probabilmente in un angolo. Prese a strisciare in quella direzione. Il ratto smise improvvisamente di grattare. «Ti sente», disse Wiktor. «Ti legge nella mente».
Mikhail continuò ad avanzare strisciando. Con la spalla urtò una pila di libri che scivolarono a terra, poi sentì le unghie del ratto ticchettare sulla pietra mentre scappava lungo la parete di fondo. Andava da destra a sinistra, pensò Mikhail. Anzi, sperò. Il suo stomaco brontolò, un suono preoccupantemente forte, e il ragazzino sentì Wiktor ridere. Il ratto si fermò e restò immobile, senza fare rumore. Mikhail era steso sulla pancia, con la testa inclinata da un lato. Gli giunse alle narici un odore pungente e acido. Il ratto era terrorizzato: aveva appena urinato. L'odore era un percorso chiaro quanto il raggio di luce di una lanterna, ma Mikhail ancora non capiva del tutto il perché. I suoi occhi distinsero intorno a lui altre pile di libri, tutte delineate da un contorno grigio leggermente luminoso. Non riusciva ancora a vedere il ratto, ma riusciva a distinguere i volumi e gli scaffali sulla parete di fondo. Se fossi un ratto, pensò, mi infilerei in un angolo. In un punto in cui avere le spalle coperte. Mikhail avanzò strisciando, lentamente... lentamente... Sentiva un tonfo soffocato e regolare a circa dieci metri dietro di sé: il cuore di Wiktor, capì. Il suo battito era assordante e Mikhail rimase lì fino a quando non si fu calmato. Piegò la testa da un alto e dall'altro, in ascolto. Eccolo. Un rapido tic... tic... come quello di un piccolo orologio. Alla sua destra, circa sei metri più avanti. Nell'angolo, ovviamente. Dietro un mucchio scomposto di libri luminescenti. Mikhail strisciò verso l'angolo, con movimenti silenziosi e sinuosi. Sentì il battito del cuore del ratto accelerare. Possedeva un sesto senso: riusciva a sentire il suo odore, e un istante dopo anche Mikhail sentì l'odore del pelo impolverato dell'animale. Ora sapeva esattamente dove si trovava. Il ratto era immobile, ma il suo battito indicava che stava per schizzare via dal suo nascondiglio per correre lungo il muro. Mikhail continuò ad avanzare, centimetro dopo centimetro. Sentì le unghie del ratto ticchettare; improvvisamente l'animale scattò in avanti, una luminescenza indistinta che cercava di scappare e raggiungere l'angolo dalla parte opposta della stanza. Mikhail sapeva solo di avere fame e di volere il ratto, ma la sua mente agì d'istinto, calcolando la direzione e la velocità della preda con la fredda logica di un animale. Si tuffò a sinistra. Il ratto squittì e guizzò via dalla sua mano. Quando l'animale cambiò improvvisamente direzione e cercò di superarlo - un lampo di fuoco grigio - Mikhail si gettò subito a destra, allungò una mano e afferrò il roditore per la collottola. Il ratto si dimenò, cercando di conficcare i denti nella carne di Mikhail.
Era un esemplare grosso e forte. Qualche altro istante e sarebbe riuscito a liberarsi. Mikhail risolse la questione: aprì la bocca, mise il ratto tra i denti e morse il piccolo collo duro. Strinse i denti: non lo fece con rabbia o ira, solo per fame. Sentì le ossa spezzarsi e un fiotto di sangue caldo gli riempì la bocca. Strappò l'ultimo pezzo di carne. La testa del ratto gli rotolò sulla lingua. Le zampe attaccate al corpo scalciarono alcune volte, ma con sempre meno forza. E così finì una lotta molto impari. «Bravo», disse Wiktor. Ma la sua voce si fece subito di nuovo severa. «Cinque centimetri in più e l'avresti perso. Quel ratto era lento come una nonna satolla di biscotti». Mikhail sputò nella mano la testa decapitata. Osservò Wiktor avvicinarsi, delineato dalla luminescenza. Era buona educazione offrire la parte migliore di un pasto a Wiktor, e Mikhail sollevò il palmo. «È tua», gli disse Wiktor prendendo la carcassa ancora calda. Mikhail lavorò il cranio con i denti, riuscendo finalmente ad aprirlo. Il cervello gli ricordò un tortino di patate dolci che aveva mangiato in un altro mondo. Wiktor aprì in due la carcassa del ratto, dal moncone di collo alla coda. Aspirò il profumo inebriante di sangue e carne fresca, poi con le dita tirò fuori gli intestini e strappò dalle ossa pezzi di grasso e carne. Ne offrì una parte a Mikhail, che l'accettò grato. L'uomo e il ragazzino mangiarono il ratto nella stanza buia, circondati da scaffali contenenti echi di menti civilizzate. 4. Il dorato intreccio dei giorni si tinse d'argento. Nella foresta luceva la brina e gli alberi di legno duro si ergevano nudi contro il vento pungente. Sarebbe stato un brutto inverno, aveva detto Renati osservando la corteccia che si ispessiva sugli alberi. La prima neve cadde all'inizio di ottobre e coprì il palazzo bianco. Mentre i venti novembrini urlavano e la neve soffiava disordinatamente, nelle profondità del palazzo il branco si stringeva intorno a un fuoco che non veniva mai lasciato ardere troppo forte, né spegnersi completamente. Mikhail si sentiva fiacco e aveva tanta voglia di dormire, sebbene Wiktor gli tenesse la mente occupata con domande tratte dai libri: Mikhail non aveva mai saputo che esistessero tante domande, e persino dormendo sognava punti interrogativi. In breve tempo iniziò a sognare nelle lingue straniere, tedesco e inglese, che Wiktor gli insegnava facendolo esercitare
e ripetere senza pietà. Ma la mente di Mikhail si era affinata, così come i suoi istinti, e stava imparando. La pancia di Alekza si gonfiava. Restava spesso distesa rannicchiata e gli altri le davano sempre una porzione in più della preda. Non si trasformavano mai davanti a Mikhail: salivano sempre le scale ed entravano nei corridoi su due gambe prima di uscire dal palazzo bianco per andare a caccia su quattro zampe. A volte portavano carne fresca e gocciolante, a volte tornavano imbronciati e a mani vuote. Ma in giro c'erano molti ratti, attirati dal calore del fuoco, e quelli erano facili da catturare. Mikhail sapeva ormai di far parte del branco e di essere stato accettato, ma si sentiva ancora ciò che era: un bambino umano che pativa il freddo e si sentiva spesso tristemente a disagio. A volte le ossa e il cervello gli dolevano così forte che quasi si metteva a piangere. Quasi. Aveva piagnucolato per il dolore qualche volta, e le occhiate che gli avevano lanciato Wiktor e Renati gli avevano fatto capire che piangere era tollerato solo da qualcuno che soffriva di vermi nella pancia. Ma la trasformazione restava per lui un mistero. Vivere con il branco era una cosa, ma unirsi completamente a loro era molto diverso. Come si trasformavano? si chiedeva Mikhail, aggiungendo un'altra domanda al suo fardello di interrogativi. Inspiravano profondamente, come se stessero per tuffarsi in acque scure e gelate? Allungavano il corpo finché la pelle umana si spaccava e il lupo balzava fuori libero? Come facevano? Nessuno si era offerto di spiegarglielo e Mikhail - il più debole del branco - era troppo timido per parlare. Sapeva solo che quando li udiva ululare dopo un'uccisione, e le loro voci echeggiavano sulle colline innevate, sentiva il sangue bruciare. Dal Nord arrivò una tormenta. Mentre infuriava fuori dalle mura, Pauli intonò con voce acuta e fragile una canzone popolare su un uccello che vola tra le stelle, mentre suo fratello, Belyi dai capelli rossi, teneva il tempo picchiettando con dei pezzetti di legno. La tormenta si fermò in quel punto e continuò a imperversare con la sua musica, giorno dopo giorno. Il fuoco perse il suo calore e il cibo venne rosicchiato tutto. Le pance cominciarono a cantare. Wiktor, Nikita e Belyi dovettero uscire nella tormenta per cacciare. Si assentarono per tre giorni e tre notti, e al loro ritorno Wiktor e Nikita portarono la carcassa mezzo congelata di un cervo. Belyi non tornò: aveva puntato un caribù, e l'ultima volta che Wiktor e Nikita l'avevano visto stava zigzagando nella tormenta all'inseguimento della sua preda.
Pauli pianse per un po' e gli altri la lasciarono in pace. Ma non pianse tanto da non mangiare. Accettò la carne sanguinolenta con la stessa fame degli altri, Mikhail incluso. E il ragazzino apprese una nuova lezione: qualunque tragedia succedesse, qualunque disgrazia capitasse, la vita continuava. Una mattina Mikhail si svegliò e ascoltò il silenzio. La tormenta era passata. Seguì gli altri su per le scale e attraverso le sale, dove la neve era ammucchiata sulle pietre e in alto i rami degli alberi si allungavano coperti di ghiaccio. Fuori splendeva il sole e il cielo si stendeva azzurro su un mondo di un bianco accecante. Wiktor, Nikita e Franco scavarono nella neve un sentiero fino al cortile del palazzo e Mikhail uscì all'aperto insieme agli altri per gustarsi l'aria fresca e gelida. Inspirò tanto profondamente che i polmoni gli bruciarono. Il sole splendeva forte, ma non riusciva a intaccare la liscia coltre di neve. Mikhail era completamente incantato dalla bellezza della foresta invernale, quando una palla di neve lo colpì alla tempia. «Bel colpo!», gridò Wiktor. «Tiragliene un altro!» Nikita sorrideva, già impegnato a raccogliere altra neve. Tirò indietro il braccio e si apprestò a lanciarla, ma all'ultimo momento si girò e la gettò in faccia a Franco, che si trovava a circa sei metri di distanza. «Stupido!», gridò Franco, prendendo una manciata di neve. Renati lanciò una palla che sfiorò la testa di Nikita; Pauli, con precisione micidiale, ne tirò una in faccia a Alekza. La ragazza, ridendo e sputacchiando neve, cadde sul sedere, con le mani premute sul ventre gravido. «Volete la guerra?», urlò Nikita, sorridendo a Renati. «Avrete la guerra!» Lanciò una palla di neve che la colpì alla spalla; Mikhail si mise all'ombra di Renati e fece partire un tiro che prese Franco proprio in mezzo agli occhi e lo fece barcollare all'indietro. «Tu... piccolo... animale!», gridò Franco, e Wiktor sorridendo schivò con calma un lancio che gli passò sopra la testa. Renati venne colpita da due palle contemporaneamente, scagliate da Franco e Pauli. Mikhail tuffò le mani ormai intorpidite nella neve, per preparare un altro tiro. Nikita scansò il lancio di Renati e corse in un punto in cui la neve era fresca e intatta. Tuffò entrambe le mani profondamente, per ricavarne due palle di neve. Quello che ne estrasse era molto diverso. Era congelato, rosso e maciullato. La risata di Renati finì su una nota strozzata. L'ultima palla di neve lanciata da Franco la colpì alla spalla, ma lei continuò a fissare ciò che Nikita aveva in mano. Mikhail lasciò cadere a terra la neve che aveva nel pugno.
Pauli inspirò bruscamente, con il viso e i capelli gocciolanti. Nikita aveva estratto della neve una mano recisa e mutilata. Era blu, come marmo levigato, e due dita erano state strappate via. Il pollice e l'indice erano rattrappite e curvate verso l'interno - l'ultima traccia di una zampa - e il dorso della mano era coperto di sottili peli rossi. Pauli avanzò di un passo. Poi di un altro, fino ad avere la neve alle ginocchia. Sbatté le palpebre stordita, poi gemette: «Belyi...» «Portala dentro», disse Wiktor a Renati, che prese subito Pauli per un braccio e cercò di guidarla verso il palazzo, ma Pauli si liberò con uno strattone. «Vai dentro», le ordinò Wiktor, mettendosi davanti a lei in modo che non vedesse quello che Nikita e Franco stavano estraendo dal mucchio di neve. «Subito». Pauli barcollò. Alekza le afferrò l'altro braccio e insieme a Renati la riportò nel palazzo, guidandola come se fosse una sonnambula dagli occhi vacui. Mikhail fece per seguirle, ma la voce di Wiktor lo sferzò: «Dove credi di andare? Vieni qui ad aiutarci!» Wiktor si inginocchiò per tirare via la neve insieme a Nikita e Franco; Mikhail si unì a loro con le sue forze tremanti. Era un ammasso di ossa rosse, incrostate di sangue. La maggior parte della carne era stata strappata via, ma rimanevano alcuni brandelli di muscolo. Wiktor vide subito che alcune ossa erano umane e altre di lupo: nella morte il corpo di Belyi aveva combattuto tra i due estremi. «Guarda qui», disse Franco, mostrandogli un pezzo di scapola. Era segnata da graffi profondi. Wiktor annuì. «Zanne». C'erano altre prove dell'opera di mascelle potenti: solchi sull'osso di un braccio e i bordi frastagliati della spina dorsale spezzata. Poi finalmente Nikita spazzò via altra neve incrostata e trovò la testa. Il cuoio capelluto era scomparso, il cranio era sfondato e il cervello era stato scavato via, ma il viso di Belyi era rimasto. Tranne la mandibola, che era stata strappata via. Anche la lingua era stata staccata dalla radice. Gli occhi di Belyi erano aperti, e le guance e la fronte erano coperte da peli rossi. Per qualche istante gli occhi furono diretti verso Mikhail, fino a quando Nikita non spostò la testa e Mikhail vide in essi una lucentezza vitrea di puro terrore. Distolse lo sguardo rabbrividendo, ma stavolta non per il freddo, e indietreggiò di qualche passo. Franco raccolse l'osso di una gamba che recava ancora qualche frammento di muscolo rosso congelato e ne esaminò i bordi scheggiati. «Il morso aveva molta forza», disse Franco,
piano. «La gamba è stata spezzata con un'unica stretta». «E così anche le braccia», aggiunse Nikita. Accovacciato, esaminava le ossa posate intorno a lui sulla neve. Sul viso di Belyi c'era un mosaico di ombra e luce, e il ghiaccio nell'unica palpebra rimasta cominciava a sciogliersi. Mikhail osservò, orribilmente affascinato, una goccia d'acqua scivolare come una lacrima sulla guancia bluastra di Belyi. Wiktor si alzò in piedi, con gli occhi fiammeggianti, e lentamente rivolse lo sguardo verso tutti i punti cardinali. Strinse i pugni lungo i fianchi. Mikhail sapeva cosa stava pensando: non erano più gli unici assassini nella foresta. Qualcosa li aveva osservati e sapeva dove si trovava la loro tana. Aveva frantumato le ossa di Belyi, gli aveva strappato la lingua e scavato via il cervello dal cranio. Poi aveva riportato lì lo scheletro spezzato, per scherno. O per sfida. «Avvolgilo in questo». Wiktor si tolse il mantello di pelle di cervo e lo diede a Franco. «Non permettere a Pauli di vederlo». Nudo, iniziò ad allontanarsi a passi decisi dal palazzo bianco. «Dove stai andando?», gli chiese Nikita. «A caccia», rispose Wiktor, con i passi che scricchiolavano nella neve. Poi iniziò a correre, gettando un'ombra lunga. Mikhail lo guardò zigzagare nell'intrico degli alberi circostanti e del sottobosco spinoso: vide peli grigi ondeggiare sull'ampia schiena bianca e la spina dorsale iniziare a contorcersi, poi Wiktor scomparve nella foresta. Nikita e Franco misero le ossa di Belyi nella tunica. Per ultima la testa, che sembrava urlare, silenziosa e senza mandibola. Franco si alzò, con la veste ripiegata stretta tra le braccia e il volto smunto e grigio. Guardò Mikhail e sogghignò. «Portale tu, coniglio», disse in tono di scherno e mise il sacco con le spoglie in braccio a Mikhail. Il peso fece subito cadere il bambino in ginocchio. Nikita fece per aiutarlo, ma Franco afferrò il mongolo per il braccio. «Lascia che il coniglio lo faccia da solo, se ci tiene tanto ad essere uno di noi!» Mikhail fissò Franco negli occhi: ridevano di lui e volevano che fallisse. Sentì nascere dentro di sé una scintilla, che esplose in un fuoco incandescente; il calore della rabbia spinse Mikhail a sforzarsi di alzarsi in piedi con il sacco d'ossa tra le braccia. Si alzò a metà, ma poi scivolò. Franco fece qualche passo. «Andiamo!», disse impaziente; Nikita lo seguì riluttante. Mikhail si sforzò, con i denti stretti e le braccia doloranti. Ma aveva già sperimentato il dolore, e questo non era niente. Non avrebbe permesso a Franco di vederlo sconfitto: non avrebbe permesso a nessuno di vederlo
sconfitto, mai. Si alzò in piedi, e camminò a passi incerti, stringendo tra le braccia ciò che un tempo era stato Belyi. «Un buon coniglio fa sempre quello che gli viene ordinato», disse Franco. Nikita allungò le braccia, per portare le ossa per il resto del tragitto, ma Mikhail esclamò: «No», e trasportò il fardello verso il palazzo bianco. Sentiva l'aroma del sangue ghiacciato delle spoglie di Belyi. La pelle di cervo aveva un proprio sentore - più stagionato e più dolce - e il sudore di Wiktor odorava di sale e muschio. Ma nell'aria gelida c'era qualcos'altro, che arrivò alle narici di Mikhail quando raggiunse l'ingresso. Era selvaggio e fetido, un odore di brutalità e astuzia. Era di un animale, e diverso dagli odori del branco di Mikhail quanto il nero è diverso dal rosso. Il bambino si rese conto che emanava dalle ossa di Belyi: era la traccia della bestia che l'aveva massacrato. Lo stesso odore a cui Wiktor ora stava dando la caccia nella neve liscia e modellata dalla tormenta. Nell'aria aleggiava una promessa di violenza. Mikhail la percepì come se delle fauci gli scivolassero lungo la schiena. Anche Franco e Nikita la sentirono mentre esploravano con lo sguardo la foresta con i sensi all'erta, raccogliendo, valutando ogni dettaglio con una rapidità che ormai era per loro una seconda natura. Belyi non era il più forte del branco, ma era veloce e intelligente. Qualsiasi cosa l'avesse fatto a pezzi, era stata più veloce e intelligente di lui. Adesso era là fuori, da qualche parte nella foresta, e aspettava di vedere come avrebbero reagito al suo dono di morte. Mikhail varcò barcollando la soglia ed entrò nel palazzo. Pauli era lì insieme a Renati e ad Alekza, e ansimava in silenzio fissando la veste ripiegata che il bambino aveva in braccio. Renati si fece subito avanti e gli tolse l'involto, portandolo via. Il sole tramontò. Spuntarono le stelle, tremolanti nell'oscurità. Nelle profondità del palazzo bianco un fuocherello ardeva scoppiettando; Mikhail e il resto del branco si strinsero intorno a quella fonte di calore. Aspettarono, mentre il vento cominciava a ruggire all'esterno e a sibilare attraverso i corridoi. Aspettarono. Ma Wiktor non tornò a casa. Trappola per topi 1. Alle sei di mattina del 29 marzo Michael Gallatin indossò un'uniforme tedesca grigio scura completa di stivali militari, un berretto con le insegne
di una compagnia addetta alle comunicazioni e le decorazioni di servizio appropriate sul petto - Norvegia, fronte di Leningrado e Stalingrado. Si infilò un cappotto grigio. Addosso portava dei documenti che lo identificavano come un oberst - un colonnello - incaricato di coordinare le linee e i ripetitori dei segnali tra Parigi e le unità distribuite lungo la costa della Normandia; Michael pensò che avevano fatto un vero lavoro da esperti nell'invecchiare la foto nuova con l'acido e nell'ingiallire la carta. Era nato in un villaggio dell'Austria meridionale chiamato Braugdonau. Aveva una moglie di nome Lana e due figli maschi. Le sue opinioni politiche erano decisamente a favore di Hitler ed era fedele al servizio del Reich, anche se non aveva necessariamente soggezione del nazismo. Era rimasto ferito una volta, dalla scheggia di una granata lanciata da un partigiano russo nel 1942, e a dimostrarlo aveva la cicatrice sotto l'occhio. Sotto il cappotto portava una fondina di cuoio che alloggiava una Luger vecchia ma perfettamente pulita e nella tasca vicino al cuore aveva due caricatori di scorta. Aveva anche un orologio a cipolla svizzero d'argento, con incise figure di cacciatori intenti a sparare ai cervi, e nessun elemento del suo abbigliamento - nemmeno i calzini - conteneva tracce di lana inglese. Il resto di quello che gli occorreva sapere era nella sua testa: le strade per entrare e uscire da Parigi, il labirinto delle vie intorno all'appartamento di Adam e all'edificio in cui lavorava, e il viso anonimo da contabile della spia. Fece un'abbondante colazione a base di uova e pancetta insieme a Pearly McCarren, accompagnate da un forte caffè nero francese, e fu l'ora di andare. McCarren - una specie di montagna piena di rughe con indosso un kilt del Black Watch - e un giovane francese dai capelli scuri che Pearly chiamava André condussero Michael in un lungo corridoio umido. I suoi stivali, appartenuti a un ufficiale tedesco deceduto, picchiettavano sulle pietre. McCarren gli parlò a bassa voce mentre percorrevano il corridoio, mettendolo al corrente dei dettagli dell'ultimo momento: la voce dello scozzese era nervosa, e Michael la ascoltò attentamente ma senza dire niente. I dettagli erano già nella sua testa, ed era sicuro che tutto fosse ormai organizzato. Da quel momento avrebbe camminato sul filo del rasoio. L'orologio da tasca d'argento era un'invenzione interessante. Due scatti sulla corona di carica facevano aprire il fondo finto, in cui c'era un piccolo vano che conteneva una capsula grigia; era molto piccola per essere così letale, ma il cianuro era un veleno potente che agiva rapidamente. Michael aveva acconsentito a portarla con sé semplicemente perché era una delle
regole non scritte del servizio segreto, ma non aveva alcuna intenzione di lasciarsi catturare vivo dalla Gestapo. Tuttavia, il fatto che l'avesse sembrava tranquillizzare McCarren. Michael e lo scozzese erano diventati buoni compagni negli ultimi due giorni; McCarren era un ottimo giocatore di poker, e quando non era impegnato a fare esercitare Michael sui dettagli della sua nuova identità, vinceva una mano dopo l'altra. Gallatin però si sentì deluso di una cosa: non aveva ancora visto Gaby e, dato che McCarren non l'aveva nominata, dedusse che avesse fatto ritorno a una missione sul campo. Au revoir, pensò. E buona fortuna. Lo scozzese e il giovane partigiano francese condussero Michael su per una scala di pietra fino a una piccola grotta illuminata da lampade schermate di verde. La luce brillava su una Mercedes-Benz lunga, nera e con il tetto rigido. Era un'auto bellissima, e Michael non riusciva neppure a distinguere i punti in cui i fori dei proiettili erano stati riparati e riverniciati. «Gran macchina, vero?», gli chiese McCarren leggendogli la mente, mentre Michael passava una mano guantata su uno dei parafanghi. «I tedeschi sanno costruirle, questo è sicuro. Be', quei bastardi nella testa hanno rotelle e ingranaggi invece del cervello, quindi cos'altro dovremmo aspettarci?» Indicò con un cenno il posto del guidatore, dove una figura in uniforme sedeva al volante. «André guida benissimo. Conosce perfettamente Parigi, visto che è nato lì». Picchiettò sul vetro; l'autista annuì e avviò il motore, che rispose con un rombo basso e roco. McCarren aprì a Michael lo sportello posteriore mentre il giovane francese toglieva il chiavistello alle due porte che nascondevano l'ingresso della grotta. Le spalancò, lasciando entrare la luce accecante del mattino, poi iniziò rapidamente a rimuovere i cespugli davanti alla Mercedes. McCarren tese la mano e Michael la strinse. «Abbi cura di te, amico», disse lo scozzese. «Là fuori, rendigli la vita un inferno per conto del Black Watch, d'accordo?» «Jawohl». Michael si accomodò sul lussuoso sedile posteriore di pelle nera e l'autista sganciò il freno a mano e superò l'entrata della grotta. Non appena l'auto fu uscita, i cespugli vennero rimessi a posto, le porte mimetizzate con vernice verde e marrone vennero richiuse e la zona riprese l'aspetto di un brullo pendio collinare. La Mercedes zigzagò attraverso il bosco fitto, incrociò una strada sterrata piena di solchi e svoltò a sinistra. Michael annusò l'aria: pelle e pittura fresca, un leggero odore di polvere da sparo, olio di motore e un profumo di sidro. Ah sì, pensò con un leggero sorriso. Guardò fuori dal finestrino, esaminando il cielo azzurro pieno di
nuvole gonfie e merlettate. «McCarren lo sa?», chiese a Gaby. Lei gli lanciò un'occhiata dallo specchietto retrovisore. I capelli neri erano raccolti sotto il berretto da autista di servizio tedesco, e sopra l'uniforme indossava un soprabito informe. Lo sguardo di lui, un penetrante bagliore verde, incrociò quello di lei. «No», rispose la ragazza. «Crede che ieri sera sia tornata sul campo». «E perché non l'hai fatto?» Gaby rifletté per qualche istante, mentre manovrava l'auto su un tratto di strada sconnessa. «Il mio incarico era di portarti dove volevi», rispose. «La tua missione è terminata quando mi hai condotto da McCarren». «Questa è la tua interpretazione, non la mia». «McCarren mi aveva assegnato un autista. Dov'è finito?» Gaby scrollò le spalle. «Ha deciso... che il compito era troppo pericoloso». «Conosci Parigi?» «A sufficienza. Quello che non sapevo l'ho imparato dalla mappa». Un'altra occhiata dallo specchietto retrovisore: gli occhi di lui la stavano ancora fissando. «Non ho passato tutta la vita in campagna». «Cosa penseranno i tedeschi se incontriamo un posto di blocco?», le chiese. «Immagino che non si veda spesso una bella ragazza al volante di un'auto di servizio». «Molti ufficiali hanno autisti donne». Gaby concentrò di nuovo la sua attenzione sulla strada. «Sono segretarie o amanti. Anche ragazze francesi. Otterrai più rispetto con un'autista donna». Michael si chiese quando la ragazza avesse deciso di farlo. Di sicuro non era costretta: la sua parte della missione era finita. Era successo la notte del bagno gelato insieme? O più tardi, quando lui e Gaby avevano diviso una pagnotta di pane raffermo e del vino rosso dal profumo muschiato? Be', era una professionista: conosceva i rischi che li aspettavano e cosa le sarebbe accaduto se fosse stata catturata. Guardò la campagna verdeggiante che si estendeva fuori dal finestrino e si chiese dove fosse nascosta la capsula di cianuro della ragazza. Gaby giunse a un incrocio in cui la strada sterrata si inseriva in una di ghiaia asfaltata: era la via per la Ville Lumière. Svoltò a destra e passò davanti a un campo in cui i contadini stavano imballando la paglia. I francesi interruppero il lavoro, si appoggiarono ai forconi e guardarono la macchina tedesca passare. Gaby guidava benissimo. Manteneva una velo-
cità costante, ogni tanto dava un'occhiata nello specchietto retrovisore e poi tornava a guardare la strada. Guidava come se il colonnello tedesco sul sedile posteriore dovesse andare da qualche parte, ma non avesse fretta di arrivare. «Non sono bella», disse a voce bassa la ragazza, sei o sette minuti più tardi. Michael sorrise dietro la mano guantata e si accomodò meglio sul sedile per godersi il viaggio. Proseguirono in silenzio, il motore della Mercedes emetteva solo un delicato ronzio ben lubrificato. Ogni tanto Gaby lanciava un'occhiata a Michael, cercando di capire cosa c'era in lui che l'aveva spinta a volere - no, no, ad aver bisogno di stare con lui. Era così, doveva ammetterlo. Non a lui ovviamente, ma a se stessa in segreto. Molto probabilmente, rifletté, l'azione contro il carro armato nazista le aveva infiammato il sangue e le passioni come non accadeva da molto tempo. Oh, c'erano state altre braci, ma quello era un falò. Era solo la vicinanza a un uomo che desiderava intensamente l'azione, pensò. Un uomo abile a svolgere il proprio lavoro. Un uomo... un brav'uomo. Era abbastanza adulta da saper giudicare il carattere di una persona, e l'uomo sul sedile posteriore era speciale. In lui c'era qualcosa di crudele e di... bestiale, forse. Era nella natura del suo mestiere. Ma lei aveva visto una certa gentilezza nei suoi occhi, lì nell'acqua gelata. Un senso di delicatezza, uno scopo. Era un gentiluomo, pensò, se ancora esistevano. E, comunque, lui aveva bisogno del suo aiuto. Poteva farlo entrare e uscire da Parigi, questo era l'importante. No? Gaby lanciò un'occhiata nello specchietto retrovisore e il cuore le balzò in gola. Dietro di loro si stava avvicinando molto rapidamente una motocicletta BMW tedesca con sidecar. La ragazza serrò le mani sul volante e il movimento fece sbandare leggermente la Mercedes. Michael si drizzò a sedere in seguito allo scarto dell'auto e sentì il sibilo acuto del motore della motocicletta: era un suono familiare che aveva udito per l'ultima volta nel deserto dell'Africa settentrionale. «Dietro di noi», disse Gaby tesa, ma Michael stava già osservando il veicolo che sopraggiungeva. La sua mano andò alla Luger. No, non ancora, decise. Stai calmo. Gaby non rallentò né accelerò. Mantenne una velocità costante, un risultato ammirevole visto che il cuore le batteva all'impazzata. Riusciva a vedere i grossi occhiali con le lenti scure del guidatore e del passeggero sul sidecar. Sembravano fissarla con intenzioni omicide. Ai suoi piedi c'era una Luger carica. Poteva prenderla e sparare fuori dal finestrino in un i-
stante, se necessario. Michael disse: «Continua a guidare». Si accomodò di nuovo sul sedile, in attesa. La motocicletta con sidecar si mise dietro di loro, a circa due metri dal paraurti. Gaby guardò nello specchietto retrovisore e vide che il passeggero nel sidecar faceva cenno di accostare. «Ci dicono di fermarci», disse. «Lo faccio?» Michael esitò solo per qualche secondo. «Sì». Avrebbe saputo molto presto se era la decisione giusta. Gaby rallentò la Mercedes. Così fece anche l'autista della motocicletta con sidecar. La ragazza accostò la massiccia automobile al lato della strada; la moto li affiancò prima che il guidatore spegnesse il motore. Michael ordinò: «Non dire niente», e abbassò furibondo il finestrino. Il passeggero sul sidecar, un tenente a giudicare dalle mostrine sull'uniforme impolverata, stava già tirando fuori dal veicolo le lunghe gambe. Michael sporse la testa dal finestrino aperto e gridò in tedesco: «Cosa diavolo cerca di fare, idiota? Vuole buttarci fuori strada?» Il tenente si irrigidì. «No, signore. Mi dispiace, signore», balbettò l'uomo riconoscendo le mostrine di un colonnello. «Be', non resti lì così! Cosa vuole?» La mano di Michael era appoggiata sull'impugnatura della Luger. «Mi scusi, signore. Heil Hitler». Eseguì un fiacco saluto nazista a cui Michael non si degnò di rispondere. «Dove sta andando, signore?» «Chi vuole saperlo? Tenente, ha voglia di fare un giro con un battaglione a scavare trincee?» «No, signore!» Il volto del giovane era smunto e pallido sotto una maschera di polvere. I grossi occhiali scuri davano ai suoi occhi un aspetto sporgente, come quello di alcuni insetti. «Mi dispiace averla interrotta, signore, ma ho ritenuto mio dovere...» «Suo dovere? Fare cosa? Comportarsi da idiota?» Michael cercò con gli occhi le loro armi. Il giovane tenente non aveva una fondina. La sua pistola probabilmente era nel sidecar. Neppure il guidatore del sidecar aveva un'arma visibile. Meglio così. «No, signore». Il giovane tremava un po'; Michael provò per lui una fitta di compassione. «Avvisarla che prima dell'alba ci sono stati attacchi aerei sulla strada per Amiens. Non sapevo se ne era già stato informato». «Sì, l'ho saputo», disse Michael, decidendo di correre il rischio. «Hanno colpito alcuni camion di rifornimenti. Niente di vitale», conti-
nuò il giovane tenente. «Ma ci hanno avvertito: con un tempo così sereno ci saranno sicuramente altri attacchi. La sua auto... be', è molto lucida, signore. Un ottimo bersaglio». «Devo sporcarla di fango? O di letame di maiale?» Mantenne un tono gelido. «No, signore. Non volevo mancarle di rispetto signore, ma... quei caccia americani... scendono in picchiata molto velocemente». Michael lo fissò per qualche istante. Il giovanotto rimase rigido, come un plebeo di fronte a una persona di sangue reale. Il ragazzo poteva avere al massimo vent'anni, pensò. Adesso quei maledetti bastardi svuotavano le culle per trovare carne da cannone. Tolse la mano dalla Luger. «Sì, ha ragione, certo. Apprezzo la sua sollecitudine, tenente...?» Lasciò la frase in sospeso. «Krabell, signore!», rispose orgoglioso il giovane, ignaro di essere stato così vicino alla morte. «Grazie, tenente Krabell. Mi ricorderò il suo nome». Pensò che sarebbe finito scarabocchiato su una croce di legno infilata in un mucchietto di terra francese dopo il passaggio dell'invasione. «Sì, signore. Buona giornata, signore». Il giovane fece di nuovo il saluto - come una marionetta - poi tornò al sidecar. Il guidatore della motocicletta mise in moto e il veicolo si allontanò. «Aspetta», disse Michael a Gaby. Lasciò che la moto scomparisse alla vista, poi toccò la spalla della ragazza. «D'accordo, andiamo». Lei ripartì, guidando sempre alla stessa velocità costante, controllando spesso non solo negli specchietti ma anche in cielo, alla ricerca di un bagliore argenteo in picchiata verso di loro che sparasse raffiche di mitragliatrice. I caccia alleati di solito attaccavano a bassa quota le strade, i depositi di rifornimenti e tutti i soldati che riuscivano a trovare; in una giornata limpida come quella era ragionevole supporre che si aggirassero in cerca di bersagli - comprese le lucide auto di servizio tedesche. La tensione le contrasse lo stomaco e le fece venire un po' di nausea. Superarono un gruppo di carri di fieno e alcuni contadini al lavoro, e videro il primo cartello che indicava Parigi. Circa sei chilometri più a est giunsero a una curva e si trovarono di fronte a un posto di blocco. «Calma», disse Michael a bassa voce. «Non rallentare troppo presto». Vide otto o nove soldati armati di fucile e un paio di addetti alla sicurezza che impugnavano mitragliette. La sua mano tornò alla Luger. Abbassò di nuovo il finestrino e si preparò a fingersi indignato.
Non ebbe bisogno di fingere. I due addetti alla sicurezza videro le sue mostrine e l'elegante auto nera e ne rimasero abbastanza colpiti... ancor più quando notarono Gaby al volante. Una formalità, disse l'uomo al comando, scusandosi con una scrollata di spalle. Ovviamente il colonnello era a conoscenza dell'attività partigiana nel settore. Cosa si poteva fare, a parte sterminare quelle canaglie? Se può mostrarci i documenti, disse l'uomo della sicurezza, li controlleremo il più velocemente possibile. Michael si lamentò perché sarebbe arrivato in ritardo a una riunione a Parigi e consegnò i documenti. I due uomini della sicurezza li guardarono, più per mostrare che stavano facendo qualcosa che con vera attenzione. Se questi uomini lavorassero per gli alleati, pensò Michael, li sbatterei in prigione. Trascorsero circa trenta secondi, poi gli restituirono i documenti, li salutarono sbrigativamente e augurarono a lui e alla bella fräulein un buon viaggio fino a Parigi. Gaby guidò la macchina oltre le barriere di legno che i soldati spostarono di lato; Michael la sentì emettere il respiro che aveva trattenuto. «Stanno cercando qualcuno», disse Michael quando si furono allontanati dal posto di blocco, «ma non sanno chi. Pensano che chiunque si sia paracadutato qui voglia arrivare a Parigi, perciò hanno fatto uscire i cani da guardia. Se sono tutti come quei due, potrebbero scortarci fino alla porta di Adam». «Io non ci conterei». Gaby controllò di nuovo il cielo: nessuna traccia di argento a denotare aerei in avvicinamento. Anche la strada era sgombra; la campagna ai lati era un po' ondulata e punteggiata di meleti e boschetti di legni duri. La terra di Napoleone, pensò oziosamente. Il suo cuore non batteva più tanto forte; superare il posto di blocco era stato molto più facile di quanto si aspettasse. «E Adam?», chiese a Michael. «Secondo te cosa sta cercando di comunicarci?» «Non ci ho pensato». «Oh, invece sì». I loro sguardi si incrociarono nello specchietto. «Sono sicura che ci hai riflettuto molto, come ho fatto io. Non è così?» La conversazione aveva preso una direzione indiscreta ed entrambi lo sapevano. Condividere informazioni significava condividere dolore, se fossero caduti nelle mani della Gestapo. Ma Gaby aspettava una risposta, così Michael disse: «Sì». Ma non era sufficiente; Gaby non parlava e continuava ad aspettare. Michael incrociò le mani guantate. «È ovvio che Adam ha scoperto una notizia che ritiene così importante da rischiare molte vite per farla trapelare. I miei superiori la pensano allo stesso modo, altri-
menti non sarei qui. Ed è inutile dire che tuo zio non sarebbe morto». La vide trasalire leggermente: era una donna forte, ma non d'acciaio. «Adam è un professionista. Conosce il suo mestiere. Sa anche che ci sono informazioni per cui vale la pena morire, se questo significa vincere la guerra. O perderla. I movimenti delle truppe e dei convogli di rifornimento possiamo ottenerli quando vogliamo, tramite i codici radio di una decina di agenti in tutta la Francia. Si tratta di qualcosa che solo Adam conosce e che la Gestapo ha tenuto segreto. Questo significa che è dannatamente più importante dei soliti messaggi che riceviamo. O almeno così la pensa Adam, altrimenti non avrebbe chiesto aiuto». «E tu?», chiese Gaby. Michael inarcò le sopracciglia, non comprendendo la domanda. «Per cosa saresti disposto a morire?» La ragazza gli lanciò un'altra occhiata nello specchietto, poi distolse subito lo sguardo. «Spero di non doverlo scoprire». Le rivolse un leggero sorriso, ma la domanda gli si era conficcata come una spina. Era disposto a morire per la missione, certo... questo era sottinteso. Ma era la reazione di una macchina addestrata, non di un uomo. Per cosa era disposto a dare la vita, come uomo - o mezzo uomo, mezzo animale? La rete della politica, creata dagli umani? Una ristretta visione della libertà? L'amore? La vittoria? Rifletté sulla domanda e non trovò una risposta semplice. Improvvisamente i suoi nervi fecero scattare un allarme e sentì Gaby esclamare piano «Oh» perché davanti a loro, sulla lunga strada dritta per Parigi, c'erano un posto di blocco con una decina di soldati armati, un veicolo corazzato da cui spuntava il muso di un cannone e una Citroen nera che poteva solo essere un'auto della Gestapo. Un soldato armato di mitraglietta faceva cenno di fermarsi. Si girarono tutti verso di loro. Un uomo con un cappello nero e un lungo soprabito beige si piazzò in attesa in mezzo alla strada. Gaby frenò, un po' troppo bruscamente. «Piano», disse Michael, sfilandosi lentamente i guanti mentre la Mercedes rallentava. 2. L'uomo che guardava Michael Gallatin attraverso il finestrino abbassato aveva occhi di un azzurro talmente chiaro da sembrare quasi senza colore e un bel volto scolpito tipo atleta nordico - uno sciatore, pensò Michael. Magari un lanciatore di giavellotto, o un corridore di fondo. Intorno agli occhi aveva delle piccole rughe e le basette bionde stavano diventando grigie. Indossava un cappello di pelle scura con una vivace penna rossa infilata
nella fascia. «Buongiorno, colonnello», disse. «Un piccolo inconveniente, temo. Posso vedere i suoi documenti?» «Spero davvero che sia piccolo», rispose Michael in tono gelido. Il viso dell'altro uomo mantenne il sorriso di cortesia. Mentre infilava una mano nel cappotto per cercare i documenti, Michael vide uno dei soldati prendere posizione sul lato opposto dell'auto. La canna della mitraglietta si spostò leggermente verso il finestrino; Gallatin sentì un groppo salirgli in gola per la tensione. Il soldato stava delimitando la linea di fuoco: era impossibile estrarre la Luger dalla fondina senza essere ridotto a un colabrodo. Gaby tenne le mani sul volante. L'agente della Gestapo prese i documenti e la guardò. «Anche i suoi documenti, prego». «È la mia segretaria», disse Michael. «Ovviamente. Ma devo vedere i suoi documenti». Scrollò le spalle. «È il regolamento, lo sa». Gaby infilò una mano nel cappotto. Ne estrasse un pacchetto di documenti che erano stati preparati per lei il giorno prima, quando aveva deciso di andare a Parigi con lui. Li consegnò con un brusco cenno del capo. «Grazie». L'agente della Gestapo prese a esaminare le fotografie e le carte. Michael studiò il volto dell'uomo. Era un viso gelido e marcato da un'intelligenza astuta; quel tedesco non era uno sciocco e aveva già visto tutti i trucchi. Michael lanciò un'occhiata verso il ciglio della strada e vide il tenente Krabell insieme al suo autista. Quest'ultimo controllava il motore mentre un altro agente della Gestapo esaminava laboriosamente i documenti del tenente. «Che problema c'è?», chiese Michael. «Non ha saputo?» L'uomo biondo smise di leggere e alzò gli occhi, con un'espressione beffarda nello sguardo. «Se lo sapessi, non glielo chiederei». «Per essere un ufficiale addetto alle comunicazioni è davvero poco informato». Sorrise brevemente, un accenno di denti da predatore, bianchi e squadrati. «Ma ovviamente sa che qualcuno si è paracadutato in questo settore tre sere fa. I partigiani di un villaggio chiamato Bazancourt l'hanno aiutato a fuggire. Era coinvolta anche una donna». Il suo sguardo scivolò verso Gaby. «Parli tedesco, cara?», le chiese in francese. «Un po'», rispose lei. La sua voce era calma e Michael ammirò il suo coraggio. Gaby guardò l'uomo dritto negli occhi senza esitare. «Cosa vuole che le dica?»
«I documenti parlano per te». Continuò a esaminarli senza alcuna fretta. «Come si chiama?» Michael decise di passare all'attacco. «Voglio sapere contro chi sporgere reclamo quando arriviamo a Parigi». «Johlmann. Heinz R. Johlmann. La R sta per Richter». L'uomo continuò a leggere, per nulla intimidito. «Colonnello, chi è il suo comandante?» «Adolf Hitler», rispose Michael. «Ah, sì. Certo». Mostrò di nuovo brevemente i denti. Sembravano ottimi per lacerare la carne. «Intendo dire il suo immediato superiore». Michael aveva i palmi delle mani sudati, ma il cuore aveva smesso di battergli forte. Aveva il pieno controllo di sé e non avrebbe agito d'impulso. Lanciò una rapida occhiata al soldato dall'altro lato dell'auto, che aveva sempre la mitraglietta pronta, con il dito sul grilletto. «Riferisco al generale di divisione Friedrich Bohm, Quattordicesimo Settore delle Comunicazioni, con quartier generale ad Abbeville. Il nostro codice radio è: "Cappello a cilindro"» «Grazie. Posso mettermi in contatto con il generale di divisione Bohm in dieci minuti, con il nostro equipaggiamento radio». Indicò con un gesto l'autoblindo. «Faccia pure. Sono sicuro che gli farà piacere sapere perché mi stanno interrogando». Michael alzò gli occhi verso Johlmann. I loro sguardi si incrociarono e si sfidarono. Il momento si prolungò; mentre il tempo scorreva, Gaby sentì un urlo salirle in gola. Johlmann sorrise e distolse lo sguardo. Esaminò le fotografie del colonnello e della sua segretaria. «Ah!», esclamò, rivolgendosi a Michael, mentre i suoi occhi freddi si animavano. «Lei è austriaco! Viene da Braugdonau, giusto?» «Esatto». «Be', è incredibile! Io conosco Braugdonau!» Gaby si sentì come se avesse appena ricevuto un pugno nello stomaco. La Luger. Era così vicina. Poteva riuscire a prenderla prima che il soldato la riempisse di proiettili? Temeva di no, quindi non si mosse. «Ho un cugino a Essen!», disse Johlmann continuando a sorridere. «Appena a ovest della sua città natale. Sono passato da Braugdonau diverse volte. Hanno un bellissimo carnevale invernale». «Sì, è vero». Uno sciatore, decise Michael. «Su quelle montagne c'è un'ottima neve. Molto compatta. Non bisogna preoccuparsi molto delle valanghe. Grazie, cara». Restituì a Gaby i documenti. Lei li prese e li mise a posto, notando che un paio di soldati si erano avvicinati per darle un'occhiata. Johlmann ripiegò con cura le carte di Mi-
chael. «Ricordo la fontana di Braugdonau. Sa, quella con le statue del Re e della Regina del Ghiaccio». I suoi denti brillarono per un attimo. «Ha presente?» «Temo che si sbagli». Michael tese la mano per riprendere le carte. «A Braugdonau non c'è nessuna fontana, herr Johlmann. Penso che ora sia il momento di andarcene». «Be'», ribatté il tedesco scrollando le spalle. «Credo di essermi sbagliato, dopotutto». Fece scivolare il pacchetto nella mano di Michael, che si sentì molto grato per aver ascoltato tutti i dettagli fornitigli da McCarren sulla posizione e la storia di Braugdonau. Le dita di Michael si chiusero intorno ai documenti, ma Johlmann non lasciò la presa. «Non ho alcun cugino a Essen, colonnello», disse. «Una bugia innocente, spero che vorrà perdonare la mia presunzione. Ma sa, sono stato a sciare in quella zona. Un posto bellissimo. Quella famosa pista a circa venti chilometri a nord di Essen». Tornò a sorridere, con un'espressione di orribile felicità. «Lei la conosce sicuramente. "Il Nonno", giusto?» Sa tutto, pensò Michael. Sente l'odore di inglese sulla mia pelle. Gli sembrò di essere sull'orlo di un precipizio sotto cui si aprivano fauci fameliche. Maledizione, perché non s'era fatto scivolare accanto la Luger sul sedile? Johlmann stava aspettando la risposta, con la testa leggermente piegata da un lato e la penna rossa che ondeggiava al vento. «Herr Johlmann?», intervenne in tono nervoso il soldato con la mitraglietta. «Herr Johlmann, è meglio che lei...» «Sì», disse Michael. Gli si strinse lo stomaco. «"Il Nonno"». Il sorriso di Johlmann si spense. «Oh, no. Intendevo dire "La Nonna", temo». «Herr Johlmann!», gridò il soldato. Altri due militari urlarono e cominciarono a correre verso gli alberi. L'autoblindo si mise in moto con un rombo. Johlmann alzò lo sguardo. «Ma che diavolo sta...?» Sentì il ronzio acuto contemporaneamente a Michael, si girò e vide un bagliore argenteo tuffarsi in picchiata verso il posto di blocco. Un caccia, si rese conto Michael. Scendeva a tutta velocità. Il soldato con la mitraglietta urlò: «Al riparo!», e si precipitò verso il ciglio della strada. Johlmann, balbettando per la rabbia, gridò: «Aspettate! Aspettate!» Ma i soldati si precipitavano verso gli alberi e l'autoblindo correva a cercare un riparo come uno scarafaggio d'acciaio; Johlmann infilò imprecando una mano nel soprabito per prendere la pistola, voltandosi di nuovo verso il falso colonnello.
Ma nella mano di Michael era spuntata una Luger. Mentre Johlmann alzava l'arma, l'inglese piantò la canna della pistola sul viso del tedesco e premette il grilletto. Si sentì un sibilo come quello di una valanga in arrivo, poi il ticchettio dei proiettili delle mitragliatrici posizionate sulle ali dell'aereo; in quell'istante il rumore dello sparo della Luger venne soffocato da quello delle armi più pesanti. Due colonne di proiettili tracciarono una linea micidiale ai lati della strada, scavalcando la Mercedes con una pioggia di scintille, e Heinz Richter Johlmann, ex agente della Gestapo, barcollò all'indietro con un foro fumante in mezzo alla fronte, appena sotto il cappello sbarazzino. Con l'altra mano Michael aveva afferrato i documenti; mentre l'ombra del caccia spazzava il terreno, Johlmann cadde in ginocchio e il sangue iniziò a colargli sul volto impietrito dallo shock. La testa gli ciondolò in avanti. Il cappello cadde a terra, imbrattato di materia grigia uscita dal cervello; il forte vento caldo creato dal caccia gli fece volare davanti la penna rossa, come se fosse un punto esclamativo color sangue. «Krabell!», gridò Michael. Il giovane tenente stava per scappare verso gli alberi, perché il guidatore non riusciva ad avviare la motocicletta. Si girò verso la Mercedes. «Quest'uomo è stato colpito!», disse Michael. «Chiami un medico... ma prima sposti quella dannata barricata!» Krabell e il guidatore esitarono, preferendo correre al riparo prima che il caccia tornasse per un secondo passaggio. «Fate come vi dico!», ordinò Michael, e i due tedeschi corsero alla barricata di legno. La spostarono di lato, mentre Krabell scrutava il cielo con i grossi occhiali; poi Michael udì il ronzio mortale dell'aereo che scendeva in picchiata per un secondo attacco. «Vai!», disse a Gaby. La ragazza premette l'acceleratore a tavoletta e l'auto scattò in avanti, superando Krabell e il motociclista e rombando oltre la barricata aperta. I due tedeschi scapparono verso gli alberi sotto cui gli altri soldati si erano gettati a terra. Mentre Gaby guidava a tutta velocità lungo la strada, Michael guardò indietro e vide il luccichio del sole sulle ali dell'aereo. Era un velivolo americano, un Thunderbolt P-47, e sembrava puntare dritto sulla Mercedes. Vide il lampo delle mitragliatrici, poi i proiettili tracciarono i lati della strada sollevando ghiaia. Gaby sterzò bruscamente a sinistra e le ruote uscirono di strada e finirono nell'erba. Si udì un colpo che Michael sentì echeggiargli in fondo alla schiena, mentre Gaby lottava per mantenere il controllo del volante. Ci hanno colpito! pensò la ragazza, ma il motore funzionava ancora, quindi non rallentò. Nell'auto entrò molta polvere che accecò Michael per qualche istante.
Quando si diradò, l'inglese vide due raggi di luce penetrare attraverso fori slabbrati nel tetto; inoltre dal lunotto posteriore era stato strappato via un pezzo grande come il suo pugno. Frammenti di vetro erano sparsi su tutto il sedile accanto a lui e brillavano tra le pieghe del cappotto. Gaby vide il bagliore del sole sulle ali del Thunderbolt quando l'aereo fece una stretta virata. «Sta tornando!», gridò. Non aveva fatto tutta quella strada per finire ucciso da un pilota di caccia americano, pensò Michael. «Là!», disse, afferrando la spalla di Gaby e indicando un meleto sulla destra. Gaby sterzò conducendo la Mercedes dall'altra parte della strada, contro un fragile steccato di legno che sbatté contro il parafango anteriore, ma si spezzò per lasciarli passare. Oltrepassò un carro da fieno abbandonato all'ombra del meleto; tre secondi più tardi il Thunderbolt sfrecciò sopra di loro, sputando proiettili che fecero a pezzi rami e boccioli bianchi ma che non colpirono la Mercedes. Gaby fermò la macchina e tirò il freno a mano. Aveva il cuore che le batteva all'impazzata e la gola che le pizzicava per la polvere. Guardò i fori di proiettili nel tetto, i punti di uscita indicati da un buco nel sedile del passeggero e un altro nel pavimento della macchina. Provò una sensazione indefinita e indistinta, e capì che erano le prime avvisaglie dello shock che la stava attanagliando. Poi chiuse gli occhi e appoggiò la fronte sul volante. L'aereo rombò di nuovo sulle loro teste. Stavolta le mitragliatrici non fecero fuoco e i muscoli di Michael si rilassarono. Osservò il Thunderbolt virare a ovest e scattare verso un altro bersaglio. Probabilmente uno spostamento di truppe o un autoblindo. Il caccia si tuffò in picchiata sparando con le mitragliatrici, poi riprese rapidamente quota e sfrecciò via, diretto verso la costa a ovest. 3. «Se n'è andato», disse alla fine Michael, quando ne fu sicuro. Trasse alcuni profondi respiri per calmarsi e sentì l'odore della polvere, del suo stesso sudore e dei dolci boccioli di melo. Fiori bianchi erano sparsi su tutta l'auto e stavano ancora cadendo a terra. Gaby tossì e Michael si sporse in avanti, l'afferrò per la spalla e la tirò indietro dal volante. «Stai bene?» La voce era carica di tensione. Gaby annuì, con gli occhi fissi e lucidi, e Michael sospirò di sollievo: aveva temuto che un proiettile l'avesse
colpita, e in quel caso la missione sarebbe stata in grave pericolo. «Sì», disse la ragazza, riacquistando in parte le forze. «Sto bene. Ho solo un po' di polvere in gola». Diede qualche altro colpo di tosse per schiarirla. Ciò che l'aveva terrorizzava di più di quell'incontro era il fatto di essere stata alla mercé di Dio e impossibilitata a rispondere al fuoco. «È meglio andare. Non tarderanno molto a scoprire che Johlmann è stato ucciso da un colpo di Luger e non di mitraglietta». Gaby recuperò l'autocontrollo, una vittoria della forza di volontà sui nervi logorati. Tolse il freno a mano e riportò la Mercedes sulla strada usando la pista creata nell'erba. Risalì sulla ghiaia e si diresse a est. Il radiatore emetteva un leggero ticchettio, ma tutti gli indicatori segnalavano che benzina, olio e acqua erano a posto. Michael scrutò il cielo con l'attenzione assoluta di un lupo, ma non spuntarono altri aerei. Inoltre nessuno li stava inseguendo: ne dedusse - anzi sperò - che i soldati e l'altro agente della Gestapo fossero ancora sotto shock. La strada si dipanava sotto le ruote della Mercedes; improvvisamente la ghiaia divenne asfalto e un cartello annunciò che Parigi era otto chilometri più avanti. Con grande sollievo non trovarono altri posti di blocco, ma superarono diversi camion carichi di soldati in entrata e in uscita dalla città. Poi la strada cominciò ad essere fiancheggiata da alberi alti ed eleganti, e si allargò a diventare un viale. Superarono l'ultima casa colonica in legno e videro la prima di molte abitazioni di pietra e mattoni, poi trovarono degli edifici grigi ornati di statue bianche come decorazioni di zucchero su una torta. Davanti a loro Parigi brillava alla luce del sole: i campanili delle cattedrali e i monumenti splendevano come aghi dorati. I suoi edifici elaborati si affollavano come le strutture di ogni metropoli, ma questi avevano la dignità dei secoli. La torre Eiffel si stagliava su uno sfondo di nuvole fluttuanti, fragili come pizzo francese, e i tetti a volta di Montmartre avevano le sfumature rosse e brune di una tavolozza d'artista. La Mercedes attraversò le acque grigio chiaro della Senna su un ponte decorato di cherubini di pietra; Michael sentì l'odore di muschio e pesce incagliato nel fango. Il flusso del traffico aumentò una volta superato il boulevard Berthier, uno dei grandi viali che circumnavigavano la Ville Lumière e che prendeva il nome da uno dei marescialli di Napoleone, ma Gaby procedette tranquilla. Si inserì tra le Citroen, i carretti trainati da cavalli, i ciclisti e i pedoni, e quasi tutti cedettero il passo all'imponente auto di servizio nera. Mentre Gaby li conduceva lungo le strade di Parigi, con una mano sul
volante e l'altra che faceva cenno agli altri veicoli e alle persone di togliersi di mezzo, Michael sentì gli aromi della città: una festa inebriante, una fusione di migliaia di odori, da una zaffata di profumo di croissant e di caffè proveniente da un bistrot sul marciapiede, fino al letame ricco d'erba rastrellato da uno spazzino. Michael stava quasi per esserne sopraffatto, come gli accadeva sempre quando visitava una città. Gli odori della vita, dell'attività umana, qui erano pungenti e sorprendenti, diversi da quelli umidi e nebbiosi che associava a Londra. Vide molte persone parlare, ma poche sorridere. Ancora meno erano quelle che ridevano. E questo era dovuto al fatto che per le strade c'erano soldati tedeschi armati di fucili e ufficiali comodamente seduti a bere caffè espresso nei bistrot, nella posa rilassata tipica dei conquistatori. Stendardi nazisti sventolavano su molti edifici, dispiegati al vento sulle braccia sollevate e i volti imploranti di marmo... statue scolpite dai francesi. A dirigere il traffico c'erano soldati tedeschi, e alcune strade erano sbarrate da barricate con cartelli con scritto ACHTUNG! EINTRITT VERBOTEN! Al danno era stata aggiunta la beffa di non averli scritti nella lingua locale, pensò Michael. Nessuna meraviglia che molti visi guardassero accigliati la Mercedes che passava. Ad aggravare i problemi del traffico c'erano molti camion con il simbolo della svastica, che avanzavano lentamente tra gli altri veicoli. I loro ritorni di fiamma risuonavano in mezzo ai ciclisti come scoppi di bombe. Michael vide diversi camion carichi di soldati e persino un paio di carri armati a lato della strada, con l'equipaggio impegnato a prendere il sole e a fumare sigarette. Tutto indicava che i tedeschi erano convinti di restare e che, sebbene i francesi potessero proseguire con la loro vita quotidiana, erano loro a tenere saldamente in mano le redini. Vide un gruppo di giovani soldati flirtare con alcune ragazze, un ufficiale dalla schiena rigida farsi lucidare gli stivali da un ragazzino, un altro gridare in tedesco contro un cameriere che con lo straccio asciugava affannosamente del vino bianco rovesciato da una caraffa. Michael si appoggiò allo schienale, assorbendo tutte le scene, i suoni e gli aromi, e percepì un'ombra pesante sulla Ville Lumière. La Mercedes rallentò e Gaby suonò il clacson per sollecitare alcuni cittadini in bicicletta a togliersi di mezzo. Gallatin sentì odore di carne di cavallo e guardò verso sinistra, dove vide un poliziotto militare in sella a un cavallo i cui paraocchi avevano impresso il simbolo nazista. L'uomo gli fece il saluto. Michael annuì distrattamente e desiderò avere tra le mani quel bastardo da solo nella foresta per un minuto.
Gaby procedette verso est su boulevard des Batignolles, in una zona affollata di palazzi ad appartamenti e case rococò. Rimasero su quel boulevard, poi incrociarono l'avenue de Clinchy e si diressero verso nord. Gaby svoltò in rue Quenton, ed entrarono in un distretto le cui strade erano lastricate di ruvide pietre brune e alle finestre c'erano fili tesi con panni appesi ad asciugare. Qui gli edifici erano dipinti in sbiaditi colori pastello e alcune facciate erano piene di crepe, lasciando esposti i vecchi mattoni d'argilla come fossero costole giallastre. I ciclisti erano meno numerosi e non c'erano né bistrot lungo il marciapiede né novelli Van Gogh agli angoli delle strade. Le strutture sembravano appoggiarsi ubriache l'una all'altra, come a cercare un disperato sostegno, e per Michael persino l'aria odorava di vino amaro. Nelle ombre si nascondevano figure che guardarono passare l'auto nera, con gli occhi spenti come monete false che non brillano. La scia della Mercedes sollevò vecchi giornali dai canali di scolo: le loro pagine ingiallite si posarono sui marciapiedi coperti di rifiuti. Gaby attraversò rapidamente quelle strade, rallentando appena agli incroci. Svoltò a sinistra, poi a destra, quindi di nuovo a sinistra pochi isolati più avanti. Michael vide un cartello storto: RUE LAFARGE. «Siamo arrivati», disse Gaby, poi rallentò e lampeggiò con i fari. Due uomini, entrambi di mezz'età, tolsero il paletto a un cancello e lo aprirono. Dava su un vicolo acciottolato largo appena qualche centimetro più della Mercedes; Michael si preparò a sentire strisciare la fiancata dell'auto, ma Gaby vi entrò lasciando dello spazio da entrambi i lati. I due uomini chiusero il cancello alle loro spalle. Gaby proseguì fino a un garage verde con il tetto piegato. Poi disse: «Scendi», e spense il motore. Michael obbedì. Nel garage entrò a grandi passi un uomo dal volto bruno segnato e dai capelli bianchi. «Seguitemi, prego», disse in francese, poi iniziò rapidamente ad allontanarsi. Michael gli fu subito dietro e, gettando un'occhiata alle sue spalle, vide Gaby aprire il bagagliaio della Mercedes ed estrarne una valigia marrone. La ragazza chiuse il bagagliaio e la porta del garage; uno dei due uomini che avevano aperto il cancello sistemò una catena con un lucchetto, dette un giro di chiave e se la fece scivolare in tasca. «Sbrigati, per favore», disse a Michael l'uomo dai capelli bianchi, in tono gentile ma fermo. Gli stivali militari di Michael picchiettarono forte sull'acciottolato, un rumore che riecheggiò nel silenzio. Intorno a lui le finestre degli edifici sbilenchi restarono ben chiuse. L'uomo dai capelli bianchi, che aveva spalle e braccia massicce da persona abituata ai lavori pesanti, aprì il chiavistello di un cancello di ferro sormontato da punte di
lancia; Michael attraversò con lui un piccolo roseto ed entrò dalla porta posteriore di un edificio azzurro. Davanti a loro si apriva uno stretto corridoio e in fondo c'era una scala traballante. Salirono al secondo piano. Aprirono un'altra porta e l'uomo dai capelli bianchi gli fece cenno di entrare. Michael si trovò in una stanza con un tappeto fatto di stracci multicolori intrecciati e in cui c'era un forte odore di pane fresco e cipolle bollite. «Benvenuto nella nostra casa», senti dire, poi si ritrovò a guardare una vecchietta fragile con i capelli candidi come la neve stretti in una lunga treccia. Indossava un vestito azzurro sbiadito e un grembiule a quadretti rossi. Dietro gli occhiali rotondi, gli occhi castani osservavano tutto senza rivelare niente. La donna sorrise e il suo viso a forma di cuore si piegò in una massa di rughe, mostrando i denti giallastri. «Togliti i vestiti, per favore». «I vestiti?» «Sì, quella divisa disgustosa. Per favore, toglila». Gaby entrò accompagnata dall'uomo che aveva chiuso a chiave il garage. L'anziana signora le lanciò un'occhiata; Michael vide il suo volto irrigidirsi. «Ci avevano detto di aspettare l'arrivo di due uomini». «La ragazza è a posto», dichiarò Michael. «McCarren...» «Niente nomi», lo interruppe bruscamente la donna anziana. «Ci avevano detto di aspettare due uomini. Un autista e un passeggero. Perché non è così?» I suoi occhi scuri come canne di pistola tornarono su Gaby. «C'è stato un cambiamento di piano», le disse la ragazza. «Ho deciso di...» «I piani cambiati sono piani fallati. Chi sei tu per decidere queste cose?» «Ho detto che è a posto», ripeté Michael alla vecchia, ma stavolta sostenne la forza del suo sguardo. I due uomini si erano posizionati dietro di lui; Michael era sicuro che fossero armati. Uno a sinistra, l'altro a destra: avrebbe piantato un gomito in faccia a ciascuno dei due se avessero tirato fuori le armi. «Garantisco io per lei», aggiunse. «E chi garantisce per te, Occhi Verdi?», chiese la donna anziana. «Non è un comportamento da professionisti». Il suo sguardo passò alternativamente da Michael a Gaby e alla fine si fermò sulla ragazza. «Ah!», disse annuendo. «Sei innamorata di lui, vero?» «Assolutamente no!», protestò Gaby arrossendo. «Be', allora forse oggi si chiama in un altro modo». La donna sorrise di nuovo, ma meno entusiasticamente. «Ma l'amore è sempre stata una brutta parola. Occhi Verdi, ti ho detto di toglierti quella
divisa». «Se dovete spararmi, preferisco che lo facciate quando ho i pantaloni addosso». L'anziana signora scoppiò in una risata roca. «Mi sembri il tipo d'uomo che di solito spara quando è senza pantaloni». Gli fece un cenno con la mano. «Fallo e basta. Nessuno sparerà a nessuno. Non oggi, almeno». Michael si tolse il cappotto e lo diede a uno degli uomini, che iniziò a strapparne la fodera. L'altro prese la valigia di Gaby, la mise su un tavolo e l'aprì. Iniziò a rovistare tra gli abiti civili che la ragazza aveva portato. La donna anziana strappò la medaglia di Stalingrado dal petto di Michael e la esaminò tenendola sotto una lampada. «Questa schifezza non ingannerebbe nemmeno un maniscalco cieco!», disse con una risata. «È una medaglia vera», rispose Gaby con freddezza. «Davvero? E tu come fai a saperlo, Dulcinea?» «Lo so», disse Gaby, «perché l'ho tolta io al cadavere dopo avergli tagliato la gola». «Buon per te». La donna mise la medaglia da parte. «E male per lui. Togliti anche tu la divisa, Dulcinea. Sbrigati, sto invecchiando». Michael eseguì l'ordine. Si spogliò fino agli indumenti intimi, e anche Gaby si tolse i vestiti. «Sei un bastardo peloso», osservò la vecchia. «Che razza di bestia era tuo padre? Portagli i vestiti e le scarpe nuove», ordinò a uno degli uomini, che andò in un'altra stanza. La donna prese la Luger di Michael e ne annusò la canna. Arricciò il naso, sentendo l'odore di uno sparo recente. «Avete avuto problemi lungo la strada?» «Un piccolo contrattempo», rispose Michael. «Credo di non voler sapere altro». Prese in mano l'orologio da tasca d'argento, fece scattare due volte la corona di carica e, quando il fondo si aprì, guardò la capsula di cianuro all'interno. Grugnì piano, richiuse l'orologio e lo restituì a Michael. «Sarà meglio che lo tenga tu. Sapere l'ora è molto importante, di questi tempi». L'uomo dai capelli bianchi tornò con un fagotto di vestiti e un paio di scarpe nere consumate. «Ci hanno trasmesso le vostre misure per radio», disse la donna. «Ma aspettavamo due uomini». Indicò il contenuto della valigia di Gaby. «Hai portato i tuoi vestiti? Bene. Non abbiamo documenti da civili per voi. Sono troppo facili da rintracciare in città. Se uno di voi viene catturato...» Guardò Michael con occhi gelidi. «Mi aspetto che controlliate l'ora...» Attese che Michael le rispondesse annuendo. «Non rive-
drete più le divise, né l'auto. Vi forniremo delle biciclette. Se ritenete di avere assolutamente bisogno di un'auto, ne parleremo. Qui non abbiamo molto denaro, ma siamo ricchi di amici. Mi chiamerete Camille, e parlerete solo con me. Non dovete rivolgervi a nessuno di questi due signori». Indicò con un gesto i francesi che stavano raccogliendo le divise tedesche, per poi metterle in un cesto chiuso da un coperchio. «Tieni la pistola», disse a Michael. «Sono difficili da trovare». Fissò Gaby per qualche istante, come a valutarla, poi guardò di nuovo Gallatin. «Sono sicura che entrambi avete molta esperienza in queste cose. Non m'importa chi siete o il vostro passato: la cosa importante è che molte vite dipendono dal fatto che vi comportiate in modo intelligente - e cauto - mentre siete a Parigi. Vi aiuteremo in ogni modo ma, se vi catturano, non vi conosciamo. Chiaro?» «Perfettamente», rispose Michael. «Bene. Se volete riposare un po', la vostra stanza è da quella parte». Camille indicò con un cenno della testa un corridoio e una porta. «Stavo preparando una zuppa di cipolle, se ne volete». Michael prese le scarpe e il fagotto di vestiti dal tavolo su cui erano stati appoggiati; Gaby chiuse la valigia e la sollevò. Camille disse: «Fate i bravi», poi si girò e andò in una piccola cucina in cui una pentola bolliva su una stufa di ghisa. «Dopo di te», disse Michael, poi seguì Gaby lungo il corridoio fino al loro nuovo alloggio. La porta scricchiolò sui cardini quando la ragazza l'aprì. All'interno c'erano un letto a baldacchino con una trapunta bianca e una branda più sobria con una coperta verde. La stanza era angusta ma pulita, con un lucernario e una finestra che dava sugli edifici sghembi color pastello. Con piglio deciso Gaby posò la valigia sul letto. Michael guardò la branda e gli sembrò di sentire la schiena lamentarsi. Andò alla finestra e l'aprì, prendendo una boccata d'aria parigina. Era ancora vestito solo degli indumenti intimi, come Gaby, ma non sembrava necessario sbrigarsi a fare nulla, incluso vestirsi - o svestirsi, a seconda del caso. Gaby si distese sul letto e si coprì con un lenzuolo di lino ben stirato. Osservò Michael, incorniciato dalla finestra: lasciò vagare lo sguardo sui muscoli, la schiena slanciata e le lunghe gambe coperte dai peli neri. «Riposerò un po'», dichiarò, con il lenzuolo tirato su fino al mento. «Fai pure». «In questo letto non c'è posto per due», disse Gaby.
«Ovviamente no», convenne lui. Le gettò una rapida occhiata e vide i lunghi capelli neri, non più raccolti sotto il berretto, sciolti sul cuscino di piumino d'oca, come a formare un intricato ventaglio. «Nemmeno se mi stringessi il più possibile», continuò la ragazza. «Perciò dovrai dormire sulla branda». «Sì, d'accordo». Gaby cambiò posizione e il materasso di piume si adeguò al suo corpo. Le lenzuola erano fresche e profumavano leggermente di chiodi di garofano: un aroma che Michael aveva colto non appena entrati nella stanza. Gaby non si era resa conto di essere tanto stanca: si era alzata alle cinque e aveva trascorso una notte agitata. Perché era andata con quell'uomo? si chiese. Lo conosceva appena. Non lo conosceva affatto, in realtà. Cosa rappresentava, per lei? Aveva chiuso gli occhi senza accorgersene... li riaprì e lo sorprese a fissarla, in piedi accanto al letto. Così vicino che la fece fremere. La gamba nuda le era scivolata fuori dal lenzuolo. Michael le sfiorò la caviglia con le dita, facendole venire la pelle d'oca, poi le afferrò delicatamente il piede e le rimise la gamba sotto il lenzuolo profumato. Per un istante Gaby pensò che quelle dita avessero inciso un marchio a fuoco sulla carne. «Dormi bene», disse lui mentre indossava un paio di pantaloni marroni con le toppe su entrambe le ginocchia. Si avviò verso la porta; Gaby si drizzò a sedere nel letto, tenendo il lenzuolo stretto al seno. «Dove stai andando?» «A prendere una scodella di minestra», rispose Michael. «Ho fame». Poi si girò e se ne andò, chiudendosi piano la porta alle spalle. Gaby si distese, ma non riusciva più a dormire. Si sentiva in fiamme e i suoi nervi vibravano. Era un residuo del loro incontro con il caccia, decise. Chi sarebbe stato capace di dormire dopo un avvenimento simile? Erano fortunati ad essere ancora vivi, e domani... Be', domani era un altro giorno. Come tutti i domani. Allungò un braccio accanto al letto e avvicinò un po' la branda. Non se ne sarebbe accorto. Soddisfatta e insonnolita si lasciò abbracciare dal piumino d'oca e chiuse gli occhi. Per alcuni minuti ombre di aerei e rumori di colpi d'arma da fuoco si agitarono nella sua mente. Poi svanirono, come un brutto sogno alla luce del giorno, e Gaby si addormentò. 4. Michael scese, e le molle gemettero leggermente. Appoggiò la bicicletta
Peugeot arrugginita contro un lampione all'incrocio tra rue de Belleville e rue des Pyrénées, poi controllò l'orologio da tasca al bagliore giallastro. Erano le nove e quarantatré. Camille aveva detto che il coprifuoco cominciava alle undici in punto. Dopo quell'ora la polizia militare tedesca - formata da bastardi violenti e decisi - girava per le strade. Tenne la testa bassa esaminando l'orologio, mentre Gaby pedalava lentamente superandolo, diretta verso sudest sulla rue des Pyrénées. L'oscurità la avvolse. Intorno a lui c'erano vari edifici divisi in appartamenti, la maggior parte dei quali un tempo erano state case eleganti decorate con sculture; in qualche finestra brillava una luce furtiva. La strada era silenziosa, con l'eccezione di sporadici velotaxi e di qualche carrozza trainata da cavalli. Durante la loro passeggiata in bicicletta da Montmartre attraverso le strade tortuose, Michael e Gaby avevano visto molti soldati tedeschi passeggiare nei boulevard in gruppi chiassosi o sedere nei café sui marciapiedi, spesso comportandosi da ubriachi. Avevano visto anche parecchi camion da trasporto per le truppe e autoblindo procedere veloci sulle pietre lastricate. Ma le due spie, nei loro nuovi travestimenti, non attiravano l'attenzione. L'uomo indossava un paio di pantaloni rattoppati, una camicia blu e un soprabito di velluto a coste che aveva visto giorni migliori; ai piedi aveva le scarpe nere malridotte e in testa un berretto marrone. Gaby indossava dei pantaloni sportivi neri, una camicetta gialla e un maglione grigio largo che nascondeva il rigonfiamento dovuto alla Luger. Portavano quindi gli abiti dei cittadini comuni di Parigi, che avevano difficoltà a sbarcare il lunario e che erano più preoccupati di riuscire a portare del cibo sulla tavola piuttosto che di seguire i dettami della moda europea. Michael le diede qualche altro attimo, poi salì sulla bicicletta e pedalò dietro di lei, tra le bellezze di pietra vecchie e tristi. Vide che la maggior parte delle statue erano rotte. Alcune erano state staccate dai loro alloggi e rubate, probabilmente per ornare le abitazioni dei nazisti. Michael pedalava a un ritmo lento e costante. Una carrozza lo oltrepassò, procedendo in direzione opposta, gli zoccoli del cavallo che facevano rumore sulla strada. Michael arrivò all'insegna che indicava rue Tobas e svoltò a destra con la bici. In quel punto gli edifici erano molto più vicini fra loro e le luci erano davvero poche. Quel distretto, un tempo molto ricco, aveva l'aria del decadimento e della dissoluzione. Alcune finestre erano rotte ed erano state aggiustate con del nastro adesivo, e gran parte dei lavori murari a incisione erano crollati o erano stati rimossi. Michael pensò a una ballerina classica con le gambe gonfie e ispessite dalle vene varicose. Statue senza testa si
ergevano in una fontana che conteneva, invece dell'acqua, spazzatura e vecchi giornali. Un muro di pietra mostrava una svastica nera nazista e la scritta DEUTSCHLAND SIEGT AN ALLEN FRONTEN, La Germania vittoriosa su tutti i fronti. Lo vedremo, pensò Michael mentre continuava a pedalare. Conosceva quella strada, l'aveva studiata bene sulla mappa. Sulla destra c'era un edificio grigio - un tempo una casa sontuosa - con i gradini di pietra rotti che salivano dal muretto. Conosceva anche quell'edificio. Continuò a pedalare e alzò rapido lo sguardo. Al secondo piano la luce filtrava dalle tende avvolgibili di una finestra all'angolo. Appartamento numero otto. Adam era in quella stanza. E Michael non guardò, ma sapeva dell'esistenza di un altro edificio grigio di pietra dalla parte opposta della rue Tobas, dove la Gestapo teneva i suoi sorveglianti. Per strada non c'erano passanti e Gaby era già andata molto avanti ad aspettarlo. Michael oltrepassò l'edificio di Adam, sentendo di essere osservato. Probabilmente dal tetto del palazzo davanti a quello di Adam. Probabilmente da una finestra oscurata. Questa è una trappola per topi, pensò Michael. Adam era il formaggio, e i gatti si stavano leccando i baffi. Smise di pedalare e lasciò che la bicicletta procedesse per inerzia sulla strada piena di crepe. Con la coda dell'occhio vide un bagliore alla sua sinistra. Sulla porta c'era qualcuno che si stava accendendo una sigaretta con un fiammifero. La fiammella si spense e il fumo salì a pennacchio. Miao, pensò Michael. Continuò con la testa bassa e vide un vicolo alla sua destra. Diresse la bicicletta verso la viuzza, vi svoltò, pedalò ancora per qualche metro e poi si fermò. Appoggiò la Peugeot contro un muro di mattoni grigi e tornò a piedi verso l'entrata del vicolo, che affacciava su rue Tobas; poi si accovacciò accanto a un gruppo di bidoni dell'immondizia e guardò dall'altra parte della strada, verso la porta dove l'uomo della Gestapo era in piedi a fumare la sua sigaretta. Un puntino rosso aumentava e diminuiva nella notte. Michael vide l'uomo, avvolto in un soprabito scuro e un cappello, delineato da una debole foschia blu. Passarono sette o otto minuti. Uno spiraglio di luce attirò l'attenzione di Gallatin, che alzò lo sguardo verso una finestra al terzo piano. Qualcuno aveva appena tirato una tenda nera, aprendola di qualche centimetro; venne tenuta così solo per qualche secondo, poi tornò a posto e la luce sparì. Michael rifletté che numerose squadre di uomini della Gestapo sorvegliavano probabilmente l'appartamento di Adam a tutte le ore del giorno e della notte. Da quella postazione al terzo piano avevano una visuale libera
di rue Tobas e potevano vedere chiunque entrasse o uscisse dall'edificio di Adam. Probabilmente avevano anche piazzato dei microfoni nel suo appartamento e sicuramente avevano messo sotto controllo il telefono. Quindi il contatto doveva far arrivare un messaggio ad Adam mentre si recava a piedi al lavoro; ma com'era possibile, con la Gestapo che gli stava alle costole? Michael si alzò in piedi e tornò nel vicolo, continuando a guardare il fumatore. L'uomo non lo vide; la sua attenzione era rivolta su e giù per la strada, in una sorveglianza rilassata e noiosa. Poi Michael fece altri due passi indietro e lo sentì. Il sudore di una persona spaventata. Dietro di lui c'era qualcuno. Una persona molto silenziosa, ma Michael udiva un respiro debole e affannoso. Improvvisamente sentì la lama di un coltello puntato contro la schiena. «Dammi i soldi», disse la voce di un uomo in francese con un forte accento tedesco. Un ladro, pensò Michael. Un rapinatore. Non aveva alcun portafoglio da consegnare e una lotta avrebbe sicuramente fatto cadere i bidoni dell'immondizia, attirando l'attenzione dell'uomo della Gestapo. In un istante decise cosa fare. Si drizzò completamente e disse a voce bassa in tedesco: «Vuoi morire?» Ci fu un attimo di silenzio. Poi: «Ti ho detto... di darmi...» La voce si ruppe. Il ladro era assolutamente terrorizzato. «Toglimi quel coltello dalla schiena», disse Michael con voce calma, «o in tre secondi ti uccido». Passò un secondo. Due. Michael si tese, pronto a girarsi di scatto. La pressione del coltello contro la schiena sparì. Sentì il ladro correre lungo il vicolo verso l'altra entrata su rue de la Chine. Il suo primo pensiero fu di lasciarlo andare, ma gli venne un'idea che diventò sempre più chiara. Si voltò e gli corse dietro; l'uomo era veloce, ma non abbastanza. Prima che potesse arrivare a rue de la Chine, Michael lo raggiunse, afferrò la parte inferiore del suo soprabito sporco e vecchio e lo strattonò talmente forte da farlo quasi rimanere senza scarpe. L'uomo era alto circa un metro e sessanta, si girò imprecando sottovoce e sferrò un colpo con il coltello, senza mirare. La mano di Michael gli serrò il polso, facendogli cadere la lama dalle dita in un sussulto di dolore. Poi lo sollevò e lo sbatté contro la parete grigia di mattoni. Gli occhi azzurri del ladro si gonfiarono sotto una zazzera di capelli castani sporchi. Michael lo tenne per il colletto e gli mise una mano sulla
bocca e sul mento coperto di peli grigi. «Silenzio», sussurrò. Da qualche parte nel vicolo un gatto miagolò forte e corse a ripararsi. «È inutile che ti dimeni!», disse Michael, parlando ancora in tedesco. «Non andrai da nessuna parte. Voglio farti qualche domanda e voglio che tu mi dica la verità. Hai capito?» Il ladro annuì, terrorizzato e tremante. «D'accordo, ti tolgo la mano dalla bocca. Se fai un urlo, ti spezzo il collo». Scosse forte la mano per sottolineare il concetto, poi la abbassò. Il ladro emise un debole gemito. «Sei tedesco?», chiese Michael. Il ladro annuì. «Un disertore?» Un attimo di silenzio, poi un cenno di assenso con il capo. «Da quanto sei a Parigi?» «Da sei mesi. Ti prego... ti prego, lasciami andare. Non ti ho infilzato, giusto?» Era stato in grado di nascondersi a Parigi per sei mesi, circondato dai tedeschi. Un ottimo segno, pensò Michael. «Non piagnucolare. Cos'altro fai, oltre a cercare di infilzare la gente? Rubi il pane dai mercati, forse qualche frutto qui e lì, un barattolo da uno scaffale?» «Sì. Sì. Tutto questo. Ti prego... Non sono bravo come soldato. Ho i nervi deboli. Ti prego, lasciami andare. D'accordo?» «No. Fai il borseggiatore?» «A volte. Quando è necessario». Gli occhi del ladro si strinsero. «Aspetta. Tu chi sei? Non sei della polizia militare. A che gioco stai giocando?» Michael lo ignorò. «Sei bravo a fare il borseggiatore?» Il ladro fece un largo sorriso, mostrando una finta durezza. Sotto i capelli grigi e la sporcizia della strada, aveva forse da quarantacinque a cinquant'anni. I tedeschi stavano davvero raschiando il fondo del barile alla ricerca di soldati. «Sono ancora vivo, no? Adesso dimmi chi diavolo sei tu!» I suoi occhi balenarono a un pensiero. «Ah! Ma certo. La Resistenza, giusto?» «Faccio io le domande. Sei un nazista?» L'uomo emise una risata secca. Sputò un po' di catarro sulle pietre del vicolo. «Sei uno che scopa i cadaveri?» Michael fece un debole sorriso. Forse lui e il ladro non erano dalla stessa parte, ma condividevano lo stesso sentimento. Abbassò l'uomo, facendogli poggiare i piedi per terra, ma tenne la mano serrata sul colletto sporco. Dal lato del vicolo che dava su rue de la Chine spuntò Gaby sulla bicicletta. «Ehi!», sussurrò con tono preoccupato. «Che succede?» «Ho incontrato una persona che potrebbe esserci utile», disse Michael.
«Io? Utile alla Resistenza? Ah!» L'omino spinse contro la mano di Michael, che aprì le dita. «Voi due potete marcire all'inferno, per quel che m'importa!» «Se fossi in te, terrei la voce bassa». Michael indicò verso rue Tobas. «C'è un uomo della Gestapo in piedi dall'altra parte della strada. In quell'edifico potrebbero essercene molti. Non credo che tu voglia attirare la loro attenzione, vero?» «Nemmeno voi!», ribatté l'uomo. «Quindi cosa facciamo?» «Ho un lavoro per un borseggiatore», disse Michael. «Cosa?» Gaby era scesa dalla bicicletta. «Ma di che parli?» «Mi servono delle dita agili», continuò Michael. Fissò il ladro con decisione. «Non per rubare, ma per mettere una cosa dentro una tasca». «Tu sei pazzo!», esclamò il ladro con un sogghigno che fece sembrare ancora più brutto il suo viso dalle sopracciglia folte. «Forse dovrei chiamare io stesso la Gestapo e farla finita con te!» «Fai pure», disse Michael. Il ladro si accigliò e passò lo sguardo da Gallatin a Gaby. Le sue spalle crollarono. «Oh, al diavolo», disse. «Quand'è stata l'ultima volta che hai mangiato?» «Non lo so. Penso ieri. Perché? Servite birra e salsicce?» «No. Zuppa di cipolla». Michael sentì Gaby ansimare rendendosi conto di quello che stava per proporgli. «Sei a piedi?» «La mia bicicletta è dietro l'angolo». Indicò con un dito verso rue de la Chine. «Agisco nei vicoli qui intorno». «Farai un viaggetto con noi. Pedaleremo ai tuoi lati e, se chiami un soldato o crei qualche difficoltà, ti uccideremo». «Perché dovrei venire con voi? Probabilmente mi ucciderete comunque». «Forse lo faremo», disse Michael, «o forse no. Ma almeno morirai con la pancia piena. Inoltre... potremmo riuscire ad arrivare a un accordo economico». Vide il lampo d'interesse negli occhi infossati dell'uomo e capì di aver toccato l'argomento giusto. «Come ti chiami?» Il ladro rimase un attimo in silenzio, ancora diffidente. Alzò lo sguardo e guardò lungo il vicolo, come se temesse che qualcuno lo sentisse. Poi disse: «Mausenfeld. Arno Mausenfeld. Ex cuoco di campo». Maus pensò Michael. La parola tedesca per topo... «Ti chiamerò Mouse», decise, scegliendo il termine inglese. «Andiamo via prima che scatti il coprifuoco».
5. Camille era furiosa: non sembrava più una dolce vecchina. Aveva gli occhi che brillavano di rosso e il viso infiammato dalle radici dei capelli bianchi alla punta del mento. «Portare un tedesco nella mia casa!», urlò in preda a un attacco di collera. «Ti farò giustiziare come traditore, per questo!» Lanciò un'occhiataccia a Michael e guardò Arno Mausenfeld come se fosse qualcosa che aveva appena grattato via dalla suola delle scarpe. «Tu! Vattene! Questo non è un rifugio per fannulloni nazisti!» «Signora, non sono un nazista», rispose Mouse con grande dignità. Si drizzò più che poté, ma era comunque una decina di centimetri più basso di Camille. «E non sono un fannullone». «Vattene! Vattene prima che io...» Camille si allontanò di scatto, corse verso la credenza e la aprì. Vi infilò la mano e la tirò fuori con un vecchio e pesante revolver Lebel stretto in pugno. «Ti faccio saltare quello sporco cervello!», gridò; non c'era più traccia della cortesia francese, mentre la donna puntava la pistola alla testa di Mouse. Michael le afferrò il polso, piegò la pistola verso l'alto e gliela tolse di mano. «Adesso basta», la rimproverò. «Si farà saltare la mano con questo ferrovecchio». «Hai deliberatamente portato questo nazista nella mia casa!» Camille era infuriata e mostrava i denti. «Hai compromesso la nostra sicurezza! Perché?» «Perché può aiutarmi a fare il mio lavoro», rispose Michael. Mouse vagava per la cucina, con i vestiti che sotto la luce apparivano ancora più sporchi e malridotti. «Ho bisogno che qualcuno porti un messaggio all'uomo che devo contattare. Dev'essere fatto in fretta, senza attirare molta attenzione. Ho bisogno di un borseggiatore... e lui lo è». Annuì in direzione del tedesco. «Sei fuori di testa!», disse Camille. «Sei completamente pazzo! Oh mio Dio, ho un matto sotto il mio tetto!» «Non lo sono!», intervenne Mouse. Fissò la donna con il viso sporco ben delineato. «I dottori hanno detto che non sono affatto pazzo». Sollevò la pentola e annusò per sentire l'odore del contenuto. «È buona», disse. «Ma insipida. Se ha della paprika, posso speziarla un po' per lei». «Dottori?», chiese Gaby accigliata. «Quali dottori?» «I dottori del manicomio», continuò Mouse. Si tolse i capelli dagli occhi
con le dita sporche, che poi infilò nella pentola. Assaggiò la zuppa di cipolle. «Oh, sì», disse. «Con la paprika sarebbe decisamente meglio. Se possibile anche un tocco di aglio». «Quale manicomio?», la voce di Camille era stridula e tremò come un flauto non accordato. «Quello da cui sono fuggito sei mesi fa», rispose Mouse. Prese un ramaiolo e vi raccolse un po' di zuppa, poi la sorbì rumorosamente. Gli altri rimasero in silenzio e continuarono a osservarlo; la bocca di Camille era aperta, come se stesse per lanciare un urlo che avrebbe fatto tremare i bicchieri. «Era un posto nella parte occidentale della città», disse Mouse. «Per persone che erano crollate psicologicamente e si erano sparate in un piede. Gliel'avevo detto, quando mi hanno arruolato, che non avevo i nervi saldi. Mi hanno forse dato ascolto?» Un altro assaggio rumoroso della zuppa e il liquido gli scese dal mento, macchiandogli la camicia. «No, non mi hanno dato retta. Mi dissero che sarei stato nella cucina da campo e che non mi sarei mai trovato coinvolto in un'azione. Ma quei bastardi avevano forse detto qualcosa sulle incursioni aeree? No! Nemmeno una parola!» Prese un intero ramaiolo di zuppa e se lo versò in bocca, passandolo da una guancia all'altra. «Sapevate che Hitler si disegna i baffi, vero?», chiese. «È la verità! Quel bastardo dal cazzo moscio non riesce a farseli crescere. E di notte porta indumenti femminili. Chiedete in giro». «Oh, che Dio ci salvi! Un nazista pazzo!» Camille gemette sommessamente, con il volto che ormai le era diventato bianco come i capelli. Barcollò all'indietro; Gaby la afferrò prima che cadesse. «Questa zuppa avrebbe bisogno di un bello spicchio d'aglio», disse Mouse schioccando le labbra. «Allora sì che sarebbe un capolavoro!» «Adesso cosa vuoi fare?», chiese Gaby a Michael. «Dovrai liberarti di lui». Lanciò un rapido sguardo al revolver che l'inglese teneva in mano. Fu una delle poche volte nella vita in cui Michael Gallatin si sentì un idiota. Si rese conto di essersi aggrappato a un filo di paglia, e si era ritrovato con un ramoscello spezzato. Mouse mangiava felice la zuppa dal ramaiolo e si guardava intorno - era evidente che la cucina costituiva un terreno che gli era familiare. Un tedesco con la nevrosi delle bombe, evaso da un manicomio, era una leva fragile sulla quale avvicinarsi ad Adam; ma cos'altro aveva in mano Michael? Maledizione! pensò. Perché non ho lasciato andare questo pazzo? Non oso immaginare cosa accadrebbe se... «Credo che tu abbia parlato di un accordo finanziario», disse Mouse, posando il ramaiolo nella pentola. «Cos'hai in mente?»
«Di metterti delle monete sugli occhi quando faremo fluttuare il tuo cadavere lungo la Senna!», urlò Camille, ma Gaby la zittì. Michael esitò. Quell'uomo era inutile o no? Forse soltanto un pazzo avrebbe osato tentare quello che stava per proporgli. Ma avrebbe avuto una sola possibilità, e se Mouse avesse fatto un errore avrebbero pagato tutti con la vita. «Lavoro per il servizio segreto britannico», disse con un tono di voce calmo. Mouse continuò a ficcare il naso in giro per la cucina; Camille ansimò e fu nuovamente sul punto di svenire. «La Gestapo sta tenendo sotto controllo un nostro agente. Devo fargli arrivare un messaggio». «La Gestapo», ripeté Mouse. «Maledetti bastardi. Sono dappertutto, sai». «Sì, lo so. È per questo che mi serve il tuo aiuto». Mouse lo guardò e sbatté le palpebre. «Io sono un tedesco». «So anche questo. Ma non sei un nazista e non vuoi tornare in ospedale, vero?» «No. Certo che no». Esaminò attentamente una padella, dandole dei colpetti sul fondo. «Il mangiare lì è terribile». «E non penso nemmeno che tu voglia continuare la tua vita da ladro», continuò Michael. «Quello che vorrei che tu facessi richiederà forse un paio di secondi... se sei bravo a fare il borseggiatore. Altrimenti la Gestapo ti catturerà in strada. E, se succederà, dovrò ucciderti». Mouse fissò Michael con gli occhi azzurri che spiccavano sul volto sporco e segnato. Posò la padella. «Ti darò un pezzo di carta piegato», disse Michael. «Dev'essere infilato nella tasca del cappotto di un uomo che ti descriverò e indicherò per strada. Dovrai essere rapido e dovrà sembrare che ti sia scontrato con lui per caso. Due secondi, non di più. Ci sarà una squadra di uomini della Gestapo a seguire il nostro uomo e probabilmente a tenerlo d'occhio lungo la strada. Qualunque cosa sembri minimamente sospetta li attirerà su di te. La mia amica» - fece un cenno con il capo verso Gaby - «e io saremo lì vicino. Se qualcosa va storto, cercheremo di aiutarti. Ma la mia fedeltà è soprattutto verso il nostro agente. Se questo significa che devo spararti insieme agli uomini della Gestapo, non esiterò a farlo». «Di questo sono sicuro», disse Mouse, prendendo una mela da una terrina di terracotta. La esaminò per assicurarsi che non contenesse vermi, poi le diede un morso. «Sei inglese, eh?», chiese tra un boccone e l'altro. «Le mie congratulazioni. Il tuo tedesco è ottimo». Si guardò intorno nella piccola cucina. «Non mi aspettavo che la Resistenza fosse così. Credevo che
fosse costituita da un gruppo di francesi che si nascondevano nelle fogne». «Lasciamo le fogne a quelli della tua razza!», ribatté Camille ancora stizzita. «La mia razza», ripeté Mouse e scosse la testa. «Oh, viviamo nelle fogne dal 1938, signora. Ci hanno dato da mangiare la merda a forza per così tanto tempo che abbiamo cominciato ad apprezzarne il gusto. Sono nell'esercito da due anni, quattro mesi e undici giorni. Un grande dovere patriottico, dicevano! Una possibilità per espandere il Reich e creare un nuovo mondo per tutti i tedeschi benpensanti! Solo i puri di cuore e con il sangue forte... be', sapete il resto». Fece una smorfia... era stato toccato in un punto debole. «Non tutti i tedeschi sono nazisti», disse a voce bassa. «Ma i nazisti hanno la voce più forte e i bastoni più grandi, e sono riusciti a far perdere la ragione al mio paese. Quindi sì, io conosco le fogne, signora. Le conosco benissimo». I suoi occhi sembravano bruciati da un calore interno; gettò il torsolo della mela in un cestino. Il suo sguardo tornò su Michael. «Ma sono ancora un tedesco. Forse sono davvero pazzo, ma amo la mia terra... forse amo un ricordo della mia terra invece della realtà. Quindi perché dovrei aiutarti a fare un qualcosa che potrebbe uccidere i miei compatrioti?» «Ti sto chiedendo di aiutarmi a evitare che i miei compatrioti vengano uccisi. Probabilmente a migliaia, se non riesco ad arrivare a quell'uomo». «Oh, sì». Mouse annuì. «Certo, deve avere a che fare con l'invasione». «Che Dio ci fulmini tutti!», gemette Camille. «Siamo rovinati!» «Tutti i soldati sanno che l'invasione è in arrivo», disse Mouse. «Non è un segreto. Solo che non si sa - per il momento - quando avverrà né dove. Ma è inevitabile: questo lo sappiamo persino noi stupidi cuochi di campo. Una cosa è sicura: quando gli inglesi e gli americani cominceranno a marciare lungo la costa, nessun Vallo Atlantico del cazzo li fermerà. Continueranno ad avanzare fino a Berlino; prego Dio soltanto che ci arrivino prima dei maledetti russi!» Michael lasciò passare quel commento. Certo, era dal 1943 che i russi cercavano di lottare per passare a ovest. «Mia moglie e i miei due figli sono a Berlino». Mouse sospirò sommessamente e si passò una mano sul viso. «Il mio figlio maggiore... aveva diciannove anni quando è andato in guerra. Sul fronte orientale, per di più. Non sono riusciti a raccogliere frammenti sufficienti del suo cadavere da rimandarlo in una scatola. Mi hanno spedito la sua medaglia. L'ho appesa al muro, dove brilla davvero bene...» Gli occhi del tedesco erano diventati
umidi, ma poi si indurirono di nuovo. «Se i russi arrivano a Berlino, mia moglie e i bambini... be', non accadrà. I russi verranno fermati molto prima di arrivare in Germania». Il modo in cui lo disse fece capire che lui stesso non ci credeva. «Puoi aiutare ad abbreviare questa guerra facendo quello che ti chiedo», gli disse Michael. «La strada è lunga, dalla costa a Berlino». Mouse non disse nulla... rimase in piedi a fissare nel vuoto, con le mani che gli pendevano ai lati. «Quanti soldi vuoi?», lo pungolò Michael. Mouse rimase in silenzio. Poi disse a voce bassa: «Voglio andare a casa». «D'accordo. Quanti soldi ti servono per farlo?» «No. Non voglio soldi». Guardò Michael. «Voglio che mi portiate a Berlino. Da mia moglie e dalle mie figlie. È da quando sono scappato dall'ospedale che cerco un modo per lasciare Parigi. Non sono riuscito ad allontanarmi più di tre chilometri dalla città prima che una pattuglia mi vedesse. Voi avete bisogno di un borseggiatore, io di una scorta. Accetterò solo se me la fornirete». «È impossibile!», disse Gaby alzando la voce. «È fuori questione!» «Aspetta». La voce di Michael era decisa. Aveva comunque intenzione di trovare il modo di arrivare a Berlino, per contattare l'agente Echo e trovare il cacciatore che aveva fatto uccidere la contessa Margritta. La fotografia di Harry Sandler, sorridente sopra la carcassa di un leone, non aveva mai abbandonato la mente di Michael. «Come ti ci porto?» «Questo è un lavoro tuo», disse Mouse. «Il mio è di infilare un pezzo di carta nella tasca di un uomo. Lo farò - e senza commettere errori - ma voglio andare a Berlino». Adesso fu Michael a riflettere in silenzio. Arrivare a Berlino da solo era una cosa, scortare un evaso da un manicomio era un'altra. Il suo istinto gli diceva di rifiutare... e sbagliava di rado. Ma era una questione di destino, e aveva poca scelta. «D'accordo», disse. «Anche tu sei pazzo!», gemette Camille. «Pazzo come lui!» Ma la sua voce non era terrorizzata come prima, perché riconosceva un metodo in quella pazzia. «Andremo domattina», disse Michael. «Il nostro agente lascia l'edificio alle otto e trentadue. Impiega approssimativamente dieci minuti per percorrere la strada. Studierò sulla mappa dove voglio che tu agisca; nel frattempo, stasera resterai qui». Camille cominciò a tuonare di nuovo indignata, ma era inutile. «Dormirà
per terra!», disse subito. «Non sporcherà le mie lenzuola di lino!» «Dormirò qui». Mouse indicò il pavimento della cucina. «Tanto più che stanotte potrebbe venirmi fame». Camille riprese il revolver dalle mani di Michael. «Se sento un rumore qui dentro, sparerò per uccidere!» «In questo caso signora, è meglio che le dica che russo», ribatté Mouse. Era ora di dormire un po'. Il giorno dopo sarebbe stato impegnativo per tutti. Michael si avviò verso la camera da letto, ma Mouse disse: «Ehi! Aspetta! In quale tasca del soprabito vuoi che infili il pezzo di carta? Esterna o interna?» «Esterna andrà bene. Interna sarebbe meglio». «In quella interna, allora». Mouse prese un'altra mela dalla terrina e la morse. Lanciò un'occhiata a Camille. «Qualcuno mi offre un po' di zuppa, o devo morire di fame prima di domattina?» La donna fece un rumore simile a un ringhio, aprì con forza la credenza e gli prese una scodella. Nella camera da letto Michael si tolse il berretto e la camicia, poi si sedette sul bordo del letto, studiando una mappa di Parigi alla luce di una candela bianca. Un'altra candela venne accesa dall'altro lato del letto; Michael alzò lo sguardo e vide l'ombra di Gaby che si svestiva. Sentì la fragranza di sidro dei suoi capelli mentre la ragazza li spazzolava. Michael studiò la mappa di nuovo e decise che l'azione si sarebbe dovuta svolgere a metà del tragitto tra la casa di Adam e il suo ufficio. Trovò il punto che cercava e lo segnò con l'unghia. Poi alzò ancora una volta lo sguardo verso l'ombra della ragazza. Sentì i peli sottili drizzarsi sulla nuca e lungo la schiena. Il giorno dopo avrebbero camminato sull'orlo di un precipizio... forse avrebbero incontrato la morte. Il suo cuore batteva sempre più forte. Osservò l'ombra di Gaby sfilarsi i pantaloni. Il giorno dopo poteva portare morte e distruzione, ma quella sera erano vivi e... Michael sentì il debole aroma dei chiodi di garofano quando Gaby sollevò il lenzuolo e scivolò nel letto. Ripiegò la mappa di Parigi e la mise da parte. Si voltò e la guardò. La luce della candela brillava nei suoi occhi color zaffiro, i capelli neri erano sparsi sul cuscino e il lenzuolo era tirato poco sopra il seno. Lei ricambiò lo sguardo e sentì il cuore batterle all'impazzata; poi abbassò il lenzuolo, solo di pochi centimetri, ma Michael vide il gesto e riconobbe l'invito.
Si chinò su di lei e la baciò. Prima delicatamente agli angoli della bocca. Poi le labbra di lei si aprirono e lui la baciò più profondamente, fiamma contro fiamma. Mentre il bacio continuava, umido e caldo, Michael quasi riuscì a sentire il vapore che saliva dai loro pori. Le labbra di lei cercarono di trattenerlo, ma lui si allontanò e la guardò. «Non sai niente di me», le disse a voce bassa. «E da domani potremmo non rivederci mai più». «Lo so... Voglio essere tua stanotte», disse Gaby. «E per stanotte voglio che tu sia mio». Lo avvicinò a sé e scostò il lenzuolo. Era nuda, il corpo teso dal desiderio. Gli mise le braccia al collo e si baciarono, poi lui portò le mani in basso, si slacciò la cintura e si spogliò. Mentre le candele gettavano le loro ombre ingrandite sulla parete, i loro corpi si strinsero, abbracciati sul materasso di piume d'oca. Lei sentì la lingua di lui guizzarle sul collo, un tocco molto delicato ma tanto intenso da farla ansimare; poi l'uomo fece scivolare la testa verso il basso e le passò la lingua tra i seni. Lei gli afferrò i capelli, mentre la lingua si muoveva in cerchi lenti e precisi. Dentro il corpo di Gaby ebbe inizio una pulsazione, che diventò sempre più forte. Michael la sentì tremare, con il gusto della sua carne dolce in bocca, e le sfiorò con le labbra la pancia, scendendo fino ai riccioli neri che aveva tra le gambe. Il movimento della lingua dell'uomo in quel punto portò Gaby ad arcuare il corpo e a serrare i denti per soffocare un gemito. Lui l'aprì con il tocco gentile delle dita, come se fosse un fiore rosa. La sua lingua viaggiò lentamente su e giù per la strada a cui Gaby l'aveva portato. Lei ansimò mentre la carezzava; fu sul punto di sussurrare il suo nome, ma si rese conto che non lo conosceva e non l'avrebbe mai saputo. Ma quel momento, quella sensazione, quella gioia... bastavano. Aveva gli occhi umidi, come il centro del suo desiderio. Michael le baciò l'incavo della gola con labbra brucianti, spostò la posizione ed entrò delicatamente in lei. Era grande, ma il corpo della ragazza gli fece spazio. La riempì con un calore vellutato, mentre le mani di lei sulle spalle sentivano i muscoli muoversi sotto la pelle. Michael si mise in equilibrio sui palmi e sulla punta delle dita dei piedi e si spinse ancor più dentro di lei, muovendo le anche con un ritmo lento che la fece ansimare e gemere. I loro corpi si intrecciarono e spinsero insieme, separandosi e poi premendo di nuovo l'uno contro l'altro; i movimenti sinuosi e decisi di Michael plasmarono il corpo di Gaby come l'argilla calda, mentre la ragazza si arrendeva ai suoi muscoli. I nervi, la pelle, il sangue dell'uomo cantarono con una sinfonia di sensazioni, aromi e tocchi. Dal lenzuolo aggrovigliato salì il profumo dei chiodi di
garofano, e il corpo di Gaby respirò l'aroma inebriante e pungente della passione. Aveva i capelli umidi e perle di sudore brillavano tra i suoi seni. I suoi occhi erano sognanti, fissi su un punto dentro di lei, e le gambe gli serravano le anche per tenerlo dentro mentre lui la scuoteva gentilmente. Poi lui si mise supino e lei gli fu sopra, con il corpo sospeso sul suo membro, gli occhi chiusi, i capelli neri che le scendevano sulle spalle come una cascata. Lui sollevò le anche dal letto, e il corpo della ragazza si mosse con lui; lei si chinò in avanti contro il suo petto e sussurrò tre parole dolci che non avevano significato se non nell'estasi del momento. Michael chiuse il suo corpo attorno a lei e la ragazza gettò le mani all'indietro per afferrare la cornice di ferro del letto; cominciarono a tendersi l'uno contro l'altro e poi a muoversi delicatamente all'unisono. Diventò una danza di passione, un balletto di seta e ferro, e quando raggiunse il culmine Gaby gridò, incurante di chi poteva sentire; poi anche Michael abbandonò il controllo. La sua spina dorsale si arcuò, con il corpo ancora nella presa pulsante di lei, e la pressione fluì via in numerose esplosioni che lo lasciarono stordito. Gaby fluttuava, una nave bianca con le vele gonfiate dal vento e una mano forte al timone. Si rilassò nel suo abbraccio; poi si distesero insieme, respirando come se fossero una persona sola, mentre la campana di una cattedrale batteva in lontananza la mezzanotte. Un po' prima dell'alba, Michael le scostò i capelli dal viso e la baciò sulla fronte. Si alzò, attento a non svegliarla, e si diresse verso la finestra. Guardò Parigi, mentre il sole disegnava un debole cerchio rosa contro il blu scuro della notte. Era già giorno nella terra di Stalin, e l'occhio bruciante del sole si alzava sul territorio di Hitler. Era l'inizio della giornata per la quale era giunto dal Galles: nel giro di ventiquatt'ore avrebbe avuto l'informazione che cercava o sarebbe morto. Inalò l'aria del mattino e sentì su di sé il profumo della carne di Gaby. Vivi libero, pensò. Un ultimo ordine da un re morto. L'aria fresca e pungente gli rammentò una foresta e un palazzo bianco di tanto tempo prima. I ricordi infiammarono una febbre che non sarebbe mai stata soddisfatta... né da una donna, né dall'amore, né da una città costruita dalle mani dell'uomo. La pelle gli pizzicò, come punta da centinaia di aghi. La sua parte selvaggia lo avvolse, veloce e potente. Peli neri apparvero sul dorso delle mani, scesero lungo il retro delle cosce e gli striarono i polpacci. Sentì l'odore del lupo diffondersi dalla sua pelle. Macchie di peli neri, alcuni mi-
schiati al grigio, gli apparvero sulle braccia, spuntarono dal dorso delle mani e vibrarono, lucenti e vivi. Sollevò la mano destra e la osservò mentre cambiava, dito dopo dito; i peli neri vi si incresparono sopra circondandogli il polso, mentre altri ciuffi gli correvano lungo l'avambraccio. La sua mano stava cambiando forma, le dita si piegarono all'interno con piccoli crepitii delle ossa e delle cartilagini che gli fecero dolere i nervi e portarono la lucentezza sul suo volto. Due dita quasi scomparvero, e al loro posto apparvero artigli ricurvi e dalle unghie nere. La sua spina dorsale cominciò a piegarsi, producendo piccoli schiocchi dovuti alla compressione delle vertebre. «Cosa c'è?» Michael abbassò la mano su un fianco e tenne fermo il braccio. Il cuore gli balzò in gola. Si voltò verso la ragazza. Gaby si era seduta sul letto, con gli occhi gonfi per il sonno e per gli strascichi della passione. «Cosa c'è che non va?», chiese con voce intontita ma leggermente tesa. «Niente», rispose lui con un sussurro stridulo. «Va tutto bene. Torna a dormire». Lei sbatté le palpebre e si rimise giù, con il lenzuolo intorno alle gambe. I ciuffi di peli neri sulla schiena e sulle cosce di Michael svanirono, svelando di nuovo la carne debole e umida. Gaby disse: «Per favore, abbracciami. Vuoi?» Lui aspettò qualche altro secondo. Poi sollevò la mano destra. Le dita erano di nuovo umane, e gli ultimi peli di lupo si incresparono dal polso lungo l'avambraccio, svanendo nella pelle come tanti piccoli aghi pungenti. Trasse un altro profondo respiro e sentì la spina dorsale drizzarsi. Aveva di nuovo raggiunto la sua altezza massima, e il desiderio di trasformarsi lo abbandonò. «Ma certo», le disse mentre scivolava nel letto e le passava il braccio destro - di nuovo completamente umano - intorno al collo. La ragazza appoggiò la testa contro la sua spalla e disse insonnolita: «Sento l'odore di un cane bagnato». Lui accennò un sorriso; il respiro di Gaby diventò più profondo e la ragazza si addormentò di nuovo. Un gallo cantò. La notte stava giungendo al termine, e il giorno stabilito era ormai arrivato. 6. «Sei sicuro di poterti fidare di lui?», chiese Gaby mentre pedalava lentamente insieme a Michael verso sud lungo avenue des Pyrénées. Osservavano Mouse, un uomo piccolo con indosso un soprabito lurido che proce-
deva davanti a loro su una bicicletta malridotta, diretto a nord verso l'incrocio con rue de Ménilmontant, dove avrebbe girato a est in avenue Gambetta. «No», rispose Gallatin, «ma lo scopriremo presto». Toccò la Luger che aveva sotto il cappotto e svoltò in un vicolo con Gaby che lo seguiva da vicino. L'alba era stata ingannevole; nuvole color peltro avevano coperto il sole e una brezza fredda spazzava le strade. Michael controllò l'orologio da tasca che conteneva il veleno: erano le otto e ventinove. Adam sarebbe uscito dall'edificio in cui viveva fra tre minuti, come ogni giorno. Avrebbe cominciato la sua camminata da rue Tobas fino ad avenue Gambetta, dove avrebbe svoltato verso nordest diretto alla struttura di pietra grigia di rue de Belleville, su cui sventolavano le bandiere naziste. Mouse doveva trovarsi in posizione quando Adam sarebbe arrivato all'incrocio tra avenue Gambetta e rue St. Fargeau. Michael aveva svegliato il cuoco alle cinque e mezza, Camille aveva preparato con riluttanza la colazione per tutti e Gallatin aveva descritto Adam al tedesco, insistendo finché non era stato certo - almeno per quanto poteva - che Mouse fosse in grado di riconoscerlo per strada. A quell'ora del mattino le vie erano ancora sgombre; solo pochi altri si recavano al lavoro in bicicletta o a piedi. Il cuoco aveva in tasca un biglietto piegato in cui c'era scritto: Al tuo palco. All'Opéra. Stasera al terzo atto. Sbucarono dal vicolo in rue de la Chine e Michael per poco non investì due soldati tedeschi che camminavano insieme. Gaby li scartò oltrepassandoli e uno dei due le gridò dietro fischiando. La ragazza ricordò il bagnato tra le gambe della notte precedente e con disinvoltura si drizzò sul sellino e si batté il sedere, come a invitare i tedeschi a baciarla in quel punto. I due soldati risero e schioccarono le labbra. Gaby seguì Gallatin lungo la strada; le ruote delle biciclette sobbalzarono sulle pietre, poi Michael svoltò nel vicolo in cui aveva incontrato Mouse la sera prima. La ragazza continuò secondo il piano prestabilito, diretta a sud lungo rue de la Chine. Gallatin fermò la bicicletta e aspettò. Si mise a fissare l'entrata del vicolo che si affacciava su rue Tobas circa cento metri più avanti. Vide un uomo con i capelli neri e le spalle curve, ma si dirigeva nella direzione sbagliata: decisamente non era Adam. Michael controllò l'orologio: erano le otto e trentuno. Una donna e un uomo oltrepassarono l'entrata del vicolo parlando animatamente. Amanti, pensò Gallatin. L'uomo aveva la barba scura... non era Adam. Passò una carrozza tirata da un cavallo e il rumore degli zoccoli dell'animale echeggiò lungo la strada. Qualche persona in bicicletta
pedalava lentamente. Passò un furgone del latte, il cui autista chiamava con voce roca eventuali clienti. Poi un uomo con le mani sprofondate nelle tasche del lungo soprabito marrone scuro venne avanti oltrepassando l'entrata del vicolo in direzione di avenue Gambetta. Aveva un profilo che sembrava scolpito, con il naso simile al becco di un falco. Non era Adam, ma indossava un cappello di pelle nera con una piuma infilata nel nastro come l'agente della Gestapo in strada, ricordò Michael. L'uomo improvvisamente si fermò, proprio al limitare del vicolo, e Gallatin premette la schiena contro il muro, nascondendosi dietro una pila di cassette rotte. Lo sconosciuto si guardò intorno dandogli la schiena e lanciò uno sguardo frettoloso nel vicolo; l'inglese intuì che l'aveva già fatto moltissime volte. Poi l'uomo si tolse il cappello, spazzò via dalla tesa un immaginario granello di polvere, se lo rimise in testa e si avviò verso avenue Gambetta. Gallatin si rese conto che si trattava di un segnale, probabilmente diretto a qualcuno che si trovava più avanti lungo la strada. Non ci fu più tempo per le ipotesi. Dopo pochi secondi un uomo snello con i capelli biondi e gli occhiali con la montatura in metallo, avvolto in un soprabito grigio e con una valigetta nera in mano, oltrepassò il vicolo. Il cuore di Michael batté più velocemente... Adam era in orario. Gallatin aspettò. Forse mezzo minuto dopo Adam, altri due uomini attraversarono l'entrata: uno camminava otto o nove passi davanti all'altro. Il primo indossava un completo marrone e un cappello di feltro basso e morbido; il secondo una giacca nocciola, dei pantaloni di velluto a coste, un berretto marrone chiaro e aveva in mano un giornale: Michael capì che all'interno doveva nascondere una pistola. Gallatin aspettò qualche altro secondo, poi trasse un respiro profondo e pedalò uscendo dal vicolo in rue Tobas. Svoltò a destra, dirigendosi verso avenue Gambetta, ed ebbe un quadro chiaro della situazione: l'uomo con il cappello di pelle camminava molto avanti e a passo svelto sul lato sinistro della strada, Adam era su quello destro, e a una certa distanza da lui c'erano l'uomo con il completo e quello con il giornale. Era una parata bella ed efficiente, pensò Michael. Probabilmente c'erano altri uomini della Gestapo ad aspettare più avanti su avenue Gambetta. Dovevano aver eseguito quel rituale almeno due volte al giorno da quando avevano concentrato l'attenzione su Adam, e forse la monotonia del compito aveva reso i loro riflessi più lenti. Forse. Non ci contava. Oltrepassò pedalando l'uomo con il giornale, mantenendo costante l'andatura. Un altro
uomo in bicicletta lo sorpassò, suonando furioso il campanello. Michael oltrepassò l'uomo con il completo. Gaby si trovava sempre a circa cento metri dietro di lui, in posizione di rincalzo nel caso in cui le cose si fossero messe male. Adam stava arrivando all'incrocio tra rue Tobas e avenue Gambetta; guardò da entrambi i lati, si fermò per aspettare che un camion passasse scoppiettando e poi attraversò la strada e si diresse a nordest. Gallatin lo seguì e vide immediatamente l'uomo con il cappello di pelle entrare in un portone, da cui uscì un altro agente della Gestapo con un completo grigio scuro e scarpe bicolori. L'ultimo venuto avanzò, facendo scivolare lentamente lo sguardo su e giù per la strada. In lontananza, all'incrocio di rue de Belleville con avenue Gambetta, le bandiere naziste battevano al vento. Michael aumentò l'andatura e si accostò ad Adam. Si stava avvicinando una figura su una bicicletta malconcia con la ruota anteriore traballante. Gallatin aspettò che Adam fosse quasi affiancato a Mouse e fece un breve cenno di assenso con il capo. Vide gli occhi del tedesco: brillavano ed erano lucidi per la paura. Ma non c'era il tempo di fermare il piano... ora o mai più. Michael oltrepassò il cuoco e lasciò la situazione nelle sue mani. Vedendo il cenno di Gallatin, Mouse sentì una fitta di puro terrore. Non avrebbe mai capito perché aveva accettato di fare una cosa del genere. No, non era vero... sapeva benissimo perché aveva accettato: voleva tornare a casa dalla moglie e dalle figlie, e se quello era l'unico modo per riuscirci... Vide un uomo con le scarpe bicolori posare su di lui uno sguardo penetrante e poi rivolgerlo altrove. E circa sei metri più indietro camminava l'uomo biondo con gli occhialetti rotondi, la cui descrizione gli era stata inculcata nel cervello. Vide la donna dai capelli neri avvicinarsi, pedalando lentamente sulla bicicletta; la notte prima aveva fatto tanto rumore da farlo diventare duro a un morto. Dio, quanto gli mancava la moglie! L'uomo biondo avvolto in un soprabito grigio e con una valigetta nera in mano si stava avvicinando all'incrocio con rue St. Fargeau. Mouse pedalò più velocemente cercando di arrivare in posizione. Il cuore gli batteva forte nel petto e una folata di vento quasi gli fece perdere l'equilibrio. Nella mano destra stringeva il pezzetto di carta. L'uomo biondo scese dal marciapiede e cominciò ad attraversare rue St. Fargeau. Che Dio mi aiuti! pensò Mouse con il volto teso per la paura. Un velotaxi lo oltrepassò veloce disturbandolo. La ruota davanti traballò violentemente e il tedesco per un terribile istante pensò che i raggi sarebbero saltati via. Poi l'uomo biondo arrivò quasi sul bordo del marciapiede opposto e fu allora che Mouse digrignò i
denti e sterzò bruscamente a destra. Si gettò in avanti mentre le ruote slittavano sul bordo del marciapiede e cadendo colpì con la spalla il braccio dell'uomo biondo. Il tedesco tese entrambe le mani, come se cercasse un punto di appoggio in aria. La mano destra andò veloce nelle pieghe del soprabito; sentì la fodera di lana e il bordo di una tasca. Aprì le mani. Poi si schiantò insieme alla bicicletta sul marciapiede e l'impatto gli tolse il fiato. La mano destra aveva il palmo sudato, ma era vuota. L'uomo biondo era andato avanti di tre passi. Si voltò, guardò lo straccione caduto nel canale di scolo e si fermò. «Sta bene?», chiese in francese. Il cuoco sorrise con aria stolida e fece un cenno di saluto con la mano. Quando il biondo si voltò di nuovo e continuò a camminare, Mouse vide una folata di vento alzare le pieghe del soprabito... e un pezzetto di carta uscirne e svolazzare via. Ansimò per l'orrore. La carta volteggiava come una farfalla; Mouse allungò una mano per prenderla, ma il foglietto lo superò turbinando, atterrò sul marciapiede e venne trasportato poco più avanti. Il tedesco cercò di nuovo di prenderlo, sudando freddo. Una scarpa lucida marrone scura gli salì sulle dita della mano e le schiacciò. Mouse alzò lo sguardo, con il sorriso stolido ancora stampato sul viso. L'uomo che torreggiava su di lui indossava un completo marrone e un cappello di feltro basso e morbido. Anche lui sorrideva, ma aveva il viso smunto e gli occhi freddi, e le labbra sottili non erano adatte a sorridere. Raccolse il pezzo di carta dal marciapiede e lo aprì. A meno di sei metri di distanza Gaby rallentò l'andatura e portò una mano alla Luger che aveva sotto il maglione. L'uomo con il completo marrone guardò la scritta sul pezzo di carta. Gaby fu sul punto di estrarre la Luger dalla cintura, consapevole del fatto che l'uomo della Gestapo con il berretto stava avanzando rapidamente verso il suo compagno e teneva il giornale con entrambe le mani. «Mi dia del denaro, la prego signore», disse Mouse nel suo francese migliore. La sua voce tremava. «Sporco bastardo». L'uomo con il vestito marrone accartocciò il pezzo di carta. «Ti darò un calcio nelle palle. Guarda dove vai con quel catorcio». Gettò la carta nel canale di scolo, scosse la testa rivolto al suo compagno ed entrambi continuarono a camminare dietro l'uomo biondo. Mouse sentì la nausea salirgli in gola. Gaby rimase sbalordita, tolse la mano dalla Luger e sterzò in rue St. Fargeau. Mouse raccolse con la mano sinistra il foglietto accartocciato dal canale
di scolo e l'aprì con le dita quasi paralizzate dalla paura. Sbatté le palpebre e lesse quello che c'era scritto in francese. Completo blu, manca il bottone centrale. Camicie bianche, un po' di amido. Camicie colorate, niente amido. Il colletto aggiuntivo... Era una lista per la lavanderia. Si rese conto che doveva trovarsi nella tasca interna del cappotto dell'uomo biondo e che ne era uscita quando le sue dita vi avevano infilato il biglietto. Rise... con un suono strozzato. Piegò la mano destra e capì che le dita non erano rotte, anche se due unghie stavano già diventando viola. Ce l'ho fatta! pensò e sentì le lacrime formarsi negli occhi. Per Dio, ce l'ho fatta! «In piedi. Sbrigati!», Michael era tornato indietro e si era fermato a pochi passi da Mouse. «Avanti, alzati!» Guardò lungo avenue Gambetta, osservando Adam e le sue guardie della Gestapo avvicinarsi a rue de Belleville e all'edificio nazista. «Ce l'ho fatta!», disse euforico Mouse. «Ce l'ho fatta davv...» «Sali sulla tua bicicletta e seguimi. Subito». Michael pedalò allontanandosi, diretto verso il punto di incontro: il cartello scarabocchiato che proclamava LA GERMANIA VITTORIOSA SU TUTTI I FRONTI. Mouse si alzò dal canale di scolo, salì sulla bicicletta con le ruote traballanti e lo seguì. Stava tremando... forse era un traditore e meritava di finire impiccato, ma l'immagine di casa gli spuntò nella mente come un fiore di primavera e improvvisamente si sentì davvero vittorioso. 7. All'Opéra era in programma La Tosca, la storia degli amanti sfortunati. L'edificio gigantesco sembrava ergersi davanti a Michael e Gaby come un monolite di pietra mentre si avvicinavano lungo avenue de l'Opéra a bordo di una malandata Citroen blu. Mouse era al volante e appariva decisamente più pulito, visto che quella sera si era fatto il bagno e la barba. Però aveva ancora gli occhi incavati e il viso profondamente segnato, e anche se si era impomatato i capelli all'indietro e indossava vestiti puliti - per gentile concessione di Camille - non c'era possibilità di scambiarlo per un vero gentiluomo. Michael indossava un completo grigio ed era seduto nel sedile posteriore accanto a Gaby, che aveva un vestito blu scuro comprato quel pomeriggio a boulevard de la Chapelle. Il colore era lo stesso dei suoi occhi e Michael pensò che fosse bella come tutte le donne che aveva conosciuto.
Il cielo si era schiarito e si vedevano le stelle. Nel delicato bagliore dei lampioni che si succedevano lungo la strada, l'Opéra si ergeva sfidando il tempo e le circostanze; la facciata di pietra sfumava dal grigio pallido al verde marino, con la grandiosità delle imponenti colonne, gli ornamenti e le incisioni complesse. Sotto il tetto a cupola, su cui si stagliavano statue di Pegaso a ciascuna estremità e all'apice un'enorme figura di Apollo che suonava la lira, era la musica a governare invece di Hitler. Macchine e carrozze si fermavano alla cavernosa entrata principale per far scendere i passeggeri. Michael disse: «Fermati qui». Mouse accostò la Citroen al marciapiede scalando le marce. «Sai a che ora venire a riprenderci». Guardò l'orologio da tasca e non poté fare a meno di pensare alla capsula che conteneva. «Sì», disse il cuoco. Camille aveva controllato con la biglietteria per determinare con esattezza a che ora sarebbe cominciato il terzo atto. Per quell'ora Mouse si sarebbe messo ad aspettare con la macchina davanti all'Opéra. Michael e Gaby avevano pensato che avrebbe potuto prendere la macchina e andare ovunque volesse; la donna si era molto agitata per questo, ma Gallatin era riuscito a calmarla. Le aveva detto che Mouse si sarebbe presentato puntualmente perché voleva andare a Berlino... e poi quello che aveva già fatto per loro bastava a farlo condannare a una bella sessione di tortura con la Gestapo. Quindi, tedesco o no, da quel momento era dalla loro parte. Del resto, se era davvero matto, non si poteva prevedere come e quando l'avrebbe mostrato. Michael uscì, girò intorno alla macchina, aprì la portiera a Gaby e disse all'autista: «Fatti trovare qui». Mouse annuì e si allontanò alla guida della macchina. Poi l'inglese offrì il braccio alla donna e insieme oltrepassarono un soldato tedesco a cavallo, sembrando una normale coppia francese uscita per una serata all'Opéra... solo che Michael portava sotto l'ascella sinistra una Luger infilata in una fondina che gli aveva dato Camille, e Gaby aveva un coltellino affilatissimo nella borsetta lucente. Mano nella mano attraversarono avenue de l'Opéra e giunsero all'edificio. Nell'enorme atrio, in cui alcune lampade gettavano un bagliore dorato sulle statue di Händel, Lully, Gluck e Rameau, l'inglese vide tra il pubblico numerosi ufficiali nazisti con le loro amiche. Gallatin guidò Gaby tra la folla su per dieci scalini di marmo verde svedese, fino al secondo atrio dove venivano venduti i biglietti. Comprarono due posti nel corridoio vicino al retro dell'edificio e conti-
nuarono ad avanzare. Michael non aveva mai visto un tale insieme di statue, colonne di marmo di tante tonalità di colore, specchi con il bordo dorato e lampadari; l'imponente scalinata - una costruzione elegante ed enorme con le balaustre di marmo - li portò in platea. Ovunque Gallatin guardasse c'erano altre scale, corridoi, statue e lampadari. Sperò che Gaby sapesse dove andare, perché in quell'abbondanza di arte persino il suo senso della direzione da lupo era sopraffatto. Alla fine entrarono nell'auditorium - un'altra meraviglia per spazio e proporzioni, che si stava rapidamente riempiendo - e un inserviente anziano li accompagnò ai loro posti. Il contrasto degli odori e dei profumi colpì il naso di Michael. Notò che nell'enorme auditorium faceva freddo: a causa del razionamento di combustibile le caldaie dell'edificio erano state spente. Gaby si guardò intorno con aria distratta, notando i punti in cui una decina di ufficiali tedeschi erano seduti con le loro compagne. Il suo sguardo salì alla terza delle quattro file di palchi posizionati uno sull'altro e collegati da balconate dorate e colonne scanalate come strati di una torta enorme e vistosa. Trovò il palco di Adam. Era vuoto. Michael l'aveva già notato. «Pazienza», disse a voce bassa. Se Adam aveva trovato il biglietto, sarebbe venuto. Altrimenti... no. Prese la mano di Gaby e la strinse. «Sei bellissima», le disse. Lei scrollò le spalle, a disagio nel ricevere un complimento. «Non mi vesto spesso così». «Nemmeno io». Indossava una camicia bianca ben stirata e un completo grigio, una cravatta discreta a strisce grigie e scarlatte e un fermacravatta di perle che gli aveva dato Camille «perché portasse fortuna». Alzò lo sguardo verso la quarta fila di palchi: Adam non era ancora arrivato e l'orchestra stava accordando gli strumenti. Pensò che erano molte le cose che potevano essere andate storte. La Gestapo poteva aver perquisito il cappotto di Adam quando era arrivato al lavoro. Il biglietto poteva essergli caduto dalla tasca. Adam poteva aver semplicemente appeso il soprabito senza guardare nella tasca. No, no, si disse. Aspetta e osserva. Le luci si abbassarono, lo spesso sipario rosso si aprì e il racconto di Floria Tosca musicato da Puccini cominciò. Mentre Tosca disperata alla fine del secondo atto uccideva con un coltello il suo brutale aguzzino, Michael sentì la pressione della morsa di Gaby sulla mano. Guardò di nuovo verso il terzo palco. Adam non c'era. Maledizione! pensò. Be', l'agente sapeva di essere sorvegliato... forse aveva scelto
per un qualunque motivo di non presentarsi quella sera. Cominciò il terzo atto, una scena in una prigione. I minuti scorrevano veloci... Gaby lanciò un rapido sguardo al palco di Adam... e Michael sentì le dita della donna serrargli la mano. Capì. Adam era arrivato. «C'è un uomo in piedi nel palco», sussurrò la ragazza avvicinando il volto a quello di lui. Gallatin sentì il delizioso profumo di sidro dei suoi capelli. «Non riesco a distinguerne l'aspetto». Michael aspettò un altro attimo. Poi alzò lo sguardo e vide la figura seduta. I riflettori erano abbassati quasi al minimo mentre Tosca faceva visita in prigione al suo amante Cavaradossi, e la loro luce fioca faceva brillare le lenti di un paio di occhiali. «Vado di sopra», sussurrò Gallatin. «Aspetta qui». «No. Vengo con te». «Shhh!», sibilò l'uomo dietro di loro. «Aspetta qui», ripeté Michael. «Torno il prima possibile. Se succede qualcosa, voglio che tu esca». Prima che Gaby potesse protestare di nuovo, Gallatin si sporse in avanti e le baciò le labbra. I due vennero attraversati da una scarica elettrica e sentirono un formicolio che li unì per qualche secondo come se fossero due cavi scoperti. Poi Michael si alzò, camminò deciso lungo il corridoio e lasciò l'auditorium. Gaby fissò il palcoscenico senza vedere né sentire nulla, perché tutta la sua attenzione era concentrata sul dramma che doveva ancora svolgersi. Gallatin salì una serie di ampie scalinate. Un giovane inserviente con indosso una giacca bianca, pantaloni neri e guanti bianchi si alzò in segno di rispetto alla terza fila di palchi. «Posso aiutarla?», chiese mentre Michael si avvicinava. «No, grazie. Mi devo vedere con un amico». Lo oltrepassò, trovò la porta di palissandro del palco numero sei e vi picchiettò delicatamente sopra. Aspettò. Un chiavistello venne fatto scivolare all'indietro. La porta si aprì sui cardini di ottone. Apparve l'uomo di nome Adam, con gli occhi spalancati per il terrore dietro gli occhiali. «Mi hanno seguito», disse con voce esile e tremante. «Sono ovunque». Gallatin entrò nel palco e chiuse la porta alle spalle. Tirò il chiavistello. «Non abbiamo molto tempo. Qual è il messaggio?» «Un momento. Un momento...» Adam alzò una mano pallida e dalle dita lunghe. «Come faccio a sapere... che non sei uno di loro? Come faccio a
sapere che non stai cercando di ingannarmi?» «Potrei dirti i nomi delle persone che conosci a Londra, se fosse di aiuto. Non penso che lo sia. Dovrai fidarti di me. Se non lo farai, lasciamo perdere e torno a casa attraversando la Manica». «Scusami. È solo che... non mi fido di nessuno. Nessuno». «Dovrai cominciare adesso», disse Michael. Adam si lasciò affondare nella poltrona con il cuscino rosso. Si sporse in avanti e si passò un mano tremante sul viso. Sembrava emaciato e sul punto di svenire. Sul palcoscenico Cavaradossi veniva scortato fuori dalla cella per affrontare il plotone di esecuzione. «Oh, Dio», sussurrò Adam. Sbatté le palpebre e i suoi occhiali riflessero la luce grigiastra. Alzò lo sguardo verso Michael e trasse un respiro profondo. «Theo von Frankewitz», cominciò. «Sai chi è?» «Un artista da marciapiede di Berlino». «Sì. È... un mio amico. Lo scorso febbraio... è stato chiamato per fare un lavoro speciale. Da un colonnello delle SS di nome Jerek Blok, che era il comandante del...» «Campo di concentramento di Falkenhausen, dal maggio al dicembre del 1943», lo interruppe Michael. «Ho letto il fascicolo di Blok». Quel poco che conteneva. Era stato Mallory a portarglielo e spiegava solo che Jerek Blok aveva quarantasette anni, era nato in una famiglia tedesca militare e aristocratica ed era un fanatico del partito nazista. Non c'erano fotografie. Ma Michael si sentì come un nervo scoperto: Blok era stato visto a Berlino con Harry Sandler. Che collegamento c'era tra loro, e cosa c'entrava il cacciatore in tutto questo? «Vai avanti». «Theo... è stato condotto con gli occhi bendati a una pista di atterraggio e poi è volato a ovest. Pensa che fosse quella la direzione, vista la sensazione che il sole gli aveva dato sul viso. Forse un artista ricorda queste cose... In ogni caso, Blok era con lui insieme ad altri uomini delle SS. Quando sono atterrati, Theo ha sentito l'odore del mare. È stato portato in un magazzino, dove l'hanno tenuto per più di due settimane a dipingere». «Dipingere?», Michael si alzò e si diresse verso il fondo del palco, posizionandosi in modo da non poter essere visto dall'auditorium. «Cosa ha dipinto?» «Fori di proiettili». Le mani di Adam erano bianche sui braccioli della poltrona. «Per più di due settimane ha dipinto fori di proiettili su sezioni di metallo, che facevano evidentemente parte di una struttura più grande... avevano ancora i chiodi. E qualcuno aveva già dipinto il metallo di un ver-
de oliva». Guardò rapidamente Michael, poi osservò di nuovo il palcoscenico. L'orchestra stava suonando una marcia funebre mentre Cavaradossi rifiutava di farsi bendare. «Hanno fatto dipingere a Theo anche dei pezzi di vetro. Volevano i fori dei proiettili in schemi ben precisi e anche delle linee che sembrassero crepe nel vetro. Blok non era rimasto soddisfatto alla fine del lavoro, così ha fatto dipingere di nuovo a Theo il vetro. Poi l'hanno riportato a Berlino in aereo, l'hanno pagato ed è finita lì». «D'accordo. Quindi il tuo amico ha dipinto del metallo e del vetro. Cosa significa?» «Non lo so, ma mi preoccupa». Si passò il dorso della mano sulla bocca. «I tedeschi sanno che presto ci sarà l'invasione. Perché perdono tempo a dipingere fori di proiettili su del metallo verde? E poi c'è un altro fatto: al magazzino si è presentato un uomo a cui Blok ha mostrato il lavoro che Theo stava facendo, chiamandolo dottor Hildebrand. Il nome ti dice qualcosa?» Michael scosse la testa. Sul palcoscenico i soldati del plotone d'esecuzione stavano caricando i moschetti. «Il padre di Hildebrand ha creato i gas chimici usati dai tedeschi durante la grande guerra», disse Adam. «Tale padre, tale figlio: Hildebrand possiede un'azienda di lavorazione di composti chimici ed è nel Reich il più fervente sostenitore di una guerra chimica e batteriologica. Se Hildebrand sta lavorando su qualcosa... potrebbe essere usato contro l'invasione». «Capisco». Michael si sentì stringere lo stomaco. Se durante l'invasione fossero state sganciate delle granate a gas sugli alleati, migliaia di soldati sarebbero morti. E in aggiunta a quella tragedia c'era il fatto evidente che, una volta respinta, l'invasione dell'Europa poteva essere rimandata di anni... il tempo sufficiente perché Hitler fortificasse il Vallo Atlantico e creasse una nuova generazione di armi. «Ma non capisco cosa c'entra Frankewitz». «Nemmeno io. Quando la Gestapo ha trovato la mia radio e l'ha distrutta, sono rimasto tagliato fuori da tutte le informazioni. Ma questo fatto deve essere approfondito. Altrimenti...» Lasciò in sospeso la frase, perché Michael aveva capito benissimo. «Theo ha sentito parlare Blok e Hildebrand per caso. Hanno menzionato due volte una frase: Eisen Faust». «Il pugno di ferro», tradusse Gallatin. Si sentì bussare alla porta del palco. Adam saltò sulla poltrona. Sul palcoscenico il plotone di esecuzione sollevava i fucili e l'orchestra eseguiva un'aria funebre mentre Cavaradossi si preparava a morire.
«Monsieur?» Era la voce dell'inserviente con la giacca bianca. «Un messaggio per lei». Michael sentì la tensione nella voce del giovane: non era solo. Capì quale fosse il messaggio... un invito della Gestapo a una lezione di tortura. «Alzati», disse ad Adam. L'uomo lo fece... e in quell'istante la porta di palissandro venne sfondata dalla spalla forte di un uomo, mentre sul palcoscenico i moschetti facevano fuoco. Cavaradossi si piegò sulle ginocchia. Il rumore delle armi aveva mascherato quello della porta che veniva frantumata. Due uomini con indosso i soprabiti di pelle nera della Gestapo si stavano facendo strada a forza nel palco. Quello davanti aveva in mano una pistola Mauser e fu contro di lui che Michael si scagliò. Prese la poltrona con il cuscino rosso e la fracassò sulla testa del tedesco. La sedia andò in pezzi e il viso dell'uomo diventò cereo mentre il sangue gli sgorgava dal naso rotto. Il tedesco barcollò, alzò la pistola e con un dito premette il grilletto. Il proiettile fischiò sopra la spalla di Michael, ma il rumore venne soffocato dal pianto del soprano Ninon Vallin che, nei panni di Tosca, cadeva sul cadavere di Cavaradossi. Gallatin allungò una mano, afferrò il polso del tedesco e il davanti del soprabito, fece una rapida torsione e sollevò l'uomo oltre le spalle. Fece un passo verso la balconata dorata e lo gettò nel vuoto insieme alla pistola. L'agente della Gestapo urlò più forte di quanto Tosca si fosse mai sognata, mentre precipitava per più di quindici metri fino al pavimento dell'auditorium. Per un attimo le due voci si fusero a formare una strana armonia, poi si sentirono altre urla che si diffusero fra gli spettatori come un contagio. L'orchestra smise di suonare con una serie di note stonate. Sul palcoscenico la coraggiosa Ninon Vallin cercò disperatamente di continuare la sua parte, ormai così vicina al drammatico finale. Ma Michael era deciso a far sì che quello non fosse il suo canto del cigno. Il secondo uomo infilò una mano nel cappotto, ma prima che potesse estrarre la pistola Gallatin gli diede un pugno in faccia, facendolo seguire da un colpo alla gola che gli frantumò la trachea. Sul punto di morire soffocato, il tedesco cadde all'indietro e si schiantò contro la parete. Ma sulla porta distrutta del palco apparve un'altra figura: un terzo uomo con un completo gessato e una Luger nella mano destra. Dietro di lui c'era un soldato con un fucile. Michael urlò ad Adam: «Afferrati alla mia schiena!» L'agente lo fece, mettendo le braccia sotto le spalle di Gallatin e serrando insieme le dita. Adam era leggero, non pesava più di 65 chili; Michael vide
gli occhi del terzo uomo spalancarsi quando si rese conto di quello che stava per succedere... e la Luger si alzò per sparare. Gallatin balzò verso destra e saltò oltre la balconata con Adam aggrappato alla schiena. 8. Non aveva alcuna intenzione di seguire la discesa del primo agente della Gestapo sul pavimento dell'auditorium; le sue dita afferrarono gli ornamenti scanalati della colonna dorata che si ergeva accanto al palco di Adam e i muscoli delle sue spalle vennero messi a dura prova mentre si muoveva verso la fila di palchi più in alto. Un nuovo coro di urla e grida attraversò il pubblico. Persino Ninon Vallin urlò, anche se Michael non capì se di paura per la vita di un uomo o di rabbia perché qualcuno le aveva rubato il palcoscenico. Gallatin continuò a salire portando Adam con sé, afferrandosi a qualunque appiglio trovasse. Il cuore gli batteva forte e il sangue gli scorreva rapido nelle vene, ma il cervello era freddo e determinato: qualunque cosa riservasse il futuro, doveva essere decisa molto rapidamente. E così avvenne. Udì il sinistro crac! di un colpo di pistola... una Luger che aveva fatto fuoco. Sentì il corpo di Adam tremare e irrigidirsi. Le braccia dell'uomo, già serrate intorno a lui, in un istante diventarono dure come barre di ferro. Un liquido caldo scese lungo la nuca tra i capelli di Michael e giù per il collo, inzuppandogli la giacca del completo; si rese conto che il proiettile aveva staccato un'ampia parte del cranio di Adam e che i muscoli del cadavere si erano irrigiditi nell'improvvisa paralisi dovuta ai nervi recisi. Si inerpicò lungo la colonna con l'uomo morto sulla schiena e il sangue che colava sugli ornamenti. Era arrivato alla balconata del palco più alto quando un secondo proiettile ne scrostò una parte, formando una pioggia di pittura dorata a pochi centimetri dal suo gomito destro. «Su per le scale!», sentì urlare l'agente della Gestapo. «Sbrigatevi!» Il palco in cui Michael si trovava era libero. Passò qualche secondo a cercare di aprire le dita di Adam che erano serrate sul suo petto; ne spezzò due come se fossero rametti secchi, ma le altre resistettero. Non c'era il tempo di lottare contro la presa di un uomo morto. Attraversò barcollando la porta ed entrò nel corridoio con la moquette color cremisi, trovandosi di fronte altri corridoi e scalinate illuminati. «Da questa parte!», sentì un uo-
mo gridare alla sua sinistra. Si girò a destra e barcollò lungo un corridoio fiancheggiato da dipinti di scene di caccia medievali. Il cadavere gli pendeva sulla schiena e con la punta delle scarpe tracciava dei solchi sulla moquette. Gallatin si rese conto che dietro di loro c'era una scia di sangue. Si fermò per colpire ripetutamente il corpo, ma riuscì solo a bruciare energia preziosa, perché il cadavere gli rimase attaccato come un gemello siamese privo di vita. Risuonò il rumore di uno sparo. Una lampada tenuta da una statua di Diana esplose proprio sopra la testa di Michael. L'inglese vide che lo inseguivano due soldati, entrambi armati di fucile. Cercò di prendere la Luger ma non riuscì ad arrivarci a causa della presa del cadavere. Si voltò e corse in un altro corridoio che curvava verso sinistra. Le voci degli inseguitori si urlavano reciprocamente indicazioni: quei ringhi tedeschi sembravano latrati di segugi. Adesso i 65 chili del cadavere sembravano un peso enorme. Si costrinse ad avanzare, mentre il corpo senza vita di Adam lasciava macchie di sangue in quei corridoi che erano un inno alla bellezza. Aveva davanti una scalinata in salita sulle cui balaustre c'erano statue di cherubini con una lira in mano. Michael cominciò ad avanzare in quella direzione... e sentì l'odore acre del sudore di uno sconosciuto. Un soldato tedesco con una pistola in mano uscì da un passaggio ad arco ombreggiato sulla sua sinistra. «Mani in alto», disse, facendo un gesto perentorio con l'arma. Nell'attimo in cui la canna piegò leggermente verso l'alto, Michael diede un calcio a una rotula del soldato e sentì l'osso rompersi. La pistola fece fuoco e il proiettile finì nel soffitto. Il tedesco aveva il viso contorto dal dolore, barcollò contro il muro ma non lasciò cadere la pistola; cominciò a prendere la mira, e Gallatin gli balzò addosso mentre continuava a trascinarsi sulle spalle il cadavere di Adam. Afferrò il polso del soldato; la pistola fece fuoco di nuovo, ma il proiettile gli sfiorò la guancia e ruppe qualcosa all'altra estremità del corridoio. Il tedesco cercò di artigliare gli occhi del suo avversario con le dita piegate a uncino e urlò: «L'ho preso! Aiutatemi! L'ho preso!» Anche con un ginocchio rotto, il soldato era forte. Lottarono nel corridoio cercando di prendere entrambi la pistola. Il soldato colpì Michael alla mascella con un colpo che lo stordì e gli fece vedere doppio per qualche secondo, ma l'inglese continuò a serrare la mano che teneva la pistola. Gallatin sferrò un pugno che colpì il tedesco in bocca e gli fece finire due denti in gola, strozzando le sue grida di aiuto. Il soldato alzò un ginocchio
conficcandolo nello stomaco di Michael, che si sentì togliere il fiato mentre il peso del cadavere gli faceva perdere l'equilibrio. Cadde all'indietro, colpendo il muro con una forza che ruppe del tutto il cranio di Adam contro il marmo. Il soldato cercò di tenersi disperatamente in equilibrio su una gamba sola e alzò la Luger per far fuoco da distanza ravvicinata. Dietro il tedesco Gallatin vide un vortice blu scuro, come un tornado che si dispiegava. Un coltello brillò alla luce del lampadario e la lama affondò nella nuca del soldato. L'uomo si strozzò e barcollò, facendo cadere la pistola per afferrarsi la gola. Gaby cercò di sfilare il coltello, ma era entrato troppo in profondità e lo lasciò andare; il soldato emise un gemito terribile e si schiantò a terra a faccia avanti. Gaby sbatté le palpebre, sbalordita alla vista che gli si offriva: Michael aveva i capelli insanguinati e una guancia schizzata di materia grigia, e aggrappato alla schiena c'era un cadavere con la bocca aperta e una poltiglia al posto della tempia destra. Si sentì rivoltare lo stomaco. Raccolse la pistola con la mano insanguinata che aveva retto il coltello mentre Michael ritrovava l'equilibrio. «Geissen!», urlò un uomo dal fondo del corridoio. «Dove diavolo sei?» Gaby aiutò Gallatin a cercare di aprire le dita del cadavere, ma si sentiva il rumore di altri soldati che si avvicinavano. L'unica via libera era la scalinata. Iniziarono a salire, mentre le gambe di Gallatin cominciavano ad avere i crampi sotto il peso di Adam. I gradini piegarono portandoli a una porta chiusa con un paletto. Quando Gaby lo tirò e aprì, il vento notturno di Parigi li investì: avevano raggiunto il tetto dell'Opera. Le punte delle scarpe nere lucide di Adam raschiavano le pietre catramate mentre Michael seguiva la donna sull'enorme tetto dell'edificio. Gaby si guardò indietro e vide delle figure sbucare fuori dalla porta che avevano appena attraversato. Sapeva che dovevano esserci altre strade per scendere, ma quanto avrebbero impiegato i tedeschi a coprire tutte le uscite? Si affrettò, ma dovette aspettare Michael; le forze dell'uomo stavano diminuendo e la sua schiena cominciava a piegarsi. «Continua!», disse in tono secco Gallatin. «Non aspettarmi!» Lei lo attese, con il cuore che le batteva forte mentre osservava le sagome che li inseguivano. Quando Gallatin la raggiunse, la donna si voltò e ricominciò a correre. Si avvicinarono alla parte anteriore del tetto, con la città scintillante che si estendeva intorno a loro in tutte le direzioni. L'enorme statua di Apollo si ergeva dall'apice del tetto e i piccioni si librarono in volo al loro avvicinarsi. Michael sentì le gambe indebolirsi: stava rallen-
tando Gaby. Si fermò sostenendo se stesso e il peso di Adam contro la base di Apollo. «Continua a camminare», disse alla donna che si era fermata di nuovo. «Trova la strada per scendere». «Non ti lascio», disse lei, fissandolo con gli occhi color zaffiro. «Non fare la stupida! Questo non è né il momento né il luogo per discutere». Sentì gli uomini urlare tra loro mentre si avvicinavano. Infilò una mano nel cappotto... e toccò non la Luger, che era bloccata nella fondina, ma l'orologio da tasca che conteneva il veleno. Lo afferrò con le dita ma non riuscì a decidersi a prenderlo. «Vai!», le disse. «Non me ne vado», disse Gaby. «Ti amo». «Non è vero. Ami il ricordo di un momento. Non sai niente di me... e non ti piacerebbe saperlo». Guardò le figure che si avvicinavano con cautela a circa trenta passi di distanza. Ancora non li avevano visti sotto la statua. L'orologio da tasca ticchettava e il tempo stava scadendo. «Non gettare via la tua vita», disse Michael. «Né per me né per nessun altro». La ragazza esitò; Michael vide la tensione sul suo viso. Gaby guardò i tedeschi in arrivo, poi di nuovo Gallatin. Forse amava davvero solo il ricordo di un momento... ma cos'è la vita se non il semplice ricordo di momenti? Michael estrasse l'orologio da tasca e lo aprì. La capsula di cianuro aspettava la sua scelta. «Hai fatto quello che potevi», disse alla donna. «Adesso vai». Poi si infilò la capsula in bocca. Gaby vide la gola dell'uomo contrarsi mentre inghiottiva la pillola. Michael fece una smorfia. «Quaggiù! Sono qui!», urlò uno degli uomini. Una pistola fece fuoco e il proiettile staccò delle schegge dalla coscia di Apollo. Michael Gallatin tremò e cadde in ginocchio, con il peso di Adam addosso. Alzò lo sguardo verso Gaby, con il volto scintillante di sudore. Lei non poteva sopportare di vederlo morire. Venne esploso un altro colpo che sibilò abbastanza vicino da bloccarle le gambe. Si voltò lasciandosi alle spalle Michael Gallatin e corse via, mentre le lacrime le scendevano copiose lungo le guance. A circa quindici metri dal punto in cui Michael stava morendo, la scarpa di Gaby colpì la maniglia di una botola. La aprì e guardò lungo una scala a pioli. Poi un altro sguardo verso Michael; gli inseguitori lo stavano circondando, erano i vincitori della caccia. La ragazza soffocò l'impulso di sparare, ma se l'avesse fatto l'avrebbero sicuramente ridotta a un colabrodo. Scese lungo la scala e la botola si chiuse sulla sua testa. Sei soldati tedeschi e tre uomini della Gestapo erano in piedi intorno a Michael. L'uomo che aveva fatto saltare in aria la testa di Adam sogghi-
gnava. «Adesso ti abbiamo preso, bastardo». Michael sputò la pillola che teneva in bocca. Il suo corpo tremava sotto il cadavere di Adam e i suoi nervi erano attraversati da un formicolio doloroso. L'agente della Gestapo allungò una mano per afferrarlo; Michael si arrese alla trasformazione. Fu come uscire da un riparo sicuro nel vortice di venti selvaggi... una scelta cosciente e difficile da invertire una volta fatta. Sentì le ossa emettere un rumore simile a un urlo primordiale mentre la colonna vertebrale si curvava; poi gli sembrò che un tuono gli deflagrasse nella testa, mentre il cranio e il viso cominciavano a cambiare forma. Tremò e gemette irrefrenabilmente. La mano dell'agente della Gestapo si bloccò a mezz'aria. Uno dei soldati rise. «Sta implorando pietà!», disse. «Alzati!» L'uomo della Gestapo indietreggiò. «Alzati, maiale!» Il gemito cambiò tono, perdendo il suo elemento umano e diventando bestiale. «Portate una luce!», urlò l'agente della Gestapo. Non sapeva cosa stesse succedendo all'uomo accovacciato davanti a lui, ma non si prese la briga di avvicinarsi oltre. «Qualcuno lo illumini con una tor...» Si sentì il rumore di vestiti che si strappavano e il suono crepitante di ossa che si rompevano. I soldati indietreggiarono; la faccia dell'uomo che aveva riso adesso mostrava un ghigno incrinato. Uno dei soldati estrasse una torcia elettrica e l'agente della Gestapo armeggiò per accenderla. Davanti a lui c'era qualcosa che respirava a fatica, arrancando sotto il cadavere rigido ai suoi piedi. Gli tremarono le mani e non riuscì ad azionare l'interruttore. «Che vada all'inferno!», urlò... poi l'interruttore si mosse e la luce si accese. Vide quello che aveva davanti e gli si bloccò il respiro. L'inferno aveva due luminosi occhi verdi e un corpo snello e muscoloso coperto di peli neri e striati di grigio. L'inferno aveva le zanne bianche e si muoveva a quattro zampe. La bestia si scosse violentemente, un movimento possente che spezzò le braccia del cadavere come se fossero fiammiferi, gettando il corpo di lato. Si liberò anche degli ultimi rimasugli della sua mascherata umana: un completo grigio coperto di sangue, una camicia bianca con la cravatta ancora annodata al colletto strappato, biancheria intima, calzini e scarpe. Tra i detriti c'era una fondina con una Luger dentro; la bestia possedeva armi più letali.
«Oh... mio...» L'agente della Gestapo non riuscì mai a invocare la sua divinità: Hitler era assente e Dio conosceva il significato della giustizia. La bestia balzò in avanti con le fauci spalancate e quando colpì il tedesco i suoi denti gli stavano già affondando nella gola, strappando via la carne e le arterie in una pioggia vermiglia di pezzi di carne. Tranne due soldati e uno degli altri agenti della Gestapo, tutti urlarono e scapparono più rapidamente che poterono. Un soldato tedesco corse nella direzione sbagliata... non verso la porta d'entrata ma verso la strada, finendo per schiantarsi. Il secondo uomo della Gestapo, un pazzo eroico, sollevò la sua Mauser per sparare contro la bestia mentre balzava verso di lui; lo sguardo verde e feroce degli occhi del lupo lo ipnotizzarono forse per mezzo secondo, un tempo troppo lungo. L'animale gli balzò addosso e con gli artigli gli ridusse il viso a brandelli; l'urlo soffocato dell'uomo risvegliò i due soldati dalla trance. Fuggirono anche loro, con il primo che cadde a terra facendo inciampare il secondo. Michael Gallatin si infuriò. Azzannò l'aria chiudendo di scatto le fauci. Dal muso gli scendeva del sangue: il suo profumo caldo aumentò la sfrenatezza. Una mente umana ragionava nel cranio del lupo e gli occhi vedevano non l'oscurità della notte ma un crepuscolo grigio in cui figure bordate di blu correvano in direzione della porta, cacciando urli simili allo squittio di ratti a cui viene data la caccia. Michael riusciva a sentire il battito frenetico dei loro cuori... una serie di tamburi militari che risuonavano a velocità pazzesca. L'odore del loro sudore aveva l'aroma di salsicce e schnapp. Saltò in avanti, con i muscoli e i tendini che si muovevano come eleganti ingranaggi di una macchina per uccidere, e attaccò il soldato che stava cercando di rimettersi faticosamente in piedi; guardò il viso del tedesco e in una frazione di secondo vide che era molto giovane, non più di diciassette anni. Un innocente corrotto da un fucile e da un libro intitolato Mein Kampf. Afferrò tra le fauci la mano sinistra del ragazzo e gli schiacciò le dita senza rompergli la pelle, eliminando la possibilità che venisse ulteriormente corrotto da un fucile. Poi, mentre il tedesco urlava e si dimenava, si girò e avanzò a salti sul tetto per inseguire gli altri. Uno dei soldati si fermò per fare fuoco con la pistola; il proiettile rimbalzò sulle pietre alla sinistra di Michael ma non lo rallentò. Mentre l'uomo si girava per fuggire, Gallatin saltò finendogli sulla schiena e gettandolo di lato come uno spaventapasseri. Poi il lupo atterrò agilmente e continuò ad avanzare come una macchia indistinta. Vide gli altri procedere velocissimi verso la porta che conduceva giù alla scalinata: dopo qualche
secondo avrebbero chiuso il chiavistello. L'ultimo uomo la stava attraversando... la porta si stava già chiudendo e i tedeschi urlavano cercando di tirarlo dentro. Michael abbassò il muso e si precipitò in avanti. Balzò inclinando il corpo a mezz'aria, poi si schiantò contro la porta che si aprì facendo precipitare i tedeschi dalla scalinata in un groviglio di braccia e gambe. Il lupo atterrò in mezzo a loro, artigliando e lacerando febbrilmente e indiscriminatamente; poi se li lasciò alle spalle, sanguinanti e con le ossa rotte, mentre scendeva di corsa i gradini e attraversava i corridoi ancora segnati dai solchi della punta delle scarpe di Adam. Quando scese l'enorme scalinata che partiva dall'auditorium principale incontrò la folla che si muoveva confusamente e urlava chiedendo il rimborso del biglietto. Balzò giù per le scale e le grida cessarono... tuttavia il silenzio non durò a lungo. Una nuova ondata di urla finì contro le pareti di marmo dell'Opéra, e uomini e donne vestiti elegantemente saltarono dalle balaustre come ufficiali dai lati di una nave da guerra colpita dai siluri. Michael completò con un balzo gli ultimi sei scalini, slittando con le zampe sul marmo verde; un aristocratico con la barba e un bastone d'avorio impallidì e barcollò all'indietro, mentre una macchia umida gli si allargava sul davanti dei pantaloni. Gallatin corse, con la potenza e l'eccitazione che gli cantavano nel sangue. Il suo cuore pompava a un ritmo regolare, i polmoni urlavano e i tendini agivano come molle di ferro. Azzannò a destra e a manca, facendo indietreggiare timoroso chi era troppo sconcertato per muoversi. Poi sfrecciò lungo l'ultimo atrio, si lasciò alle spalle un coro di urla e finì in strada. Corse sotto il ventre del cavallo di una carrozza, che si impennò agitando furiosamente le zampe anteriori. Michael si guardò alle spalle: alcuni l'avevano inseguito, ma si dispersero in fretta di fronte agli zoccoli che il cavallo in preda al panico continuava a picchiare per terra. Si sentì un nuovo stridio: freni consumati e pneumatici che mordevano le pietre. Gallatin guardò davanti a sé e vide due luci avanzare rapidamente verso di lui. Senza un attimo di esitazione balzò sul parafango anteriore e sul cofano della macchina. Ebbe un istante per vedere due volti scioccati dietro il parabrezza, poi si arrampicò sul tetto del veicolo, scese dall'altro lato e corse via lungo avenue de l'Opéra. «Mio Dio!», ansimò Mouse mentre la Citroen tremava e si fermava. Guardò verso Gaby. «Che cos'era?» «Non lo so». La ragazza era stordita e le sembrava di avere la mente piena di ingranaggi arrugginiti. Vide uscire dall'Opéra alcune persone, tra
cui numerosi ufficiali tedeschi, e disse: «Vai!» Mouse premette a fondo l'acceleratore, invertì bruscamente la marcia e si allontanò dall'edificio, lasciando un ritorno di fiamma e uno sbuffo di fumo blu come ultimo saluto. 9. Erano passate le due del mattino quando Camille sentì bussare alla porta. Si drizzò a sedere nel letto, immediatamente vigile, mise una mano sotto il cuscino e impugnò la Walther. Tese l'orecchio per qualche istante... sentì di nuovo bussare, con maggiore insistenza. Ragionò che non poteva essere la Gestapo: i tedeschi usavano le asce, non le nocche. Ma portò la pistola con sé mentre accendeva una lampada a olio e andava verso la porta con indosso la lunga camicia da notte bianca. Quasi sbatté contro Mouse, che era in piedi nel corridoio con gli occhi spalancati per la paura. La donna si portò un dito alle labbra quando vide che l'uomo stava per parlare, poi lo superò e andò alla porta. Che pasticcio maledetto! pensò furiosa. Era riuscita a stento a far addormentare da venti minuti la ragazza distrutta dal dolore, quel pazzo di inglese era riuscito a farsi ammazzare insieme ad Adam, e adesso era incastrata con un nazista pazzo! Soltanto un miracolo poteva risolvere la situazione, e Giovanna d'Arco era ormai ridotta in polvere. «Chi è?», chiese Camille cercando di sembrare assonnata. Il cuore le batteva furiosamente e con un dito stringeva il grilletto. «Occhi Verdi», disse l'uomo dall'altra parte. Nessuna mano in tutta Parigi si era mai mossa più rapidamente per aprire una porta. Michael era in piedi con gli occhi incavati e aveva bisogno di una bella rasatura. Indossava un paio di pantaloni marroni di velluto a coste di due taglie più piccoli e una camicia bianca adatta a un uomo grasso. Portava ai piedi dei calzini blu scuri ma non aveva scarpe. Entrò nell'appartamento, superando Camille che rimase a bocca aperta. Mouse emise un rumore strozzato. Gallatin chiuse piano la porta dietro di sé e girò la chiave. «Missione compiuta», disse. «Oh», esclamò qualcuno con un filo di voce. Gaby era in piedi sulla porta della camera da letto, con il volto pallido e gli occhi cerchiati di rosso. Indossava ancora il vestito blu, ormai sghimbescio e spiegazzato. «Tu... sei morto. Ti ho visto... prendere la pillola».
«Non ha funzionato», disse Michael oltrepassandoli. Aveva i muscoli doloranti e allungati, e la testa gli pulsava facendogli provare un dolore sordo: erano tutte conseguenze della trasformazione. Si diresse verso la cucina, prese una terrina piena d'acqua e se la gettò in faccia, poi prese una mela e la sgranocchiò. Camille, Gaby e Mouse lo seguirono come tre ombre. «Ho avuto l'informazione», disse mentre con i denti riduceva la mela al torsolo; gli servì anche per pulire i denti e togliere il sangue incrostato che era rimasto. «Ma non è bastato». Guardò Camille con gli occhi verdi che brillavano al bagliore della lampada. «Ho promesso a Mouse che l'avrei portato a Berlino. E anch'io ho i miei motivi per andarci. Ci aiuterai?» «La ragazza ha detto di averti visto circondato dai nazisti», gli riferì la donna anziana. «Se la pillola di cianuro non ha funzionato, come hai fatto a fuggire?» Aveva socchiuso gli occhi: era impossibile che quell'uomo fosse davanti a lei. Impossibile! Michael la fissò senza battere ciglio. «Sono stato più veloce di loro». Camille fu sul punto di parlare di nuovo, ma non sapeva bene cosa dire. Dov'erano finiti i vestiti con cui era uscito da quell'appartamento? Guardò i pantaloni e la camicia rubati. «Ho avuto bisogno di cambiarmi», disse Gallatin con voce calma e tranquilla. «I tedeschi mi stavano inseguendo. Ho preso dei vestiti appesi a una corda per stendere il bucato». «Io non...» La donna anziana guardò i piedi senza scarpe dell'inglese. Michael finì la mela, buttò il torsolo nel secchio della spazzatura e allungò una mano per prenderne un'altra. «Non capisco». Gaby si limitò a osservarlo, ancora con i sensi scossi. Mouse disse: «Ehi! L'abbiamo sentito alla radio. Hanno detto che un cane è finito dentro l'Opéra e ha scatenato l'inferno! Anche noi l'abbiamo visto! Proprio sulla nostra macchina! Vero?», pungolò Gaby. «Sì», rispose la ragazza. «È così». «L'informazione che ho avuto stasera», disse Michael a Camille, «dev'essere approfondita. È vitale arrivare a Berlino il prima possibile. Tu puoi aiutarci programmando l'itinerario». «È... un preavviso molto breve. Non sono sicura di poter...» «Puoi», disse Gallatin. «Ci serviranno dei vestiti nuovi e documenti d'identità, se riesci ad averli. E dovremo fare in modo che Echo si incontri con me a Berlino». «Non ho l'autorità per...» «Te la sto dando io. Mouse e io andremo a Berlino il prima possibile. Controlla con chiunque tu voglia. Fai tutto quello che dev'essere fatto. Ma
facci arrivare lì. Capito?» Fece un leggero sorriso, mostrando i denti. Quel sorriso gelò Camille. «Sì», disse, «ho capito». «Un attimo. E io?» Gaby finalmente si scrollò di dosso lo shock. Avanzò e toccò la spalla di Michael per assicurarsi che l'uomo fosse reale. Lo era. La mano della ragazza gli afferrò il braccio. «Vengo a Berlino con te». Gallatin guardò quegli occhi meravigliosi e il suo sorriso si addolcì. «No», disse in tono gentile. «Tu andrai a ovest e tornerai nel luogo in cui sai come fare il tuo lavoro e lo fai anche maledettamente bene». Gaby fu sul punto di protestare, ma Michael le mise un dito sulle labbra. «Hai fatto del tuo meglio per me. Ma non sopravviveresti a est di Parigi, e io non posso essere il tuo custode». Si rese conto che sotto l'unghia del dito premuto contro la bocca della ragazza c'era del sangue incrostato, così lo tolse rapidamente. «L'unico motivo per cui porto lui con me è perché ho fatto un patto». «Sì, l'hai fatto!», disse con voce acuta Mouse. «E lo onorerò. Ma lavoro meglio da solo. Capisci?», chiese a Gaby. Certo che non capiva. Non ancora. Ma l'avrebbe capito con il tempo, quando a guerra finita sarebbe stata più grande, con dei figli e una vigna in cui un tempo i carri armati tedeschi distruggevano la terra. E sarebbe stata felice che Michael Gallatin le avesse dato un futuro. «Quando potremo partire?» Michael rivolse la sua attenzione a Camille, il cui cervello stava già lavorando febbrilmente sulle possibili strade per andare da Parigi al cuore malato del Reich. «Fra una settimana. Non posso riuscire a farvi uscire prima». «Quattro giorni», le disse, poi aspettò finché la donna sospirò e annuì. A casa! pensò Mouse stordito per l'eccitazione. Vado a casa! È il pasticcio peggiore in cui mi sia mai trovata, pensò Camille. Gaby era divisa: bramava l'uomo che aveva davanti - tornato miracolosamente dalla morte - ma amava di più il suo paese. La mente di Michael venne attraversata da due pensieri: Berlino e una frase, una chiave per risolvere un mistero... Il pugno di ferro. Nella camera da letto le candele bruciavano e Gaby giaceva sul materasso di piume d'oca. Michael si chinò su di lei e le baciò le labbra. Si unirono per un momento con un calore umido, poi l'uomo scelse la branda e si adagiò per riflettere sul futuro. Gaby allungò una mano per cercare quella di lui, e Michael la strinse. La notte continuò e l'alba arrivò con un fuoco cremisi.
Il berserker 1. La mia mano! pensò Mikhail in preda al panico, alzandosi a sedere sul pagliericcio. Cosa succede alla mia mano? Nell'oscurità dell'interno del palazzo bianco sentiva la mano destra pulsare e bruciare, come se nelle vene gli scorresse fuoco liquido invece del sangue. Il dolore che l'aveva svegliato crebbe, risalendo dal braccio alla spalla. Le sue dita si piegavano e contorcevano, e Mikhail serrò i denti per trattenere un grido. Si afferrò il polso, mentre le dita si aprivano e chiudevano per gli spasmi: udì piccoli scoppiettii e a ciascuno corrispose una nuova fitta di dolore. Non osava gridare perché gli altri l'avrebbero deriso. Il suo viso cominciava a sudare. Dopo qualche altro terribile secondo la mano diventò deforme e rattrappita, una cosa nera e mostruosa all'estremità del polso bianco e dolorante. Desiderava urlare, ma dalla gola gli uscì solo un gemito. Dalla carne spuntarono mucchi di peli neri, che si avvolsero intorno al polso e all'avambraccio come nastri lucenti. Le dita si ritrassero nelle articolazioni e le giunture scricchiolarono cambiando forma. Mikhail ansimava, sul punto di svenire: la mano era coperta di peli neri e là dove prima si trovavano le dita ora c'erano artigli curvi e morbidi cuscinetti rosei. L'ondata di peli neri risaliva lungo l'avambraccio sfiorando il gomito; Mikhail capì che nell'istante successivo doveva alzarsi e correre urlando da Renati. Ma l'istante passò e lui non si mosse. I peli si incresparono e iniziarono a ritrarsi nella carne pungendolo come tanti aghi, mentre le dita si allungavano scricchiolando nuovamente. Gli artigli ricurvi rientrarono nella pelle, lasciando le vestigia di unghie umane. La mano tornò com'era, pallida come la luna e con le dita penzolanti come strani pezzi di carne. Il dolore diminuì, poi scomparve. Il tutto era durato forse quindici secondi. Mikhail trasse un profondo respiro, quasi singhiozzando. «È la trasformazione», disse Wiktor accovacciato a circa due metri sulla sinistra del ragazzo. «Sta iniziando». Sulle pietre accanto a lui c'erano due grosse lepri sanguinanti. Mikhail sobbalzò per la sorpresa. La voce di Wiktor svegliò immediatamente Nikita, Franco e Alekza, che erano raggomitolati lì vicino. Pauli, ancora stordita per la morte di Belyi, si mosse sul pagliericcio e aprì gli occhi. Alle spalle di Wiktor c'era Renati, che stava sorvegliando fedelmen-
te il ragazzino da tre giorni in sua vece, ovvero da quando era partito in caccia di qualsiasi cosa avesse ucciso il fratello di Pauli. Wiktor si alzò in piedi, regale nella sua tunica incrostata di neve, le rughe e le pieghe sul volto barbuto lucide di fiocchi ormai sciolti. Il fuoco si era quasi spento e stava consumando gli ultimi pezzi di pino. «Mentre voi dormite», disse il vecchio agli altri del gruppo, «la morte si aggira nella foresta». Wiktor camminò in cerchio nella stanza, con il fiato che produceva sbuffi bianchi nell'aria gelida. Sul sangue delle lepri si stava già formando la brina. «È un berserker», disse. «Un cosa?», chiese Franco alzandosi in piedi e lasciando con riluttanza il calore gravido di Alekza. «Un berserker», ripeté Wiktor. «Un lupo che uccide per il piacere di uccidere. È stato lui a sbranare Belyi». Lanciò a Pauli un'occhiata con gli occhi color ambra: la ragazza era ancora stordita dal dolore e inutile in quella circostanza. «Un lupo che uccide per il piacere di uccidere», ripeté. «Ho trovato le sue tracce a circa tre chilometri a nord di qui. È un grosso bastardo che pesa circa ottanta chili. Si dirigeva verso nord a passo regolare, perciò l'ho seguito». Wiktor si inginocchiò accanto al piccolissimo fuoco e si scaldò le mani. Il volto si colorò di una tinta scarlatta. «È intelligente. È riuscito in qualche modo a individuare il mio odore, anche se ero stato attento a rimanere sottovento. Non mi ha permesso di scovare la sua tana; mi ha invece condotto in una palude, dove sono quasi caduto in un punto in cui aveva incrinato il ghiaccio perché si spaccasse sotto il mio peso». Fece un debole sorriso osservando il fuoco. «Se non avessi sentito l'odore della sua urina sul ghiaccio, adesso sarei morto. So che ha il manto rosso: ho trovato dei peli impigliati su dei rovi. Non sono riuscito ad avvicinarmi di più». Si sfregò le mani, massaggiandosi le nocche escoriate, e si alzò. «Il suo terreno di caccia si sta impoverendo. Vuole il nostro. Sa che dovrà ucciderci per ottenerlo». Guardò tutti i membri del branco. «Da adesso in poi, nessuno uscirà da solo. Nemmeno per prendere una manciata di neve. Andremo a caccia in coppie e ci assicureremo di non perderci mai di vista. Capito?» Attese che Nikita, Renati, Franco e Alekza annuissero. Pauli era ancora stordita, con i lunghi capelli castani pieni di pezzetti di paglia. Wiktor guardò Mikhail. «Capito?», chiese di nuovo. «Sì, signore», rispose subito il ragazzino. Il tempo passò, un sogno di giorni e notti. Mentre il ventre di Alekza si gonfiava, Wiktor insegnava a Mikhail servendosi dei libri polverosi della stanza sotterranea. Il ragazzo non aveva difficoltà con il latino e il tedesco,
ma l'inglese gli restava in gola... era davvero una lingua estranea. «Scandisci!», tuonò il vecchio. «C'è un "ing"! Dillo!» L'inglese era una giungla di rovi, ma piano piano Mikhail iniziò a farsi largo. Un giorno Wiktor aprì un enorme manoscritto illustrato scritto in un inglese che sembrava fatto di intagli decorati a voluta. «Ascolta» disse, poi iniziò a leggere: Mi sento come un profeta ispirato e nel trarre il mio ultimo respiro, formulo su di lui questo presagio: la sua sfrenata, furiosa deboscia è una fiammata che non può durare; perché i fuochi violenti divorano se stessi in poco tempo; le pioggerelle durano di più dei grossi rumorosi temporali; cavallo cui sia dato troppo sprone è presto stanco; cibo trangugiato con ingordigia strozza chi lo mangia Alzò lo sguardo. «Sai chi l'ha scritto?» Mikhail scosse la testa e Wiktor gli disse il nome. «Ora ripetilo», gli ordinò. «Shak... Shaka... Shakaspir». «Shakespeare!», pronunciò chiaramente il vecchio. Lesse qualche altra riga, con voce piena di rispetto: Questa felice nostra stirpe d'uomini, questo piccolo mondo, questa gemma incastonata nell'argenteo mare che la protegge come un alto vallo o il profondo fossato d'un castello dall'invidia di terre men felici; quest'angolo di mondo benedetto, questo nostro paese, questo regno, quest'Inghilterra. Guardò Mikhail in volto. «Questo è un paese in cui non giustiziano gli insegnanti», disse. «Almeno non ancora. Ho sempre desiderato andare in Inghilterra: gli uomini lì possono vivere liberi». I suoi occhi brillavano di
luci lontane. «In Inghilterra non ti bruciano i libri, né ti uccidono perché ti interessano». Si riprese bruscamente. «Be', io non la vedrò mai. Ma tu forse sì. Se mai partirai da qui, vai in Inghilterra. Scoprirai se è davvero una terra tanto felice. D'accordo?» «Sì, signore», rispose Mikhail senza comprendere bene cosa aveva acconsentito a fare. Dopo che l'ombra grigia di un'ultima tempesta di neve aveva attraversato la foresta, in Russia arrivò la primavera: prima un torrente di pioggia, poi un fuoco verde. I sogni di Mikhail diventarono bizzarri: correva a quattro zampe, lanciato in un regno buio. E si svegliava tremante e coperto di sudore. A volte vedeva di sfuggita dei peli neri diffondersi sulle braccia, sul petto e sulle gambe. Le ossa gli facevano male, come se fossero state spezzate e ricomposte. Quando sentiva i magnifici richiami di Wiktor, Nikita e Renati impegnati nella caccia, gli si stringeva la gola e sentiva una fitta al cuore. Era la trasformazione: lentamente ma inesorabilmente stava prendendo il sopravvento su di lui. Una notte all'inizio di maggio Alekza si contorse e urlò, mentre Pauli e Nikita la tenevano ferma davanti al fuoco che crepitava e le mani insanguinate di Renati facevano nascere due bambini. Mikhail li vide, prima che Renati mormorasse qualcosa a Wiktor e avvolgesse i corpicini in alcuni stracci: una delle forme immobili, piccola e umana, non aveva il braccio e la gamba sinistri, ed era coperta di morsi. La seconda, strangolata da un cordone grigio, aveva zanne e artigli. Renati avvolse i corpicini negli stracci prima che Franco o Alekza potessero vederli. La madre sollevò la testa, il volto madido di sudore e sussurrò: «Sono maschi? Sono maschi?» Mikhail si allontanò prima che Renati le rispondesse. Il lamento di Alekza lo raggiunse nel corridoio, dove il ragazzo andò quasi a sbattere contro Franco: l'uomo lo spinse da parte bruscamente per precipitarsi nella stanza. Al levar del sole portarono i neonati avvolti negli stracci in un luogo a mezzo chilometro di distanza a sud del palazzo bianco: il Giardino, rispose Renati quando Mikhail le chiese come si chiamasse. Aggiunse che il Giardino era il posto dove riposavano tutti i piccoli. Era un punto circondato da alte betulle e sul terreno soffice coperto di foglie c'erano alcune pietre disposte a segnalare i vari corpi. Franco e Alekza si inginocchiarono e insieme iniziarono a scavare le fosse con le mani, mentre Wiktor teneva in mano i cadaverini. Inizialmente Mikhail pensò che fosse una cosa crudele, perché la ragazza singhiozzava e le lacrime le scorrevano sul viso mentre scavava, ma vide che pochi istanti dopo aveva
smesso di piangere e si era messa a lavorare con più impegno. Il ragazzo si rese conto che era il modo in cui il branco seppelliva i propri morti: le lacrime lasciavano posto all'azione e le dita scavavano con lena il terreno. A Franco e Alekza venne permesso di arrivare alla profondità che desideravano, poi Wiktor mise i corpi nelle fosse che vennero di nuovo ricoperte di terra e foglie. Mikhail guardò i piccoli riquadri di pietra che lo circondavano. In quella sezione del Giardino c'erano solo bambini: poco più in là, nell'ombra più fitta, c'erano dei quadrati più larghi. Sapeva che Andrei giaceva lì, insieme agli altri componenti del branco morti prima che Mikhail venisse morso. Vide quanti bambini erano deceduti: più di trenta. Capì che il branco tentava di avere dei piccoli, ma che morivano tutti. Sarebbe mai esistito un neonato in parte umano e in parte lupo? si chiese mentre la calda brezza agitava le fronde. Non riteneva possibile che il corpo di un bambino potesse sopportare il dolore: per sopravvivere a quel tormento, avrebbe dovuto essere un'anima molto forte. Franco e Alekza trovarono alcune pietre e le misero intorno alle tombe. Wiktor non parlò, né a loro né a Dio; quando il lavoro fu terminato, si girò e si allontanò, e i suoi sandali scricchiolarono nel sottobosco. Mikhail vide Alekza allungare una mano per stringere quella di Franco, che però si ritrasse bruscamente e si allontanò senza di lei. La ragazza rimase lì per un istante a guardarlo, mentre i raggi del sole le facevano brillare i lunghi capelli dorati. Mikhail vide che le tremavano le labbra e per istante pensò che sarebbe scoppiata di nuovo a piangere. Ma poi la ragazza raddrizzò le spalle, con gli occhi stretti in uno sguardo di freddo disprezzo. Il ragazzo capì che non c'era amore tra lei e Franco: insieme ai bambini era stato sepolto anche l'affetto. O forse Franco adesso non aveva più una buona opinione di lei. La osservò, e la ragazza sembrò invecchiare davanti ai suoi occhi. Poi lei girò la testa, fissando su di lui lo sguardo azzurro ghiaccio. Mikhail la guardò restando immobile. Alekza disse: «Avrò un maschietto. Ci riuscirò». «Il tuo corpo è stanco», la ammonì Renati da dietro le spalle di Mikhail, il quale si rese conto che lo sguardo della ragazza era posato sulla donna più anziana. «Aspetta un anno». «Avrò un maschietto», ripeté Alekza con decisione. Il suo sguardo si posò su Mikhail e vi rimase. Il ragazzino si sentì tremare nel suo intimo. Poi improvvisamente la ragazza si girò e si allontanò dal Giardino, seguendo Nikita e Pauli.
Renati rimase accanto alle due tombe nuove. Scosse la testa. «Piccoli», disse piano. «Oh, piccoli. Spero che troverete fratelli migliori in cielo». Guardò Mikhail. «Mi odi?», gli chiese. «Odiarti?» La domanda l'aveva scioccato. «No». «Ti capirei se mi odiassi», disse la donna. «Dopotutto, sono stata io a portarti in questa vita. Io ho odiato colei che mi ha morso. Giace laggiù, proprio al limitare». Renati indicò con la testa un punto nell'ombra. «Ero sposata a un calzolaio. Ci stavamo recando al matrimonio di mia sorella. Dissi a Tiomki che aveva svoltato nel punto sbagliato, ma lui mi diede forse retta? Ovviamente no». Indicò con un cenno un quadrato di pietre più grande. «Tiomki è morto durante la trasformazione. E successo... oh, dodici primavere fa, credo. Non era comunque un uomo robusto, sarebbe stato un pessimo lupo. Ma lo amavo». Sorrise, ma quel sorriso svanì subito. «Tutte queste tombe hanno la loro storia, ma alcune di esse risalgono addirittura a prima del tempo di Wiktor. Quindi immagino che rimarranno misteri silenziosi». «Da quanto tempo... il branco si trova qui?», chiese Mikhail. «Oh, non lo so. Wiktor dice che il vecchio che morì l'anno seguente al mio arrivo si trovava qui da più di vent'anni, e che costui sapeva di altri che risalivano a oltre vent'anni prima. Chi lo sa?», rispose stringendosi nelle spalle. «È mai nato qualcuno qui? Qualcuno che è sopravvissuto?» «Wiktor dice che ha sentito parlare di sette o otto individui che sono nati e sopravvissuti. Ovviamente sono tutti morti nel corso degli anni. Ma la maggior parte dei bambini nascono morti o muoiono entro poche settimane. Pauli ha smesso di tentare. E anch'io. Alekza è ancora abbastanza giovane da essere ostinata, e ha sepolto talmente tanti bambini che ormai il suo cuore deve sembrare una di queste pietre. Be', mi fa pena». Renati guardò intorno nel Giardino e osservò le imponenti betulle attraverso cui filtravano i raggi del sole. «So quale sarà la tua prossima domanda», disse, prima che Mikhail potesse farla. «La risposta è no. Nessuno del branco ha mai lasciato questa foresta. È la nostra casa e lo sarà sempre». Mikhail, che indossava ancora i brandelli del vestito dell'anno precedente, annuì. Il mondo che conosceva prima, il mondo umano, gli sembrava già un ricordo vago e distante. Sentiva gli uccelli cantare sugli alberi e ne osservò alcuni svolazzare di ramo in ramo. Erano bellissimi e si chiese se fossero buoni da mangiare. «Andiamo, torniamo dentro». La cerimonia, se così si poteva chiamare,
era finita. Renati si avviò verso il palazzo bianco e il ragazzo la seguì. Non avevano fatto molta strada quando udì un fischio acuto e lontano. Forse a un chilometro e mezzo a sudest, pensò. Si fermò ad ascoltare il suono. Non era un uccello, ma... «Ah», disse Renati. «È un segno dell'estate. Il fischio del treno. I binari passano attraverso la foresta, non lontano da qui». La donna continuò a camminare, ma si fermò quando si accorse che il ragazzo non si era mosso. Si udì di nuovo il fischio, una nota breve e stridula. «Dev'esserci un cervo sui binari», commentò Renati. «A volte lì se ne trova uno morto. Non è male, se il sole e gli avvoltoi non l'hanno già rovinato». Il fischio del treno svanì. «Mikhail?», lo sollecitò la donna. Il ragazzo era ancora intento ad ascoltare: il fischio aveva suscitato in lui un forte desiderio, ma non era sicuro di cosa si trattasse. Renati lo stava aspettando e il berserker si aggirava nella foresta. Era ora di andare. Mikhail si girò indietro una volta a guardare il Giardino, con i suoi quadrati di pietra, poi seguì Renati a casa. 2. Il pomeriggio del secondo giorno dopo la sepoltura dei neonati, Franco afferrò Mikhail per un braccio mentre il ragazzo era in ginocchio all'esterno del palazzo bianco, impegnato a rovistare nel terreno soffice alla ricerca di vermi. Lo fece alzare. «Vieni», gli disse. «Dobbiamo andare in un posto». Si avviarono verso sud attraverso il bosco. Franco si guardò indietro. Nessuno li aveva visti, e questo era un bene. «Dove stiamo andando?», chiese Mikhail mentre Franco lo trascinava con sé. «Al Giardino», fu la risposta. «Voglio vedere i miei figli». Il ragazzo cercò di divincolarsi dalla morsa, ma l'uomo lo strinse ancora più forte. Mikhail pensò di gridare, se non altro perché Franco non gli piaceva, ma il branco non avrebbe gradito. Wiktor non avrebbe gradito: spettava a lui combattere le proprie battaglie. «E io a cosa ti servo?» «A scavare», disse Franco. «Ora stai zitto e cammina più in fretta». Mentre si lasciavano alle spalle il palazzo bianco e la foresta richiudeva i suoi cancelli verdi dietro di loro, Mikhail si rese conto che quello che Franco stava facendo era proibito. Forse la legge del branco non voleva che le tombe venissero riaperte dopo che i bambini erano stati sepolti, forse al padre era vietato di vedere i figli morti. Non era certo del perché, ma
sapeva che quell'uomo lo stava usando per fare una cosa che a Wiktor non sarebbe piaciuta. Puntò i piedi, ma Franco gli strattonò il braccio e lo costrinse a proseguire. Stargli dietro era difficile: l'adulto aveva un passo lungo che ben presto fece ansimare il ragazzo. «Sei debole come una femminuccia!», brontolò Franco. «Ti ho detto di camminare più in fretta!» Mikhail inciampò su una radice e cadde in ginocchio. L'uomo lo tirò su con uno strattone e continuarono a camminare. Il viso dell'adulto - con la pelle pallida e gli occhi castani - aveva un'espressione feroce: persino in quella maschera umana traspariva il volto del lupo. Forse scavare le tombe portava sfortuna, pensò Mikhail. Per questo il Giardino era così lontano dal palazzo bianco. Ma l'umanità di Franco aveva preso il sopravvento: come qualsiasi altro padre, ardeva dal desiderio di vedere il frutto del suo seme. «Avanti, avanti!», disse al ragazzo mentre entrambi ormai correvano nel bosco. Pochi minuti dopo sbucarono nella radura dove si trovavano i riquadri di pietre; Franco si fermò improvvisamente. Mikhail gli finì addosso, ma l'adulto non si mosse ed emise un debole gemito. «Mio Dio», mormorò. A quel punto lo vide anche Mikhail: le tombe del Giardino erano state distrutte e le ossa sparse sul terreno. Teschi grandi e piccoli - alcuni umani, alcuni animali e alcuni un misto di entrambi - giacevano fracassati intorno ai suoi piedi. Franco si addentrò nel Giardino con le mani piegate ad artiglio lungo i fianchi. Quasi tutte le tombe erano state aperte e il loro contenuto era stato tirato fuori, fatto a pezzi e sparso in giro. Mikhail guardò a terra e vide un teschio sorridente con i denti acuminati a forma di zanne e lunghe strisce di peli grigi sul cuoio capelluto. Accanto c'erano le ossa di una mano e poco distante quelle di un braccio. Una piccola spina dorsale deforme attirò il suo sguardo, insieme a un cranio di neonato che era stato evidentemente schiacciato da una forza poderosa. Franco continuò a camminare, dirigendosi al punto in cui erano stati appena sepolti i bambini. Scavalcò vecchie ossa e posò il piede su un teschio la cui mandibola si spezzò come un pezzo di legno ingiallito. Si fermò vacillando e fissò le buche in cui i neonati erano stati sepolti due giorni prima. A terra giaceva uno straccio strappato. Franco lo raccolse e dalle pieghe scivolò qualcosa di dilaniato e rosso, coperto di mosche, che cadde tra le foglie. Il bambino era stato mozzato in due tronconi. Franco vide i segni delle grosse zanne. La metà superiore era scomparsa, compresa la testa con il
cervello. Le mosche volarono intorno al viso di Franco, portando con loro l'odore del sangue e della putrefazione. L'uomo guardò verso destra, dove c'era un'altra macchia rossa sul terreno. Era una piccola gamba, coperta di fine peluria castana. Franco emise un terribile lamento; quando si ritrasse dai resti, delle vecchie ossa si spezzarono sotto i suoi piedi. «Il berserker», lo sentì mormorare Mikhail. Gli uccelli cantavano sulle cime degli alberi, felici e ignari. Tutt'intorno c'erano tombe scoperchiate e frammenti di scheletri, sia di bambini che di adulti, sia di umani che di lupi. Franco si girò verso Mikhail, che lo vide in volto: la pelle era tesa sulle ossa e aveva gli occhi vitrei e sporgenti. Il fetore pungente della carne putrefatta giunse alle narici di Mikhail. «Il berserker», ripeté Franco con voce tremante. Si guardò intorno dilatando le narici, con il volto lucido di sudore. «Dove sei?», gridò. Gli uccelli smisero immediatamente di cantare. «Dove sei, bastardo?» Fece un passo in una direzione, poi in un'altra: le gambe sembravano volerlo dividere in due. «Vieni fuori!», urlò ansimando e mostrando i denti. «Ti sfido!» Raccolse un teschio di lupo e lo lanciò contro il tronco di un albero, dove si spezzò con uno schiocco simile a un colpo d'arma da fuoco. «Che Dio ti maledica, vieni fuori!» Le mosche sbatterono contro il volto di Mikhail e volarono via, disturbate dall'agitazione di Franco. L'uomo era furibondo, le guance giallastre ora erano rosse di rabbia e il suo corpo tremava come una molla tesa e pericolosa. «Vieni fuori e combatti!», urlò con tale forza da far alzare in volo gli uccelli posati sui rami. Nessuno rispose alla sua sfida. I teschi sorridenti giacevano lì come muti testimoni del massacro e le masse nere di mosche si avventarono sulla rossa carne di neonato. Prima che Mikhail potesse muoversi per difendersi, Franco lo aggredì. Lo sollevò in aria e lo sbatté contro un albero con tanta forza da togliergli il fiato. «Non sei niente!», gli gridò furioso. «Mi hai sentito?», gli chiese scuotendolo. «Non sei niente!» Gli occhi di Mikhail erano pieni di lacrime, ma non pianse. Franco voleva distruggere qualcosa, come il berserker aveva distrutto i corpi dei suoi figli. Lo sbatté con ancora più forza contro l'albero. «Non abbiamo bisogno di te!», urlò. «Piccolo debole pezzo di...» Successe molto rapidamente. Mikhail non capì con certezza quando, perché avvenne in un lampo. Dentro di lui si aprì un abisso di fiamme che gli bruciarono le viscere: dopo un secondo di dolore accecante, la sua mano destra - un artiglio di lupo coperto di lucidi peli neri che arrivavano fin quasi al gomito - si sollevò e colpì Franco sulla guancia. La testa dell'uomo
scattò all'indietro, con dei solchi sanguinanti nel punto in cui le unghie l'avevano graffiato. Franco rimase sbalordito e gli occhi gli brillarono impauriti. Lasciò andare il ragazzo e si allontanò bruscamente, con il sangue che gli scendeva lungo il viso disegnando righe scarlatte. Mikhail riprese l'equilibrio con il cuore che gli batteva all'impazzata: era sorpreso quanto Franco e fissò il suo artiglio di lupo, notando che sotto le unghie bianche c'erano sangue e pezzetti di pelle. Vide i peli neri diffondersi oltre il gomito e sentì la pressione sulle ossa quando queste iniziarono a cambiare forma. Si udì un sordo pop! quando il gomito si disarticolò e il braccio si accorciò, con le ossa che si ispessivano sotto la pelle umida e coperta di peli neri. Questi continuarono a diffondersi su per il braccio, verso la spalla, brillando di striature bluastre là dove arrivavano i raggi del sole. Mikhail provò un dolore pulsante alla mascella e alla fronte, come se intorno al cranio avesse cominciato a stringersi un'enorme morsa d'acciaio. Le lacrime gli sfuggirono dagli occhi e gli scesero lungo le guance. Ora era la volta della mano sinistra a trasformarsi: le dita si rattrappivano e si accorciavano, e spuntavano peli e artigli bianchi. Anche ai suoi denti stava accadendo qualcosa: non lasciavano più spazio alla lingua e le gengive gli dolevano come se fossero lacerate. In bocca sentiva il sapore del sangue. Era terrorizzato e guardò disperato Franco in cerca di aiuto: ma l'uomo lo fissava con occhi vitrei e il sangue che gli gocciolava dal mento. Mikhail pensò che aveva lo stesso odore del vino rosso che in un'altra vita suo padre e sua madre bevevano da bicchieri di cristallo. I suoi muscoli si tesero e tremarono, ispessendosi sulle spalle e lungo la schiena. Peli neri spuntarono sull'inguine, sotto i vestiti sporchi. «No» Mikhail si sentì gemere, con il verso rauco di un animale spaventato. «Per favore... no». Non lo voleva: non poteva sopportarlo, non ancora, e cadde a terra tra le foglie, appesantito dalle ginocchia che si piegavano e dai muscoli che si ispessivano sempre di più. Un istante dopo i peli neri che si erano raccolti sulla spalla destra iniziarono a ritrarsi, scendendo lungo il braccio. Gli artigli schioccarono e si allungarono tornando ad essere dita. Le ossa si raddrizzarono e i muscoli divennero di nuovo quelli esili di un bambino umano. La mascella e le ossa del viso si risistemarono con piccoli scoppiettii. Sentì i denti ritrarsi nelle gengive... quello fu forse il dolore più intenso. Meno di quaranta secondi dopo l'inizio, la trasformazione era già completamente rientrata. Mikhail sbatté le palpebre sugli occhi che gli bruciavano per le lacrime e si guardò le mani, umane e glabre. Da sotto le unghie usciva del sangue.
L'insolita pesantezza dei nuovi muscoli era svanita. Tastando con la lingua sentì in bocca denti umani e il sapore del sangue nella saliva. Era tutto finito. «Piccolo bastardo», esclamò Franco, ma aveva perso quasi tutto il suo impeto. Sembrava avvilito. «Non ne hai avuto il coraggio, vero?» Si toccò la guancia graffiata e si fissò il palmo sporco di sangue. «Dovrei ucciderti», disse. «Mi hai marchiato. Dovrei farti a pezzi, stronzetto». Mikhail cercò di alzarsi in piedi, ma le gambe erano deboli e non ci riuscì. «Non vale neppure la pena di ucciderti», decise Franco. «Sei ancora troppo umano. Dovrei lasciarti qui, così non riusciresti più a trovare la strada, vero?» Si asciugò il sangue dalle ferite e si guardò di nuovo il palmo della mano. «Merda!», esclamò disgustato. «Perché... mi odi tanto?», riuscì a chiedergli Mikhail. «Non ti ho mai fatto niente». Per un istante Franco non rispose; il ragazzo pensò che non l'avrebbe fatto. Poi l'uomo disse in tono acido: «Wiktor ti ritiene speciale». Pronunciò la parola come se fosse brutta. «Dice che non ha mai visto nessuno lottare come te per sopravvivere. Oh, ha grandi speranze per te», aggiunse in tono amaro. «Secondo me invece sei solo un cucciolo debole, ma una cosa te la concedo: sei fortunato. Wiktor non è mai andato a caccia per nessun altro. Ma lo fa per te, perché dice che non sei ancora pronto per la trasformazione. Io invece dico che o diventi uno del branco in modo completo o ti mangiamo. E sarò io ad aprirti il cranio e a gustarmi il tuo cervello. Cosa ne pensi?» «Io... penso...», disse Mikhail tentando di nuovo di alzarsi in piedi. Aveva il volto sudato. Si sollevò solo grazie alla forza di volontà e ai muscoli doloranti. Le gambe quasi cedettero un'altra volta, ma infine riuscì ad alzarsi respirando affannosamente e si girò verso Franco. «Penso... che un giorno... dovrò ucciderti», rispose. L'uomo lo fissò con la bocca spalancata. Il silenzio si prolungò, mentre i corvi lontani si chiamavano a vicenda. Poi Franco scoppiò a ridere - anche se gli uscì più una specie di grugnito - e il movimento lo fece sobbalzare e lo indusse a portarsi una mano alla guancia graffiata. «Tu? Uccidere me?» Rise di nuovo e fece un'altra smorfia. I suoi occhi erano gelidi e promettevano spietatezza. «Oggi ti lascerò vivere», disse, come se fosse spinto dalla generosità, ma Mikhail pensò che fosse perché aveva paura di Wiktor. «Come ho già detto, sei fortunato». Si guardò intorno, con gli occhi socchiusi e i sensi all'erta. Non c'era traccia del berserker, se non per le tombe
scoperchiate e le ossa spezzate: il terreno smosso e i mucchi di foglie non recavano impronte e l'animale si era rotolato nella carne putrefatta per nascondere il proprio odore. Il sacrilegio contro il branco era stato compiuto circa sei o sette ore prima, calcolò Franco. Il berserker si era ormai allontanato da tempo. L'uomo percorse qualche metro, si chinò e scacciò le mosche. Raccolse un piccolo braccio strappato, con la mano ancora attaccata, e si raddrizzò. Toccò delicatamente le dita, esaminandole come fossero i petali di uno strano fiore. «Questo era mio» Mikhail lo udì dire a voce bassa. Franco si chinò di nuovo, scavò una manciata di terra, mise il braccio rosicchiato nella piccola buca e poi con delicatezza rimise a posto il terriccio, picchiettandolo e ricoprendolo di foglie marroni. Rimase accovacciato a lungo mentre le mosche gli ronzavano intorno alla ricerca della carne perduta. Alcune si posarono a banchettare sulla sua guancia insanguinata, ma lui non si mosse. Rimase lì, immobile, a fissare il mosaico di terra e foglie che aveva davanti. Poi improvvisamente si alzò. Volse le spalle al Giardino devastato e si allontanò rapidamente nella foresta senza neppure guardare Mikhail. Il ragazzo lo lasciò andare: conosceva la strada per tornare a casa. E comunque, se avesse perso l'orientamento, poteva sempre seguire l'odore del sangue di Franco. Gli stavano tornando le forze, e la testa e il cuore avevano smesso di martellare. Guardò il Giardino e gli scheletri sparsi, chiedendosi dove sarebbero andate a finire un giorno le sue ossa e chi le avrebbe coperte. Si girò, mettendo da parte quelle riflessioni, e seguì Franco rintracciando le sue impronte sulla terra smossa. 3 Altre tre primavere arrivarono e passarono, e l'estate del dodicesimo anno di Mikhail fece inaridire la foresta. In quel periodo, Renati era quasi morta a causa dei vermi presi da un cinghiale infetto. Wiktor l'aveva curata personalmente e aveva cacciato per lei, dimostrando che il granito può essere tenero. Pauli aveva dato alla luce una bambina concepita con Franco. La piccola era morta due mesi dopo durante la notte, con il corpicino che si contorceva coperto da una peluria color castano chiaro. Nikita aveva seminato un figlio nella pancia di Alekza, ma il feto era scivolato via in un fiotto di sangue e carne quando erano passati meno di quattro mesi. Mikhail indossava una tunica di pelle di cervo e dei sandali che Renati
aveva fatto per lui, perché i vestiti vecchi erano troppo piccoli e stracciati. Stava crescendo ed era diventato un ragazzo allampanato con lunghi capelli neri che gli scendevano oltre le spalle, fino alla schiena. Anche la sua mente stava crescendo, grazie al nutrimento dei libri di Wiktor: la matematica, la storia russa, le lingue, la letteratura classica erano un banchetto offertogli dal vecchio. A volte era facile da digerire, altre volte Mikhail praticamente si strozzava, ma la voce tuonante di Wiktor nella stanza illuminata dal fuoco teneva desta la sua attenzione. Al ragazzo piacevano persino le opere di Shakespeare, in particolare l'orrore e i fantasmi dell'Amleto. Anche i suoi sensi stavano migliorando. Per lui non esisteva più una vera oscurità: la notte più buia era un crepuscolo grigiastro, in cui le forme di carne e ossa erano delineate da una strana luce celeste. Quando si concentrava seriamente, eliminando ogni distrazione, era in grado di trovare qualsiasi membro del branco nel palazzo bianco seguendo il ritmo caratteristico del suo battito cardiaco: quello di Alekza, per esempio, era sempre veloce, come un tamburello, mentre il cuore di Wiktor era un strumento perfettamente accordato che batteva con precisione lenta e solenne. I colori, i suoni e gli odori erano diventati più intensi. Alla luce del giorno riusciva a vedere un cervo correre nella fitta foresta a cento metri di distanza. Apprese l'importanza di essere veloce: catturava con facilità ratti, scoiattoli e lepri, e quindi contribuiva un po' alla riserva di cibo del branco, ma la selvaggina più grande continuava a sfuggirgli. Spesso si svegliava con un braccio o una gamba coperti di peli neri, che prendevano a contorcersi mutandosi nelle zampe di un lupo, ma la trasformazione completa ancora lo terrorizzava. Il suo corpo forse non era ancora pronto, ma la sua mente decisamente sì. Guardava con meraviglia gli altri che riuscivano a passare da un mondo all'altro come se bastasse volerlo. Il più veloce di tutti era ovviamente Wiktor: a lui occorrevano meno di quaranta secondi per passare completamente dalla pelle umana al pelame grigio del lupo. Dopo di lui il più rapido era Nikita, che eseguiva la trasformazione in poco più di quarantacinque secondi. Alekza aveva la pelliccia più bella e Franco l'ululato più sonoro. Pauli era la più timida e Renati la più clemente: spesso lasciava scappare le prede più piccole e indifese, anche se le aveva inseguite fino a sfinirle. Wiktor la rimproverava per questa leggerezza e Franco la guardava accigliato, ma lei faceva quello che voleva. Dopo la distruzione del Giardino, Wiktor furioso aveva portato con sé Nikita e Franco per una lunga e infruttuosa ricerca della tana del berserker.
Nei tre anni trascorsi da allora, la bestia aveva manifestato la sua presenza lasciando piccoli mucchi di escrementi intorno al palazzo bianco, e una volta il branco l'aveva sentito ululare nella notte: una sfida roca e profonda che aveva cambiato direzione, perché il lupo astuto non era rimasto nello stesso punto. Era una sfida, ma Wiktor non la raccolse: preferì non cadere nella trappola dell'animale. Pauli aveva giurato di aver visto il berserker in una notte nevosa all'inizio di novembre, mentre correva al fianco di Nikita in caccia di caribù. La bestia di colore rosso era sbucata dalla neve, abbastanza vicino a lei da riuscire a sentirne la fetida follia, e i suoi occhi erano gelidi abissi neri di odio. Aveva spalancato le fauci per afferrarla alla gola, ma in quel momento Nikita si era diretto verso di lei e il berserker era sparito nella neve. Pauli giurava che era tutto vero, ma la ragazza a volte confondeva gli incubi con la realtà, e Nikita non ricordava di aver visto nulla tranne la notte e il turbinio dei fiocchi di neve. Una notte di metà luglio il turbinio non era di neve ma di lucciole dorate che si alzavano dal fondo della foresta, mentre Mikhail e Nikita - in forma umana - correvano silenziosamente tra gli alberi. Le mandrie erano state decimate dalla siccità e durante il mese appena trascorso la caccia era stata scarsa. Wiktor aveva ordinato a Nikita e a Mikhail di riportare qualcosa, qualsiasi cosa, e ora il ragazzino seguiva come meglio poteva l'adulto che lo precedeva di circa sei metri e faceva da apripista. Si dirigevano verso sud a passo regolare; dopo un po' Nikita rallentò e proseguì camminando veloce. «Dove stiamo andando?», chiese Mikhail sussurrando. Si guardò intorno nel crepuscolo della sera, alla ricerca di qualcosa di vivo. Ma non vide neppure gli occhi di uno scoiattolo con riflessa la luce delle stelle. «Ai binari della ferrovia», rispose Nikita. «Forse la faremo diventare una caccia facile». Spesso il branco riusciva a trovare il cadavere di un daino, un caribù o un animale più piccolo investito dal treno che attraversava la foresta due volte al giorno tra maggio e agosto, diretto a est di giorno e a ovest di notte. Nel punto in cui la foresta era disseminata di grossi massi e iniziava una scarpata rivolta a sud, i binari sbucavano da una galleria scavata rozzamente, svoltavano giù per il pendio lungo il fondo di una gola alberata per almeno seicento metri, e poi si infilavano in un altro tunnel a ovest. Mikhail seguì Nikita giù per la massicciata e insieme camminarono lungo i binari, cercando con gli occhi la forma scura di una carcassa e con il naso l'odore del sangue fresco nell'aria calda. Continuarono a dirigersi verso la galleria,
poi Nikita improvvisamente disse: «Ascolta». Mikhail obbedì e anche lui lo sentì: un leggero brontolio di tuono. Ma il cielo era sereno, con le stelle che brillavano dietro un velo di pigro calore. Il treno stava arrivando. Nikita si chinò e appoggiò una mano sul ferro. Lo sentì vibrare mentre il treno prendeva velocità, iniziando la lunga discesa del pendio. Entro pochi istanti sarebbe sbucato dal tunnel a pochi metri di distanza. «Sarà meglio andare», disse il ragazzo. Nikita rimase dov'era, con la mano sulla rotaia. Fissava l'imboccatura rocciosa, poi Mikhail lo vide gettare un'occhiata verso l'ingresso lontano dell'altra galleria. «Venivo sempre qui da solo», disse l'uomo a voce bassa. «A vedere passare i treni. Era prima dell'arrivo del berserker, che sia maledetto. Ma ho visto passare il treno molte volte. Credo che sia diretto a Minsk. Esce da quel tunnel», spiegò indicando con la testa, «ed entra in quello laggiù. Alcune volte, se il macchinista ha fretta di arrivare a casa, impiega meno di trenta secondi. Se invece l'uomo è ubriaco e preme sul freno, occorrono trentacinque secondi per arrivare da una galleria all'altra. Ne sono sicuro: li ho contati». «Perché?», chiese Mikhail. Il rombo del treno, simile a una tempesta in arrivo, si avvicinava sempre di più. «Perché un giorno lo batterò». Nikita si alzò. «Sai quale sarebbe per me la cosa più bella al mondo?» I suoi occhi mongoli a mandorla fissarono nell'oscurità il ragazzo, che scosse la testa. «Essere veloce», continuò con la voce piena di entusiasmo. «Il più veloce del branco. Il più veloce che sia mai esistito. Riuscire a trasformarmi nel tempo che il treno impiega a uscire dal primo tunnel e arrivare al secondo. Capisci?» Mikhail scosse la testa. «Allora guarda», disse Nikita. La galleria a ovest aveva cominciato a illuminarsi e i binari pulsavano per la potente spinta del motore a vapore. L'uomo si tolse la tunica e rimase nudo. Poi improvvisamente il treno sbucò dal tunnel come un enorme mostro sbuffante, con le fauci nere e un unico, ciclopico globo oculare giallastro. Mikhail fece un balzo indietro quando il suo sbuffo caldo lo avvolse. Nikita era in piedi accanto ai binari e non mosse un muscolo. I vagoni merci gli rombarono accanto, con una pioggia di scintille rosse che danzava nella turbolenza. Mikhail vide il corpo dell'uomo tendersi e la carne iniziare a coprirsi di fine pelame nero; poi Nikita si lanciò lungo i binari, con la schiena e le gambe coperte da strisce di pelliccia di lupo. Mentre correva verso la galleria a est, la sua spina dor-
sale si contorse e le gambe e le braccia tremanti iniziarono a ritrarsi nel tronco. Mikhail vide i peli diffondersi sul sedere, dove da una specie di verruca in fondo alla colonna vertebrale spuntò una coda, che si muoveva come un timone. La schiena del lupo si era accorciata e l'animale correva incollato al terreno, mentre gli avambracci si ispessivano e le mani iniziavano a deformarsi in artigli. Raggiunse la locomotiva e le corse accanto, verso l'imboccatura della galleria a est. Il macchinista aveva premuto sul freno, ma la caldaia sputava ancora scintille. Le ruote sferragliavano a mezzo metro dalle zampe di Nikita. Mentre correva, con il cuore che batteva all'impazzata, i piedi urtarono uno contro l'altro e gli fecero perdere l'equilibrio; passarono secondi preziosi in cui cercò di riprendersi. La locomotiva lo lasciò indietro, avvolto dal fumo nero e dalle scintille. Nikita respirò i vapori generati dalla corruzione dell'uomo, che sembrarono avvelenargli i polmoni. Mikhail perse di vista il lupo nel turbine nero. Il treno si infilò rombando nel tunnel a est e proseguì il viaggio verso Minsk. Un'unica lampada rossa oscillava avanti e indietro sulla ringhiera dell'ultimo vagone. Il fumo che si era posato nella gola alberata aveva il gusto amaro del legno verde bruciato. Mikhail entrò nella nebbia seguendo i binari su cui sentiva il calore del passaggio del treno. Sul terreno cadeva ancora qualche scintilla, come in una notte di stelle cadenti. «Nikita!», gridò. «Dove...» Una forma scura e poderosa gli balzò addosso. Il lupo nero piantò le zampe sulle spalle del ragazzino e lo spinse a terra. Poi gli si mise a cavalcioni sul petto, fissandolo in volto con gli occhi a mandorla e spalancò le fauci mostrando le zanne bianche e pulite. «Smettila», disse Mikhail. Afferrò il muso del lupo e lo spinse da parte. L'animale ringhiò, facendo il gesto di morderlo. «Vuoi smetterla?», protestò il ragazzino. «Mi stai schiacciando!» Il lupo mostrò di nuovo le zanne, proprio davanti al suo naso, poi una lingua rosea e bagnata spuntò a leccargli il viso. Mikhail strillò e cercò di spingere via l'animale, ma Nikita era troppo pesante. Infine il lupo gli discese dal petto e il ragazzo si alzò a sedere, consapevole che il mattino dopo si sarebbe svegliato con dei lividi a forma di zampa. Nikita si mise a correre in circolo cercando di mordersi la coda per divertimento, poi si tuffò nell'erba alta sul fianco della gola e cominciò a rotolarvisi. «Tu sei matto», gli disse Mikhail alzandosi in piedi. Mentre Nikita si rotolava nell'erba, il suo corpo cominciò a trasformarsi di nuovo. Si udì lo schiocco dei tendini che si allungavano e delle ossa che
tornavano nelle articolazioni. L'uomo emise un piccolo gemito di dolore; il ragazzo si allontanò di qualche metro per lasciargli un po' di intimità. Dopo circa trenta secondi Mikhail sentì Nikita esclamare piano: «Accidenti». Il mongolo oltrepassò il ragazzo, risalendo il pendio per recuperare la tunica. «Ho inciampato nei miei maledetti piedi», si lamentò. «Si mettono sempre in mezzo». Mikhail si incamminò al suo fianco. Il fumo nero ora si stava alzando e usciva dalla gola, portandosi via l'odore metallico e bruciato della civiltà. «Non capisco», disse. «Cosa stavi cercando di fare?» «Te l'ho detto. Voglio essere veloce». Nikita guardò dietro di sé, nella direzione in cui si era allontanato il treno. «Domani sera tornerà. E anche la sera dopo. Ci riproverò». Allungò una mano, raccolse la tunica e la indossò. Mikhail lo guardava con espressione assente, perché ancora non aveva compreso del tutto. «Wiktor ti racconterà una storia, se glielo chiedi», aggiunse il mongolo. «Dice che il vecchio che al suo arrivo era a capo del branco ricordava un individuo che riusciva a effettuare la trasformazione in ventiquattro secondi. Riesci a immaginarlo? Da umano a lupo in ventiquattro secondi! Wiktor stesso non riesce a scendere sotto il mezzo minuto! E io... be', io faccio pena». «No, non è vero. Sei veloce». «Non abbastanza», replicò Nikita con forza. «Non sono il più veloce, né il più forte. Non sono neppure il più intelligente. E per tutta la vita, sin da quando ero un ragazzino della tua età e mi spezzavo la schiena in una miniera di carbone, ho desiderato essere speciale. Se lavori a lungo in fondo a una miniera, sogni di essere un uccello. Forse ho ancora quel sogno, solo che voglio che le mie gambe diventino ali». «Che importanza ha se sei il più veloce o...» «Ha importanza per me», lo interruppe il mongolo. «Mi dà uno scopo. Capisci?» Continuò senza attendere la risposta del ragazzo. «Vengo qui durante l'estate, ma solo di notte. Non voglio farmi vedere dal macchinista. Sto davvero diventando più veloce: è solo che le mie gambe non hanno ancora scoperto come diventare ali». Indicò con un cenno la galleria lontana a est. «Una sera riuscirò a battere il treno. Inizierò in questo punto da uomo e prima che il convoglio entri nell'altro tunnel attraverserò da lupo i binari, davanti alla locomotiva». «Vuoi attraversare i binari?» «Sì. Su quattro zampe», rispose Nikita. «Ora dobbiamo trovare qualcosa da mangiare per il branco o rimarremo a cercare per tutta la notte». Si av-
viò verso est giù per il pendio e Mikhail lo seguì. A poco meno di un chilometro dal punto in cui il lupo aveva inseguito il treno, trovarono sui binari un coniglio schiacciato. Era morto da poco e aveva gli occhi sporgenti come se fosse ancora ipnotizzato dal luminoso globo giallo del mostro che gli era passato sopra. Era una preda misera, ma era un inizio. Nikita lo raccolse per le orecchie e lo tenne al fianco mentre continuavano la ricerca, facendolo dondolare come un giocattolo rotto. L'odore del sangue del coniglio fece venire l'acquolina in bocca a Mikhail. Sentiva un ringhio bestiale premergli in gola. Ogni giorno che passava diventava più simile al branco. La trasformazione lo stava aspettando, come un'amica oscura. Doveva solo protendersi verso di essa e accoglierla: era molto vicina e impaziente. Ma Mikhail non sapeva come controllarla. Non aveva idea di come «trasformarsi a comando» come sembravano fare gli altri. Era più simile a un ordine o a un sogno? Temeva di perdere le ultime vestigia del suo essere umano: la trasformazione completa l'avrebbe portato in un luogo dove non osava andare. Non ancora, non ancora. Stava salivando. Si udì un brontolio: non era stata la sua gola, bensì lo stomaco. Dopotutto era ancora più un ragazzo che un lupo. Durante molte sere di quella lunga e arida estate Mikhail andò a caccia con Nikita lungo i binari della ferrovia. Una volta all'inizio di agosto trovarono un piccolo daino agonizzante, con due zampe amputate dalle ruote del treno. Il mongolo si era chinato e aveva guardato l'animale negli occhi appannati dallo shock, accarezzandogli gentilmente i fianchi. Aveva parlato al daino a voce bassa per calmarlo, poi gli aveva posato le mani sulla testa e gliel'aveva torta con un movimento netto e violento. Il daino si era accasciato con il collo spezzato, senza più soffrire. Quella era la vera misericordia, aveva detto Nikita a Mikhail. Il treno continuava a seguire l'orario. Alcune sere rombava giù per la collina da galleria a galleria, altre i freni stridevano e lanciavano scintille. Mikhail restava seduto sulla massicciata dietro il riparo dei pini a osservare Nikita correre lungo i binari, contorcendosi e cercando di mantenere l'equilibrio mentre si trasformava. Ogni volta sembrava che le zampe - le sue ali radicate in terra - gli impedissero di volare. Il mongolo stava diventando più veloce, ma non lo era ancora abbastanza: il treno lo distanziava sempre, lasciandolo avvolto nel fumo mentre si infilava nella galleria a est. Agosto finì e l'ultimo treno dell'estate si allontanò rombando verso Minsk, con la lanterna rossa che ondeggiava sull'ultimo vagone come un ghigno scarlatto. Nikita trotterellò con le spalle curve fino al punto in cui
aveva lasciato la tunica; Mikhail vide svanire dal suo corpo il lucido pelame nero. Il mongolo era di nuovo umano... si rivestì e inspirò l'odore acre del fumo, come se si trattasse del sudore di un nemico feroce e rispettato. «Be'», disse alla fine, «l'estate tornerà». Rientrarono a casa, camminando verso l'autunno. 4. L'inverno, il re crudele vestito di bianco, strinse nella sua morsa la foresta e la sigillò nel ghiaccio. Il freddo spaccò gli alberi, gli stagni diventarono lastre bianche e il cielo si fece cupo di nuvole basse e nebbia. Giorno dopo giorno il sole rimaneva un estraneo e il mondo intero era un mare di neve e alberi neri e spogli. Persino i corvi, quei diplomatici vestiti di nero, rimanevano congelati là dove si erano appollaiati o si sforzavano di raggiungere il sole battendo le ali gelate. Solo le lepri bianche correvano veloci nel silenzio vuoto della foresta, ma quando arrivò il vento dalla Siberia persino loro rabbrividirono nelle tane. Anche il branco tremava all'interno del palazzo bianco. Si stringevano tutti intorno alle fiamme prodotte dal legno di pino, con il fiato che si condensava in sbuffi bianchi, ma l'istruzione di Mikhail continuava: Wiktor era un insegnante esigente e severo, e rannicchiato accanto al ragazzo lo ascoltava ripetere Shakespeare, le opere di Dante, i problemi di matematica e la storia europea. Un giorno di gennaio Pauli e Nikita uscirono a cercare altra legna. Wiktor raccomandò di restare vicino al palazzo bianco e di non perdersi di vista a vicenda. Era scesa la foschia, che ostacolava la visibilità, ma bisognava alimentare il fuoco. Meno di mezz'ora dopo Nikita era rientrato nella tana, muovendosi come un sonnambulo inebetito, con le sopracciglia e i capelli argentati dal ghiaccio. Portava in braccio dei ramoscelli che lasciò cadere ai suoi piedi mentre entrava nel circolo del fuoco. Aveva lo sguardo frastornato. Wiktor si alzò in piedi e gli chiese: «Dov'è Pauli?» Nikita rispose che era ad appena sei metri da lui. Solo sei metri. Stavano parlando, cercando di scaldarsi con le parole. Poi improvvisamente non aveva più risposto. Non c'era stato alcun grido d'aiuto, nessun rumore di lotta nella foschia. Un istante prima Pauli era lì, e quello dopo... Nikita portò Wiktor e Franco sul posto. Trovarono vivide gocce rosse sulla neve, a meno di quaranta metri dal palazzo coperto di ghiaccio. La tunica di Pauli era lì vicino, anch'essa macchiata di sangue. Sul terreno
c'erano alcuni ramoscelli, simili a ossa sbiancate. Le impronte finivano dove quelle del berserker spuntavano da un boschetto di rovi. Nella neve c'era il solco lasciato da un corpo trascinato via, oltre una collinetta e nel fitto degli alberi. Trovarono parte delle viscere di Pauli, violacee come lividi sulla neve. Le tracce del berserker e il solco del corpo che aveva trascinato via continuavano all'interno della foresta. Wiktor, Franco e Nikita si liberarono delle tuniche e tremando si trasformarono nella foschia appiccicosa. Tre lupi - uno grigio, uno castano chiaro e uno nero - corsero ad ampie falcate tra i cumuli di neve a caccia del berserker. A un chilometro e mezzo di distanza verso est trovarono un braccio della ragazza, azzurro come marmo, incastrato tra due rocce. Era stato strappato dalla spalla. Giunsero a una scarpata, in cui il vento aveva spazzato la neve via dalle rocce aguzze, e lì terminava ogni traccia del berserker e del cadavere di Pauli. Nelle ore successive il trio di lupi perlustrò la zona in circoli man mano più ampi, allontanandosi sempre più dal palazzo bianco. In un'occasione Franco credette di aver visto un'enorme forma rossa eretta su uno spuntone di roccia sopra di loro, ma il turbinio della neve gli aveva ostacolato la vista per qualche istante e, quando era riuscito a guardare bene di nuovo, era scomparsa. Nikita colse tra le correnti del vento l'odore di Pauli, un aroma muschiato di erba estiva, e lo seguirono per quasi un altro chilometro verso nord, prima di ritrovare la testa della ragazza in fondo a un dirupo, con il cranio sfondato e rosicchiato, e senza più il cervello. Le tracce del berserker li condussero all'orlo di un precipizio roccioso, dove scomparivano sulle pietre: scendere era pericoloso ma fattibile. In una delle caverne poteva esserci la tana del mostro ma, se non era così Wiktor, Nikita e Franco potevano rompersi il collo per niente. Ora la neve cadeva più fitta e nell'aria aleggiava l'odore di una tormenta. Il capo branco diede l'ordine con uno sbuffo e un cenno della testa, e i tre lupi intrapresero il lungo viaggio verso casa. Wiktor riferì tutto questo al branco accovacciato intorno al fuoco. Quando ebbe finito, si allontanò sedendosi in un angolo da solo. Rosicchiò le ossa di un facocero fissando con gli occhi ardenti nella fredda oscurità il pagliericcio vuoto dove Pauli era solita dormire. «Io dico di uscire per dare la caccia a quel bastardo!», gridò Franco, mentre la tormenta infuriava fuori dal palazzo. «Non possiamo restare seduti qui come... come...» «Come esseri umani?», chiese Wiktor a voce bassa. Tolse un piccolo
ramoscello dal fuoco e lo guardò bruciare. «Come vigliacchi!», rispose Franco. «Prima Belyi, poi la distruzione del Giardino e ora la scomparsa di Pauli! Non si fermerà finché non ci avrà uccisi tutti!» «Non possiamo uscire con questa tempesta», osservò Nikita accovacciato. «E non può farlo neppure il berserker». «Dobbiamo stanarlo e ucciderlo!», ripeté Franco camminando avanti e indietro davanti al fuoco e quasi calpestando Mikhail. «Se solo riuscissi a mettere gli artigli sulla gola, io...» Renati sbuffò con espressione di scherno. «Diventeresti la sua colazione». «Stai zitta, vecchia strega! Chi ti ha chiesto di parlare?» Renati balzò in piedi in un istante. Fece un passo verso Franco che si girò di scatto. Peli color ruggine spuntarono e si diffusero sul dorso delle mani della donna, e le dita iniziarono a curvarsi in artigli. «Ferma», disse Wiktor. Renati gli lanciò un'occhiata, mentre le ossa del suo viso già cominciavano a deformarsi. «Renati, per favore smettila», ripeté. «Lascia che lo uccida», disse Alekza, con gli occhi color azzurro ghiaccio gelidi sul bel viso. «Merita di morire». «Renati?» Wiktor si alzò in piedi. La colonna vertebrale della donna aveva iniziato a curvarsi. «Forza, andiamo!», la schernì Franco. Alzò la mano destra, già coperta di peli castano chiaro e su cui erano già spuntati gli artigli. «Sono pronto!» «Smettetela!», gridò il capobranco; la sua voce fece sobbalzare Mikhail: era il tono che usava quando gli faceva scuola. Il suono riecheggiò nella sala. «Se ci uccidiamo a vicenda, vincerà il berserker. Se saremo morti, potrà venire qui a prendersi la nostra tana. Quindi smettetela tutti e due. Dobbiamo ragionare da umani e non agire da bestie». Renati sbatté le palpebre, con la bocca e la mandibola deformate. Un rivolo di saliva le colò dal labbro inferiore sul mento coperto di peluria color ruggine e rimase sospeso un attimo prima di cadere. Poi il suo volto iniziò a ritornare umano, con i muscoli che si contorcevano sotto la pelle e le zanne che si ritraevano schioccando. Il pelame da lupo diventò corto e ispido e poi scomparve. Renati si grattò il dorso delle mani come se gli ultimi peli rimasti le avessero irritato la pelle. «Piccolo bastardo», disse, guardando ancora Franco. «Devi mostrarmi rispetto, hai capito?» Franco le rivolse un grugnito e un sorriso gelido. Fece un cenno sprez-
zante con la mano destra, ora di nuovo umana e pallida, e si allontanò dal calore del fuoco. Nella sala rimase l'odore muschiato di animali infuriati. Wiktor si frappose tra Renati e Franco. Attese che gli animi si fossero calmati, poi disse: «Siamo una famiglia, non dei nemici. Al berserker farebbe piacere che ci attaccassimo a vicenda: faciliterebbe molto il suo compito». Gettò il ramoscello acceso nel fuoco. «Ma Franco ha ragione. Dobbiamo trovarlo e ucciderlo. Altrimenti sarà lui a uccidere noi, uno alla volta». «Visto?», disse Franco a Renati. «Lui è d'accordo con me!» «Sono d'accordo con la legge della logica», lo corresse Wiktor. «Alla quale sfortunatamente tu non sempre obbedisci». Si interruppe un attimo per ascoltare il lamento della tormenta attraverso le finestre rotte del livello superiore. «Credo che il berserker viva in una delle caverne che abbiamo scoperto», continuò. «Nikita ha ragione: la bestia non uscirà in questa tempesta. Ma noi potremmo farlo». «Ma là fuori non si vede a un palmo di naso!», obiettò Renati. «Senti che vento!» «Lo sento». Wiktor camminò intorno al fuoco sfregandosi le mani. «Quando la tempesta si calmerà, il berserker uscirà di nuovo a caccia. Non conosciamo le sue abitudini e, quando sentirà il nostro odore nella caverna, si cercherà un'altra tana. Ma... se trovassimo la sua caverna, con lui dentro, mentre la tempesta infuria ancora?» «Non si può fare!», disse Nikita scuotendo la testa. «Hai visto quel dirupo. Ci uccideremmo cercando di scendere laggiù». «Il berserker lo fa. E se ci riesce lui, possiamo riuscirci anche noi». Wiktor si interruppe per dare il tempo agli altri di recepire l'idea. «La difficoltà maggiore sarà trovare la caverna giusta. Se fossi in lui, le avrei marcate tutte con il mio odore. Ma forse non l'ha fatto: o magari, una volta scesi lungo il dirupo, riusciremo a individuare il suo odore e a seguirlo. Forse starà dormendo: è quello che farei io se avessi la pancia piena e mi credessi al sicuro». «Sì, giusto!», disse Franco entusiasta. «Uccidiamo quel bastardo nel sonno!» «No. Il berserker è grande e molto forte, e nessuno di noi riuscirebbe a sconfiggerlo in una lotta uno contro uno. Troviamo la sua caverna e blocchiamola con delle pietre, sistemate molto strette in modo che non possa scavarsi una via di uscita. Se siamo veloci, potremmo riuscire a sigillare la caverna prima che si renda conto di cosa succede».
«Sempre che non abbia una seconda via d'uscita», disse Renati. «Non ho detto che era un piano infallibile. Nessun piano lo è. Ma il berserker è pazzo: non pensa come un lupo normale. Perché dovrebbe pensare a scappare, quando si sente in grado di distruggere tutto ciò che cammina su due zampe o su quattro? Secondo me ha trovato una bella caverna calda con un'unica uscita, in cui raggomitolarsi, rosicchiare qualche osso e pensare a come ucciderci. Credo che valga la pena di correre il rischio». «Non sono d'accordo», replicò Renati aggrottando la fronte. «La tempesta è troppo violenta. Sarebbe già difficile arrivare fin lì, figuriamoci trovare la caverna giusta. No. Il rischio è troppo grande». «E quale sarebbe l'alternativa?», chiese Wiktor. «Aspettare che la tormenta passi e il berserker ci dia di nuovo la caccia? Dovremmo sfruttare il fatto che ha appena mangiato a sazietà: sarà lento, con tutta quella carne nella pancia. Propongo di andare adesso, altrimenti rischiamo che il branco venga distrutto». «Sì!», convenne Franco. «Diamogli la caccia adesso, mentre si crede al sicuro!» «Ho deciso. Vado». Wiktor guardò gli altri. Il suo sguardo si fermò per qualche istante su Mikhail, poi passò oltre. «Franco, vuoi venire con me?» «Io?», esclamò sbalordito. «Sì, Certo che vengo. Spero solo...», aggiunse con voce incerta, «di non rallentarti». «Rallentarmi? E come?» «Be'... non te l'avevo detto prima. Non è niente ovviamente, ma... ho un livido sul piede. Vedi?» Si tolse il sandalo di pelle di cervo e mostrò il danno causato da una pietra. «Anche la caviglia è un po' gonfia. Non sono sicuro di quando sia successo esattamente». Premette sul livido e fece una smorfia di dolore un po' troppo esagerata. «Ma posso venire lo stesso», disse. «Non sarò veloce come al solito, ma puoi sempre contare su di me». «Su di te come perfetto idiota», commentò Renati. «Lascia perdere Franco e i suoi piedi rovinati. Verrò io con te». «Mi serve che tu rimanga qui. A badare a Mikhail e Alekza». «Sono capaci di badare a loro stessi!» Wiktor la ignorò. Guardò Nikita. «E tu hai qualche livido sui piedi?» «A decine», rispose il mongolo e si alzò. «Quando partiamo?» «È la caviglia che mi dà fastidio!», protestò Franco. «Vedi? È gonfia! Devo aver posato male il piede quando eravamo...» «Capisco benissimo», gli disse Wiktor; l'altro tacque. «Andremo io e Nikita. Tu puoi restare qui, se è quello che vuoi». Franco fece per parlare,
poi ci ripensò e chiuse la bocca. «Prima partiamo, prima potremo tornare», disse il capo al mongolo. «Io sono pronto adesso». Nikita annuì e Wiktor rivolse la sua attenzione a Renati. «Se riusciremo a individuare la caverna del berserker e a chiuderlo dentro, resteremo lì abbastanza a lungo da assicurarci che non riesca a uscire. Cercheremo di tornare entro quarantott'ore. Se la tempesta si farà troppo violenta, ci troveremo un posto dove dormire. Ti occuperai di tutto tu, sì?» «Sì», rispose Renati con espressione cupa. «E tu e Franco eviterete di litigare». Era un ordine. Wiktor guardò Mikhail. «Gli impedirai di uccidersi a vicenda, vero?» «Sì, signore», rispose Mikhail anche se non aveva idea di cosa avrebbe fatto nel caso di uno scontro tra Franco e Renati. «Al mio ritorno voglio che tu abbia finito la lezione che abbiamo iniziato ieri». Si trattava di una lettura sulla caduta dell'impero romano. «Ti interrogherò». Il ragazzino annuì. Wiktor si tolse tunica e sandali; Nikita fece lo stesso. I due uomini rimasero nudi lì in piedi, con il fiato che si addensava in sbuffi. Il mongolo iniziò a trasformarsi per primo, con i peli neri che si intrecciavano sulla pelle come strani viticci. Gli occhi di Wiktor brillavano nella luce fioca quando si rivolse a Renati. «Ascoltami», disse. «Se per qualsiasi motivo... non dovessimo tornare dopo tre giorni, sarai tu a capo del branco». «Una donna?», protestò Franco. «A dare ordini a me?» «A capo del branco», ribadì Wiktor. Una marea di peli grigi gli si andava allargando sulle spalle e lungo le braccia. La sua pelle aveva un aspetto lucido e oleoso, e il sudore gli imperlò la fronte quando le sopracciglia si unirono. Dal suo corpo si levò del vapore. «Hai qualche obiezione?», chiese con voce roca mentre le ossa del viso si spostavano. Tra le labbra gli spuntarono le zanne. «No», rispose subito Franco. «Nessuna obiezione». «Augurateci buona fortuna». La voce ormai era solo uno stridore gutturale e la carne tremò, coprendosi della spessa pelliccia grigia. Gran parte della testa e del viso di Nikita si era già trasformata, e con un getto di vapore il muso spuntò con degli schiocchi che Mikhail un tempo aveva considerato orribili. Ora i suoni della trasformazione erano piacevoli come una musica suonata da strumenti esotici. I due corpi si contorsero, passando da pelle umana a pelo di lupo, da dita ad artigli, da denti a zanne, da nasi a lunghi musi neri: il tutto accompagnato dalla musica delle ossa, dei tendini
e dei muscoli che cambiavano aspetto, risistemandosi in forma canina, e da qualche grugnito da parte di Wiktor e Nikita. Poi con un brusco whuuf il lupo grigio corse fuori dalla stanza verso la scala, seguito a qualche passo di distanza da quello nero. Pochi secondi dopo i due animali erano scomparsi. «La mia caviglia è davvero gonfia!», protestò Franco mostrandola di nuovo a Renati. «Vedi? Non potrei andare molto lontano con questa, non trovi?» La donna lo ignorò. «Credo che ci servirà dell'acqua». Raccolse una ciotola d'argilla che era stata lasciata dai monaci: l'acqua, coperta di ghiaccio sporco, era quasi finita. «Mikhail, tu e Alekza andate a prendere altra neve, per favore», gli chiese tendendogli la ciotola. Bastava salire le scale e raccogliere quella che entrava dalle finestre. «Franco, il primo turno di guardia lo fai tu o lo faccio io?» «Sei tu il capo», rispose lui. «Fai come ti pare». «D'accordo. Il primo turno lo farai tu. Verrò a sostituirti quando sarà ora». Renati si sedette davanti al fuoco con fare regale. Franco borbottò un'imprecazione: non era piacevole salire sulla torre, con tutte quelle finestre rotte da cui soffiava il vento gelido, ma fare la guardia era un compito importante che svolgevano tutti. Si allontanò a grandi passi. Mikhail e Alekza andarono a prendere una ciotola di neve e Renati restò con il mento appoggiato su una mano, a preoccuparsi per l'uomo che amava. 5. Nel corso della notte scoppiò una tempesta. Passò, lasciando la foresta coperta di detriti alti quasi due metri e mezzo, con gli alberi piegati sotto il ghiaccio artico. La tormenta venne seguita da un freddo che faceva gelare le ossa e il giorno albeggiò di bianco, con il sole nascosto dietro le nuvole del colore del cotone bagnato. Era ora di colazione. «Dio, si gela!», disse Franco mentre avanzava a fatica con Mikhail nel deserto bianco che aveva sostituito il boschetto verde. Il ragazzo non rispose: avrebbe usato troppa energia per parlare e si sentiva la mascella gelata. Guardò dietro di sé verso il palazzo bianco che si trovava a circa cinquanta metri di distanza ed era quasi invisibile in tutto quel bianco. «Maledico questo posto!», disse Franco. «Maledico l'intero paese! Maledetto Wiktor, maledetta Nikita, maledetta Alekza e maledetta quella maledetta di Renati. Chi pensa di essere per darmi ordini come a un ser-
vo?» «Non troveremo mai niente», gli disse Mikhail con calma, «se fai tutto questo rumore». «Diavolo, non c'è niente di vivo qui fuori! Come possiamo trovare del cibo? Creandolo? Io non sono Dio, questo è sicuro!» Si fermò annusando l'aria; il naso gli pizzicava per il freddo e il suo olfatto era ostacolato. «Se Renati è al comando, perché non ci trova lei da mangiare? Rispondi a questo!» Non c'era bisogno di rispondere. Avevano tirato a sorte - il ramoscello più corto - per vedere chi aveva il compito di procurare la colazione. A dire il vero Mikhail aveva scelto il rametto più corto e Franco quello di poco più lungo. «Qualunque cosa ci sia di vivo qui fuori, è sepolta nella sua tana al caldo», continuò Franco. «Come dovremmo fare noi. Annusa l'aria. Senti? Niente». Come a voler dimostrare che si sbagliava, una lepre con il manto grigio sfrecciò improvvisamente sulla neve davanti a loro, dirigendosi verso un boschetto di alberi sepolti a metà. «Lì!», disse Mikhail. «Guarda!» «Ho gli occhi congelati». Mikhail si fermò e si voltò verso Franco. «Non ti trasformi? Puoi prenderla, se ti trasformi». «Al diavolo!» Le guance di Franco erano diventate completamente rosse. «Fa troppo freddo per il cambiamento. Mi si congelerebbero le palle, se non è già successo». Allungò una mano verso il basso per controllare. «Se non ti trasformi, non cattureremo niente», gli ricordò Mikhail. «Quanto sarebbe difficile per te dare la caccia a quella lepre se...» «Oh, adesso sei tu a dare ordini, vero?» Franco lo guardò accigliato. «Ascoltami, stronzetto: sei stato tu a prendere il rametto più corto. Trasformati e cattura qualcosa. È ora che faccia la tua parte!» Mikhail rimase colpito, perché sapeva che c'era della verità in quell'affermazione. Avanzò, con le braccia serrate intorno al corpo per stare più caldo e i sandali che scricchiolavano nella neve ricoperta di ghiaccio. «Allora, perché non ti trasformi?», lo stuzzicò Franco fiutando il sangue. Camminò dietro al ragazzo. «Perché non cambi, così potrai dare la caccia a conigli e ululare alla maledetta luna come un pazzo?» Mikhail non rispose... non sapeva cosa dire. Cercò la lepre, ma era scomparsa nella distesa di neve. Guardò di nuovo verso il palazzo bianco, che sembrava fluttuare come un miraggio lontano tra la terra e il cielo, tutto dello stesso colore. Cominciarono a cadere di nuovo grossi fiocchi di
neve e se Mikhail non si fosse sentito tanto infreddolito, triste e inutile, avrebbe pensato che erano bellissimi. Franco si fermò a qualche metro da lui e si soffiò nelle mani unite a coppa. I fiocchi di neve gli finirono tra i capelli e gli striarono le ciglia. «Forse a Wiktor questa vita piace», disse serio, «e forse anche a Nikita, ma cos'erano loro prima? Mio padre era un uomo ricco, e io ero il figlio di un uomo ricco». Scosse la testa e i fiocchi gli scivolarono sul volto rubicondo. «Stavamo andando in carrozza a fare visita ai miei nonni. Ci colse una tempesta, molto simile a quella di ieri. Mia madre fu la prima a morire congelata. Ma mio padre, il mio fratellino e io trovammo una baracca non lontano da qui. Be', adesso non esiste più... la neve l'ha abbattuta anni fa». Franco alzò lo sguardo cercando il sole. Non riuscì a trovarlo. «Il mio fratellino è morto piangendo», disse. «Alla fine non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi: le palpebre gli si erano attaccate congelando. Mio padre sapeva che non potevamo restare lì. Se volevamo sopravvivere, dovevamo trovare un villaggio. Così cominciammo a camminare. Ricordo... che indossavamo entrambi i nostri soprabiti foderati di pelliccia e degli stivali costosi. La mia camicia aveva sopra un monogramma. Mio padre aveva una sciarpa di cachemire. Ma niente ci tenne abbastanza al caldo, non con quel vento che ci urlava contro il viso. Trovammo una buca e cercammo di accendere un fuoco, ma il legno era tutto ghiacciato». Guardò Mikhail. «Sai cosa bruciammo? Tutti i soldi che mio padre aveva nel portafoglio. Fecero una grande fiamma, ma non diedero nessun calore. Cosa avremmo dato per tre pezzi di carbone! Mio padre morì congelato, seduto dritto. Ero un orfano di diciassette anni, e sapevo che sarei morto se non avessi trovato un riparo. Così cominciai a camminare con addosso due cappotti. Non andai molto lontano prima che i lupi mi trovassero». Si soffiò di nuovo nelle mani e si sfregò le nocche. «Uno di loro mi morse al braccio. Gli diedi un calcio sul muso, tanto forte da fargli saltare tre denti. Quel bastardo - si chiamava Josef - non ha più ragionato bene da allora. Fecero a pezzi mio padre e lo mangiarono. Probabilmente mangiarono anche mia madre e il mio fratellino. Non l'ho mai chiesto». Franco abbracciò di nuovo con lo sguardo il cielo vuoto e osservò la neve cadere. «Mi portarono nel branco per poter generare. Lo stesso motivo per cui abbiamo accolto te». «Per... generare?» «Per fare piccoli», spiegò Franco. «Il branco ha bisogno di cuccioli o morirà. Ma i piccoli non sopravvivono». Scrollò le spalle. «Forse dopotutto Dio sa quello che fa». Guardò in direzione degli alberi, dove si nascon-
deva la lepre. «Ascolta Wiktor, e ti dirà quanto è nobile questa vita e come dovremmo essere fieri di quello che siamo. Io non trovo niente di nobile nell'avere peli sul culo e nel rosicchiare ossa sanguinolente. Al diavolo questa vita». Riunì della saliva in bocca e sputò nella neve. «Trasformati tu», disse a Mikhail. «Corri tu a quattro zampe e piscia contro un albero. Io sono nato uomo, per Dio, ed è questo che sono». Si voltò e cominciò a percorrere a fatica i settanta metri per tornare alle mura del palazzo bianco. «Aspetta!», lo chiamò Mikhail. «Franco, aspetta!» Ma non lo fece. Guardò Mikhail alle sue spalle. «Portaci un bel coniglio succulento», disse in tono acido. «O se sei fortunato, forse potrai scavare e trovare delle larve grasse. Io torno indietro e cerco di...» Non finì la frase, perché quello che pareva un mucchio di neve pochi passi più a destra sembrò esplodere e ne uscì un enorme lupo rosso che gli serrò la gamba tra le fauci. Le ossa si ruppero come colpi di pistola mentre il berserker gli staccava un piede e con le zanne lacerava la carne in brandelli color cremisi. Franco aprì la bocca per urlare, ma ne uscì solo un suono soffocato. Mikhail rimase stordito, con il cervello che turbinava. Il berserker doveva essere rimasto ad aspettare sotto la neve, con le sole narici sollevate per respirare, oppure si era rannicchiato sotto i detriti per tendere l'agguato. Non c'era tempo di chiedersi cosa fosse successo a Wiktor e Nikita; c'erano solo la realtà di quell'animale che squarciava la gamba di Franco e il sangue che schizzava sulla neve. Mikhail cominciò a urlare per chiedere aiuto, ma all'arrivo di Renati e Alekza - ammesso che riuscissero a sentirlo - Franco sarebbe già morto. La bestia furibonda lasciò la gamba martoriata e chiuse le fauci su una spalla, mentre l'uomo lottava disperatamente per tenere le zanne lontane dalla gola. Il suo viso era diventato cereo e gli occhi sporgevano in preda al terrore. Mikhail alzò lo sguardo. A circa un metro sulla sua testa c'era il ramo di un albero coperto di ghiaccio. Balzò e lo afferrò, staccandolo con le mani. Il berserker non gli prestò attenzione e continuò ad affondare i denti nel muscolo della spalla di Franco. Poi Mikhail si gettò in avanti, affondò i calcagni nella neve e infilò con forza l'estremità acuta del ramo in un occhio grigio dell'animale. Il bastone improvvisato cavò l'occhio; il lupo lasciò la spalla ruggendo di dolore e rabbia. Quando indietreggiò barcollando e scosse la testa, cercando di mitigare il dolore atroce, Franco cercò di strisciare via. Riuscì a fare quasi due metri con la gamba e la spalla ma-
ciullate prima di tremare e perdere i sensi. Il berserker azzannò freneticamente l'aria e con l'occhio che gli restava vide Mikhail Gallatinov. Accadde qualcosa fra loro: Mikhail lo sentì, forte quanto il battito del suo cuore e il sangue che gli scorreva veloce nelle vene. Forse era una comunanza di odio o il riconoscimento della violenza imminente; qualunque cosa fosse, il ragazzo la percepì completamente e agguantò il bastone appuntito come una lancia, mentre l'animale si lanciava verso di lui in mezzo alla neve. Le fauci del lupo rosso si aprirono per mordere e le zampe possenti si prepararono a saltare. Gallatinov rimase fermo, con i nervi che gli formicolavano... l'istinto umano lo incitava a scappare, ma il lupo dentro di lui aspettava con fredda determinazione. Il berserker fece una finta a sinistra che Mikhail riconobbe immediatamente come diversiva, poi lasciò il terreno e lo attaccò. Il ragazzo cadde in ginocchio sotto il corpo grosso del lupo e le fauci aperte, poi portò con forza il bastone verso l'alto. Trafisse il ventre ricoperto di peli bianchi mentre la bestia gli passava sopra; il ramo si spezzò in due, lasciando la punta conficcata in profondità. Il lupo si contorse a mezz'aria, una zampa anteriore sbatté contro la schiena di Mikhail e due artigli gli strapparono il mantello di pelle di cervo. Al ragazzo sembrò di essere stato colpito da un martello; finì con la faccia nella neve e sentì il berserker grugnire quando atterrò sul ventre a pochi metri di distanza. Mikhail girò il corpo, con i polmoni alla disperata ricerca di aria fredda, e affrontò il lupo rosso prima che potesse balzargli sulla schiena. La bestia con un occhio solo era dritta sulle zampe e la lancia era talmente conficcata nella pancia da sembrare quasi sparita. Mikhail si alzò con il petto ansante e sentì del sangue caldo scendergli lungo la schiena. Il berserker danzò a destra, posizionandosi tra il ragazzo e il palazzo bianco. Il bastone serrato nel pugno destro di Gallatinov era lungo circa sette pollici, come un coltello da cucina. Il lupo rosso sbuffò fumo e fintò più volte, impedendo a Mikhail di scappare verso casa. «Aiutateci!», urlò verso il palazzo bianco. La sua voce era smorzata dalla nevicata. «Renati! Aiut...» La bestia si scagliò in avanti; Mikhail cercò di colpirle l'altro occhio con il bastone. Ma il berserker si fermò e si mosse velocemente di lato, sollevando neve con le zampe, e il colpo non andò a segno. Il lupo rosso effettuò una torsione e guizzò verso il fianco scoperto del ragazzo, poi gli balzò addosso prima che potesse usare di nuovo il bastone. Il berserker lo colpì. Mikhail ricordò l'immagine del treno merci che
ruggiva in discesa sui binari con il suo unico occhio luminoso. Venne gettato a terra come una bambola di pezza e, se non ci fosse stata la neve, si sarebbe spezzato la schiena. Il fiato fuoriuscì sibilando e il cervello rimase stordito dall'impatto. Sentì l'odore del sangue e di saliva animale. Un peso brutale gli schiacciava una spalla, bloccandogli la mano e il bastone. Sbatté le palpebre, e nello stordimento dovuto al dolore vide le fauci del lupo rosso sopra di lui; le zanne si aprirono per afferrargli il viso e strapparglielo dal cranio come un tessuto sottile. Aveva la spalla intrappolata e le ossa stavano per uscire dalle cavità. L'animale si sporse in avanti, con i muscoli in evidenza lungo i fianchi; Mikhail sentì nel suo fiato l'odore del sangue di Franco. Le fauci si allargarono per schiacciargli il cranio. Due mani umane striate di peli biondi le bloccarono. Franco aveva ripreso i sensi ed era balzato addosso alla bestia rossa. Con il viso coperto dalla barba castana contorto in una smorfia di dolore ansimò «Scappa» mentre torceva la testa dell'animale con tutta la forza che aveva. Il berserker si dibatté, ma Franco mantenne salda la presa. Le fauci si chiusero e i denti forarono i palmi delle mani dell'uomo. Il peso non era più sulla spalla di Mikhail, che sollevò il braccio e infilò il bastone appuntito nella gola della bestia. Affondò tre pollici prima di incontrare un ostacolo e spezzarsi di nuovo. Il lupo rosso ululò e tremò per il dolore, sbuffando un fiato color cremisi; Mikhail si liberò da sotto il lupo spingendolo via, mentre l'animale si drizzava cercando di togliersi Franco dal dorso. «Scappa!», urlò l'uomo reggendosi con le unghie delle dita insanguinate. Mikhail si alzò coperto di neve. Cominciò a correre mentre il moncone del bastone spezzato gli cadeva di mano. Intorno a lui turbinavano fiocchi di neve, come angeli danzanti. La spalla gli pulsava e aveva i muscoli doloranti. Guardò alle spalle e vide il berserker scuotersi con frenesia violenta. Franco perse la presa e venne scagliato lontano. L'animale si tese per saltargli sul corpo e finirlo, ma Mikhail si fermò. «Ehi!», urlò; la testa del lupo si piegò verso di lui, mostrando l'unico occhio che ardeva. Qualcosa cominciò ad ardere anche dentro Mikhail. La sentiva, come un fuoco che si era aperto al centro del suo corpo... e per salvare la vita di Franco - e la sua - avrebbe dovuto raggiungere quelle fiamme roventi e afferrare ciò che era stato forgiato. Lo voglio pensò e si concentrò sull'immagine della sua mano che si contorceva in un artiglio: era chiarissima nella sua mente. Pensò di aver sentito un gemito interno, come se fossero stati liberati dei venti selvaggi. Lungo la schiena provò delle punture dovute al dolore. Lo voglio. Dai suoi pori
salì del vapore. Tremò, mentre la pressione gli schiacciava gli organi. Il cuore batteva all'impazzata. Avvertì un forte dolore nei muscoli delle braccia e delle gambe e una fitta terribile alla testa, come se qualcuno gli serrasse il cranio. Qualcosa si ruppe nella mascella e si sentì gemere. Il berserker lo osservò, paralizzato da ciò che vedeva, con le fauci ancora spalancate e pronte a spezzare il collo di Franco. Mikhail sollevò la mano destra. Era coperta di peli neri e lucidi, e le dita erano rientrate a formare artigli bianchi. Lo voglio. I peli neri gli salirono velocemente lungo il braccio. La mano sinistra si stava trasformando. Gli sembrò che la testa fosse stretta in una morsa di ferro e la mascella si allungò producendo il suono secco di qualcosa che si spezza. Lo voglio. Ormai non era più possibile tornare indietro, né negare la trasformazione. Mikhail gettò via il mantello di pelle di cervo, che scivolò sulla neve. Armeggiò con i sandali, riuscendo a stento a toglierli prima che i piedi cominciassero a torcersi. Cadde perdendo l'equilibrio, finendo sul sedere. Il lupo rosso annusò l'aria. Emise un grugnito e osservò quella cosa davanti a lui prendere forma. Sul petto e sulle spalle di Mikhail apparvero dei peli neri. Si intrecciarono sulla gola e gli coprirono il viso. La mascella e il naso si allungarono a formare un muso, e le zanne si liberarono con tale forza da lacerargli l'interno della bocca e da fargli sbavare sangue e saliva. La colonna vertebrale si curvò, provocandogli un dolore fortissimo. Le gambe e le braccia si accorciarono e diventarono fasci di muscoli. Tendini e cartilagini crepitarono e si ruppero. Il ragazzo tremò, mentre il suo corpo si dibatteva come se si stesse liberando degli ultimi elementi umani. Dall'escrescenza alla base della spina dorsale spuntò una coda, liscia a causa di alcuni fluidi, che si agitò in aria mentre Mikhail si metteva a quattro zampe. I muscoli continuarono a vibrare come corde di un'arpa, i nervi in fiamme. Fluidi dall'odore di muschio stillarono sulla pelliccia. I testicoli erano diventati come pietre dure ed erano coperti di peli. L'orecchio destro venne avvolto dai peli e cominciò a trasformarsi in una coppetta triangolare, ma l'orecchio sinistro ebbe un problema: rimase quello di un ragazzo umano. Il dolore aumentò, sfiorando quasi il piacere, e poi rapidamente si attenuò. Mikhail cercò di urlare a Franco per dirgli di strisciare via: aprì la bocca e il guaito acuto che ne uscì lo spaventò. Ringraziò Dio di non potersi vedere, ma lo stupore nell'occhio del berserker gli fece capire quanto bastava. Aveva fortemente voluto la trasformazione e adesso era avvenuta.
La vescica del ragazzo cedette, tracciando una striscia gialla nella neve bianca. Vide il lupo rosso ignorarlo e cominciare a piegarsi di nuovo su Franco; l'uomo era svenuto ed era incapace di difendersi. Mikhail balzò in avanti, aggrovigliò le zampe anteriori e posteriori e cadde sulla pancia. Si rialzò, tremante come un neonato. Urlò contro il berserker... emettendo un ringhio tenue che non catturò affatto l'attenzione del lupo rosso. Mikhail saltò goffamente sulla neve, perse l'equilibrio e cadde di nuovo, ma poi arrivò accanto al lupo e agì senza pensarci: aprì le fauci e gli affondò le zanne nell'orecchio. Quando l'animale ruggì e si allontanò torcendosi, Mikhail gli strappò l'orecchio fino alle radici carnose. Il berserker barcollò, stordito dal dolore. Mikhail aveva l'orecchio tra i denti; con la bocca piena di sangue, contrasse la gola e lo inghiottì. Il lupo rosso girava in cerchio furioso, azzannando l'aria. Mikhail si voltò, quasi perse di nuovo l'equilibrio sulle zampe per quanto agitava la coda, e corse via. Le zampe lo tradirono. Finì con il muso a terra, con una prospettiva bizzarra. Inciampò, scivolò e finì prono nella neve, si rialzò a fatica e cercò di fuggire, ma armonizzare i movimenti di quattro zampe era un mistero. Sentì il fiato rumoroso del berserker proprio dietro di sé e capì che stava per saltare; fintò a sinistra e deviò a destra, scivolando di nuovo e perdendo l'equilibrio. Il lupo rosso lo oltrepassò con un balzo, sollevando una folata di neve mentre lottava per cambiare direzione. Mikhail si rialzò a fatica, mentre gli si drizzavano i peli sul dorso; deviò di nuovo bruscamente, con la spina dorsale sorprendentemente flessibile. Sentì il rumore delle zanne quando l'altro lupo gli mancò di poco il fianco. Poi Mikhail, con le zampe tremanti, si voltò per affrontare la bestia rossa, con la neve che turbinava nell'aria fra loro. Il berserker corse verso di lui, sbuffando vapore e sangue. Mikhail piantò le zampe allargandole, mentre gli sembrava che il cuore stesse per esplodere. Il lupo rosso si aspettava che il nemico si spostasse di lato, quindi controllò la velocità e infilò le zampe nella neve, ma Mikhail indietreggiò sulle zampe posteriori come un essere umano e poi si scagliò in avanti. Spalancò le fauci, un movimento istintivo che non riuscì a ricordare di aver provocato. Le serrò sul muso del berserker e affondò le zanne attraverso il pelo e la carne, fino ad arrivare alla cartilagine e all'osso. Mentre mordeva in profondità, portò l'artiglio sinistro in alto a formare un arco e lo calò sull'unico occhio rimasto. La bestia urlò accecata e contorse il corpo per togliersi di dosso il picco-
lo lupo, ma Mikhail non mollò la presa. Il berserker si drizzò, esitò solo per un istante e poi si abbatté su Mikhail. Gallatinov sentì una costola spezzarsi e un dolore lancinante attraversarlo, ma la neve gli salvò di nuovo la colonna vertebrale. L'animale rosso lo sollevò di nuovo ma, mentre si ergeva più che poteva, Mikhail lasciò la presa sul muso sanguinante e si allontanò con difficoltà, con il dolore per la costola rotta che gli toglieva quasi completamente il fiato. Il berserker artigliò l'aria con furia cieca. Corse in circolo cercando di trovare Mikhail e batté il muso rosso contro il tronco di una quercia. Continuò stordito a girare in tondo, azzannando l'aria. Mikhail indietreggiò per dargli più spazio e si mise vicino a Franco, abbassando le spalle per alleviare il dolore alla gabbia toracica. Il lupo rosso lanciò una serie di grugniti furiosi sbuffando sangue, poi si girò a destra e a sinistra, cercando un odore con il naso frantumato. Una forma color ruggine sfrecciò sulla neve precipitandosi contro un fianco del berserker. Gli artigli di Renati strapparono brandelli di peli rossi e carne, e l'animale si ritrovò in un groviglio di aculei. Prima che la bestia furiosa riuscisse ad afferrarla, Renati si allontanò velocissima e si mise a girare in cerchio con cautela. Un altro lupo biondo e con gli occhi azzurri balzò contro l'altro fianco del berserker. era Alekza, che fece saettare un artiglio ferendo l'animale. Quando il lupo rosso si voltò per morderla, Alekza saltò via e Renati si precipitò ad afferrare tra i denti una delle zampe posteriori. Girò la testa e la spezzò. Poi Renati si allontanò mentre il lupo rosso barcollava su tre zampe. Alekza si lanciò in avanti, gli afferrò l'unico orecchio, lo strappò e poi danzò all'indietro. La bestia cercò di colpirla con gli artigli, ma i suoi movimenti stavano diventando lenti. Fece qualche passo in una direzione, si fermò e si diresse in un'altra, lasciandosi alle spalle sulla neve delle macchie brillanti color cremisi. Ma era forte. Mikhail rimase indietro e osservò mentre Renati e Alekza lo fiaccavano con mille morsi e graffi. Alla fine il berserker cercò di scappare, trascinandosi dietro la zampa rotta. Renati si precipitò su uno dei fianchi, gettandolo a terra, e gli ruppe una zampa anteriore tra le fauci mentre Alekza lo afferrava per la coda. Il lupo rosso cercò di alzarsi, ma Renati gli affondò gli artigli nel ventre aprendoglielo con una grazia che sembrò quasi leggiadra. Il lupo rosso tremò e rimase a contorcersi sulla neve bianca macchiata di sangue. Renati balzò in avanti, afferrando tra le zanne la gola priva di protezione. Il berserker non fece alcuno sforzo per difendersi. Mikhail vide Renati tendere i muscoli eleganti... poi lasciò la
presa sulla gola e si allontanò. Sia lei che Alekza guardarono Mikhail. All'inizio non capì. Perché Renati non gli aveva squarciato la gola? Ma poi gli fu tutto chiaro mentre i due lupi osservavano impassibili: gli stavano offrendo la preda. «Avanti», disse Franco con un sussurro stridulo. Si era seduto dritto, serrando le mani lacerate sulla spalla. Mikhail rimase sorpreso della novità: aveva capito la voce umana con la chiarezza di sempre. «Uccidilo», gli disse l'uomo. «È tuo». Renati e Alekza aspettarono mentre i fiocchi di neve fluttuavano a terra. Mikhail guardò i loro occhi: era quello che si aspettavano da lui. Avanzò goffo sulle zampe, scivolò e arrivò addosso al lupo rosso sconfitto. Il berserker era grande più del doppio di lui. Era un lupo vecchio, una parte del pelo era diventata ormai grigia. Aveva i muscoli ispessiti e scolpiti dalle lotte. Sollevò la testa rossa, come ad ascoltare il battito del cuore di Mikhail. Dai buchi che aveva al posto degli occhi stillava sangue e una zampa frantumata graffiava debolmente la neve. Sta chiedendo di morire, si rese conto Mikhail. Giace qui implorandolo. Il berserker fece un lamento profondo, il suono di un animale in gabbia. Mikhail sentì un sentimento affiorare in lui: non era ferocia, ma pietà. Piegò la testa verso il basso, posò le zanne sulla gola dell'animale e vi affondò con un morso. Il berserker non si mosse. Poi Mikhail tenne con le zampe il corpo della bestia e strappò verso l'alto. Non conosceva la sua forza: la gola si aprì come un pacco di Natale, da cui uscì un regalo lucente. Il berserker tremò e artigliò l'aria, forse lottando non contro la morte, ma contro la vita. Mikhail barcollò all'indietro, con la carne tra i denti e gli occhi velati dallo stupore. Aveva visto gli altri lacerare le gole delle prede, ma fino a quel momento non aveva mai compreso la sensazione di supremo potere che quell'atto dava. Renati sollevò la testa verso il cielo e cantò. Alekza aggiunse in armonia la sua voce più giovane e acuta, e la musica si librò sulla neve. Mikhail pensò di sapere il perché di quella canzone: un nemico era stato ucciso, il branco era vittorioso ed era nato un nuovo lupo. Sputò di bocca la carne del berserker, ma il sapore del sangue gli aveva acceso i sensi. Era tutto molto più chiaro: tutti i colori, i rumori, gli aromi erano ingigantiti a un'intensità che al tempo stesso lo entusiasmava e lo spaventava. Si rese conto che fino al momento della trasformazione aveva vissuto una vita in ombra; adesso si sentiva reale e pieno di forza, e quella forma con i peli neri e i muscoli doveva essere il suo vero corpo, non quell'involucro debole di un
ragazzo umano. Stordito dalla febbre del sangue, Mikhail danzò e saltò mentre i due lupi cantavano le loro arie. Poi anche lui sollevò la testa e aprì le fauci: ne uscì più un gracchiare che della musica, ma aveva tempo per imparare. Tutto il tempo del mondo. Poi la canzone svanì, le ultime note echeggiarono e Renati cominciò a ritrasformarsi in forma umana. Impiegò forse quarantacinque secondi per passare da un lupo elegante a una donna nuda con il seno sceso, poi si chinò accanto a Franco. Anche Alekza si trasformò e Mikhail la guardò affascinato. Gli arti si allungarono, il pelo biondo cambiò di nuovo nei lunghi capelli biondi in testa e nei peli dorati tra le gambe, sugli avambracci e sulle cosce; poi la ragazza si alzò, nuda e bellissima, con i capezzoli induriti dal freddo. Anche lei si mise accanto a Franco e Mikhail rimase a quattro zampe, accorgendosi che qualcosa all'altezza del suo inguine era diventato duro. Renati esaminò accuratamente la zampa maciullata dell'uomo e si accigliò. «Non va affatto bene, vero?», le chiese Franco con un filo di voce; Renati gli disse: «Zitto». La donna tremava, con la carne nuda coperta dalla pelle d'oca. Dovevano portare Franco all'interno prima di congelare tutti. Guardò Mikhail, il lupo. «Trasformati di nuovo», gli disse. «Adesso più che i denti ci servono le mani». Trasformarmi di nuovo? pensò Mikhail. Adesso che era così doveva tornare com'era? «Aiutami a sollevarlo», disse Renati ad Alekza, poi cercarono a fatica di far alzare l'uomo. «Avanti, aiutaci!», disse a Mikhail. Lui non voleva cambiare. Aveva paura di tornare indietro a quel corpo debole e privo di peli. Ma sapeva di doverlo fare... e mentre quella consapevolezza lo inondava, sentì la trasformazione portarlo in direzione inversa, lontano dal lupo e verso il ragazzo. Si rese conto che il cambiamento cominciava sempre prima nella mente. Vide la pelle liscia e bianca, le mani terminare con le dita invece degli artigli, il corpo sostenuto dritto da gambe lunghe. E così cominciò ad accadere, proprio come le immagini che aveva in mente... e i suoi peli neri, gli artigli e le zanne lo lasciarono. Provò un momento di grande dolore che lo fece finire in ginocchio: la costola rotta stava tornando quella di un ragazzo, ma era ancora spezzata e per un istante le estremità dentellate si sfregarono tra loro. Mikhail si tenne la carne con dita umane e, quando il dolore sparì, si alzò in piedi. Le gambe gli tremavano, minacciando di cedere. Le mascelle tornarono al loro posto e gli ultimi peli neri gli diedero molto prurito mentre si ritiravano nei po-
ri... Mikhail si trovò circondato da vapore. Sentì Alekza ridere. Guardò in basso e vide che né il dolore né il freddo gliel'avevano fatto diventare moscio. Si coprì, arrossendo in viso. Renati disse: «Non c'è tempo per questo. Aiutaci!» Lei e Alekza stavano cercando di portare Franco; Mikhail barcollò in avanti per aggiungere la sua debole forza. Trasportarono l'uomo al palazzo bianco; lungo la strada Mikhail recuperò il vestito e in tutta fretta se lo mise intorno al corpo. Gli abiti di Renati e Alekza giacevano sulla neve, appena fuori dalle mura del palazzo. Li lasciarono lì finché non ebbero portato Franco giù per le scale - cosa che non fu facile - mettendolo vicino al fuoco. Poi Renati salì a prendere i mantelli; mentre era via, Franco aprì gli occhi arrossati e afferrò il davanti del vestito di Mikhail. Avvicinò il viso del ragazzo al suo. «Grazie», gli disse. La mano gli scivolò via e l'uomo svenne di nuovo. Fortunatamente, visto che la gamba gli era stata quasi mozzata. Mikhail udì un movimento alle sue spalle. Sentì l'odore di lei, fresco come il mattino. Guardò indietro e il viso finì quasi premuto nei peli dorati tra le cosce di Alekza. La ragazza lo guardava dall'alto in basso, con gli occhi scintillanti alla luce rossastra. «Ti piace quello che vedi?», gli chiese a voce bassa. «Io...» L'inguine gli si ingrossò di nuovo. «Io... non lo so». Lei annuì e gli fece l'accenno di un sorriso. «Lo saprai presto. E quando avverrà, mi troverai ad aspettarti». «Oh, togliti dal viso del ragazzo, Alekza!», disse Renati entrando nella stanza. «È ancora un bambino!» Lanciò il vestito alla ragazza. «No», rispose Alekza, continuando a guardare Mikhail. «No, non lo è». Si infilò il mantello con un movimento sensuale, ma non chiuse le estremità. Mikhail la guardò negli Occhi e poi, con il volto infiammato, guardò di nuovo l'altra parte del corpo. «Ai miei tempi saresti stata bruciata sul rogo per quello che stai pensando», disse Renati alla ragazza. Poi spostò Mikhail di lato e si chinò di nuovo su Franco, premendo una manciata di neve contro le ossa frantumate della gamba. Alekza chiuse il mantello con dita agili, poi toccò i due solchi sulla schiena di Mikhail; guardò la macchia di sangue sulla punta delle dita prima di leccarla. Quasi quattro ore più tardi Wiktor e Nikita tornarono a casa. Avevano intenzione di raccontare agli altri com'era fallita la loro ricerca, perché il berserker aveva marchiato con le sue tracce ogni caverna e Wiktor e Niki-
ta erano stati sorpresi improvvisamente dai venti forti in una sporgenza stretta. Avevano intenzione di dire tutto questo, finché non videro l'enorme lupo rosso giacere morto nella neve e il rosso tutto intorno. Wiktor ascoltò con attenzione quando Renati gli disse che lei e Alekza avevano sentito l'ululato del berserker ed erano uscite, trovando Mikhail che combatteva trasformato. Wiktor non disse nulla, ma i suoi occhi brillarono d'orgoglio e da quel giorno non guardò più Mikhail vedendo un ragazzo inerme. Alla luce del fuoco Franco offrì la gamba destra all'estremità di un affilato pezzo di selce. Le ossa erano già rotte, quindi si trattava solo di tagliare attraverso i muscoli lacerati e qualche brandello di carne. Con il corpo che sudava, Franco afferrò le mani di Renati e serrò un bastone tra i denti, mentre Wiktor agiva. Mikhail aiutò a tenere fermo Franco. La gamba si staccò e giacque sulle pietre. Il branco si sedette intorno all'arto amputato discutendo, mentre l'odore del sangue profumava la stanza. Il vento aveva ricominciato a urlare all'esterno. Un'altra tormenta stava spazzando la Russia, la terra dell'inverno. Wiktor portò le ginocchia al mento e disse a voce bassa: «Cos'è il licantropo agli occhi di Dio?» Nessuno rispose. Nessuno poteva farlo. Dopo un po' Mikhail si alzò e salì le scale, premendosi una mano sul fianco ferito. Rimase in piedi in una grande stanza, lasciando che il vento lo colpisse mentre urlava attraverso le finestre rotte. La neve gli imbiancò i capelli e si ammassò sulle sue spalle, facendolo sembrare invecchiato nel giro di pochi secondi. Alzò lo sguardo verso il soffitto, dove c'erano alcuni angeli sbiaditi, e si asciugò il sangue dalle labbra. Il Brimstone Club l. La Germania era la nazione di Satana: di questo Michael Gallatin era sicuro. Mentre procedeva con Mouse su un carro di fieno, con i vestiti sporchi quasi quanto la loro pelle e i volti in parte nascosti dalla barba di più di due settimane, Michael osservava i prigionieri di guerra che abbattevano alberi ai due lati della strada. Erano quasi tutti emaciati e sembravano vecchi, ma la guerra riusciva a far sembrare anziani gli adolescenti. Indossavano uniformi da lavoro grigie e larghe, e roteavano le asce come macchine stanche. Alcuni soldati nazisti armati fino ai denti di mitragliette e fucili li sor-
vegliavano dall'alto di un camion. I militari fumavano e parlavano mentre i prigionieri lavoravano; in lontananza bruciava qualcosa... una coltre di fumo nero si stagliava all'orizzonte grigio in direzione est. Opera di una bomba, capì Michael. Gli alleati stavano aumentando i bombardamenti man mano che l'invasione si avvicinava. «Alt!» Un soldato avanzò nella strada davanti a loro; il guidatore del carro - un tedesco asciutto di nome Gunther, membro della Resistenza - tirò le redini del cavallo. «Fai scendere quei fannulloni!», urlò il soldato; era un giovane tenente molto entusiasta con le guance rosse e grasse come mele. «Abbiamo del lavoro per loro!» «Sono volontari», spiegò il tedesco con dignità, anche se indossava i vestiti scoloriti di un agricoltore. «Li sto portando a Berlino per conoscere la loro assegnazione». «Li sto assegnando a lavorare sulle strade», ribatté il tenente. «Avanti, falli scendere! Subito!» «Oh, cazzo», sussurrò Mouse sotto la barba marrone ispida e sporca. Michael era sdraiato nel fieno accanto a lui e più in là c'erano Dietz e Friedrich, altri due combattenti tedeschi della Resistenza che li scortavano da quattro giorni, cioè da quando avevano raggiunto il villaggio di Sulingen. Sotto il fieno erano nascoste tre mitragliette, due Luger, una mezza dozzina di bombe a mano e un lanciarazzi anticarro-panzerfaust con un proiettile esplosivo. Gunther cominciò a protestare, ma il tenente andò a grandi passi verso il retro del carro e urlò: «Fuori! Scendete tutti! Avanti, muovete quei culi pigri!» Friedrich e Dietz, rendendosi conto che era meglio obbedire che discutere con quel giovane Hitler, scesero dal carro. Michael li seguì e per ultimo uscì Mouse. Il tenente intimò a Gunther: «Adesso anche tu! Togli quel carro di merda dalla strada e seguimi!» Il combattente sferzò i fianchi del cavallo con le redini e diresse il carro sotto un boschetto di pini. L'ufficiale riunì Michael, Mouse, Gunther e gli altri due uomini vicino al camion, dove ricevettero delle asce. Gallatin si guardò intorno, contando tredici soldati tedeschi in aggiunta al giovane tenente. A tagliare i pini c'erano più di trenta prigionieri di guerra. «D'accordo!», abbaiò l'ufficiale, che sembrava uno schnauzer tosato di fresco. «Voi due laggiù!» Fece cenno a Michael e Mouse di andare sulla destra. «Gli altri da questa parte!» Gunther, Dietz e Friedrich si diressero a sinistra. «Ah... mi scusi, signore», chiese timidamente Mouse. «Ehm... che cosa dovremmo fare?»
«Abbattere gli alberi, naturalmente!» Il tenente socchiuse gli occhi e guardò l'uomo basso, sporco e con la barba marrone. «Sei cieco, oltre che stupido?» «No, signore. Mi chiedevo solo perché...» «Tu devi solo obbedire agli ordini! Vai e mettiti al lavoro!» «Sì, signore». Mouse impugnò l'ascia e superò arrancando l'ufficiale, seguito da Michael. Gli altri andarono dalla parte opposta della strada. «Ehi!», urlò il tenente. «Mezzatacca!» Mouse si fermò spaventato. «L'unico modo in cui l'esercito tedesco può usarti è di infilarti in un cannone e spararti!» Alcuni soldati risero, considerando quella frase una battuta divertente. «Sì, signore», rispose Mouse e procedette nel boschetto sfoltito. Michael scelse un posto tra due prigionieri, poi cominciò a lavorare d'ascia. I due non interruppero il lavoro né mostrarono di essersi accorti della sua presenza. Schegge di legno volavano nell'aria fresca del mattino e l'odore della linfa degli alberi si mischiava a quello del sudore dovuto allo sforzo. Gallatin notò che molti prigionieri indossavano Stelle di David gialle appuntate sulle uniformi da lavoro. Erano tutti maschi, sporchi, macilenti e avevano tutti lo stesso sguardo vitreo. Si erano annullati nei loro ricordi, almeno per il momento, e le asce roteavano a un ritmo meccanico. Michael abbatté un albero sottile e indietreggiò per asciugarsi il viso con l'avambraccio. «Non fare il lavativo!», disse un altro soldato in piedi dietro di lui. «Io non sono un prigioniero», gli disse Michael. «Sono un cittadino del Reich. Mi aspetto di essere trattato con rispetto... ragazzo», aggiunse, dato che il soldato poteva avere al massimo diciannove anni. Il soldato lo guardò in cagnesco; ci fu un momento di silenzio, rotto solo dal rumore delle lame che impattavano il legno, poi il ragazzo borbottò e continuò a camminare lungo la linea degli uomini che lavoravano, stringendo tra le mani una mitraglietta Schmeisser. Michael tornò al lavoro, con la lama dell'ascia che sembrava una macchia indistinta color argento. Digrignò i denti sotto la barba. Era il 22 aprile; erano passati diciotto giorni da quando lui e Mouse avevano lasciato Parigi, avviandosi lungo la strada che Camille e la Resistenza francese avevano scelto per loro. Nel corso di quei diciotto giorni avevano viaggiato attraverso il regno di Hitler su un carro, un carretto trainato da buoi, un treno merci, a piedi e su una barca a remi. Avevano dormito in scantinati, soffitte, grotte, nella foresta e in nascondigli dentro le pareti, e avevano mangiato qualunque cosa offerta da chi li aiutava. In alcuni casi sarebbero
morti di fame se Michael non avesse trovato il modo di scivolare via, togliersi i vestiti e cacciare un po' di selvaggina. Tuttavia sia Gallatin che Mouse erano dimagriti ciascuno di cinque chili, avevano gli occhi incavati e l'aspetto di chi ha fame. Ma del resto era lo stesso per la maggior parte dei civili che Michael aveva visto: le razioni di cibo andavano ai soldati di stanza in Norvegia, Olanda, Francia, Polonia, Grecia, Italia e naturalmente a quelli che combattevano per salvarsi la vita in Russia, e gli abitanti della Germania si avvicinavano alla morte ogni giorno un po' di più. Hitler poteva essere fiero della sua volontà di ferro, ma era il suo cuore di ferro che stava distruggendo il paese. E il pugno di ferro?, si chiese Michael mentre la lama scagliava schegge in aria. Aveva menzionato quell'espressione a parecchi agenti tra Parigi e Sulingen, ma nessuno aveva avuto la minima idea di cosa potesse significare. Però erano stati tutti d'accordo nel dire che come nome in codice rientrava nello stile di Hitler: come la volontà e il cuore, anche il suo cervello doveva essere fatto del medesimo metallo. Qualunque cosa fosse il pugno di ferro, Michael doveva scoprirlo. Con l'avvicinarsi di giugno e l'invasione imminente, sarebbe stato un suicidio per gli alleati prendere d'assalto le spiagge senza sapere perfettamente cosa si sarebbero trovati ad affrontare. Gallatin abbatté un altro albero. Berlino si trovava a poco meno di cinquanta chilometri a est. Erano arrivati fin lì, attraverso una terra piena di buche e infiammata di notte per gli scoppi delle bombe, evitando pattuglie delle SS, autoblindo e abitanti sospettosi, per venire infine bloccati da un tenente in erba interessato ad abbattere pini. Echo doveva contattare Michael a Berlino - il tutto sempre organizzato da Camille - e a quel punto ogni ritardo era cruciale. Meno di cinquanta chilometri... e le asce continuavano a roteare. Mouse abbatté il primo albero e lo guardò cadere. Ai suoi fianchi i prigionieri lavoravano a ritmo costante. L'aria era piena di pezzetti di legno pungenti. Il cuoco si riposò appoggiandosi all'ascia. Nel profondo della foresta un picchio imitava il rumore delle asce, quasi a voler prendere in giro gli uomini. «Avanti, mettiti al lavoro!», disse un soldato che gli arrivò accanto con un fucile in mano. «Mi riposo per un minuto. Io...» Il soldato gli diede un calcio al polpaccio destro, abbastanza forte da formare un livido ma non tanto da fargli perdere l'equilibrio. Mouse sobbalzò e vide il suo amico - l'uomo che conosceva solo come Occhi Verdi smettere di lavorare e guardarli. «Ti ho detto di metterti al lavoro!», ordinò il militare senza preoccuparsi
minimamente del fatto che Mouse fosse un tedesco. «D'accordo, d'accordo». Il cuoco sollevò di nuovo l'ascia e si addentrò zoppicando nel bosco. Il soldato lo seguì da vicino, cercando un'altra scusa per dargli un calcio. Gli aghi di pino graffiarono il viso dell'uomo basso, che spinse i rami di lato per arrivare al tronco. Fu allora che vide due piedi grigi mummificati pendergli davanti al volto. Alzò sconcertato lo sguardo. Il cuore gli cedette per un attimo. Dal ramo pendeva un uomo morto, grigio come la barba di Giona, con una corda stretta intorno al collo rotto e la bocca spalancata. Aveva i polsi legati dietro le spalle e indossava abiti ormai del colore del fango primaverile. Era difficile dire l'età che aveva avuto al tempo della morte, anche se i suoi capelli erano ricci e rossi, tipici di un giovane. Non aveva più gli occhi, che erano stati mangiati dai corvi, e anche alcuni pezzi delle guance erano stati strappati via. Era un involucro ossuto e rinsecchito; intorno al collo aveva un filo metallico che reggeva un cartello con la scritta sbiadita HO DISERTATO DALLA MIA UNITÀ. Al di sotto qualcuno aveva scarabocchiato con una penna nera E sono tornato a casa dal Diavolo. Mouse udì qualcuno strozzarsi. Si rese conto che era la sua gola a produrre quel suono. Gli sembrò di sentire il cappio che la stringeva. «Allora? Non restare lì in piedi come un allocco. Tiralo giù». Mouse guardò il soldato. «Io? No... la prego... non posso...» «Avanti, mezzatacca. Renditi utile». «La prego... mi sentirò male...» Il soldato si irrigidì, pronto a tirare un altro calcio. «Ti ho detto di tirarlo giù. Non te lo ripeterò, piccolo...» Venne spinto di lato, inciampò sulla parte inferiore di un albero tagliato e finì a terra sul sedere. Michael alzò le mani, afferrò le caviglie del cadavere e diede un forte strattone. Quasi tutta la corda si sfilacciò, fortunatamente prima che la testa del cadavere si staccasse. Tirò di nuovo e la corda si ruppe. Il cadavere cadde finendo ai piedi di Mouse, dove rimase come un pezzo di pelle lucente. «Maledetto!» Il soldato balzò in piedi con il viso arrossato, tolse con il pollice la sicura al fucile Karabiner e spinse la canna contro il petto di Gallatin. Aveva il dito sul grilletto. Michael non si mosse. Fissò l'altro uomo negli occhi, vide che erano quelli di un bambino irritato e nel suo miglior accento bavarese, dato che i documenti nuovi lo identificavano come un allevatore di maiali di quella
zona, disse: «Risparmia il proiettile per i russi». Il soldato sbatté le palpebre, ma lasciò il dito sul grilletto. «Mannerheim!», urlò il tenente avanzando a passi lunghi. «Metti giù quel fucile, brutto stupido! Sono tedeschi, non slavi!» Il soldato obbedì subito. Inserì di nuovo la sicura ma continuò a guardare Michael con viso arcigno. L'ufficiale si mise tra i due. «Avanti, tieni d'occhio quelli», disse a Mannerheim indicando un altro gruppo di prigionieri. Il soldato si allontanò e l'ufficiale dalle guance paffute rivolse la sua attenzione a Michael. «Non devi toccare i miei uomini, capito? Potevo lasciare che ti sparasse e sarebbe stato nel mio diritto». «Siamo entrambi dalla stessa parte», gli ricordò Gallatin fissandolo. «Vero?» Il tenente rimase in silenzio. Troppo a lungo. Aveva capito che il suo accento era falso? si chiese Michael sentendosi gelare il sangue. «Fammi vedere il tuo permesso di viaggio», disse l'ufficiale. Michael infilò una mano nel cappotto marrone sporco di fango e consegnò i documenti. Il tenente li aprì ed esaminò attentamente le parole scritte a macchina. Nell'angolo inferiore destro c'era un sigillo, proprio sotto la firma del curatore dei permessi. «Allevatore di maiali», mormorò il tedesco scuotendo la testa. «Mio Dio, siamo arrivati a questo?» «So combattere», disse Michael. «Ne sono certo. Potresti doverlo fare, se il fronte russo venisse sfondato. Quegli sporchi bastardi non si fermeranno finché non arriveranno a Berlino. Per quale servizio ti offri volontario?» «Per macellare», rispose Gallatin. «Immagino che tu abbia esperienza in questo, vero?» Il tenente guardò con disgusto i vestiti sporchi di Michael. «Hai mai sparato con un fucile?» «No, signore». «E perché non ti sei offerto volontario prima?» «Stavo allevando i miei maiali». Un movimento catturò l'attenzione dell'inglese: alle spalle del tenente vide un soldato camminare verso il carro di fieno di Gunther, dov'erano nascoste le armi. Sentì Mouse tossire e capì che anche lui l'aveva visto. «Diavolo», disse il tenente, «hai quasi l'età di mio padre». Michael osservò il soldato che si avvicinava al carro di fieno e si sentì drizzare i peli sulla nuca. Poi il tedesco vi salì e si adagiò sul fieno a dormire. Molti altri soldati fischiarono e urlarono per schernirlo, ma lui rise e si tolse l'elmetto, tenendosi la testa tra le mani. Michael vide tre militari
seduti nella parte posteriore del camion e gli altri sparsi tra i prigionieri. Guardò verso Gunther, che era dal lato opposto della strada. Il membro della Resistenza aveva smesso di usare l'ascia contro un albero e stava fissando il soldato che giaceva ignaro sopra un arsenale. «Sembri in forma. Non penso che al servizio di macelleria dispiacerà se abbatterai alberi con il mio reparto per qualche giorno». Il tenente piegò i documenti e glieli restituì. «Dobbiamo allargare questa strada per i carri armati. Quindi vedi? Svolgerai il tuo servizio per il Reich e non dovrai nemmeno sporcarti le mani di sangue». Qualche giorno, pensò Gallatin deciso. No, non poteva assolutamente aspettare. «Tornate entrambi al lavoro», ordinò il tenente. «Quando sarà finito, potrete andare dove vorrete». Gallatin vide il soldato nel carro spostarsi cercando di mettersi più comodo. L'uomo stava pareggiando il fieno e se avesse sentito una delle armi che erano nascoste sotto... Non c'era tempo per aspettare di vedere se scopriva i fucili. L'ufficiale stava tornando al camion, fiducioso nel suo potere di persuasione. Michael afferrò il gomito di Mouse e lo tirò verso la strada. «Tieni la bocca chiusa», lo ammonì. «Ehi, voi!», gridò uno degli altri soldati. «Chi vi ha detto di smettere?» «Abbiamo sete», spiegò Gallatin mentre il tenente ascoltava. «Abbiamo una borraccia nel carro. Sicuramente possiamo bere un po' d'acqua prima di continuare...» Il tenente fece cenno ai due di proseguire e salì sulla cuccetta del camion per riposare le gambe. Michael e Mouse attraversarono la strada mentre i prigionieri continuavano ad abbattere i pini, e gli alberi continuavano a cadere. Gunther guardò Gallatin con gli occhi spalancati e spaventati; Michael vide il soldato sul carro infilare una mano nel fieno per vedere cosa gli dava fastidio alla schiena. Mouse sussurrò con tono d'urgenza: «Ha trovato le...» «Ah-ha!», urlò il soldato mentre le sue dita trovavano l'oggetto e lo tiravano fuori. «Guardi cosa ci stavano nascondendo questi cani, tenente Zeller!» Alzò una mano, sollevando la bottiglia mezza piena di schnapp che aveva scoperto. «Gli allevatori sanno nascondere i loro segreti», disse l'ufficiale. Si alzò in piedi. Gli altri soldati guardarono ansiosi. «Ci sono altre bottiglie lì dentro?»
«Aspetti, guardo». Il soldato cominciò a scavare nel fieno. Michael aveva raggiunto il carro, lasciando Mouse indietro di circa sei passi. Fece cadere l'ascia, affondò un braccio nel fieno e chiuse le mani su un oggetto che sapeva dove trovare. Disse: «Ecco qualcosa per la vostra sete», mentre tirava fuori la mitraglietta e toglieva la sicura. Il giovane soldato lo guardò meravigliato con gli occhi blu come un fiordo norvegese. Michael gli sparò senza esitare: i proiettili lo colpirono al petto facendo ballare il corpo come una marionetta. Subito dopo aver sparato la prima raffica, Gallatin si girò, mirò verso i soldati sul retro del camion e aprì il fuoco. Le asce smisero di tagliare; per un istante sia i prigionieri che i soldati tedeschi rimasero immobili come statue dipinte. Poi scoppiò il pandemonio. I tre soldati sul camion finirono a terra con i corpi crivellati. Il tenente Zeller si gettò contro le assi del pavimento mentre i proiettili gli fischiavano intorno e cercò di prendere la pistola che teneva nella fondina. Un soldato in piedi vicino a Gunther alzò il fucile per sparare a Michael, ma il membro della Resistenza gli affondò l'accetta tra le scapole. I suoi due compagni sollevarono le asce per colpire altri due soldati: Dietz ne decapitò uno, ma Friedrich ricevette un colpo a bruciapelo che gli trapassò il cuore prima che riuscisse a colpire il nemico. «Abbassati!», urlò Michael a Mouse, che era rimasto stordito in piedi nella linea di fuoco. Il cuoco aveva gli occhi blu spalancati e fissava il tedesco morto che giaceva in mezzo al fieno. Non si mosse. Michael avanzò e gli diede un colpetto allo stomaco con il calcio della mitraglietta, l'unica cosa che gli venne in mente di fare; l'uomo si piegò su se stesso e cadde in ginocchio. Il proiettile di una pistola staccò un pezzo di legno dal carro accanto a Gallatin e scalfì il fianco del cavallo, facendo urlare e impennare l'animale. Michael si mise in ginocchio e sparò una lunga raffica contro il camion, facendo scoppiare le gomme e mandando in frantumi il parabrezza e il lunotto posteriore, ma Zeller si resse alle tavole del pavimento. Gunther colpì di nuovo con l'ascia, mozzando il braccio di un soldato che stava per sparargli con una Schmeisser. Quando il militare cadde dimenandosi per il dolore, Gunther raccolse l'arma e annaffiò di pallottole altri due soldati che stavano correndo verso gli alberi per cercare riparo. Entrambi barcollarono e caddero a terra. Un proiettile di una pistola superò la testa di Michael fischiando, ma Zeller stava sparando senza prendere la mira. Gallatin allungò una mano oltre il bordo del carro e cominciò a cer-
care nel fieno. Un altro proiettile sollevò una tempesta di schegge di legno che gli finirono sul viso: una si conficcò nella carne a meno di tre centimetri dall'occhio sinistro. Ma Michael trovò quello che cercava, lo estrasse, si abbassò e strappò la spilla di sicurezza della bomba a mano. Zeller urlò a chiunque potesse ancora sentirlo: «Uccidete l'uomo vicino al carro! Uccidete quel figlio di...» Michael lanciò la bomba. Colpì il terreno vicino al camion, rimbalzò e vi rotolò sotto. Poi Gallatin si gettò sul corpo di Mouse e si coprì la testa con le braccia. La bomba esplose con un cupo whump! sollevando il veicolo sulle gomme sgonfie. Si scatenarono fiamme arancioni e viola, tanto violente da scaraventare il camion di lato in una colonna di fuoco. Si rovesciò, e il suono del metallo che si contorceva venne seguito da una seconda esplosione quando la benzina e l'olio si incendiarono. Nel cielo si alzò una colonna di fumo nero con un nucleo centrale vermiglio. Zeller non sparò più. Una pioggia di tessuto bruciato e di metallo ricadde a terra; il cavallo strattonò le redini liberandosi dal ramo a cui l'aveva legato Gunther e poi fuggì di corsa lungo la strada. Gunther e Dietz, che aveva raccolto il fucile di un soldato morto, erano inginocchiati tra gli alberi abbattuti e spararono ai quattro soldati che erano sfuggiti alla prima scarica di proiettili. Uno dei militari si fece prendere dal panico, si alzò da terra e scappò; Dietz gli sparò in testa prima che riuscisse a fare tre passi. Poi due prigionieri corsero in avanti in mezzo ai soldati rimasti, usando finalmente le asce come volevano. Entrambi vennero uccisi a colpi di arma da fuoco prima che riuscissero a finire il lavoro, ma altri tre uomini presero il loro posto. Le asce si alzarono e ricaddero, le lame macchiate di rosso scarlatto. Risuonò un ultimo colpo, sparato in aria da una mano che cadeva. Si sentì un ultimo grido, poi le asce si fermarono. Michael si alzò in piedi recuperando la mitraglietta che aveva gettato di lato. Era ancora calda, come un forno. Gunther e Dietz uscirono dal loro riparo e cominciarono a ispezionare rapidamente i corpi: si sentirono divampare alcuni colpi di pistola mentre finivano i feriti. Gallatin allungò una mano verso il basso e tirò la spalla di Mouse. «Stai bene?» Il tedesco si drizzò a sedere ancora stordito e con gli occhi che lacrimavano. «Mi hai colpito», ansimò. «Perché l'hai fatto?» «Meglio un colpetto che una pallottola. Riesci a stare dritto?» «Non lo so». «Sì che ci riesci», disse Michael trascinandolo in piedi. Mouse aveva
ancora in mano l'ascia e la teneva talmente stretta che le nocche gli erano diventate bianche. «Sarà meglio andarcene da qui prima che arrivino altri tedeschi», gli disse Gallatin; si guardò intorno, aspettandosi di vedere i prigionieri sparire nel bosco, ma quasi tutti restarono seduti a terra, come ad aspettare il prossimo camion carico di nazisti. Attraversò la strada seguito a distanza di qualche passo da Mouse, e si avvicinò a un uomo magro e con la barba nera che aveva fatto parte della squadra per abbattere gli alberi. «Cosa c'è che non va?», chiese Michael. «Siete liberi adesso. Potete andarvene, se volete». L'uomo sorrise debolmente, mostrando il viso teso sulle ossa sporgenti. «Liberi», sussurrò con un forte accento ucraino. «Liberi. No». Scosse la testa. «Non credo proprio». «C'è il bosco. Perché non andate lì?» «Andare?» Un altro uomo ancora più magro si alzò. Aveva la mascella sporgente ed era stato rasato tanto da sembrare quasi calvo. Parlò con l'inflessione di un russo del Nord. «Andare dove?» «Non lo so. Però... lontano da qui». «Perché?», chiese l'uomo con la barba nera. Inarcò le sopracciglia folte. «I nazisti sono ovunque. Questo è il loro paese. Dove possiamo andare perché non ci diano più la caccia?» Michael non riusciva a capire; era completamente contro la sua natura che qualcuno le cui catene erano state spezzate non cercasse di evitare che gli venissero messe di nuovo. Si rese conto che quegli uomini erano prigionieri da lunghissimo tempo. Avevano dimenticato il significato della libertà. «Non pensate che ci sia la possibilità che riusciate a...» «No», lo interruppe il prigioniero calvo e con gli occhi neri che guardavano assenti. «Nessuna possibilità». Mentre Gallatin parlava con gli uomini, Mouse si era appoggiato a un pino poco distante. Si sentiva nauseato e pensava di svenire per l'odore del sangue. Non era un combattente. Che Dio mi aiuti a tornare a casa, pregò. Aiutami solo a torn... Uno dei tedeschi morti si drizzò improvvisamente a sedere a circa due metri e mezzo da lui. Una pallottola gli aveva attraversato un fianco e aveva il viso cereo. Il cuoco vide che era Mannerheim. Notò anche che il soldato stava allungando una mano per prendere una pistola che gli giaceva accanto: la sollevò e la puntò contro la schiena di Occhi Verdi. Mouse fu sul punto di urlare, ma la sua voce gracchiò, incapace di richiamare energia sufficiente per farlo. Il dito di Mannerheim era sul gril-
letto. La mano gli tremò... cercò di tenerla ferma con l'altra, che era coperta di rosso. Mannerheim era un tedesco. Occhi Verdi era... chiunque fosse. La Germania era la patria di Mouse. HO DISERTATO DALLA MIA UNITÀ. Mezzatacca. E sono tornato a casa dal Diavolo. Nel giro di un istante tutti quei pensieri turbinarono nella mente del cuoco. Il dito del soldato cominciò a premere il grilletto. Occhi Verdi stava ancora parlando. Perché non si voltava? Perché non... Il tempo era scaduto. Mouse si sentì urlare - il grido di un animale - e avanzò a grandi passi conficcando con forza la lama dell'ascia nel cranio di Mannerheim. La mano che teneva la pistola sobbalzò lasciando partire un colpo. Michael sentì il ronzio di una vespa oltrepassargli la testa. Tra gli alberi un ramo alto si spezzò e cadde a terra. Gallatin si voltò e vide Mouse che teneva il manico dell'ascia, mentre la lama era conficcata nella testa di Mannerheim. Il corpo del soldato crollò in avanti; il cuoco allontanò la mano dall'ascia come se si fosse scottato. Poi cadde in ginocchio a terra e vi rimase con la bocca semiaperta e un rivolo di saliva che gli pendeva dal mento, finché Michael non lo aiutò ad alzarsi. «Mio Dio», sussurrò Mouse. Sbatté le palpebre sugli occhi arrossati. «Ho ucciso un uomo». Calde lacrime gli sgorgarono, rigandogli le guance. «Puoi ancora scappare», disse Gallatin al prigioniero con la barba nera, mentre il peso di Mouse gli si appoggiava contro. «Oggi non mi va di correre», fu la risposta. L'uomo alzò lo sguardo verso il cielo color peltro. «Forse domani. Voi andate. Diremo...» Si interruppe, poi gli venne in mente come concludere la frase. «Diremo che gli alleati sono sbarcati», disse sorridendo con aria sognante. Michael, Mouse, Gunther e Dietz si lasciarono i prigionieri alle spalle. Continuarono lungo la strada, tenendosi nel bosco, e trovarono il carro di fieno circa mezzo chilometro più in là. Il cavallo stava tranquillamente mangiando l'erba in un prato bagnato dalla rugiada. Si allontanarono il più rapidamente possibile, mentre un fumo nero di distruzione velava l'orizzonte a occidente e a oriente. Mouse era seduto e fissava nel vuoto, cercando di parlare ma non riuscendo a produrre nessun suono; Michael guardava davanti a sé, cercando di scacciare l'immagine del volto del giovane soldato immediatamente prima che lui lo uccidesse. Tutti avevano bevuto un sorso dalla bottiglia di schnapp che era rimasta intatta durante la sparatoria, poi era stata messa sotto il fieno. In quel periodo l'alcool era un bene preziosissimo.
Continuarono... e ogni giro delle ruote li portava più vicino a Berlino. 2. Michael aveva visto Parigi con il sole; adesso vedeva Berlino in una grigia semioscurità. Era una città enorme e in continua espansione. Odorava di chiuso e di terra, come uno scantinato dove da lungo tempo non penetrava la luce. Sembrava anche vecchia, con gli edifici robusti tutti dello stesso tono grigio. Gallatin pensò alle lapidi di un cimitero umido in cui crescevano dei funghi mortali. Attraversarono il fiume Havel nel distretto Spandau e dall'altra parte furono costretti immediatamente ad abbandonare la strada per una colonna di Kubelwagen e di camion che trasportavano truppe diretti a ovest. Dall'Havel si alzava un vento freddo che faceva schioccare le bandiere naziste sbiadite sui pali dei lampioni. Il selciato era segnato dai cingolati dei carri armati. Nel panorama della città si notavano sbuffi di fumo nero che salivano dai camini e che venivano trasformati dal vento in punti interrogativi. I muri di pietra delle case a schiera erano pieni di manifesti e proclami strappati, tra cui RICORDARE GLI EROI DI STALINGRADO, AVANTI VERSO MOSCA, GERMANIA VITTORIOSA OGGI GERMANIA VITTORIOSA DOMANI. Erano epitaffi su pietre tombali, pensò Michael; Berlino era un cimitero pieno di fantasmi. Naturalmente c'erano persone per le strade, nelle macchine, nei negozi di fiori, nei cinema e nelle sartorie, ma non c'era vitalità. Berlino non era una città di sorrisi; Michael notò che le persone continuavano a guardarsi alle spalle, temendo ciò che si stava avvicinando da est. Gunther li portò per le strade eleganti del distretto di Charlottenburg dove dimore modellate come castelli elaborati ospitavano duchi e baroni altrettanto bizzarri - per poi dirigersi verso la parte interna della città, distrutta dalla guerra. Le file di case si ammassavano, strutture dall'aspetto triste con le tende che oscuravano tutto: quelle erano strade in cui duchi e baroni non avevano alcun potere. Michael notò una cosa strana: in giro si vedevano solo persone anziane e bambini, nessun giovane tranne i soldati che passavano veloci nei camion o sulle motociclette, e che avevano volti giovani ma sguardo da vecchi. Berlino era in lutto, perché la sua gioventù era morta. «Dobbiamo portare il mio amico a casa», disse Michael a Gunther.
«Gliel'ho promesso». «Mi è stato ordinato di portarvi in un rifugio. È lì che sto andando». «Ti prego», disse Mouse con voce tremante. «Ti prego... la mia casa non è lontana da qui. È nel distretto di Tempelhof, vicino all'aeroporto. Vi mostrerò io la strada». «Mi dispiace», rispose Gunther. «I miei ordini sono...» Michael gli serrò una mano sulla nuca. Il tedesco era stato un ottimo compagno, ma Gallatin non voleva discutere. «Sto cambiando i tuoi ordini. Possiamo andare al rifugio dopo aver portato il mio amico a casa. Fallo, o passami le redini». «Non sapete il rischio che state correndo!», ribatté Dietz. «E anche noi! Abbiamo appena perso un amico per colpa vostra!» «Allora scendi e vattene», gli disse Michael. «Avanti. Scendi». Dietz esitò. Anche lui era uno straniero a Berlino. Gunther disse con voce calma: «Cazzo», e schioccò le redini. «D'accordo. In che punto di Tempelhof?» Mouse gli diede entusiasta l'indirizzo e Michael lasciò la presa sul collo del tedesco. Poco più avanti cominciarono a vedere edifici distrutti. I bombardieri pesanti americani B-17 e B-24 avevano consegnato il loro carico e le macerie ricoprivano le strade. Alcuni edifici erano irriconoscibili, ridotti a mucchi di pietre e pezzi di legno; altri erano aperti in due ed erano crollati sotto la forza delle bombe. Una nuvola di fumo aleggiava vicino alla strada. Il buio era ancora più fitto, e nel crepuscolo i centri rossi dei mucchi di macerie che bruciavano lentamente brillavano come nell'Ade. Superarono un'area in cui alcuni civili con i visi e i vestiti sporchi stavano cercando tra i resti di un edificio distrutto. Lingue di fuoco lambivano il legno caduto; una donna anziana singhiozzava mentre un vecchio cercava di consolarla. I cadaveri coperti da un lenzuolo erano stati disposti a terra lungo il marciapiede spaccato, con la tipica geometria precisa dei tedeschi. «Assassini!», urlò la donna anziana, ma Michael non riuscì a capire se stava guardando verso il cielo o in direzione della cancelleria di Hitler nel cuore di Berlino. «Che Dio vi maledica, assassini!», gridò, poi singhiozzò di nuovo portandosi le mani sul viso, non riuscendo a sopportare la vista delle macerie. Davanti al carro si apriva un panorama di distruzione. Da entrambi i lati della strada c'erano edifici esplosi, bruciati e crollati. Il fumo era ammassato in più strati ed era troppo denso perché il vento potesse disperderlo. Le
ciminiere di una fabbrica erano rimaste in piedi, ma la struttura era stata schiacciata come un bruco finito sotto uno stivale dalla suola di acciaio. Le macerie erano talmente alte che ostruivano la strada, costringendo Gunther a trovarne un'altra verso sud per andare a Tempelhof. In lontananza a ovest infuriava un grosso incendio che sputava turbinanti fiamme rosse. Le bombe devono essere cadute la notte prima, pensò Michael. Mouse si era accasciato con lo sguardo vitreo. Gallatin sollevò una mano per toccare la spalla del piccolo tedesco, ma poi la ritrasse. Non c'era niente da poter fare o dire. Gunther trovò la strada di Mouse e poco dopo fermò il carro davanti all'indirizzo che il cuoco gli aveva dato. La fila di case era stata costruita in pietra rossa. Non si vedevano incendi: le ceneri erano fredde e turbinarono nel vento, superando il viso di Mouse mentre scendeva dal carro e restava in piedi davanti ai resti dei gradini sulla facciata dell'edificio. «Non è questa!», disse il cuoco a Gunther. Aveva il volto lucido per il sudore freddo. «È l'indirizzo sbagliato!» Gunther non rispose. Mouse fissò quella che un tempo era stata la sua casa. Due muri e quasi tutti i pavimenti erano crollati. La scala centrale era bruciata e saliva nella struttura come una spina dorsale distorta. Un cartello vicino al buco frastagliato e bruciato dove un tempo si trovava la porta d'ingresso avvertiva PERICOLO! PROIBITA L'ENTRATA! C'era impresso il sigillo dell'ispettore all'edilizia del partito nazista. Mouse ebbe il desiderio terribile di ridere. Mio Dio! pensò. Ho fatto tutta questa strada e non mi lasciano entrare dentro la mia casa! Tra le macerie vide i frammenti blu di un vaso e ricordò che un tempo conteneva delle rose. Le lacrime gli bruciarono gli occhi. «Louisa!», gridò; il suono di quell'urlo terribile toccò l'anima di Michael. «Louisa! Rispondimi!» Una finestra si aprì nell'edificio bruciato dall'altra parte della strada e apparve un vecchio. «Ehi!», urlò. «Chi state cercando?» «Louisa Mausenfeld! Sa dove sono lei e le bambine?» «Hanno portato via tutti i corpi», rispose il vecchio scrollando le spalle. Mouse non l'aveva mai visto prima... in quell'appartamento prima viveva una coppia di anziani. «L'incendio è stato terribile. Vedete come ha bruciato questi mattoni?» Ne toccò uno per enfatizzare l'affermazione. «Louisa... le due bambine...», esitò; il mondo, un inferno brutale, gli girò intorno.
«Anche il marito è morto, in Francia», continuò il vecchio. «O almeno è quello che ho sentito dire. Sei un parente?» Mouse non rispose, ma emise un urlo angosciato che echeggiò tra le mura rimaste in piedi. Poi, prima che Michael potesse saltare giù dal carro per fermarlo, il piccolo cuoco corse su per la scala ridotta a uno scheletro, mentre i gradini bruciati si rompevano sotto il suo peso. Gallatin lo seguì rapido in un mondo di cenere e oscurità, sentendo il vecchio gridare: «Non potete entrare là dentro!» prima che la finestra si chiudesse. Mouse continuò a salire la scala. Il piede sinistro sfondò un fragile gradino; l'uomo lo liberò e continuò, afferrandosi alla ringhiera annerita per avere un punto di appoggio. «Fermo!», urlò Michael, ma Mouse non si arrestò. La scala tremò, una sezione della ringhiera improvvisamente si ruppe e cadde in mezzo ai detriti. Mouse rimase per un istante in equilibrio, poi afferrò il lato opposto del corrimano e continuò a salire. Raggiunse un pavimento a circa un metro e mezzo da terra e inciampò su una pila di travi bruciate, mentre le assi indebolite scricchiolavano sotto di lui. «Louisa!» Continuò in un dedalo di stanze che erano state aperte in due dalla distruzione, rivelando i beni di una famiglia morta: un forno coperto di fuliggine, del vasellame rotto e qualche piatto e tazza che erano sopravvissuti miracolosamente ai colpi, i resti di un tavolo di pino ormai bruciato fino ai piedi, il telaio di una poltrona da cui le molle fuoriuscivano come budella aggrovigliate, i resti della carta da parati sui muri gialli come chiazze di lebbra e con i quadrati più chiari nei punti in cui un tempo erano appesi dei quadri. Mouse entrò in tutte le camere, urlando i nomi di Louisa, Carla e Lucilla. Michael non riuscì a fermarlo, ma del resto sarebbe stato inutile provarci. Seguì il piccolo cuoco di stanza in stanza, abbastanza vicino da afferrarlo se fosse caduto attraverso il pavimento. Mouse entrò in quello che un tempo era il salotto: le assi del pavimento erano piene di buchi nei punti in cui i detriti infuocati erano caduti e le avevano attraversate. Il divano su cui Louisa e le bambine amavano sedersi era ridotto a un intrico bruciato di molle. E il pianoforte, il loro regalo di nozze da parte dei nonni di Louisa, era un orribile ammasso di tasti e cavi. Ma c'era ancora intatto il camino di mattoni bianchi che aveva scaldato Mouse e la sua famiglia in tante serate rigide. E c'era una libreria, anche se i libri rimasti erano pochi. Persino la sua sedia a dondolo preferita era sopravvissuta, anche se malamente bruciata. Era ancora lì, proprio come l'aveva lasciata. Poi Mouse guardò la parete vicino al camino; Michael lo sentì ansimare. Per qualche momento il cuoco non si mosse, poi attraversò lentamente il
pavimento crepitante e si diresse verso la croce di ferro incorniciata: la medaglia del figlio. Il vetro della cornice era incrinato. A parte questo, la croce di ferro era intatta. Mouse la tolse dal muro toccandola con reverenza e lesse l'iscrizione del nome e della data di morte del figlio. Il suo corpo tremò e lo sguardo brillò furioso. Due puntini rossi luminosi apparvero sulle guance pallide sopra la barba sporca. Mouse scagliò la croce di ferro contro la parete e nella stanza esplosero frammenti di vetro. La medaglia cadde a terra e tintinnò. L'uomo corse subito in avanti, la raccolse dal pavimento e si voltò - con il volto gonfio per la rabbia - per gettarla via da una finestra rotta. La mano di Michael gli serrò il pugno e lo strinse forte. «No», disse in tono fermo. «Non buttarla via». Il cuoco lo guardò incredulo, sbatté lentamente le palpebre e sentì il cervello appannarsi per la disperazione. Emise un gemito, simile al suono del vento che attraversava le rovine della casa. Poi sollevò l'altra mano, la chiuse a pugno e colpì Michael sulla mascella con quanta più forza poté. La testa dell'inglese finì all'indietro, ma l'uomo non mollò la presa, né cercò di difendersi. Mouse lo colpì di nuovo, poi una terza volta. Michael rimase a fissarlo, con gli occhi verdi infiammati e una goccia di sangue che gli usciva da un taglio sul labbro inferiore. Tirò indietro il pugno per colpirlo una quarta volta, ma vide la bocca di Gallatin tendersi, preparandosi al colpo. Improvvisamente tutta la forza abbandonò la spalla di Mouse, i muscoli cedettero di colpo e la mano si aprì. Diede uno schiaffo debole sul viso di Occhi Verdi, poi il braccio gli cadde su un fianco, gli occhi gli pizzicarono per le lacrime e le ginocchia si piegarono. Cominciò a cadere, ma Michael lo resse. «Voglio morire», sussurrò il piccolo tedesco. «Voglio morire, voglio morire, oh Dio ti prego, lasciami...» «Alzati», gli disse Michael. «Avanti, alzati». Le gambe di Mouse sembravano prive di ossa. Voleva cadere sul pavimento e restare lì finché il martello di Thor non avesse distrutto la terra. Sentì l'odore della polvere da sparo sui vestiti di Gallatin; quell'aroma acre riportò alla mente ogni terribile secondo della battaglia nella foresta di pini. Si allontanò a forza da Michael e barcollò all'indietro. «Stai lontano da me!», urlò. «Maledetto, vai all'inferno, stai lontano!» Gallatin non disse nulla. La tempesta stava arrivando... e avrebbe dovuto cambiare rapidamente direzione.
«Sei un assassino!», urlò Mouse. «Una bestia! Ho visto il tuo viso nel bosco. L'ho visto mentre uccidevi quegli uomini! Tedeschi! Il mio popolo! Hai sparato a quel ragazzo facendolo a pezzi e non hai fatto una piega!» «Non c'era tempo per farlo», disse Michael. «Ti è piaciuto!», continuò Mouse furioso. «Ti è piaciuto uccidere, vero?» «No. Non mi è piaciuto». «Oh Dio... Gesù... hai trasformato anche me in un assassino». Il viso del piccolo cuoco si contorse. Si sentì fatto a pezzi da una marea al suo interno. «Quel giovane... l'ho assassinato. L'ho ucciso. Ho ucciso un tedesco. Oh mio Dio». Si guardò intorno nella stanza devastata e pensò di sentire le urla della moglie e delle due figlie mentre le bombe le facevano saltare in aria. Si chiese dove fosse lui quando i bombardieri degli alleati avevano sganciato la morte sui suoi cari. Non aveva nemmeno una loro fotografia... tutti i suoi documenti, il portafoglio e le foto gli erano state tolte a Parigi. Quella crudeltà lo fece cadere in ginocchio. Rovistò in una pila di macerie bruciate e cominciò a cercare disperatamente una fotografia di Louisa e delle bambine. Michael si asciugò il sangue dal labbro inferiore con il dorso della mano. Mouse gettò i detriti da ambedue i lati, ma continuò a tenere serrata nel pugno la croce di ferro. «Cosa farai?», chiese Michael. «Siete stati voi a fare questo. Voi. Gli alleati. I vostri bombardieri. Il vostro odio per la Germania. Hitler aveva ragione. Il mondo teme e odia la Germania. Pensavo che fosse pazzo, ma aveva ragione». Mouse scavò più a fondo nei detriti; non c'erano foto, solo cenere. Avanzò carponi verso alcuni libri bruciati e cercò le fotografie che di solito stavano sugli scaffali. «Vi consegnerò ai nazisti, poi andrò in chiesa e implorerò il perdono. Mio Dio... ho ucciso un tedesco. Ho ucciso un tedesco con le mie mani». Singhiozzò e sul viso cominciarono a scendergli le lacrime. «Dove sono le foto? Dove sono le foto?» Michael si inginocchiò a pochi passi di distanza. «Non puoi restare qui». «Questa è la mia casa!», urlò Mouse con una forza che fece tremare le intelaiature vuote delle finestre. Aveva gli occhi iniettati di sangue e infossati. «È qui che vivo», disse, ma stavolta dalla gola giunse solo un sussurro. «Nessuno vive qui». Michael si alzò. «Gunther ci sta aspettando. È ora di andare».
«Andare? Andare dove?» Si stava comportando come il prigioniero russo che aveva ritenuto inutile scappare. «Tu sei una spia inglese e io sono un cittadino tedesco. Mio Dio... perché ho lasciato che mi convincessi? La mia anima sta bruciando. Oh Cristo, perdonami!» «È stato Hitler a provocare la caduta delle bombe che hanno distrutto la tua famiglia», disse Gallatin. «Pensi che nessuno abbia pianto per i morti quando gli aerei nazisti hanno bombardato Londra? Pensi che quelli di tua moglie e delle tue bambine siano gli unici corpi estratti da un edificio distrutto dalle bombe? Se è così, sei un pazzo». Parlò con calma e tranquillità, ma osservava Mouse con uno sguardo penetrante. «Varsavia, Narvik, Rotterdam, Sedan, Dunquerque, Creta, Leningrado, Stalingrado: Hitler ha disseminato cadaveri quanto più a nord, sud, est e ovest ha potuto spingersi. Centinaia di migliaia di persone per cui affliggersi, e tu piangi tra le macerie di una sola stanza». Scosse la testa, provando al tempo stesso pietà e disgusto. «La tua nazione sta morendo. Hitler la sta uccidendo, ma prima di finire il lavoro distruggerà quante più persone possibile. Tuo figlio, tua moglie e le tue figlie... cosa sono per Hitler? Hanno avuto importanza? Credo proprio di no». «Chiudi quella bocca!» Sulla barba di Mouse le lacrime brillavano.. . come diamanti falsi. «Mi dispiace che le bombe siano cadute qui», continuò Michael. «Mi dispiace che siano cadute a Londra. Ma quando i nazisti hanno assunto il potere e Hitler ha dato inizio a questa guerra, le bombe dovevano cadere da qualche parte». Mouse non rispose. Non riuscì a trovare alcuna foto fra le macerie e si sedette sul pavimento bruciato dondolandosi. «Hai parenti qui?», chiese Michael. Mouse esitò, poi scosse la testa. «Hai un posto dove andare?» Il cuoco scosse nuovamente la testa, poi tirò su con il naso e se lo asciugò. «Devo finire la mia missione. Puoi venire nel rifugio con me, se vuoi. Da lì Gunther potrebbe riuscire a farti uscire dal paese». «Questa è la mia casa», disse Mouse. «Sicuro?» Michael lasciò la domanda sospesa, ma non ci fu risposta. «Se vuoi vivere in un cimitero, sta a te deciderlo. Se vuoi alzarti e venire con me, puoi farlo. Io me ne vado». Gallatin gli voltò le spalle, attraversò le stanze distrutte dalle fiamme fino alla scala e scese in strada. Gunther e
Dietz stavano bevendo dalla bottiglia di schnapp; il vento era aumentato. Michael aspettò accanto all'entrata bruciata della casa. Decise che avrebbe concesso a Mouse due minuti. Se il cuoco non fosse uscito dall'edificio, allora avrebbe stabilito cosa fare. Era una situazione scomoda: Mouse sapeva troppo. Passò un minuto. Gallatin osservò due bambini rovistare in una pila di mattoni anneriti. Scoprirono un paio di stivali e uno dei due piccoli scacciò l'altro per prenderli. Michael sentì la scala scricchiolare e i muscoli rilassarsi. Mouse uscì dall'edificio nella luce grigia e tetra. Rivolse lo sguardo al cielo e poi verso gli altri edifici, come se li vedesse per la prima volta. «D'accordo», disse con voce stanca e priva di emozione. Aveva gli occhi cerchiati di rosso e gonfi. «Verrò con te». Michael e Mouse risalirono sul carro, Gunther schioccò le redini e il cavallo ormai zoppo si avviò. Dietz passò all'inglese la schnapp e Gallatin bevve, offrendola poi a Mouse. Il piccolo cuoco scosse la testa e continuò a fissare il palmo aperto della mano destra. Stringeva ancora la croce di ferro. Michael non sapeva cosa avrebbe fatto se Mouse non fosse uscito. L'avrebbe ucciso? Probabilmente. Non si perse tempo a pensarci. Era un professionista che faceva un lavoro sporco, e prima di tutto veniva la missione che aveva ormai a portata di mano. Il pugno di ferro. Frankewitz. Blok. Il dottor Hildebrand e la guerra chimica. E naturalmente Harry Sandler. Che legame avevano tra loro e qual era il significato dei buchi dei proiettili dipinti sul metallo verde? Doveva scoprirlo. Se falliva, lo stesso poteva avvenire per l'invasione alleata dell'Europa. Si appoggiò contro un fianco del carro e sentì nel fieno accanto a lui la sagoma di una mitraglietta. Mouse fissava la croce di ferro, ipnotizzato dal fatto che un oggetto tanto piccolo e freddo fosse l'ultima cosa che avesse significato nella sua vita. Poi chiuse la mano intorno alla medaglia e la fece scivolare in una tasca. 3. Il rifugio si trovava nel distretto di Neukolln a Berlino, una zona di fabbriche sudice e file di case ammassate lungo i binari della ferrovia. Gunther bussò alla porta di un edificio; aprì un giovane magro con i capelli castani tagliati corti e un viso affilato che sembrava non aver mai fatto un sorriso. Dietz e Gunther scortarono dentro le persone a loro affidate, su per
una scala fino al secondo piano, dove Michael e Mouse vennero portati in un salotto e lasciati soli. Una decina di minuti dopo entrò una donna di mezza età con i capelli grigi e ricci, portando un vassoio con due tazze di tè e alcune fette di pane di segale. Non fece domande e Michael non le chiese niente. I due uomini trangugiarono il tè e il pane. Le finestre del salotto erano coperte con delle tende scure. Una mezz'ora dopo che il tè e il pane erano stati serviti, Michael sentì il rumore di una macchina che si fermava all'esterno. Andò alla finestra, scostò la tenda e scrutò fuori. Stava scendendo la notte e non c'erano lampioni in strada. Gli edifici erano macchie scure nel buio. Ma Gallatin vide una Mercedes nera parcheggiata vicino al marciapiede e osservò l'autista scendere, girare intorno alla macchina e aprire la portiera al passeggero. Uscì la gamba ben tornita di una donna, poi il resto del corpo. La donna guardò il filo di luce che usciva dal bordo della tenda. Michael non riuscì a vederle il viso. Poi l'autista chiuse la portiera e Michael lasciò che la tenda tornasse a posto. Sentì delle voci provenire dal piano di sotto: erano quelle di Gunther e di una donna. Aveva un elegante accento tedesco, molto raffinato. C'era un tocco di aristocrazia nelle sue parole, ma anche una certa stranezza... un qualcosa che non riuscì a definire. Udì qualcuno salire le scale, poi la donna raggiunse la porta chiusa del salotto. Il pomello girò, la porta si aprì e la donna senza volto entrò nella stanza. Indossava un cappello nero e un velo che oscurava le sue fattezze. Portava una valigetta nera tra le mani ricoperte da guanti color ebano e un mantello di velluto nero sopra un vestito grigio scuro fermato da una spilla. Ma i capelli dorati sfuggivano da sotto il copricapo e le cadevano in boccoli sulle spalle. Era una donna slanciata e alta, forse un metro e settantacinque, e Michael scorse i suoi occhi brillare dietro il velo mentre lo sguardo si posava su di lui, poi su Mouse e poi di nuovo su di lui. La donna chiuse la porta dietro di sé. Gallatin sentì il suo profumo: l'aroma delicato della cannella e della pelle. «Sei tu l'uomo che devo incontrare», disse con il suo nobile accento tedesco. Era un'affermazione, diretta a Michael. L'inglese annuì. C'era qualcosa di strano in quell'accento... ma cosa? «Io sono Echo», disse la donna. Posò la valigetta nera sul tavolo e la aprì. «Il tuo compagno è un soldato tedesco. Cosa dobbiamo farne di lui?» «Non sono un soldato!», protestò Mouse. «Sono un cuoco! O almeno lo ero». Echo fissò Gallatin, con il volto impassibile dietro il velo. «Cosa dob-
biamo farne di lui?», ripeté. Michael capì cosa stava chiedendo. «Possiamo fidarci». «L'ultimo uomo che credeva di potersi fidare di tutti è morto. Hai portato con te una zavorra molto pericolosa». «Mouse... il mio amico... vuole uscire dal paese. Possiamo...» «No», lo interruppe Echo. «Non rischierò nessun mio amico per aiutare il tuo. Questo...» Lanciò un rapido sguardo al piccolo uomo; Michael riuscì a percepire il suo imbarazzo. «Questo Mouse è una tua responsabilità. Penserai tu a lui o devo farlo io?» Era un modo educato di chiedergli se l'avrebbe ucciso o se era uno dei suoi agenti a dover fare il lavoro. «Hai ragione», convenne Gallatin. «Mouse è una mia responsabilità e mi occuperò di lui». La donna annuì. «Lui viene con me», disse Michael. La donna rimase in silenzio per un momento... un silenzio di ghiaccio. Poi disse: «È impossibile». «No, non lo è. A Parigi ho contato su di lui e mi ha aiutato molto. Per quanto mi riguarda, ha dato prova di sé». «Non per me. E nemmeno tu. Se rifiuti di fare il tuo dovere, io rifiuto di lavorare con te». Chiuse la valigetta e si avviò verso la porta. «Allora lavorerò senza di te», disse Michael. Poi capì il perché del mistero dell'accento della donna: «E comunque non ho bisogno dell'aiuto di una yankee». La donna si fermò, stringendo con la mano guantata la manopola della porta. «Cosa?» «L'aiuto di una yankee. Non mi serve», ripeté. «Tu sei americana, vero? Si sente dal tuo accento. I tedeschi da queste parti devono avere le orecchie ricoperte di piombo per non sentirlo». Quell'affermazione sembrò pungerla sul vivo. Echo disse in tono gelido: «Per tua informazione, inglese, i tedeschi sanno che sono nata negli Stati Uniti. Adesso sono una cittadina di Berlino. Sei soddisfatto?» «Risponde alla mia domanda, ma di certo non mi soddisfa». Michael accennò un sorriso. «Immagino che il nostro amico comune di Londra ti abbia dato alcune informazioni su di me». A parte il fatto che camminava a quattro zampe, rifletté. «Sono bravo in quello che faccio. Come ho già detto, se rifiuti di aiutarmi farò il lavoro da sol...» «Morirai nel tentativo», lo interruppe Echo. «Forse. Ma il nostro amico comune deve averti detto che ti puoi fidare di me. Non sarei sopravvissuto in Nord Africa, se fossi stupido. Se affermo
che sarò responsabile per Mouse, dico sul serio. Mi occuperò io di lui». «E chi si occuperà di te?» «È una domanda a cui non ho mai dovuto rispondere», rispose Michael. «Aspettate un attimo!», intervenne Mouse accigliato, con gli occhi ancora gonfi per le lacrime. «Non pensate che debba dire la mia? Forse non voglio che vi prendiate cura di me! Chi diavolo ve l'ha chiesto? Lo giuro su Dio, stavo molto meglio in quella gabbia di matti! Almeno i loro discorsi erano sensati!» «Zitto!», disse subito Michael; Mouse era a un pelo da una pallottola. Il piccolo uomo imprecò sottovoce e Gallatin rivolse di nuovo la sua attenzione alla donna velata. «Mouse mi ha già aiutato. Può farlo di nuovo». Echo lo derise. «Non sono venuto a Berlino per uccidere un uomo che ha rischiato la sua vita per me», insistette Michael. «Ah... uccidere?» Il tedesco ansimò capendo il quadro della situazione. «Mouse viene con me». Michael fissò il velo. «Mi prenderò cura io di lui. E quando la missione sarà finita, ci aiuterai a uscire entrambi dalla Germania». Echo non rispose. Picchiettò con le dita sulla valigetta nera mentre rifletteva. «Allora?», la incitò Michael. «Se il nostro amico comune fosse qui, direbbe che ti stai comportando in maniera molto stupida» provò ad affermare ancora una volta, ma si rendeva conto che l'uomo sporco, barbuto e con gli occhi verdi che aveva davanti aveva scelto la sua posizione e non si sarebbe mosso. Sospirò, scosse la testa e riportò la valigetta sul tavolo. «Cosa succede?», gli chiese Mouse. «Mi ucciderete?» «No», gli disse Michael. «Sei appena entrato a far parte del Servizio Segreto Inglese». Il tedesco tossì, come se gli fosse rimasto in gola un osso di pollo. «Hai una nuova identità». Echo aprì la valigetta, vi infilò dentro una mano e ne estrasse un fascicolo. Glielo porse, ma quando Gallatin avanzò per prenderlo, la donna si portò l'altra mano al naso. «Mio Dio, che fetore!» Michael prese il dossier e lo aprì. All'interno c'erano alcuni fogli di carta battuti a macchina in tedesco, che spiegavano la storia di un certo barone Frederick von Fange. L'uomo non riuscì a trattenere un sorriso. «Chi l'ha suggerito?» «Il nostro amico comune».
Ma certo, pensò. Quell'identità portava la bizzarra impronta dell'uomo che aveva visto l'ultima volta travestito da autista di nome Mallory. «Da allevatore di maiali a barone in un solo giorno. Non è male, anche per un paese dove i soldi comprano i titoli nobiliari». «La famiglia esiste davvero. È nell'ufficio di stato civile tedesco. Ma anche se hai un titolo», disse Echo, «puzzi ancora come un allevatore di maiali. Ecco l'altra informazione che hai chiesto». Gli diede un altro dossier. Michael scorse le pagine battute a macchina. Camille aveva inviato via radio delle domande in codice a Echo, che aveva fatto un lavoro eccellente raccogliendo informazioni sul colonnello delle SS Jerek Blok, sul dottor Gustav Hildebrand e sulle industrie Hildebrand. C'erano fotografie in bianco e nero, sfocate ma utili, dei due uomini. La donna aveva anche fornito una pagina scritta a macchina su Harry Sandler e una fotografia del cacciatore seduto a un tavolo, circondato da ufficiali nazisti e con una donna dai capelli neri in braccio. Un falco incappucciato serrava gli artigli sul suo avambraccio. «Sei stata davvero esauriente», si complimentò Michael. Guardando il viso crudele e sorridente di Sandler si sentì stringere lo stomaco. «Sandler è ancora a Berlino?» La donna annuì. «Dove?» «Il nostro incarico primario non riguarda Harry Sandler», gli ricordò. «Ti basti sapere che non lascerà Berlino a breve». Naturalmente aveva ragione: prima il pugno di ferro e poi Sandler. «E Frankewitz?», chiese Gallatin. Camille aveva chiesto di indagare anche su di lui. «Conosco il suo indirizzo. Vive vicino a Victoria Park, su Katzbachstrasse». «E mi porterai da lui?» «Domani. Stasera penso che dovresti leggere quelle informazioni e fare i compiti». Indicò la biografia di von Fange». E per l'amor di Dio, fatti la barba e lavati. Nel Reich non esistono baroni bohémien». «E io?» Mouse sembrava molto spaventato. «Cosa diavolo dovrei fare io?» «Davvero, cosa?», chiese Echo; Michael si sentì gli occhi della donna addosso. Diede una rapida occhiata alla biografia del barone von Fange: possedimenti terrieri in Austria e Italia, un castello di famiglia sul fiume Saarbrucken, una scuderia di cavalli purosangue, macchine veloci, vestiti su misu-
ra molto costosi... la solita munificenza dei privilegiati. Michael alzò lo sguardo dai documenti. «Avrò bisogno di un valletto» disse. «Di un cosa?», disse Mouse con voce stridula. «Un valletto. Qualcuno che appenda i vestiti costosi che dovrei avere». Rivolse la sua attenzione a Echo. «Per inciso, dove sono questi vestiti? Sono sicuro che non vi aspettate che interpreti il ruolo di un barone con la merda di maiale sulla camicia». «Qui si prenderanno cura di te. E anche del tuo "valletto"». Forse la donna fece l'accenno di un sorriso, ma il velo rendeva difficile capirlo. «La mia macchina sarà qui per voi alle nove. Il mio autista si chiama Wilhelm». Chiuse la valigetta e la tenne al suo fianco. «Penso che questo concluda per ora il nostro affare. D'accordo?» Senza aspettare una risposta, camminò verso la porta sulle gambe lunghe ed eleganti. «Un minuto», disse Michael. Lei si fermò. «Come fai a sapere che Sandler ha intenzione di restare a Berlino?» «Mi trovo qui proprio per sapere queste cose, barone von Fange. Anche Jerek Blok è a Berlino. Non è un mistero: Blok e Sandler sono entrambi membri del Brimstone Club». «Il Brimstone Club? Che cos'è?» «Oh», disse a voce bassa Echo, «lo scoprirete. Buonanotte, signori». Aprì la porta e la chiuse dietro di sé; Michael ascoltò il rumore dei passi mentre la donna scendeva le scale. «Un valletto?», balbettò Mouse. «Cosa diavolo ne so di come si comporta un valletto? Ho indossato solo tre completi nella mia vita!» «I valletti si vedono e non si sentono. Fai la tua parte, e potremmo riuscire a lasciare Berlino con la pelle ancora addosso. Facevo sul serio quando ho detto che sei entrato a far parte del Servizio Segreto Inglese. Finché starai con me e ti proteggerò, mi aspetto che tu faccia quello che ti dico. Chiaro?» «Diavolo, no! Cosa devo fare per togliermi da questo pasticcio?» «Be', è abbastanza semplice». Michael sentì ruggire il motore della Mercedes. Andò alla finestra, scostò leggermente la tenda e osservò la macchina allontanarsi nella notte. «Echo vuole ucciderti. Immagino che possa farlo con un solo proiettile». Mouse rimase in silenzio. «Riflettici stanotte», gli disse Gallatin. «Se farai come ti dico, potrai lasciare questa nazione distrutta prima che arrivino i russi. Altrimenti...» Scrollò le spalle. «La decisione è tua».
«Che bella scelta! O mi prendo un proiettile in testa oppure un ferro rovente della Gestapo mi brucerà le palle!» «Farò del mio meglio per assicurarmi che non accada», disse Michael, sapendo che se la Gestapo li avesse catturati, un ferro rovente sui testicoli sarebbe stata la tortura minore. La donna con i capelli grigi entrò nel salone e scortò Michael e Mouse giù per le scale, attraverso una porta sul retro dell'edificio e poi giù per altri due scalini in un seminterrato coperto di ragnatele. Lampade a olio tremolavano in un dedalo di stanze, quasi tutte vuote o piene di mobili rotti e altro ciarpame. Arrivarono a una cantina dove altri due uomini stavano aspettando; scostarono una grossa rastrelliera piena di bottiglie di vino, rivelando un buco quadrato nei mattoni. Michael e Mouse seguirono la donna attraverso una galleria del seminterrato di un'altra casa; lì le stanze erano bene illuminate e pulite, e contenevano scatole di bombe a mano, munizioni per mitragliette e pistole, spolette, micce e altri gingilli del genere. La donna con i capelli grigi guidò Michael e Mouse in una grande camera dove parecchi uomini e donne stavano lavorando a delle macchine da cucire. Intorno alla stanza c'erano rastrelliere di vestiti, quasi tutte uniformi tedesche. Venivano realizzate fettucce, venivano scelti completi e camicie ed etichettati in base alla taglia, e una cesta di scarpe venne portata perché il barone e il suo valletto le passassero in rassegna. Le donne che presero le misure di Mouse ridacchiarono e si preoccuparono, sapendo che le aspettava una lunga notte da passare ad accorciare pantaloni e maniche di camicie e soprabiti. Apparve un uomo con un paio di forbici e un rasoio. Qualcun altro portò secchi di acqua calda e saponette bianche che sarebbero riuscite a grattare via le verruche a un rospo. Sotto i colpi di forbice, rasoio e sapone, Michael Gallatin - che non era estraneo alle trasformazioni - cominciò ad assumere la sua nuova identità. Ma mentre cambiava ricordò l'aroma della cannella e della pelle, e si scoprì a chiedersi di chi fosse il volto che si celava dietro il velo. 4. La Mercedes nera arrivò puntuale alle nove del mattino. Era un'altra giornata coperta, con il sole nascosto dietro alcune spesse nuvole grigie. L'alto comando nazista si compiaceva per questo: i bombardieri alleati annullavano le loro missioni quando c'erano le nuvole. I due uomini che uscirono dalla casa al limitare dei binari della ferrovia
erano molto diversi da quelli che vi erano entrati la sera prima. Il barone von Fange era rasato, aveva i capelli neri ben tagliati e la stanchezza aveva lasciato i suoi occhi; indossava un completo grigio e un panciotto, una camicia azzurra con una cravatta a righe sottili grigie e un fermacravatta d'argento. Ai piedi calzava scarpe nere lucidate e sulle spalle aveva un soprabito color cammello. I guanti di pelle nera completavano il suo abbigliamento. Si vedeva chiaramente che i vestiti erano stati confezionati da un sarto. Anche il suo valletto, un uomo piccolo e tozzo, si era rasato di fresco e aveva un nuovo taglio di capelli che non faceva niente per nascondere le orecchie brutte e grandi. Mouse indossava un completo blu scuro e un papillon nero. Si sentiva terribilmente a disagio: il colletto della camicia era tanto inamidato da strangolarlo e le scarpe nuove lucide gli stringevano i piedi come morse di ferro. Aveva anche imparato uno dei compiti di un valletto: portare a mano il bagaglio di pelle di vitello pieno di vestiti del barone e suoi. Quando lo spostò dalla casa al bagagliaio della Mercedes, notò che i sarti erano stati molto attenti ai dettagli: tutte le camicie del barone avevano un monogramma ricamato e le lettere FVF erano state impresse a fuoco anche sulle valigie. Michael aveva già salutato Gunther, Dietz e gli altri. Si mise sul sedile posteriore della Mercedes. Quando Mouse fece per raggiungerlo, Wilhelm - un uomo dalle spalle larghe con i baffi grigi cerati - disse: «Un servo si siede davanti», e gli chiuse in faccia con decisione lo sportello posteriore. Il cuoco borbottò a voce bassa e si accomodò davanti. Michael sentì la croce di ferro risuonargli in tasca. Poi Wilhelm avviò il motore e la Mercedes scivolò via dal marciapiede. Un vetro separava i sedili davanti da quelli di dietro. Michael sentì nella macchina l'aroma di Echo, un profumo inebriante. Il veicolo era perfettamente pulito: non c'erano fazzoletti né pezzi di carta, niente che potesse fornire un indizio sull'identità della donna. O così pensò Michael, finché non aprì il posacenere di metallo dietro il sedile dell'autista; non conteneva tracce di cenere, ma la matrice di un biglietto verde. L'inglese osservò attentamente le lettere stampate sopra: Kino Elektra. Il cinema Elektra. Mise a posto il pezzetto di carta e chiuse il posacenere. Poi aprì il vetro divisorio tra lui e Wilhelm. «Dove stiamo andando?» «Le nostre destinazioni sono due, signore. Per prima cosa andremo a fare visita a un artista». «E la seconda?» «Il suo alloggio mentre si gode Berlino».
«La signora ci raggiungerà?» «È possibile, signore», disse Wilhelm, poi non aprì più bocca. Michael chiuse il vetro. Guardò Mouse, che stava cercando di allentare il colletto della camicia con un dito. La notte precedente avevano dormito nella stessa stanza e l'aveva sentito singhiozzare. Il cuoco era sceso dal letto ed era rimasto a lungo in piedi davanti alla finestra nel buio. Gallatin aveva sentito il flebile clink della croce di ferro mentre Mouse la girava e rigirava nella mano. Dopo un po' il piccolo uomo aveva fatto un profondo sospiro, si era asciugato il naso sulla manica ed era tornato al letto. Il tintinnio della croce di ferro era cessato e l'uomo aveva dormito serrando la medaglia nel pugno. Almeno per il momento la crisi della sua anima era passata. Wilhelm era un autista esperto, il che era un'ottima cosa perché le strade di Berlino erano un incubo pieno di carretti trainati da cavalli, camion dell'esercito, carri armati e tram, per non parlare delle zone che erano ostruite da macerie che bruciavano ancora. Mentre si dirigevano verso la casa di Theo von Frankewitz e una pioggia leggera cominciava a picchiettare sul parabrezza, Michael ripassò mentalmente quello che aveva saputo dai dossier. Non c'erano informazioni su Jerek Blok; l'uomo era un fanatico di Hitler e un membro fedele del partito nazista, ma le sue attività erano avvolte nel mistero da quando aveva lasciato il comando del campo di concentramento di Falkenhausen. Il dottor Gustav Hildebrand era il figlio di un pioniere tedesco nel campo della guerra chimica e aveva una casa vicino a Bonn, dove si trovavano le industrie Hildebrand. Ma c'era una notizia interessante: aveva anche mantenuto una casa e un laboratorio sull'isola di Skarpa, circa 45 chilometri a sud di Bergen, in Norvegia. Come casa per passare le vacanze estive era piuttosto lontana da Bonn e come rifugio invernale... be', gli inverni erano molto lunghi e freddi così a nord. Ma allora perché Hildebrand lavorava in un luogo tanto isolato? Sicuramente avrebbe potuto trovare un posto più adatto. Era un punto che meritava di essere approfondito. L'autista guidò lentamente lungo Victoria Park mentre la pioggia sferzava fra gli alberi pieni di gemme. Era un'altra zona di case a schiera e negozietti, e i passanti si affrettavano sotto gli ombrelli. Michael aprì ancora una volta il vetro. «Ci stanno aspettando?» «No, signore. Herr von Frankewitz era a casa a mezzanotte; scopriremo se c'è ancora». Wilhelm procedeva piano con la Mercedes lungo la strada. Aspetta un segnale, pensò Michael. Vide una donna tagliare delle rose alla
finestra di un negozio di fiori e un uomo in piedi sulla porta di una casa che cercava di aprire un ombrello. La donna infilò le rose in un vaso di vetro e le mise sul davanzale della finestra, l'uomo aprì l'ombrello e se ne andò. Wilhelm disse: «Herr von Frankewitz è a casa, signore. Questo è l'edificio con il suo appartamento». Indicò una struttura di mattoni grigi sulla destra. «È l'appartamento numero 5, al secondo piano». Bloccò i freni della Mercedes. «Io faccio il giro dell'isolato. Buona fortuna, signore». Michael uscì, alzandosi il colletto del soprabito per ripararsi dalla pioggia. Anche Mouse fece per uscire, ma l'autista gli afferrò un braccio. «Il barone va da solo», disse; il cuoco tirò con forza per cercare di liberarsi, ma Gallatin gli disse: «È tutto a posto. Resta in macchina», poi camminò fino al marciapiede ed entrò nell'edificio che Wilhelm aveva indicato. La Mercedes ripartì. L'interno della struttura aveva l'odore di una tomba umida. Sui muri erano stati dipinti slogan ed epiteti nazisti. Michael vide qualcosa oltrepassarlo rapidamente nell'oscurità. Non riuscì a distinguere con certezza se si trattava di un gatto o di un topo molto grosso. Salì le scale e trovò la targhetta ossidata del numero 5. Bussò alla porta. Lungo il corridoio si sentiva un bambino urlare. Le voci di un uomo e di una donna si alzarono e cominciarono a litigare. Bussò di nuovo alla porta, pronto a usare la piccola Derringer a due colpi che aveva nella tasca speciale del panciotto: un regalo da parte delle persone che lo ospitavano. Nessuna risposta. Chiuse il pugno per bussare una terza volta, cominciando a chiedersi se Wilhelm avesse capito bene il segnale. «Andate via», disse la voce di un uomo dall'altra parte della porta. «Non ho soldi». Era una voce stanca e ansimante. La voce di qualcuno che non respirava bene. Michael disse: «Herr von Frankewitz? Devo parlarle, per favore». Un silenzio. Poi: «Non posso parlare. Vattene». «È molto importante». «Ho detto che non ho soldi. Per favore... non disturbarmi. Sono un uomo malato». Gallatin sentì il rumore di passi trascinati che si allontanavano. Disse: «Sono un amico del tuo amico di Parigi. L'amante dell'opera». I passi si fermarono. Michael aspettò. «Non so di chi parli», disse Frankewitz con voce stridula, in piedi vicino alla porta.
«Mi ha detto che recentemente hai dipinto alcuni oggetti. Sul metallo. Vorrei parlarne con te, se posso». Un altro silenzio più lungo. Von Frankewitz era un altro uomo molto cauto o molto spaventato. Gallatin sentì il rumore di una serratura che veniva aperta e di un paletto che scorreva, poi la porta si dischiuse di qualche centimetro. Nella fessura apparve un viso cereo, come quello di un fantasma che usciva da una cripta. «Chi sei?», sussurrò Frankewitz. «Sono venuto da molto lontano per vederti», disse Michael. «Posso entrare?» L'artista esitò, il pallido viso che sembrava sospeso nell'oscurità come un quarto di luna. L'inglese vide un occhio grigio iniettato di sangue e un cespuglio di capelli castani unti che cadevano sulla fronte alta e bianca. Sbatté la palpebra sull'occhio grigio. Il tedesco aprì la porta e indietreggiò, consentendogli di entrare. L'appartamento era un luogo chiuso e buio con strette finestre annerite dalla fuliggine delle fabbriche di Berlino. Un logoro tappeto orientale nero e giallo copriva il pavimento di legno, che a Gallatin, camminandoci sopra, non sembrò affatto sicuro. I mobili erano pesanti e decorati, il genere di oggetti che vengono tenuti nei sotterranei polverosi di un museo. C'erano cuscini ovunque e i braccioli di un divano verde mare erano protetti da pizzo. Gli odori nell'appartamento aggredirono le narici di Michael: il fumo di sigarette scadenti, una dolce colonia floreale, colori a olio e acquaragia, e il profumo acre della malattia. In un angolo della stanza, vicino a una delle finestre sottili, c'erano una sedia, un cavalletto e una tela con dipinto un panorama ancora incompleto: un cielo rosso sopra una città i cui edifici erano fatti di ossa. «Siediti qui. Starai più comodo». Frankewitz tolse una pila di vestiti sporchi dal divano e Michael vi si accomodò. Sentì una molla premergli forte contro la schiena. Il tedesco era pelle e ossa, e indossava una vestaglia di seta blu e le pantofole; cominciò a girare per la stanza raddrizzando lampade sbilenche, quadri storti e un mazzo di fiori appassiti in un vaso di rame. Poi si accomodò in una sedia nera con lo schienale alto, incrociò le gambe bianche e sottili, e allungò una mano per prendere un pacchetto di sigarette e un bocchino d'ebano. Prese una sigaretta con dita nervose. «Hai visto Werner, allora? Come sta?» Michael si rese conto che stava parlando di Adam. «È morto. La Gestapo l'ha ucciso».
L'altro uomo aprì la bocca e ne uscì un rantolo. Armeggiò alla ricerca di una scatola di fiammiferi. Il primo era umido e fece una piccola scintilla prima di spegnersi. Accese la sigaretta con il secondo e tirò profondamente con il bocchino. Dai polmoni salì un colpo di tosse, seguito da un secondo, un terzo e poi una serie. Rantolò di nuovo, ma quando la tosse passò, l'artista inspirò di nuovo dal bocchino con gli occhi grigi infossati e lucidi. «Mi dispiace molto. Werner era... un gentiluomo». Era il momento di rischiare. Michael disse: «Sapevi che il tuo amico lavorava per il Servizio Segreto Inglese?» Frankewitz fumò la sigaretta in silenzio e il cerchietto rosso brillò nell'oscurità. «Lo sapevo», rispose alla fine. «Werner me l'aveva detto. Non sono un nazista. Quello che i nazisti hanno fatto a questo paese e ai miei amici... be', non ho alcuna simpatia per loro». «Hai detto a Werner di aver fatto un viaggio in un magazzino e di aver dipinto fori di proiettili su del metallo verde. Vorrei sapere come sei arrivato a fare quel lavoro. Chi te l'ha commissionato?» «Un uomo». Il tedesco scrollò le spalle sottili sotto la seta blu. «Non ho mai saputo il suo nome». Diede una tirata, fece uscire il fumo e tossì forte di nuovo. «Scusami», disse. «Sono malato, come vedi». Gallatin aveva già notato le ferite incrostate sulle gambe dell'uomo. Sembravano i morsi di un topo. «Come faceva quell'uomo a sapere che eri in grado di fare il lavoro?» «L'arte è la mia vita», rispose Frankewitz, come se quell'affermazione spiegasse tutto. Ma poi si alzò in piedi, muovendosi come un vecchio anche se non poteva avere più di trentatré anni, e si diresse verso il cavalletto. Appoggiata alla parete accanto c'era una pila di dipinti. Si inginocchiò e cominciò a passarli in rassegna, toccandoli delicatamente con le lunghe dita bianche, come se dovesse svegliare dei bambini che dormivano. «Dipingevo spesso in un caffè non lontano da qui. Rientravo per l'inverno. Quell'uomo arrivò e prese un caffè. Mi osservò lavorare. In seguito tornò molte altre volte. Ah, eccolo!» Stava indicando un dipinto. «È questo a cui stavo lavorando». Tirò fuori la tela e la mostrò a Michael. Era un autoritratto del viso di Frankewitz in uno specchio rotto. Le crepe sembravano tanto reali che Gallatin immaginò di passare un dito su uno dei bordi frastagliati. «Portò a vederlo un altro uomo, un ufficiale nazista. Più tardi ho scoperto che il nome di questa seconda persona era Blok. Poi, forse due settimane dopo, il primo uomo venne al caffè e mi chiese se volevo guadagnare dei soldi». L'artista fece un debole sorriso, che apparì spaventoso su
quel viso gracile e cereo. «I soldi mi servono sempre, anche se vengono dai nazisti». Guardò l'autoritratto per un momento: il volto nel quadro era una fantasia narcisistica. Poi mise di nuovo la tela nella pila e si alzò in piedi. La pioggia batteva contro le finestre; Frankewitz osservò le gocce disegnare piccole scie sui vetri opachi. «Mi sono venuti a prendere una sera e siamo andati in macchina fino a un campo d'aviazione. Blok era lì insieme a molti altri uomini. Mi hanno bendato prima di decollare». «Quindi non hai idea di dove sei atterrato?» L'artista tornò alla sua sedia mettendo di nuovo il bocchino tra i denti. Osservò la pioggia cadere, mentre il fumo blu gli saliva dalla bocca e i polmoni facevano rumore ad ogni respiro. «È stato un viaggio lungo. Siamo atterrati una volta per fare rifornimento di carburante. Ne sentivo l'odore. E sentivo anche il calore del sole sul viso, quindi ho capito che stavamo volando verso ovest. Quando siamo arrivati, ho sentito l'odore del mare. Mi hanno portato in un luogo dove mi hanno tolto la benda dagli occhi. Era un magazzino senza finestre e con le porte sbarrate». Una piccola nuvola di fumo blu fluttuò lentamente intorno alla testa di Frankewitz. «Avevano tutti i colori e gli strumenti di cui avevo bisogno, sistemati in modo molto ordinato. Avevano approntato una stanzetta per me, con una sedia, una branda, qualche libro, delle riviste e un Victrola. Nemmeno lì c'erano finestre. Il colonnello Blok mi ha portato in una camera più grande dove erano disposti pezzi di metallo e vetro, e mi ha spiegato cosa voleva che facessi. Fori di proiettili, mi ha detto; crepe nel vetro, proprio come avevo fatto con lo specchio rotto del mio dipinto. Sul metallo voleva che dipingessi i buchi seguendo schemi ben precisi che ha segnato con un gessetto. Ho fatto il lavoro. Quando ho finito mi hanno bendato e mi hanno portato di nuovo su un aereo. Un altro lungo volo, poi mi hanno pagato e portato a casa in macchina». Piegò la testa di lato, ascoltando la musica della pioggia. «Questo è tutto». Non direi proprio, pensò Michael. «E come ha fatto Ad... Werner a scoprirlo?» «Gliel'ho detto io. L'avevo conosciuto l'estate scorsa. Ero a Parigi con un altro amico. Come ho detto era un gentiluomo. Un caro gentiluomo. Ah, be'». Fece un gesto di scoraggiamento con il bocchino, poi sul suo volto apparve il terrore. «La Gestapo... non hanno... voglio dire, Werner non ha parlato di me, vero?» «No, non l'ha fatto». Frankewitz fece un sospiro di sollievo. Si sentì un gorgoglio, poi l'uomo
tossì di nuovo ed ebbe un altro spasmo. «Grazie a Dio», disse quando riuscì a parlare di nuovo. «Grazie a Dio. La Gestapo... fa cose terribili alle persone». «Hai detto che ti hanno portato dall'aereo al magazzino. Hanno usato una macchina?» «No. Saranno stati forse trenta passi, non più di questo». Allora il magazzino faceva parte del campo d'aviazione, pensò Michael. «Cos'altro conteneva?» «Non ho avuto la possibilità di guardare molto in giro. C'era sempre una guardia vicino. Ho visto dei barili e delle casse. Credo che fossero fusti per carburante e alcuni macchinari. Ingranaggi e cose del genere». «E hai sentito l'espressione "pugno di ferro"? È così?» «Sì. Il colonnello Blok stava parlando con un uomo che era venuto in visita. L'ha chiamato dottor Hildebrand. Ha usato quel cognome molte volte». Quello era un punto che bisognava chiarire. Gallatin disse: «Perché Blok e Hildebrand hanno permesso che li sentissi, se la sicurezza era così accurata? Dovevi trovarti nella stessa stanza con loro, è così?» «Certo. Ma stavo lavorando, quindi forse hanno pensato che non stessi ascoltando». Frankewitz soffiò un pennacchio di fumo verso il soffitto. «E poi non era un segreto. Le ho dovute dipingere». «Dipingerle? Dipingere cosa?» «Le parole. Pugno di ferro. Ho dovuto dipingerle su un pezzo di metallo. Blok mi ha mostrato come fare le lettere, perché io non leggo l'inglese». Michael rimase in silenzio per un momento a riflettere. «L'inglese? Hai dipinto...» «Pugno di ferro», disse l'artista. «Sopra un pezzo di metallo verde. Verde oliva, per l'esattezza. Smorto. E sotto ho dipinto il disegno». «Il disegno?» Gallatin scosse la testa. «Non capisco». «Te lo mostro». Frankewitz andò al cavalletto, si sedette e si mise davanti un foglio da disegno. Prese un carboncino mentre Michael si metteva in piedi dietro di lui. L'artista rimase in silenzio per qualche momento a pensare, poi cominciò a fare uno schizzo. «Deve capire che questa è una semplice approssimazione. Ultimamente la mia mano non fa quello che le chiedo. Credo che dipenda dal tempo. Quest'appartamento è sempre umido in primavera». Gallatin osservò il disegno prendere forma. Era un pugno grande coperto da un'armatura. Stava stringendo una figura che doveva ancora essere ben
definita. «Blok stava in piedi dietro le mie spalle a guardare, proprio come te adesso», disse l'artista. La matita disegnò due gambe ossute che pendevano dal pugno di ferro. «Ho dovuto fare cinque schizzi prima che restasse soddisfatto. Poi l'ho dipinto sul metallo sotto le lettere. Al liceo artistico mi sono diplomato con un voto tra i migliori. I professori dicevano che ero molto promettente». Fece un debole sorriso, mentre la mano agiva come se avesse una mente propria. «Gli esattori mi disturbano in continuo. Credevo che fossi uno di loro». Stava disegnando un paio di braccia flosce. «I lavori migliori li faccio sempre d'estate», disse. «Quando posso andare nel parco con il sole». Aveva finito il corpo della figura: una forma umoristica stretta dal pugno. Cominciò a lavorare sulla testa e sulle fattezze del viso. «Una volta hanno esposto un mio dipinto in una mostra. Prima della guerra. Era il disegno di due pesci rossi che nuotano in un laghetto verde. Mi sono sempre piaciuti i pesci, sembrano tranquilli». Disegnò due occhi spalancati e sporgenti, e una piccola linea rivolta verso l'alto come naso. «Sai chi ha comprato quel dipinto? Uno dei segretari di Goebbels. Sì. Goebbels in persona! Per quel che so, quel quadro potrebbe essere appeso nella Cancelleria del Reich!» Disegnò dei capelli scuri che pendevano sulla fronte. «La mia firma nella Cancelleria del Reich. Be', il mondo è uno strano luogo, vero?» Completò il volto con un quadratino nero come baffi e alzò il carboncino. «Ecco. È questo che ho disegnato per il colonnello Blok». Era una caricatura di Adolf Hitler, con gli occhi sporgenti e la bocca spalancata mentre veniva stretto nel pugno di ferro. Michael rimase senza parole. Le ruote dentate nel suo cervello cominciarono a muoversi, ma non trovarono la presa. II colonnello delle SS Jerek Blok, un fedele nazista, aveva pagato Frankewitz per dipingere una caricatura grottesca del Führer del Reich? Non aveva senso! Quella mancanza di rispetto avrebbe garantito un appuntamento con un cappio al collo ed era stata autorizzata da un fanatico di Hitler. Fori di proiettili, vetri incrinati, la caricatura, il pugno di ferro... di che cosa si trattava? «Non ho fatto domande». L'artista si alzò dalla sedia. «Non volevo sapere. Volevo solo tornare a casa vivo. Blok mi ha detto che potevano aver bisogno di nuovo di me per fare altri lavori. Mi ha detto che si trattava di un progetto speciale e che, se ne avessi parlato a qualcuno, la Gestapo l'avrebbe scoperto e sarebbe venuta a farmi visita». Si allisciò le pieghe della vestaglia di seta con le dita di nuovo nervose. «Non so perché l'ho raccon-
tato a Werner. Sapevo che lavorava per l'altra parte». Frankewitz osservò la pioggia scorrere sulle finestre, con il viso emaciato striato dall'ombra. «Penso... di averlo fatto... per il modo in cui Blok mi aveva guardato. Come se fossi un cane che sa fare dei giochetti. Si vedeva nei suoi occhi: mi detestava, ma aveva bisogno di me. E forse non mi ha ucciso perché ha pensato che potessi servirgli di nuovo. Sono un essere umano, non una bestia. Capisci?» Michael annuì. «È tutto quello che so. Non posso aiutarti più di così». Il respiro dell'artista era diventato di nuovo rauco. Prese un altro fiammifero e accese di nuovo la sigaretta che si era spenta. «Hai del denaro?», chiese. «No, non ne ho». Aveva un portafoglio che gli era stato dato dalle persone che lo ospitavano, ma non conteneva denaro. Fissò le lunghe dita bianche di Frankewitz, poi si tolse i guanti di pelle e disse: «Ecco, prendi questi. Hanno un certo valore». L'artista li prese senza esitare. Dalle labbra gli uscì ancora del fumo blu. «Grazie. Sei un vero gentiluomo. Non siamo rimasti in molti al mondo». «Sarà meglio che tu lo distrugga». Michael indicò la caricatura di Hitler. Si diresse verso la porta e si fermò per aggiungere un'ultima cosa. «Non eri costretto a dirmi queste cose. Lo apprezzo molto. Ma c'è una cosa che devo dirti io: non sei al sicuro, sapendo tutto questo». Frankewitz fece un cenno con il bocchino, tracciando una scia di fumo nell'aria. «C'è qualcuno al sicuro a Berlino?», chiese. A quella domanda Gallatin non aveva risposta. Aprì il catenaccio della porta; cominciava a sentirsi soffocare in quella stanza umida con le finestre sporche. «Verrai di nuovo a trovarmi?», chiese l'artista, che aveva finito la sigaretta e l'aveva spenta in un posacenere verde di onice. «No». «È meglio così, immagino. Spero che troverai quello che cerchi». «Grazie. Lo spero anch'io». Michael fece scivolare il chiavistello, lasciò l'appartamento e si chiuse la porta alle spalle. Sentì dall'altra parte Theo von Frankewitz che sbarrava di nuovo la porta; era un rumore frenetico, quello di un animale che corre avanti e indietro in una gabbia. L'artista tossì più volte, i polmoni ostruiti dal liquido; poi Gallatin percorse il corridoio fino alle scale e scese nella strada battuta dalla pioggia. Wilhelm accostò delicatamente la Mercedes al marciapiede e l'inglese vi salì. Poi l'autista accelerò dirigendosi a ovest nella pioggia.
«Hai scoperto quello che dovevi sapere?», chiese Mouse quando vide che Michael non dava alcuna informazione. «È un inizio», rispose. Hitler che veniva stritolato da un pugno di ferro. Fori di proiettili su del metallo dipinto di verde. Il dottor Hildebrand, il ricercatore della guerra chimica. Un magazzino in un campo d'atterraggio dove l'aria aveva il profumo del mare. Sì, era un inizio: l'entrata di un labirinto. E c'era l'invasione dell'Europa, pronta per avere luogo quando le forti maree di primavera si fossero calmate. La prima settimana di giugno, pensò Michael. Centinaia di migliaia di vite in gioco. Vivi libero, pensò... e fece un sorriso triste. Sulle sue spalle era ricaduta un'enorme responsabilità. «Dove andiamo?», chiese a Wilhelm dopo qualche altro minuto. «La accompagno a presentarsi, signore. Lei è un nuovo membro del Brimstone Club». Gallatin stava per chiedere cosa fosse, ma l'autista era concentrato nella guida e la pioggia era di nuovo battente. Michael si guardò le mani senza guanti, mentre molte domande si affollavano nella sua mente... e sui finestrini si riversava un torrente d'acqua. 5. «Ecco l'edificio, signore», disse Wilhelm; sia Michael che Mouse lo videro attraverso il tergicristallo. Davanti a loro su un'isola nel fiume Haver si ergeva un castello turrito, velato dalla pioggia e dalla foschia bassa. Wilhelm aveva seguito per quasi quindici minuti una strada lastricata attraverso la foresta di Grunewald di Berlino, finché il manto stradale non era terminato al limitare del fiume. Ma la strada continuava: un ponte di chiatte di legno sull'acqua scura portava fino all'enorme arcata di granito del castello. L'entrata sul ponte era bloccata da una barriera gialla; mentre Wilhelm rallentava la macchina, un giovane con indosso un'uniforme marrone scuro, guanti blu scuro e con un ombrello in mano uscì dalla postazione in pietra del piccolo posto di controllo. L'autista abbassò il finestrino e disse: «Il barone von Fange». Il giovane fece un rapido cenno di assenso con il capo e tornò dentro. Michael riuscì a vedere nella struttura attraverso il finestrino e osservò il giovane comporre un numero di telefono. I cavi attraversavano il fiume e finivano nel castello. Dopo un attimo l'uomo riapparve, sollevò la sbarra e fece cenno di passare. La Mercedes attraversò il ponte di chiatte. «Questo è l'Hotel Reichkronen», spiegò Wilhelm mentre si avvicinavano
all'arcata. «Il castello è stato costruito nel 1733. I nazisti ne hanno assunto il controllo nel 1939. È per i dignitari e gli ospiti del Reich». «Oh, mio Dio», sussurrò Mouse mentre l'immenso castello si profilava sopra di loro. Naturalmente l'aveva già visto, ma mai così da vicino. E non avrebbe mai immaginato di entrarvi. Il Reichkronen era riservato ai capi del partito nazista, diplomatici stranieri, ufficiali di alto rango, duchi, conti e baroni... veri baroni. Mentre il castello diventava sempre più grande e l'arcata aspettava come una bocca dalle labbra grigie, Mouse si sentì molto piccolo. Lo stomaco gli ribollì. «Non... non penso di riuscire a entrare», disse. Non aveva scelta. La Mercedes attraversò l'arcata giungendo in un ampio cortile. Una grande scalinata di granito saliva verso l'alto fino alle doppie porte d'entrata, sulle quali spiccavano le lettere dorate REICHKRONEN e una svastica. Quattro giovani dai capelli biondi con indosso delle uniformi marrone scuro uscirono dalle porte e si affrettarono giù per gli scalini, mentre Wilhelm fermava la Mercedes. «Non posso... non posso...» ripeteva Mouse, sentendosi come se qualcuno gli togliesse il fiato. Wilhelm lo trafisse con uno sguardo glaciale. «Un buon servitore non delude mai il suo padrone», disse a voce bassa. Poi la portiera del piccolo tedesco si spalancò e Mouse vide un ragazzo tenergli un ombrello aperto sulla testa; il cuoco rimase stordito mentre Wilhelm usciva e girava intorno alla macchina per aprire il portabagagli. Michael aspettò che gli aprissero la portiera, come si addiceva a un barone, poi uscì dalla macchina sotto la protezione di un ombrello. Anche lui si sentì stringere lo stomaco e tendere i muscoli della nuca. Ma non era un luogo dove avere esitazioni: se voleva sopravvivere a quella mascherata, doveva interpretare la sua parte fino in fondo. Si sforzò di restare calmo e cominciò a salire i gradini a passo svelto, tanto che il giovane con l'ombrello ebbe difficoltà a mantenere il passo. Mouse li seguiva a breve distanza, sentendosi più piccolo man mano che procedeva. Wilhelm e gli altri due uomini portarono i bagagli. Michael camminò nell'atrio del Reichkronen, entrando nel sancta sanctorum dei nazisti. Era una camera enorme, dove pozze di luce proveniente da lampade basse si riversavano su mobili di pelle marrone e facevano scintillare i fili dorati di alcuni tappeti persiani. Sopra la testa c'era un lampadario su cui forse bruciavano cinquanta candele. Le fiamme crepitavano in un caminetto di marmo bianco che sarebbe potuto servire da garage a un carro
armato Tiger; al centro del focolare era appeso un grosso dipinto incorniciato di Adolf Hitler, con un'aquila dorata ad ogni lato. Un quartetto d'archi stava suonando musica da camera... una composizione di Beethoven. Sulle poltrone e i divani di pelle imbottiti erano seduti alcuni ufficiali tedeschi, la maggior parte con dei bicchieri in mano, impegnati a conversare o ad ascoltare la musica. Altre persone, tra cui numerose donne, erano riunite in piccoli gruppi a chiacchierare educatamente. Michael si guardò intorno per godere appieno dell'effetto di quel luogo enorme e sentì alle sue spalle Mouse emettere un debole gemito di paura. Poi si sentì la voce di una donna, bella come un violoncello: «Frederick!» Era familiare. Gallatin cominciò a voltarsi e la sentì dire: «Frederick! Mio caro!» La donna corse verso di lui e l'abbracciò. Lui sentì il suo profumo: cannella e pelle. Lei lo strinse forte poggiandogli i riccioli biondi contro la guancia. Poi lo guardò in viso con gli occhi del colore dello champagne e gli cercò la bocca con le labbra rosse. Michael lasciò che la trovasse. Aveva il sapore di un bianco frizzante della Mosella. Il corpo della donna era premuto forte contro quello di lui; mentre il bacio continuava, Michael l'abbracciò e fece guizzare la lingua per giocare con le sue labbra. La sentì tremare... voleva allontanarsi ma non ci riuscì; Gallatin passò delicatamente la lingua più volte sulla sua bocca. Improvvisamente lei gliela prese e la succhiò con tale forza da riuscire quasi a strapparla. La serrò tra i denti, intrappolandola con una pressione che non aveva nulla di gentile. Questo è il modo civilizzato di fare guerra, pensò Michael. La strinse più forte e lei fece altrettanto, facendogli schioccare la spina dorsale. Rimasero così per un momento, agganciati bocca a bocca e denti a lingua. «Ehm». Un uomo si schiarì la gola. «Allora è questo il fortunato barone von Fange». La donna lasciò la lingua di Michael e tirò indietro la testa. Aveva le guance piene di puntini rossi e i bellissimi occhi marrone chiaro scintillavano di rabbia sotto le sopracciglia folte e bionde. Ma sulla bocca aveva un sorriso gioioso e disse eccitata: «Sì, Harry! Non è bellissimo?» Gallatin girò la testa a destra e guardò Harry Sandler, che si trovava forse a un metro da lui. Il cacciatore, l'uomo che aveva architettato l'assassinio della contessa Margòtta al Cairo, quasi due anni prima, borbottò scettico. «Le bestie selvatiche sono belle, Chesna. Specialmente quando le loro teste adornano le
mie pareti. Temo di non condividere i tuoi gusti, ma... è un piacere fare finalmente la sua conoscenza, barone». Sandler tese la grossa mano; il falco dorato appollaiato sulla sua spalla sinistra rifinita in pelle allargò le ali per tenersi in equilibrio. Gallatin fissò la mano per qualche secondo. La vide stretta intorno al telefono mentre ordinava l'omicidio di Margritta. La vide picchiettare un codice radio ai suoi padroni nazisti. La vide premere il grilletto di un fucile che sparava un proiettile nel cranio di un leone. La prese e la strinse, con un sorriso educato sul volto anche se i suoi occhi erano diventati duri. Sandler aumentò la pressione, intrappolandogli le nocche. «Chesna mi ha annoiato a morte parlandomi di lei», disse mostrando un largo sorriso sul volto rubicondo. Il suo tedesco era eccellente. Aveva gli occhi marrone scuro privi di calore; la pressione sulla mano di Michael continuò ad aumentare. Le nocche di Gallatin pulsarono. «Grazie a Dio è qui, così non dovrà parlarmene più». «Forse sarò io ad annoiarla a morte con i miei racconti», disse Gallatin allargando il sorriso; si assicurò di non dare alcuna indicazione del fatto che la sua mano stava per spezzarsi. Fissò Harry Sandler negli occhi e sentì un messaggio passare tra loro: sarebbe sopravvissuto il migliore. Le nocche erano serrate insieme, catturate in quella mano che sembrava l'artiglio di un orso. Un'altra minima pressione e le ossa si sarebbero rotte. Michael sorrise e sentì il sudore scendergli lungo le braccia. Almeno per il momento era alla mercé di un assassino. Sandler mostrò i robusti denti bianchi e lasciò la mano di Gallatin. Il sangue pizzicò mentre affluiva di nuovo nelle dita intorpidite. «Come ho detto, è un vero piacere». La donna indossava un vestito blu scuro che le disegnava il corpo snello come se vi fosse stato versato sopra, e aveva i capelli biondi che le ricadevano in boccoli sulle spalle. Il viso aveva gli zigomi alti e ben disegnati e una bocca piena: era straordinario, come quando si intravede il sole nelle nuvole di una tempesta. Prese Michael a braccetto. «Frederick, spero che non ti dispiaccia se mi sono vantata di te. Ho confidato a Harry il segreto». «Oh? Davvero?» Cosa sarebbe successo adesso? «Harry ha detto che sarà lui ad accompagnare la sposa all'altare. È così, vero?» Il sorriso di Sandler svanì, ma non aveva molta importanza, visto che era stato falso dall'inizio. «Devo proprio dirglielo, barone: sta per iniziare la lotta della sua vita». «Davvero?» Michael si sentì come se il pavimento fosse diventato di
ghiaccio e lui stesse cercando di evitare di camminare in un punto dov'era più sottile. «Può dirlo forte. Se lei non ci fosse, Chesna sposerebbe me. Quindi farò del mio meglio per detronizzarla». La donna rise. «Oh, santo cielo! Che delizia! Due uomini così belli che lottano per me!» Guardò Wilhelm e Mouse, che erano in piedi a qualche metro di distanza. Il cuoco aveva il volto grigio e le spalle erano crollate sotto il peso immenso del Reichkronen. Il bagaglio era già scomparso, portato rapidamente in un ascensore dai facchini. «Puoi andare nel tuo alloggio adesso», disse la donna con l'aria di chi è solito dare ordini che vengono eseguiti. Wilhelm fece un cenno deciso con il capo a Mouse, indicando una porta con il cartello Treppe - Scale - ma il cuoco fece solo qualche passo prima di guardare Michael con un'espressione che era un misto di panico e sconcerto. Gallatin annuì e il piccolo uomo seguì Wilhelm verso le scale. «I buoni servitori sono difficili da trovare», disse Chesna mostrandosi arrogante. «Andiamo in salotto?» Indicò un angoletto illuminato dalle candele dall'altra parte dell'atrio; Michael le permise di guidarlo. Sandler camminò qualche passo dietro di loro; Gallatin sentì che l'uomo lo stava squadrando. Naturalmente la donna di nome Chesna era l'agente che lui conosceva come Echo... ma chi era? E come poteva socializzare così liberamente con il sangue blu del Reich? Erano quasi arrivati in salotto quando una ragazza graziosa con i capelli neri si mise davanti a loro e disse timidamente: «Mi scusi... ma ho visto tutti i suoi film. Penso che lei sia meravigliosa. Posso avere un autografo?» «Ma certo!» Chesna prese la penna e il blocchetto che la ragazza le stava porgendo. «Come ti chiami?» «Charlotta». Michael la osservò scrivere in lettere grandi: A Charlotta, con simpatia, Chesna von Dome. Terminò con uno svolazzo e restituì il blocchetto con un sorriso sfolgorante. «Ecco qui. Il prossimo mese esce un mio nuovo film. Spero che lo andrai a vedere». «Oh, lo farò! Grazie!» La ragazza era evidentemente entusiasta e portò l'autografo con sé rimettendosi seduta su un divano tra due ufficiali nazisti di mezza età. Nel salotto decorato con i simboli incorniciati della fanteria e delle divisioni corazzate tedesche, i due agenti scelsero un tavolo appartato. Michael si tolse il soprabito e lo appese a un gancio sulla parete vicina. Quando arrivò il cameriere, Chesna ordinò un Riesling, Gallatin fece lo stesso e
Sandler chiese un whisky e soda con un piatto di bocconcini di carne cruda. Il cameriere non sembrò sorpreso dalla richiesta e se ne andò senza commentare. «Harry, devi portare quell'uccello ovunque?», chiese Chesna prendendolo in giro. «Non proprio ovunque. Ma Biondi è il mio portafortuna». Sorrise guardando Michael. Anche il falco - una creatura bellissima - fissava Michael; Gallatin si rese conto che sia l'animale che il suo padrone avevano lo stesso sguardo freddo. Gli artigli serravano la pelle sulla spalla della costosa giacca di tweed di Sandler. «Si intende di uccelli predatori, barone?» «Abbastanza da evitarli». Il cacciatore rise educatamente. Aveva la mascella squadrata e il viso crudo e bello con un naso storto da pugile. I capelli rossi erano tagliati molto corti ai lati e sulla nuca, e un piccolo ciuffo di colore acceso gli cadeva sulla fronte. Tutto in lui trasudava altezzosa sicurezza e potere. Indossava una cravatta a righe rosse e una camicia di un celeste pallido, che aveva sul colletto una piccola svastica d'oro. «Lei è un uomo intelligente», disse. «Ho catturato Biondi in Africa. Ho impiegato tre anni ad addestrarla. Naturalmente non è domestica, solo obbediente». Prese un guanto di pelle dall'interno del cappotto e lo infilò alla mano sinistra. «È adorabile, vero? Sa che potrei farle un segnale, e le ridurrebbe il viso a brandelli nel giro più o meno di cinque secondi?» «È un pensiero confortante», disse Michael. Ebbe la sensazione che gli si fossero contratti i testicoli. «L'ho addestrata sui prigionieri di guerra inglesi», continuò Sandler, facendo un passo nella terra di nessuno. «È bastato imbrattare i loro volti con le interiora di un topo e Biondi ha fatto il resto. Vieni qui, piccola». Fece un fischio basso e offrì all'uccello il dorso del guanto. Il falco passò immediatamente dalla spalla alla mano, serrando gli artigli. «Trovo che la crudeltà sia nobile», disse Sandler mentre la ammirava. «Forse è per questo che voglio che Chesna mi sposi». «Oh, Harry!» La donna sorrise a Michael, ma era un avvertimento. «Non so mai se baciarlo o dargli uno schiaffo». Gallatin non aveva ancora digerito il commento sui prigionieri di guerra inglesi. Anche lui sorrise, ma sentì che il suo viso correva il rischio di rompersi. «Spero che conserverai i tuoi baci per me». «Sono innamorato di lei da quando l'ho conosciuta. Era sul set di... quale film era, Chesna?»
«La fiamma del destino. Heinreid ti portò a visitare il set». «Già. Immagino che anche lei sia un fan, barone...» «Il suo fan più accanito», disse Michael mettendo una mano sopra quelle della donna e stringendola. Si rese conto che doveva essere un'attrice cinematografica. E anche di grande successo. Ricordò di aver letto qualcosa sulla Fiamma del destino: era un film di propaganda nazista realizzato nel 1938. Una di quelle pellicole piene di bandiere naziste, folle esultanti per Hitler e panorami idilliaci della Germania. Arrivarono i bicchieri di vino bianco, il whisky e soda e il piatto di bocconcini di carne cruda. Sandler bévve un sorso e poi cominciò a dare a Biondi i pezzetti di carne sanguinolenta. Il falco li trangugiò avidamente. Michael sentì l'odore ramato del sangue e gli venne l'acquolina in bocca. «Allora, quando si svolgerà il lieto evento?», chiese Sandler guardandosi le dita della mano destra macchiate di rosso. «Nella prima settimana di giugno», rispose Chesna. «Non abbiamo ancora deciso il giorno esatto, vero Frederick?» «No, non ancora». «Sono felice per voi, ma è una tragedia per me». Il cacciatore osservò un pezzetto di carne entrare nel becco ricurvo di Biondi. «Barone, lei fa qualcosa? Intendo a parte curare le proprietà di famiglia?» «Mi occupo dei vigneti e anche dei giardini. Coltiviamo tulipani». Faceva tutto parte della sua biografia. «Ah, tulipani». Sandler sorrise posando lo sguardo sul falco. «Be', devono tenerla molto impegnata. Essere nobile è un lavoro meraviglioso, vero?» «Se riesci a sopportare tutte quelle ore». Il cacciatore lo fissò; negli occhi castani scuri e privi di anima brillò qualcosa... come la lama di un coltello... Rabbia? Gelosia? Avvicinò di qualche centimetro il piatto di carne a Michael. «Tenga», disse. «Perché non dà da mangiare lei a Biondi?» «Harry», gli disse Chesna. «Non penso che sia necessario...» «D'accordo». Gallatin prese un pezzo di carne. Il cacciatore mosse lentamente in avanti la mano guantata, in modo che il becco dell'uccello fosse a portata di Michael. L'inglese cominciò a offrire al falco il cibo sanguinolento. «Attento», disse Sandler a bassa voce. «Le piacciono le dita. E poi, come farebbe a cogliere i suoi tulipani?» Gallatin si fermò. Biondi fissava la carne che aveva tra le dita. Michael
sentì Chesna von Dome diventare tesa accanto a lui. Il cacciatore era in attesa, aspettandosi che il ricco e indolente barone dei tulipani si tirasse indietro. L'inglese non ebbe altra scelta che continuare il movimento che la sua mano aveva già iniziato. Quando le dita si avvicinarono al becco, il falco cominciò a emettere un sibilo basso e minaccioso. «Uh-oh!», disse Sandler. «Il suo odore non le piace». Era l'odore del lupo racchiuso nei suoi pori. Michael esitò, tenendo la carne a pochi centimetri dal becco di Biondi. Il sibilo stava diventando più alto e più forte, come il vapore che esce da un bollitore per l'acqua. «Credo che lei la stia turbando molto. Shhh, piccola». Il cacciatore ritrasse la mano, allontanando il falco da Gallatin e soffiando gentilmente sulla nuca dell'animale. Gradualmente il sibilo cessò. Ma lo sguardo di Biondi era ancora fissato su Michael, che capì che l'uccello voleva balzare dal trespolo di pelle e colpirlo con gli artigli. Tale padrone, tale falco, pensò; correva cattivo sangue a quel tavolo. «Be'», disse Gallatin, «è un peccato sprecare una carne così buona». Mise il boccone in bocca, masticò e inghiottì. Chesna ansimò sbigottita. Sandler rimase seduto, sbalordito e incredulo. Michael sorseggiò con fare casuale il suo vino e si tamponò le labbra con un tovagliolo bianco. «Uno dei miei piatti preferiti è la carne alla tartara», spiegò. «Questa è molto simile, le pare?» Il cacciatore si risvegliò dalla trance. «Farai meglio a stare attenta al tuo futuro sposo», disse alla donna. «Sembra che gli piaccia il sapore del sangue». Si alzò; per il momento il gioco era finito. «Devo occuparmi di una questione, quindi per ora vi saluto. Barone, spero di avere la possibilità di parlarle più tardi. Naturalmente parteciperà alla riunione del Brimstone Club...» «Non me la perderei mai». «Se è capace di mangiare la carne cruda, adorerà il Brimstone Club. Non vedo l'ora di incontrarla di nuovo». Tese la mano per stringere di nuovo quella di Michael, poi si guardò le dita macchiate di sangue. «Mi perdona se non le stringo la mano?» «Non è necessario alcun perdono». Le sue nocche non erano pronte per un'altra gara a chi stringe più forte. Il cacciatore fece un rapido inchino a Chesna e si allontanò dal salotto con il falco aggrappato alla mano sinistra guantata. «Affascinante», disse Gallatin. «Ho incontrato serpenti più gentili». La donna lo guardò; era davvero un'ottima attrice, perché il suo volto
aveva mantenuto l'espressione sognante di un'amante felice, mentre il suo sguardo era freddo. «Ci osservano», disse. «Se provi di nuovo a infilarmi la lingua in gola, te la stacco con un morso. Chiaro, tesoro?» «Questo significa che avrò un'altra possibilità?» «Significa che la nostra promessa di matrimonio è finta e non dev'essere confusa con la realtà. Era il modo migliore per spiegare la tua presenza e farti entrare in questo albergo». Michael scrollò le spalle, divertendosi a punzecchiare la bionda celebrità nordica. «Sto solo cercando di recitare la mia parte». «Lascia la recitazione a me. Limitati ad andare dove ti dico, a fare quello che ti dico e a parlare quando ti viene rivolta la parola. Non offrire volontariamente informazioni, e per l'amor di Dio non cercare di eguagliare l'ego di Harry Sandler». Lo guardò con un cipiglio sgradevole. «E cos'era quella storia della carne cruda? Non pensi di essere andato un po' troppo oltre?» «Forse, ma ho fatto andare via quel bastardo, ti pare?» Chesna von Dorne sorseggiò il vino ma non rispose. Doveva ammettere che aveva ragione. Sandler era stato messo in ombra e non era il tipo da prendere la cosa alla leggera. Tuttavia la situazione era stata davvero divertente, in un modo bizzarro. La donna guardò l'uomo sopra l'orlo del bicchiere. Pensò che non fosse decisamente tipo da cogliere i tulipani. Senza tutta quella sporcizia addosso, i capelli arruffati e la barba era molto bello. Ma i suoi occhi la disturbavano in un modo che non riusciva a definire. Sembravano... sì, decise che sembravano gli occhi di un animale pericoloso e le ricordavano i pallidi occhi verdi di un lupo americano che l'aveva spaventata quando a dodici anni era andata a visitare lo zoo di Berlino. L'animale l'aveva fissata con occhi chiari e freddi, e anche se erano separati dalle sbarre, Chesna aveva tremato stringendo forte la mano del padre. Aveva capito quello che il lupo stava pensando: Voglio mangiarti. «Voglio mangiare qualcosa», disse Michael. La carne cruda gli aveva fatto venire appetito. «C'è un ristorante qui?» «Sì, ma possiamo ordinare il servizio in camera». Chesna finì il vino. «Abbiamo molto di cui parlare». Gallatin la stava fissando, ma lei evitò il suo sguardo. Chiamò il cameriere, firmò il conto e poi prese il braccio di Michael conducendolo fuori dal salone come un cane di razza al guinzaglio. Quando arrivarono nell'atrio e proseguirono a grandi passi verso la fila di ascensori con le porte dorate, Chesna accese il suo magnifico sorriso come se fosse una luce della ribalta. Mentre si avvicinavano agli ascensori, un uomo dalla voce roca disse: «Signorina von Dorne?»
La donna si fermò e si voltò mostrando un sorriso splendente, pronta a incantare un altro cacciatore di autografi. L'uomo era enorme: un bunker vivente alto circa due metri e pesante almeno 130 chili, con spalle e braccia massicce. Indossava l'uniforme di un aiutante delle SS e un berretto grigio con visiera, e il suo viso pallido non mostrava alcuna emozione. «Mi è stato detto di darle questa», disse porgendo a Chesna una piccola busta bianca. La donna la prese, con la mano che sembrava quella di una bambina in confronto a quella dell'uomo. Sulla busta c'era scritto il suo nome. Il cuore di Michael cominciò a battere all'impazzata. In piedi davanti a lui c'era l'uomo di nome Boots, che aveva ucciso lo zio di Gaby a forza di calci e pestoni nel fienile di Bazancourt. «Devo portare una risposta», disse Boots. Aveva i capelli tagliati quasi a zero e gli occhi azzurri dalle palpebre pesanti; erano gli occhi di un uomo che vedeva chiunque altro al mondo come una fragile costruzione di carne e ossa. Mentre Chesna apriva la busta e leggeva la lettera, Gallatin osservò gli stivali militari pesanti dalla spessa suola dell'aiutante delle SS. Riflettevano le candele del lampadario sulla superficie lucida; Michael si chiese se erano gli stessi stivali che avevano fatto saltare i denti a Gervaise. Sentì lo sguardo dell'uomo su di sé e alzò il viso per fissare quegli occhi azzurri e spenti. Boots fece un rapido cenno di assenso con la testa, senza riconoscerlo. «Gli dica che sarò... saremo lietissimi», gli disse Chesna; Boots si allontanò dirigendosi verso un gruppo di ufficiali al centro dell'atrio. L'ascensore arrivò. «Sesto», ordinò la donna all'anziano fattorino. Mentre salivano disse a Michael: «Siamo appena stati invitati a cena dal colonnello Jerek Blok». 6. Chesna aprì la porta bianca con la chiave e girò il pomello d'ottone decorato. Quando Michael attraversò la soglia venne investito da un profumo di rose fresche e lavanda. Il soggiorno, una maestosità di mobili bianchi, aveva un soffitto alto sei metri e un caminetto rivestito di mattonelle di marmo verde. Una portafinestra si apriva sulla terrazza che dava sul fiume e sulla foresta che si ergeva oltre la massa d'acqua. Sopra un pianoforte Steinway bianco era posato un grosso vaso di cristallo che conteneva rose e rametti di lavanda. Sulla
parete sopra il camino era appeso un dipinto incorniciato di Adolf Hitler con gli occhi d'acciaio. «Accogliente», disse Michael. Chesna chiuse a chiave la porta. «La tua stanza da letto è laggiù». Indicò con il capo verso il corridoio. Gallatin lo percorse e si guardò intorno nella camera spaziosa con i mobili di quercia scura e i dipinti di vari aeroplani della Luftwaffe. Il suo bagaglio era stato sistemato con cura in un armadio. Tornò in soggiorno. «Sono davvero impressionato», disse, anche se gli sembrò di minimizzare. Posò il cappotto sul divano e camminò verso una delle alte finestre. La pioggia stava ancora cadendo e picchiettava sul vetro, mentre la foresta sottostante era avvolta nella foschia. «Paghi tu per questo, o pagano i tuoi amici?» «Pago io. E non è affatto economico». La donna si diresse verso il bar rivestito di onice, prese un bicchiere da uno scaffale e aprì una bottiglia d'acqua. «Sono ricca», aggiunse. «Tutti proventi derivati dalla recitazione?» «Sono stata la protagonista di dieci film dal 1936. Non hai sentito parlare di me?» «Ho sentito parlare di Echo», rispose l'uomo. «Non di Chesna von Dome». Aprì la portafinestra e respirò l'aria brumosa e profumata di pino. «Come mai un'americana è diventata una stella del cinema tedesco?» «Ho talento. E poi mi sono trovata nel posto giusto al momento giusto». Bevve l'acqua e posò il bicchiere di lato. «"Chesna" viene da "Chesapeake". Sono nata sullo yacht di mio padre nella Baia di Chesapeake. Mio padre era tedesco e mia madre del Maryland. Ho vissuto in entrambi i paesi». «E perché hai scelto il Maryland invece della Germania?», chiese Michael in tono salace. «La mia lealtà, vuoi dire?» La donna fece un debole sorriso. «Be', non sono una sostenitrice dell'uomo sul camino. Né lo era mio padre. Si è suicidato nel 1934, quando è fallito». Gallatin fu sul punto di dire Mi dispiace, ma non ce ne fu bisogno. Chesna aveva semplicemente fatto un'affermazione. «E fai comunque film per i nazisti?» «Faccio film per fare soldi. E poi, quale modo migliore per entrare nelle loro grazie? Grazie a quello che faccio e a chi sono, posso entrare in luoghi vietati a molti altri. Sento molti pettegolezzi e a volte vedo persino delle
mappe. Rimarresti sbalordito nello scoprire quanto può vantarsi un generale quando lo champagne gli scioglie la lingua. Sono la Ragazza d'Oro della Germania. Il mio volto si trova persino su alcuni manifesti di propaganda». Inarcò le sopracciglia. «Capisci?» Michael annuì. C'erano molte altre cose da sapere su Chesna von Dome; era anche lei una montatura come i personaggi che interpretava sullo schermo? In ogni caso, era una donna bellissima che aveva la vita di Gallatin nelle sue mani. «Dov'è il mio amico?» «Vuoi dire il tuo valletto? Nell'ala riservata ai servitori». Indicò un telefono bianco. «Puoi parlargli componendo il numero della nostra stanza seguito dal nove. Possiamo anche ordinare il servizio in camera per te, se hai fame». «Ne ho molta. Vorrei una bistecca». La vide rivolgergli uno sguardo pungente. «Al sangue», le disse. «Voglio che tu sappia una cosa», disse la donna dopo una pausa. Si diresse verso le finestre e scrutò il fiume, con il volto dipinto dalla luce della tempesta. «Anche se l'invasione avrà successo - e le probabilità dicono il contrario - gli alleati non raggiungeranno mai Berlino prima dei russi. Naturalmente i nazisti si aspettano un'invasione, ma non sanno con esattezza quando o dove avverrà. Il loro piano è di ricacciare in mare gli alleati in modo da poter rivolgere tutta la loro forza verso il fronte russo. Ma non basterà... e per quell'epoca il fronte russo sarà il confine della Germania. Quindi questo è il mio ultimo incarico: quando avremo completato la nostra missione, lascerò il paese con te». «E con il mio amico. Mouse». «Sì», convenne la donna. «Anche con lui». Mentre il licantropo e la stella del cinema discutevano il loro futuro, una macchina di servizio grigioazzurra con un gagliardetto delle SS attraversò il cortile dell'albergo quaranta metri più sotto. Il veicolo attraversò il ponte di chiatte e si diresse lungo la strada lastricata in mezzo alla foresta che aveva portato Michael e Mouse al Reichkronen. Entrò a Berlino e cominciò a dirigersi a sudest, verso le fabbriche e l'aria inquinata del distretto di Neukolln. Da est stavano arrivando delle nuvole nere e i tuoni risuonavano come esplosioni lontane di bombe. La macchina raggiunse un isolato di case sporche e l'autista si fermò in mezzo alla strada, incurante del traffico. Non suonò nessun clacson. Il gagliardetto delle SS mise a tacere qualunque lamentela. Un uomo massiccio con indosso l'uniforme di un aiutante, un berretto grigio con visiera e stivali militari pesanti, uscì dal veicolo e vi
girò intorno per aprire la portiera. Il passeggero nel sedile posteriore - una figura estremamente magra con indosso un'uniforme, un berretto con la visiera e un lungo soprabito verde scuro - uscì dalla macchina e camminò impettito verso una casa; l'uomo più massiccio lo seguiva da vicino. La macchina grigioazzurra rimase esattamente dov'era. Non ci avrebbero messo molto. Al secondo piano un pugno robusto bussò alla porta indicata dal numero 5 ossidato. All'interno dell'appartamento si sentì tossire. «Sì? Chi è?» L'ufficiale con il soprabito verde scuro annuì. Boots sollevò il piede destro e diede un calcio alla porta. Si sentì il rumore del legno che si rompeva, ma il catenaccio evitò che si spalancasse. La resistenza della porta fece diventare rosso di rabbia il volto di Boots, che sferrò un altro calcio e poi un terzo. «Smettetela!», urlò l'uomo all'interno. «Vi prego, smettetela!» Il quarto calcio sfondò la porta. Theo von Frankewitz era in piedi con indosso la vestaglia di seta blu e aveva gli occhi sporgenti per il terrore. Indietreggiò, inciampò su un tavolo e cadde a terra. Boots entrò nell'appartamento facendo risuonare le suole rivestite di metallo. Alcune persone spaventate avevano aperto le porte dei loro appartamenti e stavano scrutando fuori; l'ufficiale con il soprabito urlò: «Tornate nei vostri buchi!» Le porte si chiusero sbattendo e si sentì il rumore dei chiavistelli che venivano fatti scorrere. Frankewitz era inginocchiato e posava le mani sul pavimento, cercando di sgusciare via. Si infilò in un angolo e alzò le braccia in un gesto di supplica. «Vi prego, non fatemi del male!», urlò. «Vi prego, non fatelo!» Il suo bocchino giaceva a terra con la sigaretta ancora fumante; Boots la schiacciò con un piede mentre si avvicinava all'uomo che piagnucolava. L'aiutante si fermò, torreggiando su di lui come una montagna di carne e ossa. Lungo le guance di Frankewitz scendevano le lacrime. Stava cercando di schiacciarsi contro la parete del suo appartamento. «Cosa volete?», chiese strozzandosi, tossendo e piangendo allo stesso tempo. Guardò l'ufficiale delle SS. «Cosa vuole? Ho fatto il lavoro che mi ha chiesto!» «È vero. E molto bene». L'ufficiale aveva il volto tirato. Entrò nella stanza e si guardò intorno con disgusto. «Questo posto puzza. Non apre mai le finestre?» «Non... non... non si aprono». Il naso dell'artista stava gocciando; l'uomo
tirò su e gemette allo stesso tempo. «Non importa». L'ufficiale fece un gesto impaziente con la mano dalle dita sottili. «Sono venuto a fare un po' di pulizia. Il progetto è finito e non avrò più bisogno del suo talento». Frankewitz capì cosa significavano quelle parole. Il suo viso si contorse. «No... vi scongiuro, per l'amore di Dio... ho fatto il lavoro che mi avete chiesto... ho fatto...» L'ufficiale annuì di nuovo: era un segnale per Boots. L'uomo enorme sferrò un calcio contro il petto di Frankewitz: si sentì uno schiocco quando lo sterno si ruppe. L'artista urlò. «Fai cessare questo lamento!», ordinò l'ufficiale. L'aiutante prese un cuscino dal divano verde mare, lo strappò, estrasse un pezzo di imbottitura di cotone, afferrò i capelli dell'artista e gliela infilò nella bocca ansimante. Frankewitz si dimenò cercando di artigliare gli occhi di Boots; l'aiutante schivò facilmente le dita, gli diede un calcio nelle costole e le sfondò come un barile impregnato d'acqua. Le urla erano smorzate e non disturbavano più Blok. Boots sferrò un altro calcio sul viso di Frankewitz, gli spaccò il naso e gli slogò la mascella. L'occhio sinistro si gonfiò chiudendosi; un livido violaceo a forma di suola di stivale si formò sul suo viso. L'artista era in preda alla disperazione e alla follia, e cercò di aprirsi un varco con le dita attraverso la parete. Boots gli diede un pestone sulla spina dorsale; Frankewitz si contorse come un bruco schiacciato. Faceva freddo nella stanzetta umida. Blok era un uomo con una tolleranza per il disagio molto bassa, così camminò verso la grata del piccolo camino, dove qualche misera fiamma danzava nella cenere. Si fermò in piedi vicino alla grata e cercò di scaldarsi le mani, che erano quasi sempre fredde. Aveva promesso al suo aiutante che poteva avere Frankewitz. Il piano originario di Blok era di uccidere l'artista con un proiettile, adesso che il progetto era finito e Frankewitz non sarebbe stato richiamato per fare qualche ritocco, ma Boots doveva mantenersi in esercizio come ogni animale di grossa taglia. Era come lasciare che un dobermann addestrato mostrasse la propria bravura. L'aiutante spezzò il braccio sinistro dell'artista con un calcio sulla spalla. Frankewitz aveva cessato di lottare e questo deluse Boots. Il pittore giaceva inerme a terra mentre il militare continuava a tempestarlo di calci. Sarebbe finita presto, pensò Blok. Poi sarebbero potuti tornare al Reichkronen lasciando quella misera... Un momento.
Il colonnello osservò un puntino rosso rimasto da una fiamma, proprio nella grata, come se fosse un pezzo di carta accartocciato e bruciato. Frankewitz aveva strappato qualcosa di recente e l'aveva gettato nella grata, ma non tutto era stato consumato dalle fiamme. L'ufficiale riuscì a vedere un pezzetto di quello che era stato disegnato sulla carta: sembrava il viso di un uomo, con uno svolazzo di capelli neri sulla fronte. Era rimasto solo un occhio sporgente e caricaturale, l'altro era bruciato. Era un disegno familiare. Troppo familiare. Il cuore di Blok cominciò a battere forte. Allungò una mano nella cenere e ne estrasse il frammento di carta. Sì. Era un viso. Il suo viso. La parte inferiore era bruciata, ma la cresta acuta del naso era familiare. L'ufficiale si sentì la gola secca. Rovistò nella cenere, trovando un altro pezzetto di carta che non era bruciato. Su questo c'era il disegno di un'armatura di ferro tenuta insieme da chiodi. «Fermo», sussurrò Blok. Venne sferrato un altro calcio. Frankewitz non fece alcun rumore. «Fermo!», urlò l'ufficiale drizzandosi di scatto. Boots trattenne il pestone successivo che avrebbe frantumato il cranio dell'artista e indietreggiò dal corpo inerme a terra. Blok si inginocchiò accanto a Frankewitz e gli afferrò i capelli, sollevandogli la testa dal pavimento. Il viso dell'artista era diventato un quadro surrealista in varie tonalità di blu e rosso. Dalle labbra spaccate pendeva il cotone insanguinato e rivoli rossi scendevano dal naso fracassato, ma Blok riuscì a sentire il debole brontolio dei polmoni dell'uomo. Frankewitz era ancora aggrappato alla vita. «Cosa sono questi?», chiese l'ufficiale tenendo i frammenti di carta davanti al viso del pittore. «Rispondimi! Cosa sono?» Si rese conto che non poteva obbedire, così posò i pezzetti di carta a terra evitando di macchiarli di sangue - e cominciò a togliergli il cotone dalla bocca. Fu un lavoro sporco e Blok si accigliò per il disgusto. «Tienigli la testa su e fagli aprire gli occhi!», disse a Boots. L'aiutante afferrò i capelli di Frankewitz e cercò di aprirgli a forza le palpebre. Un occhio era stato distrutto ed era rientrato nell'orbita. L'altro era iniettato di sangue e sporgeva come se volesse prendere in giro l'occhio della caricatura sul pezzo di carta che teneva in mano Blok. «Guarda questo!», ordinò l'ufficiale. «Riesci a sentirmi?» Il pittore emise un debole gemito e dai polmoni salì un gorgoglio. «Questa è una copia del lavoro che hai fatto per me, vero?» L'ufficiale teneva il frammento di carta davanti al viso dell'uomo. «Perché l'hai dise-
gnata?» Non era affatto probabile che Frankewitz l'avesse fatto per proprio divertimento; questo portò un'altra domanda sulle labbra sottili di Blok: «Chi l'ha vista?» Frankewitz tossì sbavando sangue. L'occhio che gli era rimasto si mosse nell'orbita e trovò il frammento di carta il cui bordo era bruciato. «Hai riprodotto il disegno», continuò l'ufficiale come se stesse parlando a un bambino ritardato. «Perché l'hai fatto, Theo? Cosa volevi farci?» L'artista lo fissava, respirando ancora. Non avrebbero ottenuto niente in quel modo. «Maledizione!», disse Blok alzandosi e attraversando la stanza per raggiungere il telefono. Prese il ricevitore, asciugò con attenzione il microfono con la manica e compose un numero di quattro cifre. «Qui è il colonnello Jerek Blok», disse all'operatore. «Passami il reparto medico. In fretta!» Esaminò di nuovo il frammento di carta mentre aspettava. Non c'era dubbio: Frankewitz aveva riprodotto a memoria il disegno e poi aveva cercato di bruciarlo. Quel fatto fece scattare un allarme nel cervello dell'ufficiale. Chi altri aveva visto quel disegno? Doveva saperlo... e l'unico modo per scoprirlo era di tenere in vita l'artista. «Ho bisogno di un'ambulanza!», disse all'ufficiale medico della Gestapo che arrivò al telefono. Gli diede l'indirizzo. «Venite qui il prima possibile!», disse quasi urlando, poi riagganciò. Tornò da Frankewitz per assicurarsi che stesse ancora respirando. Se l'informazione moriva con quell'artista di strada da strapazzo, la gola di Blok sarebbe stata baciata da un nodo scorsoio. «Non morire!», gli disse. «Mi hai sentito, bastardo? Non morire!» Boots disse: «Signore? Se avessi saputo che non voleva che lo uccidessi, non l'avrei colpito così forte». «Non importa! Vai fuori e aspetta l'ambulanza!» Quando l'aiutante uscì, l'ufficiale rivolse la sua attenzione alle tele sul cavalletto e cominciò a passarle in rassegna, gettandole da parte alla frenetica ricerca di altri disegni simili a quelli sui frammenti di carta che stringeva nella mano. Non ne trovò, ma questo non lo calmò. Maledisse la sua decisione di non uccidere Frankewitz molto prima, ma c'era sempre stata la possibilità che fossero necessari altri lavori... e un artista per quel progetto era sufficiente. A terra il pittore ebbe un attacco di tosse e vomitò sangue. «Chiudi il becco!», disse subito Blok. «Non morirai! Abbiamo i modi per tenerti in vita! Ti uccideremo dopo, quindi chiudi il becco!» L'artista obbedì all'ordine del colonnello e perse i sensi. Gli ufficiali medici della Gestapo l'avrebbero rimesso in sesto, disse fra
sé Blok. Gli avrebbero legato le ossa con dei fili, avrebbero cucito le ferite e gli avrebbero avvitato le giunture nelle cavità. Avrebbe avuto più l'aspetto di un Frankenstein che di un Frankewitz, ma le droghe gli avrebbero sciolto la lingua facendolo parlare: avrebbe svelato perché aveva fatto quel disegno e chi l'aveva visto. Erano arrivati troppo lontano con il pugno di ferro perché venisse rovinato da quell'ammasso malridotto di carne che giaceva sul pavimento. Blok si mise seduto sul divano verde mare e dopo pochi minuti sentì la sirena dell'ambulanza che si avvicinava. Pensò che gli dèi del Valhalla gli sorridevano, perché Frankewitz respirava ancora. 7. «Un brindisi!», disse Harry Sandler sollevando il bicchiere di vino. «Alla bara di Stalin!» «Alla bara di Stalin!», echeggiò qualcun altro, poi tutti bevvero. Michael Gallatin era seduto davanti a Sandler nel lungo tavolo da pranzo e bevve senza esitazione. Erano le otto e Michael era nella suite del colonnello delle SS Jerek Blok, insieme a Chesna von Dorne, venti ufficiali nazisti, dignitari tedeschi e le loro compagne. Indossava uno smoking nero, una camicia bianca e un cravattino bianco; alla sua destra Chesna portava un lungo vestito nero scollato, con una collana di perle a coprire il gonfiore del seno. Gli ufficiali erano nelle loro uniformi di gala e persino Sandler aveva riposto la giacca di tweed e indossava un formale completo grigio. Aveva anche lasciato il falco nella sua stanza, cosa che sembrò far tirare un sospiro di sollievo a Michael e a molti altri ospiti. «Alla lapide di Churchill!», propose il maggiore dai capelli grigi seduto qualche posto più in là di Chesna; tutti - compreso Michael - bevvero felici. Gallatin osservò con cura il tavolo, esaminando i volti degli ospiti. Il padrone di casa e l'aiutante con le scarpe piombate non c'erano, ma un giovane capitano aveva messo tutti a sedere facendo cominciare la festa. Dopo qualche altro brindisi in onore degli uomini annegati negli Uboat, dei coraggiosi morti di Stalingrado e dei corpi bruciati di Amburgo, alcuni camerieri in giacca bianca cominciarono a servire la cena su vassoi d'argento. La portata principale era un maiale arrosto con una mela in bocca, che Michael notò con piacere venne posto davanti a Harry Sandler. Il cacciatore aveva evidentemente ucciso la bestia il giorno prima nella riserva
di caccia della foresta; mentre tagliava spesse fette di carne grassa e le faceva scivolare nei piatti, fu chiaro che sapeva maneggiare un coltello bene quanto un fucile. Michael mangiò poco, perché la carne era troppo grassa per lui, e ascoltò le conversazioni da entrambi i lati del tavolo. Il grande ottimismo mostrato sul fatto che i russi sarebbero stati respinti e che gli inglesi avrebbero strisciato ai piedi di Hitler con un trattato di pace in mano era degno di una zingara con una palla di cristallo. Le voci e le risate erano forti, il vino continuava a scorrere, i camerieri andavano avanti con le. portate e la situazione era talmente reale che Harry Sandler avrebbe potuto tagliarla con un coltello. Era quello il cibo che i nazisti erano abituati a mangiare e i loro stomaci sembravano ben pasciuti. Michael e Chesna avevano parlato per quasi tutto il pomeriggio. Lei non sapeva niente del pugno di ferro, né delle attività del dottor Gustav Hildebrand o di quello che succedeva nell'isola norvegese di sua proprietà. Naturalmente sapeva che lo scienziato perorava la guerra chimica - era un fatto ben noto - ma Hitler evidentemente ricordava di essere stato vittima del gas mostarda durante la grande guerra e non aveva intenzione di aprire quella scatola di Pandora. O almeno non ancora. I nazisti avevano una riserva di bombe e proiettili a gas? aveva chiesto Gallatin. Chesna non conosceva il tonnellaggio esatto, ma era sicura che in qualche luogo il Reich tenesse almeno 50mila tonnellate di armi pronte nel caso in cui Hitler cambiasse idea. Michael sottolineò il fatto che i proiettili a gas potessero venire impiegati per ostacolare l'invasione, ma Chesna dissentì. Disse che ci sarebbero voluti migliaia di proiettili e bombe per fermarla. Inoltre un gas simile a quello che il padre del dottor Hildebrand aveva aiutato a sviluppare - mostarda durante la grande guerra, tabun e sarin alla fine degli anni trenta - poteva facilmente tornare indietro a causa degli ingannevoli venti costieri. Così Chesna gli disse che un attacco con il gas contro gli alleati avrebbe potuto ritorcersi contro le truppe tedesche. Era una possibilità che l'alto comando aveva già considerato, e la donna pensava che Rommel - che era al comando delle difese del Vallo Atlantico - non avrebbe permesso che si verificasse. Aggiunse che gli alleati avevano ormai il controllo dei cieli e avrebbero sicuramente abbattuto tutti i bombardieri tedeschi che si fossero avvicinati alle spiagge dell'invasione. Rimasero così al punto iniziale, chiedendosi il significato di una frase e di una caricatura di Adolf Hitler. «Non stai mangiando. Cosa c'è che non va? Non è abbastanza al sangue
per te?» Michael interruppe le sue considerazioni, alzò lo sguardo e fissò il viso di Sandler dall'altra parte del tavolo. Il cacciatore era diventato più rosso dopo tutti quei brindisi e mostrava un sorriso stanco. «Va tutto bene», disse Gallatin infilandosi a forza in bocca la carne grassa. Invidiò Mouse che stava mangiando una ciotola di minestra di carne e un panino con la salsiccia di fegato nell'ala riservata ai servitori. «Dov'è il suo portafortuna?» «Biondi? Oh, non è lontana. La mia suite è qui accanto. Sa, penso che lei non gli piaccia affatto». «Che peccato...» Sandler stava per rispondere - senza dubbio con una battuta scadente ma la sua attenzione venne attirata dalla giovane donna con i capelli rossi che gli sedeva accanto. Cominciarono a parlare e Michael lo sentì dire qualcosa sul Kenya. Be', ci voleva uno scocciatore per uccidere un maiale. In quel momento la porta della sala da pranzo si aprì e Jerek Blok entrò impettito seguito da Boots. Istantaneamente partì un coro di grida di incoraggiamento seguito da applausi e uno degli ospiti propose un brindisi in onore del colonnello delle SS. Blok prese un bicchiere di vino da un vassoio che gli passò davanti, sorrise e bevve alla sua lunga vita. Poi Michael lo osservò; l'uomo alto e magro con il viso giallastro, che indossava l'uniforme di gala tempestata di medaglie, fece il giro del tavolo fermandosi a stringere mani e a distribuire pacche sulle spalle. Boots lo seguì come un'ombra. Il colonnello arrivò alla sedia di Chesna. «Ah, mia cara!», disse chinandosi per baciarle la guancia. «Come stai? Sei bellissima! Il tuo nuovo film sta per uscire, vero?» La ragazza rispose che era imminente. «Sarà un grandissimo successo e ci darà una grossa spinta a livello di propaganda, è così? Certo che è così». I suoi occhi grigi - simili a quelli di una lucertola, pensò Michael - trovarono il barone von Fange. «Ah, ecco il fortunato!» Si avvicinò a Gallatin e gli tese la mano; l'inglese si alzò per stringerla. Boots era in piedi dietro Blok e fissava il barone. «Von Fange, vero?», chiese l'aiutante. La sua stretta di mano era debole e umida. Aveva un naso lungo e stretto e il mento a punta. I capelli castani tagliati corti erano striati di grigio alle tempie e sulla fronte. «Ho conosciuto un von Fange l'anno scorso a Dortmund. Era un membro della sua famiglia?» «Non ne sarei sorpreso. Mio padre e i miei zii viaggiano in tutta la Germania». «Sì, ho conosciuto un von Fange». Blok annuì. Lasciò la mano di Mi-
chael, dandogli la sensazione di aver stretto un oggetto unto. L'attendente aveva dei brutti denti: quelli in basso davanti erano tutti d'argento. «Però non ricordo il suo nome di battesimo. Come si chiama suo padre?» «Leopold». «È un nome da nobile! No, non riesco a ricordarlo». Blok sorrideva ancora, ma era un sorriso vuoto. «E mi dica: perché un giovane robusto come lei non fa parte delle SS? Con il suo retaggio potrei facilmente farle avere un incarico da ufficiale». «Raccoglie tulipani», disse Sandler. Stava cominciando a farfugliare e porse il bicchiere di vino per farselo riempire di nuovo. «La famiglia von Fange coltiva tulipani da più di cinquant'anni», intervenne Chesna, offrendo un'informazione contenuta nel registro dello stato civile tedesco. «Inoltre possiede degli ottimi vigneti e imbottiglia il vino sotto un'etichetta privata. E grazie per averlo portato all'attenzione del colonnello Blok, Harry». «Tulipani, eh?» Il sorriso del militare diventò più freddo. Michael lo vide pensare: forse dopotutto lui non era materiale per le SS. «Be' barone, lei deve essere un uomo davvero speciale per aver fatto perdere la testa a Chesna in questo modo. E aveva tenuto nascosto questo segreto ai suoi amici! Fidati di un'attrice per recitare, vero?» Diresse il suo sorriso radioso alla donna. «I miei migliori auguri a entrambi», disse, poi si spostò per salutare l'uomo che sedeva alla sinistra di Michael. Gallatin continuò a spiluccare. Boots lasciò la sala da pranzo; Michael sentì qualcuno chiedere a Blok del suo nuovo aiutante. «È un nuovo modello», rispose il colonnello mentre si sedeva a capotavola. «Fatto di acciaio Krupp. Ha due mitragliatrici nelle rotule e un lanciagranate nel culo». Scoppiò una risata e Blok se ne compiacque. «No, fino a poco tempo fa Boots lavorava in un distaccamento anti partigiano in Francia. L'avevo assegnato a un mio amico, Harzer. Il povero idiota si è fatto saltare per aria la testa - scusatemi, signore. In ogni caso, ho ripreso Boots nel mio comando un paio di settimane fa». Sollevò il bicchiere di vino pieno fino all'orlo. «Un brindisi. Al Brimstone Club!» «Al Brimstone Club!», ripeterono tutti prima di bere. Il banchetto continuò con salmone al forno, animelle al cognac, quaglia ripiena di salsicce a pezzi, una ricca torta al brandy e lamponi in champagne rosé con il ghiaccio. Michael si sentiva lo stomaco gonfio, anche se aveva mangiato con moderazione; Chesna aveva solo spiluccato, ma quasi tutti gli altri si erano rimpinzati come se l'indomani fosse il Giorno del
Giudizio. Gallatin pensò a molto tempo prima, quando infuriavano i venti invernali e il branco affamato si era riunito intorno alla gamba amputata di Franco. Tutto quel grasso e quell'unto non erano adatti alla dieta di un lupo. Alla fine della cena vennero offerti cognac e sigari. Quasi tutti gli ospiti lasciarono il tavolo, spostandosi nelle altre stanze enormi della suite, tutte con i pavimenti di marmo. Michael si mise in piedi accanto a Chesna sul lungo balcone con un bicchiere di cognac caldo in mano e osservò i riflettori sondare le nuvole basse su Berlino. La donna gli passò un braccio intorno alla vita e gli appoggiò la testa sulla spalla, così vennero lasciati soli. Lui disse mormorando come un amante estasiato: «Che possibilità ho di entrare più tardi?» «Cosa?» La donna fu sul punto di allontanarsi di scatto da lui. «Di entrare qui dentro», spiegò Michael. «Vorrei dare un'occhiata nella suite di Blok». «Non molto buone. Le porte hanno tutte l'allarme. Se non hai la chiave giusta, si scatenerà l'inferno». «Poi procurarne una?» «No. Troppo rischioso». L'uomo rifletté per qualche momento, osservando il balletto dei riflettori. «E le portefinestre del balcone?», chiese. Aveva già notato che non avevano serrature. Non erano necessarie al settimo piano di un castello, a più di quaranta metri da terra. Il balcone più vicino era a destra, apparteneva alla suite di Harry Sandler e si trovava a più di trenta metri di distanza. Chesna lo guardò in viso. «Stai scherzando». «Il nostro appartamento è al piano di sotto, vero?» Avanzò fino alla ringhiera di pietra e guardò di sotto. A poco meno di sei metri c'era un'altra terrazza, ma non faceva parte della suite di Chesna. Il loro alloggio era oltre l'angolo del castello e guardava a sud, mentre la terrazza del colonnello era rivolta a est. Esaminò le mura: le pietre massicce e consumate dal tempo erano piene di crepe e fessure, e ogni tanto vi si trovavano aquile ornamentali, disegni geometrici e i volti grotteschi di alcuni gargoyle. Una cornice sottile circondava ogni livello del castello, ma al settimo piano era crollata quasi del tutto. Tuttavia c'erano punti d'appiglio sia per le mani che per i piedi. Se avesse fatto estrema attenzione... L'altezza gli faceva stringere lo stomaco, ma la cosa che temeva di più era saltare giù dagli aeroplani, non l'altezza in sé. Disse: «Potrei entrare dalle portefinestre del balcone».
«Ci sono molti modi per farti uccidere a Berlino. Se vuoi, puoi dire a Blok chi sei veramente e ti pianterà una pallottola nel cervello, così non dovrai suicidarti». «Dico sul serio», ribatté Michael; Chesna vide che era vero. Voleva dirgli che era una vera e propria pazzia, ma improvvisamente una ragazza bionda uscì ridacchiando sul balcone, seguita da vicino da un ufficiale nazista tanto vecchio da poter essere suo padre. «Cara, cara», canticchiò il caprone tedesco, «dimmi cosa vuoi». Michael attirò Chesna contro di sé e la guidò verso l'angolo più lontano del balcone. Il vento soffiava sui loro visi, portando l'odore della foschia e dei pini. «Potrei non avere un'altra opportunità», disse l'uomo nel tono basso e smielato di un amante. Cominciò a far scivolare la mano lungo la schiena elegante della donna; Chesna non si ritrasse, perché il caprone tedesco e la sua ninfetta li stavano osservando. «Ho esperienza di alpinismo». Aveva frequentato un corso per scalare i dirupi prima di andare in Nord Africa: l'arte di far sostenere novanta chili a una incrinatura capillare e a una piccola roccia sporgente, la stessa abilità che aveva usato all'Opéra di Parigi. Guardò di nuovo oltre la ringhiera, poi ci ripensò. Era inutile sfoderare il coraggio prima di averne bisogno. «Posso farcela», disse, poi annusò il profumo della donna e il suo bellissimo viso così vicino al proprio. I riflettori danzavano su Berlino come un balletto spettrale. D'impulso Michael tirò Chesna contro di sé e le baciò le labbra. Lei oppose resistenza ma solo per un attimo, perché sapeva che li stavano osservando. Gli mise le braccia intorno al corpo, sentì i muscoli delle spalle muoversi sotto la giacca dello smoking, poi la mano di lui le carezzò la base della colonna vertebrale, dov'erano le fossette. Michael assaggiò le labbra della donna: erano dolci come il miele, con un pizzico di pepe. Labbra calde che lo diventavano sempre di più. Lei gli posò una mano sul petto facendo uno sforzo per allontanarlo, ma il braccio non fu d'accordo. La mano sconfitta scivolò via. Gallatin approfondì il bacio e scoprì che Chesna accettava quello che le offriva. «È questo che voglio», sentì dire alla ninfetta del vecchio caprone. Un altro ufficiale guardò fuori dalla portafinestra del balcone. «È quasi ora!», annunciò, poi si allontanò in fretta. Il caprone e la ninfetta se ne andarono, con la ragazza che ancora ridacchiava. Michael interruppe il bacio e Chesna ansimò alla ricerca d'aria. Le labbra di lui formicolavano. «Quasi ora per cosa?», le chiese. «Per l'incontro del Brimstone Club. Una volta al mese nell'auditorium».
Era ridicolo, ma la donna si sentì un po' stordita. Pensò che forse dipendeva dall'altezza. Le sembrava di avere le labbra infuocate. «Sarà meglio sbrigarci, se vogliamo trovare dei buoni posti». Gli prese la mano e lui la seguì lasciando il balcone. Scesero in un ascensore affollato insieme ad altri ospiti. Michael pensò che il Brimstone Club fosse una di quelle alleanze mistiche di cui i nazisti si vantavano tanto in un paese di ordini cavallereschi, accolite e società segrete. In ogni caso stava per scoprirlo. Notò che Chesna gli stringeva forte la mano, anche se la sua espressione era rimasta allegra. L'attrice al suo meglio. L'auditorium si trovava al primo piano del castello, nella sezione dietro l'atrio, e si stava riempiendo di gente. Più o meno cinquanta membri del Club si erano già messi a sedere. Un sipario di velluto rosso oscurava il palco e lanterne elettriche multicolori pendevano dai puntoni. Gli ufficiali nazisti erano vestiti molto elegantemente e quasi tutti gli altri indossavano un abbigliamento formale. Qualunque cosa fosse, il Brimstone Club era riservato alle persone importanti del Reich, pensò Michael mentre procedeva con Chesna lungo il corridoio. «Chesna! Da questa parte! Prego, sedete con noi!» Jerek Blok si alzò dalla sedia e li invitò con un cenno della mano. Boots non era presente, anche perché avrebbe occupato due posti, ma il colonnello era seduto con un gruppo dei suoi ospiti a cena. «Scalate!», disse; il suo ordine venne immediatamente seguito. «Prego, siediti accanto a me». Indicò la poltrona accanto. Chesna si accomodò, mentre Michael si sedette nel posto lungo il corridoio. Blok mise la mano su quella della donna e fece un ampio sorriso. «Ah, è una serata meravigliosa! È primavera! Si sente nell'aria, vero?» «Sì, si sente», convenne la donna con un sorriso piacevole ma la voce tesa. «Siamo davvero lieti di averla con noi, barone», gli disse il colonnello. «Naturalmente sa che tutte le quote di ammissione vanno al Fondo di Guerra». Gallatin annuì. Blok cominciò a parlare con una donna che gli sedeva davanti. Michael vide Sandler conversare animatamente in prima fila tra due donne. Probabilmente dell'Africa, pensò. Nel giro di un quarto d'ora erano entrate nell'auditorium da settanta a ottanta persone. La luce delle lanterne cominciò ad affievolirsi e le porte vennero chiuse per non far entrare chi non era stato invitato. Il pubblico cadde in silenzio. Di che diavolo si trattava? si chiese Michael. Chesna gli
stringeva ancora forte la mano, tanto che le dita cominciavano a penetrargli nella carne. Dal sipario apparve un uomo con indosso uno smoking bianco; venne accolto da un applauso educato. Ringraziò i membri del Club per aver partecipato all'incontro mensile e per essere così generosi nei loro contributi. Continuò parlando dello spirito combattivo del Reich e di come la coraggiosa gioventù tedesca avrebbe schiacciato i russi respingendoli nelle loro tane. L'applauso che seguì fu meno entusiasta e alcuni ufficiali borbottarono in segno di derisione. L'uomo - un maestro di cerimonia, capì Gallatin continuò impassibile, parlando del futuro brillante del Reich dei Mille Anni e di come la Germania avrebbe avuto tre capitali: Berlino, Mosca e Londra. Il sangue di oggi, disse con voce tonante, sarebbe stata la ghirlanda vittoriosa di domani, bisognava continuare a combattere! Ancora! E ancora! «E adesso», disse facendo un gesto plateale, «che il divertimento abbia inizio!» Le lanterne si spensero. Il sipario si aprì, il palcoscenico venne illuminato dai riflettori e il maestro di cerimonia uscì rapidamente. Un uomo sedeva in una sedia al centro del palco, leggendo un giornale e fumando un sigaro. Michael fu sul punto di scattare in piedi. Era Winston Churchill, completamente nudo, con il sigaro serrato tra i denti da bulldog e una copia stracciata del London Times tra le mani tozze. Scoppiò una risata. La musica di una fanfara nascosta dietro il palcoscenico intonò un motivo comico. Winston Churchill era seduto a fumare e a leggere, con le gambe pallide incrociate e l'etichetta sotto le scarpe. Mentre il pubblico rideva e applaudiva, una ragazza con indosso solo degli alti stivali di pelle nera e con in mano un gatto a nove code fece il suo ingresso sul palco. Sul labbro superiore aveva un quadratino disegnato con il carboncino: il baffo di Hitler. Michael riconobbe sbigottito Charlotta, la ragazza che aveva chiesto l'autografo a Chesna. Adesso non sembrava affatto timida, con i seni che sobbalzavano mentre avanzava verso il finto Churchill; l'uomo alzò improvvisamente lo sguardo e lanciò un urlo stridulo e assordante. Le risate aumentarono. Churchill cadde in ginocchio, offrendo il didietro nudo e cadente al pubblico, e alzò le mani implorando misericordia. «Tu, maiale!», urlò la ragazza. «Sudicio porco assassino! Ecco la tua misericordia!» Ruotò la frusta e sferzò le spalle dell'uomo, creando stri-
sciate rosse sulla carne bianca. Lui urlò per il dolore e strisciò ai piedi della ragazza. Charlotta cominciò a frustargli la schiena e il sedere, insultandolo come un marinaio mentre la banda suonava un motivo allegro e il pubblico si sganasciava dalle risate. Realtà e finzione si mischiarono; naturalmente Michael si rese conto che l'uomo non era il primo ministro inglese ma solo un attore che gli somigliava, ma il gatto a nove code non era finto. Né lo era la rabbia della ragazza. «Questa è per Amburgo!», urlò. «E Dortmund! E Marienburg! E Berlino! E...» continuò recitando i nomi delle città che i bombardieri alleati avevano colpito; mentre la frusta cominciava a sollevare gocce di sangue, il pubblico prese ad acclamare. Blok balzò in piedi, applaudendo con le mani sopra la testa. Anche altri si alzarono, urlando esultanti mentre la fustigazione continuava e il falso Churchill tremava ai piedi della ragazza. Lungo la schiena dell'uomo scorreva sangue, ma il poveretto non fece alcun tentativo di alzarsi o di sfuggire alla frusta. «Bonn!» Disse furiosa la ragazza mentre lo colpiva. «Schweinfurt!» Le spalle e il seno le brillavano per il sudore, il corpo le tremava per lo sforzo, il caldo le rovinò il baffo disegnato con il carboncino. La frusta continuò a cadere: ormai la schiena e le natiche dell'uomo erano completamente attraversate da strisce rosse. Alla fine il poveretto tremò e giacque a terra singhiozzando, mentre l'Hitler al femminile lo frustava sulla schiena un'ultima volta, poi gli metteva sul collo in segno di trionfo un piede ammantato dallo stivale. Fece il saluto nazista al pubblico, ricevendo un'ovazione e un applauso scrosciante. Il sipario si chiuse. «Meraviglioso! Meraviglioso!», disse Blok rimettendosi a sedere. La fronte gli era diventata lucente per il sudore, che tamponò con un fazzoletto bianco. «Ha visto quale divertimento paga il suo denaro, barone?» «Sì», rispose Michael; forzare un sorriso fu la cosa più difficile che avesse mai fatto. «Lo vedo». Il sipario si aprì di nuovo. Due uomini spalarono frammenti lucenti da una carriola e li sparpagliarono sul palco. Gallatin si rese conto che stavano ricoprendo il pavimento con schegge di vetro. Finirono il lavoro e portarono via la carriola; poi un soldato nazista spinse sul palco una ragazza magra dai lunghi capelli castani. Indossava un vestito sporco e rattoppato fatto di iuta, e camminava scalza sui pezzi di vetro. Rimase in piedi con la testa accasciata e i capelli che le nascondevano il viso. Appuntata sul vestito aveva una Stella di David gialla. Un musicista in smoking nero apparve dal lato sinistro del palco, infilò il violino sotto il mento e cominciò a suo-
nare un motivo vivace. Contro ogni ragione e dignità, la ragazza cominciò a ballare sui vetri rotti come un giocattolo a molla. Il pubblico rise e applaudì apprezzando l'atto animale. «Bravo!», urlò l'ufficiale seduto di fronte a Michael. Gallatin avrebbe fatto saltare per aria il cervello di quel bastardo se avesse avuto la sua Derringer. Quella ferocia superava qualunque cosa avesse sperimentato nella foresta russa; quella che aveva davanti agli occhi era veramente una riunione di bestie. Pensarlo fu l'unico modo per evitare di saltare in piedi e di urlare alla ragazza di smettere; Chesna sentì il corpo dell'uomo tremare e lo guardò. Vide nei suoi occhi la repulsione, insieme a qualcos'altro che la spaventò fino al midollo. «Non fare niente!», sussurrò. Sotto la giacca dello smoking e l'immacolata camicia bianca di Michael erano affiorati peli di lupo, che si agitavano sulla carne lungo la schiena. Chesna gli serrò la mano. Anche gli occhi della donna erano spenti; aveva staccato le emozioni come si fa con la luce elettrica. Sul palco il violinista suonava sempre più veloce e la ragazza esile ballava più in fretta, lasciando impronte insanguinate sulle tavole. Quella scena andava quasi oltre il potere di sopportazione di Michael; era l'abbrutimento di un'innocente, e gli fece ribollire l'anima. Sentì i peli diffondersi sul dorso delle braccia, sulle scapole e sulle cosce. La trasformazione lo stava chiamando e abbracciarla in quell'auditorium sarebbe stato un disastro. Gallatin chiuse gli occhi, pensò alla foresta verdeggiante, al palazzo bianco, alla canzone dei lupi: la civiltà, molto lontana da lì. Il violinista suonava ormai freneticamente e il pubblico batteva le mani a tempo. Il sudore bruciava il viso di Michael. Sentiva l'odore dell'animale muschiato salirgli dalla pelle. Occorse un enorme sforzo di volontà per trattenere i venti selvaggi. Arrivarono molto vicino a travolgerlo, ma li combatté con gli occhi serrati e i peli di lupo che si increspavano sul petto. Un ciuffo di peli apparve sul dorso della mano destra che stringeva il bracciolo dalla parte del corridoio, ma Chesna non se ne accorse. Poi la trasformazione passò come un treno merci su un binario scuro, con i peli di lupo che pizzicavano terribilmente mentre rientravano nei pori. Il violinista suonò un insieme di note a velocità diabolica; Michael sentì il rumore dei piedi della ragazza che scivolavano sul vetro. La musica raggiunse il suo apice e cessò, provocando grida entusiaste e altre urla di «Bravo! Bravo!» Gallatin aprì gli occhi: erano lucidi per la rabbia e la repulsione. Il soldato nazista portò la ragazza via dal palco. La poveretta si
muoveva come una sonnambula intrappolata in un incubo senza fine. Il violinista fece un inchino e un largo sorriso; un altro uomo con una scopa uscì per spazzare via i frammenti insanguinati di vetro e il sipario si chiuse. «Eccellente!», disse Blok a nessuno in particolare. «Questa finora è la migliore rappresentazione!» Apparvero delle attraenti donne nude che portavano lungo i corridoi dei carrelli con sopra barilotti di birra e bicchieri con il ghiaccio. Si fermarono per versare la birra nei bicchieri e passarli ai membri assetati del Brimstone Club. Il pubblico cominciò a urlare e alcuni spettatori intonarono canzoni oscene. Volti sorridenti brillavano per il sudore; la birra si rovesciò quando i bicchieri si unirono in brindisi spregevoli. «Quanto durerà?», chiese Michael a Chesna. «Qualche ora. So che a volte è andata avanti per tutta la notte». Un altro minuto sarebbe stato troppo, per quanto lo riguardava. Si toccò la tasca e sentì la chiave della loro stanza che la donna gli aveva dato. Blok stava parlando all'uomo che aveva accanto, spiegando qualcosa mentre serrava il pugno. Un pugno di ferro? si chiese Gallatin. Il sipario si aprì di nuovo. Al centro del palco c'era un letto che aveva una bandiera russa come lenzuolo. Su di esso giaceva una donna dai capelli scuri completamente nuda - con i polsi e le caviglie legate alle colonne probabilmente slava. Due uomini nudi e muscolosi con indosso l'elmetto nazista e pesanti stivali militari entrarono dai lati del palco facendo il passo dell'oca; vennero accolti da uno scroscio di applausi e da risate eccitate. Le loro armi erano alzate e pronte all'attacco; la donna sul letto si ritrasse, ma non poteva scappare. Michael aveva raggiunto il suo limite. Si alzò, voltò la schiena al palco e risalì rapidamente il corridoio uscendo dall'auditorium. «Dove va il barone?», chiese Blok. «Siamo ancora all'inizio della serata!» «Io... penso che non si senta bene», gli rispose Chesna. «Ha mangiato troppo». «Oh. È debole di stomaco, vero?» Le afferrò la mano per evitare che anche lei se ne andasse; i denti d'argento brillarono. «Be', ti terrò compagnia io, d'accordo?» Chesna cercò di allontanarsi, ma la morsa del colonnello aumentò. Non aveva mai lasciato una riunione del Brimstone Club; era stata sempre parte del gruppo e andarsene adesso - anche se per seguire il barone - poteva
generare dei sospetti. La donna cercò di rilassare i muscoli e fece affiorare il suo sorriso d'attrice. «Vorrei tanto una birra», disse; Blok chiamò con un cenno una delle cameriere nude. Si sentì un urlo provenire dal palco, seguito dalle grida di approvazione del pubblico. Michael aprì la porta della suite e andò direttamente sul balcone, dove respirò l'aria fresca e cercò di farsi passare il voltastomaco. Ci vollero un paio di minuti perché gli si schiarisse la testa; sentiva il cervello intossicato dalla corruzione. Guardò il cornicione che partiva dal balcone procedendo lungo il muro del castello. Era largo al massimo venti centimetri. Nelle pietre grigie incrinate erano state collocate statue di aquile e volti di gargoyle. Ma se avesse messo un piede in fallo o perso la presa... Non aveva importanza. Se doveva andare, doveva farlo adesso. Si adagiò sulla balaustra del terrazzo, poggiò un piede sul cornicione e afferrò le cavità degli occhi di un gargoyle. Anche l'altro piede trovò il bordo. Michael aspettò qualche secondo, finché non trovò il centro dell'equilibrio, poi si mosse con attenzione lungo il cornicione a più di quaranta metri dalla terra di Hitler. 8. Il cornicione era ancora scivoloso per la pioggia. Il vento era diventato freddo e le raffiche sollevavano i capelli di Michael e gli tiravano la giacca dello smoking. Gallatin continuò ad avanzare, centimetro per centimetro, con il petto premuto contro il muro gigantesco del castello e le scarpe che raschiavano via il cornicione. Il balcone della suite accanto era forse a nove metri di distanza, poi ce n'era un altro a meno di tre metri all'angolo a sudest. Avanzò con cautela, pensando solo al passo seguente e alla presa successiva. Afferrò un'aquila, che improvvisamente si spezzò e andò in briciole: i frammenti caddero nell'oscurità. Si appiattì contro il muro con l'indice e il pollice agganciati in una fessura larga un centimetro, finché non ritrovò l'equilibrio. Poi continuò, cercando con le dita piccole fenditure nelle pietre antiche, saggiando con le scarpe la robustezza del cornicione prima di ogni passo. Pensò a una mosca che avanza lungo un lato di una torta enorme e quadrata. Un passo seguiva l'altro. Qualcosa si spezzò. Attento, attento, si disse. Il cornicione resse, e un attimo dopo Michael raggiunse il balcone e scavalcò la balaustra. La portafinestra era coperta da una tenda, ma da una grande finestra dall'altra parte della terrazza filtrava la luce. Il cornicione passava sotto quella finestra. Michael doveva supe-
rarla per raggiungere l'angolo, dove un insieme di volti di gargoyle e figure geometriche saliva al livello successivo. Attraversò il terrazzo, trasse un profondo respiro e scavalcò la ringhiera mettendosi di nuovo sul cornicione. Aveva le ascelle e la schiena sudate. Continuò a procedere affidandosi al cornicione e non agli appigli improvvisati mentre superava la finestra; era una camera da letto spaziosa, con dei vestiti sparpagliati sul letto ma nessuno all'interno. Oltrepassò il vetro, notando con dispiacere che vi aveva lasciato sopra le impronte del palmo della mano; l'angolo era ormai alla sua portata. Era aggrappato al bordo sudorientale del Reichkronen, con il vento che gli sferzava il viso e i riflettori che passavano avanti e indietro sulle nuvole. Doveva lasciare la sicurezza del cornicione per salire al livello successivo, usando le pietre scolpite come scala. Nel cielo si sentì il rombo di un tuono; Michael alzò lo sguardo per esaminare i visi dei gargoyle e le figure geometriche, valutando dove cercare appoggio. Il vento era un nemico per l'equilibrio, ma non poteva essere evitato. Vai avanti, si incitò, perché quell'angolo era un luogo che toglieva il coraggio. Allungò una mano, afferrò con le dita un triangolo scolpito e cominciò a issarsi. La punta di una scarpa finì nell'occhio di un gargoyle, l'altra trovò l'ala di un'aquila. Salì le pietre intagliate mentre il vento gli turbinava intorno. A quasi quattro metri sopra il cornicione del sesto piano infilò le dita negli occhi di un viso satanico e meravigliato; un piccione uscì dalla bocca del gargoyle in un trambusto di penne. Gallatin rimase un attimo dov'era, con il cuore che gli batteva all'impazzata e le piume dell'uccello che gli giravano intorno. Aveva le dita spellate e sanguinanti, ma era solo due metri e mezzo sotto il cornicione del settimo piano. Continuò a salire sulle pietre scolpite, mise un ginocchio sul bordo e si drizzò con cautela. Il cornicione fece un forte rumore e pezzetti di muro caddero a terra, ma Michael era ancora in piedi su un pezzo più o meno solido. Il balcone seguente apparteneva alla suite di Harry Sandler; Gallatin lo raggiunse con relativa facilità. Attraversò rapidamente la terrazza, scivolò sul lato opposto e si trovò di fronte il cornicione andato a pezzi che collegava al balcone di Blok. Erano rimasti in piedi solo frammenti di pietra con dei buchi enormi in mezzo. Lo spazio più grande senza cornicione era a circa un metro e mezzo di distanza, ma dalla prospettiva precaria di Michael sembrava facilmente il doppio. Doveva aggrapparsi al muro per superarlo. Si mise sul cornicione rotto mantenendosi in equilibrio sulle punte, mentre le dita cercavano fessure nelle pietre. Quando spostò il peso del corpo
in avanti, un pezzo di cornicione si ruppe improvvisamente sotto il piede destro. Gallatin allargò le gambe e appiattì il petto contro il muro, aumentando la presa sulle fessure nelle pietre. Le spalle gli vibrarono per lo sforzo e sentì il fiato fischiargli tra i denti. Vai avanti! si incitò. Non fermarti, maledizione! Ascoltò la sua voce interna, il cui calore sciolse il ghiaccio che aveva cominciato a formarsi nella giuntura del ginocchio. Continuò con attenzione, passo dopo passo, e arrivò al punto in cui il cornicione mancava del tutto. «Mi ha chiesto consiglio e gliel'ho dato», disse una voce sotto Michael. Qualcuno stava parlando sulla terrazza del sesto piano. «Ho detto che quelle truppe sono verdi come mele acerbe e che, se le metterà in quel calderone, verranno fatte a pezzi». «Ma naturalmente non ti ha dato ascolto». Era la voce di un altro uomo. «Mi ha riso in faccia! Ha riso! Ha detto che conosceva le sue truppe meglio di me e che se avesse voluto la mia opinione l'avrebbe chiesta. E adesso conosciamo tutti il risultato, vero? Ottomila uomini intrappolati dai russi e altri quattromila che marciano verso i campi di prigionia. Mi viene la nausea a pensare a questo spreco!» Anche Michael non si sentiva molto bene, pensando a come avrebbe dovuto afferrarsi al muro per attraversare quel buco. Mentre i due ufficiali parlavano nel balcone sottostante, l'inglese si allungò più che poté, inserì le dita insanguinate nelle fessure e tese le spalle. Adesso! pensò, e prima di avere il tempo di esitare si dondolò sul punto privo di cornicione, con i muscoli delle spalle che si tendevano sotto la camicia e le dita e i polsi duri come chiodi da roccia. Rimase appeso per qualche secondo, cercando di alzare il piede destro per posarlo sul frammento successivo di cornicione. Un pezzo di muro si crepò e cadde, seguito nell'oscurità da ciottoli di pietra più piccoli. «È omicidio», stava dicendo il primo ufficiale con voce sempre più veemente. «Un vero omicidio. Migliaia di giovani vengono fatti a pezzi. Lo so, ho visto i rapporti. E quando il popolo tedesco lo scoprirà, ci sarà l'inferno da pagare». Michael non riuscì ad alzare il piede sul cornicione, perché la pietra continuava a sgretolarsi. Aveva il viso sudato; polsi e spalle erano in preda ai crampi. Cadde un altro pezzo di muro che colpì la parete del castello durante la discesa. «Mio Dio, cos'è stato?», chiese il secondo ufficiale. «È appena caduto qualcosa laggiù».
«Dove?» Avanti, avanti! si disse Michael imprecando contro la sua goffaggine. Riuscì a infilare la punta della scarpa destra su un pezzetto di cornicione che fortunatamente non cedette. Parte della pressione sulle dita e sui polsi si allentò, ma stavano ancora cadendo frammenti di pietra che schioccavano rimbalzando sulle pietre sottostanti. «Lì! Lo vedi? Sapevo di aver sentito bene!» Dopo pochi secondi i due uomini si sarebbero sporti oltre la ringhiera del balcone, avrebbero alzato lo sguardo e avrebbero visto Michael lottare per restare in equilibrio. Gallatin fece scivolare il piede destro in avanti, creò spazio per la punta della scarpa sinistra sul frammento di cornicione, e poi si sollevò con le spalle, allungandosi in modo che il piede destro trovasse un punto sicuro per appoggiarsi. La terrazza di Blok era ormai a portata. Lasciò la presa con la mano destra, afferrò la balaustra e si issò rapidamente sul palazzo massiccio. Si riposò per un momento respirando forte, mentre i muscoli della spalla e dell'avambraccio si rilassavano lentamente. «Questo posto sta cadendo a pezzi», disse il primo ufficiale. «Proprio come il Reich, eh? Diavolo, non mi sorprenderebbe se questo balcone ci crollasse sotto i piedi». Era tutto silenzio. Michael sentì uno dei due uomini schiarirsi nervosamente la gola; poi udì la finestra del balcone aprirsi e chiudersi. Girò i pomelli della portafinestra che aveva davanti ed entrò nella suite di Jerek Blok. Sapeva dov'erano la sala da pranzo e la cucina. Non si preoccupò di andare in quella zona, dato che alcuni camerieri e cuochi potevano essere ancora in giro. Attraversò la sala da pranzo dal soffitto alto, oltrepassando un caminetto di marmo nero sopra cui era appeso il solito dipinto di Hitler e raggiunse un'altra porta chiusa. Provò a girare il pomello di ottone e la porta si spalancò. Nella stanza non c'erano luci, ma riusciva a vedere abbastanza bene: c'erano scaffali di libri, una enorme scrivania di quercia, un paio di sedie di pelle nera e un divano. Doveva essere l'ufficio permanente di Blok quando era in visita al Reichkronen. Michael chiuse la porta dietro di sé, camminò sullo spesso tappeto persiano - probabilmente rubato dalla casa di un nobile russo, pensò addolorato - e arrivò alla scrivania. Sopra c'era una lampada con un paralume verde; Gallatin la accese per continuare la perquisizione. Su una parete era appesa una grande fotografia incorniciata del colonnello in piedi sotto un arco di pietra. Dietro si vedevano strutture di legno, bobine di filo spinato e una ciminiera di mattoni dalla
quale usciva del fumo nero. Sull'arco di pietra erano incise le lettere FALKENHAUSEN. Era il campo di concentramento vicino a Berlino dove Blok aveva prestato servizio come comandante. Era la foto di un uomo fiero del suo bambino. Michael rivolse la sua attenzione alla scrivania. Il tampone di carta assorbente era pulito: il colonnello era evidentemente un modello d'ordine. Provò ad aprire il primo cassetto ma era chiuso a chiave, come tutti gli altri. La scrivania aveva una sedia di pelle nera con le lettere SS in argento incassate nello schienale; una valigetta nera vi era appoggiata sotto il mobile. Gallatin la sollevò. Aveva l'insegna delle SS in argento e le iniziali gotiche J.G.B. La mise sulla scrivania e l'apri, infilando una mano all'interno. Trovò una cartella e la tirò fuori. All'interno c'erano numerosi fogli di carta bianca - la carta da lettere ufficiale delle SS - su cui erano battuti a macchina dei numeri. Le cifre erano sistemate in colonne e indicavano l'ammontare di alcune somme di denaro. Fogli di bilancio, ragionò Michael. Accanto ai numeri c'erano delle iniziali: forse di persone, oggetti o un codice di qualche tipo. In ogni caso non aveva tempo per cercare di decifrarle. L'impressione generale era che una grossa somma di denaro era stata spesa per qualcosa, e Blok o un segretario avevano scritto tutto fino all'ultimo marco. C'era qualcos'altro nella cartella: una busta quadrata marrone. Michael l'apri e fece scivolare il contenuto sotto la lampada. Conteneva tre fotografie in bianco e nero. Gallatin trasalì, ma poi s'inchinò in avanti e si costrinse a studiarle con attenzione. La prima foto mostrava il volto di un uomo morto. O meglio quello che ne restava. La guancia sinistra era crollata in un cratere dai bordi frastagliati, la fronte era coperta di fori, il naso si era disintegrato a formare un buco e si vedevano i denti attraverso le labbra sbrindellate. Altri buchi del diametro di circa due centimetri e mezzo erano sparsi sul mento e sulla gola esposta. Dell'orecchio destro era rimasto solo un pezzetto di carne, come se qualcuno I avesse bruciato con un cannello. Gli occhi dell'uomo fissavano privi di espressione; Michael impiegò qualche secondo per rendersi conto che non aveva più le palpebre. In fondo alla fotografia, subito sotto la gola distrutta del cadavere, c'era una lavagnetta. Sopra c'era scritto con il gesso in tedesco: 2/19/44, soggetto del test 307, Skarpa. La seconda fotografia era il profilo di quello che un tempo era probabilmente stato il viso di una donna. Dal cranio pendevano un po' di capelli neri e ricci. Ma quasi tutta la pelle era sparita e le ferite erano tanto orribili
e profonde che erano esposte le cavità sinusali e la radice della lingua. L'occhio era una massa bianca e sciolta, come un blocco di cera per candele. Sulla spalla crivellata del cadavere c'era una lavagnetta: 2/22/44, soggetto del test 345, Skarpa. Michael sentì il pizzicore dovuto al sudore freddo sulla nuca. Guardò la terza fotografia. Era impossibile capire se quell'essere umano era stato un uomo, una donna o un bambino. Del viso non era rimasto niente a parte dei crateri tenuti insieme da fili di tessuto lucente. In quei resti raccapriccianti i denti erano serrati, come a soffocare un ultimo grido. La gola e le spalle erano piene di buchi; sulla lavagnetta c'era scritto 2/24/44, soggetto del test 359, Skarpa. Skarpa, pensò Michael. L'isola norvegese dove il dottor Gustav Hildebrand aveva mantenuto una seconda casa. Evidentemente il dottore aveva intrattenuto degli ospiti. Gallatin si fece coraggio e guardò di nuovo le fotografie. Soggetti del test. Numeri privi di nome; probabilmente prigionieri russi. Ma Santo Dio! Cosa aveva provocato quei danni alla carne umana? Persilo un lanciafiamme dava una morte meno cruenta. L'acido solforico era l'unica cosa a cui riuscì a pensare che potesse aver provocato un tale orrore, ma i bordi sbrindellati della carne non mostravano segni di bruciature da parte di composti chimici o fiamme. Sicuramente Michael non era un esperto di corrosivi, ma dubitò che persino l'acido solforico potesse avere un effetto così devastante. Soggetti del test, pensò. Cosa stavano testando? Una nuova sostanza chimica che Hildebrand aveva sviluppato? Un qualcosa di talmente orribile che poteva venire sperimentato soltanto su un'isola sterile al largo della costa della Norvegia? E cosa aveva a che fare con il pugno di ferro e una caricatura di Hitler? Domande senza risposta. Ma di una cosa Michael Gallatin era certo: doveva trovare quelle risposte prima dell'invasione alleata, programmata poco più di un mese dopo. Mise di nuovo le fotografie nella busta, poi la busta e le carte nella cartella, la cartella nella valigetta, chiuse la valigetta e la posò esattamente dove l'aveva trovata. Passò qualche altro minuto a guardarsi intorno nell'ufficio, ma nient'altro catturò il suo interesse. Poi spense la lampada, attraversò la stanza e si diresse verso la porta d'entrata. Era quasi arrivato quando sentì una chiave scivolare nella serratura. Si fermò improvvisamente, si voltò e andò rapido verso la portafinestra del terrazzo. Era appena uscito sul balcone quando la porta si aprì. La voce eccitata di una ragaz-
za disse: «Oh, sembra il paradiso!» «Al colonnello piace il lusso», fu la risposta roca. La porta venne chiusa di nuovo a chiave. Michael rimase in piedi con la schiena contro il muro del castello e lanciò un'occhiata attraverso il vetro della portafinestra. Boots aveva trovato una compagnia femminile e l'aveva portata nella suite di Blok, evidentemente per cercare di fare colpo e convincerla a togliersi il vestito. Il passo seguente, se Michael si ricordava come sedurre, era di portarla sul balcone e di farla sporgere oltre il bordo per darle un brivido. In quel caso quello non era il posto migliore per stare. Scavalcò rapidamente la balaustra e si mise sul cornicione quasi distrutto. Fece scivolare le dita insanguinate nelle fessure, si resse forte e cominciò a tornare da dove era venuto. Le pietre si rompevano e sgretolavano sotto il suo peso, ma riuscì a superare i punti in cui il cornicione mancava e a raggiungere il balcone della suite di Sandler. Dietro di sé sentì la ragazza dire: «È altissimo, vero?» Michael aprì la portafinestra della terrazza e vi scivolò dentro, richiudendosela piano alle spalle. La suite era un'immagine speculare di quella di Blok, solo che il camino era costruito in pietre rosse e il dipinto al di sopra era una visione diversa del Führer. Il posto era molto silenzioso: Sandler doveva essere ancora al Brimstone Club. Gallatin camminò verso la porta e vi vide accanto una gabbia in cui era appollaiato il falco. Biondi non aveva il cappuccio e i suoi occhi scuri lo fissavano. «Salve, stronzetta», disse Michael picchiettando sulla gabbia. L'uccello tremò di rabbia drizzando le penne sulla nuca e cominciò a fare il solito sibilo. «Dovrei mangiarti e sputare le tue ossa fuori dalla porta», disse l'uomo. Il falco si accovacciò, il corpo tremante come un parafulmine durante una tempesta. «Be', forse la prossima volta». Gallatin allungò una mano verso il pomello della porta. Sentì un ping debole e quasi musicale. Qualcosa tintinnò. Guardò verso la gabbia e vide dei contrappesi scendere dal soffitto. Si rese conto di aver appena spezzato un filo tra lui e la porta, ma non aveva tempo per altre considerazioni, perché dei contrappesi sollevarono la porta della gabbia e l'uccello gli si scagliò contro sfoderando gli artigli. 9. Mentre Michael si teneva in equilibrio sul cornicione dell'albergo, Jerek Blok si asciugava dagli occhi le lacrime dovute alle risate. Sul palco lo spettacolo prevedeva la performance di una nana e di uno slavo massiccio,
che evidentemente era stato l'idiota di un villaggio russo dimenticato da Dio. Tuttavia fisicamente l'uomo era molto ben dotato e rideva di fronte alle reazioni naziste come se capisse lo scherzo. Blok guardò l'orologio da tasca; si stava saziando dei bagordi e dopo un po' tutti i sederi, grandi o piccoli, si assomigliavano. Si sporse verso Chesna e le toccò un ginocchio con un gesto che era ben lontano dall'essere paterno. «Il tuo barone non deve avere il senso dell'umorismo». «Non si sentiva bene». E nemmeno lei. Le faceva male il viso a causa di tutti quei sorrisi falsi. «Avanti, basta con il divertimento da birreria». Si alzò e le afferrò il gomito. «Ti offro una bottiglia di champagne in salotto». La donna fu molto contenta di avere l'opportunità di lasciare la sala con garbo. Lo spettacolo era ben lontano dall'essere finito - dovevano ancora svolgersi dei numeri con la partecipazione del pubblico - ma il Brimstone Club per lei era sempre stato un modo per fare conoscenza. Permise al colonnello Blok di accompagnarla in salotto, pensando che in quel momento il barone forse stava entrando o uscendo dalla suite del colonnello. Finora nessuno aveva urlato che un corpo era precipitato. L'uomo - qualunque fosse il suo vero nome - era pazzo, ma non era certo sopravvissuto così a lungo in quella professione pericolosa comportandosi in modo imprudente. Si sedettero a un tavolo e Blok ordinò una magnum di champagne, poi controllò di nuovo l'orologio da tasca. Chiese al cameriere di portare un telefono al tavolo. «Affari?», chiese Chesna. «Così tardi?» «Temo di sì». Il colonnello chiuse l'orologio e lo ripose nell'uniforme impeccabile. «Voglio sapere tutto del barone, Chesna: dove l'hai conosciuto, cosa sai di lui. Da quando ti conosco, non ho mai pensato che fossi il tipo di donna da comportarsi da sciocca». «Sciocca?» Inarcò le sopracciglia bionde. «Cosa intendi dire?» «Questi duchi, conti e baroni valgono poco. Li vedi ogni giorno tenere banco e vestirsi come manichini di un grande magazzino. Qualunque uomo con una goccia di sangue reale oggigiorno si ritiene d'oro, quando in realtà è soltanto di ghisa. Non si è mai troppo attenti». Le agitò davanti un dito in segno di monito. Il cameriere arrivò con il telefono e inserì la spina nella presa predisposta. «Questo pomeriggio ho parlato con Harry», continuò Blok. «Pensa che il barone possa essere - come dirlo? - interessato a qualcosa di più del vero amore». La donna aspettò che continuasse, mentre il cuore le batteva più forte. Il
naso del colonnello aveva fiutato qualcosa. «Hai detto di conoscere il barone solo da poco, vero? E già pensi al matrimonio? Be', lascia che arrivi al punto, Chesna: sei una donna molto bella e ricca, con un'ottima reputazione nel Reich. Persino a Hitler piacciono i tuoi film e Dio sa che il soggetto preferito dal Führer è se stesso. Hai mai considerato la possibilità che il barone voglia semplicemente sposarti per i tuoi soldi e il tuo prestigio?» «L'ho fatto», rispose la donna. Troppo in fretta, pensò. «Il barone mi ama per come sono». «Ma come puoi esserne certa senza prenderti il tempo necessario? Non stai certo per sparire dalla faccia della terra, vero? Perché non lasciar passare l'estate?» Sollevò il telefono e Chesna lo vide comporre un numero. Sapeva quale era e si sentì gelare il sangue. «Colonnello Blok», disse, identificandosi con l'operatore. «Sezione medica, per favore». Si rivolse di nuovo alla donna: «Tre mesi. Che cosa possono cambiare? Devo dirti che né a me né a Harry piace quell'uomo. Ha uno sguardo famelico. C'è qualcosa di falso in lui. Scusami». Rivolse di nuovo la sua attenzione al telefono. «Sì, parla Blok. Com'è andata l'operazione?... Bene. Allora si riprenderà?... Abbastanza da parlare, sì?... E quando potrà avvenire?... Ventiquattr'ore è troppo! Dodici al massimo!» Parlò con la sua sprezzante voce da colonnello e fece l'occhiolino a Chesna. «Ascoltami, Arthur! Voglio che Frankewitz...» La donna pensò di avere ansimato a voce alta. Non ne era sicura. Sentì una morsa d'acciaio stringerle la gola. «... in grado di rispondere alle domande nel giro di dodici ore. D'accordo? Fine della conversazione». Riagganciò e spinse il telefono di lato, come se lo disgustasse. «Stavamo parlando del barone. Tre mesi. Possiamo scoprire tutto quello che c'è da sapere su di lui». Scrollò le spalle. «Dopotutto, è la mia specialità». Chesna pensò di urlare. Temeva di essere diventata pallida come una morta, ma se Blok lo notò non disse nulla. «Ah, ecco il nostro champagne!» Il colonnello aspettò tamburellando con le dita sul tavolo mentre il cameriere riempiva i bicchieri per entrambi. «Alla salute!», disse. La donna dovette usare tutta la sua abilità per evitare che le tremasse la mano mentre sollevava il bicchiere. Mentre le bollicine di champagne le solleticavano il naso, i contrappesi scesero, la catena tintinnò per tutta la sua lunghezza, la porta della gabbia si aprì e Biondi si avventò contro Michael Gallatin.
Gli artigli sferzarono l'aria nel punto in cui un attimo prima si trovava il suo viso, perché Michael si abbassò e la spinta del falco lo portò a superarlo. L'uccello si contorse a mezz'aria sbattendo le ali e piombò su di lui mentre indietreggiava con le braccia alzate per proteggersi il viso. L'uomo fintò a destra e si spostò a sinistra con la velocità di un lupo; Biondi lo superò, ma i due artigli gli lacerarono la spalla destra sollevando pezzetti di tessuto nero. Il falco si voltò di nuovo e lanciò un urlo furioso. Gallatin indietreggiò cercando freneticamente qualcosa con cui difendersi. L'animale girò nella stanza disegnando un cerchio molto stretto, poi improvvisamente cambiò direzione e si lanciò ad ali spiegate contro il viso dell'uomo. Michael cadde a terra. Biondi si precipitò su di lui cercando di fermarsi, ma slittò lungo il bracciolo di un divano di pelle nera scavando solchi profondi nel cuoio. L'uomo rotolò via, si mise in ginocchio e vide davanti a sé una porta aperta: un bagno con le mattonelle blu. Sentì alle sue spalle il battito delle ali dorate e capì che gli artigli stavano per conficcarglisi sulla nuca. Si lanciò in avanti, fece una capriola e attraversò la porta aperta entrando nel bagno. Quando si girò sulle piastrelle blu del pavimento, vide il falco sfrecciargli contro. Afferrò lo stipite della porta, la sbatté e sentì un colpo sordo mentre il falco la colpiva. Poi fu solo silenzio. Era morto? Si chiese Michael. O soltanto stordito? La risposta giunse qualche secondo dopo: sentì il rumore frenetico degli artigli mentre l'uccello attaccava la porta. Gallatin si alzò e osservò i confini della sua prigione. C'erano un lavandino, uno specchio ovale, un water e un piccolo armadietto. Non c'erano finestre né altre porte. Guardò nell'armadietto ma non trovò niente di utile. Biondi era all'opera dall'altro lato e strappava frammenti della porta del bagno. Per uscire dalla suite Michael doveva lasciare quella stanza e superare il falco. Sandler poteva tornare in qualsiasi momento; non c'era il tempo di aspettare che l'animale si stancasse né che perdesse interesse in lui. Gallatin sapeva che Biondi sentiva su di lui l'odore del lupo e che la stava facendo impazzire. Sandler evidentemente non si fidava del sistema di sicurezza del Reichkronen: il filo sottile che aveva avvolto intorno al pomello della porta mentre era fuori per la serata era una brutta sorpresa per i curiosi. Quando si diventa cacciatori, lo si è sempre. Michael imprecò contro se stesso per non essere stato più attento. Stava pensando a quelle orribili fotografie. Ma quello che aveva scoperto quella sera sarebbe stato inutile se non fosse riuscito a uscire. Il falco attaccò di nuovo la porta con furia rinnovata. L'uomo guardò il suo riflesso nello
specchio e vide che aveva la giacca strappata. Anche la camicia era in parte rovinata, ma la carne al di sotto era intatta. Fino a quel momento. Afferrò i bordi dello specchio e lo sollevò dalle staffe. Poi lo girò in modo che il vetro fosse rivolto dalla parte opposta. Sollevò lo specchio sul viso usandolo come scudo, poi andò verso la porta. Gli artigli del falco ormai dovevano essere penetrati nel legno di qualche centimetro. Michael tenne lo specchio alzato con una mano, poi trasse un profondo respiro e con l'altra mano girò il pomello e spalancò la porta. Il falco urlò e si ritrasse. Aveva visto il suo riflesso. L'uomo si protesse il viso con lo specchio e avanzò cauto verso la portafinestra della terrazza. Non poteva rischiare di imbattersi in Sandler nel corridoio; doveva tornare nella suite di Chesna nello stesso modo in cui era uscito. Sicuramente ormai Boots e la sua conquista avevano smesso di perdere tempo e avevano lasciato il balcone. Gallatin sentì il rumore delle ali possenti di Biondi che avanzava verso di lui. Il falco si fermò a poca distanza dal suo riflesso e artigliò selvaggiamente il vetro. La sua forza quasi strappò l'oggetto di mano a Michael, che serrò le dita intorno ai bordi. L'animale volò via e tornò sfrecciando, senza preoccuparsi delle dita dell'uomo ma concentrandosi per uccidere il falco che aveva osato invadere il suo territorio. Gli artigli graffiarono di nuovo il vetro. Biondi lanciò un terribile urlo, volò in cerchio intorno alla stanza e attaccò ancora una volta lo specchio, mentre Michael indietreggiava verso la terrazza. Stavolta l'animale colpì lo specchio obliquamente e la forza dell'urto fece barcollare l'uomo. Gallatin finì con il tallone sulla zampa di un tavolino da caffè, perse l'equilibrio e cadde. Lo specchio gli scivolò di mano e andò in frantumi contro le pietre del caminetto, facendo un rumore simile a un colpo di pistola. Il falco continuò a volare rasentando il soffitto e muovendosi in cerchi stretti intorno al lampadario di cristallo. Michael si alzò in ginocchio; la portafinestra della terrazza era a circa tre metri e mezzo di distanza. Poi Biondi fece un ultimo giro e si lanciò contro di lui, con gli artigli pronti a cavargli gli occhi privi di protezione. Gallatin non aveva tempo di pensare. Il falco stava arrivando contro di lui come una macchia dorata mortale. L'animale lo raggiunse con le ali spiegate. Gli artigli erano diretti verso il basso e il becco a uncino era pronto a colpire le morbide orbite scintillanti. Michael alzò immediatamente la mano destra e sentì il rumore della cucitura che si rompeva sotto l'ascella. Subito dopo ci fu una confusione di piume dorate nel punto in cui si trovava il falco. Sentì gli artigli dell'ani-
male afferrargli l'avambraccio, strappare la giacca e la camicia e trovare la pelle... poi l'ammasso sanguinolento volò via come una foglia frantumata e si schiantò contro la parete, perdendo altre penne. Biondi scivolò a terra lasciando macchie di sangue contro il muro. Il fagotto insanguinato che un tempo era stato un uccello predatore si contorse più volte e poi rimase immobile. Michael si guardò la mano. Dei peli neri ondeggiavano sull'artiglio possente da lupo e le unghie ricurve erano sporche del sangue e delle interiora di Biondi. I muscoli dell'avambraccio erano turgidi sotto la manica, mettendo a dura prova la cucitura. I peli erano arrivati quasi fino alla spalla; l'uomo sentì le ossa cominciare a piegarsi e a trasformarsi. No, pensò. Non qui. Si alzò in piedi su gambe umane. Impiegò qualche attimo per fermare la trasformazione prima che lo travolgesse, perché l'odore del sangue e la violenza gli avevano infiammato i nervi. Le unghie piegate si ritrassero provocandogli un doloroso formicolio. Anche i peli rientrarono facendogli prudere la pelle. Poi tutto finì e Michael tornò completamente umano, tranne che per un sapore selvaggio di muschio che gli era rimasto in bocca. Si affrettò a uscire sulla terrazza. Boots e la ragazza erano scomparsi nella suite di Blok. Gallatin desiderò poter fare qualcosa per coprire le sue tracce, ma il danno era fatto; scavalcò la balaustra, si mise sul cornicione e procedette verso l'angolo di sudest, dove scese al livello sottostante usando di nuovo i volti scolpiti dei gargoyle e le figure geometriche. Dopo altri otto o nove minuti arrivò al balcone della suite di Chesna ed entrò nell'appartamento, chiudendosi la portafinestra alle spalle. Gli sembrò di riuscire di nuovo a respirare. Ma dov'era la donna? Naturalmente ancora alla riunione del Brimstone Club. Forse anche lui doveva fare una nuova apparizione... ma non con la giacca dello smoking distrutta dagli artigli del falco. Andò in bagno e si tolse tutte le tracce di sangue da sotto le unghie della mano destra, poi prese una camicia bianca pulita e la indossò sotto la giacca di un vestito grigio scuro con i risvolti di velluto nero. Mise di nuovo il cravattino bianco, dato che era sopravvissuto agli schizzi di sangue. Aveva le scarpe sporche, ma non poteva cambiarle. Si controllò rapidamente in uno specchio, assicurandosi di non aver tralasciato una macchia rossa o una piuma dorata, poi lasciò la stanza e prese l'ascensore per scendere. Evidentemente la riunione del Brimstone Club era terminata, perché l'atrio brulicava di ufficiali nazisti con le loro compagne. Dalle gole innaffia-
te di birra uscivano risate sguaiate. Michael cercò Chesna tra la folla... e sentì una mano afferrargli la spalla. Si voltò, trovandosi faccia a faccia con Harry Sandler. «L'ho cercata dappertutto», disse il cacciatore; aveva gli occhi iniettati di sangue e la bocca umida. «Dov'è andato?» La birra aveva finito il lavoro che aveva cominciato il vino. «A fare due passi», rispose Michael. «Non mi sentivo bene. Ha visto Chesna?» «Sì. Anche lei la stava cercando. Mi ha chiesto di aiutarla. Ottimo spettacolo, vero?» «Dov'è Chesna?», ripeté Gallatin. Si liberò dalla presa della mano di Sandler. «L'ultima volta che l'ho vista era in cortile. Là fuori». Annuì in direzione dell'entrata. «Credevo che avesse deciso di tornare a casa per raccogliere dei tulipani. Avanti, la porto da lei». Il cacciatore gli fece cenno di seguirlo, poi cominciò a barcollare e zigzagare attraversando l'atrio. Michael esitò. Sandler si fermò. «Avanti, barone. Chesna sta cercando il suo bello». Gallatin seguì Sandler attraverso la folla, verso l'entrata del Reichkronen. Non sapeva come avrebbe affrontato la questione del falco sventrato. Chesna era una donna intelligente e affascinante... avrebbe pensato a qualcosa. Era felice che Mouse non avesse assistito a quell'orribile "intrattenimento", perché avrebbe potuto crollare del tutto. Una cosa gli era chiara: in qualche modo dovevano scoprire su cosa stava lavorando Gustav Hildebrand. E se possibile dovevano andare a Skarpa. Ma la Norvegia era molto lontana da Berlino, e la capitale della Germania offriva già abbastanza pericoli. Gallatin seguì Harry Sandler giù per gli scalini, dove il cacciatore quasi perse l'equilibrio rompendosi il collo, il che avrebbe sollevato Michael da un compito che aveva intenzione di completare a breve. Attraversarono il cortile, dove tra le pietre c'erano pozzanghere di acqua piovana. «Dov'è?», chiese Gallatin camminando accanto a Sandler. «Da questa parte». Indicò verso il sentiero scuro del fiume. «Lì c'è un giardino. Forse può dirmi da quali fiori è composto. Giusto?» Michael sentì qualcosa nella voce dell'uomo: una durezza sotto il farfugliare dell'ubriaco. Rallentò il passo. Notò che il cacciatore aveva aumentato l'andatura, mantenendo l'equilibrio sulle pietre regolari. Non era ubriaco come fingeva di essere. Ma che cosa... Sandler disse con voce tranquilla e sobria: «Eccolo qui».
Un uomo uscì da dietro una sezione rotta del muro di pietra. Michael si girò rapidamente e vide un altro uomo con un soprabito grigio che gli era arrivato quasi addosso. L'uomo fece due lunghi passi e abbassò la mano che aveva già sollevato. Il manganello che serrava nel pugno colpì Michael Gallatin alla testa e lo fece cadere in ginocchio. «Sbrigatevi!», li incitò Sandler. «Prendetelo, maledizione!» Arrivò una macchina nera. Michael, stordito per il dolore, sentì aprirsi una portiera. No, non una portiera. Era più pesante. Un bagagliaio? Venne sollevato e le sue scarpe sporche si trascinarono sulle pietre. Lasciò che il suo corpo si accasciasse; era successo tutto così in fretta che non aveva avuto tempo di ragionare. I due uomini lo trascinarono verso il portabagagli della macchina. «Sbrigatevi!», sibilò Sandler. Gallatin venne sollevato; si rese conto che l'avrebbero piegato come una valigia e gettato nel portabagagli pieno di aria stantia. Oh no, pensò. Non posso permettere che lo facciano, oh no. Tese i muscoli e portò rapidamente indietro il gomito destro. Colpì un osso e sentì uno degli uomini imprecare. Un pugno forte lo raggiunse ai reni e un braccio lo afferrò intorno alla gola da dietro. Michael lottò, cercando di liberarsi. Se fosse riuscito a poggiare i piedi a terra, pensò stordito, avrebbe... Sentì un sibilo e capì che il manganello stava per colpire di nuovo. Si abbatté sulla nuca, creando esplosioni nere nel panorama bianco di un mondo fantasma. Odore di chiuso. Il rumore del coperchio di una bara che si chiude con forza. No. Un bagagliaio. La mia testa... la mia testa... Sentì il rumore di un motore ben regolato. La macchina si stava muovendo. Cercò di sollevare la testa; quando lo fece, un doloroso pugno di ferro si chiuse intorno a lui, trascinandolo sotto. L'ultimo fiore della gioventù l. Una mattina d'estate del quattordicesimo anno di vita di Mikhail, mentre il sole scaldava la terra e la foresta era uno sbocciare di verde come i giovani sogni, un lupo nero correva. Ora conosceva i trucchi: glieli avevano insegnati Wiktor e Nikita. Spingeva il corpo in avanti con le zampe posteriori e frenava e svoltava con
quelle anteriori. Si doveva sempre fare attenzione alla superficie sotto le zampe: terreno soffice, fango, roccia o sabbia. Richiedevano tutti un tocco diverso, una differente tensione del corpo. A volte bisognava tenere i muscoli rigidi come molle nuove, a volte rilassati come vecchi elastici. Ma - e questa era una lezione importante, gli aveva insegnato Wiktor in tono severo - bisognava restare costantemente consapevoli. Era una parola che il capobranco usava spesso, per piantarla come un chiodo storto nel cervello impaziente di Mikhail. Consapevole. Del proprio corpo, dell'acuto brontolio dei polmoni, dello scorrere del sangue, del movimento di muscoli e tendini, e del ritmo delle quattro zampe. Del sole nel cielo e della direzione in cui si stava andando. Dell'ambiente circostante e di come tornare a casa. E non solo del mondo di fronte a sé, ma di ciò che accadeva a destra e a sinistra, dietro, sopra e sotto. Delle tracce odorose della piccola selvaggina e dei suoni degli animali che fuggivano dal tuo odore. Consapevole di tutte quelle cose e di tante altre. Mikhail non si era mai reso conto che essere un lupo fosse così impegnativo. Ma stava diventando per lui una seconda natura. Il dolore della trasformazione era diminuito, anche se Wiktor gli aveva detto che non sarebbe mai del tutto scomparso. La sofferenza, per quanto aveva capito Mikhail, era un fatto della vita. Eppure tutto questo impallidiva al cospetto dell'assoluta e magnifica eccitazione che provava ogni volta che il suo corpo correva a quattro zampe nella foresta, con i muscoli che ondeggiavano sotto la pelle e una sensazione di potenza superiore a qualsiasi altra avesse mai conosciuto. Era ancora un lupo piccolo, ma Wiktor aveva detto che sarebbe cresciuto. E imparava in fretta, aveva anche ammesso. Inoltre aveva una testa salda sulle spalle. In quei bollenti giorni d'estate Mikhail trascorreva la maggior parte del tempo in forma di lupo, sentendosi pallido e nudo come un verme quando indossava la sua pelle di ragazzo. Dormiva molto poco: ogni giorno e notte c'erano nuove esplorazioni da fare, nuove cose da vedere con occhi a cui nulla sfuggiva. Oggetti che erano banali e familiari alla sua vista umana erano una rivelazione per lo sguardo del lupo: la pioggia era una cascata di colori scintillanti, le tracce dei piccoli animali nell'erba alta erano bordate del tenue blu del calore corporeo, e il vento stesso sembrava una cosa vivente e complessa, che recava notizie di altre vite e altre morti provenienti dall'estremità opposta della foresta. E la luna. Oh, la luna! L'occhio del lupo la vedeva in modo diverso. Un foro argenteo nella notte, infinitamente interessante e a volte bordato di un blu vivido, a volte
cremisi, a volte di una sfumatura impossibile da descrivere. La luce della luna cadeva in lance argentee che illuminavano la foresta come una cattedrale. Era lo splendore più bello che Mikhail avesse mai visto; in quella stupefacente bellezza i lupi - persino Franco con le sue tre sole zampe - si radunavano sulle rocce alte e cantavano. I loro canti erano inni che univano la gioia e la tristezza: siamo vivi, dicevano, e vorremmo vivere per sempre. Ma la vita è una cosa transitoria, come la luna, passa nel cielo e gli occhi di tutti gli uomini e lupi devono appannarsi e chiudersi. Ma canteremo, finché esiste una luce come questa! Mikhail correva per il gusto di correre. A volte, quando tornava alla forma umana dopo ore passate su quattro zampe, aveva difficoltà a restare in equilibrio su due. Erano steli bianchi e deboli, e non era possibile farli andare abbastanza veloci. Era proprio la velocità ad affascinare Mikhail: l'abilità nel muoversi, nello scattare a destra e a sinistra e nell'avere una coda a mo' di timone per aiutarti a mantenere l'equilibrio in curva. Wiktor diceva che si stava innamorando troppo del suo corpo da lupo e stava trascurando gli studi. Non era solo il cambiamento di forma a realizzare il miracolo, gli aveva detto il capobranco: era il cervello nel cranio del lupo che era in grado di seguire nel vento l'odore di un cervo ferito e allo stesso tempo recitare Shakespeare. Mikhail sbucò dal sottobosco e trovò uno stagno in un avvallamento del terreno bordato di rocce. La fragranza dell'acqua fresca in una giornata così calda e polverosa era un profumo invitante. C'erano ancora alcune cose che un giovane umano riusciva a fare meglio di un lupo: una era nuotare. Si rotolò nell'erba morbida per il grande piacere di farlo. Poi restò disteso su un fianco ansimando e lasciò che sopravvenisse la trasformazione. Come funzionasse esattamente era ancora un mistero per lui: la fece iniziare immaginandosi come ragazzo, proprio come si immaginava lupo quando desiderava cambiare nell'altra direzione. Più si vedeva in modo completo e dettagliato con l'occhio della mente, più rapida e tranquilla era la trasformazione. Era una questione di concentrazione, di allenamento mentale. Ovviamente c'erano dei problemi: a volte un braccio o una gamba rifiutavano di obbedire, e una volta a impuntarsi era stata la testa. Tutto questo provocava gran divertimento agli altri membri del branco e notevole imbarazzo a lui. Ma stava migliorando con la pratica. Come gli aveva detto Wiktor, Roma non era stata costruita in un giorno. Mikhail saltò nell'acqua, che si richiuse sulla sua testa. Riemerse sputando, poi curvando il corpo bianco si rituffò in profondità. Muovendosi sul
fondo roccioso ricordò come e dove aveva imparato a nuotare: da bambino, sotto la guida di sua madre, in un'enorme piscina al coperto a San Pietroburgo. Era stato davvero lui? Un bambino timido e viziato che indossava camicie con alti colletti inamidati e prendeva lezioni di piano? Ora gli sembrava un mondo estraneo e tutte le persone che lo avevano abitato erano quasi svanite. Niente era reale, tranne quella vita e la foresta. Tornò rapidamente in superficie e mentre si scrollava l'acqua dai capelli la sentì ridere. Sorpreso, si guardò intorno e la vide. Era seduta su una roccia, con i lunghi capelli color oro alla luce del sole. Alekza era nuda come lui, ma il suo corpo era infinitamente più interessante. «Oh, guarda!», esclamò la ragazza in tono canzonatorio. «Ho trovato un pesciolino!» Mikhail si tenne a galla. «Cosa fai qui?» «E tu cosa fai lì?» «Sto nuotando», rispose. «A te cosa sembra?» «Sembra sciocco. Rinfrescante, ma sciocco». Alekza non sapeva nuotare, pensò Mikhail. L'aveva seguito dal palazzo bianco? «È davvero rinfrescante», le disse. «Specialmente dopo una corsa». Era evidente che anche lei aveva corso: il suo corpo era bagnato da un leggero velo di sudore. La ragazza si appoggiò con cautela sulla roccia, allungò un braccio e immerse una mano a coppa nell'acqua. Se la portò alla bocca e la lappò come un animale, poi versò il resto sulla peluria dorata tra le cosce. «Oh, sì», disse sorridendogli. «È molto fresca, vero?» Mikhail cominciava a sentirsi molto più accaldato. Si allontanò da lei nuotando, ma lo stagno era piccolo. Continuò a girare in circolo, fingendo di non notarla mentre si stendeva sulla roccia offrendo il corpo al sole. E ovviamente allo sguardo di Mikhail. Il ragazzo voltò il viso dall'altra parte. Cosa gli stava succedendo? Ultimamente, durante tutta la primavera e ora l'estate, aveva pensato spesso ad Alekza. Ai suoi capelli biondi, ai suoi occhi azzurro ghiaccio di quando era in forma umana, alla sua pelliccia bionda e alla coda orgogliosa di quando era una lupa. Il mistero tra le sue cosce lo attirava. Aveva fatto dei sogni... no, no, quelli erano indecenti. «Hai una bella schiena», commentò la ragazza. Aveva una voce dolce, con qualcosa di arrendevole. «Sembra così forte». Mikhail nuotò un po' più velocemente. Forse per tendere i muscoli della schiena, forse no. «Quando esci», gli disse Alekza, «ti asciugherò».
Il pene di Mikhail aveva già indovinato come l'avrebbe fatto ed era diventato duro come la roccia su cui si trovava la ragazza. Continuò a nuotare, mentre Alekza prendeva il sole e aspettava. Poteva restare nello stagno fino a quando si fosse stancata e fosse andata via, pensò Mikhail. Era un animale: questo diceva di lei Renati. Ma mentre cominciava a nuotare più lentamente e il cuore gli batteva all'impazzata in preda a una passione sconosciuta, Mikhail sapeva che il suo momento con Alekza sarebbe arrivato presto, se non oggi. Lei lo voleva, voleva quello che aveva. E lui era curioso: c'erano lezioni che Wiktor non poteva insegnargli. Alekza aspettava e il sole era caldo. Il bagliore riflesso dall'acqua lo stordiva. Fece altri due giri, riflettendo sulla situazione. Una parte fondamentale di lui aveva già preso una decisione. Si issò fuori dall'acqua, provando un misto di desiderio e paura mentre guardava Alekza alzarsi, il seno eretto mentre osservava quello che lui aveva da offrirle. La ragazza scese dalla roccia e lui l'aspettò in piedi tra l'erba. Lei lo prese per mano e lo guidò all'ombra, dove lo fece stendere su un letto di muschio. Gli si inginocchiò accanto. Alekza era bellissima, anche se da vicino Mikhail riusciva a vedere che le rughe accanto agli occhi e agli angoli della bocca si erano fatte più profonde. La vita del lupo era dura e Alekza non era più una fanciulla. Ma i suoi occhi azzurro ghiaccio promettevano piaceri superiori ai suoi sogni; la ragazza si chinò e premette le labbra su quelle di Mikhail. Il giovane Gallatinov aveva molto da imparare sull'arte dell'amore: la prima lezione era iniziata. Alekza mantenne la promessa di asciugarlo e per farlo usò la lingua. Iniziò da sud e piano piano risalì verso nord, asciugandogli le gambe leccandole, lappando lentamente le gocce d'acqua che imperlavano la pelle tremante. Arrivò fino al centro gonfio di sangue... e lì dimostrò la vera qualità di un animale: l'amore per la carne fresca. Alekza lo accolse nella bocca e Mikhail gemette e le affondò le dita nei capelli. Come un animale la ragazza amava usare anche i denti: lo morse e leccò su e giù, mentre nei lombi di Mikhail aumentava la pressione. Il ragazzo sentì un rombo nella testa e dei lampi luminosi gli balenarono nel cervello come fulmini estivi. La calda bocca di Alekza lo tratteneva, mentre le sue dita lo stringevano alla base dei testicoli. Sentì il corpo contrarsi, un movimento fuori del suo controllo, e per alcuni secondi gli si tesero i muscoli come se dovessero squarciare la pelle. I lampi nel cervello danzarono, colpendo i nervi e infiammandoli.
Gemette... e fu un suono bestiale. Alekza allentò la presa e osservò il seme zampillare dal corpo di Mikhail. Il ragazzo ebbe un altro spasmo e ci fu un'altra esplosione, calda e bollente. La ragazza sorrise, orgogliosa del potere che esercitava su quella carne giovane; poi, quando la bandiera di Mikhail iniziò ad abbassarsi, continuò il viaggio con la lingua sullo stomaco e sul petto, disegnando cerchi su tutta la pelle e lasciando dietro di sé la pelle d'oca. Il pene del ragazzo cominciò a irrigidirsi di nuovo; mentre la sua mente ritrovava lucidità dopo il delirio iniziale, Mikhail si rese conto che c'era molto più da imparare di quanto avessero immaginato i monaci. Le loro bocche si toccarono e rimasero in contatto. Alekza gli morse la lingua e le labbra, gli afferrò le mani e se le appoggiò sui seni, poi si mise a cavalcioni sulle cosce e si calò su di lui. Erano collegati, un battito stretto all'interno di un calore umido. I fianchi di Alekza iniziarono a muoversi a un ritmo lento che gradualmente aumentò di forza e intensità, mentre lo guardava negli occhi con il volto e i seni lucidi di sudore. Mikhail imparava in fretta: si spinse ancora di più dentro di lei, seguendo i suoi movimenti; quando i colpi si fecero più forti e impellenti, Alekza gettò indietro la testa, fece ricadere sulle spalle la cascata di capelli biondi e gridò di gioia. Mikhail la sentì tremare; la ragazza aveva gli occhi chiusi e dalle labbra le sfuggivano gemiti leggeri. Porse i seni ai suoi baci, muovendo i fianchi in cerchi stretti e intensi... e lui fu di nuovo preda di quello spasmo incontrollabile. I muscoli si tesero, il sangue gli rombò nelle vene, e il dono della sua essenza esplose nella calda umidità di Alekza. Si sentiva teso, con le ossa pulsanti nel caldo afoso. Il cielo avrebbe potuto cadergli sul viso come una vetrata azzurra e non gli sarebbe importato niente. Vagava in una terra sconosciuta, ma di una cosa era sicuro: quel posto gli piaceva molto. E voleva tornarci non appena fosse stato in grado di intraprendere il viaggio. Fu di nuovo pronto prima di quanto avrebbe creduto. Corpo a corpo Mikhail e Alekza rotolarono sul letto di muschio, fuori dall'ombra e nella luce del sole. Ora lei era sotto di lui, con le gambe intorno ai suoi fianchi, e rise della sua impazienza quando la penetrò di nuovo. Era meglio del nuoto: non riusciva a trovare il fondo dello stagno di Alekza. Il sole picchiava su di loro e il suo calore li faceva sudare e li fondeva insieme. Fece anche evaporare le ultime tracce della timidezza di Mikhail, che assecondò le spinte di Alekza con persistente energia. Le cosce di lei premevano sui suoi fianchi, la bocca sollecitava la sua lingua e Mikhail arcuò la schiena
penetrandola profondamente. Mentre i loro corpi si spostavano di nuovo dalla tensione verso l'appagamento, accadde senza preavviso. Peli biondi spuntarono sulla pancia, sulle cosce e sulle braccia di Alekza. La ragazza ansimò, con gli occhi velati dal piacere, e Mikhail sentì il suo odore pungente e selvatico. Questo scatenò il lupo che era in lui: sulla schiena cominciarono a spuntargli dei peli neri sotto le dita della ragazza che lo stringevano. Alekza si contorse e iniziò a trasformarsi, i denti stretti diventarono zanne e il bel viso acquisì un altro genere di bellezza. Anche Mikhail, ancora dentro di lei, si lasciò andare: i peli neri gli coprirono le spalle, le braccia, le natiche e le gambe. I loro corpi si dimenarono in un misto di passione e dolore, e si girarono in modo che quello che stava diventando un lupo nero penetrasse da dietro l'emergente lupa bionda. Nell'istante prima che la trasformazione diventasse completa, Mikhail fremette mentre il suo seme sprizzava dentro Alekza. Il piacere lo sopraffece e gettò all'indietro la testa ululando. Anche lei si unì al suo canto; le loro voci si fusero in armonia, dividendosi e ricomponendosi: un altro modo di fare l'amore. Mikhail uscì da dentro di lei. Lo spirito era ancora disponibile, ma i testicoli coperti di peli neri erano vuoti. Alekza si rotolò nell'erba, poi balzò in piedi e cominciò a correre in tondo cercando di mordersi la coda. Anche Mikhail cercò di correre, ma le zampe gli cedettero e rimase steso al sole con la lingua penzoloni. Alekza lo accarezzò con il muso, lo fece rotolare e gli leccò la pancia. Lui si beò delle sue attenzioni, si sentì le palpebre pesanti e pensò che non ci sarebbe mai stato un altro giorno come quello. Quando il sole cominciò a calare e il cielo a colorarsi di rosso, Alekza colse nel vento l'odore di un coniglio. Lei e Mikhail iniziarono a seguirlo, facendo a gara nel bosco per vedere chi riusciva a trovare per primo la preda; correndo saltavano avanti e indietro l'uno sull'altro, felici come tutti gli amanti del mondo. 2. Era un periodo d'oro. Quando l'autunno diventò inverno, il continuo amoreggiare di Mikhail con Alekza ebbe come risultato il gonfiore del ventre di lei. Wiktor richiedeva sempre più tempo dal ragazzo mentre i giorni si accorciavano e il gelo fioriva: le lezioni erano progredite e ora comprendevano la matematica superiore, le teorie della civiltà, la religione e la filosofia. E Mikhail, sorprendendo anche se stesso, scoprì che la sua mente
aveva fame di conoscenza proprio come il suo corpo desiderava Alekza. Era stata aperta una doppia porta: una verso i misteri del sesso e una verso le domande della vita. Restava seduto senza dimenarsi mentre Wiktor lo costringeva a pensare: non solo, anche a farsi un'opinione propria sulle cose. Nella loro discussione sulla religione il capo del branco sollevò una questione che non aveva risposta: «Cos'è un licantropo agli occhi di Dio? Una bestia maledetta o un figlio del miracolo?» Quell'inverno offrì una rarità: alcuni mesi relativamente miti, in cui ci furono solo tre tormente e cacciare era quasi sempre facile. Passò l'inverno e tornò la primavera, e il branco si considerò fortunato. Una mattina di maggio Renati giunse con una notizia: c'erano due viaggiatori - un uomo e una donna - in un carro sulla strada nella foresta. Il loro cavallo sarebbe stato un ottimo pasto e avrebbero potuto fare entrare i viaggiatori nel gruppo. Wiktor acconsentì: al branco, che ora contava solo cinque componenti, serviva un po' di sangue nuovo. L'attacco venne eseguito con precisione militare. Nikita e Mikhail si avvicinarono furtivi al carro da entrambi i lati della strada, mentre Renati lo seguiva e Wiktor era andato avanti a scegliere il luogo dell'agguato. Arrivò il segnale: la forte voce del capo emise un richiamo mentre il carro avanzava sotto la fitta chioma dei pini. Immediatamente Nikita e Mikhail colpirono da entrambi i lati, sbucando dal sottobosco, e Renati arrivò di corsa da dietro. Wiktor balzò fuori dal suo nascondiglio, facendo nitrire selvaggiamente e impennare il cavallo. Mikhail vide l'espressione di panico dei viaggiatori: l'uomo aveva la barba ed era magro, la donna indossava l'abito a sacco dei contadini. Nikita si avventò sull'uomo, mordendolo all'avambraccio e trascinandolo giù dal carro. Mikhail fece per colpire la donna alla spalla, come gli aveva ordinato Wiktor, ma si fermò con le zanne scoperte, sbavando. Ricordava la sua sofferenza, e non poteva sopportare di sottoporre un altro essere umano allo stesso tormento. La donna urlò, portando le mani davanti al viso. Poi Renati balzò sul carro, le affondò le zanne nella spalla e la fece cadere a terra. Wiktor si lanciò contro la gola del cavallo, reggendosi forte quando l'animale cominciò a correre. Non arrivò molto lontano prima che il lupo riuscisse ad abbatterlo, ma Wiktor uscì dallo scontro coperto di graffi e brutti lividi. Nelle profondità del palazzo bianco l'uomo morì durante il rito del passaggio. La donna sopravvisse, almeno nel corpo. Ma la sua mente no. Passava tutto il tempo rannicchiata in un angolo con la schiena appoggiata al muro, singhiozzando e pregando. Nessuno riuscì a farle dire qualcosa di
sensato, neppure il suo nome o da dove venisse. Pregava giorno e notte chiedendo la morte, finché alla fine Wiktor le diede quello che voleva e pose fine alle sue sofferenze. Quel giorno i membri del branco quasi non si parlarono tra loro. Mikhail andò a correre molto lontano, mentre una parola continuava a ripetersi nella sua mente: mostro. Alekza partorì al culmine dell'estate. Mikhail osservò il bambino uscire e quando la madre chiese impaziente: «È un maschio? È un maschio?» Renati le asciugò la fronte e rispose: «Sì. Un bel maschio sano». Il bambino sopravvisse alla prima settimana. Alekza lo chiamò Petyr, dal nome di uno zio che ricordava dalla sua infanzia. Il piccolo aveva dei polmoni potenti e a Mikhail piaceva cantare con lui. Persino Franco - il cui cuore si era addolcito mentre imparava a camminare su tre zampe - era incantato dal bambino, ma era Wiktor quello che passava più tempo accanto al neonato, osservandolo con gli occhi color ambra mentre succhiava il latte. Alekza ridacchiava come una scolaretta mentre teneva il piccolo, ma tutti sapevano cosa stava cercando Wiktor: i primi segnali della guerra tra lupo e uomo nel corpo del bambino. Sarebbe sopravvissuto alla guerra e il suo corpo avrebbe stabilito una tregua tra le due nature, oppure non ci sarebbe riuscito? Passò un'altra settimana, poi un mese: Petyr continuava a vivere, a vagire e a succhiare il latte. I venti sferzavano la foresta. Stava per arrivare un acquazzone: il branco riusciva a sentirne la dolcezza. Ma era la notte dell'ultimo treno dell'estate, diretto a est per venire chiuso in un deposito fino alla stagione successiva. Sia Nikita che Mikhail avevano finito per considerare il treno una cosa viva, mentre notte dopo notte gli correvano accanto lungo i binari, iniziando da umani e cercando di passargli davanti come lupi prima che entrasse rombando nella galleria a est. Entrambi stavano diventando più veloci, ma sembrava che lo fosse anche il treno. Forse c'era un nuovo macchinista, aveva detto Nikita. Quell'uomo non sapeva cosa fossero i freni. Mikhail la pensava allo stesso modo; il treno aveva iniziato a sbucare dal tunnel a ovest come un demone diretto all'inferno che corre per arrivare a casa prima che la luce dell'alba trasformi il suo cuore in ferro. In due occasioni il mongolo aveva completato la trasformazione e quasi compiuto il balzo che gli avrebbe fatto attraversare il raggio dell'occhio ciclopico del treno, ma la locomotiva aveva accelerato con uno sbuffo di fumo nero e una pioggia di scintille, e all'ultimo secondo a Nikita era mancato il coraggio. La lampada rossa sull'ultimo vagone aveva ondeggiato come a schernirli, e la sua luce aveva brillato negli occhi del lupo finché non era svanita nella lunga galle-
ria. Mentre i pini e le querce su entrambi i lati del burrone e tutto il resto del mondo sembravano in tumultuosa agitazione, Mikhail e Nikita aspettavano nell'oscurità l'ultimo treno dell'estate. Erano entrambi nudi, perché erano arrivati correndo dal palazzo bianco in forma di lupi. Erano seduti sul bordo dei binari, accanto all'imboccatura del tunnel a ovest; ogni tanto il mongolo allungava una mano e toccava la barra di ferro, aspettando di sentire un tremore. «È in ritardo», disse. «Andrà più veloce che mai cercando di recuperare». Mikhail annuì pensoso e masticò un'erbaccia. Alzò lo sguardo e osservò le nuvole muoversi come lastre metalliche nel cielo. Poi toccò il binario: era silenzioso. «Forse si è guastato». «Forse», convenne Nikita. Poi aggiunse aggrottando la fronte: «No, no! È l'ultima corsa! Devono far arrivare quel treno a casa, anche a costo di spingerlo!» Strappò una manciata d'erba e, tenendo a freno l'impazienza, la osservò volare via nel vento. «Il treno arriverà», disse. Restarono in silenzio per qualche istante, ascoltando il rumore degli alberi. Mikhail chiese: «Credi che sopravviverà?» La domanda non era mai stata lontana dalle loro menti. Il mongolo scrollò le spalle. «Non lo so. Sembra molto sano, ma... è difficile dirlo». Toccò di nuovo il binario: niente treno. «Devi avere in te qualcosa di forte. Qualcosa di speciale». «Per esempio?» Mikhail era perplesso, perché non si era mai considerato diverso dal resto del branco. «Be', pensa a quante volte io ho cercato di generare un bambino. O Franco. O persino Wiktor. Mio Dio, si potrebbe pensare che Wiktor sia capace di sfornarne a destra e a manca. Ma i bambini di solito sono morti nel giro di pochi giorni, e quelli che sono durati di più soffrivano talmente tanto da offrire uno spettacolo orribile. E adesso sei arrivato tu - un quindicenne - e hai concepito un figlio che è durato un mese e sembra stare bene. E poi il modo in cui hai sopportato la tua prima trasformazione: hai resistito, anche molto tempo dopo che noi ti avevamo dato per spacciato. Oh, Renati dice di aver sempre saputo che saresti sopravvissuto, ma ogni volta che ti guardava pensava al Giardino. Franco scommetteva bocconi di cibo che saresti morto entro una settimana... e ora ringrazia Dio ogni giorno che non l'hai fatto!» Piegò leggermente la testa, cercando di sentire il suono delle ruote. «Wiktor lo sa», disse. «Sa cosa?»
«Sa quello che faccio. Sa cosa facciamo tutti. Tu sei diverso, in qualche modo. Più forte. Più intelligente. Perché credi che Wiktor passi tutto quel tempo a sviscerare quei libri insieme a te?» «Gli piace insegnare». «Oh, ti ha detto così?», borbottò Nikita. «Be', allora perché non ha voluto insegnare a me? O a Franco? O ad Alekza? O a qualcuno degli altri? Pensava che in testa avessimo delle pietre?» Si rispose da solo: «No. Passa il tempo a insegnare a te perché pensa che tu valga la pena. E perché? Perché tu vuoi imparare». Mikhail fece un'esclamazione di scherno e Nikita annuì. «È vero! Gliel'ho sentito dire: crede che tu abbia un futuro». «Un futuro? Tutti abbiamo un futuro, no?» «Non è quello che intendo. Un futuro lontano da qui». Fece un gesto ampio che racchiudeva la foresta. «Da dove siamo adesso». «Vuoi dire...» Mikhail si piegò in avanti. «Andarsene da qui?» «Esatto. O almeno è quello che crede Wiktor. Pensa che un giorno tu potresti lasciare la foresta e che potresti persino badare a te stesso là fuori». «Da solo? Senza il branco?» Nikita annuì. «Sì. Da solo». Era troppo incredibile da concepire. Come era possibile per un membro del branco sopravvivere da solo? No, no... era impensabile! Mikhail sarebbe rimasto lì per sempre, con gli altri lupi. Ci sarebbe sempre stato un branco. O no? «Se me ne andassi dalla foresta, chi si prenderebbe cura di Alekza e di Petyr?» «Questo non lo so. Ma Alekza ha avuto quello che più desiderava al mondo: un figlio maschio. Il modo in cui sorride... be', non sembra più nemmeno la stessa persona. Lei non sopravviverebbe là fuori» - indicò l'Ovest con un dito - «e Wiktor lo sa. Lo sa anche Alekza. Passerà qui il resto della sua vita. E così faremo io, Wiktor, Franco e Renati. Siamo vecchi ruderi pelosi, vero?» Fece un largo sorriso, ma velato di tristezza. Ritornò serio. «E chissà Petyr. Chi può dire se sopravviverà un'altra settimana o come sarà la sua mente quando crescerà? Potrebbe diventare come quella donna che piangeva in un angolo tutto il giorno. Oppure...» Lanciò un'occhiata a Mikhail. «Oppure potrebbe essere come te. Chi lo sa?» Nikita piegò di nuovo la testa per ascoltare. Strinse gli occhi. Mise un dito sul binario; Mikhail lo vide sorridere leggermente. «Il treno sta arrivando. E a gran velocità. È in ritardo!» Mikhail toccò la barra di ferro e vi sentì vibrare la potenza lontana del convoglio. Cominciarono a cadere delle gocce di pioggia, sollevando pic-
coli sbuffi di polvere lungo i binari. Nikita si alzò e si spostò al riparo di alcuni alberi accanto all'imboccatura della galleria. Mikhail lo seguì ed entrambi si accovacciarono come corridori pronti allo scatto. Pioveva più forte. Un istante dopo la pioggia diventò un nubifragio che inzuppò i binari. Il terreno si stava rapidamente trasformando in fango. A Mikhail questo non piaceva: l'appoggio sarebbe stato instabile. Si tolse dagli occhi i capelli bagnati. Ora si sentiva il rombo del treno che si avvicinava velocemente. Mikhail disse: «Credo che stasera non dovremmo farlo». «Perché no? Per un po' di pioggia?» Nikita scosse la testa, con il corpo teso e pronto alla corsa. «Ho corso sotto acquazzoni peggiori di questo!» «Il terreno... c'è troppo fango». «Io non ho paura!», ribatté secco il mongolo. «Oh, quante volte ho sognato quella lampada rossa sull'ultimo vagone! Che ammiccava come fosse l'occhio di Satana! Stasera batterò il treno! Me lo sento, Mikhail! Posso farcela, se corro un po' più veloce! Solo un po'...» Il fanale del treno piombò fuori dalla galleria, seguito dalla lunga locomotiva nera e dai vagoni merci. Il nuovo macchinista non aveva paura dei binari bagnati. La pioggia e il vento sferzavano il viso di Mikhail, che urlò: «No!», e cercò di afferrare Nikita; ma il mongolo era già partito, una macchia bianca che correva accanto ai binari. Mikhail lo inseguì, cercando di fermarlo: la pioggia e il vento erano troppo forti e il treno troppo veloce. Scivolò nel fango e quasi cadde contro il treno in corsa. Sentiva la pioggia sibilare sulla locomotiva bollente, come un coro di serpenti. Continuò a correre nel tentativo di bloccare Nikita e vide che le impronte di piedi nel fango stavano cambiando in quelle delle zampe di un lupo. Nikita era piegato in avanti e correva quasi a quattro zampe. Il suo corpo non era più bianco. La pioggia gli turbinò intorno; Mikhail perse l'equilibrio, cadendo in avanti e scivolando nel fango. L'acqua gli scrosciava sulle spalle e il fango lo accecava. Cercò di rialzarsi, ma ricadde e rimase disteso mentre il treno rombava lungo i binari per poi infilarsi nella galleria a est. Scomparve lasciando uno scarabocchio di luce rossa sulla roccia della galleria... poi svanì anche quello. Mikhail si alzò a sedere sotto l'acquazzone, con la pioggia che gli scorreva sul volto. «Nikita!», gridò. Non ebbe risposta né da un uomo né da un lupo; si alzò in piedi e iniziò a camminare nel fango verso il tunnel a est. «Nikita! Dove sei?» Non riusciva a vederlo. La pioggia batteva ancora. Le scintille turbinanti si spegnevano con un sibilo molto prima di toccare terra. L'aria odorava di
ferro bollente e calore umido. «Nikita?» Da quel lato dei binari non c'era traccia del mongolo. Ce l'aveva fatta! pensò Mikhail e sentì uno scoppio di gioia. Ce l'aveva fatta! Ce l'aveva... Dall'altra parte c'era qualcosa a terra. Qualcosa di tremante e informe. Dai binari si levava del vapore e sul suolo della galleria brillavano ancora delle braci. E a circa due metri e mezzo dall'imboccatura, steso tra le erbacce, c'era Nikita. Il lupo era balzato davanti al treno, ma era stato quest'ultimo a vincere. Il muso appuntito della locomotiva aveva strappato via la parte posteriore di Nikita. Le zampe non c'erano più... e quello che rimaneva di lui fece cadere Mikhail in ginocchio con un gemito di angoscia. Non poté evitarlo: fu colto dalla nausea e il suo vomito si mescolò al sangue che scorreva lungo i binari della ferrovia. Nikita emise un suono: un lamento flebile e orribile. Mikhail alzò il viso al cielo e lasciò che la pioggia vi battesse. Sentì un altro gemito, che terminò in un mugolio. Si costrinse a guardare il suo amico e vide gli occhi di Nikita che lo fissavano, la nobile testa piegata come un fragile fiore su uno stelo scuro. La bocca si aprì ed emise di nuovo quell'orribile suono. Gli occhi erano appannati, ma erano fissi su Mikhail e lo guardavano; il ragazzo lesse il loro messaggio. Uccidimi. Il corpo di Nikita tremava agonizzante. Le zampe anteriori cercavano di trascinare via dai binari il resto del corpo massacrato, ma non avevano più forze. La testa si dimenò, poi ricadde nel fango. Con uno sforzo enorme Nikita la rialzò e fissò di nuovo il ragazzo seduto sulle ginocchia tra la pioggia, implorandolo. Nikita stava morendo. Ma non abbastanza in fretta. Non abbastanza in fretta... Mikhail abbassò il viso e guardò il fango. Intorno a lui erano sparsi pezzi del corpo di Nikita, punteggiati di peli di lupo e brandelli di carne umana, come tessere distrutte di un enorme rompicapo. Lo sentì gemere e chiuse gli occhi: nella sua mente vide un cervo morente accanto ai binari e le mani di Nikita che afferravano la testa dell'animale. Ricordò il violento strattone dato al collo del cervo, seguito dal rumore di ossa spezzate. Era stato un atto di misericordia, puro e semplice. E non era niente di meno di quello che Nikita gli stava chiedendo adesso. Mikhail si alzò, barcollò e quasi cadde di nuovo. Si sentiva come in un
sogno, fluttuante: in quel mare di pioggia non c'erano bordi netti. Nikita rabbrividì, fissandolo e aspettando. Finalmente Mikhail si mosse. Il fango gli intrappolò i piedi, ma si liberò e si inginocchiò accanto al suo amico. Nikita sollevò la testa, offrendogli il collo. Il ragazzo afferrò il lupo ai due lati del cranio. Gli occhi di Nikita si chiusero, mentre dalla sua gola continuava a uscire un flebile gemito. Potremmo curarlo, pensò Mikhail. Non devo per forza ucciderlo. Potremmo curarlo. Wiktor saprebbe come fare. Abbiamo curato Franco, no? Ma nel suo cuore sapeva che le condizioni di Nikita erano molto più gravi della gamba maciullata di Franco. Il mongolo era prossimo alla morte e gli stava solo chiedendo di liberarlo dalla sofferenza. Era accaduto tutto così in fretta: l'acquazzone, il treno, i binari fumanti... così in fretta, così in fretta. Le mani di Mikhail strinsero la presa. Il ragazzo tremava quanto Nikita. Doveva riuscirci al primo tentativo. Una foschia scura gli stava oscurando la vista e gli occhi si stavano riempiendo di pioggia. Doveva farlo con misericordia. Mikhail si fece forza. Una delle zampe anteriori di Nikita si alzò e si appoggiò sul suo braccio. «Mi dispiace», sussurrò. Inspirò profondamente e dette uno strattone con tutte le sue forze. Sentì uno schiocco e il corpo di Nikita sussultò. Mikhail si scostò rapidamente, strisciando nel fango e nella pioggia. Si rintanò tra le piante, nell'erba alta, e si rannicchiò mentre l'acqua continuava a scrosciare su di lui. Quando ebbe il coraggio di guardare di nuovo Nikita, vide il torso immobile e dilaniato di un lupo con un braccio e una mano umani. Si sedette con le ginocchia tirate su fino al mento e si dondolò. Fissò il cadavere con il braccio di carne bianca. Bisognava toglierlo dai binari, prima che il mattino dopo lo trovassero gli avvoltoi. Bisognava seppellirlo in profondità. Nikita non c'era più. Dov'era andato? si chiese Mikhail. E gli tornò in mente la domanda di Wiktor: Cos'è il licantropo agli occhi di Dio? Sentì qualcosa abbandonarlo. Forse era l'ultimo fiore della gioventù. Quello che c'era sotto era ruvido e doloroso, come una ferita non rimarginata. Pensò che per sopravvivere a quella vita un uomo aveva bisogno di un cuore corazzato di metallo che pompasse scintille. Avrebbe dovuto farsene crescere uno, se voleva sopravvivere. Rimase accanto al corpo di Nikita finché non smise di piovere. Il vento era cessato e il bosco era tranquillo. Allora Mikhail corse a casa nel buio gocciolante, a informare Wiktor dell'accaduto.
3. Petyr piangeva. Era pieno inverno, il vento ululava all'esterno del palazzo bianco e Wiktor era chino sul bambino che adesso aveva sette mesi e giaceva su un letto di erba secca. Poco lontano ardeva un fuoco; il piccolo era avvolto in una pelle di cervo e in una coperta che Renati aveva realizzato usando gli abiti dei viaggiatori. Il pianto di Petyr era un tremolio acuto, ma il bambino non si lamentava per il freddo. Wiktor, che ormai aveva striature bianche nella barba grigia, gli toccò la fronte. Bruciava. Il capo alzò lo sguardo verso gli altri. «È iniziato», disse in tono cupo. Anche Alekza cominciò a piangere. «Fai silenzio!», la rimproverò bruscamente Wiktor; la ragazza si allontanò per stare da sola. «Cosa possiamo fare?», chiese Mikhail, ma conosceva già la risposta: niente. Petyr stava per subire il suo tormento e nessuno poteva aiutarlo in quel passaggio. Gallatinov si chinò sul bambino, afferrando la coperta e stringendogliela meglio intorno, semplicemente perché le sue dita avevano bisogno di fare qualcosa. Petyr era paonazzo in volto e i suoi occhi azzurro ghiaccio erano arrossati. Sulla testa erano sparsi un po' di capelli scuri. Gli occhi di Alekza, pensò Mikhail. I miei capelli. E in quel fragile corpicino aveva avuto inizio la prima battaglia di una lunga guerra. «È forte», disse Franco, «ce la farà». Ma non aveva un tono convinto. Come poteva un bambino sopportare un dolore simile? L'uomo con una gamba sola si alzò e si diresse al suo pagliericcio aiutandosi con il bastone di legno di pino. Wiktor, Renati e Mikhail si misero a dormire in circolo intorno al piccolo. Alekza tornò e si stese a contatto con Mikhail. Il pianto di Petyr aumentò e si affievolì, si fece rauco ma continuava. E al di là delle pareti proseguiva anche il gemito del vento. I giorni passarono e la sofferenza del bambino aumentava. Si capiva dal modo in cui rabbrividiva e si contorceva, da come stringeva i pugni e colpiva l'aria. Si strinsero intorno a lui: era più bollente del fuoco. A volte urlava in silenzio, con la bocca aperta e gli occhi serrati, in altre occasioni invece la sua voce riempiva la stanza, un suono che straziava il cuore di Mikhail e faceva piangere Alekza. Nei momenti in cui il dolore sembrava diminuire, la madre tentava di nutrirlo con carne cruda già masticata: il bambino la mangiava quasi tutta ma diventava sempre più debole, raggrinzendosi davanti ai loro occhi come un vecchio. Tuttavia il piccolo si ag-
grappava alla vita. Quando il pianto diventava tanto terribile da far pensare a Mikhail che Dio avrebbe sicuramente posto fine a quella sofferenza, il dolore si interrompeva per tre o quattro ore. Poi tornava, e il pianto ricominciava. Il ragazzo sapeva che anche Alekza stava per crollare: aveva gli occhi che sembravano buchi vuoti e le mani tremavano tanto che riusciva a malapena a portarsi il cibo alla bocca. Anche lei invecchiava a vista d'occhio. Una notte, dopo una caccia lunga ed estenuante, Mikhail venne svegliato da un orribile rantolo. Si alzò a sedere e si mosse verso Petyr, ma Wiktor lo spinse da parte nella fretta di avvicinarsi al piccolo. Renati disse: «Cosa c'è? Che succede?»; Franco appoggiandosi al bastone zoppicò fino alla zona illuminata. Alekza restò a osservare, con lo sguardo vuoto per lo shock. Wiktor si inginocchiò con volto terreo accanto al bambino, che era silenzioso. «Ha inghiottito la lingua», disse. «Mikhail, impediscigli di agitarsi!» Gallatinov afferrò il corpo di Petyr: fu come toccare un carbone ardente. «Tienilo fermo!», gridò Wiktor aprendo a forza la bocca del bambino e cercando di agganciare la lingua con un dito. Non riuscì a tirarla fuori. Il viso di Petyr stava diventando bluastro, mentre il petto si alzava e si abbassava. Le manine artigliavano l'aria. Il dito di Wiktor esplorò la bocca del piccolo, trovò la lingua, l'afferrò con un altro dito e tirò, ma era bloccata nella gola di Petyr. «Tirala fuori!», gridò Renati. «Wiktor, tirala fuori!» Il capo tirò di nuovo con più forza. Si udì uno schiocco quando la lingua si sbloccò, ma il viso del bambino era ancora livido. Il petto si sollevava, ma i polmoni non riuscivano a inspirare aria. Il volto di Wiktor era imperlato di sudore, nonostante il fiato gli uscisse in uno sbuffo di vapore grigio. Sollevò Petyr tenendolo per i talloni e lo colpì sulla schiena con il palmo della mano. Mikhail sobbalzò al rumore dello schiaffo. Il bambino non emise alcun suono. Wiktor lo colpì di nuovo più forte sulla schiena, e poi una terza volta. Si sentì un sibilo d'aria e dalla bocca del piccolo uscì uno sbuffo di vapore, seguito da un vagito di dolore e rabbia che fece sembrare debole la voce della tempesta. Alekza tese le braccia chiedendo il figlio e Wiktor glielo porse. Prese a cullarlo, con le guance rigate da lacrime di gratitudine, poi sollevò una manina e se la portò alle labbra. Ritrasse di scatto la testa, con gli occhi sbarrati. Dalla pallida carne del bambino erano spuntati dei peli neri. Il corpicino tra le sue braccia si stava già contorcendo... Petyr aprì la bocca e gemette. Alekza sollevò lo sguardo verso Mikhail e poi verso Wiktor; il capobranco
era accovacciato a osservare con il mento appoggiato alle mani congiunte, mentre i suoi occhi ambrati brillavano alla luce del fuoco. Il volto di Petyr stava cambiando, il muso iniziava a prendere forma e gli occhi si infossavano nel cranio coperto di peli neri. Mikhail sentì Renati accanto a lui emettere un'esclamazione di sorpresa e di meraviglia. Le orecchie del bambino si allungarono, bordate di morbidi peli bianchi. Le dita delle mani e dei piedi si stavano ritraendo, trasformandosi in artigli dalle piccole unghie ricurve. Alcuni leggeri schiocchi sottolinearono lo spostamento di ossa e giunture, e Petyr emise qualche grugnito, ma sembrava aver smesso di piangere. L'intera trasformazione aveva richiesto circa un minuto. Wiktor disse piano: «Mettilo giù». Alekza obbedì. Il cucciolo di lupo dagli occhi azzurri con il corpicino muscoloso coperto di sottili peli neri si sforzò di reggersi sulle quattro zampe. Riuscì ad alzarsi, cadde, si rialzò a fatica e cadde di nuovo. Mikhail fece per aiutarlo, ma Wiktor disse: «No. Lascia che ci riesca da solo». Il piccolo riuscì a rialzarsi, con il corpicino tremante e le palpebre che battevano per la meraviglia. Il mozzicone di coda si agitò e le orecchie da lupo si mossero. Fece un passo, poi un altro, ma le zampe posteriori gli si ingarbugliarono e cadde un'altra volta. Petyr emise un whuff di frustrazione, sbuffando vapore dalle narici. Wiktor si sporse in avanti, allungò un dito e lo agitò avanti e indietro davanti al muso del cucciolo. Gli occhi azzurri lo seguirono... poi la testa di Petyr scattò in avanti, le fauci si spalancarono e si strinsero con forza sul dito. Wiktor lo districò e se lo guardò: c'era una gocciolina di sangue. «Congratulazioni», disse a Mikhail e Alekza. «A vostro figlio è spuntato un altro dente». Almeno per il momento Petyr aveva rinunciato a lottare contro la gravità. Si muoveva sul pavimento annusando le pietre. Uno scarafaggio spuntò da una fessura sotto il naso del cucciolo e scappò a gran velocità; Petyr emise un acuto yip di sorpresa, poi continuò la sua esplorazione. «Si ritrasformerà, vero?», chiese Alekza a Wiktor. «Vero?» «Vedremo», le rispose il capo; non poteva dirle altro. A circa metà sala Petyr picchiò il naso contro il bordo di una pietra. Iniziò a guaire di dolore e mentre si rotolava sul pavimento il suo corpo iniziò a ritrasformarsi in umano. I sottili peli neri si ritrassero nella pelle, il muso si appiattì in naso - con una narice sanguinante - e le zampe tornarono mani e piedi. Il guaito era diventato un vagito a pieni polmoni; Alekza corse dal bambino e lo sollevò. Lo cullò e gli parlò dolcemente, e alla fine Petyr
singhiozzò alcune volte e smise di piangere. Restò un bambino. «Bene», disse Wiktor dopo una pausa. «Se il nuovo arrivato sopravviverà all'inverno, dovrebbe essere uno spettacolo interessante». «Sopravviverà», promise Alekza. Nei suoi occhi era tornato lo scintillio della vita. «Lo farò sopravvivere». Wiktor si guardò il dito morsicato. «Mia cara, dubito che riuscirai mai a fargli/are qualcosa». Lanciò un'occhiata a Mikhail con un leggero sorriso sul volto. «Sei stato molto bravo, figliolo», disse, poi invitò con un cenno Alekza e il bambino ad avvicinarsi al calore del fuoco. Figliolo, si rese conto Mikhail che aveva appena detto. Figliolo. Nessun uomo l'aveva mai chiamato così prima e in quella parola c'era qualcosa di musicale. Quella notte si addormentò ascoltando Alekza cantare piano per Petyr; sognò un uomo alto e slanciato in uniforme militare, accanto a una donna che Mikhail aveva quasi del tutto dimenticato... e quell'uomo aveva il volto di Wiktor. 4. Alla fine dell'inverno Petyr era ancora vivo. Accettava tutto il cibo che Alekza gli dava e, nonostante avesse l'abitudine di trasformarsi senza preavviso in lupacchiotto e fare impazzire il resto del branco con il continuo abbaiare, restava quasi sempre in forma umana. All'arrivo dell'estate gli erano ormai spuntati tutti i denti e Wiktor teneva le dita lontane dalla sua bocca. Alcune sere Mikhail andava a sedersi sul bordo del burrone a guardare passare il treno. Si metteva a contare i secondi che il convoglio impiegava per andare dalla galleria est a quella ovest. L'anno prima il ragazzo aveva corso insieme a Nikita senza impegnarsi troppo. Non gli era mai importato molto quanto fosse rapido a trasformarsi. Sapeva di essere piuttosto veloce, ma era sempre rimasto dietro al suo compagno. Ora però le ossa di Nikita giacevano nel Giardino e il treno - ancora invincibile - sbuffava il suo fiato nero e illuminava la notte con il suo occhio splendente. Mikhail si era chiesto spesso cosa avevano pensato i ferrovieri trovando sul rostro della locomotiva sangue e pezzi di carne ricoperti da peli neri. Abbiamo investito un animale, avevano probabilmente pensato... ammesso che se ne fossero curati. Un animale. Qualcosa che non avrebbe dovuto starci tra i piedi. Verso la metà dell'estate Mikhail iniziò a correre a fianco del treno che sbucava dalla galleria. Non faceva a gara con la macchina, ma si limitava a
sgranchirsi le zampe. La locomotiva lo lasciava sempre in un vortice di acre fumo nero e di scintille che gli bruciavano la pelle. E quelle sere, dopo che il treno era scomparso nella galleria, Mikhail attraversava i binari, andava nel punto in cui era morto Nikita, si sedeva tra le erbacce e pensava: potrei riuscirci, se volessi. Potrei farcela. Forse. L'importante era fare una partenza veloce. Il difficile era restare in piedi mentre le braccia e le gambe si trasformavano. Il modo in cui la spina dorsale piegava il corpo rovinava l'equilibrio. Il tutto mentre i nervi e le giunture urlavano di dolore, e inciampare poteva significare finire contro la fiancata del treno, o potevano accadere altre cento cose orribili. No, non valeva la pena di correre il rischio. Mikhail andava via ogni volta dicendosi che non sarebbe tornato. Ma sapeva che era una bugia. L'idea della velocità, del mettersi alla prova contro la bestia che aveva ucciso Nikita lo attirava. Prese a correre più rapidamente accanto al treno, ma senza gareggiare... non ancora. Il suo equilibrio non era ancora abbastanza buono: cadeva ogni volta che cercava di trasformarsi da uomo a lupo durante la corsa. Era un problema di tempismo, bisognava riuscire a restare in piedi fino a quando le zampe anteriori toccavano il terreno e raggiungevano la stessa velocità di quelle posteriori. Mikhail continuava a tentare, ma falliva sempre. Un pomeriggio Renati tornò dalla caccia con una notizia sorprendente: a meno di otto chilometri a nordovest dal palazzo bianco, alcuni uomini avevano iniziato ad abbattere gli alberi. Avevano già liberato uno spiazzo e stavano costruendo delle capanne con i tronchi. Stavano aprendo una strada tra i cespugli. Gli uomini avevano molti carri, seghe e asce. Renati disse che era riuscita ad avvicinarsi in forma di lupo abbastanza da osservarli lavorare; raccontò che uno di loro l'aveva vista e l'aveva indicata agli altri prima che riuscisse a tornare nella foresta. Cosa significava? aveva chiesto la donna a Wiktor. Un accampamento di taglialegna, pensò il capo. Disse al branco che in nessuna circostanza dovevano avvicinarsi di nuovo a loro, sia in forma umana che come lupi. Gli uomini avrebbero probabilmente lavorato per tutta l'estate e poi se ne sarebbero andati. Era meglio lasciarli stare. Ma Mikhail notò che da quel momento "Wiktor si era fatto silenzioso e pensieroso. Il capobranco proibì a tutti di cacciare se non di notte. Era nervoso e continuava a camminare su e giù per la sala molto dopo che gli altri erano andati a dormire. Ben presto, quando il vento soffiava nella direzio-
ne giusta, Mikhail e gli altri - stesi al sole all'esterno del palazzo bianco riuscivano a sentire il suono delle asce e delle seghe all'opera, impegnate a rosicchiare via la foresta. E poi arrivò il giorno. Franco e Renati uscirono a cacciare, mentre la luna crescente brillava in cielo e il bosco vibrava del frinire dei grilli. Era trascorsa poco più di un'ora, quando il rumore di spari lontani zittì gli insetti e riecheggiò nei corridoi del palazzo bianco. Mikhail contò quattro colpi, alzandosi da dov'era steso accanto ad Alekza. Petyr giocava sul pavimento con un osso di coniglio. Wiktor lasciò cadere il libro di latino che stava leggendo a Mikhail e si alzò in piedi. Si udirono altri due spari; il rumore fece sobbalzare il ragazzo: ricordava molto bene quel suono e cosa era in grado di fare un proiettile. Con l'ultimo colpo iniziò un ululato: era la voce roca di Franco che chiedeva aiuto in preda al panico. «Resta con Petyr», disse Wiktor ad Alekza; mentre si avviava verso la scala di pietra il suo corpo si stava già trasformando. Mikhail lo seguì; i due lupi uscirono correndo dal palazzo bianco, sfrecciando nel buio verso il punto da cui proveniva il lamento di Franco. Avevano percorso poco più di un chilometro quando sentirono l'odore della polvere da sparo insieme a quello sudato, acre e spaventato degli uomini. Nel bosco brillavano le lanterne e gli uomini si chiamavano l'un l'altro. Franco aveva cominciato a guaire, un suono acuto e sconvolto che guidò i due lupi da lui come un faro sonoro. Lo trovarono accucciato in cima a un dirupo in mezzo al fitto sottobosco; davanti a loro videro un circolo di tende intorno a un fuoco. Wiktor gli dette una spallata alle costole per zittirlo; Franco si stese sulla pancia in atteggiamento sottomesso, con gli occhi lucidi di terrore... non a causa del capobranco, ma di quello che stava accadendo nello spiazzo illuminato dal fuoco. Due uomini con il fucile in spalla stavano trascinando qualcosa fuori dal bosco e alla luce. C'erano altri sei uomini, tutti armati di pistole o fucili e muniti di lanterne. Si riunirono intorno alla forma stesa per terra e la illuminarono. Mikhail sentì Wiktor rabbrividire. Anche i suoi polmoni sembravano pieni di aghi ghiacciati. Sul terreno c'era la carcassa di un lupo con la pelliccia color ruggine bucata da tre fori di proiettile. Il sangue di Renati sembrava nero alla luce delle lampade. E lì in bella vista c'era un lupo morto con un braccio e una gamba umani. Mio Dio, pensò Mikhail. Ora sanno.
Uno dei taglialegna iniziò a pregare - una voce russa grezza e strepitante - e quando finì appoggiò la bocca del fucile al cranio di Renati e sparò, mandandolo in pezzi. «Abbiamo sentito gli uomini», raccontò Franco una volta tornati nella sala. Tremava e aveva la pelle lucida di sudore. «Ridevano e parlavano accanto al fuoco. Facevano tanto di quel rumore che bisognava essere sordi per non sentirli». «Siete stati degli stupidi ad andare laggiù!», esclamò Wiktor furibondo, spruzzando saliva. «Maledizione, hanno ucciso Renati!» «Lei ha voluto avvicinarsi», continuò Franco inebetito. «Ho cercato di farla tornare indietro, ma... voleva vederli. Voleva andare a sentire cosa dicevano». Scrollò la testa, lottando contro lo shock. «Siamo rimasti al limitare dello spiazzo... tanto vicini da sentire il battito dei loro cuori. E penso... C'era qualcosa in loro, nella loro vicinanza, che l'ha ipnotizzata. Era come vedere creature di un altro mondo. Persino quando uno degli uomini ha alzato lo sguardo e l'ha vista, non si è mossa. Credo...» Sbatté lentamente le palpebre, con le mente ancora stordita. «Credo... che per un istante... abbia dimenticato di essere un lupo». «Ora se ne andranno, vero?», chiese Alekza speranzosa, con in braccio il bambino che si dimenava. «Se ne andranno, torneranno da dove sono venuti». Nessuno le rispose. «Non è così?» «Puah!», esclamò Wiktor sputando nel fuoco. «Chi può sapere cosa faranno? Gli uomini sono pazzi!» Si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Forse se ne andranno. Forse la vista di Renati li ha spaventati a morte e stanno già facendo i bagagli. Dannazione, adesso sanno di noi! Non c'è niente di più pericoloso di un russo spaventato armato di fucile!» Lanciò una rapida occhiata a Mikhail, poi al bambino in braccio ad Alekza. «Forse se ne andranno», disse, «ma io non ci conterei. D'ora in poi staremo sempre di guardia su nella torre. Inizierò io. Mikhail, farai tu il secondo turno?» Il ragazzo annuì. «Dovremo dividerci in turni di sei ore», continuò Wiktor. Guardò intorno a sé i membri sopravvissuti del branco: Alekza, Petyr, Franco e Mikhail. Non dovette dire una parola: la sua espressione parlava da sola e Mikhail era in grado di leggerla. Il branco stava morendo. Lo sguardo di Wiktor vagò per la sala, come a cercare i compagni perduti. «Renati è morta», mormorò; Mikhail vide le lacrime formarsi negli occhi. «L'amavo», disse il capobranco a nessuno in particolare. Poi strinse intorno a sé la veste di pelle di cervo, si girò bruscamente e salì le scale. Passarono tre giorni. Il suono delle asce e delle seghe all'opera si era in-
terrotto. La quarta notte dopo la morte di Renati, Wiktor e Mikhail si recarono furtivamente alla roccia che si affacciava sul circolo di tende. Erano scomparse e il fuoco era spento e freddo. Anche la puzza degli uomini era svanita. I due lupi si diressero a nordovest, seguendo la striscia di ceppi d'albero, fino all'accampamento principale dei taglialegna. Anche questo era stato smantellato. Le baracche erano vuote e i carri non c'erano più. Ma restava la strada che avevano aperto nella foresta, come una cicatrice bruna nel terreno. Non vi era traccia della carcassa di Renati: gli uomini l'avevano portata con sé; cosa sarebbe accaduto quando il mondo esterno avesse visto il corpo di un lupo con un braccio e una gamba umani? La strada indicava la via verso il palazzo bianco. Dalla gola di Wiktor uscì un basso mugolio; Mikhail capì cosa voleva dire: Che Dio ci aiuti. L'estate continuò, una sequenza di giornate torride. I taglialegna non tornarono e nessun altro carro lasciò solchi sulla strada nella foresta. Mikhail ricominciò a tornare al dirupo di sera, a guardare il treno passare rombando. Il macchinista sembrava andare ancora più veloce di prima. Si chiese se l'uomo avesse sentito parlare di Renati e delle storie che sicuramente ne erano seguite: in quel bosco vivevano dei mostri. Corse alcune volte affiancato al treno, fermandosi sempre quando il suo corpo iniziava a cambiare da uomo a lupo e rischiava di perdere l'equilibrio. Le ruote di ferro gli sibilavano contro e lo lasciavano indietro. L'estate finì, la foresta si colorò di oro e cremisi, i raggi del sole si fecero obliqui sulla terra, la foschia del mattino diventò fredda e persistente, e arrivarono i soldati. Giunsero con il primo gelo. Erano in ventidue, su quattro carri trainati da cavalli; Wiktor e Mikhail, accucciati nel sottobosco, li osservarono accamparsi nelle capanne dei taglialegna. Erano tutti armati di fucile e alcuni avevano anche una pistola. Uno dei carri era carico di rifornimenti e insieme a casse con la scritta PERICOLO! ESPLOSIVI! c'era una tozza mitragliatrice su ruote. L'uomo che probabilmente era al comando mise immediatamente alcune sentinelle intorno al campo e ordinò ai soldati di iniziare a scavare fosse in fondo alle quali misero dei paletti appuntiti. Srotolarono delle reti che appesero agli alberi e che venivano azionate da fili invisibili sparsi a terra un po' dovunque. Ovviamente lasciarono il loro odore su tutte le trappole, rendendo facile ai lupi evitare le reti e i fili... poi metà dei soldati presero due carri e seguirono la strada fino al punto un cui erano state montate le tende; lì piantarono le proprie, scavarono nuove fosse e appesero altre reti. Scaricarono dal carro le casse di esplosivi e la mitragliatrice; quando la collaudarono sembrò la fine del
mondo, perché l'arma abbatté i sottili alberi di pino compiendo il lavoro di dieci asce. «Una mitragliatrice», disse Wiktor quando furono tornati nel palazzo bianco. «Hanno portato una mitragliatrice! Per ucciderci!», esclamò scuotendo la testa incredulo, la barba quasi tutta bianca. «Mio Dio, devono pensare che siamo centinaia!» «Andiamocene finché possiamo», propose Franco. «Adesso, prima che quei bastardi vengano a darci la caccia!» «E dove andremo, ora che sta per arrivare l'inverno? Scaveremo delle buche per viverci? Non possiamo sopravvivere senza un riparo!» «Non possiamo sopravvivere restando qui! Inizieranno a perlustrare il bosco e prima o poi ci troveranno!» «E allora cosa facciamo?», chiese piano Wiktor, con il viso tinto di rosso dalla luce dal fuoco. «Andiamo dai soldati e diciamo che non devono temerci? Che siamo esseri umani, proprio come loro?», aggiunse con un sorriso amaro. «Vai avanti tu Franco... e vediamo come ti trattano». Franco aggrottò la fronte e si allontanò zoppicando, appoggiandosi al bastone, più agile su tre zampe che su una gamba sola. Wiktor si accovacciò e si mise a riflettere. Mikhail era in grado di dire cosa passava per la mente del capobranco: cacciare sarebbe diventato molto più difficile, con i soldati e le loro trappole nel bosco. Franco aveva ragione, prima o poi i soldati li avrebbero trovati... e cosa avrebbero fatto una volta catturati era inimmaginabile. Mikhail guardò Alekza, che teneva stretto a sé il bambino. I soldati ci uccideranno o ci metteranno in gabbia, pensò. La morte sarebbe stata preferibile alle sbarre di ferro. «Quei bastardi mi hanno già cacciato via da una casa», disse Wiktor. «Non mi scacceranno anche dalla seconda. Io resterò qui, qualsiasi cosa accada». Si alzò in piedi, ora che aveva preso un decisione. «Voi potete cercare un altro posto, se volete. Magari potete usare una delle caverne in cui abbiamo dato la caccia al berserker, ma che io sia dannato se mi accuccerò a tremare in una caverna come una bestia. No. Questa è la mia casa». Ci fu un lungo silenzio, rotto da Alekza con voce acuta e aggrappata a una falsa speranza: «Forse si stancheranno di cercarci e se ne andranno. Non resteranno molto a lungo, non adesso che è quasi arrivato l'inverno. Se ne andranno con la prima neve». «Sì!», convenne Franco. «Non resteranno quando comincerà a fare freddo, questo è sicuro!»
Per la prima volta il branco desiderava che arrivasse il gelido soffio dell'inverno. Una bella nevicata avrebbe tolto di mezzo i soldati. Ma sebbene l'aria fosse diventata fredda, il cielo restava limpido. Le foglie morte caddero dagli alberi; dal sottobosco Wiktor e Mikhail osservarono i soldati perlustrare la foresta, piccoli drappelli di uomini stretti l'uno all'altro con i fucili puntati in ogni direzione. Una volta un gruppo passò a meno di cento metri dal palazzo bianco. I soldati scavarono altre fosse, vi misero sul fondo paletti appuntiti e li coprirono di terra e foglie. Trappole per lupi, spiegò Wiktor a Mikhail. Quei trabocchetti non erano un problema, ma i soldati perlustravano la zona in cerchi sempre più ampi; un terribile giorno Mikhail e Wiktor rimasero a guardare in angoscioso silenzio mentre gli uomini trovavano il Giardino. Mani e baionette si misero all'opera, scavando le tombe che erano state riparate dopo la morte del berserker. E quando quelle mani estrassero dalla terra le ossa di uomini e lupi, Mikhail abbassò la testa e si allontanò, incapace di sopportare quella vista. La neve imbiancò la foresta. Il vento settentrionale prometteva un tempo brutale, ma i soldati rimasero lo stesso. Ottobre passò. Il cielo si fece buio, carico di nuvole. E un mattino, tornando dalla caccia con in bocca un coniglio appena ucciso, Mikhail trovò il nemico a meno di cinquanta metri dal palazzo bianco. Erano in due, entrambi armati di fucile. Mikhail si lanciò tra i cespugli e si acquattò, osservando i soldati avvicinarsi. Gli uomini conversavano tra loro parlando di Mosca, con voci nervose e dita strette sul grilletto. Mikhail lasciò cadere il coniglio. Per favore fermatevi, disse ai soldati nella sua testa. Per favore, tornate indietro. Vi prego... Non lo fecero. Gli stivali schiacciavano le foglie e ogni passo li portava più vicini a Wiktor, Franco, Alekza e al bambino. I muscoli di Mikhail si tesero, mentre il cuore gli batteva all'impazzata. Vi prego, tornate indietro. I soldati si fermarono. Uno di loro accese una sigaretta, proteggendo con una mano il fiammifero dal vento. «Ci siamo allontanati troppo», disse all'altro. «Ci conviene tornare indietro, altrimenti Novikov ci scuoierà». «Quel bastardo è pazzo», osservò il secondo uomo appoggiandosi al fucile. «Diamo fuoco a tutta questa maledetta foresta e facciamola finita. Perché diavolo vuole piantare un nuovo accampamento in questa confusione?» Si guardò intorno con stupore e timore; Mikhail capì che l'uomo abitava in città. «Riduciamola in cenere e torniamo a casa, ecco la mia proposta». Il primo soldato soffiò il fumo dalle narici. «È per questo che non siamo
ufficiali, Stefan», disse. «Siamo troppo intelligenti per portare le stellette. Credimi, se dovrò scavare un'altra fossa dirò a Novikov dove può ficcarsi...» Si interruppe, con il fumo che si alzava sopra la testa, e fissò qualcosa tra gli alberi. «Cos'è quello?», chiese a bassa voce. «Cos'è cosa?», disse Stefan guardandosi intorno. «Là». Il primo soldato avanzò di altri due passi e indicò con un dito. «Proprio lì. Lo vedi?» Mikhail chiuse gli occhi. «È un edificio», continuò il soldato. «Vedi? Lì c'è un minareto». «Mio Dio, hai ragione!», convenne Stefan. Prese subito il fucile e lo armò. Il rumore fece riaprire gli occhi a Mikhail. I due soldati erano ad appena quattro metri e mezzo da lui. «Sarà meglio riferirlo a Novikov», disse Stefan. «Non ho la minima intenzione di avvicinarmi oltre». Si girò, allontanandosi in fretta nel bosco. Il primo uomo gettò via il mozzicone di sigaretta e seguì il compagno. Mikhail si alzò in piedi. Non poteva lasciarli tornare all'accampamento. Non poteva, non doveva. Ripensò alle ossa strappate dal Giardino come fragili radici, al cranio di Renati fatto a pezzi, a cosa avrebbero fatto quegli uomini ad Alekza e Petyr tornando con armi ed esplosivi. La rabbia esplose dentro di lui, e dalla gola gli salì un ringhio basso. I soldati si stavano precipitando nel bosco, quasi correndo. Mikhail aveva ancora in bocca il sangue del coniglio: il suo corpo si lanciò all'inseguimento degli uomini, un lampo nero nella foresta grigia. Corse in silenzio, con la grazia tesa di un assassino. E mentre si avvicinava ai soldati valutando da che punto spiccare il salto, seppe una cosa con certezza: che le lacrime di un lupo non erano diverse da quelle di un essere umano. Balzò in alto e in avanti, spinto dalle zampe posteriori simili a molle di ferro, e atterrò sulla schiena del fumatore prima ancora che l'uomo si accorgesse della sua presenza. Lo trascinò giù tra le foglie morte, gli strinse le fauci sul collo strattonandogli la testa violentemente a destra e a sinistra, e sentì il rumore delle ossa che si frantumavano. L'uomo si dibatté, ma erano gli ultimi spasimi dei nervi e dei muscoli. Il lupo finì di spezzargli il collo; il soldato morì senza emettere un suono. Si udì un'esclamazione soffocata e tremante. Mikhail alzò lo sguardo, gli occhi verdi scintillanti. Stefan si era girato e stava sollevando il fucile.
Il lupo vide il dito del soldato stringersi sul grilletto. Un istante prima che il proiettile uscisse, Mikhail balzò di lato tuffandosi nel sottobosco, mentre il piombo russo sollevava uno schizzo di terra. Si udì un secondo sparo; il proiettile passò sopra la spalla di Mikhail e si conficcò in una quercia. Il lupo scartò a destra e a sinistra, e scivolando si fermò improvvisamente su un tappeto di foglie morte, perché sentì il soldato correre via. L'uomo urlò chiamando aiuto; Mikhail si mise a inseguirlo come un boia silenzioso. Il soldato inciampò, si rialzò in fretta e continuò a correre. «Aiutatemi! Aiutatemi!», urlò, poi si girò per sparare a ciò che nella sua immaginazione gli stava arrivando alle spalle. Mikhail invece gli stava girando intorno per impedirgli di tornare all'accampamento. L'uomo continuò a correre e urlare, con le foglie morte tra i capelli, e il lupo sbucò dai cespugli pronto a spiccare il salto, ma nell'istante successivo si rese conto che non c'era bisogno di sprecare le forze. Il terreno si aprì sotto i piedi del soldato e l'uomo cadde in mezzo alla polvere e alle foglie. Smise di urlare, con un'ultima nota strozzata. Mikhail si avvicinò con cautela all'orlo della fossa e guardò in basso. Il corpo del soldato si contorceva, trafitto da sei o sette paletti appuntiti. L'odore del sangue era molto forte... e unito alla rabbia spinse Mikhail a girare su se stesso, cercando di mordersi la coda. Qualche istante dopo sentì delle grida: erano altri soldati che si avvicinavano rapidamente. Mikhail si girò e tornò di corsa al punto in cui giaceva morto il primo soldato. Afferrò il collo del cadavere con le fauci e si sforzò di trascinare il corpo tra i cespugli. Il soldato era pesante e la pelle si squarciò imbrattando tutto. Con la coda dell'occhio Mikhail vide un lampo bianco: Wiktor lo affiancò e lo aiutò a trascinare il cadavere nell'oscurità sotto un fitto gruppo di pini. Poi fece l'atto di azzannare il muso di Mikhail: un segnale che gli ordinava di andarsene. Mikhail esitò, ma Wiktor lo spintonò con una spalla per farsi obbedire. Il capobranco si accucciò tra le foglie ad ascoltare i rumori dei soldati. Erano in otto: mentre quattro districavano il morto dai paletti nella fossa, gli altri quattro iniziarono a perlustrare la foresta con i fucili armati e pronti. Le bestie erano arrivate, come aveva sempre predetto Wiktor. Erano arrivate e non se ne sarebbero andate senza la loro carne sanguinolenta. Wiktor si alzò, un fantasma tra gli alberi, e tornò di corsa al palazzo bianco, con l'odore nauseante delle bestie nelle narici.
5. Una mano afferrò Mikhail per la spalla, destandolo da due ore di sonno irrequieto, e un dito gli premette sulle labbra. «Zitto», disse Wiktor accovacciandosi accanto a lui. «Ascolta». Lanciò un'occhiata ad Alekza, che era già sveglia e stringeva a sé Petyr, poi tornò a guardare Mikhail. «Cosa c'è? Che succede?» Franco si alzò, aiutandosi con il bastone. «Stanno arrivando i soldati», rispose Wiktor; Franco sbiancò in volto. «Li ho visti dalla torre. Sono in quindici o sedici, forse di più». Nella luce blu scura che precedeva l'alba li aveva scorti correre da albero ad albero, convinti di essere invisibili. Wiktor aveva sentito un cigolio di ruote: avevano portato con loro la mitragliatrice. «Cosa facciamo?», chiese Franco con voce tremante, sull'orlo del panico. «Dobbiamo andarcene finché siamo in tempo!» Wiktor guardò il fuoco che ardeva basso, poi annuì lentamente. «D'accordo», disse. «Ce ne andremo». «Andarcene?», chiese Mikhail. «E dove? Questa è la nostra casa!» «Dimenticalo!», ribatté Franco. «Non abbiamo speranza, se ci sorprendono qui». «Ha ragione», convenne Wiktor. «Ci nasconderemo nella foresta. Forse potremo tornare quando i soldati se ne saranno andati». Il modo in cui lo disse fece capire a tutti che non ci credeva: una volta trovata la tana, i soldati forse si sarebbero trasferiti lì prima dell'arrivo della neve. Wiktor si alzò in piedi. «Non possiamo più restare qui». Franco non esitò. Gettò via il bastone e sulla pelle cominciarono a diffonderglisi peli grigi. In meno di un minuto si era trasformato, in equilibrio su tre zampe. Anche Mikhail voleva trasformarsi. .. ma Petyr era ancora in forma umana, quindi anche Alekza non poteva cambiare. Scelse di restare umano. Il viso e il cranio di Wiktor iniziarono a modificarsi: gettò via la veste, mentre lucidi peli bianchi gli spuntavano sul petto, sulle spalle e sulla schiena. Franco stava già salendo la scala di pietra. Mikhail afferrò la mano di Alekza e trascinò con sé lei e il bambino. Completata la trasformazione Wiktor si mise in testa al gruppetto. Lo seguirono attraverso i corridoi tortuosi, oltre le altre finestre arcuate sfondate dagli alberi... e improvvisamente videro il cielo illuminarsi. Non per il sole, che era ancora uno squarcio rosso sull'orizzonte, ma per una scintillante e sfrigolante palla di fuoco bianco che si alzò dalla foresta e ricadde
in un arco, avvolgendo tutto in una luce abbagliante e incandescente. La sfera di fuoco cadde nel cortile del palazzo e altre due si alzarono dagli alberi e la seguirono. La terza sfondò la vetrata colorata rimasta su una finestra e finì all'interno crepitando, luminosa come un sole in miniatura. Wiktor abbaiò agli altri di continuare a muoversi. Mikhail sollevò una mano per ripararsi gli occhi dal bagliore accecante e strinse l'altra intorno a quella di Alekza. Franco correva su tre zampe subito dietro Wiktor. Al di là delle finestre il buio si era trasformato in una fredda e falsa luce del giorno. Al ragazzo sembrava di essere in un sogno, come se stesse camminando a fatica lungo i corridoi di un incubo. La luce accecante gettava sulle pareti ombre grottesche e distorte, mescolando quelle dei lupi e degli esseri umani in nuove forme di vita. Il senso di irrealtà che Mikhail provava permase anche quando un soldato, una forma senza volto, apparve nel corridoio davanti a loro, alzò il fucile e sparò. Wiktor stava già balzando su di lui, ma Mikhail lo sentì grugnire e capì che il proiettile aveva colpito il bersaglio. Il lupo fece cadere il soldato a terra sotto il suo peso; mentre l'uomo urlava, gli squarciò la gola con uno strattone violento. «Sono qui! Da questa parte!», gridò un altro soldato. «Sono una decina!» Sulle pietre echeggiò un rumore di stivali. Un secondo fucile fece fuoco e alcune scintille rimbalzarono sulla parete appena sopra la testa di Franco. Wiktor si girò, urtando Franco per farlo tornare indietro da dove erano venuti. Mikhail vide otto o nove soldati nel corridoio davanti a loro: era impossibile fuggire da quella parte. Wiktor abbaiava con la voce roca per il dolore, alcuni soldati urlavano e Petyr piangeva in braccio ad Alekza. Si udirono altri due spari: entrambi i proiettili rimbalzarono sulle pareti. Mikhail si girò e cominciò a correre, tirando Alekza con sé. Poi svoltò l'angolo di un corridoio e si bloccò, faccia a faccia con tre soldati. Gli uomini lo fissarono a bocca aperta, sorpresi di vedere un essere umano. Ma il primo soldato si riprese e gli puntò il fucile al petto. Mikhail si sentì ringhiare. Allungò rapidissimo una mano, afferrò la canna e la alzò verso l'alto mentre partiva il colpo. Sentì la scia bollente del proiettile sfiorargli la spalla. L'altro braccio scattò in avanti; fu solo quando vide gli artigli ricurvi affondare negli occhi dell'uomo che si rese conto che la sua mano si era trasformata. Era accaduto in un istante, un miracolo del dominio della mente sul corpo... quando gli strappò gli occhi, il soldato urlò e barcollò all'indietro verso i suoi compagni. Il terzo uomo
fuggì, gridando e chiamando aiuto, ma il secondo prese a sparare alla cieca, senza mirare. I proiettili rimbalzarono sulle pareti e sul soffitto. Una forma superò Mikhail con un balzo: aveva tre zampe e piombò direttamente contro l'addome del soldato. L'uomo lottò contro il lupo, ma Franco era menomato solo nelle zampe, non nelle zanne. Fece a brandelli il volto del soldato, poi lo afferrò alla gola. Mikhail era in ginocchio; mentre il suo corpo si contorceva, si tolse la tunica di pelle di cervo e lasciò che la trasformazione prendesse il sopravvento. Ci fu un lampo di metallo. Il soldato aveva sfoderato il coltello, abbassò il braccio e lo affondò nel collo di Franco. Il lupo sussultò, ma non mollò la presa sulla gola dell'uomo. Il soldato estrasse la lama e lo colpì più volte. Franco strinse le mascelle, schiacciandogli la trachea. Il coltello affondò nel collo del lupo fino all'impugnatura, facendo uscire uno spruzzo di sangue dalle narici di Franco. Altri due soldati apparvero tra le spire del fumo degli spari, sputando scintille dalla bocca dei fucili. Un proiettile colpì Mikhail al fianco, togliendogli il respiro. Un altro gli ferì l'orecchio. Franco ululò quando una pallottola lo colpì, ma si gettò in avanti con il coltello ancora nel collo e affondò le zanne nella gamba di uno dei soldati. L'altro uomo gli sparò a bruciapelo, ma il lupo continuò freneticamente a mordere e graffiare. Wiktor balzò improvvisamente fuori dal fumo, con il sangue scuro che gli usciva dalla spalla, e si lanciò sul secondo uomo gettandolo a terra. Mikhail aveva completato la trasformazione: l'odore di sangue e violenza alimentava la sua rabbia. Saltò addosso all'uomo che Franco aveva attaccato e insieme i due lupi si sbarazzarono in fretta di lui. Poi Mikhail si girò e si lanciò sull'avversario di Wiktor, azzannandogli la gola e squarciandola. «Mikhail». Era stato un debole lamento. Si voltò e vide Alekza in ginocchio. Petyr urlava e lei lo teneva stretto, ma aveva gli occhi appannati. Un rivolo di sangue le usciva dall'angolo della bocca e le ginocchia erano in una pozza rossa. «Mikhail», sussurrò di nuovo, poi gli tese il bambino. Non poteva prenderlo. Per farlo aveva bisogno di mani, non di zampe. «Ti prego», lo implorò. Ma Mikhail non poteva neppure rispondere. La lingua del lupo non era in grado di formare parole di amore umano, di bisogno o di dolore. Alekza rovesciò gli occhi azzurro ghiaccio e cadde in avanti ancora con il bimbo in braccio; Mikhail si rese conto che la testa di Petyr avrebbe pic-
chiato sulla pietra. Scavalcò con un balzo un soldato morto e scivolò sotto il piccolo, attutendo con il proprio corpo la caduta. Sentì altri soldati arrivare nel corridoio pieno di fumo. Wiktor abbaiò: un suono che lo incitava a seguirlo. Mikhail rimase dov'era, con la mente confusa e le giunture e i muscoli come di ghiaccio. Wiktor morse il giovane lupo sull'orecchio ferito e tirò. I soldati li avevano quasi raggiunti e si sentiva un cigolio di ruote: la mitragliatrice. Franco avanzò barcollando, afferrò tra i denti la coda di Mikhail e diede uno strattone all'indietro, quasi strappandogliela. Il dolore gli infiammò i nervi. Petyr stava ancora piangendo, i soldati stavano arrivando con la mitragliatrice e Alekza giaceva immobile sul pavimento di pietra. Wiktor e Franco continuavano a strattonarlo, incitandolo ad alzarsi. Non poteva più fare nulla, né per Alekza né per suo figlio. Sollevò la testa e fece il gesto di azzannare Wiktor, costringendolo a indietreggiare, poi si tolse delicatamente da sotto Petyr in modo che il bambino scivolasse a terra. Si alzò, con in bocca l'amaro sapore del sangue. Nel fumo si scorgevano alcune forme di uomini. Si udì il rumore di metallo contro metallo: lo scatto di un otturatore. Franco alzò la testa con difficoltà, a causa del coltello nel collo, e ululò. Il suono echeggiò nel corridoio e bloccò il dito che stava per premere il grilletto della mitragliatrice. Poi Franco si diresse zoppicando verso i soldati, con il corpo pronto a spiccare un balzo. Si gettò nelle spire di fumo con le fauci spalancate pronte a squarciare qualsiasi cosa gli capitasse tra le zanne. La mitragliatrice crepitò e i proiettili lo tagliarono in due. Wiktor si girò e iniziò a correre nella direzione opposta, saltando sopra i soldati morti. La mitragliatrice stava ancora sputando pallottole che rimbalzavano sulle pareti ronzando come calabroni. Mikhail vide il corpo di Alekza sussultare, colpito da un altro proiettile, e uno sparo sibilare sulla pietra accanto a Petyr. Mikhail doveva scegliere: poteva restare lì a morire oppure tentare di fuggire. Si girò e seguì il lupo bianco. Non appena si allontanò sentì la mitragliatrice smettere di crepitare. Petyr stava ancora piangendo. Uno degli uomini gridò: «Non sparate! Qui c'è un bambino!» Mikhail non si fermò. Il destino di suo figlio, qualunque fosse, era fuori dal suo controllo. Ma la mitragliatrice non sparò più e i fucili rimasero silenziosi. Forse dopotutto nel cuore dei russi c'era della pietà. Mikhail non guardò indietro: continuò a correre seguendo Wiktor, volgendo già la men-
te dal presente al futuro. Il lupo bianco trovò una stretta scala e la salì, lasciando gocce di sangue sulle pietre. Mikhail vi aggiunse anche le sue. Uscirono da una finestra senza vetri del livello superiore, scivolarono lungo il tetto spiovente e caddero nel boschetto sottostante. Poi corsero fianco a fianco nella foresta; quando si furono allontanati a sufficienza, rimasero ansanti nella gelida luce dell'alba, macchiando di rosso le foglie morte sotto di loro. Wiktor si rannicchiò tra le foglie e vi rimase mezzo nascosto, gemendo per il dolore. Mikhail girò in tondo stordito, finché cadde senza più forze. Iniziò a leccarsi il fianco ferito, ma la lingua non trovò nessuna pallottola: il proiettile aveva forato la carne obliquamente ed era uscito dalla parte opposta, senza toccare le costole e gli organi interni. Tuttavia il giovane lupo perdeva molto sangue. Si trascinò al riparo di un pino e perse i sensi. Quando si risvegliò, il vento si era alzato e soffiava tra le cime degli alberi. Era trascorsa la giornata: il sole era quasi tramontato. Mikhail vide Wiktor, il lupo bianco rintanato tra le foglie. Si alzò in piedi, lo raggiunse barcollando e gli diede un colpetto. Sulle prime pensò che fosse morto, perché era terribilmente immobile; poi il vecchio lupo mugolò e si alzò, con la bocca incrostata di sangue rappreso e gli occhi spenti e vacui. La fame tormentava la pancia di Mikhail, che però si sentiva troppo esausto per cacciare. Barcollò prima in una direzione, poi in un'altra, incapace di decidere cosa fare. Quindi rimase fermo, con la testa china e il fianco di nuovo sanguinante. In lontananza si udì un rimbombo sordo. Mikhail drizzò le orecchie. Il suono si ripeté. Si rese conto che proveniva da sudest, dal luogo in cui si trovava il palazzo bianco. Wiktor attraversò la foresta fino a una piccola sporgenza rocciosa. Rimase lì immobile a fissare qualcosa; dopo un po' Mikhail raccolse le forze e salì accanto a lui. Del fumo scuro si levava turbinando nel vento, con al centro delle fiamme. Mentre Mikhail e Wiktor osservavano, si udì una terza esplosione. Videro pezzi di pietra volare in aria ed entrambi capirono cosa stava succedendo: i soldati stavano distruggendo il palazzo bianco. Altri due scoppi proiettarono strisce di fuoco nel buio del crepuscolo. Mikhail vide la torre - in cui era rimasto impigliato il suo aquilone, tanto tempo prima - accartocciarsi e crollare. Si udì il rimbombo di un'esplosione più forte e da quello scoppio si alzarono quelli che sembravano pipistrelli di fuoco. Trascinati dal vento, turbinarono nei possenti vortici; pochi
istanti dopo Mikhail e Wiktor sentirono l'odore bruciato e carbonizzato di una distruzione insensata. Pipistrelli di fuoco volarono sulla foresta e iniziarono a ricadere. Alcuni fluttuarono accanto ai due lupi. Né Wiktor né Mikhail ebbero bisogno di guardarli per sapere cos'erano. Le pagine in fiamme erano scritte in latino, tedesco e russo. Su molte c'erano ancora i resti di illustrazioni a colori, eseguite dalla mano di un maestro. Per un istante i sogni della civiltà nevicarono a fiocchi neri, poi il vento li raccolse portandoli via e non rimase più niente. La notte si impossessò del mondo. Il vento alimentò il fuoco, che iniziò a nutrirsi degli alberi. I due lupi rimasero sulla sporgenza di roccia. Le fiamme brillavano rosse in due paia di occhi: uno che aveva scorto la vera natura della bestia e odiava ciò che aveva visto, e l'altro che fissava la scena in stordita sottomissione, con lo sguardo velato dalla tragedia finale. Le fiamme si agitavano e danzavano, un'imitazione di felicità, e al loro tocco i pini verdi diventarono marroni. Mikhail diede un colpetto a Wiktor: era ora di andare, ovunque fossero diretti, ma il lupo bianco non si mosse. Solo più tardi, quando entrambi sentirono il calore che avanzava, Wiktor emise un suono profondo, lamentoso e terribile... il suono della sconfitta. Mikhail scese dalla roccia e abbaiando invitò l'altro lupo a seguirlo. Alla fine Wiktor volse le spalle alle fiamme e scese, con il corpo tremante e la testa china. Era vero per i lupi quanto per gli umani, pensò Mikhail mentre attraversavano la foresta. La vita è per i vivi. Alekza, Franco, Nikita... e tutti gli altri non c'erano più. E Petyr? Le sue ossa giacevano tra le rovine del palazzo bianco oppure i soldati l'avevano portato via? Cosa sarebbe accaduto a Petyr in quella giungla? Mikhail si rese conto che probabilmente non l'avrebbe mai saputo... e forse era meglio così. Improvvisamente gli venne in mente che era un assassino. Aveva ucciso degli esseri umani, spezzando colli e squarciando gole e... Dio misericordioso.. . era stato facile. E la cosa peggiore era che aveva provato piacere a uccidere. Anche se i libri erano ridotti in cenere, le loro voci erano ancora presenti nella sua mente. E in quel momento ne udì una, dal Riccardo II di Shakespeare: Va', con Caino a fianco per compagno, errando per la tenebra notturna e non mostrare più la faccia al giorno.
Signori, v'assicuro, la mia anima è piena di dolore nel pensar che dovesse sprizzar sangue ad irrorar la via della mia crescita. Si addentrò nella foresta seguito da Wiktor, mentre il vento continuava a turbinare e gli alberi bruciavano alle loro spalle. 6. Quando la neve arrivò, Mikhail e Wiktor vivevano da più di dieci giorni in una delle caverne in cui il capobranco aveva dato la caccia al berserker. C'era spazio per due lupi, ma non due umani. Il vento si era fatto pungente e soffiava da nord; ritornare in forma umana sarebbe stato un suicidio. Wiktor era letargico e dormiva giorno e notte. Mikhail cacciava per entrambi, rubando tutto il possibile dal piatto della foresta. Il vero inverno piantò le sue radici gelide. Gallatinov andò fino all'accampamento dei soldati e lo trovò vuoto. Non c'era traccia di Petyr. La neve aveva riempito i solchi dei carri e rubato ogni odore degli uomini. Il lupo girò alla larga dell'ampia zona di alberi bruciati e rovine carbonizzate dove un tempo si trovava il palazzo bianco, e tornò alla caverna. Nelle notti limpide in cui splendeva la luna cerchiata di azzurro e il cielo brillava di stelle, Mikhail cantava. Il suo canto ora esprimeva solo dolore e desiderio... tutta la gioia che era in lui era stata distrutta dalle fiamme. Wiktor restava nella caverna, una palla di pelo bianco, e a volte le sue orecchie si drizzavano ascoltando il lupo nero, ma Mikhail cantava da solo. La sua voce echeggiava nella foresta, trasportata dal vento vagabondo. Non giunse mai alcuna risposta. Nelle settimane e nei mesi che seguirono, Mikhail sentì che si stava allontanando sempre più dall'umanità. Non aveva bisogno di quel fragile corpo pallido: quattro zampe, artigli e zanne adesso erano più utili. Shakespeare, Socrate, la matematica superiore, il tedesco, l'inglese e il latino, la storia e le teorie della religione appartenevano a un altro mondo. Nel regno in cui viveva adesso, l'unica materia era la sopravvivenza. Non apprendere quelle lezioni significava morire. L'inverno finì. Le tormente divennero acquazzoni e nella foresta apparve di nuovo il verde. Un mattino Mikhail tornò dalla caccia e trovò un vecchio dalla barba bianca accovacciato su un mucchio di pietre, sul punto più
alto in cima al dirupo. Wiktor aveva gli occhi socchiusi alla luce del sole e il volto rugoso e pallido, ma prese la sua parte del topo muschiato morto e la mangiò cruda. Guardò il sole salire in cielo, con gli occhi color ambra privi di luce. Inclinò la testa da un lato, come se avesse sentito un suono familiare. «Renati?», chiamò con voce flebile. «Renati?» Mikhail gli rimase accanto steso sulla pancia, osservando il dirupo ai loro piedi, masticando il proprio cibo e cercando di non sentire quella voce tremula. Dopo un po', il vecchio si portò le mani al volto e pianse; Mikhail si sentì spezzare il cuore. Wiktor alzò lo sguardo e sembrò vedere il lupo nero per la prima volta. «Chi sei?», chiese. «Cosa sei?» Mikhail continuò a mangiare. Sapeva cos'era. «Renati?» Wiktor chiamò di nuovo. «Ah, eccoti qui». Il giovane lupo lo vide accennare un sorriso, rivolgendosi al nulla. «Renati, crede di essere un lupo. Crede che resterà qui per sempre a correre su quattro zampe. Ha dimenticato qual è il vero miracolo, Renati: che all'interno di quella pelle è umano. E quando sarò diventato polvere e sarò venuto dove sei tu, lui crede che sarà ancora qui ad acchiappare topi muschiati per cena». Rise un po', condividendo la battuta con un fantasma. «E pensare a cosa gli ho inculcato in testa, ora dopo ora!» Le sue dita deboli toccarono la cicatrice scura che aveva sulla spalla e premettero contro il piccolo rilievo formato dalla pallottola che vi era ancora conficcata. Poi il vecchio rivolse la sua attenzione al lupo nero. «Torna umano», disse. Il giovane leccò le ossa del topo muschiato e non gli diede retta. «Torna umano», ripeté Wiktor. «Non sei un lupo. Torna umano». Mikhail afferrò il piccolo cranio, lo spaccò stringendolo tra le fauci e mangiò il cervello. «Anche Renati vuole che ti trasformi», gli disse il vecchio. «La senti? Ti sta parlando». Mikhail sentiva il vento e la voce di un pazzo. Terminò il suo pasto e si leccò le zampe. «Mio Dio», disse Wiktor a voce bassa. «Sto davvero impazzendo». Si alzò in piedi e guardò in fondo all'abisso. «Ma non sono abbastanza pazzo da credere di essere davvero un lupo. Sono un uomo. Anche tu lo sei, Mikhail. Torna umano. Ti prego». Il giovane lupo non lo fece. Rimase steso sulla pancia a guardare i corvi volare in circolo e desiderò di poter dare un morso a uno di loro. Non gli piaceva l'odore di Wiktor: gli ricordava troppo le sagome indistinte armate
di fucili. Il vecchio sospirò e chinò la testa. Iniziò cauto a scendere lentamente lungo le rocce, mentre le giunture gli scricchiolavano. Mikhail si alzò e lo seguì per evitare che cadesse. «Non ho bisogno del tuo aiuto!», gridò Wiktor. «Sono un uomo, non ho bisogno del tuo aiuto!» Continuò a scendere finché non raggiunse la caverna, vi strisciò dentro e si rannicchiò fissando il vuoto. Mikhail si accucciò sulla sporgenza davanti all'ingresso, con il vento che gli scompigliava il pelo. Osservò i corvi volteggiare in aria come aquiloni neri e gli venne l'acquolina in bocca. Il sole primaverile fece sbocciare la foresta. Wiktor non ritornò alla sua forma di lupo e Mikhail non tornò a quella umana. Il vecchio diventò sempre più debole. Durante le notti gelide, il giovane entrava nella caverna e si stendeva accanto a lui, scaldandolo con il calore del suo corpo, ma il sonno di Wiktor era leggero. Era costantemente tormentato dagli incubi e si alzava a sedere gridando e chiamando Renati, Nikita o un altro dei membri perduti del branco. Nei giorni caldi si sedeva sulle rocce in cima al dirupo e fissava a occidente, verso l'orizzonte indistinto. «Dovresti andare in Inghilterra», disse Wiktor al lupo nero. «Proprio così, in Inghilterra». Annuì. «In Inghilterra sono civilizzati. Non uccidono i loro figli». Tremò; persino nei giorni più caldi, la sua pelle era fredda come pergamena. «Mi hai sentito, Mikhail?», chiese. Il lupo alzò la testa e lo fissò, ma non rispose. «Renati?», disse Wiktor parlando al nulla. «Ho sbagliato. Vivevamo come lupi, ma non siamo lupi. Eravamo esseri umani e appartenevamo a quel mondo. Ho sbagliato a tenerci qui. Ho sbagliato. E ogni volta che lo guardo...» - indicò l'animale nero - «so che mi sbagliavo. È troppo tardi per me. Ma non lo è per lui. Potrebbe andare, se volesse. Dovrebbe farlo». Intrecciò le dita, come a legare e poi districare un problema. «Avevo paura del mondo umano. Avevo paura del dolore. Anche tu, vero Renati? Credo che avessimo tutti paura. Potevamo andarcene, se avessimo scelto di farlo. Potevamo imparare a sopravvivere in quel mondo selvaggio». Alzò la mano verso occidente, verso i villaggi invisibili e le città oltre l'orizzonte. «Oh, è un luogo orribile», disse a voce bassa. «Ma il posto di Mikhail è lì. Non qui. Non più». Guardò il lupo nero. «Renati dice che devi andare». Mikhail non si mosse: stava oziando al sole, ma sentiva quello che diceva il vecchio. Scacciò una mosca con la coda, una reazione involontaria. «Non ho bisogno di te», esclamò Wiktor in tono irritato. «Sei convinto che sei tu a mantenermi in vita? Ah! Sono capace di catturare a mani nude
quello che le tue fauci mancherebbero cento volte! Credi che sia lealtà? È stupidità! Torna umano. Figliolo, mi hai sentito?» Gli occhi verdi del lupo nero si aprirono, poi si richiusero lentamente. «Sei un idiota», decise Wiktor. «Ho sprecato il mio tempo con un idiota. Oh Renati, perché l'hai portato tra noi? Ha una vita davanti a sé e vuole gettare via il miracolo. Mi sono sbagliato. Mi sono... terribilmente sbagliato». Si alzò in piedi continuando a borbottare, poi iniziò a scendere di nuovo verso la caverna. Mikhail si alzò immediatamente e lo seguì, guardando dove il vecchio metteva i piedi. Wiktor lo rimproverò come faceva sempre, ma il lupo lo seguì lo stesso. Trascorsero varie giornate. Stava arrivando l'estate. Quasi ogni giorno Wiktor saliva sulle rocce e parlava a Renati, mentre Mikhail gli restava disteso accanto, un po' ascoltando e un po' dormendo. Un giorno giunse fino a loro il fischio distante di un treno. Il lupo sollevò la testa per ascoltare. Il macchinista stava cercando di spaventare un animale perché si togliesse dai binari. Forse quella sera valeva la pena di arrivare fin lì per vedere se il treno aveva investito qualcosa. Appoggiò di nuovo la testa, con il sole caldo sulla schiena. «Ho un'altra lezione per te, Mikhail», disse Wiktor a voce bassa quando il fischio del treno svanì. «Forse la più importante. Vivi libero. Tutto qui. Vivi libero, anche se il tuo corpo è in catene. Vivi libero, qui dentro». Si toccò la testa con una mano tremante. «Questo è il luogo in cui nessun uomo può incatenarti. Qui non ci sono muri... ed è forse la lezione più difficile da imparare, Mikhail. Ogni libertà ha il suo prezzo, ma la libertà della mente è inestimabile». Socchiuse gli occhi e guardò il sole; il lupo alzò la testa e lo guardò. Nella sua voce c'era qualcosa di diverso. Qualcosa di definitivo. Lo spaventò come non gli accadeva da quando erano arrivati i soldati. «Devi andartene da qui», disse Wiktor. «Sei un essere umano e appartieni a quel mondo. Renati è d'accordo con me. Sei restato qui solo per colpa di un vecchio che parla ai fantasmi». Girò la testa verso il lupo nero: i suoi occhi color ambra scintillarono. «Non voglio che resti qui, Mikhail. La tua vita è là fuori che ti aspetta. Capisci?» Mikhail non si mosse. «Voglio che tu vada», disse Wiktor. «Oggi. Voglio che tu vada in quel mondo come un essere umano. Come un miracolo». Si alzò in piedi; immediatamente Mikhail lo imitò. «Se non andrai in quel mondo... a cosa serviranno tutte le cose che ti ho insegnato?» Peli bianchi cominciarono a spuntargli su spalle, petto, addome e braccia. La barba gli si avvolse intor-
no alla gola e il viso cominciò a cambiare. «Sono stato un bravo insegnante, vero?», chiese con la voce che si stava trasformando in ringhio. «Ti voglio bene, figliolo», disse. «Non deludermi». La spina dorsale si contorse. Wiktor si mise a quattro zampe, con i peli bianchi che si estendevano sul corpo gracile, e sbattendo le palpebre guardò il sole. Le zampe posteriori si tesero... e il lupo nero si rese conto di cosa stava per fare. Mikhail balzò in avanti. E così fece il lupo bianco. Wiktor si lanciò in aria continuando a trasformarsi. Cadde contorcendosi lentamente, verso le rocce in fondo al dirupo. Mikhail cercò di urlare: gli uscì un guaito acuto e angosciato, ma quello che tentava di gridare era: «Padre!» La bocca di Wiktor non emise alcun suono. Mikhail distolse e serrò gli occhi... e non vide il lupo bianco arrivare sulle rocce. Sorse la luna piena. Il lupo nero si accucciò in cima al dirupo e si mise a fissarla. Ogni tanto tremava, anche se l'aria era afosa. Cercò di cantare ma dalla gola non gli uscì niente. La foresta era un luogo silenzioso... e Mikhail era solo. La fame, bestia che non conosce dolore, gli morse lo stomaco. I binari del treno, pensò: la sua mente era lenta, non abituata a pensare. I binari del treno. Forse oggi ha investito qualcosa. Forse sui binari c'è della carne. Attraversò la foresta fino al burrone, poi scese tra le erbacce e i fitti rampicanti fino ai binari. Intontito iniziò a cercare, ma non c'era odore di sangue. Decise di tornare alla caverna: ormai era quella la sua casa. Forse lungo la strada avrebbe trovato un topo o un coniglio. Sentì un tuono lontano. Alzò una zampa, toccò un binario e sentì la vibrazione. Dopo qualche istante il treno sarebbe sbucato dalla galleria a ovest e rombando lungo il burrone si sarebbe infilato in quella a est. La lampada rossa sull'ultimo vagone avrebbe ondeggiato avanti e indietro, avanti e indietro. Mikhail fissò il punto in cui era morto Nikita. Nella sua mente c'erano dei fantasmi e li sentì parlare. Uno di loro sussurrò: Non deludermi. E improvvisamente ebbe l'idea. Stavolta poteva battere il treno. Se lo voleva davvero. Poteva sconfiggerlo iniziando la corsa da lupo e terminandola da essere umano. E se non fosse stato abbastanza veloce... be', aveva forse importanza? Era una foresta di fantasmi: perché non unirsi a loro e cantare nuove canzoni?
Il treno stava arrivando. Mikhail andò fino all'imboccatura della galleria occidentale e si sedette accanto ai binari. Le lucciole brillavano nell'aria calda, gli insetti frinivano, soffiava una lieve brezza e i suoi muscoli si muovevano sotto la pelle coperta di peli neri. La tua vita è là fuori che ti aspetta, pensò. Non deludermi. Sentì l'odore acre del vapore. Una luce brillò nel tunnel. Il tuono crebbe e diventò il ringhio di una belva. E poi, con una luce accecante e una pioggia di scintille rosse, il treno sbucò dalla galleria e si lanciò verso est. Mikhail si alzò... troppo lento! Troppo lento! pensò... e si mise a correre. La locomotiva lo stava già distanziando, con le ruote di ferro che giravano a meno di un metro da lui. Più veloce! si disse... ed entrambe le paia di zampe obbedirono. Tenne il corpo basso mentre la turbolenza creata dal treno lo sferzava. Le zampe colpivano il terreno e il cuore gli batteva all'impazzata. Più veloce. Ancora più veloce. Stava recuperando sulla locomotiva. .. l'aveva raggiunta... la stava superando. Le scintille gli ustionavano la schiena e gli volteggiavano intorno al viso. Continuò a correre, anche se sentiva puzzo di peli bruciati. Poi si trovò davanti alla locomotiva di due metri... due metri e mezzo... tre metri. Più veloce! Più veloce! Libero dal vento creato dal treno, balzò in avanti con il corpo progettato per la velocità e la resistenza. Riusciva a vedere il foro buio della galleria a ovest. Non ce la farò, pensò... ma respinse subito quell'idea prima che lo ostacolasse. Era in vantaggio sulla locomotiva di sei metri quando cominciò a trasformarsi. Iniziarono per primi il cranio e il viso, mentre le quattro zampe continuavano a spingerlo avanti. I peli neri sulle spalle e sulla schiena si ritrassero nella pelle liscia. Sentì il dolore della spina dorsale che iniziava ad allungarsi. Il suo corpo era avvolto dalla sofferenza, ma continuò a correre. Stava rallentando, perché le gambe si trasformavano e perdevano i peli, e la colonna vertebrale si raddrizzava. La locomotiva stava guadagnando terreno e il tunnel a est era di fronte a lui. Inciampò, ma riacquistò l'equilibrio. Le scintille sfrigolarono sulla pelle bianca delle spalle. Le zampe stavano cambiando e non facevano più presa mentre spuntavano le dita. Ora o mai più. Mikhail, mezzo uomo e mezzo lupo, si tuffò davanti alla locomotiva e saltò dall'altra parte. Il bagliore della lampada lo colse a mezz'aria e sembrò congelarlo lì per un istante prezioso. L'occhio di Dio, pensò. Sentì il respiro caldo del treno,
ne udì le ruote sferraglianti e vide il rostro che stava per colpirlo e farlo a pezzi. Chinò la testa sul petto, con gli occhi chiusi e il corpo pronto all'impatto. Si lanciò a capofitto nel bagliore della lampada, sopra il rostro e in mezzo alle erbacce. Atterrò sulla schiena e il colpo gli tolse l'aria dai polmoni. Il calore della locomotiva gli passò sopra, un forte vento gli scompigliò i capelli e alcune scintille gli bruciarono il petto nudo. Si drizzò a sedere in tempo per vedere la lampada rossa ondeggiare avanti e indietro mentre l'ultimo vagone entrava nel tunnel. E il treno era svanito. Era come se ogni osso del corpo fosse stato strappato dalla sua articolazione. La schiena e le costole erano contuse, le gambe gli facevano male e aveva i piedi pieni di tagli. Ma era tutto intero... e aveva attraversato i binari. Rimase seduto per un po' alla ricerca d'aria, con il corpo lucido di sudore. Non sapeva se fosse in grado di alzarsi in piedi: non riusciva a ricordare cosa si provava a camminare su due gambe. Contrasse la gola. Cercò di formare delle parole. Emersero, anche se con qualche difficoltà. «Sono vivo», disse; il suono della sua voce, più profonda di quanto ricordasse, fu uno shock. Mikhail non si era mai sentito così nudo. Il suo primo istinto fu di ritrasformarsi, ma si trattenne dal farlo. Forse più tardi, pensò. Non adesso. Restò disteso tra le erbacce, raccogliendo le forze e lasciando vagare la mente. Cosa c'era oltre la foresta? si chiese. Cosa c'era là fuori, in quel mondo a cui apparteneva secondo Wiktor? Doveva essere un luogo mostruoso e pieno di pericoli. Doveva essere una giungla in cui la ferocia non aveva limiti. Aveva paura di quel mondo e di quello che vi avrebbe trovato... e aveva anche paura di quello avrebbe potuto trovare in se stesso. La tua vita è là fuori che ti aspetta. Mikhail si drizzò a sedere e guardò i binari che portavano a ovest. Non deludermi. L'Inghilterra - la terra di Shakespeare - si trovava in quella direzione. Un paese civilizzato, aveva detto Wiktor. Si alzò in piedi. Le ginocchia gli si piegarono e cadde a terra. Il secondo tentativo andò meglio. Al terzo riuscì ad alzarsi. Aveva dimenticato di essere così alto. Alzò lo sguardo verso la luna piena. Era la stessa luna, ma non era nemmeno lontanamente bella come quando la vedeva da lupo. La sua luce scintillava sui binari, come se ci fossero dei fan-
tasmi e stessero cantando. Mikhail fece il primo passo incerto. Le sue gambe erano impacciate. Ma come aveva fatto a camminarci, prima? Avrebbe imparato di nuovo. Wiktor aveva ragione: lì per lui non c'era vita. Ma amava quel posto e lasciarlo sarebbe stato difficile. Era il mondo della sua giovinezza: lo attendeva un altro mondo più brutale. Non deludermi, pensò. Fece un altro passo, poi un terzo. Aveva ancora dei problemi, ma stava camminando. Mikhail Gallatinov avanzò, una figura pallida e nuda alla luce della luna estiva, ed entrò nella galleria su due gambe, da uomo. Il regno del diavolo l. Michael sentì il treno fischiare. Stava tornando indietro sui binari per fare un'altra gara con lui? Se così era, sapeva che stavolta l'avrebbe battuto. Gli facevano male le ossa e gli sembrava che la testa fosse una vescica sul punto di scoppiare. Il fischio del treno svanì. Cercò di guardare nell'oscurità alle sue spalle, ma non vide niente. Dov'era la luna? Un momento fa c'era, oppure no? Sentì picchiettare debolmente. Poi di nuovo. «Barone? È sveglio, signore?» Era la voce di un uomo che parlava in tedesco. Michael aprì gli occhi. Stava fissando un soffitto di legno scuro e verniciato. «Barone? Posso entrare, per favore?» Stavolta il rumore era insistente. Il pomello girò e la porta stretta si aprì. Gallatin sollevò la testa e sentì le tempie che pulsavano. «Ah! È sveglio!», disse l'uomo con un sorriso piacevole sul volto. Era esile e calvo, con i baffi biondi ben tagliati. Indossava un completo gessato e un panciotto di velluto rosso. Intorno a lui brillava una luce scarlatta, come se si trovasse sul bordo di un altoforno. «Herr Sandler desidera che lo raggiunga per colazione». Michael si mise lentamente seduto. La testa gli batteva come l'incudine dell'inferno... e poi cos'era tutto quel baccano? Ricordò il manganello: i colpi dovevano aver minato il suo senso dell'equilibrio oltre che l'udito, perché la stanza sembrava ondeggiare gentilmente avanti e indietro. «La colazione verrà servita fra un quarto d'ora», disse l'uomo in tono allegro. «Preferisce un succo di mela o di pompelmo?»
«Cos'è questo posto?» Si rese conto di essere su un letto. Aveva il colletto della camicia aperto, il cravattino bianco sciolto e sul pavimento c'erano le scarpe slacciate. Sembrava che fossero state lucidate di fresco. La stanza - una camera molto stretta - conteneva una poltrona di pelle marrone e un tavolo su cui era posata una terrina bianca piena d'acqua. Nel punto in cui doveva esserci una finestra c'era un quadrato di metallo fissato con dei bulloni. Sentì di nuovo il fischio del treno: un suono alto e assordante che proveniva da poco lontano. Be', adesso sapeva dov'era e perché la stanza si muoveva, ma dov'era diretto il treno? «Herr Sandler la sta aspettando», disse l'uomo. Michael scorse un movimento dietro di lui. Nel corridoio, dove una finestra coperta con una tenda faceva entrare un piccolo spiraglio di luce scarlatta, c'era in piedi un soldato nazista con una pistola. Cosa diavolo stava succedendo? si chiese Gallatin. Decise che era prudente stare al gioco. «Prenderò un succo di mela», disse, poi mise un piede sul pavimento. Si alzò con cautela per vedere se riusciva a stare in equilibrio. Le gambe lo ressero. «Benissimo, signore». L'uomo - evidentemente un maggiordomo - fece per andarsene. «Un momento», disse Michael. «Voglio anche una tazza di caffè. Nero, senza zucchero. E tre uova: le avete?» «Sì, signore». «Bene. Voglio tre uova ancora nel guscio». L'espressione dell'uomo indicò che non aveva capito la richiesta. «Come, scusi?» «Tre uova. Crude. Nel guscio. È chiaro?» «Uh... sì, signore. Chiarissimo». Uscì e chiuse bene la porta. Michael andò al quadrato di metallo e cercò di infilarvi le dita sotto. Non si mosse: i bulloni erano inseriti in profondità. Trovò una cordicella e la tirò accendendo una piccola plafoniera sul soffitto. In un armadio c'era il suo cappotto grigio con i risvolti di velluto nero, ma non conteneva altri vestiti. Si guardò intorno. Era una stanza spartana, una cella di prigione in movimento. Sicuramente il soldato fuori dalla porta era lì per sorvegliarlo; c'erano altri militari a bordo? Quanto erano distanti da Berlino? Dov'erano Chesna e Mouse? Non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato dall'imboscata, ma dubitò di essere rimasto svenuto per più di qualche ora. Quindi, se il sole stava sorgendo, la riunione del Brimstone Club si era svolta la sera prima. Sandler aveva scoperto i resti insanguinati del suo
falco? E se Michael era diretto a un interrogatorio della Gestapo come spia, allora perché il maggiordomo si era rivolto a lui chiamandolo ancora "barone"? Domande, domande. Ancora tutte senza risposta. Gallatin fece due passi e arrivò al tavolo, prese dell'acqua con le mani a coppa e se la gettò sul viso. Accanto alla terrina c'era un asciugamano bianco pulito e piegato, che usò per asciugarsi il volto. Poi prese dell'altra acqua con le mani e ne lappò un po'. Sulla parete accanto era appeso uno specchio. Michael guardò il suo riflesso. Il bianco degli occhi era iniettato di sangue, ma non aveva segni dei colpi ricevuti con il manganello. Con dita attente cercò e trovò i bernoccoli: uno poco sopra la tempia sinistra e l'altro sulla nuca. Ciascuno dei due colpi avrebbe potuto ucciderlo, ma la loro forza era stata controllata. Questo significava che Sandler - o qualcun altro - lo voleva vivo. La sua vista era ancora indebolita. Doveva scuotersi in fretta lo stordimento di dosso, perché non aveva idea di cosa lo aspettasse. Nel cortile del Reichkronen aveva commesso l'errore di lasciare che il suo istinto si rilassasse. Avrebbe dovuto accorgersi che Sandler fingeva di essere ubriaco e avrebbe dovuto sentire con largo anticipo l'uomo che gli era arrivato alle spalle. Be', aveva imparato la lezione. Non avrebbe più sottovalutato Harry Sandler. Si abbottonò il colletto e fece il nodo al cravattino bianco. Era inutile andare a fare colazione con un aspetto impresentabile. Pensò alle fotografie che aveva trovato nella suite del colonnello Jerek Blok, ai volti devastati delle vittime di un orribile programma di test sull'isola Skarpa. Quanto ne sapeva Sandler del nuovo progetto del dottor Hildebrand? O del pugno di ferro e del lavoro che aveva fatto Frankewitz dipingendo fori di proiettili sul metallo verde? Era il momento di scoprirlo. Prese il cappotto dall'armadio, lo infilò, controllò di nuovo il cravattino allo specchio, poi trasse un profondo respiro per schiarirsi le idee e aprì la porta. Il soldato che lo aspettava di fuori estrasse immediatamente la Luger dalla fondina. La puntò contro il viso di Gallatin. Michael sorrise stringendo i denti e alzò le mani. Agitò le dita. «Non ho niente nelle maniche», disse. «Muoviti». Il soldato indicò verso sinistra con la pistola; Gallatin si avviò lungo il corridoio con il militare che lo seguiva a qualche passo di distanza. Il vagone aveva molte altre stanze che sembravano più o meno delle dimensioni di quella che Michael aveva occupato. Si rese conto che non
era un treno prigione: era troppo pulito, con le pareti di legno lucidate e le scintillanti guarnizioni in ottone. C'era però nell'aria un odore stantio... l'aroma indugiante del sudore e della paura. Qualunque cosa succedesse su quel treno, non era niente di positivo. Un secondo soldato armato di una Luger aspettava all'entrata della carrozza successiva. Venne fatto cenno a Gallatin di continuare, così spinse una porta e si trovò immerso nel lusso. Era un bellissimo vagone ristorante, con le pareti e il soffitto di palissandro scuro e sul pavimento un tappeto persiano rosso e oro. Dall'alto pendeva un lampadario d'ottone e lungo le pareti erano poste delle lampade, anch'esse d'ottone. Sotto il lampadario c'era un tavolo coperto con una tovaglia di lino bianco, dove sedeva il padrone di casa. «Ah! Buongiorno, barone!» Harry Sandler si alzò facendo un ampio sorriso. Sembrava riposato e indossava una vestaglia di seta rossa con le iniziali in caratteri gotici all'altezza del cuore. «Prego, si unisca a me!» Michael guardò dietro di sé. Uno dei soldati era entrato e stava in piedi accanto alla porta con la Luger in mano. L'inglese camminò fino al tavolo della colazione e si sedette di fronte a Sandler, dov'era stato apparecchiato un posto per lui con delle porcellane blu. Il cacciatore si mise di nuovo seduto. «Spero che abbia dormito bene. Alcuni hanno difficoltà a dormire sui treni». «Dopo i primi due scossoni ho dormito come un bambino», disse Michael. Sandler rise. «Oh, è grandioso! Ha mantenuto il suo senso dell'umorismo. È davvero piacevole, barone». Gallatin aprì il tovagliolo. Le sue posate erano di plastica, mentre quelle dell'altro uomo erano d'argento. «Non si sa mai come reagiscono le persone», continuò Sandler. «A volte le scenate sono... be'... spiacevoli». «Sono scioccato!», disse Michael con finto sgomento. «Venire colpito alla testa in piena notte, infilato nel bagagliaio di una macchina, trascinato via Dio solo sa dove per svegliarsi su un treno in movimento... qualcuno lo definisce spiacevole?» «Temo che sia così. Tutti i gusti sono gusti, le pare?» Rise di nuovo, ma il suo sguardo era freddo. «Ah! Ecco Hugo con il nostro caffè!» Il maggiordomo che era entrato nella stanza di Michael comparve da una porta che doveva condurre a una cucina, portando un vassoio con due piccoli bricchi e due tazze. «Questo è il mio treno», disse Sandler mentre Hugo
versava il caffè. «Un regalo del Reich. È molto bello, vero?» Gallatin si guardò intorno. Aveva già notato che i finestrini erano coperti con delle serrande di metallo. «Sì, lo è. Ma lei ha un'avversione per la luce?» «Affatto! Anzi, direi che abbiamo bisogno di un po' di sole mattutino, le pare? Hugo, apri queste due». Indicò i finestrini ai due lati del tavolo. Il maggiordomo estrasse una chiave dal panciotto, la infilò in una serratura sotto uno dei finestrini e la girò. Si sentì un leggero clic quando scattò, poi Hugo aprì le serrande con una manovella. La luce dell'alba fluì attraverso il finestrino. Il maggiordomo sbloccò il secondo e aprì le serrande allo stesso modo usando una manovella, poi mise in tasca la chiave e tornò in cucina. Michael sorseggiò il caffè - nero e senza zucchero, proprio come aveva chiesto - e guardò fuori da uno dei finestrini. Il treno stava attraversando una foresta e la luce del sole filtrava tra gli alberi. «Ecco», disse Sandler. «Così va meglio, vero? Penso che scoprirà che questo treno è molto interessante. La mia carrozza privata è l'ultima, proprio dietro a quella in cui si è svegliato. Poi ci sono altri tre vagoni tra questo e la locomotiva. È davvero una macchina splendida. Lei si intende di treni?» «Ho avuto qualche esperienza in materia». «Quello che mi affascina di un treno è il potervi creare all'interno un proprio mondo. Prenda questo, per esempio: chiunque lo osservi dall'esterno vede semplicemente quello che sembra un comune vettore merci. Non ci penserebbe due volte. Ma all'interno... be', è il mio mondo, barone. Adoro il suono delle ruote sui binari e la potenza della locomotiva. È come cavalcare all'interno di una bestia grande e bellissima. È d'accordo?» «Sì, lo sono». Michael sorseggiò di nuovo il caffè. «Ho sempre pensato a un treno come a... oh... un enorme pugno di ferro». «Davvero? È interessante. Sì, capisco perché». Annuì. Non ci fu alcun cambiamento nell'espressione rilassata e piacevole di Sandler. Nessuna risposta a quelle parole, pensò Gallatin. Sapeva qualcosa del pugno di ferro oppure no? «Lei mi sorprende, barone», disse l'americano. «Pensavo che sarebbe stato... vogliamo dire... nervoso? O forse è solo un ottimo attore. Sì, penso che probabilmente sia così. Be', adesso si trova molto lontano dai suoi giardini di tulipani, barone. E temo che non lascerà vivo questo treno». Michael abbassò lentamente la tazza di caffè sul tavolo. Sandler lo stava osservando con molta attenzione, aspettando una risposta: un urlo d'angoscia, lacrime, suppliche. L'inglese lo fissò per qualche secondo, poi prese il
suo bricco d'argento e si versò dell'altro caffè. Sul volto del cacciatore apparve un cipiglio. «Pensa che stia scherzando, vero? Questo non è affatto uno scherzo, amico mio. La ucciderò: se la sua morte sarà rapida o lenta dipende da lei». Il rumore delle ruote del treno cambiò improvvisamente. Michael guardò fuori dal finestrino. Stavano passando su un ponte che attraversava un ampio fiume di colore verde scuro. Un'altra vista sorprendente catturò la sua attenzione. Sopra gli alberi, forse a mezzo chilometro di distanza, si vedevano le torri e le torrette di un edificio enorme. Non c'era alcun dubbio: era il Reichkronen. «Sì, quello è l'albergo», disse Sandler giudicando correttamente la reazione del barone. «Abbiamo girato intorno a Berlino per le ultime tre ore. Continueremo a farlo finché la caccia non sarà terminata». «La caccia?» «Esattamente». Il sorriso tornò sul volto dell'americano: era di nuovo nel sedile del guidatore. «Le darò la caccia lungo il treno. Se riuscirà ad arrivare alla locomotiva e a tirare tre volte la corda del fischio prima che la trovi, morirà rapidamente con una pallottola al cervello. Se invece la prenderò in trappola prima che ci arrivi, allora...», scrollò le spalle. «La scelta sarà del cacciatore», disse. «Lei è completamente fuori di testa». «Oh, questo è lo spirito giusto!» Sandler batté le mani. «Avanti, mostri qualche emozione! Non può farsi uscire qualche lacrima? Magari scongiurare un po'? Sarebbe d'aiuto se le dicessi che ho scuoiato l'ultimo uomo a cui ho dato la caccia qui dentro? Era un nemico di Himmler, così ne ho regalato la pelle a lui. Credo che l'abbia incorniciata». Hugo arrivò dalla cucina portando un carrello con le colazioni. Mise un vassoio con una bistecca davanti a Sandler, poi davanti a Michael un piatto su cui erano poggiate tre uova crude. «Lei mi affascina, barone!», disse il cacciatore con un ampio sorriso. «Non so cosa pensare di lei!» Michael sentì il battito del cuore accelerare e la gola seccarsi, ma era ben lontano dal farsi prendere dal panico. Guardò fuori dal finestrino, osservando le case e le fabbriche che passavano veloci. «Dubito che a Chesna piacerebbe il fatto che sia stato rapito», disse in tono freddo. «Oppure ha rapito anche lei?» «Naturalmente no. È ancora al Reichkronen... e anche il suo valletto. Chesna non sa niente di tutto questo e non lo saprà mai». Prese un coltello affilato e cominciò a tagliare la bistecca. L'interno della carne era quasi
rosso e il sangue stillò nel piatto. «In questo momento la polizia sta dragando il fiume alla ricerca del suo corpo. Si sono presentate due persone, dicendo che l'avevano vista vagare lungo la riva dopo aver lasciato il Brimstone Club. Sfortunatamente sembrava avere bevuto un po' troppo. Stava barcollando e si è rifiutato di tornare in albergo». Sandler masticò un boccone e lo mando giù insieme a un po' di caffè. «Quella riva può essere molto pericolosa, barone. Non avrebbe dovuto andarci da solo». «Sono sicuro che qualcuno mi ha visto andare via con lei». «In quella folla? Penso proprio di no. In ogni caso non ha alcuna importanza. Ho ricevuto il permesso di prenderla dal colonnello Blok; non vuole tanto quanto me che lei sposi Chesna». Allora si trattava di questo, si rese conto Michael. Non aveva niente a che fare con la sua missione o con il fatto che era un agente segreto inglese. Sandler e Blok volevano che il barone von Fange sparisse. Era anche chiaro che il cacciatore non sapeva niente del destino del suo falco; probabilmente non aveva avuto la possibilità di tornare in albergo e non sarebbe rientrato finché non fosse finita quella ridicola "caccia". Naturalmente Chesna non avrebbe creduto alla storia secondo la quale Michael era ubriaco. Avrebbe capito che era successo qualcosa, ma che avrebbe fatto? Al momento non riusciva a pensarci. La sua preoccupazione primaria era l'uomo sorridente che gli sedeva di fronte, masticando la carne al sangue. «Io amo Chesna», disse Gallatin. «Chesna ama me. Questo non fa la differenza?» Lasciò trapelare una certa debolezza nella voce: era inutile rendere Sandler troppo cauto. «Oh, al diavolo queste cose! Chesna non la ama!» Infilò con la forchetta un altro boccone di carne e lo portò alla bocca. «Forse è infatuata. Forse le piace la sua compagnia... anche se non ho idea del perché. In ogni caso, a volte lascia che il cuore abbia il sopravvento sul raziocinio. È una donna fantastica: è avvenente, ha talento ed è molto educata. Ed è anche una scavezzacollo. Sapeva che pilota il suo aeroplano? Ha girato lei le acrobazie aeree in uno dei film che ha fatto. È una campionessa di nuoto, e le assicuro che spara con un fucile molto meglio di parecchi uomini che ho conosciuto. È forte qui», disse toccandosi la testa, «ma ha il cuore di una donna. È stata già coinvolta in passato in relazioni avventate, ma non aveva mai parlato di matrimonio. Sono un po' deluso: ho sempre pensato che sapesse giudicare meglio le persone». «Intende dire che non le piace il fatto che abbia scelto me invece di lei?» «Le sue scelte non sono sempre sagge», disse Sandler. «A volte deve es-
sere guidata verso la decisione giusta. Quindi il colonnello Blok e io abbiamo deciso che lei è definitivamente fuori dal gioco». «Cosa le fa pensare che sposerà lei quando sarò morto?» «Ci sto lavorando. Inoltre costituirebbe un'ottima propaganda per il Reich. Due americani che hanno scelto di vivere sotto la bandiera nazista. E Chesna è anche una star. Le nostre foto finirebbero sui giornali e le riviste di tutto il mondo. Capisce?» Michael capiva benissimo. Non soltanto Sandler era un traditore e un assassino, ma aveva anche un ego smisurato. Anche se Gallatin non avesse voluto ucciderlo già da prima, quella faccenda l'avrebbe convinto a farlo. Prese il cucchiaino di plastica, ruppe il guscio del primo uovo, lo portò alla bocca e lo inghiottì tutto d'un fiato. Il cacciatore rise. «Carne e uova crude. Barone, lei deve essere cresciuto in una stalla!» Michael mangiò il secondo uovo nello stesso modo. Hugo tornò con una caraffa di succo di mela per i due uomini. Il cacciatore ne bevve un bicchiere, mentre Gallatin fermò il bicchiere sulle labbra. Sentì un odore delicato e leggermente acre. Era un veleno di qualche tipo? No, l'odore non era così amaro. Ma nel succo c'era una droga. Probabilmente un sedativo, pensò. Qualcosa per rallentarlo. Posò il bicchiere da un lato e prese di nuovo il caffè. «Cosa c'è che non va?», chiese Sandler. «Non le piacciono le mele?» «Odora un po' di vermi». Ruppe il guscio del terzo uovo e fece scivolare il tuorlo in bocca, rompendolo con i denti. Lo inghiottì, volendo assimilare le ricche proteine il più rapidamente possibile, poi bevve ancora del caffè. I binari stavano curvando verso nordest, iniziando di nuovo il giro intorno a Berlino. «Non implorerà?», chiese il cacciatore sporgendosi in avanti. «Almeno un po'?» «Servirebbe a qualcosa?» Sandler esitò, poi scosse la testa. I suoi occhi erano scuri e prudenti; Michael capì che aveva percepito qualcosa che non si era aspettato. Decise di indagare ancora una volta: «E così non ho molte possibilità, vero? Come uno scarafaggio sotto un pugno di ferro?» «Oh, lei ha una possibilità. Molto piccola». Per la seconda volta il viso del cacciatore non mostrò di riconoscere quelle parole. Qualunque cosa fosse il pugno di ferro, Harry Sandler non ne sapeva niente. «Cioè di morire rapidamente. Le basta arrivare alla locomotiva prima che io la catturi. Naturalmente sarò armato. Ho portato il mio fucile preferito. Lei, sfortunatamente, sarà indifeso. Ma avrà un vantaggio di dieci minuti. Verrà riporta-
to nella sua stanza per un po'. Poi sentirà la suoneria di un allarme. Sarà il segnale per cominciare a correre». Mangiò un altro boccone di bistecca, poi fece scivolare di nuovo il coltello sulla carne rimasta. «Sarà inutile cercare di nascondersi nella sua stanza o tenere la porta chiusa. Servirebbe solo a farsi trovare più rapidamente. E se pensa di poter saltare giù dal treno, si sbaglia. A bordo ci sono dei soldati che verranno messi ai raccordi tra i vagoni. I finestrini... be', se li può scordare». Fece un cenno a Hugo, che era rimasto in piedi lì accanto aspettando di portare via i piatti. Il maggiordomo cominciò a chiudere di nuovo le serrande dei finestrini con la manovella. Lentamente la luce del sole venne bloccata all'esterno. «Facciamone una gara sportiva, d'accordo?», lo spronò Sandler. «Lei faccia la sua parte e io farò la mia». Venne chiusa l'ultima serranda. Hugo estrasse la chiave dal panciotto per bloccarla; tra le pieghe del soprabito Michael vide una pistola in una fondina. «Non pensi di cercare di prendere la pistola a Hugo», disse il cacciatore osservando lo sguardo di Michael. «Ha passato otto mesi sul fronte russo ed è un tiratore provetto. Ha domande sulle regole?» «No». «Lei mi sorprende veramente, barone. Devo dire che pensavo che a questo punto si sarebbe messo in ginocchio. È proprio vero: non si sa mai cosa nasconde un uomo dentro di sé, vero?» Sorrise mostrando tutti i denti. «Hugo, per favore riporta il barone nel suo alloggio». «Sì, signore». La pistola uscì dalla fondina e venne puntata contro Michael. Quando la porta della sua stanza venne chiusa, Gallatin scoprì che la camera era stata alterata. Lo specchio, il tavolo, la terrina bianca e l'asciugamano non c'erano più. Anche il gancio per appendere gli abiti era sparito dall'armadio. Michael aveva pensato di usare frammenti dello specchio, pezzi della terrina e il gancio per uscire con la forza da quella situazione. Però era rimasta la plafoniera: guardò in alto e la vide. Era fuori portata, anche se era sicuro di poter escogitare il modo di ridurla in pezzi. Si sedette sul letto a pensare, mentre il treno dondolava gentilmente e le ruote giravano sulle rotaie. Aveva davvero bisogno di armi per battere Harry Sandler al suo gioco? Era convinto di no. Poteva trasformarsi in un lupo ed essere pronto a scattare al suono dell'allarme. Ma non volle cambiare. Aveva già il vantaggio a livello di istinto e di percezione. La trasformazione sarebbe servita solo a fargli perdere i vestiti.
Poteva camminare su due gambe e pensare come un lupo... e battere Sandler. L'unico problema era che il cacciatore conosceva il treno molto meglio di lui. Michael avrebbe dovuto trovare un posto adatto per tendere un'imboscata, poi... Poi sarebbe riuscito a scrollarsi di dosso il peso dell'omicidio della contessa Margritta. Avrebbe potuto così mettere la parola fine a quel triste episodio della sua vita e allontanare l'impulso irrefrenabile della vendetta. Decise che avrebbe battuto Harry Sandler da uomo. Con le mani invece degli artigli. Aspettò. Forse passarono due ore, in cui si distese sul letto e riposò. Ormai era calmissimo e pronto sia mentalmente che fisicamente. Suonò l'allarme, una nota stridente. Durò forse dieci secondi; quando finì Michael era già fuori dalla porta, diretto verso la locomotiva. 2. Michael venne spinto avanti dal soldato con la punta della pistola: attraversarono il raccordo tra i vagoni e venne fatto entrare nella lussuosa vettura in cui era stata servita la prima colazione. Il soldato rimase fuori e la porta si richiuse alle spalle della spia inglese. Le serrande di metallo erano tutte chiuse. Le luci del lampadario erano basse, così come quelle delle lampade sulla parete. Michael iniziò ad attraversare la carrozza, ma si fermò alla tavola coperta dalla tovaglia bianca di lino. Non era stata sparecchiata. E lì, tra i resti della bistecca di Sandler, c'era il coltello conficcato con il manico in evidenza. Michael lo fissò. Era una situazione interessante: perché il coltello era ancora lì? C'era un'unica risposta: il cacciatore si aspettava che lo prendesse. E cosa sarebbe successo se l'avesse fatto? Posò con cautela le dita sul manico, esaminandolo con tocco delicato, e trovò quello che cercava. All'impugnatura era avvolto un filo sottile, quasi invisibile, che saliva fino al lampadario sovrastante, nascosto dall'oscurità della stanza. Michael esaminò attentamente il lume centrale. Nascosta tra le decorazioni c'era una piccola pistola di ottone al cui grilletto armato era collegato il filo. Valutò l'angolazione della canna e si rese conto che, se avesse estratto il coltello dalla bistecca, il grilletto sarebbe scattato e una pallottola gli si sarebbe conficcata nella spalla sinistra. Fece un sorriso cupo. Dunque era per quello che l'avevano lasciato nella sua stanza per due ore. In quel lasso di tem-
po Sandler e il personale del treno erano stati impegnati a sistemare dispositivi come quello. Un vantaggio di dieci minuti? pensò Michael. Il gioco sarebbe potuto finire molto prima. Decise di dare a Sandler qualcosa su cui riflettere, magari riuscendo a rallentarlo un po'. Si scostò fuori dalla linea di fuoco e diede un calcio a una delle gambe del tavolo, rovesciandolo. Cadendo il mobile spezzò il filo e la pistola sparò con uno schiocco forte e netto. Il proiettile fece volare qualche scheggia dalla parete in palissandro. Michael raccolse il coltello e sorrise di nuovo divertito: la lama era solo un corto e inutile moncone. Prese la pistola dal lampadario, ma sapeva già cosa avrebbe trovato. In canna era stata messa una sola pallottola. Addio a quell'idea. Lasciò cadere la pistola sul tappeto e continuò a esplorare il vagone. Ma ora i suoi passi erano più lenti e più cauti. Controllò se c'erano dei fili sul pavimento, rendendosi conto allo stesso tempo che poteva essercene uno in attesa di sfiorargli i capelli. Si fermò alla porta della cucina con la mano accanto al pomello. Di certo Sandler si aspettava che provasse ad aprirla per cercare di prendere gli utensili che forse c'erano là dietro. Il pomello era stato lucidato di recente e splendeva come una promessa. Troppo facile, pensò Michael. Girarlo avrebbe potuto far scattare il grilletto di un'arma sistemata in modo da sparargli attraverso il legno. Ritirò la mano, si allontanò dalla porta e proseguì. Al successivo passaggio tra i vagoni c'era un altro soldato, i cui occhi dalle palpebre pesanti non mostravano alcuna emozione. Michael si chiese quante delle vittime di Sandler fossero riuscite a superare la prima carrozza. Ma ancora non poteva congratularsi con se stesso: tra lui e la locomotiva c'erano altri tre vagoni. Attraversò la porta ed entrò nella vettura successiva. Era divisa da un corridoio longitudinale e da entrambi i lati c'erano file di sedili. I finestrini erano sigillati da serrande di metallo, ma due lampadari piazzati in modo equidistante sul soffitto brillavano di falsa allegria. Il vagone ondeggiò leggermente nell'affrontare una curva e il fischio del treno suonò una breve nota di avvertimento. Gallatin si inginocchiò e controllò il corridoio a quell'altezza. Se c'era un filo non riuscì a vederlo. Si rendeva conto che ormai Sandler lo stava inseguendo e che in ogni momento poteva sbucare dalla porta alle sue spalle. Non poteva aspettare: si alzò e cominciò a percorrere lentamente il corridoio, con le mani protese in avanti e gli occhi alla ricerca del luccichio di un filo all'altezza delle ginocchia o delle caviglie.
Non ce n'erano, né sopra né sotto. Michael aveva iniziato a sudare un po'... nel vagone c'era sicuramente qualcosa che attendeva un suo passo falso. Oppure non c'era nessuna trappola e si trattava solo di un tranello mentale? Si diresse al secondo lampadario, a circa sei metri dal vagone successivo. Avvicinandosi, alzò lo sguardo per vedere se tra i bracci d'ottone fosse nascosta un'arma: non c'era. Il piede sinistro affondò di circa mezzo centimetro nel tappeto; Gallatin sentì il leggerissimo scatto di un meccanismo che si sganciava. Era salito su un interruttore a pressione. Sentì sulla nuca il vento freddo della morte. In un istante alzò le braccia, si aggrappò al lampadario e sollevò le ginocchia al petto. Il fucile da caccia nascosto sul pavimento alla sua sinistra tuonò e i pallini di piombo attraversarono il corridoio nel punto in cui due secondi prima si trovavano le sue ginocchia, colpendo i sedili a destra. Un attimo dopo sparò la seconda canna dell'arma, che li demolì. Schegge di legno e brandelli di tessuto mulinarono nel contraccolpo. Michael abbassò i piedi fino a terra e lasciò andare il lampadario. Intorno a lui fluttuava il fumo azzurrino degli spari. Un'occhiata ai sedili distrutti gli fece capire i danni che il fucile da caccia avrebbe provocato alle sue ginocchia. Sarebbe rimasto a contorcersi sul pavimento fino all'arrivo di Sandler. Sentì il fruscio della porta che si apriva all'altra estremità del vagone. Guardò in quella direzione. Sandler, con indosso la tenuta da caccia color cachi, sollevò il fucile, mirò e fece fuoco. Michael si stava già gettando a terra. Il proiettile gli sibilò sopra la spalla sinistra e rimbalzò su un finestrino blindato. Prima che il cacciatore riuscisse a prendere di nuovo la mira, Gallatin balzò in piedi, una macchia in movimento, e si tuffò in avanti attraverso la porta in fondo al vagone. Come si aspettava, si trovò davanti un soldato. L'uomo aveva in mano una pistola e allungò un braccio per afferrarlo per il retro della giacca e tirarlo su. Michael non aspettò che il soldato lo facesse alzare: balzò in piedi da solo, colpendolo sotto il mento con la parte superiore della testa. Il militare barcollò all'indietro, con gli occhi spalancati e appannati dal dolore. Gallatin gli afferrò il polso tenendo lontana da sé la pistola, poi con il palmo della mano sferrò un colpo verso l'alto contro l'affilato naso teutonico, che si ruppe sprizzando sangue dalle narici. Afferrò la Luger e spinse via da sé l'uomo come un sacco di patate. Si girò di scatto per guardare dalla piccola
finestrella della porta. Sandler era già oltre la metà del corridoio. Michael sollevò la pistola per sparare attraverso il vetro e vide il cacciatore fermarsi di colpo, alzando la canna del fucile. Entrambe le armi fecero fuoco nello stesso istante. Intorno alla spia inglese esplosero schegge di legno, così come frammenti di vetro volarono contro Harry Sandler. La coscia destra di Michael venne sfiorata dal proiettile, che lo bruciò come un marchio a fuoco e lo fece cadere in ginocchio. La finestrella nella porta era scomparsa: nel punto del legno in cui era passata la pallottola del cacciatore c'era un buco grande quanto un pugno. Michael sparò di nuovo attraverso la porta; pochi secondi più tardi gli arrivò in risposta un altro proiettile di fucile che fece cadere una pioggia di schegge e colpì la parete sopra la sua testa. Era pericoloso rimanere lì. Si alzò in posizione accovacciata, con una mano premuta sulla macchia cremisi che gli si allargava sulla coscia destra, e arretrando oltrepassò la porta del vagone successivo. Lo sferragliare delle ruote del treno lo fece voltare. La vettura in cui si trovava non aveva pavimento: era solo un guscio con le serrande di metallo... e Michael si trovava sull'orlo a guardare la macchia indistinta dei binari che gli scorrevano sotto. Sopra la sua testa un tubo di ferro fissato al soffitto attraversava tutto il vagone, che era lungo circa venti metri. Non c'era modo di arrivare dall'altra parte se non appendendosi al tubo e percorrendolo tutto, una mano dopo l'altra. Guardò la porta bucherellata dai proiettili da cui era appena entrato. Sandler era lì che aspettava il momento opportuno. O forse uno dei proiettili della Luger l'aveva colpito, oppure i vetri gli erano volati in faccia. Michael pensò che il modo migliore per scendere dal leviatano di quel pazzo era proseguire fino alla locomotiva e prendere il controllo dell'acceleratore. Se Sandler era gravemente ferito, probabilmente i soldati avrebbero continuato la caccia. In ogni caso non poteva più restare lì ancora a lungo: il proiettile gli aveva scavato un solco nella coscia e stava perdendo molto sangue. Nel giro di pochi minuti la sua forza sarebbe stata un ricordo. Si infilò la Luger nella cintura e saltò sopra i binari in corsa, agganciando le mani al tubo di ferro. Il corpo dondolò avanti e indietro, mentre il sangue caldo gli scorreva sulla gamba destra. Iniziò ad avanzare, allungando il braccio il più possibile prima di lasciare la presa con l'altra mano. Aveva superato metà del percorso quando sentì, sopra il rombo delle ruote, l'abbaiare intermittente di un fucile potente. Il proiettile colpì il soffitto a circa quindici centimetri a sinistra del tubo di ferro. Gallatin piegò la
testa e vide alle sue spalle Sandler che inseriva in canna un altro colpo. Il cacciatore sorrideva, con il viso striato di rivoli cremisi per i tagli causati dai vetri. Alzò il fucile e mirò alla testa di Michael. Reggendosi con una sola mano, la spia inglese strappò la Luger dalla cintura. Vide il dito di Sandler sul grilletto e capì che non sarebbe riuscito a sparare in tempo. «Gettala!», urlò il cacciatore sovrastando il rumore. «Gettala, figlio di puttana, o ti faccio saltare la testa!» Michael aspettò. Stava calcolando centimetri e frazioni di secondo. No, decise. Il prossimo proiettile di Sandler avrebbe colpito il bersaglio prima che la Luger potesse sparare. «Ti ho detto di gettare la pistola! Subito!» Il sorriso di Sandler era diventato una smorfia contorta e il sangue gli colava dal mento. Michael aprì le dita. L'arma cadde sui binari e scomparve. «Ti ho preso, vero?», gridò Sandler, guardando la macchia scura sulla coscia di Gallatin. «Sapevo di averti preso! Credevi di essere stato furbo, vero?» Si passò l'avambraccio sul viso e fissò la macchia rossa che l'aveva sporcato. «Mi hai fatto sanguinare, figlio di puttana!», disse; Michael lo vide sbattere le palpebre in preda allo stordimento. Delle schegge di vetro brillavano sul viso del cacciatore. «Sei davvero uno spasso, barone. Ero sicuro che il coltello ti avrebbe fatto fuori! E il fucile... di solito mette fine alla caccia! Nessuno è mai riuscito ad arrivare fino a qui!» Michael afferrò il tubo con entrambe le mani. Stava riflettendo il più velocemente possibile, con il viso coperto di sudore freddo. «Ancora non mi hai preso», disse. «Un corno, non ti ho preso! Mi basta premere il grilletto e avrò un nuovo trofeo!» «Non mi hai preso», continuò Gallatin. «E ti definisci un cacciatore?», chiese con una risata aspra. «Manca ancora un vagone, no? Posso riuscire a superare qualsiasi cosa tu abbia messo lì dentro... con tutta la gamba ferita!» Vide nascere negli occhi di Sandler nuovo interesse... il gusto della sfida. «Puoi spararmi in questo momento, ma cadrò sui binari. Non mi prenderai vivo... e non era questo lo scopo?» Stavolta fu il cacciatore a ridere. Abbassò il fucile e si leccò il sangue dalle labbra. «Hai fegato, barone! Non mi sarei mai aspettato tanto coraggio da un annusatore di tulipani! Be', entrambi abbiamo ferito l'avversario, giusto? Quindi dichiariamo pari il primo round. Ma non riuscirai a superare il prossimo vagone, barone: questo te l'assicuro».
«Io dico di sì». Il sorriso di Sandler fu feroce. «Vedremo. Forza. Ti do sessanta secondi». Michael accettò quello che era riuscito a ottenere. Continuò ad avanzare lungo il tubo. Sandler gridò: «La prossima volta sei spacciato!» Gallatin raggiunse una piccola piattaforma davanti alla porta e vi si lasciò cadere sopra. Il soldato di guardia all'ingresso dell'ultima carrozza fece un passo indietro, allontanandosi dalla portata di Michael, e con il fucile gli fece cenno di avanzare. La spia inglese si guardò indietro e vide che Sandler si stava mettendo l'arma a tracolla, preparandosi a percorrere il tubo. Il vagone finale lo stava aspettando... e Michael entrò. La porta si chiuse dietro di lui. Il finestrino era dipinto di nero. Nel vagone non entrava neppure un filo di luce: era buio come la notte più scura. Gallatin cercò di distinguere qualche forma davanti a sé: mobili, lampade, qualunque cosa che gli rivelasse quello che lo aspettava... ma non riuscì a intravedere niente. Tese le mani davanti a sé e fece un passo avanti. Poi un altro. Poi un terzo. Ancora nessun ostacolo. La ferita alla coscia gli pulsava e il sangue gli colava lungo la gamba. Fece un quarto passo e qualcosa gli ferì le dita. Ritirò in fretta le mani doloranti. Rasoi o schegge di vetro, pensò. Allungò di nuovo un braccio verso sinistra e trovò lo spazio vuoto. Due passi avanti e un terzo a sinistra e la sua mano sfiorò altre lame. Gli si era raggelato il sangue. Si rese conto che era un labirinto, le cui pareti erano coperte di rasoi spezzati. Si tolse rapidamente la giacca e se la avvolse intorno alle mani. Poi riprese ad avanzare nel buio assoluto. I suoi sensi erano all'erta: annusò l'aria, e sentì l'odore di olio da motore, l'aroma amaro del carbone che bruciava nella locomotiva e quello metallico del proprio sangue. Il cuore gli batteva all'impazzata e gli occhi si sforzavano di distinguere qualche forma nell'oscurità. Le mani trovarono un altro muro di rasoi, dritto davanti a lui. Anche alla sua sinistra c'era una parete piena di lame: il labirinto lo portava verso destra, ma non aveva altra scelta che seguire il corridoio. Girò di nuovo bruscamente a sinistra e improvvisamente finì in un vicolo cieco. Sapeva di aver mancato un passaggio e di dover ritornare sui propri passi. Mentre cercava la via d'uscita e le lame facevano a brandelli la giacca avvolta intorno alle mani, sentì la porta all'ingresso del vagone aprirsi e chiudersi: era arrivato Sandler. «Ti piace il mio piccolo labirinto, barone?», gli chiese il cacciatore.
«Spero che tu non abbia paura del buio». Michael sapeva che non era saggio rispondere. Sandler si sarebbe orientato sul suono della sua voce. Tastò le pareti, sobbalzando di dolore quando un rasoio oltrepassò la stoffa e gli ferì le dita. Eccolo! Uno stretto passaggio... o almeno quello che sembrava un passaggio. Vi entrò e continuò ad avanzare con le mani tese davanti a sé. «Non riesco a capirti, barone!», disse Sandler. La voce si era spostata: il cacciatore stava attraversando il labirinto. «Credevo che a questo punto saresti ormai crollato! E magari è davvero così e sei rannicchiato in un angolo. Giusto?» Michael giunse a un'altra parete. Il corridoio svoltava verso destra con un'angolazione che portò le lame a sfiorargli la camicia e la carne della spalla. «So che sei terrorizzato. Chi non lo sarebbe? Sai, per me è questa la parte più entusiasmante della caccia: il terrore negli occhi di un animale quando si rende conto che non ha scampo. Oh, ti ho detto che conosco la via per uscire dal labirinto? Vedi, l'ho costruito io. I rasoi sono un tocco interessante, non trovi?» Continua a parlare, lo invitò Michael con il pensiero. Il suono gli diceva che Sandler era alla sua sinistra, circa cinque e o sei metri dietro di lui. Gallatin proseguì a farsi strada tra le lame. «So che ormai devi essere a pezzi», continuò l'americano. «Dovresti indossare guanti di pelle come faccio io. Bisogna essere sempre pronti, barone: è questa la caratteristica di un vero cacciatore». Una parete bloccò il passaggio a Michael. Cercò un altro passaggio a destra e a sinistra. La voce di Sandler si avvicinava. «Se ti arrendi, ti renderò le cose facili. Devi solo dire due parole: "Mi arrendo". Ti ucciderò in modo rapido. Sei d'accordo?» Le mani di Gallatin trovarono l'estremità della parete a sinistra. Aveva la giacca a brandelli avvolta intorno alle dita, con il tessuto bagnato di sangue. Sentiva le forze che lo abbandonavano e i muscoli che si indebolivano. La gamba ferita si stava intorpidendo. Ma la porta per uscire dal vagone doveva essere poco più avanti, a non più di cinque metri. Anche quel finestrino doveva essere dipinto di nero, rifletté. Quindi trovare la porta sarebbe stato difficile. Avanzò lungo il corridoio inclinato a sinistra mentre la vettura affrontava una curva. Il passaggio si raddrizzò. L'odore del carbone bruciato si fece più forte. La porta doveva essere vicina, pensò. Non mancava molto...
Fece altri due passi e udì il ping metallico del filo di una trappola che si spezzava. Mentre si gettava a terra, una fila di flash gli scattò in viso. La luce lo accecò e gli fece vorticare delle girandole azzurre nel cervello. Rimase disteso e stordito, senza più alcun senso dell'equilibrio, con gli occhi doloranti come se fossero stati colpiti da una lama. «Oh, sei quasi riuscito a uscire, vero?» La voce di Sandler proveniva da un punto sulla destra a circa tre metri e mezzo dietro di lui. «Aspettami, barone. Sarò lì tra poco». Michael aveva gli occhi pieni di fuoco azzurro. Strisciò via dal corridoio e si distese con la schiena appoggiata a una delle pareti coperte di rasoi. Sandler camminava verso di lui: sentiva il rumore degli stivali sulle assi del pavimento. Sapeva che il cacciatore si aspettava di trovarlo completamente inerme, mentre si contorceva in preda al dolore e si stropicciava gli occhi febbrilmente. Si girò in modo da avere le braccia libere e tolse le mani dalla giacca a brandelli. «Di' qualcosa, barone», lo incitò Sandler. «In modo che possa trovarti e porre fine alle tue sofferenze». Michael rimase in silenzio, sdraiato su un fianco. Ascoltava il rumore dei passi del cacciatore che si avvicinavano. Avanti, maledetto! pensò furibondo. Vieni, ti sto aspettando! «Barone? Credo che la caccia sia finita». Gallatin udì lo scatto dell'otturatore del fucile di Sandler. Sentì l'odore di menta del dopobarba dell'americano, poi lo scricchiolio del cuoio lucido e il leggero cigolio di un'asse del pavimento, e capì che gli stivali dell'uomo erano a poca distanza. Allungò le mani, fidandosi del proprio udito. Le sue dita trovarono le caviglie di Sandler in mezzo al corridoio e le afferrarono. Spinse in avanti e in alto con tutta la forza della schiena e delle spalle. L'americano non ebbe il tempo di gridare. Cadde piegando il torso. Dal fucile partì un colpo che si infilò nel soffitto e l'uomo finì contro una delle pareti coperte di rasoi. Il cacciatore urlò. Cadde a terra contorcendosi per il dolore e Michael gli balzò addosso. Le sue mani si chiusero sulla gola dell'americano e iniziarono a stringere. Sandler cominciò a soffocare... poi un oggetto di legno colpì la spia inglese alla mascella e il calcio del fucile gli fece perdere la presa. Michael afferrò il cacciatore per la camicia. Sandler stava cercando di allontanarsi da
lui e lo colpì di nuovo con il calcio del fucile, stavolta alla clavicola. Gallatin cadde all'indietro, ancora accecato dalle girandole azzurre, e sentì le lame squarciargli le spalle. Il fucile sparò di nuovo: dalla canna uscì una fiammata ma il proiettile era stato sparato alla cieca. Michael si gettò di nuovo su Sandler e lo spinse contro i rasoi. L'americano urlò un'altra volta per il dolore, ma in quel grido c'era anche una nota di terrore. Gallatin si impossessò del fucile e vi si aggrappò mentre Sandler lottava disperatamente. Dita guantate di pelle cercarono di conficcarsi negli occhi della spia inglese e gli afferrarono i capelli tirandoli. Michael sferrò un pugno al corpo del cacciatore e sentì un sibilo quando l'aria gli esplose dai polmoni. Lottarono in ginocchio nel corridoio, con la carrozza che ondeggiava e i rasoi dietro la schiena. Il fucile era in mezzo a loro ed entrambi cercavano di usarlo come appoggio per rialzarsi. Era una lotta silenziosa... e c'era la morte ad attendere il perdente. Michael riuscì a posare bene in terra un piede. Stava per alzarsi quando un pugno di Sandler lo colpì dritto al plesso solare, facendolo finire di nuovo a terra. L'americano sollevò un ginocchio e glielo picchiò sotto il mento. Il fucile premette sulla gola di Michael, spinto con tutte le forze da Sandler. Gallatin cercò di divincolarsi, ma non riuscì a scrollarsi di dosso il cacciatore. Sollevò un braccio, gli afferrò la testa e gli spinse il viso contro la parete a rasoi alle sue spalle. Sandler urlò di dolore... e la pressione sul corpo di Michael sparì. L'americano si alzò in piedi, ancora stringendo il fucile. La spia inglese allungò una mano, gli afferrò una caviglia e lo mandò a sbattere contro la parete di fronte. Sandler era stufo del suo labirinto: strappò il piede dalla morsa dell'avversario e barcollò lungo il corridoio, sbattendo contro le pareti e urlando di dolore per i tagli delle lame. Michael lo sentì armeggiare con una maniglia, nel tentativo di aprirla con una mano scivolosa per il sangue che la ricopriva, e immediatamente si alzò in piedi per inseguirlo. Sandler diede una spallata alla porta, che si spalancò inondando il corridoio di luce violenta. I rasoi - a centinaia su ciascun lato - brillarono nel bagliore: alcuni erano macchiati di rosso. Michael rimase di nuovo accecato, ma riuscì a vedere abbastanza da distinguere la forma del cacciatore incorniciata dalla porta. Si tuffò in avanti sbattendogli contro e la forza del colpo li portò entrambi dall'altro lato, sulla piattaforma all'aperto del vagone. Sandler, con il viso ridotto a brandelli sanguinanti e gli occhi accecati dal sole, urlò al soldato di guardia sulla piattaforma: «Uccidilo! Uccidilo!» L'uomo era rimasto momentaneamente sbalordito alla vista delle due figu-
re coperte di sangue che erano uscite improvvisamente dalla vettura, e non aveva ancora estratto la Luger. La mano andò al risvolto della fondina e lo sganciò, poi afferrò la pistola e iniziò a estrarla. Con gli occhi socchiusi per la luce accecante, Michael intravedeva il soldato solo come una forma scura su un campo di fuoco. Gli sferrò un calcio all'inguine prima che gli puntasse contro la canna della Luger; quando il militare si piegò in due, Gallatin alzò un ginocchio e lo colpì in pieno viso, facendolo volare all'indietro oltre la balaustra di ferro della piattaforma. La pistola sparò in aria mentre il soldato scompariva. «Aiuto!» Sandler era in ginocchio, chiamando chiunque riuscisse a sentirlo. Ma il rumore delle ruote soffocò la sua voce. Michael posò un piede sul fucile dell'americano, poi con una mano si riparò gli occhi dal bagliore del sole: dopo la piattaforma c'erano il tender e la locomotiva, dal cui fumaiolo usciva uno sbuffo nero. Sandler era piegato in due, con il sangue che gli colava dal viso e la giacca color cachi macchiata di rosso. «Aiuto!», gridò, ma la voce era flebile. Rabbrividì e gemette, dondolandosi avanti e indietro. «Adesso ti ucciderò», disse Michael in inglese. L'americano smise immediatamente di dondolarsi. Tenne la testa bassa, mentre il sangue gocciolava sulla piattaforma di metallo. «Voglio che ripensi a un nome: Margritta Phillipe. Ti ricordi di lei?» Sandler non rispose. Il treno stava attraversando di nuovo una foresta verdeggiante oltre il limite di Berlino. Nel punto in cui si trovavano, né il macchinista né il fuochista potevano vederli. Gallatin toccò il fianco dell'americano con la punta della scarpa. «La contessa Margritta. Al Cairo». Si sentiva svuotato, esausto... e le ginocchia rischiavano di cedere. «Spero davvero che la ricordi, perché l'hai fatta uccidere». Sandler alzò finalmente la testa; aveva il volto squarciato e gli occhi gonfi ridotti a fessure. «Chi sei?», gracchiò in inglese. «Ero un amico di Margritta. Alzati». «Tu... non sei tedesco, vero?» «Alzati», ripeté Gallatin. Continuò ad appoggiarsi con tutto il peso sul fucile, ma decise di non usarlo. Avrebbe spezzato il collo di Sandler con le mani nude e l'avrebbe gettato dal treno come un sacco di rifiuti. «In piedi. Voglio che mi guardi mentre ti uccido». «Ti prego...», gemette Sandler. Dalle narici gli colava del sangue. «Ti prego... non uccidermi. Sono ricco. Ti darò molto denaro». «Non mi interessa. Alzati!»
«Non posso. Non riesco ad alzarmi». Il cacciatore rabbrividì di nuovo, con il corpo piegato in avanti. «Le mie gambe... Credo che siano rotte». Michael sentì esplodere in sé una fiammata di rabbia. Quanti uomini - e donne - aveva distrutto Harry Sandler per la causa perversa della Germania nazista? Le loro suppliche erano state ascoltate? Michael pensava di no. Sandler voleva pagare... e avrebbe pagato. Gallatin allungò una mano, afferrò il retro della giacca cachi del cacciatore e iniziò a tirarlo su. E così facendo, si infilò nell'ultima trappola. Perché Sandler - che fingeva di nuovo, proprio come aveva finto di essere ubriaco - si drizzò improvvisamente serrando i denti per la rabbia, e la lama del coltello che aveva estratto dallo stivale destro brillò nella gialla luce del sole. L'arma scattò verso l'alto, una macchia pericolosa, con la punta diretta al centro dell'addome di Michael Gallatin. A meno di cinque centimetri dal bersaglio, la lama venne bloccata. Una mano afferrò il polso di Sandler, stringendolo saldamente. Il cacciatore la fissò, con gli occhi tumefatti ma sbalorditi. Non era una mano del tutto umana, ma non era neppure completamente la zampa di un animale. Era striata di peli neri e le dita iniziavano a contorcersi e a diventare artigli. Sandler ansimò e alzò lo sguardo verso il viso dell'uomo. Le ossa del volto del barone si stavano spostando... il naso e la bocca si trasformavano in un muso coperto di peli neri. La bocca era spalancata per fare spazio alle zanne che scendevano, gocciando saliva, in mezzo ai denti umani. Sandler rimase stordito; il coltello cadde sulla piattaforma. L'americano sentì un lezzo animalesco, un odore di sudore e di pelliccia di lupo. Aprì la bocca per urlare. Michael, con la spina dorsale che già si piegava, spinse avanti il viso e affondò le zanne nella gola del cacciatore. Con un movimento del capo brusco e selvaggio strappò carne e vene, e squarciò la trachea di Sandler. Ritrasse la testa, lasciando un buco profondo dove prima c'era la gola. Gli occhi dell'americano si chiusero una volta e il suo viso si contorse, mentre i nervi e i muscoli perdevano ogni controllo. L'odore del massacro sopraffece Gallatin: colpì di nuovo, affondando le zanne nella carne scarlatta, agitando la testa mentre mordeva fino alla spina dorsale. Serrò i denti sulla colonna vertebrale, la spezzò e continuò a rosicchiare oltre i bordi scheggiati. Quando si ritrasse, la testa del cacciatore era attaccata al corpo solo da qualche striscia di muscolo coriaceo e di tessuto connettivo. Dal foro della trachea uscì un gemito: erano i polmoni che smettevano di funziona-
re. Michael, con la camicia strappata e i pantaloni che gli cadevano sulla parte inferiore del corpo, appoggiò un piede sul petto del cacciatore e spinse. Quello che rimaneva di Harry Sandler ricadde all'indietro e scivolò giù dal treno in corsa. Michael sputò un boccone di carne e si distese su un fianco, con il corpo fermo tra i due poli. Sapeva di dover ancora arrivare alla locomotiva e far rallentare il treno... e le zampe di un lupo non avrebbero potuto manovrare le leve. Si impedì di effettuare una trasformazione completa; nella sua mente turbinavano i venti selvaggi e i muscoli ondeggiavano sotto la pelle coperta dagli abiti di un uomo. Le dita dei piedi gli facevano male nelle scarpe rigide e le spalle ardevano dal desiderio di liberarsi. Non ancora! pensò Michael. Non ancora! Cominciò a tornare indietro, a ripercorrere la distanza primordiale che il suo corpo aveva già fatto; dopo circa mezzo minuto si drizzò a sedere, con la pelle umana madida di sudore e la gamba ferita piena di gelo. Afferrò il fucile: in canna c'era un proiettile. Poi si alzò, con il cervello e i muscoli intorpiditi, e salì la scaletta che portava alla passerella che attraversava la sommità del tender. Quando arrivò alla locomotiva, si accovacciò e vide il macchinista e il fuochista all'opera sotto il tettuccio, si calò lungo la scaletta ed entrò. Quando i due uomini lo videro alzarono immediatamente le mani in segno di resa: erano conducenti, non soldati. «Giù dal treno», disse Michael parlando di nuovo in tedesco. Fece un cenno con il fucile. «Subito». Il fuochista saltò, rotolando giù per una scarpata e finendo nel bosco. Il macchinista esitò, con gli occhi sbarrati per la paura, finché Gallatin non gli premette la bocca del fucile sulla gola. Poi, preferendo un trauma alle ossa a un proiettile nel collo, saltò giù dalla locomotiva. Michael afferrò la leva della manetta rossa e tolse velocità alla macchina. Si sporse e vide avvicinarsi il ponte sul fiume Havel. In lontananza si stagliavano le torri del Reichkronen. Era un punto adatto. Rallentò ancora e salì di nuovo in cima al tender. La locomotiva si avvicinò al ponte, con le ruote che sferragliavano a un ritmo più lento. Una valvola a vapore fischiava, ma Michael non aveva tempo di preoccuparsene. Il treno avrebbe comunque attraversato il ponte a una discreta velocità. Si alzò in piedi, comprimendosi con una mano la coscia ferita. Il ponte della ferrovia si restringeva e l'acqua color verde scuro lo attirava. Sputò un altro pezzo di pelle: la carne di Sandler gli era rimasta tra i denti. Sperò che il fiume sotto
il ponte fosse profondo, altrimenti sarebbe andato a sbattere nel fango. Inspirò profondamente e saltò. 3. Il sole del mattino sul viso di Chesna era caldo e mite, ma dentro di lei infuriava una tempesta. Era in piedi sulla riva erbosa del fiume davanti al Reichkronen e osservava le barche a remi muoversi lentamente in direzione della corrente e poi contro di essa. Erano più di quattro ore che dragavano il fiume, ma la donna sapeva che le reti avrebbero trovato soltanto fango ed erba. Ovunque fosse il barone, non era sul fondo dell'Havel. «Le dico che è una menzogna», affermò Mouse, che era in piedi accanto a lei. Parlò a voce bassa, perché la ricerca del barone von Fange aveva attirato una folla di curiosi. «Perché sarebbe venuto quaggiù da solo? E poi non si sarebbe mai ubriacato. Maledizione, sapevo di non doverlo perdere di vista». Il piccolo uomo si accigliò agitato. «Qualcuno doveva prendersi cura di quel pazzo!» Gli occhi castani di Chesna seguivano l'avanzare delle barche a remi, mentre la brezza leggera le scuoteva i capelli dorati. Indossava un vestito nero: il suo colore distintivo, non un abito da lutto. I soldati avevano setacciato le rive per parecchi chilometri più a valle, nel caso in cui il corpo fosse rimasto incagliato nel fondale poco profondo. La donna pensò che era inutile. Si trattava di una messinscena, ma organizzata da chi e perché? Le era venuta in mente una possibilità che le aveva fatto tremare tutto il corpo: Michael era stato scoperto mentre perquisiva la suite di Jerek Blok ed era stato portato via per essere interrogato. Se le cose stavano così, il colonnello non aveva lasciato trapelare niente quella mattina, quando le aveva detto di aver chiamato la polizia per cominciare a dragare il fiume. Altri pensieri la preoccupavano: se il barone fosse crollato sotto tortura, avrebbe potuto rivelare tutto quello che sapeva. La donna e altri che facevano parte della sua efficiente organizzazione antinazista avrebbero potuto ritrovarsi con una corda di pianoforte stretta intorno al collo. Doveva quindi restare lì e continuare a recitare il ruolo della fidanzata preoccupata o andarsene finché era ancora in tempo? E c'era anche la questione di Blok e Frankewitz; il colonnello aveva dato dodici ore al dottore della Gestapo per mettere l'artista in condizione di rispondere a delle domande. La scadenza si avvicinava. Le reti non avrebbero trovato il barone von Fange nel fiume. Forse era
già caduto in una rete e forse un'altra stava per avvolgere anche Chesna e i suoi amici. Devo andarmene, pensò la donna. Trovare una scusa. Andare all'aeroporto, prendere il mio aereo e cercare di arrivare in Svizzera... Mouse guardò alle sue spalle e si sentì tremare per la paura. Verso di loro si stavano dirigendo il colonnello Blok e l'uomo mostruoso che indossava i pesanti stivali militari lucidati. Il cuoco si sentì come un piccione che sta per essere spennato e gettato in una padella ben oliata. Ma adesso conosceva la verità: il suo amico - il barone, ah! - aveva ragione. Era stato Hitler a uccidere sua moglie e la sua famiglia, e le armi del dittatore erano uomini come Jerek Blok. Mouse fece scivolare una mano nella tasca dei pantaloni grigi sgualciti e toccò la croce di ferro. I bordi erano taglienti. «Chesna?», la chiamò Blok. Il sole gli faceva luccicare i denti d'argento. «Ci sono novità?» «No». La donna cercò di non far trasparire la sua circospezione dal tono di voce. «Non hanno trovato nemmeno una scarpa». Il colonnello indossava un'uniforme nera delle SS ben stirata e si mise a fianco della donna, mentre Boots si ergeva come una montagna dietro a Mouse. Blok scosse la testa. «Temo che non lo troveranno. La corrente qui è molto forte. Se si è avvicinato a questo punto, ormai potrebbe essere arrivato molti chilometri più a valle... oppure finito sotto un tronco sommerso o rimasto bloccato tra due rocce, o...» Notò che la donna era molto pallida. «Scusami, mia cara. Non volevo turbarti». Chesna annuì. Mouse sentiva l'uomo massiccio respirare come un tornado dietro di lui e il sudore prese a inzuppargli le ascelle. La donna disse: «Non ho visto Harry, stamattina. Pensavo che si sarebbe interessato alla questione». «Ho chiamato la sua stanza qualche minuto fa», disse Blok. «Gli ho detto quello che probabilmente è successo al barone». Il colonnello socchiuse gli occhi per il bagliore riflesso dall'acqua increspata. «Harry non si sente bene. Ha detto di avere mal di gola. Penso che abbia intenzione di dormire per quasi tutto il giorno... ma mi ha detto di porgerti le sue condoglianze». «Non sappiamo ancora con certezza che il barone è morto, ti pare?», chiese Chesna in tono freddo. «No, non lo sappiamo», convenne Blok. «Ma due testimoni hanno detto di averlo visto inciampare lungo la riva del fiume e...» «Sì, sì, questo lo so! Ma non l'hanno visto cadere nel fiume, no?» «A uno di loro è sembrato di sentire un tonfo nell'acqua», le ricordò il
colonnello. Allungò una mano e toccò il gomito della donna, ma lei si allontanò. Le dita dell'uomo indugiarono a mezz'aria per qualche secondo, poi Blok lasciò cadere la mano. «So che... provavi un forte sentimento per quell'uomo, Chesna. Sono sicuro che anche tu sei molto turbato», disse a Mouse. «Ma i fatti sono fatti, vi pare? Se il barone non è caduto nel fiume ed è annegato, allora dove...» «Abbiamo trovato qualcosa!», urlò uno degli uomini su una barca a remi a circa quaranta metri dalla riva. Cominciò a tirare insieme al suo compagno. «È pesante, qualunque cosa sia!» «Probabilmente la rete ha pescato un tronco sommerso», disse Blok alla donna. «Temo che la corrente abbia trasportato il corpo del barone molto più a valle...» La rete arrivò in superficie. Tra le sue pieghe c'era un corpo umano ricoperto di fango. La bocca del colonnello si spalancò per la sorpresa. «L'abbiamo trovato!», urlò l'uomo nella barca a remi; Chesna sentì un tonfo al cuore. «Mio Dio!», aggiunse la voce del marinaio. «È vivo!» I due uomini issarono a fatica quel corpo umano lungo il fianco della barca; la figura sporca di fango alzò degli spruzzi e si sollevò all'interno. Il colonnello fece tre passi avanti. L'acqua e il fango gli insozzarono gli stivali immacolati. «È impossibile!», ansimò. «È assolutamente impossibile!» I curiosi, che si aspettavano un cadavere pieno d'acqua, si avvicinarono mentre la barca a remi piegava verso la riva del fiume. L'uomo che era appena stato estratto da una tomba d'acqua si tolse la rete di dosso per liberarsi le gambe. «È impossibile!» Chesna sentì il colonnello Blok sussurrare e lo vide lanciare a Boots uno sguardo con il volto bianco come la neve. Mouse cacciò un urlo di gioia quando vide i capelli neri e gli occhi verdi dell'uomo nella barca, poi corse in acqua per aiutare a tirarla a riva. Quando la chiglia dell'imbarcazione toccò terra, Michael Gallatin ne uscì. Aveva la camicia bianca ricoperta di fango e le scarpe fecero un rumore stridulo. Indossava ancora il cravattino. «Buon Dio!», disse Mouse sporgendosi in avanti per cingere con un braccio le spalle dell'uomo. «Pensavamo di averla perduta!» Michael annuì. Aveva le labbra grigie e tremava. L'acqua era molto fredda. Chesna non riuscì a muoversi. Ma poi ricordò il suo ruolo e corse in avanti per gettare le braccia al collo al barone. L'uomo sussultò, sostenendo
il suo peso su una gamba sola e stringendo le braccia fangose sulla schiena della donna. «Sei vivo, sei vivo!», disse l'attrice. «Oh, grazie a Dio sei vivo!» Si sforzò di piangere... e delle lacrime le scesero lungo le guance. Michael respirò il fresco aroma di Chesna. L'acqua gelata del fiume gli aveva impedito di svenire durante la lunga nuotata, ma adesso la debolezza stava avendo il sopravvento. Gli ultimi cento metri, e poi la breve nuotata sott'acqua per impigliarsi nella rete che dragava il fondo, erano stati un terribile tormento. C'era qualcuno dietro alla donna; Michael guardò negli occhi il colonnello Jerek Blok. «Ma bene», disse il militare accennando un sorriso. «È tornato dai morti, a quanto pare. Boots, credo che abbiamo appena assistito a un miracolo. Come hanno fatto gli angeli a far rotolare via la pietra che ricopriva la sua tomba, barone?» Chesna disse in tono stizzito: «Lo lasci in pace! Non vede che è esausto?» «Oh sì, lo vedo benissimo che è esausto. Quello che non riesco a capire è perché non è morto! Barone, direi che è rimasto sott'acqua per quasi sei ore. Le sono cresciute le branchie?» «Non proprio», rispose Michael. La coscia sinistra era intorpidita ma aveva smesso di sanguinare. «Avevo questa». Sollevò la mano destra mostrando un pezzo di canna cava lungo circa un metro. «Temo di essere stato imprudente. Ieri sera ho bevuto troppo e sono andato a fare una passeggiata. Devo essere scivolato. In ogni caso, sono caduto in acqua e la corrente deve avermi trascinato via». Si tolse con un gesto il fango dalla guancia. «È sorprendente come diventi sobrio quando ti rendi conto che stai per annegare. Una gamba era rimasta intrappolata in qualcosa. Un tronco, penso. Mi ha fatto un brutto taglio sulla coscia. Vede?» «Continui», gli ordinò Blok. «Non riuscivo a liberarmi. E non riuscivo nemmeno a sollevare la testa sulla superficie dell'acqua. Fortunatamente c'erano vicino delle canne. Ne ho estirpata una, ho staccato la parte finale con un morso e l'ho usata per respirare». «Davvero molto fortunato», disse Blok. «Ha imparato questo trucco alla scuola di preparazione dei commando, barone?» Michael sembrò stupito. «No, colonnello. Nei boy scout». «Ed è rimasto sott'acqua per quasi sei ore? Usando solo una fottuta canna per respirare?» «Questa "fottuta canna", come la chiama lei, verrà a casa con me. La fa-
rò ricoprire d'oro e incorniciare. Non si conoscono mai i propri limiti finché la vita non ti mette alla prova, non è così?» Blok fu sul punto di rispondere, poi ci ripensò. Si guardò intorno e vide i curiosi che si erano fatti avanti. «Bentornato tra i vivi, barone», disse con uno sguardo freddo. «Sarà meglio che faccia una doccia. Puzza di pesce». Si voltò e si allontanò seguito da Boots, ma poi si fermò improvvisamente e si rivolse di nuovo al barone. «Farà bene a tenersi stretta quella canna, signore. I miracoli non accadono spesso». «Oh, non si preoccupi», disse Michael; non poteva rinunciare a quella opportunità. «La terrò stretta con un pugno di ferro». Il colonnello rimase immobile, dritto come un palo. Gallatin sentì le braccia di Chesna stringersi intorno a lui. Il cuore della donna batteva forte. «Grazie per il suo interessamento, colonnello», disse Michael. Blok ancora non si mosse. Gallatin sapeva che quelle parole gli stavano ronzando in testa. Era un modo di dire o un dileggio? Si fissarono a vicenda per qualche secondo, come due predatori. Se Michael era un lupo, Jerek Blok era una pantera dai denti d'argento. Poi il silenzio venne rotto dal colonnello che fece un debole sorriso e annuì. «Le auguro di rimettersi presto, barone», disse, poi lasciò la riva del fiume dirigendosi verso il Reichkronen. Boots guardò Michael per qualche altro attimo - abbastanza da trasmettergli il messaggio che la guerra era stata dichiarata - e poi seguì il colonnello. Due ufficiali tedeschi, di cui uno portava un monocolo, avanzarono e si offrirono di aiutare Gallatin ad arrivare alla sua suite. Sostenuto da loro, Michael risalì zoppicando la riva del fiume seguito da Chesna e da Mouse. Nell'atrio dell'albergo apparve il direttore, con il viso rosso per l'agitazione, e disse di essere molto dispiaciuto per la disavventura del barone e che lungo la riva sarebbe stato costruito un muretto per evitare che un incidente del genere potesse ripetersi in futuro; suggerì anche di servirsi del medico dell'albergo, ma Gallatin rifiutò. Una bottiglia del miglior brandy dell'albergo avrebbe aiutato a lenire il dolore delle ferite del barone? Michael rispose che sarebbe stato un balsamo perfetto. Appena la porta della suite di Chesna venne chiusa e gli ufficiali tedeschi se ne andarono, Gallatin fece scivolare il corpo ricoperto di fango su una dormeuse bianca. «Dov'eri finito?», chiese la donna. «E non pensare che ci berremo la storiella delle sei ore passate nel fiume!», disse Mouse. Si versò un bicchierino del brandy vecchio di cent'anni, poi ne portò uno a Michael. «Cosa diavolo ti è successo?»
L'inglese bevve il brandy. Fu come respirare del fuoco. «Ho fatto una passeggiata in treno», disse. «Come ospite di Harry Sandler. Lui è morto, io sono vivo: tutto qui». Sciolse il cravattino per togliersi la camicia stracciata. Mostrò i tagli rossi che i rasoi gli avevano aperto sulle spalle e sulla schiena. «Il colonnello Blok era certo che Sandler mi avrebbe ucciso. Immaginate la sua sorpresa». «Perché avrebbe voluto ucciderti? Non sa chi sei veramente!» «Sandler vuole - voleva - sposarti. Così ha fatto del suo meglio per togliermi di mezzo. Blok era d'accordo con lui. Begli amici che hai, Chesna». «Blok potrebbe non essere mio amico ancora per molto. La Gestapo ha preso Theo von Frankewitz». Michael ascoltò attentamente il racconto della donna sulla telefonata che il colonnello aveva fatto. Alla luce di quel fatto, aver nominato il "pugno di ferro" sembrò un gesto avventato. L'artista avrebbe spifferato tutto sotto la tortura della Gestapo, e anche se non conosceva il nome di Gallatin, il suo occhio d'artista - per quanto ammaccato e iniettato di sangue - avrebbe ricordato il suo volto. La descrizione sarebbe bastata a portare Jerek Blok e la Gestapo fino a loro. Michael si alzò. «Dobbiamo andarcene da qui prima possibile». «E dove? Fuori dalla Germania?», chiese speranzoso Mouse. «Tu sì, io temo di no». Guardò Chesna. «Devo andare in Norvegia, all'isola di Skarpa. Credo che il dottor Hildebrand abbia inventato un nuovo tipo di arma e che la stia testando lì su prigionieri di guerra. Non sono ancora cosa abbia a che fare con il pugno di ferro, ma lo scoprirò. Puoi farmici arrivare?» «Non lo so. Avrò bisogno di tempo per organizzare i collegamenti». «Quanto?» La donna scosse la testa. «È difficile dirlo. Almeno una settimana. La via più veloce per arrivare in Norvegia è un aereo. Dovrò organizzare delle tappe per fare rifornimento di carburante e dovrò anche procurare del cibo e delle attrezzature. Poi dovremo usare un'imbarcazione per arrivare a Skarpa dalla costa norvegese. Quel luogo sarà sotto stretta sorveglianza: mine al largo della costa, una postazione radar e Dio solo sa cos'altro». «Mi hai frainteso», disse Michael. «Tu non verrai in Norvegia. Uscirai con Mouse dal paese. Quando Blok capirà che sono un agente inglese, si renderà conto che la tua interpretazione migliore non è stata in un film». «Hai bisogno di un pilota», rispose la donna. «Volo con il mio aeroplano
da quando ho diciannove anni. Ne ho dieci di esperienza. Trovare un altro pilota che ti porti in Norvegia sarebbe impossibile». Gallatin ricordò che Sandler gli aveva detto che Chesna aveva interpretato personalmente le scene acrobatiche durante uno dei suoi film. L'aveva definita una scavezzacollo; Michael era propenso a pensare che Chesna von Dorne fosse una delle donne più affascinanti che aveva mai incontrato... e sicuramente una delle più belle. Era il tipo di donna che non ha bisogno di un uomo a dirigerla o a darle sicurezza. Lei non aveva insicurezze, da quello che Gallatin aveva visto. Nessuna meraviglia che l'americano la volesse tanto: il cacciatore aveva sentito l'impulso di domarla. Se era riuscita a sopravvivere così a lungo come agente segreto tra i nemici, quella donna doveva essere davvero speciale. «Hai bisogno di un pilota», ripeté Chesna; Michael dovette ammetterlo. «Ti porterò io in aereo in Norvegia. Posso fare in modo di trovare qualcuno con un'imbarcazione. Poi te la dovrai cavare da solo». «E io?», chiese Mouse. «Al diavolo, non voglio andare in Norvegia!» «Ti imbarcherò su una nave cisterna», disse la donna. «Diretta in Spagna», chiarì quando vide lo sguardo confuso del cuoco. «Quando arriverai lì, i miei amici ti aiuteranno a raggiungere l'Inghilterra». «D'accordo, per me va bene. Prima riuscirò a uscire da questo covo di vipere, meglio mi sentirò». «Allora sarà meglio fare i bagagli e andarcene subito da qui». Chesna andò nella sua stanza e cominciò a fare le valigie; Michael andò in bagno per togliersi il fango dal viso e dai capelli. Si levò i pantaloni per guardarsi la ferita che aveva sulla coscia: il proiettile l'aveva sfiorato senza recidere i muscoli, ma aveva lasciato sulla carne un solco bordato di rosso. Sapeva cosa doveva essere fatto. «Mouse?», chiamò. «Portami il brandy». Si guardò le mani: le dita e i palmi erano attraversati da tagli di rasoi. Alcuni erano profondi e richiedevano attenzione immediata. Mouse gli portò il decanter e fece una smorfia quando vide la ferita procurata dal proiettile. «Togli il lenzuolo di sotto dal mio letto», lo istruì Michael. «Strappa un paio di strisce, per favore». Il cuoco si affrettò a eseguire l'ordine. Gallatin si lavò le mani nel brandy, un compito che lo fece sobbalzare dal dolore. Avrebbe puzzato come un ubriaco, ma le ferite dovevano essere pulite. Si lavò i tagli sulle spalle e poi rivolse la sua attenzione alla coscia. Mise del brandy su una salvietta e la premette contro la ferita prima di avere troppo tempo per pensarci. Gli servì una seconda salvietta che strinse fra i denti. Poi versò il fuoco
dorato rimasto sulla ferita bordata di rosso. «Sì, è questo che voglio da Frankewitz», stava dicendo Jerek Blok al telefono della sua suite. «Una descrizione. C'è il capitano Haider? È un ottimo elemento: sa come ottenere delle risposte. Gli dica che voglio subito quell'informazione». Sbuffò esasperato. «Me ne frego delle condizioni di Frankewitz! Ho detto che voglio subito quell'informazione. Adesso. Resto in linea». Sentì la porta aprirsi e alzò lo sguardo verso Boots che entrava nella stanza. «Sì?», lo spronò il colonnello. «Il treno di Herr Sandler non è ancora passato dallo scalo. Ha più di dieci minuti di ritardo». Boots aveva usato un altro telefono al piano di sotto e aveva parlato al capostazione dello scalo merci di Berlino. «Sandler mi ha detto che avrebbe messo il barone sul treno, che però è ancora sui binari da qualche parte, mentre il barone von Fange esce dal fiume come se fosse un rospo! Che ne pensi, Boots?» «Non lo so, signore. Come ha detto lei, è impossibile». Blok borbottò e scosse la testa. «Respirare attraverso una canna! Quell'uomo ha del coraggio, lo ammetto! Boots, ho una pessima sensazione». Qualcuno arrivò all'altro cavo del telefono. «Sto aspettando di avere notizie dal capitano Haider!», disse. «Qui è il colonnello Jerek Blok, ecco chi sono! Adesso lascia quel telefono!» Sulle sue pallide guance erano apparse delle chiazze rosse. Tamburellò con le dita, poi prese una penna stilografica e un foglio per appunti di un pallido colore celeste con il nome dell'albergo stampato sopra. Boots si mise a riposo, con le mani serrate davanti a sé, aspettando il nuovo ordine del superiore. «Haider?», disse Blok dopo un'altra pausa. «Ha quello che mi serve?» Ascoltò. «Non m'importa se quell'uomo sta morendo! Ha ottenuto l'informazione? D'accordo, mi dica quello che sa». Prese la penna e tenne la punta sospesa a mezz'aria. Poi cominciò a scrivere: Uomo ben vestito. Alto. Magro. Capelli biondi. Occhi castani. «Cosa? Ripeta», disse il colonnello. Poi scrisse: Un vero gentiluomo. «E questo cosa vorrebbe dire? Sì, lo so che non sa leggere la mente. Ascolti, Haider: torni da lui e ricominci da capo. Si assicuri che non stia mentendo. Gli dica... oh, gli dica che possiamo iniettargli qualcosa che lo terrà in vita se siamo sicuri che sta dicendo la verità. Aspetti un momento». Mise una mano sul ricevitore e guardò Boots. «Hai la chiave della suite di Sandler?» «Sì, signore». L'aiutante la estrasse dalla tasca della camicia.
«Dammela». Blok la prese. Aveva promesso al cacciatore di dare a Biondi il suo boccone mattutino di carne cruda; era una delle poche persone che il falco sembrava tollerare oltre al suo padrone. Almeno non gli si sarebbe scagliata contro quando avrebbe aperto la porta e la gabbia. «D'accordo, Haider», continuò il colonnello. «Torni da lui e ricominci da capo un'ultima volta, poi mi chiami. Sono al Reichkronen». Diede al capitano il numero di telefono e poi riagganciò. Strappò il foglietto di appunti dal blocchetto. Capelli biondi. Occhi castani. Se era vero, sicuramente non corrispondeva alla descrizione del barone. Ma cosa gli era venuto in mente? si chiese. Che il barone - e probabilmente anche Chesna - erano immischiati in questa storia? Ridicolo! Ma quando il barone aveva menzionato il "pugno di ferro", il colonnello se l'era quasi fatta sotto. Naturalmente era solo un comune modo di dire che chiunque poteva usare. Ma il barone... c'era qualcosa che non andava in lui. E adesso questa situazione con il treno di Sandler in ritardo e il barone che usciva dal fiume. Von Fange era stato sicuramente portato sul treno del cacciatore. Vero? «Devo dare da mangiare a quel maledetto uccello», disse Blok. La carne sanguinolenta era tenuta in un frigorifero nella cucina di Sandler. «Resta qui, e attento allo squillo del telefono», disse a Boots, poi lasciò la suite e si incamminò verso la porta in fondo al corridoio. 4. L'autista di Chesna aveva portato la Mercedes dal garage del Reichkronen al cortile; mentre Wilhelm e Mouse caricavano le valigie nel portabagagli, la donna e Michael si fermarono nell'atrio per salutare il direttore. «Mi dispiace moltissimo per quel terribile incidente», disse l'uomo dal viso florido serrando le mani. «Spero che tornerà al Reichkronen per un'altra visita, barone...» «Non vedo l'ora di tornare». Michael era pulito, rasato di fresco e indossava un gessato blu scuro con una camicia bianca e un cravattino a strisce grigie. «Inoltre, l'incidente è avvenuto per colpa mia. Temo che... ehm... fossi un po' troppo rilassato per andarmene in giro lungo la riva del fiume». «Be', grazie a Dio ha avuto prontezza di spirito! Il brandy andava bene?» «Oh, sì. Andava benissimo, grazie». Nella suite di Chesna, la cameriera avrebbe trovato una salvietta che sembrava strappata in due da un morso; inoltre una striscia del lenzuolo inferiore del letto adesso fasciava la coscia
di Michael. «Fraülein von Dome, auguro moltissima fortuna a lei e al barone», disse il direttore facendo un rapido inchino. La donna lo ringraziò e gli fece scivolare nel palmo della mano una mancia generosa per dimostrare il suo apprezzamento. Chesna e Michael attraversarono l'atrio mano nella mano. Ormai tutto era pronto... non per una luna di miele, ma per volare in Norvegia. Gallatin si sentì attanagliare dalla pressione. Era il 24 aprile e la donna aveva detto che avrebbero avuto bisogno almeno di una settimana per organizzare le tappe, per rifornirsi di carburante e per prendere le precauzioni necessarie tramite la sua rete antinazista. Il tempo poteva diventare un fattore critico, visto che l'invasione alleata dell'Europa era decisa per la prima settimana di giugno. Erano quasi arrivati all'entrata principale quando Michael udì il rumore sordo di passi pesanti arrivargli alle spalle. Tese i muscoli e Chesna sentì la tensione attraversare il corpo dell'uomo. Una mano afferrò la spalla dell'inglese, fermandolo a circa tre metri dalla porta. Gallatin alzò lo sguardo e vide il volto insulso e squadrato di Boots. L'uomo massiccio lasciò la presa sulla spalla. «Chiedo scusa, barone, fraülein», disse. «Ma il colonnello Blok vorrebbe parlarvi». Blok avanzò sorridente con le mani in tasca. «Ah, bene. Boots vi ha trovato prima che ve ne andaste! Non avevo idea che foste sul punto di partire. L'ho scoperto solo quando ho cercato di chiamare la tua stanza, Chesna». «L'abbiamo deciso solo un'ora fa». La voce della donna non mostrava alcun nervosismo; era una vera professionista, pensò Michael. «Davvero? Be', non posso dire di essere sorpreso. A causa dell'incidente, intendo». Gli occhi grigi e simili a quelli di una lucertola si mossero verso Michael e poi tornarono sulla donna. «Ma sicuramente non pensavi di andartene prima di salutarmi. Ho sempre pensato di far parte della tua famiglia, Chesna». Fece un largo sorriso. «Mi ritengo uno zio, che magari spesso s'impiccia più di quanto dovrebbe. È così?» Estrasse la mano destra dalla tasca. Tra il pollice e l'indice teneva una piuma dorata. Gallatin la riconobbe e si sentì stringere lo stomaco. Blok continuò a sorridere sventolandosi con la penna del falco. «Considererei un onore invitarvi entrambi a pranzo. Sicuramente non pensavate di partire prima di mangiare, vero?» La piuma si piegava avanti e indietro, come la vibrissa di un gatto. Chesna rimase immobile, anche se il cuore le batteva all'impazzata e lei
fiutava un disastro. «I bagagli sono già caricati nella macchina. Dobbiamo proprio andare». «Non ti ho mai vista rinunciare a un pasto gradevole. Forse il barone ti ha trasmesso le sue abitudini?» Michael prese l'iniziativa. Tese la mano. «Colonnello Blok, è stato un vero piacere conoscerla. Spero che verrà al nostro matrimonio». Il colonnello afferrò la mano di Gallatin e la strinse. «Oh, sì», disse. «Due eventi che non perdo mai sono i matrimoni e i funerali». Michael e Chesna uscirono dalla porta d'entrata e cominciarono a scendere gli scalini di granito. Il colonnello e Boots li seguirono. Mouse stava aspettando, tenendo aperta la portiera della Mercedes per la donna mentre Wilhelm stava caricando l'ultima valigia nel bagagliaio. Blok sta cercando di bloccarci, pensò Michael. Perché? Era evidente che il colonnello aveva trovato la carcassa di Biondi e altri segni di un intruso nella suite di Sandler. Se voleva arrestarlo, perché non l'aveva già fatto? Gallatin accompagnò Chesna alla portiera; Blok li seguì da vicino. Michael sentì la donna tremare. Sapeva anche che il gioco aveva preso una piega molto pericolosa. Chesna stava per scivolare nella macchina quando il colonnello oltrepassò Gallatin e le prese il gomito. La donna lo guardò con il sole sul viso. «In memoria dei vecchi tempi», disse l'uomo sporgendosi in avanti per baciarla delicatamente su una guancia. «Ci vediamo, Jerek», rispose lei riacquistando la padronanza di sé. Entrò in macchina, Mouse chiuse la portiera, poi girò per aprire quella di Michael. Blok lo seguì, mentre Boots rimaneva a qualche metro di distanza. «È stato un piacere, barone», disse il colonnello. Gallatin entrò nella Mercedes, ma Blok tenne aperta la portiera. Wilhelm stava scivolando dietro il volante per inserire la chiave d'accensione. «Spero che a lei e a Chesna piaccia il futuro che avete scelto». Alzò lo sguardo verso l'entrata del cortile. Michael l'aveva già sentito: il rombo di un veicolo che si avvicinava lungo il ponte di chiatte. «Oh, l'avevo dimenticato!», disse sorridendo il colonnello, con i denti d'argento che scintillavano. «Il maggiordomo di Sandler ha ripreso il controllo del treno. Hanno trovato anche il cadavere di Sandler. Pover'uomo... un animale l'ha fatto a pezzi. Mi spieghi una cosa, barone: come può qualcuno come lei, un civile viziato senza esperienza di combattimento, aver ucciso Harry Sandler? A meno che, naturalmente, lei non sia chi sembra essere... infilò la mano dentro la giacca nera delle SS, mentre nel cortile entrava un camion che trasportava una
decina di soldati nazisti. Michael non aveva il tempo di interpretare la parte del barone offeso; colpì con il piede la bocca dello stomaco del colonnello e lo fece finire all'indietro sulle pietre lastricate. Blok cadde con la pistola già in pugno. Mouse vide la canna della Luger scintillare mentre veniva puntata contro il barone. Qualcosa infuriò dentro di lui... si mise nella linea del fuoco e diede un calcio alla mano che teneva l'arma. Si sentì un crac acuto quando la pistola fece fuoco, ma un attimo dopo la mano del colonnello si aprì e la Luger volò via. Boots stava arrivando. Michael uscì dalla macchina, afferrò Mouse e lo tirò dentro. «Vai!», urlò a Wilhelm; l'autista affondò il piede sull'acceleratore. Mentre la Mercedes si lanciava in avanti, Gallatin chiuse la portiera sbattendola; uno stivale chiodato lasciò sul metallo un'impronta grande quanto un piatto da portata. «Prendi la pistola! Prendi la pistola!», gli stava urlando Blok mentre si rialzava affannosamente in piedi. Boots corse a prendere la Luger e la raccolse. Mentre Wilhelm procedeva a tutta velocità con la Mercedes nel cortile, un proiettile colpì il lunotto posteriore investendo Michael, Chesna e Mouse con una pioggia di vetri. «Fermateli!», ordinò Blok ai soldati. «Fermate quella macchina!» Vennero sparati altri colpi: la ruota posteriore sinistra scoppiò e il parabrezza tremò. Poi la Mercedes cominciò ad attraversare il ponte di chiatte, con il motore che ruggiva e il fumo che usciva dal foro di un proiettile nel tettuccio. Gallatin guardò indietro e vide numerosi soldati correre dietro di loro, mentre il camion faceva inversione nel cortile. Si sentì il rumore dei fucili e delle mitragliette che facevano fuoco; la Mercedes tremò sotto i colpi. La macchina raggiunse la riva opposta, ma anche la ruota posteriore destra scoppiò e le fiamme ormai lambivano il tettuccio. «Il motore esploderà!», urlò Wilhelm vedendo l'indicatore dell'olio abbassarsi rapidamente e quello della temperatura superare la linea rossa. La parte posteriore del veicolo sbandava e l'autista non riusciva più a governare il volante. La Mercedes finì fuori strada e si infilò nella foresta, virando verso un pendio e schiantandosi nello spesso sottobosco. Wilhelm lottò con i freni e la macchina sfiorò una quercia, fermandosi in mezzo a un gruppo di sempreverdi. «Tutti fuori!», disse l'autista. Aprì la portiera del guidatore, afferrò il bracciolo e tirò una cordicella al di sotto. La copertura interna di pelle della portiera si staccò, rivelando uno scompartimento con una mitraglietta e tre caricatori. Mentre Michael usciva dalla macchina
e tirava Mouse con sé, Chesna aprì un comparto sotto il sedile posteriore che nascondeva una Luger. «Da questa parte!», disse Wilhelm indicando i grovigli di vegetazione lungo il pendio. Si avviarono con la donna al comando; dopo circa quaranta secondi la Mercedes esplose, scagliando una pioggia di pezzi di metallo e vetri tra gli alberi. Gallatin sentì l'odore del sangue. Abbassò lo sguardo e vide una spessa macchia rossa allargarsi sulle dita della mano destra. Poi si guardò alle spalle e vide che Mouse era caduto in ginocchio. Il colpo di Blok, si rese conto l'inglese. La camicia del cuoco era inzuppata di rosso subito sotto il cuore. L'uomo era pallido e sudava molto. Michael si chinò accanto a lui. «Ce la fai ad alzarti?», disse, sentendo la sua voce tremare. Mouse fece un rantolo e aveva gli occhi umidi. «Non lo so», disse. «Ci provo». Lo fece, riuscendo a mettersi in piedi prima che le ginocchia si piegassero. Gallatin lo prese prima che cadesse e lo sostenne. «Cos'ha?» Chesna si era fermata ed era tornata indietro. «È...» Si zittì vedendo il sangue sulla camicia del piccolo uomo. «Stanno arrivando!», disse Wilhelm. «Sono proprio dietro di noi!» Teneva la mitraglietta a livello dell'anca e tolse la sicura mentre con lo sguardo esaminava attentamente il bosco. Riuscivano a sentire le voci dei soldati che si avvicinavano. «Oh, no». Mouse sbatté le palpebre. «Oh no, ho combinato un bel pasticcio. Sono proprio un pessimo valletto, vero?» «Dobbiamo lasciarlo!», disse Wilhelm. «Avanti!» «Non lascio il mio amico». «Non essere stupido!» L'autista guardò Chesna. «Io vado, che lui venga o no». Si voltò e corse nella foresta, lontano dai soldati che avanzavano. La donna scrutò il pendio. Vide quattro o cinque militari scendere nella boscaglia. «Qualunque cosa tu voglia fare», disse a Michael, «sarà meglio farla in fretta». E così fu. Gallatin si mise Mouse sulle spalle come avrebbe fatto un vigile del fuoco, poi corse con la donna nell'ombra degli alberi. «Da questa parte! Quaggiù!», sentirono uno dei soldati urlare ai suoi compagni. Dall'alto arrivò il suono di una mitraglietta che faceva fuoco, seguito da numerosi colpi di fucile. Si sentì un urlo: «Ne abbiamo preso uno!» Chesna si acquattò contro il tronco di un albero; Michael si mise in piedi dietro di lei. La donna indicò con un dito, ma gli occhi dell'uomo avevano già visto: in una radura poco più avanti c'erano due soldati armati che os-
servavano il corpo di Wilhelm contorcersi. L'attrice sollevò la pistola, mirò attentamente e premette il grilletto. Il bersaglio barcollò all'indietro con un buco nel cuore e cadde. Il secondo soldato fece fuoco all'impazzata in mezzo agli alberi e scappò via per mettersi al riparo. Chesna, impassibile in volto, gli sparò colpendolo all'anca e immobilizzandolo. Mentre l'uomo cadeva venne raggiunto alla gola da un altro proiettile. Poi la donna - un killer professionista con indosso un lucente vestito nero - corse al fianco di Wilhelm. Michael la seguì, valutando rapidamente la situazione come aveva già fatto la donna: l'autista era stato colpito allo stomaco e al petto, e per lui non c'era più speranza. Gemeva e si contorceva, con gli occhi serrati per il dolore. «Mi dispiace», sussurrò Chesna; posò la canna della Luger contro il cranio di Wilhelm, si schermò il viso con l'altra mano ed esplose lo sparo misericordioso. Prese la mitraglietta e spinse la Luger nella cintura di Michael. Il calore dell'arma gli bruciò la pancia. Gli occhi fulvi della donna erano umidi e cerchiati di rosso, ma il suo viso era calmo e composto. Uno degli alti tacchi neri si era rotto; Chesna si tolse la scarpa con un calcio e spinse il suo socio nel bosco. «Andiamo», disse in tono deciso, poi cominciò ad avviarsi. Gallatin mantenne il passo, anche se portava Mouse sulle spalle e la ferita sulla coscia si era riaperta. La sua spossatezza era tenuta a bada soltanto dal fatto che si rendeva conto di cosa sarebbe successo una volta caduti nelle mani della Gestapo. Qualsiasi speranza di scoprire il significato del "pugno di ferro" e di comunicarne il segreto agli alleati sarebbe andata perduta. Ci fu un movimento sulla sinistra: la luce del sole brillava sulla fibbia di una cintura. Chesna si girò e sparò una scarica contro il soldato, che cadde in avanti tra le foglie. «Quaggiù!», urlò il militare, poi sparò due pallottole che finirono contro un tronco mentre Chesna e Michael cambiavano direzione e scappavano. Attraverso il bosco arrivò qualcosa che colpì un tronco alle loro spalle e rimbalzò. Tre secondi dopo si sentì un'esplosione assordante che fece volare numerose foglie. Un fumo bianco e denso cominciò a salire. Era una bomba fumogena, si rese conto Michael, per segnalare la loro posizione agli altri soldati. La donna continuò ad andare avanti, schermandosi il viso mentre procedevano in un groviglio di rovi. Gallatin sentì urlare alle loro spalle, sia a destra che a sinistra. Una pallottola gli superò la testa fischiando, come un calabrone infuriato. La donna aveva il viso striato dai graffi delle spine e si fermò nel sottobosco vicino al limita-
re della strada. Erano arrivati altri due camion che stavano riversando il loro carico di soldati. Chesna fece cenno a Michael di tornare indietro e lo guidò in un'altra direzione. Risalirono a fatica un pendio attraverso il fogliame fitto e verde, poi scesero in un burrone. In cima apparvero tre soldati, i cui profili si stagliavano contro il sole. La donna fece fuoco con l'arma, ne abbatté due e fece fuggire il terzo. Un'altra bomba fumogena esplose alla loro destra: il pungente fumo bianco si riversò nel burrone. Michael pensò che i segugi si stavano avvicinando. Li sentiva correre di ombra in ombra, salivando con i fucili pronti a sparare. Chesna corse sulle pietre lungo il fondo del burrone, coprendosi i piedi di lividi, ma non rallentando né mostrando di sentire il dolore. Gallatin la seguiva da vicino, mentre il fumo turbinava intorno a loro. Mouse respirava ancora, ma la nuca di Michael era piena di sangue. Si sentì il rumore sordo di una terza bomba fumogena tra gli alberi alla loro sinistra. Alcuni corvi neri urlavano girando in tondo sopra la foresta. Delle figure sfrecciarono giù per il pendio finendo nel fumo. La donna le vide e le respinse con una rapida scarica di proiettili. La pallottola di un fucile rimbalzò dal bordo di una roccia accanto a lei e alcune schegge di pietra le colpirono il braccio. Si guardò intorno con il volto lucido per il sudore e lo sguardo selvaggio; Michael vide in quegli occhi la paura di un animale in trappola. Chesna continuò a correre tenendosi bassa; Gallatin la seguiva con i crampi alle gambe. Il burrone terminò lasciando di nuovo il posto alla foresta. Tra gli alberi serpeggiava un ruscello le cui rive erano coperte di muschio. Più avanti la strada piegava e al di sotto c'era un canalone di pietra in cui scorreva la massa d'acqua; la sua apertura era ostruita da fango e vegetazione. Michael guardò alle sue spalle e vide i soldati sbucare dal burrone avvolto nel fumo. Dal pendio stavano scendendo altre figure che si mettevano al riparo dietro gli alberi. Chesna era già in ginocchio e stava per infilarsi nel canalone fangoso. «Avanti!», lo incitò. «Sbrigati!» Era molto stretto. Gallatin lo osservò e si rese conto che non sarebbe mai riuscito ad attraversarlo insieme a Mouse prima dell'arrivo dei soldati. Prese la decisione in un istante: mentre la donna giaceva sullo stomaco cercando di farsi strada nel canalone, Michael si voltò e corse via dal letto del ruscello in direzione del bosco. La donna continuò ad avanzare nella melma: il fango e il sottobosco si chiusero dietro di lei. La pallottola di un fucile ruppe il ramo di un pino sulla testa di Gallatin. L'inglese zigzagò tra gli alberi, finché una bomba fumogena non esplose
quasi davanti a lui facendogli cambiare direzione. Pensò accigliato che quei cacciatori conoscevano il loro lavoro. Respirava con affanno e sentiva le forze cominciare a diminuire. Si infilò in un boschetto verde, mentre la luce del sole gli creava intorno uno sfondo di strisce dorate. Avanzò a fatica di nuovo su e giù per un pendio, poi gli slittò un piede su un tappeto di foglie morte marroni e scivolò insieme a Mouse in un groviglio da incubo di rovi blu e neri che gli lacerarono i vestiti e la pelle. Michael si dibatté per liberarsi. Vide i soldati arrivare da ogni lato. Guardò il piccolo cuoco e vide che gli usciva del sangue dalla bocca. «Ti prego... ti prego», stava ansimando. «Ti prego... non lasciare che mi torturino...» Gallatin si liberò le mani ed estrasse la Luger dalla cintura. Uccise il primo soldato a cui mirò, mentre gli altri si gettavano a terra. I due colpi successivi si persero tra gli alberi, ma il quarto produsse un forte suono metallico quando raggiunse un elmetto nazista. Michael mirò contro un viso cereo e premette il grilletto. Non accadde nulla: il caricatore della pistola era vuoto. Attraverso i rovi giunse il fuoco delle mitragliette, facendo cadere una pioggia di sporcizia su Gallatin e Mouse. Una voce urlò: «Non uccideteli, idioti!» Era Jerek Blok, acquattato da qualche parte sul pendio. Poi: «Getti via la sua pistola, barone! L'abbiamo circondata! Basta una mia parola e verrà fatto a pezzi!» Michael si sentiva stordito, con il corpo sul punto di crollare. Guardò di nuovo Mouse e si maledisse per aver trascinato il suo amico in quel vortice mortale. Gli occhi del cuoco lo supplicavano; Gallatin vi riconobbe quelli di Nikita, quando il lupo ferito giaceva molto tempo prima sui binari della ferrovia. «Sto aspettando, barone!», urlò Blok. «Non... lasciare che mi torturino», sussurrò Mouse. «Non potrei sopportarlo. Direi tutto e... non sarei in grado di evitarlo». La mano del piccolo uomo lacerata dai rovi serrò il braccio di Michael, mentre un debole sorriso gli appariva sulla bocca. «Sai... mi sono appena reso conto... che non mi hai mai detto il tuo vero nome». «Michael». «Michael», ripeté Mouse. «Come l'angelo, eh?» Forse un angelo nero, pensò l'inglese. Un angelo per cui uccidere era una seconda natura. All'improvviso gli venne in mente che un licantropo non muore mai di vecchiaia; non l'avrebbe fatto nemmeno l'uomo che Gallatin
aveva conosciuto come Mouse. «Barone! Cinque secondi e cominciamo a sparare!» Michael sapeva che la Gestapo avrebbe trovato il modo di tenere Mouse in vita. L'avrebbero riempito di droghe e poi l'avrebbero torturato a morte. Sarebbe stato un modo di morire orribile. Sapeva anche che lo aspettava lo stesso destino, ma non era estraneo al dolore e, se c'era anche una sola possibilità di riuscire a fuggire e continuare la missione, doveva sfruttarla. D'accordo. Michael lanciò la Luger che finì a terra con un tonfo sordo. Poggiò saldamente le mani sulle tempie di Mouse e cominciò a esercitare una torsione con tutta la forza che aveva. Gli vennero le lacrime agli occhi: cominciarono a scendergli sulle guance graffiate dai rovi, bruciando terribilmente. Un angelo, pensò amaramente. Oh, sì. Un angelo dannato. «Ti... prenderai cura di me?», chiese Mouse a voce bassa, cominciando a perdere i sensi. «Sì», rispose Michael. «Lo sto facendo». Un attimo dopo era finita. Si sentì di nuovo la voce di Blok: «Venite fuori! Entrambi!» Una figura emerse dai rovi. Coperto di polvere, sanguinante e spossato, Michael si inginocchiò sulle mani e sulle ginocchia mentre veniva circondato da sei soldati armati di fucili e mitragliette. Il colonnello arrivò a grandi passi, seguito da Boots. «Dov'è l'altro uomo?» Guardò nei rovi e vide il corpo senza vita che giaceva tra le spine. «Tiratelo fuori!», disse a due soldati che avanzarono verso il groviglio di vegetazione. «In piedi», disse Blok a Michael. «Barone, mi ha sentito?» Gallatin si alzò lentamente e fissò con aria di sfida gli occhi di Jerek Blok. «Dov'è andata la troia?», chiese il colonnello. Michael non rispose. Sussultò ascoltando il rumore dei vestiti di Mouse che si strappavano sui rovi, mentre i soldati lo trascinavano fuori dal cespuglio. «Dov'è andata la troia?» Blok posò la canna della Luger sotto l'occhio sinistro di Gallatin. «Smettila con le stronzate», rispose parlando in russo. Vide il volto del colonnello diventare cereo. «Non mi ucciderai». «Cos'ha detto?» Blok si guardò intorno alla ricerca di un interprete. «Era russo, vero? Cos'ha detto?» «Ho detto», continuò Michael nella sua lingua nativa, «ho detto che succhi cazzi di asini e che fischi dal culo».
«Cosa diavolo ha detto?», domandò di nuovo Blok. Fissò Boots. «Tu hai passato del tempo sul fronte russo! Cos'ha detto?» «Io... uh... penso che abbia detto... che possiede un asino e un gallo che canta». «Sta cercando di fare lo scemo o è pazzo?» Michael emise un latrato gutturale, facendo indietreggiare di due passi il colonnello. Poi l'inglese guardò di lato, verso il cadavere di Mouse. Uno dei soldati stava cercando di aprirgli il pugno destro serrato. Le dita non cedevano. Improvvisamente Boots avanzò, alzò un piede e lo fece ricadere con forza sulla mano. Le ossa si spezzarono come fiammiferi; Gallatin rimase in piedi scioccato mentre il militare schiacciava l'arto irrigidito con tutto il suo peso. Quando l'uomo enorme sollevò di nuovo il piede, le dita di Mouse erano ormai aperte e rotte. Nel palmo si vedeva una croce di ferro. Boots si chinò per prendere la medaglia. Michael disse in tedesco: «Se la tocchi, ti ammazzo». La voce dell'uomo - sicura e decisa - fece fermare Boots. Il militare sbatté incerto le palpebre, con la mano tesa per afferrare l'ultimo bene del piccolo uomo. Gallatin lo fissò, sentendo un calore selvaggio bruciargli nelle vene. Era vicino alla trasformazione. .. molto, molto vicino. Se avesse voluto, era facilmente a portata di mano... La pistola di Blok, tenuta dal colonnello su un fianco, si alzò formando un arco che finì sui testicoli di Michael. L'inglese ansimò per il dolore e cadde in ginocchio. «Oh avanti, barone», lo rimproverò Blok. «I nobili sono al di sopra delle minacce, non è così?» Fece un cenno con il capo verso Boots, che prese la croce di ferro nella sua manona. «Barone, adesso sicuramente ci conosceremo molto bene. Potrebbe imparare a cantare con un registro di voce più alto, quando avrò finito con lei. Tiratelo su, per favore», disse a due soldati; i due uomini lo sollevarono in piedi di peso. Michael sentì un dolore lancinante all'inguine e si piegò in due; anche come lupo, non sarebbe riuscito ad allontanarsi di molto prima di crollare a terra. Non era il momento né il luogo. Lasciò che il richiamo selvaggio svanisse come un'eco. «Avanti, abbiamo molta strada da fare». Blok risalì il pendio e i soldati spinsero Gallatin davanti a loro. Altri militari gli camminarono ai fianchi con i fucili pronti. Boots seguiva a una certa distanza, con la croce di ferro in mano; altri soldati cominciarono a trascinare il cadavere di Mouse verso
la strada. Gallatin non guardò più il piccolo cuoco: ormai era morto e non avrebbe più dovuto affrontare la tortura. Il colonnello alzò lo sguardo verso il cielo blu; i denti d'argento brillarono mentre sorrideva. «Ah, è una bellissima giornata, vero?», disse a nessuno in particolare. Avrebbe lasciato un distaccamento di truppe per continuare a cercare quella troia... ed era sicuro che l'avrebbero trovata presto. Non poteva essere andata molto lontano. Dopotutto era solo una donna. Sentì una fitta al cuore pensando a quanto era stato stupido, ma non vedeva l'ora di avere Chesna fra le mani. Si era considerato per lei uno zio simpatico quando pensava che fosse una nazista leale; ma adesso una traditrice della sua portata meritava un trattamento diverso. Ma che scandalo! Doveva evitare ad ogni costo che la notizia raggiungesse i giornali! E anche gli occhi e le orecchie curiose di Himmler. Questo poneva un problema: dove portare il barone per interrogarlo? Ah, sì! pensò il colonnello. Ma certo! Osservò il barone che veniva spinto sul retro di un camion e poi fatto stendere supino con le mani bloccate sotto il corpo. Un soldato gli si sedette accanto premendogli la canna del fucile contro la gola. Blok avanzò per parlare con l'autista del camion, mentre altri soldati continuavano a cercare nella foresta la Ragazza d'Oro della Germania. 5. Michael sentì l'odore della sua destinazione prima ancora di vederla. Era sempre disteso sulla schiena sul pianale del camion, con le braccia bloccate sotto di sé e soldati armati seduti tutt'intorno. Il vano di carico era stato coperto da un telo grigio che lasciava passare solo uno spiraglio di luce. Il suo senso dell'orientamento era compromesso, ma sapeva che non si stavano dirigendo in città: la strada era troppo dissestata per le ruote dei civili di Berlino. No, quella strada era stata rovinata da una grande quantità di pneumatici di camion e veicoli pesanti, e i muscoli della schiena di Gallatin si contraevano per il dolore ogni volta che un solco faceva vibrare il fondo dell'automezzo. Un forte odore penetrò attraverso il telo. Anche i soldati l'avevano notato: alcuni di loro si agitarono, mormorando tra loro. L'odore si fece più forte. Michael aveva sentito qualcosa di simile in Africa settentrionale, quando aveva trovato un gruppo di militari britannici colpiti da un lanciafiamme. Una volta che il fetore dolce e nauseabondo della carne umana
carbonizzata ti entra nelle narici, non lo dimentichi più. E questo era mescolato a del legno bruciato. Legno di pino, pensò Michael. Un materiale che bruciava in fretta e bene. Uno dei soldati si alzò e andò barcollando a vomitare in fondo al camion. Michael sentì altri due uomini sussurrare e colse una parola: «Falkenhausen». Conosceva bene la sua destinazione: il campo di concentramento di Falkenhausen. La creatura di Blok. Il greve lezzo si allontanò. Il vento era cambiato, pensò Michael. Ma cosa stava bruciando, in nome di Dio? Il camion si fermò e rimase immobile per un istante o due. Sopra il rombo basso del motore sentì martellare. Poi il veicolo si rimise in moto e avanzò di circa un centinaio di metri, quindi una voce stridula gridò: «Portate fuori il prigioniero!» Il telo venne tirato indietro. Michael fu issato giù dal camion nella violenta luce del sole e si trovò davanti a un maggiore tedesco delle Waffen SS, un uomo massiccio con un'uniforme nera che sembrava stesse per scoppiare. Aveva un viso carnoso e rubicondo, con occhi chiari e duri come diamanti ma senza averne la lucentezza. Indossava un berretto nero con la falda piatta e portava i capelli cortissimi. Intorno alla vita aveva una fondina che reggeva una pistola Walther e un manganello di gomma color ebano: uno «spaccaossa». Michael si guardò intorno. Vide delle baracche di legno e dei muri di pietra grigia oltre i quali c'erano le fitte cime degli alberi. Un'altra caserma era in costruzione; alcuni prigionieri con le divise a strisce martellavano le giunzioni mentre guardie armate di mitragliatrici li sorvegliavano dall'ombra. Spessi rotoli di filo spinato formavano divisioni interne e agli angoli del muro esterno di pietra c'erano torri di vedetta di legno. Vide un cancello d'ingresso, anch'esso di legno, con sopra l'arco di pietra che aveva notato nella foto incorniciata nella suite di Blok. Nell'aria era sospesa una foschia scura, che lentamente si spostava verso la foresta. Sentì di nuovo quel puzzo: carne bruciata. «Sguardo avanti!», gridò il maggiore tedesco, afferrando Michael al mento per girargli la testa. Un soldato gli ficcò un fucile nella spina dorsale. Un altro gli tolse a forza la giacca, poi gli strappò via la camicia con tanta violenza che i bottoni di madreperla volarono in aria. Gli presero la cintura e abbassarono i pantaloni. Gli tirarono giù anche le mutande. Il fucile lo pungolò di nuovo nei reni. Gallatin sapeva cosa volevano che facesse, ma continuò a fissare il
maggiore negli occhi incolori e tenne entrambi i piedi a terra. «Togliti scarpe e calzini», disse l'uomo. «Con questo vuol dirmi che siamo fidanzati?», chiese Michael. Il bastone venne estratto dalla fondina e la sua punta spinta contro il mento di Gallatin. «Togliti scarpe e calzini», ripeté il maggiore. Michael colse un movimento alla sua sinistra. Guardò in quella direzione e vide Blok e Boots che si avvicinavano. «Sguardo avanti!», ordinò il maggiore, che sferrò un colpo secco e brutale alla coscia ferita del prigioniero. Il dolore esplose nella gamba quando lo squarcio si riaprì stillando sangue vermiglio; Michael cadde in ginocchio nella terra gessosa. La canna di un fucile lo guardò in faccia. «Barone», disse Blok, «temo che ora lei si trovi nel nostro regno. Vuole obbedire al maggiore Krolle, per favore?» Gallatin esitò, con il dolore che gli pulsava nella coscia e gocce di sudore che gli imperlavano la fronte. Uno stivale gli venne piantato nella schiena e lo spinse nella polvere. Boots gli si appoggiò sulla spina dorsale con tutto il peso; Michael strinse i denti. «È nel suo interesse collaborare, barone», continuò Blok. Poi aggiunse, rivolto a Krolle: «È russo. Sa quanto possono essere ostinati quei figli di puttana?» «Qui curiamo l'ostinazione», rispose il maggiore; mentre Boots teneva Michael a terra, due soldati gli tolsero le scarpe e i calzini. Ora era completamente nudo e i polsi gli vennero bloccati dietro la schiena con delle manette. I soldati lo tirarono in piedi e poi lo spinsero nella direzione in cui volevano che andasse. Non oppose resistenza: gli avrebbe solo fruttato qualche osso rotto, ed era ancora esausto per la lotta contro Sandler e la fuga nella foresta. Non c'era tempo per piangere Mouse o per lamentarsi della propria situazione: quegli uomini avevano intenzione di estorcergli ogni minima informazione torturandolo. Andava quindi a suo vantaggio il fatto che lo credessero un agente dell'Unione Sovietica, perché la sua presenza avrebbe mantenuto la loro attenzione a oriente, lontano dal fronte occidentale. Era un campo grande. Angosciosamente grande, pensò Michael. Dappertutto c'erano casermoni - quasi tutti di legno dipinto di verde - e centinaia di ceppi d'albero testimoniavano che Falkenhausen era stato ricavato dalla foresta. Vide volti pallidi ed emaciati che lo osservavano da strette finestre con le imposte incernierate. Passarono alcuni gruppi di prigionieri magri e pelati, radunati da soldati armati di mitragliatrici e bastoni di gomma. Gal-
latin notò che quasi tutti i prigionieri portavano attaccate ai vestiti le Stelle di Davide gialle. La sua nudità sembrava una cosa normale e non attirò alcuna attenzione. In lontananza, a circa duecento metri, c'era un campo all'interno del campo, in cui altre baracche erano racchiuse da rotoli di filo spinato. Michael riusciva a vedere tre o quattrocento prigionieri in piedi in riga su un piazzale polveroso, mentre un altoparlante parlava in tono monotono del Reich dei Mille Anni. Lontano a sinistra vide un edificio basso di pietra grigia: dai due camini si alzavano colonne di fumo scuro che si spostavano verso la foresta. Sentiva il rombo e il cigolio di macchinari pesanti, anche se non riusciva a vedere da dove provenisse il rumore. Un cambio nel vento gli portò alle narici un altro puzzo: non più quello di carne bruciata, ma il lezzo di persone sudate e non lavate. In quell'odore acre c'erano tracce di putrefazione, corruzione, escrementi e sangue. Qualunque cosa accadesse lì, pensò osservando le colonne di fumo che uscivano dai camini, era più legata all'eliminazione che alla prigionia. Tre camion arrivarono dalla direzione dell'edificio di pietra grigia e a Michael venne ordinato di fermarsi. Rimase in piedi sul bordo della strada, con la canna di un fucile puntata alla testa, mentre i camion si avvicinavano. Krolle fece cenno ai veicoli di fermarsi e portò Blok e Boots dietro il primo camion. Michael vide il maggiore rivolgersi al colonnello con il volto rosso pieno di entusiasmo. «La qualità è eccellente», gli sentì dire. «In tutto il sistema, il prodotto di Falkenhausen rappresenta il vertice». Krolle ordinò a un soldato di prendere una delle casse di legno di pino impilate nel retro del camion. Il militare iniziò a rimuovere i chiodi facendo leva con il coltello. «Vedrà che sto portando avanti il livello di qualità che lei ha così fortemente richiesto, colonnello», proseguì il maggiore; Michael vide Blok annuire e sorridere, soddisfatto per la sfacciata adulazione. L'ultimo chiodo saltò e Krolle infilò una mano nella cassa. «Vede? Sfido qualsiasi altro campo a raggiungere questa qualità». Il maggiore stringeva una manciata di capelli lunghi, di color castano rossiccio. I capelli di una donna, si rese conto Michael. Erano ricci naturali. Krolle sorrise a Blok, poi infilò la mano più in fondo. Stavolta ne estrasse delle ciocche spesse di color biondo chiaro. «Ah, non sono deliziosi, questi?», chiese. «Faranno una parrucca stupenda, che vale tanto oro quanto pesa. Sono lieto di poterle dire che la nostra produzione è aumentata del trentasette per cento. E non c'è neppure un pidocchio in tutto il carico. Il nuovo spray antiparassitario è una vera benedizione». «Riferirò al dottor Hildebrand quanto funziona bene», disse Blok. Guar-
dò nella cassa, allungò una mano e ne estrasse una manciata di capelli lucenti color rame. «Oh, sono magnifici!» Michael osservò i capelli cadere dalle dita del colonnello. Rifletterono la luce del sole e la loro bellezza quasi gli spezzò il cuore. I capelli di una prigioniera, pensò. Dov'era il suo corpo? Gli arrivò una traccia del puzzo di bruciato e lo stomaco gli si rivoltò. Quegli uomini - quei mostri - non potevano essere lasciati in vita. Sarebbe stato dannato da Dio se, essendo a conoscenza di quelle cose, non avesse squarciato la gola agli uomini che gli stavano di fronte sorridendo e parlando di parrucche e di piani di produzione. I pianali di tutti e tre i camion erano carichi di casse di legno di pino: carichi di capelli, tosati dalle teste come velli da agnelli macellati. Non poteva lasciarli vivere. Fece un passo avanti, sfiorando e superando la canna del fucile. «Fermo!», gridò il soldato. Krolle, Blok e Boots si girarono a guardarlo, lasciando cadere i capelli nella cassa. «Fermo!», ordinò di nuovo il militare, spingendogli la canna nelle costole. Un dolore simile non era niente. Michael continuò ad avanzare, con i polsi ammanettati dietro la schiena. Fissò il maggiore negli occhi incolore e vide l'uomo sussultare e fare un passo indietro. Sentì le zanne dolergli per il desiderio di scivolargli nelle mascelle e i muscoli del viso ondeggiare, pronti a dare spazio. «Fermo, dannazione!» Il soldato lo colpì sulla nuca con la canna del fucile; Michael barcollò ma restò in piedi. Si dirigeva verso i tre uomini: Boots si mise fra lui e il colonnello Blok. Un altro soldato, armato di mitraglietta, corse da Gallatin e lo colpì allo stomaco con il calcio dell'arma. Michael si piegò in due e gemette di dolore; il militare alzò di nuovo il fucile per picchiarlo sulla testa. Il prigioniero agì per primo, alzando un ginocchio e colpendo l'uomo all'inguine con tanta forza da sollevarlo e farlo ricadere a terra. Un braccio si avvolse intorno alla gola di Gallatin da dietro, schiacciandogli la trachea. Un altro soldato gli sferrò un pugno al petto togliendogli il fiato. «Tenetelo fermo! Tenete fermo quel bastardo!», ringhiò Krolle mentre Michael continuava a dimenarsi selvaggiamente. Il maggiore alzò il bastone e lo abbassò sulla spalla di Gallatin. Il secondo colpo lo fece cadere e il terzo lo mandò steso nella polvere, con i polmoni in affanno e il dolore che si diffondeva pulsando dalla spalla che si andava annerendo e dall'addome contuso. Si aggrappò al limite dell'incoscienza, lottando contro la trasforma-
zione. I peli neri stavano per emergere dai pori; sentiva l'odore selvatico sulla pelle e la potenza muschiata sulla lingua. Se si fosse trasformato lì, steso nella polvere, i bisturi tedeschi l'avrebbero aperto ed esaminato. Ogni parte di lui - dagli organi ai denti - sarebbe stata etichettata e immersa in bottiglie piene di formaldeide per essere studiata dai medici nazisti. Voleva vivere e uccidere quegli uomini, perciò lottò contro la trasformazione e la represse. Forse alcuni peli neri di lupo gli erano spuntati sul corpo - sul petto, all'interno delle cosce, sulla gola - ma erano svaniti così in fretta che nessuno se ne era accorto; anche se uno dei soldati li avesse visti, avrebbe pensato che gli occhi gli stavano giocando un brutto scherzo. Michael rimase disteso sulla pancia, prossimo allo svenimento. Sentì Block dire: «Barone, credo che la sua visita qui da noi sarà molto spiacevole». I soldati afferrarono Gallatin sotto le braccia, lo tirarono su e iniziarono a trascinarlo nella polvere mentre precipitava nell'oscurità. 6. «Riesce a sentirmi?» Qualcuno stava parlando dall'estremità opposta di un tunnel. Di chi era quella voce? «Barone? Riesce a sentirmi?» Oscurità su oscurità. Non rispondere! pensò. Se non rispondi, la persona che sta parlando se ne andrà e ti lascerà riposare! Si accese una luce. Era molto forte: Michael riusciva a vederla attraverso le palpebre. «È sveglio», sentì dire a qualcuno presente nella stanza. «Vede com'è aumentato il battito cardiaco? Oh, sa che siamo qui, assolutamente». Si rese conto che era la voce di Blok. Una mano gli afferrò il mento e gli scosse il viso. «Andiamo, andiamo. Apra gli occhi, barone». Si rifiutò di farlo. «Fategli bere un po' d'acqua», disse il colonnello; immediatamente gli venne gettato in faccia un secchio d'acqua gelata. Sputò, rabbrividendo involontariamente per il freddo, e aprì gli occhi. La luce - un faretto potente messo accanto al suo viso - glieli fece richiudere. «Barone?», disse Blok. «Se si rifiuta di aprire gli occhi, le dovremo asportare le palpebre». Non c'era alcun dubbio che l'avrebbero fatto. Obbedì, socchiudendoli poi a causa della luce violenta. «Bene! Adesso possiamo procedere!» Il colonnello portò vicino al pri-
gioniero una sedia munita di rotelle e si sedette. Michael riusciva a distinguere le altre persone nella stanza: un uomo alto con un secchio gocciolante in mano, un'altra figura - massiccia e carnosa - in una divisa nera delle SS che sembrava scoppiare. Il maggiore Krolle, ovviamente. «Prima di iniziare», disse piano Blok, «la informo che lei è un uomo che non ha più speranze. Non è possibile fuggire da questa stanza. Oltre queste pareti ci sono altre mura». Si sporse in avanti e i denti d'argento brillarono alla luce. «Qui non ha amici e nessuno verrà a salvarla. La distruggeremo... rapidamente o lentamente: questa è l'unica scelta a sua disposizione. Capisce? Annuisca, per favore». Michael era impegnato a cercare di capire come lo avevano legato. Era disteso completamente nudo su un tavolo metallico a forma di x, con le braccia tese sopra la testa e le gambe divaricate. Delle cinghie di cuoio lo legavano strettamente ai polsi e alle caviglie. Il tavolo era inclinato in alto e in avanti, in modo che il prigioniero fosse quasi in posizione eretta. Saggiò la resistenza delle cinghie: non cedettero neppure di mezzo centimetro. «Bauman?», disse Blok. «Mi porti altra acqua, per favore». L'uomo con il secchio - un assistente del maggiore Krolle, dedusse Michael - rispose: «Sì, signore», e attraversò la stanza. Un chiavistello di ferro scattò e un rapido barlume di luce grigia entrò da una porta pesante che si aprì e si chiuse. Blok rivolse di nuovo la sua attenzione al prigioniero. «Mi dica il suo nome e la sua nazionalità». Michael rimase in silenzio. Il cuore gli batteva all'impazzata: era sicuro che Blok se ne fosse accorto. La spalla gli faceva un male d'inferno, anche se probabilmente non era fratturata. Si sentì come se il suo corpo fosse un ammasso di lividi avvolto su uno scheletro di filo spinato. Il colonnello si aspettava una risposta; Gallatin decise di dargliene una: «Richard Hamlet. Sono inglese». «Oh, è inglese, davvero? Un britannico che parla perfettamente il russo? Non credo proprio. Se è davvero tanto inglese, mi dica qualcosa nella sua lingua». Non rispose. Blok trasse un profondo sospiro e scosse la testa. «Credo di preferirla come barone. D'accordo, diciamo per ipotesi che lei sia un agente dell'Armata Rossa. Probabilmente paracadutato in Germania per una missione di assassinio o sabotaggio. Il suo contatto era Chesna von Dome. Come e quando l'ha conosciuta?» Avevano catturato Chesna? si chiese Michael. Negli occhi del suo inqui-
sitore non c'era alcuna risposta a quella domanda. «Qual era la sua missione?», chiese Blok. Gallatin guardò davanti a sé, mentre una vena gli pulsava sulla tempia. «Perché Chesna l'ha portata al Reichkronen?» Ancora nessuna risposta. «In che modo aveva intenzione di uscire dal paese dopo aver completato la missione?» Nessuna risposta. Il colonnello si sporse un po' più vicino. «Ha mai sentito parlare di un uomo chiamato Theo von Frankewitz?» Michael mantenne il viso privo di espressione. «Von Frankewitz sembrava conoscere lei», continuò Blok. «Oh, all'inizio ha cercato di proteggerla, ma gli abbiamo dato dei farmaci molto interessanti. Prima di morire ci ha fornito la descrizione precisa di un uomo che era andato a trovarlo nel suo appartamento. Ci ha detto di avergli mostrato un disegno. Quell'uomo era lei, barone. Ora mi dica, per favore: che interesse può avere un agente segreto russo in un decrepito artista di strada come Frankewitz?» Con un dito dette qualche colpetto alla spalla contusa di Michael. «Non creda di essere coraggioso, barone. È molto stupido, invece. Possiamo imbottirla di farmaci per scioglierle la lingua, ma sfortunatamente non funzionano molto bene se non si è... diciamo... indeboliti. Quindi dobbiamo soddisfare questa condizione. La scelta è sua, barone: come dobbiamo procedere?» Gallatin non rispose. Sapeva cosa lo aspettava e si stava preparando ad affrontarlo. «Capisco», disse Blok. Si alzò e si allontanò dal prigioniero. «Maggiore Krolle? Quando vuole, prego». L'ufficiale delle SS si fece avanti, alzò il bastone di gomma e si mise all'opera. Qualche tempo dopo a Michael venne gettata di nuovo in faccia dell'acqua gelata, che lo ridestò nel regno del diavolo. Tossì e sputò, con le narici ostruite dal sangue. L'occhio destro era tumefatto e chiuso, e tutto quel lato del viso era gonfio di contusioni. Dal labbro inferiore spaccato colava un filo color cremisi che cadeva dal mento sul petto. «È davvero inutile, barone». Blok era di nuovo sulla sedia accanto a Michael. Su un vassoio davanti a lui c'erano un piatto con salsicce e crauti e un bicchiere di cristallo pieno di vino bianco. Il colonnello aveva un tovagliolo infilato nel colletto e stava mangiando la cena servendosi di coltello e forchetta d'argento. «Sa che posso ucciderla quando voglio». Michael soffiò sangue dalle narici. Forse aveva il naso rotto. Tastando
con la lingua trovò un molare allentato. «Il maggiore Krolle vuole ucciderla subito e farla finita», continuò Blok. Masticò un po' di salsiccia e si pulì le labbra con il tovagliolo. «Credo che tra poco diventerà ragionevole. Da dove viene, barone? Da Mosca? Da Leningrado? Da quale distretto militare?» «Sono...» La sua voce era solo un gracidio rauco. Fece un altro tentativo. «Sono un cittadino britannico». «Oh, non ricominci!», lo avvertì il colonnello. Bevve un sorso di vino, «Barone, chi l'ha mandata da Theo von Frankewitz? È stata Chesna?» Michael non rispose. La vista gli si appannava e poi tornava a schiarirsi, e aveva il cervello stordito dalle percosse. «Ecco cosa penso», disse Blok. «Chesna vendeva i segreti militari tedeschi. Non so come sia venuta a conoscenza di Frankewitz, ma supponiamo che sia coinvolta in una rete di traditori. Stava aiutando lei nella sua missione - qualunque fosse - e ha deciso di allettarla con qualcosa che lei poteva portare ai suoi padroni russi. I cani hanno dei padroni, vero? Be', forse la ragazza pensava che lei avrebbe pagato per questa informazione. È così?» Nessuna risposta. Michael fissava un punto al di là del faretto accecante. «Chesna l'ha portata al Reichkronen per assassinare qualcuno, non è così?» Blok tagliò una salsiccia da cui uscì del grasso. «Tutti quegli ufficiali presenti... forse intendeva far saltare in aria l'albergo. Ma mi dica: perché è entrato nella suite di Sandler? Ha ucciso lei il falco, vero?» Quando Michael non rispose, Blok gli rivolse un debole sorriso. «Nessun danno. Odiavo quel maledetto uccello. Ma quando ho trovato tutte quelle piume e quel disastro nell'appartamento, ho capito che doveva essere stata opera sua... specialmente dopo il piccolo dramma in riva al fiume. Ho capito che lei deve aver ricevuto un addestramento da commando, se è riuscito a scendere dal treno di Sandler. L'americano ha dato la caccia a una decina di uomini su quel convoglio, e alcuni erano ex ufficiali caduti in disgrazia: quindi capisce, era chiaro che nessun "barone" coltivatore di tulipani avrebbe potuto sconfiggerlo. Ma le ha dato filo da torcere, vero?» Toccò con la punta del coltello la ferita incrostata di sangue sulla coscia di Michael. «Ora, tornando a Frankewitz: chi altri è a conoscenza del disegno che le ha mostrato?» «Dovrà chiederlo a Chesna», rispose Gallatin, cercando di scoprire se era stata catturata. «Sì, lo farò. Ci può contare. Ma per il momento lo sto chiedendo a lei.
Chi altri sa del disegno?» Non l'avevano presa, pensò Michael. O forse era solo una vaga speranza. La sicurezza di quel disegno era basilare per Blok. Il colonnello finì la salsiccia e bevve il vino, aspettando che l'agente segreto russo rispondesse. Alla fine si alzò, scostando la sedia. «Maggiore Krolle?», chiamò, facendogli cenno di venire avanti. L'ufficiale delle SS uscì dal buio. Il bastone di gomma era alzato; i muscoli contusi di Michael si tesero. Non era ancora pronto per un altro pestaggio: doveva prendere tempo. Disse: «So tutto del Pugno di Ferro». Il bastone cominciò ad abbassarsi, diretto al volto della spia. Prima che potesse colpirlo, una mano afferrò il polso di Krolle e ne frenò la discesa. «Un attimo», disse Blok. Il colonnello fissò Gallatin. «È solo una frase», commentò. «Due parole che lei ha ottenuto da Frankewitz. Non avevano alcun significato per lui e non lo hanno per lei». Era arrivato il momento di fare un salto nel buio. «Gli alleati forse non la penseranno così». Nella stanza cadde il silenzio, come se il solo nominare gli alleati avesse il potere di congelare carne e sangue. Blok continuò a fissare Michael con il volto che non tradiva alcuna emozione. Poi parlò: «Maggiore Krolle, esca dalla stanza, prego. Anche lei, Bauman». Attese che i due militari uscissero, poi cominciò a camminare avanti e indietro sul pavimento di pietra, con le mani dietro la schiena e il corpo piegato leggermente in avanti. Si fermò improvvisamente. «Sta bluffando. Non sa un accidente del Pugno di Ferro». «So che lei è a capo della sicurezza del progetto», rispose Michael, scegliendo con cura le parole. «Immagino che non mi abbia portato al quartier generale della Gestapo a Berlino perché non vuole che i suoi superiori scoprano che c'è stata una falla nella sicurezza». «Non c'è stata alcuna falla. E poi non so di che progetto sta parlando». «Oh, sì che lo sa. Temo che non sia più un segreto». Blok si avvicinò a Gallatin e si chinò su di lui. «Davvero? Allora mi dica, barone: cos'è il Pugno di Ferro?» Il suo fiato odorava di salsiccia e crauti. Era giunto il momento della verità. Michael si rendeva conto benissimo che un'unica frase poteva essere la sua sentenza. Disse: «Il dottor Hildebrand ha creato qualcosa di un po' più potente di uno spray antiparassitario, vero?» Un muscolo si contrasse nella guancia scarna di Blok. A parte questo, il colonnello non si mosse.
«È vero, sono entrato nella suite di Sandler», continuò Gallatin. «Ma prima sono entrato nella sua. Ho trovato la sua cartella e le fotografie dei soggetti degli esperimenti di Hildebrand. Prigionieri di guerra, immagino. Da dove li fate venire? Da qui? Da altri campi?» Blok strinse gli occhi. «Facciamo qualche ipotesi», suggerì Michael. «Inviate dei prigionieri di guerra da diversi campi. Arrivano al laboratorio di Hildebrand sull'isola di Skarpa». Il viso del colonnello si era fatto un po' più grigiastro. «Oh... credo che mi farebbe piacere un sorso di vino, grazie», disse Gallatin. «Per bagnarmi la gola». «Ti taglierò la gola, figlio di puttana di uno slavo!», sibilò Blok. «Non credo. Un sorso di vino, per favore?» Il colonnello rimase immobile. Alla fine un sorriso gelido si dipinse sulla sua bocca. «Come desidera, barone». Prese il bicchiere di vino bianco dal vassoio e lo appoggiò alle labbra di Michael, permettendogli di bere solo un sorso prima di allontanarlo. «Continui con questa sua fantasiosa ipotesi». Michael si leccò il labbro inferiore gonfio e sentì il pizzicore del vino. «I prigionieri sono sottoposti agli esperimenti di Hildebrand. Finora più di trecento persone, se ricordo bene. Presumo che lei parli regolarmente con il dottore. Probabilmente si serviva di quelle foto per mostrare ai suoi superiori come sta procedendo il progetto. Ho ragione?» «Sa, questa stanza è molto strana», disse Blok guardandosi intorno. «Si sentono parlare i morti». «Vorrebbe uccidermi, ma non lo farà. Entrambi sappiamo quanto sia importante il Pugno di Ferro». Un altro salto nel buio che colpì il bersaglio: il colonnello lo fissò di nuovo. «I miei amici a Mosca sarebbero entusiasti di passare queste informazioni agli alleati». L'allusione di Michael andò a segno. Blok disse: «E chi altri ne è a conoscenza?» La sua voce aveva un tono stridulo e forse tremava leggermente. «Chesna non è l'unica». Decise di menare per il naso il colonnello. «Era insieme a lei, mentre io ero nella sua suite». Il colpo andò a segno. Per un istante Blok ebbe un'espressione sconvolta quando si rese conto che qualcuno del personale del Reichkronen doveva essere un traditore. «Chi le ha dato la chiave?» «Non l'ho mai saputo. È stata consegnata nella suite di Chesna durante l'incontro del Brimstone Club. L'ho restituita lasciandola in un vaso da
fiori al secondo piano». Finora tutto bene, pensò. A Blok non sarebbe mai venuto in mente che Michael era sceso lungo il muro del castello. Inclinò la testa da un lato. Il cuore gli batteva forte e si rendeva conto che stava giocando una sciarada pericolosa, ma doveva guadagnare tempo. «Sa, credo che abbia ragione su questa stanza. Si sente davvero la voce di un colonnello morto». «Mi prenda in giro se vuole, barone», disse Blok con un sorriso tirato e due vivide chiazze rosse sulle guance. «Basterà qualche iniezione di siero della verità e mi dirà tutto». «Credo che scoprirà che sono un po' più resistente di Frankewitz. E poi non posso dirle quello che non so. La chiave è stata consegnata e l'ho restituita in una busta insieme alla pellicola». «Pellicola? Quale pellicola?» Il tremolio ora era più evidente. «Be', non potevo certo entrare nella sua suite senza essere preparato, no? Ovviamente avevo una macchina fotografica. Fornita anch'essa dall'amico di Chesna. Ho fotografato le immagini nella sua cartella. Oltre a quelle di altri documenti, quelli che sembravano fogli di un libro contabile». Il colonnello rimase in silenzio, ma Michael sapeva cosa stava pensando: i segreti di cui era responsabile erano stati scoperti, probabilmente un corriere li stava portando in Unione Sovietica e il Reichkronen era un covo di traditori. «È un bugiardo», disse infine Blok. «Se fosse vero, non mi rivelerebbe tutto così facilmente». «Non voglio morire. E neppure essere torturato. E comunque le informazioni sono già state trasmesse. Ora non può fare più niente». «Oh, non sono d'accordo. Non sono affatto d'accordo». Il colonnello allungò una mano verso il vassoio e afferrò la forchetta. Andò accanto a Michael, con il volto chiazzato di rosso. «Raderò al suolo il Reichkronen e farò giustiziare tutti, dagli idraulici al direttore, se sarà necessario. Lei, mio caro barone, mi dirà tutto su come e dove ha conosciuto Chesna, quale sarebbe stata la vostra via di fuga e molto altro. E ha ragione: non la ucciderò». Conficcò i rebbi della forchetta nella carne del braccio sinistro di Gallatin e la ritrasse. «Dopotutto, ha un certo valore». La conficcò di nuovo, questa volta nella spalla. Michael sobbalzò, con il volto sudato. Blok ritrasse la forchetta. «La divorerò», disse il colonnello, poi spinse i rebbi nel petto di Gallatin, appena sotto la gola. «Come un pezzo di carne. La masticherò, digerirò quello che mi serve e sputerò il resto». Estrasse la forchetta macchiata di sangue. «Anche se lei sa del Pugno di Ferro - e del dottor Hildebrand e dell'isola di Skarpa - non sa come verrà usato. Nessu-
no sa dove si trova la fortezza tranne me, il dottor Hildebrand e pochi altri la cui lealtà è fuori discussione. Quindi non lo sanno neppure i russi, che così non possono trasmettere queste informazioni ai britannici e agli americani, no?» Conficcò la forchetta nella guancia sinistra di Michael, poi la estrasse e assaggiò il sangue. «Questa», disse Blok, «è solo la prima portata». Spense bruscamente il faretto. Gallatin lo sentì attraversare la stanza. La pesante porta si aprì. «Bauman», disse il colonnello, «porta questo rifiuto in una cella». Michael aveva trattenuto il fiato, che liberò con un sibilo tra i denti. Almeno per il momento non ci sarebbero state altre torture. Bauman entrò insieme ad altri tre soldati. Slegarono i polsi e le caviglie del prigioniero, lo tirarono su dal tavolo a x, e sotto la minaccia del fucile lo guidarono lungo un corridoio dal pavimento di pietra. «Cammina, porco!», ringhiò Bauman, un giovanotto magro con gli occhiali rotondi e un viso lungo e smunto, spingendo avanti Michael. Da entrambi i lati del passaggio c'erano porte di legno alte un metro, munite di chiavistelli di ferro all'altezza del pavimento. Nelle porte c'erano dei piccoli pannelli quadrati che potevano essere aperti per far passare l'aria, ipotizzò Gallatin, o permettere la consegna di cibo e acqua. Il posto puzzava di umido e di vecchio, con tracce di paglia fradicia, escrementi umani, sudore e pelle non lavata. Un canile per bestie selvatiche, pensò Michael. Sentì i gemiti animaleschi e i borbottii dei suoi compagni di prigionia. «Fermo», ordinò Bauman. In posizione rigidamente eretta, guardò Gallatin senza alcun interesse. «In ginocchio». Michael esitò. Due fucili lo pungolarono sulla schiena. Si chinò e uno dei militari fece scattare il chiavistello con un cigolio arrugginito. Qualcosa corse via dietro la porta. Bauman la aprì. Un'ondata bollente e nauseabonda di aria viziata si riversò sulla faccia di Gallatin. Nella maleodorante oscurità riuscì a distinguere cinque o sei corpi umani scheletrici, e forse altri rannicchiati contro le pareti. Il pavimento era coperto di paglia sudicia e il soffitto era ad appena un metro e mezzo di altezza. «Dentro», disse Bauman. «Misericordia di Dio! Misericordia di Dio!», gridò un uomo pelato ed emaciato con gli occhi sporgenti, poi barcollando si diresse in ginocchio verso la porta, con le braccia sollevate e il petto incavato coperto di piaghe purulente. Si fermò tremante e guardò speranzoso Bauman, sbattendo la palpebre nell'oscurità.
«Ho detto dentro», ripeté il nazista. Due secondi dopo uno dei soldati sferrò a Michael un calcio nelle costole con lo stivale e gli altri lo spinsero nello stanzino infernale e sbatterono la porta. Il chiavistello di ferro si chiuse cigolando. «Misericordia di Dio! Misericordia di Dio!», continuò a gridare il prigioniero, finché una voce aspra dal fondo della cella lo zittì dicendo: «Taci, Metzger! Nessuno ti sta ascoltando!» 7. Disteso sul fieno rappreso di sporcizia, in quell'oscurità maleodorante con gli altri prigionieri che farfugliavano e si lamentavano nel sonno, Michael avvertì un senso di tristezza scivolargli lentamente addosso come un sudario di seta. La vita è un bene prezioso: come possono alcuni uomini arrivare a detestarla tanto? Pensò al fumo scuro rigurgitato dalle ciminiere che appestava l'aria con il puzzo di carne bruciata. Pensò a cassette di legno di pino piene di capelli: qualcuno - un padre o una madre - in un mondo più umano aveva pettinato quei capelli, li aveva accarezzati, aveva baciato la fronte su cui ricadevano. Adesso erano destinati a diventare parrucche e i corpi da cui provenivano a finire in fumo. In quel posto veniva distrutto qualcosa di più che semplici esseri umani: erano interi universi ad essere ridotti in ceneri bianche. E per cosa? Per il Lebensraum - il tanto esaltato "spazio vitale" di Hitler - e per delle croci di ferro? Pensò a Mouse riverso senza vita tra i rovi, al collo di quell'uomo minuto spezzato con un gesto rapido e pietoso. Ebbe una stretta al cuore: forse uccidere era nella sua natura, ma ben lungi dal procurargli piacere. Mouse era stato un buon amico. Avrebbe potuto avere un epitaffio migliore? Piangere un singolo essere umano in quella terra lacerata dalla morte sarebbe stato come trovarsi in una casa in fiamme e avere cura di spegnere una candela. Distolse la mente dal ricordo di Boots che schiacciava con un piede la mano morta per strapparne via la medaglia. Aveva gli occhi umidi e capì che avrebbe potuto anche impazzire in quel buco infernale. Qualcosa che Blok aveva detto. Cosa? Michael cercò di concentrarsi senza pensare alla carneficina. Qualcosa che il colonnello aveva detto di una fortezza. Sì, proprio così. Le parole di Blok: Nessuno sa dove si trova la fortezza tranne me, il dottor Hildebrand e pochi altri... La fortezza. Di quale fortezza parlava? L'isola di Skarpa? Michael non ne era del tutto sicuro: Chesna non aveva avuto nessuna difficoltà a scopri-
re che Hildebrand aveva una casa e un laboratorio su Skarpa. Non era un segreto custodito gelosamente. E allora, a quale fortezza aveva potuto alludere Blok e cosa c'entrava con l'uso a cui era destinato il Pugno di Ferro? Michael pensò ai fori di proiettile sul vetro e sul metallo verniciato di verde. Un verde oliva. Perché proprio quel colore? Era immerso in quelle riflessioni, quando delle dita gli toccarono il viso. Colto alla sprovvista, ebbe un sussulto e afferrò il polso esile di una figura appena delineata nel fioco contorno azzurrognolo. Si sentì un gemito soffocato e la figura diede uno strattone per divincolarsi, ma Michael non mollò la presa. Un'altra sagoma, più massiccia della prima ma anch'essa delineata dalla luce azzurrognola della vista notturna di Michael, si staccò dall'oscurità alla sua destra. Il guizzo di un braccio, e un pugno che andò a schiantarsi sul cranio di Michael e gli fece rintronare le orecchie. Un secondo colpo gli sfiorò la fronte proprio mentre si accovacciava per schivarlo. Pensò che volessero ucciderlo. Fu colto da un moto di panico. Erano affamati e volevano nutrirsi di carne umana cruda? Lasciò andare la prima figura, che si affrettò a trovare scampo in un angolo lontano, e si concentrò sull'altra, più grande e più forte. Volò un terzo colpo. Michael diede un fendente all'incavo del gomito e sentì compiaciuto un grugnito di dolore. Vide il contorno di una testa e i tratti appena accennati di un viso. Tirò con violenza un pugno a quel volto. Risuonò lo schiocco di un naso grosso e tondo che si rompeva. «Guardie!», urlò una voce maschile in francese. «Guardie! Aiuto!» «Misericordia di Dio! Misericordia di Dio!», riprese a gridare la voce a pieni polmoni. «Smettetela, idioti!», disse un'altra voce maschile, questa volta in tedesco con un forte accento danese. «Finirete per consumare tutta l'aria!» Un paio di braccia nerborute si intrecciarono intorno al petto di Michael, che gettò la testa all'indietro colpendo in pieno viso un altro uomo. Le braccia persero forza. La grossa figura con il naso rotto aveva ancora voglia di lottare. Un pugno si abbatté sulla spalla contusa di Gallatin, strappandogli un urlo di dolore. Poi sentì delle dita stringergli la gola e il peso di un corpo che gli si schiacciava addosso. Sollevò il palmo della mano e diede un colpo deciso e violento alla punta del mento coperto di barba dell'uomo. Sentì il suono dei denti che sbattevano, intrappolando forse anche parte della lingua. L'uomo grugnì, senza però smettere di stringergli la gola, cercando di schiacciargli la trachea.
Uno strillo assordante si levò su tutte le altre voci concitate. Era la voce di una giovane donna, e si andò facendo sempre più forte e isterico. La piccola feritoia della porta del canile si aprì e l'estremità d'ottone di una pompa vi fu spinta attraverso. «Attenzione!», avvertì il danese. «Stanno per...» Dalla lancia schizzò fuori un potente getto d'acqua che andò a colpire i prigionieri e sbalzò via Michael e il suo aggressore, separandoli. Gallatin si trovò sbattuto contro un muro, flagellato dal getto d'acqua. Lo strillo della ragazza si trasformò in un tossire strozzato e il francese che aveva urlato fu ridotto in silenzio dalla violenza dell'acqua che gli percuoteva il fragile corpo. Trascorsi alcuni secondi, il getto d'acqua cessò, la pompa fu ritirata e la feritoia della porta richiusa. Era tutto finito, ma non i lamenti. «Tu! Quello nuovo!» Era la stessa voce aspra che aveva detto a Metzger di chiudere la bocca, solo che adesso parlava con una brutta ferita alla lingua. E in un russo volgare. «Tocca un'altra volta la ragazza e ti spezzo il collo, capito?» «Non voglio farle del male», rispose Michael nella sua lingua materna. «Credevo che mi stesse attaccando». Per qualche istante non ci fu risposta. Metzger singhiozzava e qualcun altro cercava di calmarlo. L'acqua colava giù dai muri e si raccoglieva in pozze sul pavimento; nell'aria si sentiva un tanfo di sudore e vapore. «La ragazza è fuori di testa», disse il russo a Michael. «Avrà più o meno quattordici anni, almeno credo. Impossibile dire quante volte è stata violentata. E a un certo punto qualcuno l'ha accecata con un ferro rovente». «Mi dispiace». «Perché?», chiese il russo. «Sei stato tu?» Soffiò del sangue dal naso rotto. «Mi hai dato proprio una bella botta, figlio di puttana. Come ti chiami?» «Gallatinov», rispose. «Io Lazaris. I bastardi mi hanno preso a Kirovograd. Ero un pilota di caccia. E tu?» «Io un semplice soldato», disse Michael. «Mi hanno preso a Berlino». «Berlino?» Lazaris rise e soffiò altro sangue. «Ah! Questa è buona! Bene compagni, presto marceremo attraverso Berlino. Metteranno a fuoco tutta quella stramaledetta città e faranno un brindisi alle ossa di Hitler. Spero che lo prendano, quel bastardo. Non ti piacerebbe vederlo dondolare nella Piazza Rossa, appeso a un gancio da macellaio?» «Potrebbe succedere».
«Mai, non succederà mai. Non riusciranno a prendere Hitler vivo, poco ma sicuro. Hai fame?» «Sì». Per la prima volta da quando l'avevano gettato in quel buco, Michael pensò al cibo. «Tieni. Allunga la mano e fatti un banchetto». Michael fece come gli era stato detto. Lazaris cercò la sua mano nel buio, l'afferrò con le dita filiformi e gli mise qualcosa nel palmo. Michael l'annusò: un mucchietto di pane che puzzava di rancido per la muffa, ma in un posto come quello non si rifiuta quello che ti viene dato. Mangiò il pane, masticando lentamente. «Di dove sei, Gallatinov?» «Leningrado». Ingoiò il pane, passandosi la lingua sui denti alla ricerca di molliche. «Io sono originario di Rostov, ma ho vissuto in ogni parte della Russia». Iniziò così il racconto della storia di Lazaris. Aveva trentuno anni e suo padre era un "tecnico specializzato" delle forze aeree sovietiche... il che, in parole povere, voleva dire che il padre era a capo di una squadra di meccanici. Lazaris continuò a raccontare della moglie e dei suoi tre figli maschi tutti sani e salvi a Mosca - delle quaranta e più missioni sul suo Yak-1 e dei dodici aerei della Luftwaffe che aveva abbattuto. «Stavo per abbattere il tredicesimo», disse il russo con voce piena di nostalgia, «quando altri due sono spuntati dalle nuvole proprio sopra la mia testa. Hanno ridotto il mio povero Warhammer in pezzi e ho dovuto lanciarmi col paracadute. Sono atterrato a nemmeno trecento metri da una postazione di mitragliatrici». Nel buio Michael non riusciva a distinguere il volto dell'uomo, ma vide il suo contorno azzurrognolo stringere le spalle. «In aria sono coraggioso. A terra, mica tanto. Ed eccomi qua». «Warhammer?», ripeté Michael. «Era il tuo aereo?» «Sì, gli avevo dato un nome. E l'avevo scritto con la vernice anche sulla fusoliera. Oltre a una svastica per ogni aereo abbattuto. Ah, era bellissimo, una gran bella bestia». Sospirò. «Sai, non l'ho visto precipitare. E forse è meglio così. A volte mi piace pensare che è ancora lassù, a girare sulla Russia. Tutti i piloti della mia squadriglia davano un nome ai loro aerei. Pensi che sia infantile?» «Niente che aiuti un uomo a restare vivo è infantile». «Precisamente quello che penso anche io. Gli americani fanno la stessa cosa. Oh, dovresti vedere i loro aerei! Dipinti come baldracche del Volga soprattutto i loro bombardieri di lungo raggio - ma capaci di combattere
come cosacchi. Cosa non avrebbe potuto fare la nostra aviazione con apparecchi come quelli!» Lazaris raccontò a Michael che era stato deportato di campo in campo e che era a Falkenhausen da sei o sette mesi. Almeno così gli sembrava. Era stato sbattuto in quel canile da poco, forse un paio di settimane, ma era difficile calcolare il trascorrere del tempo in un posto come quello. Impossibile sapere perché fosse lì, ma gli mancava la vista del cielo. «Quell'edificio con le ciminiere», azzardò Gallatin. «Che succede là dentro?» Il russo non rispose. Michael poteva sentire il rumore delle dita dell'uomo che grattavano la barba. «Mi manca il cielo, davvero», disse Lazaris dopo un po'. «Le nuvole, l'azzurro dei suoi spazi liberi. Mi bastava riuscire a vedere un uccello ed ero felice tutto il giorno. Ma non ci sono molti uccelli a volare su Falkenhausen». Cadde in silenzio. Metzger stava di nuovo singhiozzando, un suono tremendo e spezzato. «Cantategli qualcosa», disse Lazaris, parlando in un tedesco rozzo ma efficace. «Gli piace quando gli cantano qualcosa». Nessuno cantò. Michael era seduto sul fieno inzuppato d'acqua con le ginocchia strette al petto. Qualcuno emise un debole grugnito, seguito dal gorgoglio di una scarica di diarrea. Dall'altra parte della cella, a non più di un paio di metri da lui, sentì la ragazza cieca piagnucolare. Riusciva a distinguere il tenue contorno azzurrognolo di sei figure. Alzò una mano e toccò il soffitto. Nel canile non entrava nemmeno un filo di luce. Ebbe la sensazione che il soffitto si muovesse... e anche i muri: che l'intera cella si stesse rimpicciolendo per schiacciarli fino a ridurli in poltiglia. Era solo una sensazione, ma mai in tutta la sua vita aveva desiderato tanto una boccata d'aria fresca e la vista di una foresta. «Calma», si disse, «calma». Sapeva di essere in grado di sopportare il dolore e le difficoltà più di un normale essere umano, perché da sempre parte integrante della sua vita. Ma quella reclusione era una tortura per il suo spirito e sapeva che avrebbe potuto non farcela in un posto del genere. Calma. Non c'era modo di prevedere quando avrebbe rivisto la luce del sole, e doveva mantenere il controllo. Il controllo era l'essenza stessa del lupo. Senza controllo un lupo non aveva alcuna possibilità di sopravvivere. Non poteva - non doveva rassegnarsi, anche in quell'antro di disperazione. Era riuscito a sviare Blok, mettendolo sulle tracce di un inesistente covo di traditori al Reichkronen, ma per quanto tempo ancora? Prima o poi avrebbero ricominciato a torturarlo, e allora...
Calma, si disse. Non pensarci. Sarà quando sarà, non prima. Aveva sete. Leccò il muro bagnato alle sue spalle e raccolse con la lingua un sorso sufficiente a dissetarlo. «Lazaris?», chiamò Michael dopo un po'. «Che c'è?» «Se si riuscisse a uscire di qui, c'è un punto debole da qualche parte, nel campo? Un posto in cui si possa scavalcare il muro?» Lazaris grugnì. «Stai scherzando, vero?» «No. Sicuramente le guardie si danno il cambio, i cancelli vengono aperti per far entrare e uscire i camion, si potrebbe scavare un cunicolo. Non c'è un comitato di fuga qui? Qualcuno ha mai cercato di scappare?» «No», disse Lazaris. «La gente qui è già fortunata se riesce a camminare, figuriamoci correre, arrampicarsi o scavare. Non c'è nessun comitato di fuga, perché è impossibile. Adesso toglitelo dalla testa, altrimenti impazzisci». «Deve esserci un modo per andarsene», insisté Michael. Avvertì una nota di disperazione nella propria voce. «Quanti prigionieri ci sono qui?» «Con sicurezza non lo so. Forse più o meno quarantamila nel campo maschile. Forse altri ventimila in quello femminile. Naturalmente vanno e vengono in continuazione. Ogni giorno il treno arriva qui dentro con un nuovo carico». Michael era sbalordito. Sessantamila prigionieri, senza voler esagerare. «E quante guardie?» «È difficile dirlo. Sette, ottocento, forse un migliaio». «I prigionieri sono in superiorità numerica di uno a sei? E nonostante questo nessuno ha cercato di fuggire?» «Gallatinov», disse il russo con tono stanco, come se si rivolgesse a un ragazzino capriccioso, «io non conosco nessuno in grado di correre più svelto di una mitragliatrice. O che abbia voglia di provarci. Le guardie hanno anche dei cani: dobermann. Ho visto cosa sono capaci di fare con le loro zanne alla carne umana, e ti assicuro che non è un bello spettacolo. E poi, se per uno straordinario miracolo un prigioniero riesce a evadere da Falkenhausen, dove può andare quel disgraziato? Siamo nel bel mezzo della Germania. Da qui tutte le strade portano a Berlino». Si spostò carponi di qualche metro e si appoggiò con la schiena al muro. «Per me e per te la guerra è finita», disse calmo. «Non ci pensare». «Col cavolo», gli disse Michael e urlò dentro si sé. Era difficile giudicare quanto tempo fosse passato. Forse un'ora o due
dopo, Gallatin notò segni di impazienza nei prigionieri. Improvvisamente sentì il rumore del chiavistello del canile accanto che veniva aperto. I prigionieri erano tutti in ginocchio, tremanti in attesa. Poi fu tolto il catenaccio anche al loro canile e la porta si spalancò, lasciando entrare una luce accecante. Lanciarono dentro una pagnotta piccola e nera, completamente coperta da venature di muffa verde; i prigionieri vi si avventarono, strappandone i pezzi. «Portate la spugna!», disse uno dei soldati nel corridoio. Lazaris si fece avanti carponi, con una spugna grigia in mano. Una volta doveva essere stato un tipo robusto, ma adesso la carne gli si era assottigliata sulle grandi ossa. Ciocche di capelli castano scuro gli ricadevano sulle spalle, la barba era coperta di grumi di fieno e di sporco, la carne del volto era tesa sugli zigomi sporgenti e gli occhi erano ridotti a due buchi scuri nel pallore della pelle. Il naso, una protuberanza notevole che avrebbe suscitato il rispetto anche di quello di Cirano, era sporco di sangue rappreso intorno alle narici, gentile omaggio di Michael. Lanciò un'occhiata a Gallatin passandogli accanto carponi; Michael si ritrasse: gli occhi di Lazaris erano quelli di un uomo morto. Il russo immerse la spugna in un secchio d'acqua sporca e la ritirò gonfia di liquido. Il secchio fu trascinato via, la porta del canile richiusa con violenza - un suono disumano - e il chiavistello di ferro reinserito al suo posto. Nel corridoio si sentì aprire il canile successivo. «È ora di cena!», disse Lazaris, strisciando di nuovo davanti a Michael. «Tutti a bere dalla spugna. Ehi voi, bastardi! Lasciatene un po' per il mio compagno!» Si sentì il rumore di una zuffa breve e conclusiva, poi Lazaris diede un colpo di gomito al braccio di Gallatin. «Ecco qui», disse mettendogli in mano un pezzo di pane umido. «Maledetto francese, cerca sempre di prendere più di quello che gli spetta. Devi essere veloce qui, se vuoi qualcosa di meglio di una crosta». Michael sedette a masticare il pane con la schiena appoggiata alle pietre ruvide, lo sguardo fisso nel vuoto. Gli occhi gli pizzicavano. Gli spuntarono le lacrime e presero a scivolargli lungo le guance, ma non sapeva per chi. 8. Si sentì nuovamente cigolare il chiavistello. Michael si ritrovò d'un tratto accovacciato, risvegliato da un incubo po-
polato di ciminiere e del loro fumo nero che ricopriva la terra. Si aprì la porta. «Mandate fuori la ragazza!», ordinò uno dei tre soldati all'esterno. «Per favore», disse Lazaris con la voce roca di sonno. «Per favore, lasciatela in pace. Non ha sofferto abb...» «Mandate subito fuori la ragazza!», disse nuovamente il soldato. La giovane si era svegliata e se ne stava tremante in un angolo. Emise un mugolio flebile, come un coniglio in trappola. Michael aveva raggiunto il massimo della sopportazione. Si accovacciò davanti alla porta, gli occhi verdi che gli brillavano al di sopra della massa scura della barba che gli era cresciuta. «Se la vuoi così tanto», disse in tedesco, «allora entra e prenditela». Si sentì lo scatto del grilletto di una pistola e una canna gli venne puntata contro. «Fuori dai piedi, parassita». «Gallatinov!» Lazaris lo strattonò. «Sei pazzo?» Michael rimase dov'era. «Avanti, figli di puttana. Tre contro uno. Che aspettate?» Gridò: «Avanti!» Nessuno dei tedeschi accettò l'invito. Michael aveva considerato il fatto che non gli avrebbero sparato, perché sapevano che Blok e Krolle non avevano ancora finito con lui. Uno dei soldati raccolse della saliva in bocca e gli sputò addosso. La porta fu quindi sbattuta e il chiavistello rimesso al suo posto. «Ora l'hai combinata bella!», disse Lazaris agitato. «Dio solo sa cosa sei andato a stuzzicare!» Michael si voltò di scatto e lo afferrò per la barba. «Ascoltami», disse. «Se vuoi dimenticare di essere un uomo, per me va bene, ma io non me ne starò sdraiato qui a lamentarmi per il resto della mia vita! Hai protetto la ragazza quando pensavi che la volessi; perché non la proteggi da quei bastardi?» «Perché» - Lazaris liberò la barba dalla stretta di Michael - «tu sei solo e loro un esercito». Si sentì di nuovo il rumore del catenaccio. «Misericordia di Dio!», urlò Metzger. La porta si aprì. Nel corridoio adesso c'erano sei soldati. «Tu!», Il fascio di una torcia elettrica trovò il viso di Michael. «Vieni fuori da lì!» Era la voce di Bauman. Michael non si mosse. «Non sarà piacevole per te, se dovremo trascinarti fuori», minacciò Bauman. «Non lo sarà nemmeno per il crucco che ci proverà».
Bauman tirò fuori dalla fondina una Luger. «Prendetelo!», disse agli altri soldati. Esitavano. «Prendetelo, ho detto!», tuonò dando un calcio nel sedere a quello più vicino. Il primo soldato si accovacciò ed entrò nel canile. Allungò la mano per afferrare il braccio di Michael, ma Gallatin gli premette sul viso una manciata di fieno lurido, a cui fece seguire un cazzotto alla mascella che risuonò come un colpo di fucile. Un secondo uomo si lanciò attraverso la porta, e subito dopo un terzo. Michael scansò un pugno e menò un fendente alla gola del secondo soldato con il piatto della mano. Il terzo militare riuscì a colpirlo alla mascella con un colpo di traverso, un quarto gli si lanciò addosso avvinghiandogli un braccio alla gola. La ragazza si mise a urlare... un grido acuto, lacerante, che racchiudeva in sé anni di terrore. Quel suono - così simile all'ululato di un lupo nella notte - galvanizzò Michael. Spinse indietro i gomiti e colpì il torace del soldato che cercava di strangolarlo. Il soldato emise un grugnito di dolore allentando la presa e Michael riuscì a divincolarsi. Un pugno lo colpì alla spalla contusa e un altro alla testa. Si liberò di uno degli assalitori con violenza tale da sbatterlo contro il muro. Un ginocchio gli colpì con forza la schiena e delle dita gli si strinsero sugli occhi. Si sentì un urlo lancinante di dolore; all'improvviso il soldato che aveva cercato di cavargli gli occhi cominciò a dimenarsi per scrollarsi di dosso la figura emaciata che gli era saltata contro. Metzger gli aveva affondato i denti nella guancia e gli stava dilaniando le carni come un terrier impazzito. Michael sferrò un calcio che raggiunse un altro soldato sulla punta del mento, scaraventandolo fuori dalla porta e facendolo sbattere contro le gambe di Bauman, che si portò un fischietto alla bocca e cominciò a emettere trilli rapidi e penetranti. Un pugno sfrecciò davanti alla testa di Gallatin per andare a finire con un tonfo contro il viso di un tedesco: era Lazaris, che con un ruggito rauco sferrò un altro cazzotto, questa volta spaccando il labbro superiore del soldato e facendone sprizzare un getto rosso, per afferrare poi la guardia, a cui era volato via il berretto da SS, per i capelli e colpendolo in fronte con una testata, con un rumore come quello di un'ascia che colpisce un tronco. Un manganello si levò, simile alla testa di un cobra, ma Michael afferrò il polso della guardia prima che potesse sferrare il colpo e lo colpì con un pugno sotto l'ascella. Sentì una folata d'aria alle spalle. Non ebbe il tempo di voltarsi e il calcio di un fucile lo colpì in mezzo alla schiena, tra le scapole, mozzandogli il fiato. Il manganello gli si abbatté sul braccio appena
sopra il gomito, immobilizzandoglielo per il dolore. Un pugno lo raggiunse alla nuca stordendolo... e, sebbene continuasse a lottare furiosamente, seppe che ormai per lui era finita. «Portatelo fuori!», urlò Bauman, mentre altri soldati arrivavano in suo soccorso. «Avanti, presto!» Il padrone del manganello prese a colpire Lazaris e Metzger, spingendoli contro il muro. Altri due soldati afferrarono la ragazza e cominciarono a trascinarla fuori. Michael fu sbattuto sul pavimento del corridoio, dove Bauman gli piazzò uno stivale sulla gola. Le altre guardie, molte ferite e sanguinanti, si affrettarono a uscire dal canile. Gallatin sentì lo scatto dell'otturatore di una mitraglietta. Sollevò gli occhi annebbiati dal dolore, e vide una guardia puntare il suo Schmeisser nel canile. «No!», rantolò Michael, lo stivale di Bauman sempre premuto sulla gola. La mitraglietta sparò due brevi raffiche tra gli altri cinque prigionieri, mentre le cartucce vuote cadevano a terra con un rumore metallico. «Ferma!», urlò Bauman, poi con la canna della pistola deviò lo Schmeisser verso il soffitto. Un'altra veloce raffica finì a sforacchiare il muro, facendo piovere schegge e polvere tutt'attorno. «Nessuno spari senza ricevere un ordine preciso!», disse furioso, con uno sguardo selvaggio dietro gli occhiali. «Mi hai capito?» «Sì, signore», replicò la guardia. Rimise intimorito la sicura alla sua arma fumante e l'abbassò lungo il fianco. Bauman era paonazzo. Levò il piede dal collo di Michael. «Lo sai che bisogna rendere conto di ogni cartuccia», urlò al soldato che aveva sparato. «Dovrò passare un'intera settimana a riempire rapporti per quei maledetti colpi!» Si avvicinò con disprezzo al canile. «Richiudetelo! E voi fate alzare questo mucchio di spazzatura!» Si avviò a lunghi passi per il corridoio; Michael fu obbligato a seguirlo con la testa che gli martellava e le ginocchia che lo sorreggevano a stento. Lo riportarono nella stanza con il tavolo di metallo a forma di X. Una lampadina accesa pendeva dal soffitto. «Legatelo al tavolo», disse Bauman. Michael ricominciò a lottare, terrorizzato all'idea di quelle cinghie che gli tagliavano la carne, ma era ormai privo di forze e la questione fu presto risolta. Le cinghie furono strette forte. «Lasciateci soli», disse Bauman ai soldati. Quando se ne furono andati, si tolse gli occhiali e si mise a pulire le lenti con un fazzoletto, senza fretta. Michael notò che gli tremavano le mani.
Bauman si rimise gli occhiali. Aveva il viso tirato, con profondi cerchi scuri sotto gli occhi. «Qual è il tuo vero nome?», chiese. Gallatin rimase in silenzio. La testa gli si stava piano piano schiarendo, ma la schiena e le spalle gli dolevano ancora maledettamente. «Voglio dire, come ti chiamano in Gran Bretagna», continuò Bauman. «Farai meglio a parlare subito, amico mio! Nessuno può dire quando Krolle sarà di nuovo qui... e ha una gran voglia di usare il manganello su te!» Michael era confuso. Il tono di Bauman era cambiato: era pressante, non arrogante. Pensò che si trattasse di un trucco. Certo, un trucco! «Chesna von Dome non è stata ancora presa». Bauman fece sollevare il tavolo, mettendo Michael quasi dritto, e lo bloccò in quella posizione. «I suoi amici - i nostri amici - la stanno aiutando a nascondersi. Sta anche lavorando ai preparativi». «Preparativi?» Sentiva sulla gola i lividi lasciati dalla pressione dello stivale di Bauman. «Quali preparativi?» «Per farti uscire da qui. E per trovare un aereo e organizzare le soste di rifornimento. Il vostro piano era di andare in Norvegia, no?» Michael rimase senza parole per la sorpresa. Doveva essere un trucco! Dio mio! Pensò che Chesna fosse stata catturata e avesse spifferato tutto! «Ascoltami molto attentamente». Bauman fissò Michael negli occhi. Una vena pulsava veloce alla tempia del tedesco. «Io sono qui perché ho dovuto fare una scelta. O essere là fuori, il che voleva dire rischiare di farmi impallinare il culo o di essere appeso per le palle dai russi, oppure lavorare qui in questo... in questo mattatoio. Sul fronte non avrei potuto fare niente per i nostri amici: qui almeno posso comunicare con loro e fare il possibile per aiutare certi prigionieri. A proposito, se avevi intenzione di far ammazzare tutti quelli in cella con te, ci sei quasi riuscito». Michael pensò che tutto ciò spiegava la sua reazione teatrale con il soldato che aveva sparato. Bauman stava cercando di impedire che gli altri fossero uccisi. No, no! Erano stati Blok o Krolle a dirgli di fare così! Era una recita! «Il mio compito», disse Bauman, «è farti restare vivo fino a quando non è tutto pronto. E non so quanto tempo ci vorrà. Riceverò un messaggio radio cifrato per comunicarmi in che modo verrà organizzata la tua fuga. E che Dio ci aiuti, perché i prigionieri escono da Falkenhausen solo come sacchi di concime. Io ho proposto anche una mia idea; staremo a vedere se Chesna la riterrà valida». «Che idea?», chiese Michael guardingo.
«Falkenhausen è stata costruita per tenere i prigionieri dentro. Il campo non ha personale a sufficienza e le guardie sono abituate ad essere ubbidite. Ecco perché sei stato molto stupido poco fa. Non fare niente che richiami l'attenzione su di te!» Camminava avanti e indietro mentre parlava. «Recita e potresti farcela a sopravvivere una settimana!» «D'accordo», disse Michael, «facciamo finta che ti creda. Come farei a uscire?» «Le guardie - e anche Krolle - sono diventate pigre. Qui non ci sono rivolte né tentativi di fuga, niente che possa turbare la routine quotidiana. Non si aspettano che qualcuno tenti di evadere, semplicemente perché sarebbe impossibile. Ma», - e smise di camminare - «non si aspettano nemmeno che qualcuno tenti di introdursi qui dentro. E questo rappresenta una possibilità evidente». «Introdursi qui? In un campo di concentramento? Pura follia!» «Sì, Krolle e le guardie la penserebbero allo stesso modo. Ma, come dicevo, Falkenhausen è stato costruito per tenere i prigionieri dentro, ma forse non per tenere una squadra di salvataggio fuori». Un barlume di speranza si accese in Michael. Se quell'uomo stava recitando, meritava il nome in cartellone assieme a Chesna. Ma non si lasciò ancora convincere; sarebbe stato davvero stupido cascarci e, nel farlo, lasciarsi sfuggire segreti preziosi. «So che ti riesce difficile. Se fossi al tuo posto, sarei anch'io diffidente. Forse stai pensando che voglio attirarti in una trappola. E probabilmente niente di quello che posso dire riuscirebbe a convincerti del contrario, ma a questo devi credere: il mio compito è quello di farti restare vivo, ed è quello che farò. Fai semplicemente quello che ti viene detto di fare e senza pensarci troppo». «È un campo immenso», disse Michael. «Se anche la squadra di salvataggio riuscisse a passare i cancelli, come farebbero a trovarmi?» «Di questo me ne occuperò io». «E se la squadra fallisse?» «In quel caso», disse Bauman, «è mio compito assicurarmi che tu muoia senza rivelare alcun segreto». Quest'ultima cosa gli sembrò verosimile. Era esattamente la soluzione che si sarebbe aspettato, nel caso in cui la squadra di salvataggio avesse fallito. Dio mio! pensò. Devo rischiare e fidarmi di quest'uomo? «Le guardie sono fuori che aspettano. Alcuni di loro non sanno tenere la bocca chiusa e riferiranno ogni cosa a Krolle. Perciò sono costretto a pe-
starti, per far apparire tutto vero». Cominciò ad avvolgersi il fazzoletto attorno alle nocche del pugno destro. «Dovrò farti uscire del sangue. Mi dispiace». Diede una stretta al fazzoletto. «Una volta finito qui, ti riporteranno nella cella. Ancora una volta, ti supplico: non opporre resistenza. È necessario che le guardie e il maggiore Krolle credano che sei ridotto a pezzi. Capito?» Michael non rispose. Aveva la mente troppo presa a cercare di fare un po' d'ordine. «Va bene», disse Bauman. Alzò il pugno. «Cercherò di finire più in fretta che posso». Lo pestò con l'avveduta perizia di un pugile. E non ci volle molto a imbrattare il fazzoletto di rosso. Non lo colpì al corpo, voleva che tutte le lesioni - per quanto superficiali - fossero bene in vista. Quando ebbe finito, Michael sanguinava da un taglio sull'occhio sinistro e dal labbro inferiore spaccato, e aveva il volto chiazzato di lividi blu. Bauman aprì la porta e ordinò alle guardie di entrare, con il fazzoletto sporco di sangue ancora avvolto attorno alle nocche gonfie. Michael, quasi privo di sensi, fu liberato dalle cinghie e trascinato di nuovo nel canile. Lo gettarono dentro sul fieno bagnato e sprangarono la porta. «Gallatinov!» Lazaris lo fece rinvenire scuotendolo. «Pensavo che ti avrebbero ucciso, ne ero sicuro!» «Di... di... peggio non avrebbero potuto fare». Michael cercò di tirarsi dritto a sedere, ma la testa gli sembrava un blocco di piombo. Era sdraiato accanto a un altro corpo. Un corpo freddo, che non respirava. «Chi è?», chiese; Lazaris glielo disse. La pietà di Dio era finalmente arrivata con le raffiche di mitra. Anche il francese era stato colpito e se ne stava raggomitolato, con il respiro affannoso e due pallottole in petto e in pancia. Lazaris, il danese e l'altro prigioniero - un tedesco che non smetteva di lamentarsi e piangere - se l'erano cavata solo con dei tagli per le schegge di pietra. La ragazzina di quattordici anni non era stata riportata nel canile. E non vi fece più ritorno. A un certo punto, durante le otto ore che seguirono - o almeno tante Michael credeva fossero passate, ma il suo senso del tempo era ormai quasi svanito - il francese esalò l'ultimo respiro e morì. Le guardie portarono un'altra pagnottina di pane nero e fecero di nuovo bagnare la spugna nel secchio, ma lasciarono i corpi dei morti tra quelli che erano ancora in vita. Gallatin faceva lunghi sonni, recuperando così le forze. Sulla ferita alla
coscia si era formata una crosta, come anche sul taglio sopra l'occhio sinistro: altri segni del passare del tempo. Se ne stava sdraiato sul pavimento del canile e allungava i muscoli intorpiditi per farvi rifluire il sangue. Distaccava la mente dai muri e dal soffitto e si concentrava su immagini di boschi e prati verdi che si perdevano nell'azzurro dell'orizzonte. Imparò la routine: le guardie portavano il pane e l'acqua una volta al giorno e, ogni tre giorni, un secchio di brodaglia in cui Lazaris immergeva la spugna. Era una lenta morte per fame, ma Michael badava a raccogliere ogni singola briciola di pane e a strizzare dalla spugna anche il più piccolo sorso d'acqua e di brodaglia. I cadaveri erano ormai gonfi ed emanavano un fetore di carne putrefatta. Gallatin si chiedeva cosa stesse facendo Blok. Stava forse interrogando i dipendenti del Reichkronen per smascherare un traditore che non c'era? Stava cercando di trovare una macchina fotografica e una pellicola mai esistite? O stava conducendo le ricerche di Chesna? Sapeva che ben presto avrebbero ricominciato a torturarlo, e questa volta con degli strumenti più specifici, non con i pugni e il manganello di gomma di Krolle. E non sapeva proprio se sarebbe riuscito a sopravvivere. Quando fossero giunti i suoi torturatori, avrebbe lasciato che la trasformazione avesse luogo e avrebbe squarciato quante più gole possibile prima di essere dilaniato dalle pallottole... così tutto avrebbe avuto fine. Ma cosa ne sarebbe stato del Pugno di Ferro e dell'imminente invasione? Avevano portato già due volte il secchio della brodaglia: voleva dire che era in quel lurido buco da almeno sette giorni. Il comando alleato doveva essere avvertito del Pugno di Ferro. Qualunque cosa fosse, la sua letalità bastava a rendere assolutamente necessario il rinvio del D-Day. Se, una volta sbarcati, i soldati si fossero trovati esposti alla sostanza caustica che aveva provocato le ferite delle foto, l'invasione si sarebbe trasformata in un massacro. Il rombo di un tuono lo risvegliò da un sonno agitato, in cui scheletri in uniformi verdi giacevano ammassati in alti mucchi sulle coste della Francia. «Ah, ascolta che musica!», disse Lazaris. «Non è un piacere?» Si rese conto che non era un tuono. Era il fragore di bombe. «Stanno colpendo di nuovo Berlino. Sono gli americani con i loro B17». Il respiro di Lazaris si era fatto veloce per l'eccitazione. Michael sapeva che il russo si stava immaginando lassù nel cielo turbolento con le squadriglie di bombardieri pesanti. «A quanto pare, alcune delle loro bom-
be non stanno cadendo lontano da qui. I boschi andranno in fiamme; di solito succede così». La sirena antiaerea del campo cominciò a suonare. Il fragore si fece sempre più intenso e Michael poteva sentire le pietre del canile vibrare. «Stanno piovendo un bel po' di bombe», disse Lazaris. «Però non colpiscono mai il campo. Gli americani sanno dove siamo, e ora hanno anche quei nuovi puntatori per le bombe. Quelli sì che sono aerei, Gallatinov. Se noi avessimo avuto le Fortezze invece di quello schifo di Tupolev, avremmo sbattuto i crucchi all'inferno già nel '42». Ci volle un momento prima che Michael comprendesse il senso delle parole di Lazaris. «Cosa?», chiese Gallatin. «Dicevo, se avessimo avuto i B-17 invece di quegli stramaledetti Tu...» «No, hai detto "fortezze"». «Oh, certo. Le Fortezze Volanti. I B-17. Li chiamano così perché sono davvero difficili da abbattere. Ma i crucchi hanno quello che si meritano». Strisciò carponi più vicino a Michael. «A volte si possono vedere le battaglie aeree, se il cielo è terso abbastanza. Non gli aeroplani naturalmente, perché sono troppo alti, ma le loro scie. Un giorno ci siamo presi una bella paura. Una Fortezza, con due motori in fiamme, è passata sul campo a non più di trenta metri da terra. Si è sentito lo schianto a meno di un paio di chilometri da qui. Un po' più basso e ci sarebbe arrivato direttamente in testa». Fortezza Volante, pensò Michael. Fortezza. Bombardieri americani a lungo raggio con base in Inghilterra. Gli americani verniciavano i loro bombardieri di un verde oliva smorto: lo stesso colore dei pezzi di metallo. Theo von Frankewitz vi aveva dipinto dei buchi di pallottole falsi. Blok aveva detto Nessuno sa dove si trova la fortezza tranne me, il dottor Hildebrand e pochi altri. Frankewitz aveva svolto il suo lavoro in un hangar in una base aerea sconosciuta. Possibile che la fortezza di cui aveva parlato Blok fosse non un luogo, ma un bombardiere B-17? Un'intuizione lo colse con tutta la sua forza. Disse: «Gli equipaggi dei bombardieri americani danno dei nomi ai loro aerei, vero?» «Sì. Scrivono i nomi con la vernice sul muso dell'aereo e a volte ci fanno anche altri disegni. Come ti dicevo, dipingono i loro aerei come delle baldracche... ma falli decollare e volano come angeli». «Pugno di Ferro», disse Michael. «Cosa?»
«Pugno di Ferro», ripeté. «Potrebbe essere il nome di una Fortezza Volante, no?» «Potrebbe, almeno credo. Perché?» Michael non rispose. Stava pensando al disegno che Frankewitz gli aveva mostrato: un pugno di ferro che stringeva una caricatura di Adolf Hitler. Il genere di immagine che nessun tedesco con un minimo di buon senso avrebbe mai mostrato, ma sicuramente il tipo di disegno da esporre con orgoglio sul muso di una Fortezza Volante. «Che musica dolce», sussurrò Lazaris, ascoltando le esplosioni in lontananza. Michael pensò che i nazisti sapevano che ci sarebbe stata l'invasione. Non sapevano dove o esattamente quando, ma con ogni probabilità avevano ristretto le possibilità alla fine di maggio o all'inizio di giugno, quando le maree della Manica erano meno imprevedibili. Era più che ragionevole pensare che, qualunque cosa Hildebrand stesse sviluppando, sarebbe stata pronta e funzionante per allora. Forse non era l'arma vera e propria a chiamarsi "Pugno di Ferro", ma il mezzo con cui l'avrebbero usata. Gli alleati, con i caccia e i bombardieri a lungo raggio, spadroneggiavano nei cieli sopra il Reich di Hitler. Erano state compiute centinaia di missioni aeree per andare a bombardare le città dell'Europa occupata dai nazisti. In tutte quelle missioni, quante Fortezze Volanti erano state abbattute dai caccia tedeschi o dalle artiglierie antiaeree? E di queste, quante si erano schiantate al suolo, ridotte in pezzi e con i motori in fiamme? Ma la domanda da porsi veramente era: di quante Fortezze Volanti intatte erano in possesso i nazisti? Almeno una, pensò Michael. Forse proprio il bombardiere che era passato su Falkenhausen, andando a cadere nella foresta. Forse era stata un'idea di Blok quella di salvare l'aeroplano... ed era stato per questo promosso da comandante di Falkenhausen a capo dei servizi di sicurezza per il piano "Pugno di Ferro". Lasciò vagare la mente, fino a spingersi a possibilità terrificanti. Quanto poteva essere difficile rendere nuovamente capace di volare un B-17 danneggiato? Naturalmente dipendeva dall'entità dei danni; i pezzi necessari potevano essere recuperati da altri aerei precipitati in tutta Europa. Forse stavano rimettendo in sesto una Fortezza abbattuta - il Pugno di Ferro nella base aerea dove Frankewitz aveva fatto i disegni. Tuttavia Michael si chiedeva il motivo dei fori di proiettile. A che cosa poteva servire far sembrare che un bombardiere rimesso a nuovo fosse stato crivellato di...
Certo... pensò Michael. Certo. Camuffamento. Il giorno dello sbarco le spiagge dell'invasione sarebbero state protette dai caccia alleati. Nessun aereo della Luftwaffe sarebbe riuscito a passare, una Fortezza Volante americana invece sì. Soprattutto una che mostrasse i segni di una battaglia e che a velocità ridotta stesse facendo ritorno alla sua base in Inghilterra. E, una volta giunto sul bersaglio, l'aereo avrebbe potuto sganciare le sue bombe, contenenti la nuova scoperta di Hildebrand, sulla testa di migliaia di giovani soldati. Michael si rendeva però conto delle falle nelle sue congetture: perché tutta quella fatica, quando i cannoni dell'artiglieria nazista avrebbero potuto semplicemente sparare la nuova arma di Hildebrand nel bel mezzo delle truppe di invasione? E se l'arma era davvero un gas di qualche tipo, come potevano i nazisti essere sicuri che i venti non l'avrebbero soffiato indietro, proprio in faccia a loro? No, i tedeschi erano sicuramente disperati, ma tutt'altro che stupidi. E allora, se Michael aveva colto nel segno, in che modo sarebbe stata utilizzata la Fortezza? Doveva riuscire a scappare da lì. Doveva raggiungere la Norvegia e mettere insieme altri pezzi di quel rompicapo. Non era affatto convinto che il B-17 fosse in un hangar in Norvegia. Sarebbe stato troppo lontano dai probabili punti dell'invasione. Ma Hildebrand e la sua nuova arma erano lì, e Michael doveva scoprire di cosa si trattava esattamente. Il bombardamento era cessato. Il suono della sirena antiaerea del campo cominciò a scemare. «Buona caccia, ragazzi», augurò Lazaris ai piloti, con nella voce una nostalgia colma di strazio. Michael si distese, cercando di riprendere sonno. Continuavano a tornargli in mente le fotografie raccapriccianti delle cavie dei test di Hildebrand. Bisognava distruggere qualunque cosa fosse in grado di provocare quegli effetti sulla carne umana. I corpi gonfi e senza vita di Metzger e del francese gorgogliavano e scoppiettavano, liberando i gas prodotti dalla decomposizione. Michael sentì nel muro accanto a lui il leggero raschiare di un topo che cercava di raggiungere il punto da dove arrivava il fetore. Vieni pure, pensò. L'animale sarebbe stato veloce, anche lui uno scaltro sopravvissuto, ma Gallatin sapeva di essere più veloce. Le proteine erano proteine. Vieni, vieni pure.
9. Il secchio con la brodaglia venne portato un'altra volta, indicando il decimo giorno di prigionia per Michael. Le guardie ebbero conati di vomito all'odore dei cadaveri e richiusero il più velocemente possibile la porta del canile sbattendola. Qualche tempo dopo Gallatin fluttuava nel crepuscolo del sonno quando sentì scivolare il chiavistello. La porta si riaprì. Nel corridoio c'erano due soldati armati di fucile; uno di loro, premendosi il fazzoletto sulla bocca e sul naso, disse: «Portate fuori i morti». Lazaris e gli altri esitarono, attendendo di vedere se Michael avrebbe obbedito. Una terza figura guardò all'interno del canile e puntò una torcia sul volto pallido di Gallatin. «Su, sbrigatevi!», ordinò Bauman. «Non abbiamo tutta la notte!» Michael udì la tensione nella voce di Bauman. Cosa stava succedendo? Il tedesco estrasse la Luger dalla fondina e la puntò nel canile. «Non lo ripeterò. Fuori». Gallatin e Lazaris afferrarono il corpo ossuto di Metzger e lo trascinarono via mentre il danese e il tedesco portavano fuori l'altro cadavere. Le ginocchia di Michael scricchiolarono quando si alzò in piedi; il danese cadde sulla pietra e rimase disteso lì finché la canna di un fucile lo spinse a rialzarsi. «D'accordo», disse Bauman. «Tutti voi, marsc'». Trasportarono i corpi lungo il corridoio. «Alt!», ordinò l'assistente di Krolle quando arrivarono a una porta di metallo. Una delle guardie fece scattare il chiavistello e la aprì. Michael seppe che, se anche fosse vissuto ancora tanti anni, non avrebbe mai dimenticato quel momento. Dalla porta entrò aria fresca: forse con una traccia di carne bruciata, ma era un dolce profumo paragonata al fetore stantio del canile. Il campo era silenzioso e le stelle di mezzanotte brillavano nel cielo. All'esterno era parcheggiato un camion; Bauman indicò ai prigionieri di dirigersi lì con il carico di cadaveri. «Metteteli dentro!», disse con la voce ancora carica di tensione. «Svelti!» Il retro del camion era già pieno di una decina di corpi nudi, maschili e femminili. Era difficile stabilirlo, perché tutti i cadaveri avevano la testa rasata e i seni delle donne si erano appiattiti come fiori appassiti. C'era un nugolo di mosche. «Forza, muoversi!», ordinò Bauman dando uno spintone a Michael. Poi il tedesco si girò, con la grazia di un movimento che aveva preparato mentalmente un milione di volte in attesa di quel momento, dall'interno
della manica si fece scivolare il coltello nella mano sinistra, avanzò di un passo verso la guardia più vicina e gli conficcò la lama nel cuore. L'uomo gridò e barcollò all'indietro, con una macchia rossa che si allargava sulla divisa. L'altra guardia disse: «Ma cosa diavolo...» Bauman lo pugnalò all'addome, estrasse la lama e lo colpì di nuovo. La prima guardia era caduta in ginocchio con il volto sbiancato e stava cercando di estrarre la pistola dalla fondina. Michael mollò il cadavere di Metzger e afferrò il polso del soldato mentre tirava fuori l'arma. Gli diede un pugno in faccia, ma il dito del soldato si contrasse sul grilletto e la pistola sparò, un rumore sorprendentemente forte nel silenzio. Il proiettile schizzò in cielo. Gallatin sferrò un altro pugno con tutte le sue forze e mentre la guardia crollava a terra gli tolse la pistola. Il nazista che lottava con Bauman gridò: «Aiutatemi! Aiuto!» Bauman gli sparò in bocca e l'uomo cadde all'indietro nella polvere. In lontananza i cani abbaiavano. I dobermann, pensò Michael. «Tu!», disse Bauman indicando Lazaris, che era rimasto impietrito dallo shock. «Prendi quel fucile! Forza, idiota!» Il russo lo raccolse. E lo puntò contro Bauman. Michael spinse via la canna dell'arma. «No», disse. «È dalla nostra parte». «Dannazione! Che succede?» «Basta con le chiacchiere!», ordinò l'assistente di Krolle infilandosi il coltello insanguinato nella cintura. Guardò le lancette luminose dell'orologio da polso. «Abbiamo tre minuti per raggiungere il cancello! Salite sul camion, tutti quanti!» Michael sentì un fischio acuto: un segnale d'allarme. Il danese salì in fretta sul retro del veicolo, sopra i cadaveri. Lazaris lo imitò, ma il prigioniero tedesco si gettò in ginocchio e iniziò a piangere e gemere. «Lasciatelo!», disse Bauman, poi fece cenno a Michael di salire nella cabina di guida. L'ufficiale si mise al volante, girò la chiave di accensione e il motore scoppiettò e si mise in moto rombando. Il tedesco guidò il camion lontano dall'edificio di pietra con i canili e si diresse verso l'ingresso principale di Falkenhausen, alzando una scia di polvere con le ruote posteriori. «Quegli spari solleveranno un vespaio. Reggetevi forte!» Passò curvando tra due costruzioni di legno e premette il piede sull'acceleratore. Michael vide sulla sinistra i camini che sputavano scintille rosse, mentre venivano carbonizzati altri corpi. Poi tre soldati, uno dei quali armato di mitraglietta, si piazzarono sulla strada davanti ai fari facendo cenno di rallentare. «Andiamo dritti», disse Bauman in tono conciso. Le guardie balzarono di lato, gridando al camion di fermarsi. Scattarono
altri fischi. Una raffica di proiettili colpì il retro del veicolo, facendo vibrare il volante tra le mani di Bauman. Si udirono spari di fucile: Lazaris era entrato in azione. Sulle torrette di guardia del campo iniziarono ad accendersi i proiettori e i loro fasci di luce spazzarono avanti e indietro le strade di terra battuta e gli edifici. «Dovrebbe cominciare tra pochi secondi». Prima che Michael potesse chiedere cosa intendeva dire, a destra si udì un cupo bum, a cui seguì immediatamente un'altra esplosione, questa volta sulla sinistra alle loro spalle. Il terzo scoppio fu così forte che Gallatin riuscì a vederne la vampata. «I nostri amici hanno portato dei mortai per creare un diversivo», spiegò Bauman. «Stanno sparando dal bosco». Un'altra serie di esplosioni riecheggiò sul campo. Michael sentì dei colpi di fucile. Le guardie sparavano alle ombre, forse persino l'una contro l'altra. Sperò che almeno in quel caso avessero una buona mira. Il fascio di luce bianca e accecante di un proiettore li trovò. Bauman imprecò e sterzò, portando il camion su un'altra strada per allontanarsi dalla luce, che però restava vicina. Iniziò a suonare un fischio a vapore acuto e penetrante: l'allarme di emergenza del campo. «Ora è coinvolto anche Krolle», disse il tedesco con le mani strette sul volante. «I bastardi sulle torrette hanno le radio. Stanno individuando la nostra posizio...» Una guardia sbucò sulla strada di fronte a loro, si mise in posizione e fece scattare l'otturatore del suo Schmeisser. Michael vide l'arma sparare in un arco lungo e ampio. I due pneumatici anteriori esplosero quasi all'unisono e il camion sbandò quando vennero perforati il motore e il radiatore. La guardia, continuando a sparare, si gettò al riparo mentre il veicolo la superava in un vortice di polvere; il paraurti anteriore fece sprizzare scintille da un muro di pietra prima che Bauman riuscisse a riprendere il controllo del mezzo. Il parabrezza era incrinato e coperto di olio. Il tedesco continuò a guidare con la testa fuori dal finestrino, mentre gli pneumatici anteriori sgonfi scavavano solchi nella strada. Percorsero circa cinquanta metri, poi il motore emise un rumore simile a una lattina in una macina e si spense. «Il camion è andato!», disse Bauman mentre già apriva lo sportello. Il veicolo si fermò proprio in mezzo alla strada e lui e Michael scesero di corsa. «Andiamo!», gridò il militare a Lazaris e al danese. I due si sbrigarono a scendere districandosi dai corpi... sembravano anche loro dei cadaveri. «Il cancello è da quella parte, a circa cento metri!», spiegò il tedesco indicando davanti a sé e cominciando a correre. Michael, con il corpo nudo tremante per lo sforzo, lo seguì a pochi passi di distanza. Lazaris inciampò, cadde, si rialzò e continuò a correre
con le gambe ossute. «Aspettate! Vi prego, aspettatemi!», gridò il danese che stava restando indietro. Michael lanciò un'occhiata dietro di sé proprio mentre un proiettore scovava il prigioniero. «Continuate a correre!», urlò Bauman. Il suono successivo fu una raffica di mitra; il danese non parlò più. «Bastardi! Sporchi bastardi!» Lazaris si fermò in mezzo alla strada e puntò il fucile contro la luce che lo braccava. I proiettili schizzarono sul terreno davanti a lui mentre il russo faceva partire colpo dopo colpo. Si sentì un rumore di vetro infranto e la luce si spense. Bauman si fermò improvvisamente, trovandosi faccia a faccia con tre guardie sbucate dallo spazio tra due baracche. «Sono io! Fritz Bauman!», gridò prima che potessero alzare i fucili. Michael si gettò pancia a terra. «C'è una rivolta di prigionieri nella sezione E!», gridò. «Stanno distruggendo l'edificio! Per amor di Dio, andate lì!» I soldati si allontanarono di corsa e scomparvero dietro l'angolo di un'altra baracca. Michael e il tedesco ripartirono verso il cancello e, quando sbucarono da un gruppo di costruzioni in legno, se lo trovarono davanti, al di là di un pericoloso tratto scoperto. I proiettori della torretta erano puntati all'interno del campo e si muovevano avanti e indietro. Colpi di mortaio continuavano a esplodere al centro di Falkenhausen. «Giù!», ordinò Bauman a Michael: rimasero stesi a terra contro la parete di una delle costruzioni di legno, mentre un fascio di luce arrivava quasi a sfiorarli. Il tedesco controllò di nuovo l'orologio. «Dannazione! Sono in ritardo! Dove diavolo sono?» Una figura iniziò a passare davanti a loro barcollando. Michael allungò una mano, afferrò l'uomo alla caviglia e lo fece cadere a terra prima che uno dei proiettori lo trovasse. Lazaris disse: «Cosa cerchi di fare, bastardo? Di rompermi il collo?» Improvvisamente una moto con sidecar attraversò rombando il tratto scoperto; il guidatore si fermò derapando davanti a un edificio dipinto di verde accanto al cancello. Quasi subito si aprì una porta e ne uscì una figura massiccia che indossava stivali da combattimento, un elmetto nazista e una vestaglia di seta rossa, con due pistole nella bandoliera intorno alla vita larga. Il maggiore Krolle, risvegliato dal suo sonno di bellezza, si mise nel sidecar e fece cenno al guidatore di ripartire. Questi obbedì, facendo schizzare terra da sotto la ruota posteriore della moto; Michael si rese conto che Krolle sarebbe passato a pochi metri dalla loro posizione. Bauman stava già alzando la pistola. Gallatin disse: «No», e tese una mano prendendo il fucile di Lazaris. Si alzò in piedi, con la mente che bruciava per
l'immagine di una cassa di legno di pino piena di capelli; quando la motocicletta arrivò alla sua portata, si allontanò dal riparo della parete e ruotò il fucile come una mazza. Mentre l'arma colpiva il guidatore sul cranio spezzandogli il collo come un fuscello, il cancello principale di Falkenhausen esplose con una grande vampata e un turbinio di legno in fiamme. Il colpo fece cadere Michael a terra e gli passò sopra come un'ondata bollente. La moto senza più autista sterzò bruscamente a sinistra, girò in tondo e andò a sbattere contro una parete di legno prima che Krolle riuscisse a rendersi conto di essere in pericolo. Il veicolo si ribaltò di lato con il motore ancora acceso: il maggiore cadde fuori dal sidecar, senza più elmetto e con le orecchie che gli ronzavano per l'esplosione. Dalle rovine del cancello spuntò un camion mimetizzato con le ruote protette da piastre corazzate. Entrò rombando nel campo e il telo marrone che copriva il piano di carico venne tirato indietro, rivelando una mitragliatrice calibro 50 montata su un treppiedi girevole. Il mitragliere puntò l'arma verso l'alto ed eliminò il proiettore più vicino, poi rivolse il fuoco verso l'altro. Altri tre uomini sul retro del camion puntarono i fucili contro le guardie della torretta e cominciarono a sparare. «Andiamo!», gridò Bauman alzandosi in piedi. Michael era accovacciato e guardava Krolle che cercava di rialzarsi: la bandoliera era scivolata giù e gli si era avvolta intorno alle gambe. Gallatin disse: «Prendi il mio amico e vai al camion». Si alzò. «Cosa? Sei impazzito? Sono qui per te!» «Fallo». Gallatin vide il fucile a terra, con il calcio spezzato. Krolle piagnucolava e cercava di estrarre una delle Luger. «Non aspettatemi». Andò dal maggiore, afferrò la bandoliera e la gettò via. Il nazista boccheggiò, con il sangue che gli usciva da un taglio sulla fronte e gli occhi sbalorditi. «Andate!», gridò Michael a Bauman, che insieme al russo iniziò a correre verso il camion. Krolle gemette, avendo infine riconosciuto l'uomo in piedi davanti a lui. Intorno al collo massiccio il maggiore portava un fischietto che avvicinò alla bocca, ma non aveva abbastanza fiato per usarlo. Gallatin sentì dei proiettili crepitare su una piastra corazzata, guardò dietro di sé e vide che Lazaris e Bauman avevano raggiunto il camion ed erano saliti. Il mitragliere stava ancora sparando alle guardie sulla torretta, ma ora le pallottole stavano colpendo anche il veicolo. Il proiettile di un fucile rimbalzò su una delle piastre che proteggevano gli pneumatici; il mitraglie-
re fece ruotare l'arma e uccise il soldato che aveva sparato. La situazione si faceva difficile: era ora di andarsene. Il camion partì in retromarcia e si allontanò attraverso l'apertura in fiamme nel punto in cui prima si trovava il cancello. Ai piedi di Michael, Krolle stava cercando di strisciare via. «Aiutatemi», gracchiò. «Qualcuno...» Ma era impossibile sentirlo con le grida, gli spari dei fucili e l'ululato della sirena di emergenza, un suono che doveva sentirsi fino a Berlino. Gallatin disse: «Maggiore?», e l'uomo lo guardò. Il viso di Krolle si contorse in una smorfia di puro orrore. La bocca di Michael si stava aprendo, i muscoli delle mascelle ondeggiavano per fare spazio alle zanne che scivolarono dagli alveoli gocciolando saliva. Fasce scure di peli si alzarono dalla pelle nuda e le dita delle mani e dei piedi iniziarono a curvarsi in artigli. Krolle si alzò velocemente in piedi, scivolò, si rialzò con un urlo strozzato e scappò. Non verso il cancello, perché la figura mostruosa gli sbarrava la strada, ma nella direzione opposta, nelle profondità di Falkenhausen. Michael, con la spina dorsale che si contorceva e le giunture che schioccavano, lo seguì come l'ombra della morte. Il maggiore cadde in ginocchio accanto a una baracca e cercò di infilare la sua mole nello spazio di accesso sotto la costruzione. Non ci riuscì, quindi si rialzò a fatica e continuò a correre barcollando, chiamando aiuto con voce flebile. Una baracca di legno bruciava a circa trecento metri di distanza, in seguito a un colpo di mortaio. La luce rossastra danzava nel cielo. I proiettori stavano ancora perlustrando il campo, incrociandosi l'uno con l'altro, e le guardie si sparavano a vicenda nella confusione. Nella mente del lupo non c'era alcuna confusione. Sapeva qual era il suo compito... e sarebbe stato un vero piacere. Krolle si guardò alle spalle e vide gli occhi verdi della cosa. Emise un belato di paura, con la vestaglia slacciata e impolverata da cui spuntava il ventre bianco e ben pasciuto. Continuò a correre, cercando di chiamare aiuto e boccheggiando. Azzardò un'altra occhiata e vide che il mostro stava guadagnando terreno a falcate regolari e potenti... poi le sue caviglie urtarono un basso steccato di legno di pino: con un urlo cadde e scivolò a faccia in giù lungo un ripido pendio di terra. Michael balzò con agilità oltre la barriera - messa lì per impedire ai camion di ribaltarsi - e si fermò sull'orlo del pendio, osservando quello che aveva davanti. Nel suo corpo di lupo il cuore gli martellò a un ritmo spaventoso quando vide lo spettacolo allucinante allestito sul fondo della fos-
sa. Era impossibile stabilire quanti cadaveri fossero sparsi lì dentro. Tremila? Cinquemila? Non lo sapeva. La buca dalle pareti ripide era larga e lunga circa cinquanta metri e i morti nudi giacevano aggrovigliati in pile ossute e oscene, gettati l'uno sull'altro in uno strato così alto che Gallatin non riusciva a vedere il fondo. In quella massa impenetrabile, grigia e orrenda di casse toraciche, braccia e gambe scheletriche, teschi pelati e occhi incavati, una figura in vestaglia rossa cercava di arrivare dall'altra parte della fossa, strisciando sui ponti formati dalla carne in decomposizione. Michael rimase sull'orlo, ghermendo tra gli artigli la terra morbida. La luce del fuoco danzava colorando di una luce infernale l'enorme fossa comune. Gallatin aveva la mente stordita: c'era così tanta morte. La realtà sembrava distorta, un brutto sogno da cui si sarebbe sicuramente risvegliato presto. Quella era l'impronta del vero male, che faceva impallidire la fantasia più oscena. Sollevò la testa al cielo e urlò. Dalla sua gola uscì rauco e stremato l'ululato di un lupo. Nella fossa Krolle lo sentì e si guardò indietro. Aveva il volto lucido di sudore ed era circondato da un nugolo di mosche. «Stai lontano da me!», gridò al mostro sull'orlo della buca. La sua voce si spezzò ed emerse la follia. «Stai lontano da...» Un cadavere si mosse sotto di lui con un rumore simile a un sussurro. Il movimento fece allontanare altri corpi e Krolle perse l'equilibrio. Si aggrappò a una spalla spezzata, cercando di afferrare un paio di gambe con le mani sudate, ma la carne si strappò sotto le sue dita e il tedesco cadde in mezzo ai morti. I cadaveri si alzavano e si abbassavano come onde marine, mentre il nazista si dibatteva per restare in superficie. Aprì la bocca per urlare: vi si precipitarono le mosche, che vennero risucchiate nella gola. Gli insetti lo accecarono e gli si infilarono nelle orecchie. Krolle cercò di aggrapparsi alla carne putrefatta, perché gli stivali non trovavano appiglio. La testa venne sommersa dai cadaveri che si muovevano intorno a lui come dormienti che si risvegliano. Presi singolarmente, quei corpi pesavano più o meno quanto i badili che li avevano gettati laggiù: ma insieme, nel loro groviglio distorto di braccia e gambe, si richiusero sopra la testa del maggiore e lo spinsero nelle profondità soffocanti. Venne trascinato sul fondo, dove un braccio scheletrico gli si avvolse intorno alla gola mentre le mosche gli si agitavano nella trachea. Krolle era sparito. I cadaveri continuavano a muoversi in tutta la fossa,
facendo spazio per un corpo in più. Michael, con gli occhi verdi brucianti di lacrime di orrore, girò le spalle ai morti e corse verso i vivi. Terrorizzò a morte due dobermann tenuti al guinzaglio dai padroni, poi li superò come un fulmine e attraversò il tratto scoperto accanto al punto in cui si trovava la motocicletta distrutta. Un camion carico di soldati stava per uscire dal cancello fracassato, all'inseguimento della squadra di soccorso. Michael cambiò i loro piani superando con un balzo la sponda posteriore; i militari urlarono e saltarono fuori come se fossero spuntate loro le ali. Il guidatore, spaventato dalla vista di un lupo magro e chiaramente affamato che tentava di azzannargli il volto dall'altra parte del parabrezza, perse immediatamente il controllo del veicolo e il camion andò a sbattere contro il muro di pietra di Falkenhausen. Ma il lupo non era più sul cofano. Michael era partito di corsa attraverso il cancello distrutto, verso la libertà. Lasciò la strada di terra battuta ed entrò nella foresta, annusando. Olio per motori, polvere da sparo e... ah, sì... il fetore di un pilota da caccia russo. Restò nel sottobosco sul bordo della strada, seguendo gli odori. Quello del sangue: qualcuno era rimasto ferito. A circa un chilometro e mezzo da Falkenhausen il camion aveva lasciato la strada principale per entrare in quella che era poco più di una... be', di una pista da lupo. La squadra di salvataggio era arrivata preparata: quello che sembrava - anche all'odorato - un altro camion era sbucato da quel sentiero e si era allontanato rombando per lasciare tracce di pneumatici a beneficio degli inseguitori: il veicolo originale invece era penetrato nella fitta foresta. Michael seguì il puzzo di Lazaris in mezzo alle silenziose radure silvestri. Seguì la pista tortuosa per quasi tredici chilometri, poi udì delle voci e vide il luccichio delle torce elettriche. Si accovacciò tra i pini a guardare. Davanti a lui, in uno spiazzo protetto dall'osservazione aerea mediante una rete di mimetizzazione, c'erano il camion corazzato e due automobili civili. Alcuni operai stavano smontando l'autocarro, togliendo velocemente le piastre corazzate e staccando la mitragliatrice dal supporto. Allo stesso tempo altri stavano rapidamente dipingendo di bianco con una croce rossa gli sportelli della cabina di guida. La zona di carico veniva trasformata in ambulanza, con file di barelle. La mitragliatrice fu avvolta in una tela di iuta, messa in una cassa di legno foderata di gomma e posta in una buca. Poi gli uomini si misero al lavoro con le pale per coprire l'arma. Avevano montato una tenda da cui spuntava un'antenna radio. Michael si sentiva lusingato. Avevano fatto davvero moltissimo per aiutarlo, oltre a
rischiare la vita. «Ho cercato di convincerlo a venire, dannazione!», disse Bauman uscendo improvvisamente dalla tenda. «Credo che sia impazzito! Come potevo sapere che stava per perdere la testa?» «Avresti dovuto costringerlo a venire! Dio solo sa cosa gli faranno adesso!» Un'altra figura uscì seguendo il tedesco. Michael conosceva quella voce... e quando annusò l'aria colse il suo profumo: cannella e pelle. Chesna indossava una tuta nera e aveva alla vita una fondina con una pistola; i capelli biondi erano nascosti da un berretto nero e il viso era imbrattato di carbone. «Tutto questo lavoro e lui è ancora lì dentro! E al suo posto mi porti questa cosa?» Indicò con un gesto di rabbia Lazaris, che era uscito dalla tenda masticando tranquillamente un biscotto. «Mio Dio, cosa facciamo adesso?» Un lupo poteva sorridere, a modo suo. Due minuti dopo una sentinella udì un rametto spezzarsi. Si bloccò, cercando del movimento nel buio. C'era o no qualcuno accanto a quell'albero di pino? Sollevò il fucile. «Alt. Chi va là?» «Un amico», rispose Michael. Lasciò cadere il rametto che aveva appena spezzato e venne avanti a mani alzate. La vista di un uomo nudo e contuso che sbucava dalla foresta fece gridare alla sentinella: «Ehi! Qui c'è qualcuno! Presto!» «Cos'è questo baccano?», disse Chesna correndo in aiuto della sentinella insieme a Bauman e un paio di altri uomini. Accesero le torce elettriche che inquadrarono Michael Gallatin nel loro fuoco incrociato. Chesna si fermò improvvisamente, senza fiato per lo shock. Bauman mormorò: «Come diavolo...» «Non c'è tempo per le formalità». La voce di Michael era rauca e debole. La trasformazione e la corsa di tredici chilometri avevano esaurito le sue ultime energie. Le figure intorno a lui stavano già diventando indistinte. Adesso poteva lasciarsi andare. .. Era libero. «Sto... per svenire», disse. «Spero... che qualcuno ... mi afferri...» Le ginocchia gli cedettero. Chesna lo afferrò. Il destino 1. La prima impressione che ebbe svegliandosi fu di una luce verde e dora-
ta: era il sole che brillava attraverso il fogliame denso. Pensò alla foresta della sua gioventù, il regno di Wiktor e della famiglia. Ma ormai era passato molto tempo... e Michael Gallatin non giaceva sul fieno ma in un letto con lenzuola di lino bianco. Il soffitto sopra di lui era bianco e le pareti di un verde pallido. Sentì i pettirossi cantare e si voltò verso una finestra alla sua destra. Vide una rete di rami intrecciati intervallati da strisce di cielo azzurro. Nonostante tutta quella bellezza, tornò con la mente ai cadaveri emaciati nella fossa comune. Era il genere di cose che ti apre gli occhi per sempre sulla realtà della cattiveria umana. Voleva piangere, purificarsi da quella vista, ma i suoi occhi non lasciarono scorrere le lacrime. Perché piangere quando le torture erano state già compiute? No, il momento per le lacrime era passato. Adesso bisognava riflettere freddamente e raccogliere le forze. Il corpo gli doleva da morire. Persino il cervello sembrava fargli male. Sollevò il lenzuolo e vide che era ancora nudo. La sua carne somigliava a una trapunta imbottita, ridotta a macchie nere e blu. Qualcuno gli aveva applicato dei punti alla coscia ferita e poi aveva passato dello iodio. Anche molti altri tagli e punture che aveva sul corpo erano stati disinfettati, comprese le ferite che Blok gli aveva inflitto con la forchetta. La sporcizia del canile gli era stata strofinata via; Michael pensò che chiunque l'avesse fatto meritava una medaglia. Si toccò i capelli e scoprì che erano stati lavati; la testa gli prudeva, probabilmente a causa di uno shampoo contro i pidocchi. Gli avevano tagliato la barba lunga, ma sul viso ne aveva una corta e ispida che lo portò a chiedersi da quanto tempo giaceva lì esausto. Una cosa sapeva con certezza: aveva molta fame. Vedeva le costole sporgere, mentre braccia e gambe erano diventate molto più sottili, con i muscoli estremamente indeboliti. Sopra un tavolino accanto al letto c'era un campanello d'argento. Gallatin lo sollevò e suonò per vedere cosa sarebbe successo. In meno di dieci secondi la porta si spalancò. Entrò Chesna von Dome, con il viso radioso e senza la tenuta da commando, con gli occhi luminosi di colore fulvo e i capelli che le scendevano in boccoli dorati sulle spalle. Michael pensò che era una visione bellissima. Venne distratto appena dalla informe tuta grigia che indossava e dalla pistola Walther che portava in una fondina intorno alla vita. Era seguita da un uomo con i capelli grigi e gli occhiali dalla montatura di corno, vestito con dei pantaloni blu scuro e una camicia bianca con le maniche arrotolate. Portava una borsa medica nera, che posò sul tavolo accanto al letto e aprì.
«Come ti senti?», chiese la donna in piedi accanto alla porta. Aveva un'espressione preoccupata e professionale. «Vivo. A stento». La voce di Michael era un sussurro rauco. Articolare le parole era uno sforzo. Cercò di drizzarsi a sedere, ma l'uomo - evidentemente un dottore - gli premette una mano contro il petto e lo fece adagiare di nuovo, con la stessa difficoltà che si ha quando si vuole trattenere un bambino malaticcio. «Questo è il dottor Stronberg», spiegò Chesna. «Si è preso cura di te». «E potrei aggiungere che allo stesso tempo ho testato i limiti della scienza medica». Il dottore aveva una voce simile alla ghiaia in una betoniera. Era seduto sul bordo del letto, prese lo stetoscopio dalla borsa e auscultò il battito cardiaco del paziente. «Respiri profondamente». Gallatin obbedì. «Di nuovo. Ancora una volta. Adesso trattenga il respiro. Espiri lentamente». Borbottò e si tolse lo strumento dall'orecchio. «Rantola un po'. Credo che abbia un'infezione ai polmoni». Un termometro scivolò sotto la lingua di Michael. «È una fortuna che lei si fosse mantenuto in condizioni eccellenti, altrimenti dodici giorni a Falkenhausen a pane e acqua avrebbero potuto lasciarle segni ben più gravi che della semplice spossatezza e dei polmoni congestionati». «Dodici giorni?», disse Gallatin, poi allungò la mano per prendere il termometro. Stronberg gli afferrò il polso spingendolo da parte. «Lo lasci stare. Sì, dodici giorni. Naturalmente lei ha anche altri disturbi: un leggero stato di shock, il naso rotto, una spalla con una brutta lussazione, un livido sulla schiena dovuto a un colpo che le ha quasi perforato i reni, e la ferita sulla coscia stava per andare in cancrena. Per sua fortuna è stata curata in tempo. Però ho dovuto tagliarle del tessuto: per un bel po' non potrà usare quella gamba». Mio Dio! pensò Michael, tremando all'idea di perdere la gamba a causa di un coltello e una sega. «Aveva del sangue nell'urina», continuò il dottore, «ma non penso che i reni siano danneggiati in modo permanente. Ho dovuto inserire un catetere e drenare del liquido». Tolse il termometro e controllò la temperatura. «La febbre è scesa molto», disse. «Quantomeno da ieri». «Da quanto sono qui?» «Da tre giorni», rispose Chesna. «Il dottor Stronberg voleva che riposassi». Michael sentì in bocca un sapore amaro. Pensò che era stato drogato.
Probabilmente si trattava di un antibiotico e di un tranquillante. Il dottore stava già preparando un'altra siringa. «Basta con quella roba», disse Gallatin. «Non sia stupido». Il medico gli afferrò il braccio. «Il suo sistema è stato esposto a una tale sporcizia e a tanti di quei germi che può ritenersi fortunato di non aver contratto il tifo, la difterite e la peste bubbonica». Infilò l'ago. Michael non poté fare molto per evitarlo. «Chi mi ha lavato?» «Ti ho innaffiato io, se è questo che intendi», gli disse Chesna. «Grazie». La donna scrollò le spalle. «Non volevo che infettassi i miei uomini». «Hanno fatto un ottimo lavoro. Sono in debito con loro». Ricordò l'odore di sangue lungo il sentiero nella foresta. «Chi è stato colpito?» «Eisner. Un proiettile gli ha trapassato una mano». Chesna si accigliò. «Un momento. Come fai a sapere che qualcuno è stato colpito?» Michael esitò. Già, come aveva fatto? pensò. «Io... non lo sapevo con certezza», disse. «Volavano molte pallottole». «Sì». La donna lo osservò con attenzione. «Siamo stati fortunati a non aver perso nessuno. Adesso forse puoi dirmi perché ti sei rifiutato di andartene con Bauman e poi sei spuntato nell'accampamento a più di dodici chilometri da Falkenhausen. Cos'hai fatto, hai percorso la distanza correndo? E come hai fatto a trovarci?» «Lazaris», rispose Gallatin, prendendo tempo mentre pensava a una buona risposta da dare. «Il mio amico. Sta bene?» Chesna annuì. «Ha portato con sé un esercito di pidocchi. Abbiamo dovuto rasarlo a zero, ma ha detto che avrebbe ucciso chiunque gli avesse toccato la barba. È in condizioni peggiori di te, ma vivrà». Inarcò le sopracciglia bionde. «Stavi per dirmi come ci hai trovato...» Michael ricordò di aver sentito Chesna e Bauman discutere mentre uscivano dalla tenda. «Penso di essere uscito un po' di testa», spiegò. «Sono andato a caccia del maggiore Krolle. Non ricordo molto di quello che è successo». «L'hai ucciso?» «Io... mi sono occupato di lui», disse Gallatin. «Vai avanti». «Ho preso la motocicletta di Krolle. È così che sono riuscito ad attraversare il cancello. Una pallottola aveva perforato il serbatoio, perché ho fatto solo qualche chilometro prima che il motore si fermasse. Poi ho comincia-
to a camminare per il bosco. Ho visto le vostre torce elettriche e mi sono diretto qui». Una storia molto fragile, pensò, ma non riuscì a inventare niente di meglio. La donna rimase in silenzio per un momento, fissandolo. Poi disse: «Un nostro uomo teneva d'occhio la strada. Non ha visto nessuna motocicletta». «Non ho usato la strada. Sono passato per la foresta». «E ci hai trovato per caso? In un bosco così grande? Sei finito nel nostro accampamento quando nessuno dei nazisti è riuscito a rintracciarlo?» «Immagino proprio di sì. Sono arrivato qui, no?» Fece un debole sorriso. «Chiamalo destino». «Penso che tu abbia respirato con un'altra canna svuotata», disse Chesna. Si avvicinò al letto mentre Stronberg preparava una seconda iniezione. «Se non sapessi che sei dalla nostra parte, barone, avrei forti dubbi su di te. Battere Harry Sandler al suo gioco è una cosa; camminare di notte nelle tue condizioni per più di dodici chilometri attraverso la foresta e trovare il nostro accampamento - che è molto ben nascosto, potrei aggiungere - è completamente diverso». «Sono bravo in quello che faccio. È per questo che sono qui». Fece una smorfia mentre il secondo ago gli penetrava nella pelle. La donna scosse la testa. «Nessuno è così bravo, barone. C'è qualcosa in te... di molto strano». «Be', possiamo parlarne tutto il giorno, se vuoi». Lasciò che dalla sua voce trasparisse una finta esasperazione. Gli occhi della donna erano attenti e videro che tergiversava. «Il piano è pronto?» «È pronto, quando voglio». Decise di lasciar perdere la questione per il momento. Ma quell'uomo nascondeva qualcosa e lei voleva sapere di cosa si trattava. «Bene. Quando possiamo partire?» «Lei non andrà da nessuna parte», disse Stronberg in tono fermo. Chiuse la borsa con uno scatto. «Almeno non per due settimane. Il suo corpo è stato affamato e brutalizzato. Un uomo normale, senza il suo addestramento da commando, sarebbe ridotto in brandelli». «Dottore», disse Michael, «grazie per le sue attenzioni e le sue cure. Adesso può andarsene, per favore?» «Ha ragione», aggiunse Chesna. «Sei troppo debole per andare da qualche parte. Per quanto ti riguarda, la missione è finita». «È per questo che mi avete fatto uscire? Per dirmi che sono un invalido?»
«No. Per evitare che spifferassi tutto. Da quando ti hanno catturato, il colonnello Blok ha fatto chiudere il Reichkronen. Da quello che ho sentito, ha interrogato tutti gli impiegati e ha passato in rassegna i loro documenti. Sta facendo perquisire l'albergo stanza per stanza. Ti abbiamo fatto uscire da Falkenhausen perché Bauman ha fatto sapere che Blok avrebbe cominciato a torturarti la mattina dopo. Altre quattro ore, e sarebbe diventato impossibile usare su di te un catetere». «Oh, capisco». Alla luce di quelle parole, la perdita di una gamba era un inconveniente di poco conto. Il dottor Stronberg stava per arrivare alla porta, ma si fermò e disse: «Ha un neo molto interessante. Non ne ho mai visto uno simile». Gallatin rimase sorpreso. «Quale neo?» Il dottore sembrò confuso. «Sotto il braccio sinistro, naturalmente». Michael sollevò il braccio e rimase scioccato per la sorpresa. Dall'ascella all'anca c'erano strisce di peli neri e lucenti. Peli di lupo, si rese conto. Con tutto lo stress a cui mente e corpo erano stati sottoposti, non si era ritrasformato completamente dopo aver lasciato Falkenhausen. «È affascinante», disse Stronberg. Si chinò per guardare meglio. «È materiale per una rivista dermatologica». «Ne sono sicuro». Michael abbassò il braccio e lo serrò al fianco. Il medico superò Chesna e arrivò alla porta. «Domani cominceremo a darle cibi solidi. Della carne nel brodo». «Non voglio nessun brodo. Voglio una bistecca. Al sangue». «Il suo stomaco non è pronto per mangiarla», disse il dottore, poi lasciò la stanza. «Che giorno è?», chiese Gallatin a Chesna dopo che il dottore ebbe lasciato la stanza. «La data?» «È il 7 maggio». La donna andò alla finestra e scrutò nella foresta, con il viso inondato dalla luce pomeridiana. «Per rispondere alla tua prossima domanda, siamo nella casa di un amico, circa 60 chilometri a nordovest di Berlino. Il villaggio più vicino è un piccolo borgo che si chiama Rossow, 16 chilometri a ovest. Quindi qui siamo al sicuro e puoi riposare tranquillo». «Non voglio riposare. Ho una missione da portare a termine». Mentre lo diceva, sentì le sostanze che Stronberg gli aveva dato cominciare a fare effetto. Gli si impastò la lingua e cominciò di nuovo ad avere sonno. «Quattro giorni fa abbiamo ricevuto una trasmissione radio in codice da Londra». Chesna si voltò a guardarlo. «L'invasione è programmata per il 5
giugno. Ho replicato che il nostro incarico non è stato completato e che l'invasione potrebbe essere in pericolo. Sto ancora aspettando una risposta». «Credo di sapere cos'è il Pugno di Ferro», disse Michael, poi cominciò a raccontarle la sua teoria della Fortezza Volante. La donna lo ascoltò con grande attenzione, senza mostrare minimamente di essere o non essere in accordo con lui: era una faccia da poker. «Non penso che l'aereo sia in un hangar in Norvegia», le disse, «perché sarebbe troppo lontano dalle spiagge dell'invasione. Ma Hildebrand sa dove si trova. Dobbiamo arrivare a Skarpa...» Gli si stava appannando la vista e sentiva in bocca un forte sapore di medicinale. «E scoprire cosa ha sviluppato Hildebrand». «Non puoi andare da nessuna parte. Non nelle tue condizioni. Sarebbe meglio se scegliessi io stessa una squadra e la portassi lì in aereo». «No! Ascoltami... i tuoi amici possono essere bravi a irrompere in un campo di prigionia... ma a Skarpa sarà molto più difficile. Hai bisogno di un professionista per questo lavoro». «Come te?» «Esatto. Posso essere pronto a partire in sei giorni». «Il dottor Stronberg ha parlato di due settimane». «Non me ne frega niente di quello che ha detto!» Sentì una vampata di rabbia. «Lui non mi conosce. Posso essere pronto in sei giorni... se mi date della carne». Chesna fece un debole sorriso. «Credo che tu dica sul serio». «È così. E niente più tranquillanti o qualunque cosa Stronberg mi abbia iniettato. Chiaro?» La donna rimase un attimo in silenzio a riflettere. Poi aggiunse: «Glielo dirò». «Un'ultima cosa. Hai... pensato alla possibilità che... potremmo imbatterci nei caccia tra qui e Skarpa?» «Sì. Sono disposta a correre il rischio». «Se ti colpiscono, non voglio... schiantarmi al suolo in fiamme. Avrai bisogno di un copilota. Ce l'hai?» Chesna scosse la testa. «Parla con Lazaris», disse Michael. «Potresti... trovarlo molto interessante». «Quella bestia? È un pilota?» «Parlagli». Michael si sentiva le palpebre pesanti. Era difficile combattere contro la luce crepuscolare. Era meglio riposare, pensò. Riposare e
combattere di nuovo domani. La donna rimase accanto al letto finché Gallatin non si addormentò. Il viso le si addolcì; allungò una mano per toccargli i capelli, ma lui cambiò posizione e lei la ritrasse. Quando si era resa conto che lui e Mouse erano stati catturati, era quasi impazzita per la preoccupazione... e non perché temeva che potesse spifferare qualche segreto. Quando l'aveva visto spuntare dalla foresta - sporco e pieno di lividi, con il volto scavato dalla fame e dalla terribile prigionia - era quasi svenuta. Ma come aveva fatto a trovarli nel bosco? Come? Chi sei? chiese mentalmente all'uomo che dormiva. Lazaris aveva chiesto come stava il suo amico "Gallatinov". Quell'uomo era inglese o russo? O di un'altra nazionalità più strana? Persino così malridotto era un uomo bellissimo... ma c'era in lui qualcosa di solitario. Qualcosa di perduto. Per tutta la vita Chesna era stata allevata sentendo il sapore dei cucchiai d'argento; quell'uomo conosceva il sapore della terra. C'era una regola fondamentale nel Servizio Segreto: non farsi coinvolgere a livello emotivo. Rompere questa regola poteva portare a sofferenze indicibili e alla morte. Ma lei era stanca... tanto stanca di essere un'attrice. E vivere una vita senza emozione era come recitare una parte per i critici invece che per il pubblico: non c'era gioia nel farlo, solo arte teatrale. Il barone - Gallatinov o qualunque fosse il suo nome - tremava nel sonno. La donna vide la pelle d'oca sulle braccia dell'uomo. Ricordò di averlo lavato, non con un tubo ma con una spugna, mentre giaceva privo di sensi in una vasca piena d'acqua calda. Gli aveva tolto i pidocchi dalla testa, dal petto, dalle ascelle e dai peli pubici. L'aveva rasato e gli aveva lavato i capelli, perché nessun altro era disposto a farlo. Era il suo lavoro, ma non prevedeva che il cuore le si spezzasse mentre gli toglieva la sporcizia dalle pieghe del viso. Gli sollevò il lenzuolo fino al collo. Gli occhi dell'uomo si aprirono uno scintillio verde - ma le droghe erano forti e lui ne fu di nuovo preda. Chesna gli augurò di dormire bene, oltre quel mondo di incubi, e se ne andò chiudendo piano la porta. 2. Meno di diciotto ore dopo il primo risveglio, Michael Gallatin era in piedi. Urinò in una padella. Il liquido era ancora scuro di sangue, ma l'uomo non sentì alcun dolore. La coscia continuava a pulsargli, ma si sentiva
le gambe solide. Provò a camminare su e giù per la stanza e scoprì che zoppicava. Senza gli antidolorifici e i tranquillanti, i nervi urlavano, ma aveva la mente sgombra. Aveva cominciato a pensare alla Norvegia e a cosa doveva fare per prepararsi. Si allungò sul pavimento di legno di pino e lentamente distese i muscoli. Fare gli esercizi fu estremamente doloroso. Schiena a terra, gambe sollevate, piegare la testa verso le ginocchia. Pancia a terra, sollevare contemporaneamente mento e gambe. Flessioni lente che gli fecero urlare di dolore i muscoli della spalla e della schiena. Seduto a terra, ginocchia piegate, lentamente abbassare la schiena fino quasi al pavimento, trattenere fin oltre il punto di sofferenza e tornare su. Un leggero strato di sudore gli brillava sulla pelle, il sangue gli scorreva nelle vene e gli gonfiava i muscoli, e il cuore stabilì un ritmo sostenuto. Sei giorni, pensò ansimando. Sarò pronto. Una donna con i capelli castani striati di grigio gli portò la cena: verdure cotte e del manzo finemente tritato. «Cibo da neonati», le disse Michael, ma lo mangiò tutto. Il dottor Stronberg tornò a controllarlo. La febbre era scesa e il rantolo ai polmoni era diminuito. Però aveva fatto saltare tre punti. Il medico gli consigliò di restare a letto e riposare, e la visita terminò lì. La notte seguente, con un'altra porzione di orribile manzo tritato nello stomaco, Michael si alzò nel buio e aprì delicatamente la finestra. Uscì nella foresta silenziosa e sotto un olmo si trasformò da uomo in lupo. Saltarono quasi tutti i punti, ma la ferita della gamba non riprese a sanguinare. Era un'altra cicatrice da aggiungere alla collezione. Corse a quattro zampe per il bosco, respirando l'aria pulita e profumata. Uno scoiattolo attrasse la sua attenzione; Gallatin lo catturò prima che riuscisse a raggiungere il suo albero. Gli venne l'acquolina in bocca mangiandone la carne e i fluidi, poi ne sputò le ossa e i peli e continuò la gita. In una fattoria a circa tre chilometri dal villino un cane abbaiò e ululò sentendo l'odore di Michael, che urinò su un paletto della staccionata... tanto per far capire al cane qual era il suo posto. Si sedette in cima a una collinetta erbosa a fissare le stelle. In una notte bella come quella, non poteva fare a meno di porsi la domanda: Cos'è il licantropo agli occhi di Dio? Ora credeva di conoscere la risposta, dopo aver visto la fossa comune a Falkenhausen, dopo la morte di Mouse e il ricordo di una croce di ferro che gli veniva strappata dalle dita rotte. Dopo il tempo trascorso in quella terra di sofferenza e odio, credeva di conoscere la risposta: e se non era quella giusta, per il momento andava bene.
Il licantropo era il vendicatore di Dio. C'era così tanto da fare. Michael sapeva che Chesna era molto coraggiosa, ma le sue possibilità di riuscire ad arrivare all'isola di Skarpa e ripartire erano minime senza di lui. Gallatin doveva essere vigile e forte per affrontare quello che li aspettava. Ma era più debole di quanto pensasse. La trasformazione aveva consumato tutte le sue energie, così rimase disteso con la testa appoggiata alle zampe sotto la luce chiara delle stelle. Dormì... e sognò di un lupo che sognava di essere un uomo che sognava di essere un lupo che sognava. Quando si svegliò stava sorgendo il sole. La terra era verde e bella, ma nascondeva un cuore nero. Si alzò in piedi e si avviò nella direzione da dove era venuto, seguendo il proprio odore. Si avvicinò alla casa; stava per riprendere forma umana quando sentì il leggero rumore di statica di una radio sovrastare il canto degli uccelli all'alba. Lo seguì e a circa cinquanta metri dalla casa trovò un capanno coperto da una rete di mimetizzazione. Sul tetto era montata un'antenna. Si accovacciò tra i cespugli e sentì terminare la statica. Si udirono tre note musicali, una dopo l'altra. Poi la voce di Chesna in tedesco disse: «Vi ricevo. Passo». La voce di un uomo, trasmessa da grande distanza rispose: «Il concerto è fissato. Beethoven, come stabilito. Dovete comprare i biglietti il prima possibile. Chiudo». Poi si sentì lo schiocco della frequenza improvvisamente vuota. «Fatto», disse la donna a qualcuno nel capanno. Un attimo dopo Bauman uscì e salì una scala a pioli fino al tetto, da dove tolse l'antenna. Apparve anche Chesna, con occhiaie profonde che indicavano sonni agitati, e iniziò ad attraversare la foresta dirigendosi verso la casa. Michael la seguì silenziosamente, restando nell'ombra verde. Annusò il suo profumo e ricordò il loro primo bacio nell'atrio del Reichkronen. Ora si sentiva più forte. Si sentiva più temprato in ogni punto del corpo. Qualche altro giorno di riposo, qualche altra notte a caccia della carne e del sangue di cui aveva bisogno e... Fece un altro passo; in quel momento una quaglia nascosta tra i cespugli stridette e spiccò il volo. Chesna si girò di scatto verso il rumore. In mano stringeva già la Luger e la stava estraendo dalla fondina. Lo vide: Michael notò i suoi occhi spalancarsi per lo shock mentre mirava e premeva il grilletto. L'arma sparò e un pezzo di corteccia schizzò via dall'albero accanto alla testa di Gallatin. La ragazza sparò di nuovo, ma il lupo nero non c'era più.
Michael si era girato e si era tuffato nella fitta vegetazione, mentre il proiettile gli era passato sibilando sulla schiena. «Fritz! Fritz!», gridò la donna chiamando Bauman mentre l'animale si infilava nel sottobosco e fuggiva. «Un lupo!», la sentì dire al tedesco che arrivava di corsa. «Era proprio qui e mi guardava! Dio, non ne avevo mai visto uno così da vicino!» «Un lupo?», chiese Bauman con voce incredula. «Ci sono i lupi da queste parti?» Michael fece il giro del bosco per tornare verso la casa. Il cuore gli batteva forte: i due proiettili l'avevano mancato solo di pochi millimetri. Si distese tra i cespugli e si trasformò il più rapidamente possibile, con le ossa che gli dolevano mentre si disarticolavano e le zanne che rientravano nelle mascelle producendo una serie di schiocchi. Gli spari dovevano aver già svegliato tutte le persone nella casa. Michael si alzò in piedi nella sua nuova pelle, rientrò di soppiatto nella stanza dalla finestra e se la chiuse alle spalle. Sentì all'esterno delle voci che chiedevano cos'era successo. Poi si infilò nel letto e tirò le lenzuola fino al mento; era disteso quando Chesna entrò qualche istante più tardi. «Immaginavo che fossi sveglio», disse. Era ancora un po' nervosa; Gallatin le sentiva sulla pelle l'odore della polvere da sparo. «Hai sentito gli spari?» «Sì. Cosa succede?» Si alzò a sedere, fingendo di essere allarmato. «Sono stata quasi divorata da un lupo. Qui fuori, molto vicino alla casa. Quella cosa mi fissava e aveva...» Non terminò la frase. «Aveva cosa?», la sollecitò Gallatin. «Aveva il pelo nero e gli occhi verdi», disse piano la ragazza. «Credevo che i lupi fossero tutti grigi». «No». Lo guardò in viso, come se lo vedesse davvero per la prima volta. «Non lo sono». «Ho sentito due spari. L'hai colpito?» «Non lo so, forse. Ovviamente poteva essere una femmina». «Be', grazie a Dio non ti ha preso». Michael sentì il profumo della colazione che stavano preparando in cucina: salsicce e frittelle. Lo sguardo intenso della ragazza lo stava innervosendo. «Se era affamato quanto me, sei davvero fortunata che non ti abbia dato un morso». «Immagino di sì». Ma cosa mi salta in mente? pensò Chesna. Quest'uomo ha peli neri e occhi verdi, come il lupo. E allora? Sto impazzendo, se mi frulla per la testa un'idea del genere! «Fritz... dice che non ci sono lupi in questa zona».
«Chiedigli se stanotte ha voglia di fare una passeggiata nel bosco per scoprirlo». Con un sorriso teso aggiunse; «Io di sicuro non lo farei». Chesna si rese conto di aver appoggiato la schiena contro il muro. Sapeva benissimo che quello che le passava per il cervello era assolutamente ridicolo, ma... no, no! Era assurdo! Quelle cose appartenevano ai racconti medievali intorno a un focolare, quando il vento invernale soffia gelido e ulula nella notte. Ma loro erano nel mondo moderno! «Vorrei sapere il tuo nome», disse infine. «Lazaris ti chiama Gallatinov». «Sono nato come Mikhail Gallatinov. Ho cambiato il nome in Michael Gallatin quando sono diventato cittadino britannico». «Michael», ripeté Chesna, provandone il suono. «Ho appena ricevuto un messaggio radio. L'invasione è confermata per il 5 giugno, a meno che non ci sia brutto tempo sulla Manica. La nostra missione è ancora attiva: dobbiamo trovare il Pugno di Ferro e distruggerlo». «Sarò pronto». Quella mattina il colorito dell'uomo era migliore, come se avesse fatto del moto. O magari un sogno movimentato? si chiese la ragazza. «Ne sono sicura», disse. «Anche Lazaris sta meglio. Ieri abbiamo fatto una lunga chiacchierata. Si intende molto di aerei. Se avremo dei problemi tecnici durante il viaggio, potrebbe esserci utile». «Vorrei vederlo. Posso avere dei vestiti?» «Chiederò al dottor Stronberg se sei in grado di alzarti dal letto». Michael grugnì. «Digli che voglio anche qualche frittella». Chesna annusò l'aria e trovò l'odore. «Devi avere un olfatto molto fine». «Sì, è vero». La ragazza rimase in silenzio. Di nuovo quei pensieri - idee folli - le si insinuarono nella mente. Li allontanò. «La cuoca sta preparando della farina d'avena per te e Lazaris. Non siete ancora pronti per dei cibi pesanti». «Se tu e il buon dottore volete farmi morire di fame con la brodaglia, potevo farlo a Falkenhausen». «Non è così. Il dottor Stronberg vuole solo che il tuo corpo si ristabilisca». La donna andò alla porta, poi si fermò. Lo guardò negli occhi verdi e sentì i peli drizzarsi sulla nuca. Erano gli occhi del lupo, pensò. No, ovviamente era assolutamente impossibile! «Torno più tardi a vedere come stai», disse, poi uscì. Michael aggrottò la fronte. Con i proiettili c'era mancato poco. Era quasi riuscito a leggere i pensieri di Chesna: chiaramente la ragazza non sarebbe arrivata alla conclusione giusta, ma da quel momento lui avrebbe dovuto
agire con estrema cautela quando lei era nelle vicinanze. Gallatin si grattò la barba ispida e poi si guardò le mani. Sotto le unghie aveva scura terra tedesca. La colazione - farina d'avena annacquata - gli venne portata pochi minuti più tardi. Poco dopo Stronberg entrò e dichiarò che la febbre era quasi scomparsa. Tuttavia il dottore protestò per i punti saltati. Gallatin disse che era in grado di fare qualche leggero esercizio, quindi aveva diritto a dei vestiti per andare in giro. Sulle prime Stronberg rifiutò decisamente, poi disse che ci avrebbe pensato. Meno di un'ora dopo una tuta grigioverde, biancheria intima, calzini e scarpe di tela gli vennero consegnati nella stanza dalla stessa donna che preparava i pasti. Un ulteriore incoraggiamento fu rappresentato da una scodella piena d'acqua, una barra di sapone e un rasoio a mano libera con cui Michael eliminò la barba. Rasato di fresco e vestito, uscì dalla stanza e girò per la casa. Trovò Lazaris in una stanza in fondo al corridoio: il russo aveva la testa completamente liscia, ma portava ancora una folta barba e il suo naso prominente sembrava ancora più grande a causa del cranio lucido. Il pilota era tuttora pallido e non molto dinamico, ma aveva le guance rosse e gli occhi castano scuro brillavano. Lazaris disse che lo trattavano molto bene, ma che la sua richiesta di una bottiglia di vodka e un pacchetto di sigarette era stata respinta. «Ehi, Gallatinov», disse quando Michael fece per andarsene. «Sono contento di non aver saputo che eri una spia così importante! Mi avrebbe innervosito un po'!» «Ti senti nervoso adesso?» «Intendi ora che mi trovo in un covo di spie? Gallatinov, ho tanta di quella paura che caco giallo! Se i nazisti trovano questo posto balleremo tutti con cravatte fatte di corde di pianoforte!» «Non lo troveranno. E non balleremo». «Già, forse il nostro lupo ci proteggerà. Hai saputo?» Michael annuì. «Allora», continuò Lazaris, «volete andare in Norvegia. Su una dannata isola al largo della costa sudoccidentale. Giusto? Riccioli d'Oro mi ha raccontato tutto». «Giusto». «E vi serve un copilota. Riccioli d'Oro dice di avere un aereo da trasporto. Non vuole dirmi di che tipo: questo mi fa pensare che non si tratti di uno degli ultimi modelli». Alzò un dito. «E questo significa, compagno Gallatinov, che non sarà un aereo veloce, né avrà una quota massima alta.
L'ho detto a Riccioli d'Oro e lo dico anche a te: se ci imbattiamo nei caccia, siamo spacciati. Nessun aereo da trasporto può sfuggire a un Messerschnitt». «Lo so e sono sicuro che lo sa anche lei. Questo significa che farai il lavoro o no?» Lazaris sbatté le palpebre, sorpreso che avesse avuto bisogno di chiederlo. «Il mio posto è in cielo», disse. «Certo che lo farò». Michael non ne aveva mai dubitato. Lasciò il russo e andò a cercare Chesna. La trovò da sola nel salotto sul retro, intenta a esaminare le mappe della Germania e della Norvegia. La ragazza gli mostrò la rotta che avrebbero percorso e la localizzazione delle tre soste di rifornimento. Spiegò che avrebbero volato solo con il buio e che il viaggio avrebbe richiesto quattro notti. Gli mostrò il punto in cui sarebbero atterrati in Norvegia. «È una striscia di terreno piatto in mezzo a due montagne», disse. «Il nostro agente con la barca è qui». Con la punta della matita toccò il circoletto che corrispondeva a un villaggio sulla costa che si chiamava Uskedahl. «Qui c'è Skarpa». Toccò la piccola massa di terra accidentata - una crosta bruna e circolare, pensò Michael - che si trovava a circa cinquanta chilometri di distanza da Uskedahl lungo la costa e a dodici - quindici chilometri al largo. «Questo è il punto in cui corriamo il maggior rischio di imbatterci nelle imbarcazioni di pattuglia». Disegnò un cerchio a est dell'isola. «E credo che ci siano anche le mine». «Skarpa non sembra il posto adatto a una vacanza estiva, vero?» «Per niente. Sul terreno ci sarà ancora della neve e le notti saranno fredde. Dovremo portare abiti invernali. L'estate arriva tardi in Norvegia». «Il freddo non mi dà fastidio». Chesna alzò lo sguardo e si trovò a fissare Michael negli occhi verdi. Occhi da lupo, pensò. «Sono ben poche le cose che riescono a infastidirti, vero?» «Vero. Non glielo permetto». «È così semplice? Ti accendi e ti spegni a seconda delle circostanze?» Il volto di Chesna era vicino al suo. Il suo profumo era un odore di paradiso. Meno di quindici centimetri e le loro labbra si sarebbero incontrate. «Credevo che stessimo parlando di Skarpa», disse Michael. «Infatti. Ma adesso stiamo parlando di te». La ragazza sostenne il suo sguardo ancora per qualche secondo, poi abbassò gli occhi e iniziò a piegare le mappe. «Hai una casa?», gli chiese. «Sì».
«Non intendo un'abitazione, ma una casa». Lo guardò di nuovo, con gli occhi fulvi scuri di domande. «Un luogo a cui appartieni. La casa del cuore». Gallatin rifletté. «Non ne sono sicuro». Il suo cuore era nella foresta della Russia, molto lontano dalla canonica di pietra nel Galles. «Credo che esista - o almeno esisteva - ma non posso tornarci. E chi può farlo?» Chesna non rispose. «E tu?» La ragazza si assicurò che le mappe fossero piegate accuratamente, poi le infilò in una custodia di cuoio marrone. «Io non ho una casa», disse. «Amo la Germania, ma è l'affetto per un'amica malata che presto morirà». Guardò fuori dalla finestra, verso gli alberi e la luce dorata. «Ricordo l'America. Quelle città... possono toglierti il fiato. E tutto quello spazio, come un'enorme cattedrale. Sai, una persona della California venne a trovarmi prima della guerra. Disse di aver visto tutti i miei film. Mi chiese se mi sarebbe piaciuto andare a Hollywood». Sorrise leggermente, persa nel ricordo. «Disse che il mio volto sarebbe stato visto in tutto il mondo. Dovevo tornare a casa e lavorare nel paese in cui ero nata. Ovviamente è successo prima che il mondo cambiasse». «Non al punto di far smettere a Hollywood di produrre film». «Io sono cambiata», spiegò Chesna. «Ho ucciso esseri umani. Alcuni di loro meritavano una pallottola, altri si trovavano semplicemente sulla sua traiettoria. Ho... visto cose terribili. E a volte... la cosa che vorrei di più al mondo è poter tornare indietro ed essere di nuovo innocente. Ma dopo che la tua casa del cuore è stata ridotta in cenere, chi può ricostruirtela?» Per quella domanda Michael non aveva risposta. La luce del sole splendeva attraverso la finestra e le illuminava i capelli, facendoli brillare come oro filato. Le dita di Gallatin dolevano dal desiderio di perdervisi dentro. Allungò una mano e fece per toccarle i capelli, poi la ragazza sospirò e chiuse con uno scatto la custodia delle mappe; Michael strinse la mano e la ritrasse. «Mi dispiace», disse Chesna. Mise la custodia in un libro svuotato e lo ripose su uno scaffale. «Non intendevo divagare così». «Nessun problema». Gallatin si sentiva di nuovo un po' stanco. Non c'era motivo di sforzarsi quando non era necessario. «Torno nella mia stanza». La ragazza annuì. «Dovresti riposare finché puoi». Indicò con un cenno gli scaffali di libri nel salotto. «Qui c'è un bel po' da leggere, se vuoi. Il dottor Stronberg ha una bella collezione di saggistica e mitologia». Quindi era la casa del dottore, pensò Michael. «No, grazie. Con permesso...» Lei
rispose: «Certo», e Gallatin uscì dal salotto. Chesna stava per allontanarsi dalla libreria quando un titolo sbiadito sul dorso di un libro attirò il suo sguardo. Era incuneato tra un grosso volume sulle divinità scandinave e un altro sulla storia della regione della Foresta Nera, ed era intitolato Völkerkunde von Deutschland: Racconti popolari tedeschi. No, non avrebbe tolto il libro dallo scaffale, non l'avrebbe aperto per leggerne l'indice. Aveva cose più importanti da fare, come mettere insieme gli indumenti invernali e assicurarsi che ci fosse abbastanza cibo. Non avrebbe toccato quel libro. Ma lo fece. Lo prese, lo aprì e ne scorse i capitoli. Ed eccolo lì. Proprio lì, accanto alle sezioni sui troll dei ponti, sugli abitanti dei boschi alti due metri e mezzo e sui folletti che abitavano nelle grotte. Das Werewulf. Chesna chiuse il libro con uno scatto talmente forte che il dottor Stronberg nel suo studio udì lo schiocco e sobbalzò sulla sedia. Assolutamente ridicolo! pensò la ragazza rimettendo a posto il volume. Si diresse verso la porta. Ma prima di raggiungerla rallentò il passo. Poi si fermò a circa un metro dalla soglia. La domanda assillante e tormentosa che non voleva scomparire le si ripresentò alla mente: come aveva fatto il barone - Michael - a trovare la strada per arrivare all'accampamento in quella foresta buia? Era impossibile riuscirci. No? Tornò alla libreria. La sua mano trovò il volume e vi rimase sopra. Pensò che leggere quel capitolo sarebbe stato come ammettere di ritenere possibile che fosse vero... No, ovviamente no! decise. Era solo curiosità innocente, nient'altro. I lupi mannari non esistono, così come non esistono i troll dei ponti o gli abitanti fantasma dei boschi. Che male poteva fare, leggere di una leggenda? Chesna prese il libro. 3. Michael vagava nell'oscurità. La caccia stava andando meglio della notte precedente. Sbucò in una radura e si trovò davanti un gruppo di tre cervi, un maschio e una coppia di femmine, che schizzarono subito via. Però una delle femmine zoppicava e
non riusciva a distanziare il lupo che recuperava velocemente terreno. Michael si accorse dei suoi spasimi di dolore: aveva una zampa che in precedenza si era rotta e poi risaldata storta. Con un ultimo scatto si lanciò ad abbrancarla e la atterrò. Una zuffa di pochi secondi e la natura seguì il suo corso. Mangiò il cuore della cerva, un pasto delizioso. Nulla di brutale in tutto ciò, ma una semplice questione di vita e di morte. Il cervo maschio e l'altra femmina indugiarono qualche istante in cima a una collina ad assistere al banchetto del lupo, poi scomparvero nella notte. Michael mangiò fino a saziarsi. Era un peccato sprecare i resti della cerva: la trascinò sotto una folta macchia di pini e segnò il territorio tutt'intorno, nel caso in cui il cane del fattore si fosse avventurato in quella direzione. La notte dopo sarebbe stata ancora buona da mangiare. Il sangue e i succhi animali gli infusero nuove energie. Si sentiva vivo, con i muscoli palpitanti. Ma aveva sangue rappreso su tutto il muso e sulla pancia, e bisognava fare qualcosa prima di tornare alla finestra aperta. Attraversò a lunghe falcate la foresta, annusando l'aria, e dopo qualche istante avvertì l'odore dell'acqua. Sentì poi anche il rumore di un ruscello che scorreva sulle rocce. Sguazzò e si rotolò nell'acqua gelida per lavare via tutto il sangue. Si ripulì le zampe leccandosele con cura perché non rimanessero tracce rosse sulle unghie. Lappò l'acqua per spegnere la sete e riprese la via del ritorno verso la casa. Si trasformò tra gli alberi e si rimise in piedi sulle due gambe bianche. Camminò senza fare rumore fino alla casa, i passi attutiti dall'erba di maggio, ed entrò nella sua stanza scivolando attraverso la finestra. Avvertì immediatamente il suo odore. Cannella e cuoio. Ed eccola lì, una sagoma blu e scura, seduta su una sedia nell'angolo. Poteva sentirle battere il cuore mentre le stava davanti. Batterle forte forse quanto il suo. «Da quanto sei qui?», le chiese. «Un'ora». Coraggiosamente si stava sforzando di mantenere la voce calma. «Forse un po' di più». E questa volta la voce la tradì. «Mi hai aspettato tutto questo tempo? Sono lusingato». «Io... ho pensato di dare un'occhiata per vedere come stavi». Si schiarì la gola, volendo far sembrare del tutto casuale la domanda successiva. «Michael, dove sei stato?» «Fuori. A fare quattro passi. Non ho voluto usare la porta d'ingresso. Ho pensato che avrei svegliato tutti in ca...»
«Sono le tre di notte passate», lo interruppe Chesna. «Perché sei nudo?» «Non porto mai i vestiti dopo la mezzanotte. La mia religione non lo permette». Lei si alzò. «Non cercare di fare lo spiritoso! Non c'è niente di spiritoso in tutto questo! Mio Dio! Sei fuori di testa o lo sono io? Quando ho visto che non c'eri... e la finestra aperta... non sapevo cosa pensare!» Michael richiuse la finestra con delicatezza. «Cosa hai pensato?» «Che... tu sei... non lo so, tutto questo è semplicemente folle!» Si voltò a guardarla. «Che io sono cosa?», le chiese con voce pacata. Chesna cominciò a pronunciare la parola, ma le si bloccò in gola. «Come... hai fatto a trovare l'accampamento quella notte?», riuscì a dire. «Al buio. In una foresta che non conoscevi per niente. Dopo che avevi passato dodici giorni con razioni da fame. Come? Dimmelo Michael. Come?» «Te l'ho detto». «No, non me l'hai detto. Hai fatto finta di dirmelo e io ho lasciato stare. Forse perché non c'era nessuna spiegazione razionale. E adesso entro nella tua stanza, trovo la finestra aperta e il letto vuoto. Tu sgattaioli dentro... nudo... e cerchi di mettere tutto a posto con una risata». Michael scrollò le spalle. «Cosa si può fare di meglio, quando ti beccano con le brache calate?» «Non hai risposto alla mia domanda. Dove sei stato?» Michael prese a parlare con calma e cautela, soppesando le parole. «Avevo bisogno di fare un po' di movimento. A quanto pare il dottor Stromberg è dell'idea che non sia ancora nelle condizioni di fare niente di più impegnativo di una partita di scacchi... e tra l'altro oggi l'ho battuto... due partite su tre. Comunque sono uscito la notte scorsa a fare una camminata e ho fatto lo stesso anche stanotte. Ho preferito non mettere i vestiti perché è una bella notte tiepida e volevo sentire l'aria sulla pelle. È così terribile?» Per un attimo Chesna non rispose. «Sei uscito a fare due passi anche se ti avevo raccontato del lupo?» «Con tutti gli animali selvatici nei boschi qui intorno, un lupo non attaccherebbe un essere umano». «Di quali animali selvatici stai parlando, Michael?», chiese Chesna. Michael pensò in fretta. «Oh, non te l'ho detto? Questo pomeriggio ho visto due cervi dalla mia finestra». «No, non me l'hai detto». La donna era immobile, non troppo lontano dalla porta per poterla raggiungere velocemente. «Il lupo che ho visto...
aveva gli occhi verdi. Proprio come i tuoi. E il pelo nero. Il dottor Stronberg abita qui da almeno trentacinque anni e non aveva mai sentito parlare di un lupo in questa foresta. Fritz è nato in un villaggio a meno di cinquanta chilometri da qui e nemmeno lui sapeva che in questa zona ci fossero lupi. Non ti sembra molto strano?» «I lupi si spostano. O almeno così ho sentito dire». Michael sorrise nel buio, teso in volto. «Un lupo con gli occhi verdi, eh? Chesna, dove vuoi andare a parare?» La donna pensò che fosse giunto il momento della verità. Dove voleva andare a parare? Ipotizzare che quell'uomo che le stava davanti, l'agente segreto inglese nato in Russia, fosse uno strano incrocio di uomo e bestia? Che fosse un esempio vivente della creatura di cui aveva letto in un libro di tradizioni popolari? Un uomo in grado di mutare il suo corpo in quello di un lupo e correre su quattro zampe? Michael Gallatin era un tipo strano, possedeva un olfatto molto sviluppato e un senso dell'orientamento ancora migliore, ma... un lupo mannaro? «Dimmi a cosa stai pensando», le chiese Michael avvicinandosi. Un'asse del pavimento scricchiolò leggermente sotto il suo peso. Sentiva il richiamo dell'odore di lei, ma Chesna arretrò di un passo. Michael si fermò. «Non avrai paura di me, vero?» «Dovrei averne?» La voce le tremava. «No», disse Michael. «Non ti farò del male». Si mosse di nuovo verso di lei e questa volta la donna non si tirò indietro. La raggiunse. Chesna riusciva a vedere i suoi occhi verdi perfino nell'oscurità. Erano occhi pieni di desiderio e risvegliarono la passione anche in lei. «Perché sei venuta nella mia stanza stanotte?», chiese Michael, il viso vicino al suo. «Io... ti ho detto, io... volevo vedere come...» «No», la interruppe con dolcezza. «Non è questo il vero motivo, giusto?» Chesna ebbe un attimo di esitazione, il cuore che le picchiava forte in petto, e scosse la testa mentre Michael le cingeva la vita con le braccia. Le loro labbra si incontrarono e si fusero in una cosa sola. Chesna pensò che stava impazzendo, perché ebbe la sensazione di avvertire un leggero sapore di sangue sulla lingua di Michael. Ma il sapore metallico scomparve immediatamente e lei gli si strinse di nuovo contro, schiacciando con crescente passione il corpo addosso a quello di lui. Michael aveva già una vistosa erezione e le sue vene pulsarono tra le dita di Chesna mentre gliele
accarezzava. Le sbottonò lentamente la vestaglia mentre si scambiavano baci profondi e pressanti e cominciò a farle scivolare delicatamente la lingua tra i seni, una lenta tortura, leccandola e risalendo dai seni fino alla gola. Chesna aveva la pelle d'oca su tutto il corpo e la sensazione le fece sfuggire un suono di piacere. Uomo o bestia, Michael era quello di cui aveva bisogno. La vestaglia le scivolò intorno alle caviglie. La donna si liberò dalle sue pieghe. Michael la sollevò tra le braccia e la portò sul letto. I loro corpi si intrecciarono su quella candida spianata e il calore della carne cercò il calore della carne, spingendoli l'uno profondamente nell'altro. Chesna lo imprigionò nella sua umida morbidezza e gli serrò le dita sulle spalle, mentre i fianchi di lui si alzavano e si abbassavano con forza armoniosa in lenti movimenti circolari. Michael si distese sulla schiena, lei gli si mise a cavalcioni e insieme fecero risuonare le molle del letto. Lui si inarcò sollevandola mentre lei lo tratteneva nelle sue profondità; al culmine di quell'arco i loro corpi furono scossi da un tremito, all'unisono, una pulsazione dolce e incandescente che fece sfuggire a Chesna un grido e a Michael un sospiro smorzato. Rimasero a parlare a voce bassa stesi uno accanto all'altra, la testa di Chesna accoccolata sulla spalla di Michael. Almeno per un po' la guerra era lontana, da qualche altra parte. Lei gli disse che probabilmente sarebbe andata in America. Non aveva mai visitato la California e forse quello era il posto giusto da dove cominciare una nuova vita. Gli chiese se aveva qualcuno di speciale ad aspettarlo in Inghilterra e lui rispose di no, ma le disse anche che lì era casa sua e lì sarebbe tornato una volta portata a termine la loro missione. Chesna gli stava seguendo il contorno delle sopracciglia con un dito e rise a voce bassa. «Cosa c'è di così buffo?», disse Michael. «Oh... niente. Solo che... be', non crederai mai cosa ho pensato quando ti visto entrare dalla finestra». «Mi piacerebbe saperlo». «È folle, davvero. Credo che la mia immaginazione si sia scatenata da quando quel lupo mi ha fatto quasi morire di paura». Rivolse la sua attenzione ai peli sul petto di lui. «Ma... ho pensato... ora non metterti a ridere... che tu potessi essere un...», si costrinse a pronunciare la parola, «... un lupo mannaro». «Lo sono», disse Michael fissandola negli occhi.
«Ah, davvero?» Chesna sorrise. «Be', ho sempre avuto il sospetto che fossi più una bestia che un barone». Michael emise un ringhio dal profondo della gola e con la bocca cercò quella di lei. Questa volta fecero l'amore con più tenerezza, ma con la stessa passione. La lingua di Michael si prodigò sui seni e giocherellò con gioioso abbandono sulle distese del corpo di Chesna. La donna lo cinse con braccia e gambe, mentre lui si faceva strada dentro di lei. Lo invitò a entrare sempre di più e, da gentiluomo qual era, Michael esaudì la sua richiesta. Erano sdraiati l'uno di fronte all'altra, ferro e seta uniti in un unico abbraccio, e si muovevano a piccoli cerchi e a scatti, come danzatori a tempo di musica. I loro corpi tremanti e tesi, lucidi del sudore dello sforzo fisico. Chesna gemette quando Michael la sottomise, tormentandole le morbide pieghe finché lei non fu sul punto di una resa totale. Le affondò dentro; la donna pensò che avrebbe potuto piangere di pura e semplice estasi. Tremò, sussurrando il nome di Michael, che con il suo ritmo la portò al limite del piacere e ancora oltre: come se fosse saltata giù da una scogliera e stesse cadendo nell'aria vibrante dei colori dell'iride. L'uomo continuò con i suoi colpi decisi, senza smettere, fino a quando non avvertì una stretta infuocata seguita da un'eruzione che sembrò stirargli schiena e muscoli fin quasi a fargli male. Rimase dentro Chesna senza lasciare il riparo tra le sue gambe; continuarono a baciarsi e a sussurrarsi parole, mentre l'universo ruotava senza fretta intorno al loro letto. La mattina seguente il dottor Stronberg annunciò che Michael era ormai quasi completamente guarito. Non aveva più la febbre e le lesioni sul corpo erano pressoché scomparse del tutto. Anche Lazaris era più in forze e in grado di camminare per la casa sulle gambe ancora rigide. Il medico rivolse però la sua attenzione a Chesna, che non sembrava aver dormito granché la notte prima. Lei assicurò il dottore di sentirsi bene e che quella notte avrebbe fatto in modo di dormire almeno otto ore. Al calar del buio una macchina marrone lasciò la casa con il dottor Stronberg e Chesna davanti e Michael e Lazaris dietro, entrambi con indosso le larghe tute grigioverdi. Il medico prese una stretta strada di campagna in direzione nordest; dopo una ventina di minuti di viaggio si fermò ai confini di un vasto campo e lampeggiò due volte con i fanali. Dall'altra parte del campo una lanterna rispose al segnale. Stronberg si diresse in quella direzione e parcheggiò la macchina al riparo di alcuni alberi. Una rete mimetica era stata tesa su un'intelaiatura di legno. L'uomo con la lanterna fu raggiunto da altri due, anche loro vestiti da semplici contadi-
ni, che sollevarono il bordo della rete è fecero segno ai visitatori di entrare. «Eccolo qui», disse Chesna; nella luce gialla della lanterna Michael vide l'aereo. Lazaris scoppiò a ridere. «Per l'anima di tutti i santi!», disse parlando in un rozzo misto di tedesco e russo. «Questo non è un aereo... è una trappola mortale!» Anche Michael la pensava così. Il trimotore da trasporto, verniciato di un grigio scuro, era abbastanza grande per sette o otto passeggeri, ma non si poteva essere sicuri che fosse ancora in grado di volare. La carlinga era tutta costellata di toppe per rappezzare i fori dei proiettili, le gondole dei motori sembravano essere state riattaccate alle ali a colpi di mazza e uno dei sostegni delle ruote era curvato in malo modo. «È uno Junkers Ju-52», disse Lazaris. «Un modello costruito nel 1934». Controllò la pancia del velivolo e passò le dita su una giuntura arrugginita. Borbottò disgustato nel trovare un buco grosso come il suo pugno. «Questo maledetto affare sta cadendo a pezzi!», disse a Chesna. «Dove l'avete trovato, in un deposito di spazzatura?» «Certo», rispose lei. «Se fosse in perfette condizioni, la Luftwaffe lo userebbe ancora». «Volerà, vero?», chiese Michael. «Sì. I motori non sono proprio al meglio, ma ci faranno arrivare in Norvegia». «Quello che bisogna chiedersi è», disse Lazaris, «se riuscirà a volare con dei passeggeri!» Trovò un altro buco arrugginito. «Il pavimento della cabina di pilotaggio sembra sul punto di sfondarsi!» Si avvicinò al motore sull'ala dalla parte del portello, allungò la mano e la infilò oltre l'elica, dentro l'ingranaggio. Ritirò le dita luride di olio sporco e grasso. «Oh, fantastico! Potremmo seminare del grano nel letame che c'è in questo motore! Riccioli d'Oro, hai intenzione di suicidarti?» «No», disse Chesna in tono brusco. «E ti ho già chiesto di smetterla di chiamarmi in quel modo». «Be', pensavo che ti piacessero le favole. Soprattutto adesso, dopo che ho visto questa carcassa che chiami aereo». Lazaris prese una lanterna da uno degli uomini, fece un girò intorno all'aereo verso il portello della fusoliera e si abbassò per entrare nel velivolo. «È il meglio che sono riuscita a fare», disse Chesna a Michael. «Forse non è nelle condizioni migliori» - sentirono Lazaris scoppiare in una fragorosa risata mentre ispezionava alla luce della lanterna l'abitacolo del pilota
- «ma ci porterà dove dobbiamo andare. A dispetto di ciò che pensa il tuo amico». Michael pensò che avrebbero dovuto volare per più di mille e duecento chilometri, in parte sul gelido Mare del Nord. Se l'aereo avesse avuto qualche problema al motore sul mare... «C'è almeno un canotto di salvataggio?», chiese. «Sì. Ho riparato io stessa i buchi». Il russo uscì imprecando dallo Junkers. «È un ammasso arrugginito di bulloni svitati!», disse infuriato. «Uno starnuto troppo forte, e il vetro della cabina esplode in pezzi! Non so nemmeno se questo maledetto aggeggio può superare i cento nodi, anche con il vento a favore!» «Nessuno ti sta puntando una pistola alla tempia per costringerti a venire con noi». Chesna gli tolse la lanterna di mano e la restituì al proprietario. «Noi partiamo il 12, dopodomani notte. Vestiti e scorte dovrebbero essere pronti per allora. Faremo tre soste di rifornimento e di sicurezza tra qui e Uskedahl. Con un po' di fortuna dovremmo raggiungere il punto di atterraggio la mattina del 16». «Con un po' di fortuna», disse Lazaris schiacciandosi con un dito una narice e soffiandosi il naso, «questo maledetto aeroplano non perderà le ali a sud della Danimarca». Con le mani sui fianchi si voltò a guardare di nuovo lo Junkers. «Direi che questa povera bestia ha dovuto vedersela con un caccia russo. Sì, proprio così». Guardò prima Michael e poi Chesna. «Verrò con voi. Qualunque cosa pur di pulirmi la terra tedesca via dalle scarpe». Tornati a casa del dottor Stronberg, Chesna e Michael stavano insieme a letto mentre il vento si levava e mulinava tra gli alberi. Non c'era bisogno di parole: i loro corpi riuscivano a comunicare con un'eloquenza prima selvaggia, poi gentile. La donna si addormentò tra le braccia di Michael, che ascoltava il vagare del vento, la mente rivolta a Skarpa e al Pugno di Ferro. Non sapeva cosa avrebbero trovato su quell'isola, ma non riusciva a togliersi dalla mente le orribili fotografie nella cartella di Blok. Bisognava trovare l'arma in grado di provocare ferite così tremende, e bisognava farlo non solo per l'invasione degli alleati, ma anche per quelli che avevano già dovuto subire le torture dei nazisti. Con un'arma del genere in mano a Hitler, tutto il mondo rischiava ancora di ritrovarsi all'ombra di una svastica. Il sonno ebbe la meglio e lo trascinò via. Nei suoi incubi alcuni soldati marciavano con il passo dell'oca sotto il Big Ben, Hitler indossava una
pelliccia di lupo nera e la voce di Wiktor sussurrava: Non deludermi. 4. In volo lo Junkers era più aquila di quanto sembrasse, ma traballava nell'aria turbolenta e i motori sull'ala emettevano fumo e scintille biancoazzurrine. «Beve olio e combustibile come un diavolo!», disse agitato Lazaris, che era seduto al posto da copilota e controllava gli strumenti. «Entro due ore rimarremo a secco!» «Quindi faremo in tempo ad arrivare al primo punto di rifornimento», replicò Chesna con calma, con le mani sui comandi. Fare conversazione era difficile, a causa del rombo rauco dei motori. Michael, seduto a un angusto tavolino da navigatore dietro la cabina di pilotaggio, controllò le mappe: la tappa iniziale - un campo di aviazione nascosto, gestito dalla Resistenza tedesca - si trovava appena a sud della Danimarca. La seconda, prevista per la notte successiva, era in un campo partigiano all'estremità settentrionale del paese, e l'ultima sosta sarebbe avvenuta all'interno della Norvegia. Le distanze sembravano enormi. «Non ce la faremo mai, Riccioli d'Oro», disse Lazaris. Lo Junkers tremò improvvisamente e i bulloni allentati crepitarono come gli spari di una mitragliatrice. «Ho visto quei paracadute là dietro». Indicò con uno scatto del pollice l'area di carico, dov'erano sistemate le razioni, le borracce, gli abiti invernali, le mitragliatrici e le munizioni. «Sono da bambini. Se vi aspettate che salti da questo rottame con uno di quelli, siete matti». Mentre parlava scrutava nell'oscurità, alla ricerca dei caratteristici getti di fumo azzurro dei motori dei caccia nazisti. Sapeva che sarebbe stato difficile vederli, e che anche se ci fosse riuscito sarebbe stato troppo tardi perché i proiettili sarebbero stati già in viaggio. Tremò al pensiero dei danni che le mitragliatrici pesanti avrebbero potuto fare a quella fragile cabina di pilotaggio, perciò continuò a parlare per nascondere la paura, anche se né Chesna né Michael lo stavano a sentire. «Avrei più probabilità di cavarmela se mi buttassi sperando di atterrare su un pagliaio». Poco meno di due ore dopo il motore di destra iniziò a perdere colpi. Chesna vide gli indicatori del carburante scendere verso lo zero. Il muso dello Junkers continuava a cercare di abbassarsi, come se persino l'aereo avesse fretta di tornare a terra. La ragazza aveva i polsi che le dolevano per lo sforzo di mantenere stabile l'apparecchio e in breve tempo dovette chiedere a Lazaris di aiutarla ai comandi. «Vola come una corazzata», com-
mentò il russo, virando verso una delle coordinate della mappa che Michael gli aveva fornito. Sul terreno apparve una freccia di fuoco: fiamme amiche, che indicavano la prima pista d'atterraggio. Lazaris portò lo Junkers in posizione, volando in tondo e abbassandosi sulla freccia; quando le ruote toccarono terra, nella cabina di pilotaggio si sentì un sospiro generale di sollievo. Durante le diciotto ore seguenti l'apparecchio venne rifornito di carburante e i motori lubrificati. Lazaris si mise a capo della squadra di terra... quasi tutti contadini che non erano mai stati a meno di cento metri da un aereo. Il russo rimediò degli attrezzi e, sotto la protezione di una rete di mimetizzazione, esplorò il motore di destra. Eseguì una decina di piccole correzioni, borbottando e imprecando in continuazione. Quando tornò la mezzanotte erano di nuovo in aria e stavano passando dalla Germania alla Danimarca. L'oscurità dell'una era uguale a quella dell'altra. Lazaris prese di nuovo i comandi quando Chesna si stancò; cantò ad alta voce sconce canzoni russe da osteria sopra la musica aspra e incessante dei motori. La ragazza lo zittì indicandogli una striscia azzurra a circa mille e cinquecento metri sopra di loro. Il caccia notturno - probabilmente un nuovo modello di Heinkel o di Dornier a giudicare dalla velocità, disse la ragazza - sparì verso ovest in pochi secondi, ma la vista di quel predatore tolse a Lazaris la voglia di cantare. Atterrati in Danimarca venne loro offerto un banchetto di patate fresche e sanguinaccio, un piatto che Michael gradì particolarmente. I loro ospiti erano anche in questo caso dei poveri contadini, che avevano chiaramente preparato una festa come se fossero arrivati dei membri della famiglia reale. La testa calva di Lazaris attirò l'attenzione di un bambino, che continuava a volerla toccare. Il cane della famiglia annusò nervoso Michael e una delle donne presenti fu entusiasta quando riconobbe Chesna da una foto su una rivista malridotta dedicata alle stelle del cinema tedesco. Stelle di un altro tipo li accolsero la notte seguente quando volarono sopra il Mare del Nord. Una pioggia di meteore lasciò lampi rossi e oro nel buio; Michael sorrise sentendo Lazaris ridere come un bambino. Quando atterrarono, scesero dall'aereo e trovarono il freddo della Norvegia. Chesna tirò fuori le giacche imbottite, che indossarono sopra la tenuta grigioverde da commando. Tra i partigiani norvegesi che li accolsero c'era un agente britannico che si presentò come Craddock; vennero portati con una slitta trainata da renne fino a un villino di pietra in cui era stato preparato un altro banchetto. Craddock - un giovanotto sincero che fumava
la pipa e che aveva perso l'orecchio destro, strappato dal proiettile di un fucile tedesco - disse che più a nord il tempo stava peggiorando e che dovevano aspettarsi la neve prima di raggiungere Uskedahl. La donna più grossa che Michael avesse mai visto - chiaramente la figlia maggiore della famiglia che li ospitava - si sedette accanto a Lazaris, osservandolo attentamente mentre masticava una porzione di carne essiccata di caribù. La notte seguente, quando ripartirono per l'ultima parte del viaggio, la ragazza aveva le lacrime agli occhi e il russo stringeva una zampa di coniglio bianca che era in qualche modo finita nel suo giaccone. Erano solo una piccola parte dei milioni di esseri umani che per Hitler erano a malapena un gradino sopra le bestie. I motori dello Junkers sibilavano nell'aria fredda e sottile. La mattina del 16 maggio iniziò con la neve che turbinava nell'oscurità, sbattendo contro il parabrezza della cabina di pilotaggio. L'aereo beccheggiava e sbandava, sferzato dai forti venti che soffiavano sopra le frastagliate cime montuose. Sia Lazaris che Chesna tennero stretta la rispettiva cloche mentre lo Junkers si sollevava e precipitava per centinaia di metri. Michael non poté fare altro che allacciare le cinture e aggrapparsi al tavolo, con le ascelle sudate e lo stomaco sottosopra. L'aereo vibrò violentemente; tutti sentirono la struttura stridere con un rumore simile a note basse di violino. «Ghiaccio sulle ali», disse in tono secco Chesna controllando gli strumenti. «La pressione dell'olio del motore sinistro sta calando. La temperatura aumenta rapidamente». «Una perdita. Si è staccata una giuntura». La voce di Lazaris era assolutamente professionale. Lo Junkers vibrò di nuovo, come se stessero correndo su una strada acciottolata. Il russo allungò una mano verso il pannello di controllo e tolse potenza al motore sull'ala sinistra, ma prima che riuscisse a togliere le dita dalla leva si udì un terrificante scoppio e dal motore spuntarono delle fiamme. Il propulsore si grippò e si bloccò. «Ora scopriremo di che stoffa è fatto», disse Lazaris a denti stretti, quando l'altimetro iniziò a scendere. Il muso dello Junkers puntò in picchiata: il russo lo risollevò, con le mani guantate strette sulla cloche. Chesna aggiunse la sua forza, ma l'aereo aveva altre intenzioni. «Non riesco a tenerlo!», esclamò la ragazza. Lazaris le disse: «Devi farlo». Chesna obbedì, impiegando tutta la forza della schiena e delle spalle. Michael sganciò le cinture e si chinò su di lei, afferrando anche lui la cloche. Riusciva a sentire lo sforzo immenso e tremante a cui era sottoposto il velivolo; quando il vento colpì la fiancata dell'aereo
e lo spostò a sinistra, Gallatin venne sbattuto contro la paratia della cabina di pilotaggio. «Agganciati al sedile!», gridò Lazaris. «Ti romperai l'osso del collo!» Michael si chinò di nuovo in avanti, per aiutare Chesna a mantenere il muso dell'apparecchio il più stabile possibile. Il russo gettò uno sguardo al motore di sinistra e vide lingue di fuoco uscire da sotto la copertura bruciata. Si rese conto che era carburante incendiato. Se i serbatoi sull'ala fossero esplosi... Lo Junkers scartò di nuovo di lato, con uno scossone violento che fece gemere la struttura. Lazaris udì un rumore di metallo che si squarciava e si rese conto con un sussulto di puro orrore che il pavimento della cabina si era spaccato e aperto sotto i loro piedi. Michael vide l'indicatore dell'altimetro ruotare furiosamente. Non riusciva a scorgere nulla al di là del parabrezza e della neve, ma sapeva che c'erano le montagne... e lo sapeva anche Chesna. Il velivolo precipitò, con la fusoliera che gemeva e si contorceva come un corpo in preda al tormento. Lazaris guardò il motore sull'ala sinistra: le fiamme si stavano spegnendo, soffocate dal vento. Quando l'ultima fiammella svanì, il russo tirò a sé la cloche tendendo al massimo i muscoli. Lo Junkers fu lento a rispondere. L'uomo resistette nonostante il dolore lancinante ai polsi e alle braccia. Anche Chesna afferrò la cloche e la tirò a sé. Poi Michael aggiunse la sua forza e l'aereo vibrò e gemette, ma obbedì. L'indicatore dell'altimetro si stabilizzò a poco meno di settecento metri. «Là!», esclamò la ragazza indicando sulla destra un punto di luce nella neve. Virò in quella direzione e continuò a scendere lentamente di quota. Si accese un altro punto di luce e poi un terzo. «È la pista», disse la ragazza mentre l'indicatore dell'altimetro si abbassava sempre più. Iniziò a bruciare anche un quarto fuoco: erano latte di olio in fiamme ai lati del campo di atterraggio. «Andiamo». Abbassò le manette con mano tremante, mentre Michael si legava rapidamente al sedile. Quando si avvicinarono al campo illuminato dalle fiamme, Chesna raddrizzò le ali e spense i due motori rimasti. Lo Junkers, un uccello sgraziato, planò con il suono della neve che sibilava sulle lamiere bollenti. Le ruote colpirono il terreno. Rimbalzarono. Toccarono di nuovo, con un rimbalzo più leggero. Poi Chesna si appoggiò sul freno con tutto il suo peso e l'aereo percorse la pista lasciando dietro di sé una scia di neve e vapore. L'apparecchio rallentò e con uno scroscio e un gorgoglio di fluido idraulico gli pneumatici si fermarono.
Lazaris si guardò tra le gambe e vide una striscia di neve larga circa quindici centimetri. Fu il primo a scendere dall'aereo. Quando emersero anche Chesna e Michael, il russo camminava in tondo stordito, per familiarizzare di nuovo i piedi con il terreno. I motori dello Junkers fumavano e scricchiolavano, reclamando l'ultima parola. Mentre Gallatin e la ragazza scaricavano il materiale, un camion scassato dipinto di bianco si fermò accanto all'aereo. Ne scesero diversi uomini che iniziarono a srotolare un enorme telone cerato bianco. Il loro capo era un individuo dalla barba rossa che si presentò come Hurks e si mise ad aiutarli a caricare sul camion gli zaini, le mitragliatrici, le munizioni e le granate. Intanto gli altri erano impegnati a coprire l'aereo con il telone. «Siamo quasi precipitati!», disse Lazaris a Hurks, stringendo la sua zampa di coniglio. «Quella tempesta ci ha quasi staccato le ali!» Il norvegese lo guardò inespressivo. «Quale tempesta? È primavera». Poi si rimise al lavoro, mentre Lazaris rimase lì con la neve che gli imbiancava la barba. Si udì uno scricchiolio e il tintinnio di bulloni indeboliti che si spezzavano. Michael e Chesna si girarono verso l'aereo e a Lazaris sfuggì un'esclamazione di orrore. Il motore dell'ala sinistra annerito dalle fiamme rimase appeso al sostegno ancora per qualche secondo, poi anche gli ultimi bulloni si spezzarono e l'intero pezzo si schiantò al suolo. «Benvenuti in Norvegia», disse Hurks. «Sbrigatevi!», gridò agli uomini sovrastando il lamento stridulo del vento. «Coprite quell'affare!» Operarono in fretta, stendendo il telone cerato sullo Junkers e fissandolo con corde bianche. Poi, con i passeggeri e gli altri norvegesi a bordo del camion, Hurks si mise al volante e lo portò via dalla pista di atterraggio, dirigendosi verso la costa a circa quaranta chilometri a sudovest. Il sole inargentava il cielo a oriente quando attraversarono le strade strette e fangose di Uskedahl. Era un villaggio di pescatori, con le case costruite in legno e pietra grigia. Sottili fili di fumo si levavano dai camini, e Michael sentì odore di caffè forte e grasso di pancetta. Là dove le rocce incontravano il mare color ardesia, una piccola flotta di navi si allontanava seguendo la marea dell'alba con il motore scoppiettante e le reti alzate e pronte. Un branco di cani pelle e ossa abbaiò e guaì alle ruote del camion; qua e là Michael notò qualche figura che li osservava dagli scuri mezzi chiusi. Chesna gli diede una gomitata nelle costole e fece un cenno rivolto al porto. Un idrovolante a scafo centrale Blohm und Voss, con una svastica
dipinta sulla coda, volava sfiorando la superficie tranquilla del mare a circa duecento metri al largo. Girò lentamente due volte intorno ai pescherecci, poi prese quota e scomparve nelle nubi basse. Il messaggio era chiaro: i padroni nazisti li stavano sorvegliando. Hurks fermò il camion davanti a una casa di pietra. «Voi scendete qui», disse a Michael, Chesna e Lazaris. «Ci prenderemo cura noi della vostra merce». Né alla ragazza né a Gallatin piaceva l'idea di lasciare le armi e le munizioni a un uomo che non conoscevano, ma non volevano neppure rischiare di venire scoperti se il villaggio fosse stato ispezionato dall'equipaggio dell'idrovolante. Scesero dal veicolo, anche se con riluttanza. «Entrate lì». Il norvegese indicò la casa, la cui porta brillava, verniciata di grasso di foca essiccato. «Riposate. Mangiate. Aspettate». Innestò la marcia e ripartì nel fango. Michael aprì la porta ed entrò. Con i capelli sfiorò una piccola cascata di campanelli d'argento appesi in cima alla soglia, che tintinnarono allegramente come se fosse la vigilia di Natale. I campanelli rimasero impigliati anche nei capelli di Chesna, ma scivolarono sul cranio pelato di Lazaris. L'interno della casa era buio e odorava di pesce e di fango secco. Alle pareti erano appese delle reti e qua e là una foto storta ritagliata da una rivista era attaccata a un chiodo. Al centro di una piccola stufa di ghisa brillava un piccolo fuoco. «Salve!», disse Michael. «C'è nessuno?» Si udì un gemito di molle. Su un vecchio divano marrone c'era un grosso mucchio di vestiti sporchi che iniziò a tremare e sotto gli occhi dei nuovi arrivati si alzò a sedere, sforzando le molle del sofà. «Per tutti i Santi!», mormorò Lazaris. «Che cos'è quello?» Qualunque cosa fosse allungò un braccio verso la bottiglia di vodka sul pavimento accanto a sé. Una grande mano bruna stappò la bottiglia e la sollevò, poi si sentì il suono del liquido che scorreva in gola. Infine un rutto. Il mucchio si alzò in piedi con difficoltà e alla fine si rivelò alto quasi due metri. «Benvenuti!» La voce era roca e impastata. Una voce femminile. «Benvenuti!» Avanzò verso di loro, alla luce rossastra della stufa. Le assi del pavimento scricchiolarono sotto il suo peso; Michael fu sorpreso che non cedessero completamente. La donna doveva pesare sicuramente più di cento chili ed essere alta un metro e novanta. Si avvicinò a loro, una montagna barcollante sulle gambe. «Benvenuti!», ripeté di nuovo, limitata da pro-
blemi di mente o di linguaggio. Il viso ampio e rugoso sorrise, mostrando una bocca con tre denti. Gli occhi, circondati da una fitta rete di rughe, erano quelli a mandorla di un'eschimese, ma celesti. La pelle era color bruno ramato; i capelli lisci e dritti, che sembravano essere stati tagliati sotto un'enorme scodella, erano di un arancione biondastro. Michael si rese conto che era il risultato della lotta per il predominio fra generazioni di geni eschimesi e nordici. Era una donna dall'aspetto davvero straordinario, quella che sorrideva in piedi davanti a loro avvolta da coperte multicolori. Gallatin stimò che avesse quasi cinquant'anni o poco più, date le rughe intorno agli occhi e i capelli grigi in mezzo a quelli rossi. La donna porse loro la bottiglia di vodka. «Benvenuti?», chiese. Aveva una spilla d'oro conficcata in una narice. «Benvenuti!», rispose Lazaris togliendole la bottiglia di mano e inghiottendo il fuoco trasparente. Si fermò a emettere un fischio di apprezzamento, poi si rimise a bere. Michael gli tolse a forza la bottiglia di mano e la restituì alla donna, che leccò il bordo e bevve un altro sorso. «Come ti chiami?», chiese Chesna in tedesco. La donna scosse la testa. «Il tuo nome?» Aveva provato in norvegese, anche se lo parlava pochissimo. Si premette una mano sullo sterno. «Chesna». Indicò Gallatin. «Michael». Poi il russo felice. «Lazaris». «Ah!» La donna annuì contenta. Indicò in mezzo alle cosce enormi. «Kitty!», disse. «Benvenuti!» «Un uomo potrebbe mettersi davvero in guai grossi, da queste parti», osservò Lazaris in tono saggio. La casetta, se non proprio pulita, era almeno calda. Michael si tolse il giaccone imbottito e lo appese a un gancio sul muro, mentre Chesna cercava di comunicare con l'eschinordica enorme e un po' sbronza. Il massimo che riuscì a fare fu capire che la donna abitava lì e che c'erano molte bottiglie di vodka. La porta si aprì, facendo suonare i campanelli. Hurks entrò e la richiuse. «Bene!», esclamò togliendosi il pesante cappotto. «Vedo che avete conosciuto Kitty». La donna gli sorrise, bevve quel che restava nella bottiglia e ricadde sul divano con uno schianto. «Fa molti danni ai mobili», ammise il norvegese, «ma è simpatica. Chi è il capo tra voi?» «Io», rispose Chesna. «D'accordo». Hurks si rivolse a Kitty in un dialetto cantilenante che a
Michael sembrò un misto di grugniti e schiocchi. La donna annuì senza più sorridere e fissò Chesna. «Le ho detto chi siete», la informò il norvegese. «Vi stava aspettando». «Lei?», esclamò Chesna scuotendo la testa. «Non capisco». «Kitty vi porterà all'isola di Skarpa», spiegò Hurks. Andò a una credenza e ne tirò fuori una scatola di biscotti di pasta frolla. «Cosa?» Chesna guardò la donna, che sorrideva a occhi chiusi con la bottiglia vuota stretta alla pancia. «Ma è... è un'ubriacona!» «E allora? Di questi tempi quassù lo siamo tutti». Il norvegese prese dalla tavola una caffettiera ammaccata, la scosse per agitare il liquido e la mise sulla stufa. «Kitty conosce queste acque e conosce anche l'isola di Skarpa. Io non so niente di barche. Non so nemmeno nuotare. Cosa comunque inutile, immagino, se si urta una mina». «Stai dicendo che se vogliamo arrivare a Skarpa dobbiamo mettere la nostra vita nelle sue mani?» «Esatto», rispose Hurks. «Skarpa!» Gli occhi di Kitty si spalancarono. La sua voce era un ringhio basso e gutturale. «Skarpa sporco, cattivo! Ptù!» Sputò sul pavimento. «Nazisti uomini! Ptù!» Un altro sputo denso e voluminoso cadde sulle assi sporche. «Inoltre», continuò il norvegese, «la barca appartiene a Kitty. Un tempo era il miglior pescatore nel raggio di centocinquanta chilometri. Dice che una volta riusciva a sentire i pesci cantare e che quando lei - imparate le loro melodie, gliele cantava - si infilavano nelle sue reti a tonnellate». «Non mi interessano i pesci canterini», disse Chesna in tono gelido. «Mi interessano le navi pattuglia, i fari proiettori e le mine». «Oh, Kitty sa dove si trovano». Hurks staccò delle tazze di stagno dai ganci sul muro. «Kitty abitava sull'isola di Skarpa, prima che arrivassero i nazisti. Insieme al marito e ai sei figli maschi». Sì sentì un tintinnio e la bottiglia di vodka vuota venne buttata via. Atterrò in un angolo, accanto ad altre tre. Kitty scavò nelle pieghe del divano e la sua mano emerse con una bottiglia nuova. La stappò usando i denti che le erano rimasti, la inclinò e bevve. «Che ne è stato della sua famiglia?», chiese Michael. «I nazisti li hanno... diciamo... reclutati per aiutarli a costruire quel grosso impianto chimico. Hanno reclutato anche tutte le altre persone sane e robuste del suo villaggio. E ovviamente anche lei, visto che è forte come
un bue. Hanno costruito anche un campo di aviazione e fatto venire degli schiavi per lavorare. Poi hanno giustiziato tutte le persone che avevano eseguito il lavoro. Kitty ha due pallottole in corpo. A volte le fanno male, quando fa molto freddo». Toccò la caffettiera. «Il caffè dovrà essere per forza nero, temo. Abbiamo finito la panna e lo zucchero». Iniziò a versare la bevanda: era densa e fangosa. «Kitty è rimasta in mezzo ai cadaveri per tre o quattro giorni. Non è esattamente sicura di quanto tempo sia trascorso. Quando ha deciso che non sarebbe morta, si è alzata e ha trovato una barca a remi. L'ho conosciuta nel '42, quando la mia nave è affondata con un siluro nella pancia. Ero un marinaio della marina mercantile e grazie a Dio sono riuscito a raggiungere un gommone». Diede la prima tazza a Chesna, poi le offrì dei biscotti. «Che ne hanno fatto i nazisti dei corpi?», chiese la ragazza prendendo il caffè e un dolce. Hurks lo chiese a Kitty, usando di nuovo quella lingua di grugniti e schiocchi. La donna rispose con voce bassa ed ebbra. «Li hanno lasciati ai lupi», riferì il norvegese. Porse la scatola a Michael. «Biscotto?» Insieme al caffè robusto e ai dolci di pasta frolla, Hurks tirò fuori un pacchetto di carne di montone secca e coriacea che Michael trovò gustosa, ma che Chesna e Lazaris ebbero difficoltà a inghiottire. «Stasera avremo un bel piatto di stufato», promise il norvegese. «Calamari, cipolle e patate. Molto saporito, con tanto sale e pepe». «Io non li mangio i calamari!», esclamò Lazaris togliendosi il giaccone imbottito e sedendosi a un tavolo, con davanti la tazza di caffè. Rabbrividì. «Quegli affari sembrano un uccello dopo una nottata in un bordello di Mosca!» Allungò una mano verso la tazza. «No, mangerò solo le cipolle e le pata...» Alle sue spalle ci fu un movimento velocissimo. Vide lo scintillio di una lama e l'enorme mole di Kitty cadere sopra di lui come una valanga. «Non muoverti!», gridò Hurks, poi la lama piombò giù prima che Michael o Chesna potessero correre in aiuto del russo. Il coltello, con la terribile lama ricurva usata per scuoiare le foche, si conficcò nel piano graffiato del tavolo, tra il medio e l'anulare di Lazaris. Mancò la pelle, ma il russo si portò la mano al petto con uno scatto e urlò come un gatto con la coda in fiamme. Al suo urlo ne seguì un altro: una risata roca e ubriaca. Kitty strappò il coltello dal tavolo e iniziò a ballare allegramente per la stanza come una trottola enorme e letale. «È pazza!», gridò Lazaris controllandosi le dita. «È completamente paz-
za!» «Mi dispiace», si scusò il norvegese dopo che Kitty ebbe rimesso il coltello nel fodero e si fu gettata di nuovo sul divano. «Quando beve... le piace fare questo piccolo gioco. Ma non fa mai centro. Quasi mai, almeno». Alzò la mano sinistra: il dito medio era amputato quasi fino alla nocca. «Be', per amor di Dio toglietele il coltello!», urlò il russo, ma la donna lo copriva già con il corpo, ingollando altra vodka. Michael e Chesna infilarono le mani nelle tasche della tuta. «È importante che arriviamo su Skarpa il prima possibile», spiegò Gallatin. «Quando possiamo partire?» Hurks riferì la domanda a Kitty. Lei ci pensò su per un attimo con la fronte aggrottata, poi si alzò e uscì all'esterno camminando goffamente. Quando tornò, con i piedi coperti di fango, sorrise e rispose. «Domani notte», tradusse il norvegese. «Dice che stasera ci sarà un colpo di vento e che la nebbia segue il vento». «Domani notte potrei essere rimasto con dei moncherini!» Lazaris si nascose le mani nelle tasche finché Kitty tornò al divano, poi si azzardò a tirarle fuori e a finire di mangiare. «Sapete», disse dopo che la donna cominciò a russare, «c'è una cosa su cui tutti dovremmo riflettere. Se arriviamo su quell'isola, fate quello che voi tipi eroici dovete fare e ce la caviamo senza perdere parti del corpo, poi che facciamo? Nel caso non l'aveste notato, il nostro Junkers è ridotto a un rottame. Non potrei mai riattaccare quel motore, neppure se avessi una gru. E poi è carbonizzato. E allora come ce ne andiamo da qui?» Michael aveva già riflettuto sulla questione. Guardò Chesna e vide che neppure lei aveva una risposta. «Come pensavo», borbottò Lazaris. Ma Gallatin non poteva permettere che quel problema gli inquinasse la mente in quel momento. Prima dovevano raggiungere Skarpa e affrontare il dottor Hildebrand, poi avrebbero cercato una via di uscita. O almeno così sperava. La Norvegia non sarebbe stata un luogo piacevole in cui passare l'estate, con i nazisti che davano loro la caccia. Hurks tolse a Kitty la bottiglia di vodka e la passò agli altri. Michael si permise un unico sorso bruciante, poi si allungò sul pavimento - con le mani infilate in tasca - e si addormentò in poco più di un minuto. 5.
L'imbarcazione di Kitty scivolava nella foschia con il motore che ruggiva piano. L'acqua sibilava dividendosi davanti alla polena, un gargoyle di legno con un tridente, e una lanterna schermata illuminava l'interno della timoniera di una luce verde soffusa. Le mani grandi e ruvide della donna si muovevano delicatamente sul timone. Michael era in piedi accanto a lei, scrutando attraverso il parabrezza fradicio. Kitty era stata ubriaca per quasi tutto il giorno, ma appena il sole aveva cominciato a tramontare aveva messo da parte la vodka e si era lavata il viso con l'acqua ghiacciata. Erano passate le due del mattino del 19; circa tre ore prima Kitty aveva tirato fuori dal suo rifugio quel relitto lungo dodici metri segnato dalle intemperie. Adesso era in silenzio nella timoniera e meditava: non c'era più traccia della donna ubriaca e sorridente che li aveva accolti a Uskedahl. Era assolutamente professionale. Aveva avuto ragione sul fatto che un vento forte avrebbe soffiato nella notte. Era sceso dalle montagne e aveva urlato sulla cittadina fino all'alba, ma le case erano costruite per sopportarlo, così gli unici danni erano stati al sistema nervoso. Aveva ragione anche sulla foschia, che avanzò su Uskedahl e sulla baia, avvolgendo tutto in un silenzio bianco. Michael non sapeva come la donna riuscisse a navigare in quelle condizioni, ma ogni tanto piegava la testa e sembrava ascoltare... sicuramente non il canto dei pesci, ma il suono dell'acqua che le diceva qualcosa che lui non poteva capire. Occasionalmente Kitty apportava piccole correzioni di rotta al timone, con la stessa gentilezza con cui si sposta un bambino in fasce. Improvvisamente allungò una mano e afferrò il parka di Michael, tirando l'uomo a sé e indicando. Gallatin non riuscì a vedere niente nella foschia, ma annuì lo stesso. La donna borbottò soddisfatta, lo lasciò andare e virò in quella direzione. Al molo si era verificato uno strano incidente. Mentre caricavano l'attrezzatura a bordo, Michael si era trovato faccia a faccia con Kitty che gli annusava il petto. Gli aveva odorato anche il viso e i capelli, poi era indietreggiata e l'aveva fissato con i suoi azzurri occhi nordici. Sente in me l'odore del lupo, aveva pensato Gallatin. La donna aveva parlato con Hurks, che aveva tradotto per lei: «Vuole sapere da quale terra vieni». «Sono nato in Russia», aveva detto Michael. Kitty parlò tramite Hurks, indicando Lazaris: «Lui puzza come un russo. Tu profumi come un norvegese». «Lo prenderò come un complimento», aveva risposto Gallatin. Poi la donna gli si era avvicinata molto e l'aveva fissato intensamente
negli occhi. L'uomo era rimasto immobile. Lei aveva parlato di nuovo, quasi sussurrando. «Kitty dice che sei diverso», tradusse il norvegese. «Pensa che tu sia un uomo del destino. È un gran complimento». «Dille che la ringrazio». Hurks lo fece. La donna annuì e si allontanò diretta verso la timoniera. Un uomo del destino, pensò Michael, in piedi accanto a Kitty mentre portava l'imbarcazione nella nebbia profonda. Sperò che il suo destino insieme a quello di Chesna e di Lazaris - non fosse una tomba sull'isola di Skarpa. Hurks era rimasto a Huskedahl, non amando viaggiare via acqua da quando un Uboat aveva silurato il suo mercantile. Nemmeno Lazaris era un leone di mare, ma fortunatamente l'acqua era calma e l'imbarcazione procedeva con delicatezza, quindi il russo aveva vomitato soltanto due volte. Forse era dipeso dai nervi... o forse dal puzzo di pesce che aleggiava sul battello come un miasma. Chesna entrò nella timoniera, con il cappuccio del parka sulla testa e le mani avvolte in guanti di lana neri. Kitty continuò a guardare davanti a sé, guidando l'imbarcazione verso un punto che gli altri non riuscivano a vedere. Chesna offrì a Michael un sorso di forte caffè nero che aveva portato in un thermos e lui accettò. «Come sta Lazaris?», chiese Gallatin. «È cosciente», rispose l'americana. Il russo era di sotto nella piccola cabina che, come Michael aveva notato, era persino più stretta del canile di Falkenhausen. Chesna scrutò nella nebbia. «Dove siamo?» «Che mi prenda un colpo se lo so. Però Kitty sembra averlo capito, ed è questo che importa». Le restituì il thermos. La norvegese virò di qualche grado a dritta, poi allungò una mano verso le valvole unte e spense il motore. «Vai», disse a Gallatin indicando avanti. Era evidente che voleva che guardasse qualcosa. L'uomo prese una torcia elettrica da un armadietto di metallo corroso e lasciò la timoniera seguito da Chesna. A prua si mise in piedi sulla polena e sondò con la luce. Attraverso il raggio si diffusero nuvolette di nebbia. L'imbarcazione veniva trasportata dalla corrente e le onde si infrangevano contro le assi. Sul ponte si sentì un rumore di stivali. «Ehi!», gridò Lazaris, la voce tesa come un filo metallico nuovo. «Cos'è successo ai motori? Stiamo affondando?» «Zitto», disse Michael. Il russo avanzò, guidandosi lungo la ringhiera arrugginita. Gallatin ondeggiava lentamente il raggio della torcia elettrica da destra a sinistra e viceversa. «Cosa cerchi?», sussurrò Lazaris. «La terra?» L'inglese scosse la testa, perché non ne aveva la minima idea. Poi il raggio colpì un oggetto indistinto a dritta. Sembrava un pilone marcito, ricoperto
di funghi grigi. Anche Kitty l'aveva visto e vi diresse la prua. Dopo un attimo lo videro tutti, forse più chiaramente di quanto desiderassero. Nel sudiciume era conficcato un singolo pilone, a cui era legato con delle corde marce uno scheletro immerso fino al torace infossato. Sul cranio erano rimasti pezzetti di cuoio capelluto e piccole chiazze di capelli grigi. Intorno al collo dello scheletro era avvolto un cappio di pesante fil di ferro, a cui era attaccato un cartello di metallo con sopra alcune parole tedesche sbiadite: ATTENZIONE! DIVIETO DI ACCESSO! La luce illuminò alcuni animaletti rossi che si muovevano nelle orbite dello scheletro e uscivano dai denti rotti. Kitty effettuò una piccola correzione col timone. L'imbarcazione superò l'orribile cartello, lasciandolo nell'oscurità. La donna riavviò il motore, procedendo lentamente in modo che si sentisse solo un leggero borbottio. A meno di venti metri dal pilone e dallo scheletro, la luce della torcia elettrica illuminò una palla grigia che fluttuava, coperta di alghe e di spuntoni sinistri. «Quella è una mina!», gridò Lazaris. «Una mina!», urlò verso la timoniera, indicando in acqua. «Bum bum!» Kitty sapeva dov'era. Virò a sinistra e la mina rotolò nella scia dell'imbarcazione. Michael si sentì stringere lo stomaco. Chesna si sporse in avanti, aggrappandosi alla ringhiera di sinistra, e Lazaris guardò alla ricerca di altre mine sul lato destro. «Ce n'è una quaggiù!», gridò l'americana. La mina coperta da incrostazioni ballonzolò e si rovesciò pigramente. La barca la oltrepassò. Michael ne vide un'altra, quasi di fronte. Il russo si affannò verso la timoniera e tornò con un'altra torcia elettrica. Kitty continuò a far scivolare la barca lentamente e a ritmo costante, zigzagando tra le mine che apparivano su tutti i lati. Lazaris pensò che la barba gli diventasse bianca mentre ne osservava una, con gli spuntoni coperti di alghe, fluttuare sulla cresta di un'onda, quasi sulla loro rotta. «Vira, maledizione! Vira!», gridò indicando verso sinistra. La barca ubbidì, ma il russo sentì la mina grattare contro lo scafo come delle unghie su una lavagna. Indietreggiò aspettandosi un'esplosione, ma la mina scomparve nella loro scia e loro continuarono a procedere. L'ultima mina fluttuò via sul lato destro, poi l'acqua fu sgombra. Kitty picchiettò sul parabrezza per richiamare l'attenzione di tutti; quando la ottenne, si portò un dito alle labbra e poi se lo passò sulla gola facendo il gesto di uno squarcio. Il significato era chiaro.
Dopo qualche minuto nella foschia apparve un riflettore che girava in continuo in cima a una torre su Skarpa. L'isola ancora non si vedeva, ma ben presto Michael sentì un rumore sordo, lento e costante simile a un fortissimo battito cardiaco. Era il suono dei macchinari pesanti al lavoro nella fabbrica chimica. Spense la torcia elettrica e Lazaris fece lo stesso. Si stavano avvicinando alla riva. Kitty fece virare la barca, restando appena fuori dal raggio della luce del riflettore. Improvvisamente la donna spense il motore, lasciando che l'imbarcazione sussurrasse tra le onde. Michael e Chesna sentirono il rumore di un altro motore più possente ruggire nella nebbia. Era una nave di pattuglia che girava intorno all'isola. Il suono si allontanò e svanì; Kitty riaccese il motore con mano attenta. La luce del riflettore li superò, pericolosamente vicina. Michael vide brillare nel buio delle luci più piccole: sembravano lampade su passerelle e scale esterne. Poi apparve la forma scura di un'enorme ciminiera che si ergeva nella nebbia. Il rumore sordo, simile a un battito cardiaco, era adesso molto più forte; Gallatin riuscì a distinguere i contorni di alcuni edifici. Kitty li stava guidando lungo la costa scoscesa di Skarpa. Ben presto si lasciarono alle spalle le luci e il rumore dei macchinari; la donna virò la barca in un porticciolo a mezzaluna. Lo conosceva bene e li portò dritti alle rovine sgretolate di un frangiflutti. Spense il motore e lasciò che l'imbarcazione scivolasse sull'acqua argentea alla base del muro. Michael accese la torcia elettrica e illuminò un molo incrostato da cirripedi. Dall'acqua sporgeva la prora marcita di una barca affondata da molto tempo: sembrava una strana faccia con sopra centinaia di granchi rossi. Kitty uscì dalla timoniera. Gridò qualcosa tipo «Copahay ting! Timesho!» Indicò il molo; Gallatin saltò giù dalla barca atterrando su una piattaforma di assi scricchiolanti e fradice. Chesna gli lanciò una fune che l'uomo usò per legare la barca a un pilone. Una seconda corda lanciata da Kitty servì a completare il compito. Erano arrivati. Dal molo e dal frangiflutti salivano dei gradini di pietra. Al di là Michael illuminò con il raggio della torcia un ammasso di case scure e fatiscenti. Era il villaggio di Kitty, adesso occupato solo da fantasmi. Chesna, Michael e Lazaris controllarono le mitragliette e se le misero a tracolla. Negli zaini avevano i rifornimenti: razioni di acqua, carne essiccata, barrette di cioccolato, munizioni e quattro granate ciascuno. Gallatin aveva anche notato in precedenza un'altra cosa avvolta in un pacchetto di carta cerata: una capsula al cianuro, simile a quella che si era messo in
bocca sul tetto dell'Opéra di Parigi. Non gli era servita allora, e piuttosto che usarla lì su Skarpa preferiva morire ucciso da un proiettile. Seguirono Kitty su per gli antichi gradini e giunsero al villaggio fantasma. La donna scandagliò il terreno con la torcia elettrica che aveva preso a Lazaris: il raggio rivelò la strada principale piena di solchi e alcune case coperte di muffa bianca come la cenere. Molti tetti erano crollati e le finestre non avevano più vetri. Ma il villaggio non era del tutto morto. Michael sentiva il loro odore e sapeva che erano vicini. «Benvenuti», disse Kitty dirigendoli in una delle case dall'aspetto più solido. Gallatin non sapeva se quell'edificio era stato la casa della donna, ma era diventato di nuovo un'abitazione. Mentre varcavano la soglia, la luce di Kitty penetrò nella foschia e catturò due lupi ossuti, uno giallo e uno grigio. Quello grigio balzò fuori da una finestra aperta e sparì in un istante, ma quello giallo si girò verso gli intrusi mostrando i denti. Michael sentì il rumore di una mitraglietta che veniva preparata per sparare. Afferrò il braccio di Lazaris prima che il russo potesse fare fuoco e disse: «No». Il lupo indietreggiò verso la finestra, con la testa alta e il fuoco negli occhi. Poi improvvisamente si voltò, si lanciò nell'intelaiatura e uscì dalla casa. Lazaris emise il fiato dopo averlo trattenuto. «Hai visto quelle bestie? Ci faranno a pezzi! Perché diavolo non hai lasciato che sparassi?» «Perché», disse Gallatin in tono calmo, «una scarica di pallottole porterebbe i nazisti qui prima che tu riuscissi a ricaricare. I lupi non ti faranno del male». «Ragazzi nazisti cattivi», disse Kitty mentre illuminavano in giro con le torce elettriche. «Lupi non fare così. Ragazzi nazisti fanno morti, lupi gnam morti». Scrollò le spalle massicce. «Già fatto». Quella casa piena di escrementi di lupo sul pavimento sarebbe stata il loro quartier generale. Michael ragionò che molto probabilmente i soldati tedeschi che erano di guardia alla fabbrica chimica di Hildebrand temevano i lupi quanto Lazaris e non sarebbero mai arrivati fino a lì. Lasciò che gli altri cominciassero a sistemare le loro attrezzature e poi disse: «Vado fuori in esplorazione. Torno il prima possibile». «Vengo con te». Chesna cominciò a rimettersi lo zaino sulle spalle. «No. Da solo mi muovo più velocemente. Tu aspetta qui». «Non sono venuta qui con te per...» «Discutere», disse Gallatin finendo la frase per lei, «e non è il motivo
per cui sono qui io. Voglio avvicinarmi alla fabbrica e dare un'occhiata in giro. Meglio un solo esploratore che due o tre. Giusto?» La donna esitò, ma l'uomo aveva parlato in tono deciso e la stava fissando con uno sguardo penetrante. «D'accordo», convenne. «Ma per l'amor di Dio, tieni un profilo basso!» «È quello che intendo fare». Gallatin uscì e camminò rapidamente lungo la strada, allontanandosi dal villaggio. Circa settanta metri a est dell'ultima casa cominciavano i boschi e i massi dai bordi appuntiti che salivano verso le alture di Skarpa. Si chinò, aspettò un po' per assicurarsi che Chesna non l'avesse seguito e dopo qualche minuto si tolse la mitraglietta, lo zaino e il parka. Iniziò a svestirsi e gli venne la pelle d'oca per il freddo. Ormai nudo, trovò una nicchia sicura per infilarci lo zaino, i vestiti e lo Schmeisser, poi si accovacciò e cominciò a trasformarsi. Da lupo si rese conto che l'odore del cibo nello zaino avrebbe attirato i lupi dell'isola come un campanello per la cena. C'era un modo per risolvere il problema. Urinò sulle rocce intorno al nascondiglio; se quell'odore non fosse servito a tenere lontano i lupi, erano i benvenuti a mangiare la sua carne essiccata. Poi si allungò, facendo affluire il sangue nei muscoli, e cominciò a procedere a lunghi passi sulle rocce sopra la città dei lupi. Dopo aver superato la cresta, continuò per circa ottocento metri attraverso la fitta foresta prima di sentire l'odore di uomini. Il rumore sordo si era fatto più forte, il che significava che stava andando nella direzione giusta. Altri profumi si affollarono nelle sue narici: il fetore acre degli scarichi provenienti dalle ciminiere della fabbrica, l'odore del vapore acqueo, lepri e altri piccoli animali che si agitavano nel bosco al suo passaggio e... il profumo muschiato di una giovane femmina. Sentì un ramoscello spezzarsi alla sua sinistra e quando guardò da quella parte intravide una veloce macchia gialla. La femmina tenne il passo con lui, probabilmente un po' innervosita dalla curiosità e dal suo odore di maschio. Si chiese se avesse assistito alla trasformazione: in quel caso avrebbe avuto una storia interessante da raccontare al branco. L'odore acre diventò più intenso, così come quello degli uomini. La lupa gialla cominciò a restare indietro, intimidita dalla vicinanza degli umani. Dopo qualche attimo si fermò e Michael la sentì emettere un acuto yip yip yip. Capì il messaggio: non avvicinarti più di così. Non l'avrebbe fatto se avesse avuto altra scelta, ma non l'aveva e continuò ad avanzare. Circa quindici metri più avanti uscì dal bosco e vide la creazione di Hildebrand,
che si ergeva come una montagna sporca dietro un recinto metallico sormontato dal filo spinato. Da un'enorme ciminiera di pietre grigie usciva scoppiettando del fumo; intorno c'erano edifici in calcestruzzo collegati fra loro da passerelle e condotti che serpeggiavano dappertutto come uno dei labirinti di Harry Sandler. Il rumore sordo simile al battito di un cuore giungeva dal centro del complesso; alcune luci brillavano dagli scuri delle finestre. Tra gli edifici si snodavano delle stradine; mentre Michael osservava al limitare del bosco, un camion girò un angolo e si allontanò in un vicolo ronzando come uno scarafaggio ben pasciuto. Vide parecchie figure sulle passerelle. Due operai ruotarono un grosso volano rosso, poi un terzo controllò un pannello di pressione manometrica e fece cenno che era tutto a posto. In quel luogo si lavorava ventiquattr'ore al giorno. Michael si alzò e strisciò lungo il recinto. Ben presto fece un'altra scoperta: un campo d'aviazione completo di hangar, un serbatoio di benzina e dei camion da rifornimento. Sul campo c'erano tre caccia notturni allineati in una fila ordinata - un Dornier Do-217 e due Heinkel He-219, tutti con un dispositivo radar sul muso - e un caccia diurno Messerschmitt Bf-109 dall'aspetto pericoloso. Ma su tutto torreggiava un enorme aereo da trasporto Messerschmitt Me-323, con un'apertura alare di oltre 50 metri e lungo più di 30 metri. Era evidente che i nazisti stavano facendo in quel luogo qualcosa di molto serio. Però al momento non c'era alcuna attività sul campo d'aviazione. Poco oltre le scogliere dell'isola cadevano nel mare. Michael tornò al limitare della foresta e scelse un punto. Cominciò a scavare un buco sotto il recinto: per questo compito le zampe di un animale erano superiori alle mani di un uomo. Tuttavia il terreno era pieno di piccole rocce e fu un lavoro molto faticoso. Ma il buco aumentò; quando fu abbastanza grande, Gallatin premette il ventre a terra e passò sotto il recinto. Si alzò su tutte e quattro le zampe e si guardò intorno. Non si vedevano soldati. Corse nel vicolo più vicino, diretto verso il cuore pulsante con il silenzio di un'ombra. Fiutò e sentì il camion arrivare e prepararsi a svoltare nel vicolo dietro di lui; balzò in un angolo e si appiattì prima che i fari lo scovassero. Il veicolo passò; nella sua scia Michael sentì l'odore acre del sudore e della paura: era il tipico odore da zoo che associò immediatamente a Falkenhausen. Si alzò e seguì il camion a una certa distanza. Il veicolo si fermò davanti a un lungo edificio le cui finestre erano chiuse con degli scuri. Un cancello ondulato di metallo venne tirato su dall'in-
terno e ne uscì una luce forte. Il camion entrò e qualche secondo dopo il metallo ondulato scese di nuovo completamente, nascondendo la luce. Lo sguardo di Michael trovò una scala che saliva sul lato dell'edificio fino a una passerella a circa sei metri d'altezza. Il passaggio continuava lungo il centro del tetto. Non c'era tempo per pensare. Trovò lì accanto un gruppo di fusti d'olio e vi si accovacciò dietro. Quando la trasformazione fu completa e la sua pelle bianca gli pizzicò per il freddo, l'uomo si alzò, corse verso la scala di metallo e la salì rapidamente, cosa che potevano fare le mani e i piedi di un uomo ma non le zampe di un lupo. La passerella continuava nella struttura vicina, ma sul tetto di quell'edificio c'era una porta d'entrata. Michael provò a girare il pomello. La porta si aprì, l'inglese si trovò nella tromba di una scala e cominciò a scendere. Arrivò a un'officina con un nastro trasportatore e degli argani appena sotto il tetto. C'erano pile di cassette e fusti per il petrolio, e anche un paio di macchine per spostare carichi pesanti. Michael sentì delle voci; l'unica attività si stava svolgendo all'altra estremità del lungo edificio. Si fece strada con cautela fra le attrezzature, accovacciandosi immediatamente dietro una rastrelliera piena di tubi di rame quando sentì una voce irritata esclamare: «Quest'uomo non può lavorare! Mio Dio, guarda queste mani! Deboli come quelle di una vecchia! Ti ho detto di portarmi degli uomini in grado di usare seghe e martelli!» Michael conosceva quella voce. Guardò fuori dal nascondiglio e vide il colonnello Jerek Blok. Il massiccio Boots era in piedi accanto al suo padrone. Il colonnello stava urlando contro un ufficiale tedesco che era diventato paonazzo; alla loro sinistra c'era un uomo magro con indosso una larga uniforme grigia da prigioniero. Le sue mani non erano soltanto deboli, ma scheletriche per la mancanza di cibo. Dietro i quattro uomini c'erano altri sette prigionieri, tra cui due donne. Su un grosso tavolo erano posati molti chiodi e un assortimento di martelli e seghe, accanto a una pila di travi. Il camion sostava accanto al cancello di metallo ed era fiancheggiato da due soldati armati di fucile. «Oh, riporta questo relitto nella sua tana!» Blok sdegnato diede uno spintone al prigioniero. «Dovremo usare quello che abbiamo!» Mentre l'ufficiale spingeva il prigioniero di guerra verso il camion, il colonnello si mise le mani sui fianchi e si rivolse agli altri. «Sono sicuro che state tutti bene e siete ansiosi di lavorare. Vero?» Sorrise e i suoi denti d'argento scintillarono. Gli altri prigionieri non risposero, mostrando i volti pallidi e
privi di ogni emozione. «Signori - e signore - siete stati scelti perché i vostri documenti indicano che avete familiarità con la falegnameria. Quindi stamattina lavoreremo un po' con il legno. Costruiremo ventiquattro cassette in base alle seguenti specifiche». Estrasse un pezzo di carta dalla tasca e l'aprì. «64 cm di larghezza, 40 di altezza e 40 di profondità. Non ci saranno deviazioni da queste misure. Le cassette verranno rivestite di gomma all'interno. Le teste dei chiodi verranno smussate dopo averli piantati con il martello. I bordi in rilievo verranno levigati in modo che sia tutto uniforme. I coperchi avranno una doppia cerniera e saranno chiusi con un lucchetto invece che con i chiodi». Diede l'elenco a Boots, che lo appuntò su un tabellone perché potessero vederlo tutti. «Inoltre», continuò Blok, «queste cassette verranno ispezionate dopo sedici ore. Tutte quelle che non passeranno la mia ispezione verranno distrutte e chi le ha costruite ricomincerà da capo. Ci sono domande?» Aspettò. Naturalmente non ce ne furono. «Grazie per la vostra attenzione», disse, poi camminò verso il cancello di metallo seguito da Boots. Il cancello venne alzato da due guardie; l'autista guidò fuori il camion con a bordo l'ufficiale e il prigioniero di guerra emaciato. Blok non chiese un passaggio, ma seguì il camion insieme a Boots. Poi il cancello di metallo venne richiuso. Una delle guardie gridò ai prigionieri: «Mettetevi al lavoro, bastardi scansafatiche!» L'altra si avvicinò alla donna e la punzecchiò da dietro con la canna del fucile. Un uomo dall'aspetto fragile, con i capelli grigi e gli occhiali con la montatura in metallo, fece il primo passo verso il tavolo da lavoro, subito seguito da un giovane. Quando tutti i prigionieri si furono mossi - lentamente, con i corpi e le menti distrutte - le due guardie si sedettero a un tavolo e cominciarono a giocare a carte. Michael tornò alla tromba delle scale da cui era arrivato, salì sul tetto e scese di nuovo giù per la scala a pioli. Giunto a terra si accovacciò dietro i fusti d'olio e lasciò che il corpo si ricoprisse di un mantello caldo. Sentì i muscoli indolenziti e le articolazioni pulsare per lo stress dei tanti cambiamenti nel giro di breve tempo, ma era pronto a correre di nuovo. Uscì dal nascondiglio e annusò l'aria. Nella moltitudine di odori trovò quello intenso della brillantina al limone di Jerek Blok e ne seguì la traccia. Girò un angolo e vide il colonnello e Boots camminare a passo rapido poco davanti a lui. Li seguì tenendosi basso. Ventiquattro cassette, pensò. Rivestite di gomma. Cosa dovevano contenere? Gli venne in mente che erano più o meno delle dimensioni giuste per un piccolo ordigno, un razzo o una bomba. Il grosso aereo da trasporto sulla pista doveva essere lì per
trasportare quelle cassette ovunque fosse tenuto il Pugno di Ferro. Il sangue di Michael pulsava forte nelle vene. Sentiva il desiderio di uccidere. Sarebbe stato facile ammazzare Blok e Boots in quel vicolo, anche se avevano entrambi una pistola nella fondina. Sarebbe stato un balsamo per l'anima squarciare la gola di Boots e sputargli in faccia. Ma si trattenne; la sua missione era di scoprire dov'era il Pugno di Ferro e quale orrore avesse creato il dottor Hildebrand. Prima la missione, poi avrebbe soddisfatto il suo desiderio. Seguì gli uomini fino a una casamatta di calcestruzzo a due piani vicino al centro della fabbrica. Anche qui le finestre erano chiuse da scuri. Michael osservò Blok e Boots salire su una scala di metallo ed entrare da una porta al secondo piano che si chiuse dietro di loro. Si accovacciò, aspettando di vedere se uscivano, ma i minuti passarono e i due non apparvero. Dopo due ore sarebbe spuntata l'alba. Era tempo di tornare alla città dei lupi. Michael tornò nel luogo dove aveva scavato per entrare. Allargò il buco in modo che un corpo umano potesse scivolare sotto il recinto. La terra volava sotto i suoi artigli; poi passò sotto il recinto e corse nel bosco. La lupa gialla, che pensava di essere molto furba, uscì dal sottobosco e lo seguì mettendoglisi al fianco. Michael la distanziò, volendo raggiungere la sua attrezzatura e trasformarsi di nuovo prima che potesse avvicinarsi troppo. Su due gambe, vestito, con lo zaino sulle spalle e lo Schmeisser a tracolla, corse lungo la strada per tornare alla città dei lupi. Chesna uscì dal suo nascondiglio dietro un muro di pietre sgretolate, con la mitraglietta puntata verso la figura che si avvicinava. Dopo un attimo si accorse che era Michael. Aveva il viso sporco di terra. «Ho trovato il modo di entrare», le disse. «Andiamo». 6. Ben presto Michael si rese conto che il viaggio dalla città dei lupi alla fabbrica era più difficile a piedi che con le zampe da lupo. Mentre attraversava il bosco con Chesna e Lazaris, sentiva rumori tutt'intorno. La lupa gialla aveva portato con sé i suoi compagni. Kitty era rimasta indietro a tenere d'occhio la barca, anche perché la sua mole li avrebbe costretti a rallentare notevolmente. Lazaris sobbalzava ad ogni suono, reale o immaginario, ma Michael si accertò che il russo tenesse la sicura alla pistola e il
dito lontano dal grilletto. Gallatin passò per primo sotto il recinto. Lazaris lo seguì, borbottando fra sé di essere nato stupido e di non voler morire come tale. Strisciando sotto anche lei, Chesna si chiese come avesse fatto Michael a scavare una buca simile senza pala. Ripararono in un vicolo, fermandosi a estrarre dagli zaini le munizioni di scorta e due granate. Si misero le cartucce nelle tasche dei parka e legarono le granate alle cinghie degli Schmeisser. Poi proseguirono tenendosi attaccati al muro, con Michael in testa. Fu lui a guidarli verso l'edificio in cui lavoravano i prigionieri. Non avrebbero avuto problemi a neutralizzare le guardie e a farsi dare informazioni sulla fabbrica da loro e dai prigionieri. Comunque non intendeva dare niente per scontato: faceva ogni singolo passo con attenzione e ad ogni svolta si fermava. Nei pressi dell'edificio che volevano raggiungere, Michael sentì un rumore di passi che si avvicinavano e fece segno a Chesna e Lazaris di abbassarsi. Si inginocchiò nel vicolo e attese. Un soldato stava per girare l'angolo. Non appena vide le ginocchia dell'uomo, Gallatin si sollevò in piedi in un nugolo di polvere e colpì il mento del soldato con il calcio del mitra. Il colpo sbalzò in alto l'uomo, che crollò poi a terra. Dopo qualche contorsione, restò fermo disteso. Lo trascinarono in una rientranza del muro e lo lasciarono lì legato e impacchettato, dopo che Lazaris gli ebbe tagliato la gola con il coltello che gli aveva tolto. Con gli occhi che brillavano assetati di sangue, il russo si infilò il coltello sotto il parka. Anche nella città dei lupi c'era un coltello in azione. Kitty usava la sua lama ricurva per tagliare a tocchetti pezzi di manzo essiccato. Ne mise uno in bocca e mentre masticava sentì un lupo ululare dalle parti del villaggio. Era un richiamo acuto e penetrante ed echeggiava oltre il porticciolo, terminando in una rapida serie di guaiti cadenzati. Quel suono non le piaceva. Kitty prese una torcia e uscì nella foschia gelida armata del coltello. Non c'era altro suono che quello delle onde che lambivano il frangiflutti. La donna rimase lì ferma un momento, scrutando lentamente da destra a sinistra. Il lupo fece ancora un altro verso: una serie di forti ululati. Kitty si allontanò dalla casa, diretta verso il molo. Gli stivali le sguazzavano nella melma cupa che conservava le ossa della sua famiglia. Arrivata al molo, accese la torcia e lo vide. Un gommone grigio scuro con tre file di remi, legato proprio accanto alla sua imbarcazione. Il coltello della donna penetrò la gomma in una decina di punti. La barca
gorgogliò accartocciandosi mentre affondava. Poi Kitty tornò correndo verso casa, un po' incerta sulle gambe tozze. Entrando dall'ingresso, sentì un tanfo di sudore impregnato di salsiccia e birra e si arrestò davanti alle bestie ben più pericolose dei lupi. Uno dei ragazzi in divisa nera nazista mosse il fucile parlando un gergo incomprensibile. Come poteva una lingua umana fare un tale schiamazzo? si chiese Kitty. Anche gli altri due soldati tenevano il fucile puntato su di lei, con le facce nere imbrattate di pittura mimetica. I giovani nazisti sapevano di trovarli lì, intuì la donna. Erano venuti per fare una carneficina. L'avrebbe fatta anche lei. Fece un gran sorriso, sbatté le palpebre sui suoi occhi azzurri da nordica e disse: «Benvenuti!», sollevando il coltello e lanciandosi in avanti. Michael, Lazaris e Chesna avevano raggiunto il tetto dell'edificio. Proseguirono lungo la passerella e scesero la rampa di scale. «Attento a dove punti quell'affare!», sussurrò Michael a Lazaris, vedendo la canna del fucile del russo ondeggiare. Li condusse nello sgabuzzino delle attrezzature; un attimo dopo videro i due soldati intenti a giocare a carte. I prigionieri lavoravano di sega e di martello sulle casse, orgogliosi della loro perizia di carpentieri, anche se alla mercé dei nazisti. «Aspettate», disse Michael a Chesna e Lazaris, poi strisciò di soppiatto avvicinandosi alle guardie. Uno dei prigionieri fece cadere un chiodo, si chinò a prenderlo, e quando raggiunse il pavimento vide un uomo che si trascinava sulla pancia. Il prigioniero emise un lieve rantolo di sorpresa e un altro voltò lo sguardo in direzione di Michael. «Poker d'assi!», esultò la guardia con la mano vincente, scoprendo le carte a terra. «E adesso battimi!» «Come desideri», disse Michael, sollevandosi alle spalle dell'uomo e colpendolo in testa con il calcio del suo Schmeisser. La guardia gemette, barcollò e cadde a terra sparpagliando le carte. L'altro uomo si allungò verso il fucile appoggiato al muro, ma si bloccò quando l'estremità dello Schmeisser arrivò a baciargli la gola. «A terra», disse Gallatin. «Mettiti in ginocchio, mani dietro la testa». Il soldato ubbidì. Con molta prontezza. Chesna comparve insieme a Lazaris, che con la punta di uno stivale pungolò alle costole l'uomo svenuto a terra. Al lieve grugnito del soldato, gli diede un calcio, facendogli perdere di nuovo i sensi. «Non uccidermi!», supplicò l'uomo in ginocchio. «Per favore! Sono uno
senza importanza!» «Tra un minuto sarai uno senza testa!», rispose Lazaris premendogli la lama del coltello sul pomo d'Adamo. «Con la gola tagliata non potrà rispondere alle domande», disse Chesna al russo. Posò la canna della pistola sulla fronte del soldato, tirando indietro l'otturatore e armando il cane. Il militare spalancò gli occhi, umidi di terrore. «Credo che ci presterà attenzione», disse Michael, spostando lo sguardo verso i prigionieri che avevano interrotto il lavoro, incantati dalla sorpresa e dallo sconcerto. «Cosa c'è in quelle casse?», chiese alla guardia. «Non lo so». «Non mentire, bastardo!» Lazaris spinse la lama un po' più a fondo; l'uomo strillò mentre un rivolo di sangue caldo gli scendeva lungo la gola. «Bombe! Bombe da quarantacinque chili! È tutto quello che so!» «Ventiquattro? Una bomba per ogni cassa?» «Sì! Sì! Ti prego, non uccidermi!» «Le impacchettano per trasportarle? Con il Messerschmitt nel campo d'aviazione qui fuori?» L'uomo annuì mentre il colletto dell'uniforme si tingeva di rosso. «Per trasportarle dove?», insistette Michael. «Non lo so». La lama premette ancora di più sulla gola. L'uomo ansimò. «Lo giuro, non lo so!» Michael gli credette. «Cosa c'è nelle bombe?» «Un potente esplosivo. Cosa potrà mai esserci in una bomba?» «Non fare l'impertinente», lo avvisò Chesna con il tono deciso di chi non perdona. «Rispondi solo alle domande». «Questo stupido non sa niente. È una semplice guardia». Cercarono con lo sguardo chi aveva parlato. Era il fragile prigioniero dai capelli grigi, con gli occhiali dalla montatura in metallo. Si avvicinò di qualche passo e parlò con un accento che sembrava ungherese. «C'è un gas nelle bombe. Sono qui da più di sei mesi e ho visto cosa può fare». «Anch'io», disse Michael. «Brucia la carne». L'uomo fece un sorriso flebile, un riso amaro: «Brucia la carne», ripeté. «Oh, fa molto più che bruciare la carne, amico mio. La divora, come un cancro. Lo so. Ho dovuto incenerire alcuni corpi. Tra cui quello di mia moglie». Sbatté le palpebre, sentendole pesanti. «Ma almeno adesso è in un luogo migliore di questo. Mi torturano ogni giorno, costringendomi a vivere». Guardò il martello che aveva in mano e lo fece cadere sul cemen-
to. Si asciugò la mano sulla gamba dei pantaloni. «Dove tengono le bombe?», gli chiese Michael. «Questo non lo so. In un punto più centrale della fabbrica. C'è un edificio bianco, accanto alla ciminiera grande. Gli altri dicono che è lì che producono il gas». «Gli altri?», chiese Chesna. «Quanti prigionieri ci sono qui?» «Ottantaquattro. No, no. Aspetta». Ci pensò su. «Danelka è morto due notti fa, quindi ottantatré. Quando sono arrivato qui erano oltre quattrocento, ma...» Scrollò le spalle e i suoi occhi incontrarono quelli di Michael. «Siete venuti a salvarci?» Gallatin non sapeva cosa dire. Decise che la cosa migliore era la verità. «No». «Ah». Il prigioniero annuì. «Allora è per il gas, vero? È per questo che siete qui? Be', va bene così. Noi siamo già morti. Se quella roba uscirà mai di qui, rabbrividisco al...» Qualcosa colpì il cancello di metallo. Il cuore di Michael batté all'impazzata e Lazaris fece un tale salto che la lama colpì più in profondità la gola del soldato. Chesna tolse la canna dell'arma dalla fronte dell'uomo, lasciandogli un cerchio bianco nel punto in cui era premuta, e la puntò verso il cancello. Qualcosa colpì di nuovo il metallo. Il calcio di un fucile o un manganello, pensò Michael. Poi si sentì una voce: «Ehi, Reinhart! Apri!» Il soldato gracchiò: «Sta chiamando me». «No, non è lui», disse il prigioniero con i capelli grigi. «Lui è Karlsen. Reinhart è quello a terra». «Reinhart!», gridò il soldato all'esterno. «Apri, maledizione! Lo sappiamo che lì dentro c'è quella carina!» La prigioniera che era stata punzecchiata da dietro con la canna del fucile - con i capelli neri che le incorniciavano il viso pallido come una statua afferrò un martello da muratore e lo strinse talmente forte che le nocche della mano le diventarono bianche. «Andiamo, sii gentile!», disse un'altra voce. «Non vorrete tenervela tutta per voi!» «Digli di andarsene», ordinò Chesna. Aveva uno sguardo spietato, ma la voce tradiva una punta di nervosismo. «No», disse Michael. «Passeranno da dove siamo entrati noi. In piedi». Karlsen si alzò. «Verso il cancello. Muoviti». Seguì il nazista insieme a Chesna. Spinse l'arma contro la schiena dell'uomo: «Digli di aspettare un
minuto». «Aspettate un minuto!», gridò Karlsen. «Così va meglio!», disse uno degli uomini all'esterno. «Bastardi! Pensavate di farcela sotto il naso, vero?» Il cancello aveva un sistema a carrucola e si sollevava azionando una leva. Michael si mise da un lato. «Alza il cancello. Lentamente». Anche Chesna si spostò di lato, mentre Karlsen iniziava ad agire sulla leva. Il cancello cominciò a sollevarsi. E in quel momento Reinhart, che fingeva da due minuti, si rialzò improvvisamente in posizione seduta ai piedi di Lazaris. Stringendosi le due costole rotte, raggiunse la parete accanto al tavolo da gioco. Il russo urlò e abbassò con forza il coltello, affondandolo nella spalla del tedesco, ma non poté far niente per evitare ciò che accadde subito dopo. Reinhart colpì con un pugno il pulsante rosso collegato a un filo elettrico sul muro: dal tetto dell'edificio arrivò l'urlo di una sirena. Quando l'allarme iniziò a suonare, il cancello si era aperto per un quarto. Michael riusciva a vedere quattro paia di gambe. Senza esitare, tolse la sicura all'arma e sparò una raffica di proiettili sotto il cancello, abbattendo due soldati che urlarono dimenandosi in preda all'agonia. Karlsen lasciò la leva e cercò di scappare infilandosi sotto il cancello metallico che si stava riabbassando, ma Chesna esplose un colpo che squarciò il tedesco, mentre il cancello gli piombava sul sedere con un suono metallico. Lazaris accoltellò ripetutamente Reinhart, mettendo nei colpi tutta la forza che aveva. Il tedesco si accasciò, con la faccia divenuta una massa di carne straziata, ma la sirena continuò a suonare. Accanto a lui avanzò una figura dai capelli neri. La donna sollevò il martello e ruppe in mille pezzi il pulsante dell'allarme. Ma ormai l'interruttore era stato premuto e la sirena non poteva essere ridotta al silenzio. «Uscite finché siete in tempo!», gridò il prigioniero con i capelli grigi. «Andate!» Non c'era tempo per discutere. Quella sirena avrebbe fatto piombare su di loro tutti i soldati della fabbrica. Michael corse verso la tromba delle scale, seguito pochi passi indietro da Chesna e da Lazaris alla retroguardia. Uscirono sul tetto e videro due soldati che arrivavano di corsa sulla passerella. Gallatin sparò, subito imitato da Chesna. I proiettili rimbalzarono sulla ringhiera, ma i soldati si gettarono a terra. I fucili crepitavano e le pallottole sfrecciavano sulle loro teste. Michael vide altri due soldati arrivare dalla passerella dell'edificio alle loro spalle. Uno di essi sparò un col-
po che prese di striscio il parka di Chesna, spargendone in aria l'imbottitura d'oca. Michael preparò una granata; mentre la miccia sfrigolava, attese che i soldati fossero più vicini. Una pallottola finì sulla ringhiera accanto a lui. Lanciò la granata ai due uomini che gli arrivavano alle spalle: tre secondi dopo ci fu un'esplosione di fuoco bianco e due figure ridotte a brandelli caddero sulla passerella. Lazaris avanzò verso l'altra coppia che avevano davanti ed esplose brevi raffiche che sparsero scintille sul tetto di ardesia. Gallatin vide farsi avanti altri tre soldati lungo la passerella alle loro spalle. Chesna sparò una raffica: i soldati si abbassarono mentre le pallottole rimbalzavano sulla ringhiera. Il tetto stava diventando un alveare. Un proiettile colpì le tegole di ardesia alla sinistra di Michael e gli rimbalzò davanti a meno di quindici centimetri dalla faccia, come una cicca di sigaretta. Chesna urlò all'improvviso e cadde a terra: «Sono ferita!», disse digrignando i denti per il dolore e la paura. «Dannazione!» Si stringeva la caviglia destra con le dita insanguinate. Lazaris sparò una raffica di proiettili prima in una direzione e poi nell'altra. Un soldato urlò e cadde dalla ringhiera. Michael si chinò ad aiutare Chesna a rimettersi in piedi, ma sentì un proiettile strappargli il parka. Non avevano scelta: dovevano tornare indietro per la tromba delle scale prima di venire fatti a pezzi dal fuoco incrociato. Gallatin trascinò in piedi Chesna, che sparava ai soldati dietro di loro mentre Michael la tirava verso la porta delle scale. Un proiettile colpì la ringhiera della passerella accanto a Lazaris e le schegge metalliche gli trafissero la mascella e la guancia. Il russo indietreggiò, sventagliando raffiche di proiettili sul tetto. Arrivati alla tromba delle scale, le pallottole attraversarono la porta facendo saltare i cardini. Michael sentì una morsa lancinante di dolore alla mano sinistra e si accorse che un proiettile gli aveva appena trapassato il palmo. La mano gli si era intorpidita e le dita si contraevano in modo involontario. Continuò a sorreggere Chesna e tornarono tutti giù nell'officina. Due tedeschi arrivarono in cima alle scale; Lazaris li abbatté prima che afferrassero le armi. I corpi scivolarono l'uno contro l'altro lungo i gradini. Altri soldati si precipitarono verso la rampa; pochi secondi più tardi qualcuno lanciò una granata, che esplose con una vampata di fuoco. Ma Michael, Chesna e Lazaris erano già nell'officina, dove i prigionieri si erano messi al riparo fra le apparecchiature e i fusti d'olio. I soldati si precipitarono in fondo alla tromba fumosa delle scale e
aprirono il fuoco. Gallatin voltò lo sguardo verso il cancello di metallo che era alle sue spalle. Alcuni tedeschi cercavano di forzarlo manualmente dall'altro lato, con le dita piegate sotto il bordo, mentre altri soldati sparavano rasoterra nell'apertura. Michael lasciò Chesna - che cadde in ginocchio con il viso madido di sudore freddo - e infilò un altro caricatore nel fucile. La mano dell'inglese grondava sangue, la pallottola aveva disegnato un foro dai contorni netti. Gallatin sparò sotto il cancello e i tedeschi si allontanarono precipitosamente. L'urlo della sirena si era fermato. Sopra il rumore degli spari risuonò una voce stridula: «Cessate il fuoco! Cessate il fuoco!» La sparatoria scemò e si interruppe. Michael si accovacciò dietro una macchina per il movimento di carichi pesanti, mentre Chesna e Lazaris si inginocchiarono al riparo dei bidoni d'olio. Michael sentiva il terribile lamento di alcuni prigionieri e gli scatti delle armi che venivano ricaricate. L'officina era avvolta da un fumo azzurro, che trasportava con sé l'odore pungente della polvere da sparo. Un attimo dopo una voce amplificata arrivò dall'altoparlante oltre il cancello di metallo: «Barone? È ora che tu e Chesna buttiate le armi. È finita». Gallatin si voltò a guardare la donna e incontrò il suo sguardo. Era la voce di Jerek Blok. Come faceva a sapere che erano loro? «Barone?», continuò Blok. «Non sei uno stupido. Questo è sicuro. Sai che questo edificio è circondato e non c'è alcuna possibilità di uscire. Ti prenderemo, in un modo o nell'altro». Fece una pausa per dar loro il tempo di riflettere. Poi aggiunse: «Chesna, cara... di certo comprendi la situazione. Mettete giù le armi e potremo parlare tranquillamente». La donna esaminò il foro cerchiato di blu che aveva sulla caviglia. Le aveva intriso di sangue la spessa calza di lana e le faceva provare un dolore atroce. Un osso era rotto, pensò. Capiva perfettamente la situazione. «Che facciamo adesso?», chiese Lazaris con una nota di panico nella voce. Il sangue gli colava nella barba dalle ferite causate dalle schegge. Chesna si tolse lo zaino dalle spalle e lo aprì. «Barone, tu mi sbalordisci!», disse Blok. «Vorrei sapere come hai architettato quella fuga da Falkenhausen. Hai tutto il mio rispetto». Michael vide Chesna frugare nello zaino ed estrarne un pezzo di carta cerata. La capsula di cianuro. «No!», Lazaris le afferrò il braccio. «C'è un'altra soluzione». La donna scosse la testa liberandosi. «Sai che non c'è», disse, poi co-
minciò a scartare l'involto. Michael strisciò sul pavimento verso di lei: «Chesna! Possiamo aprirci una via d'uscita a forza! E abbiamo ancora le granate!» «Ho la caviglia rotta. Come farò a uscire di qui? Strisciando?» Le afferrò il polso per evitare che mettesse la capsula sulla lingua. «Ti porterò io». Lei sorrise debolmente con gli occhi tristi dal dolore. «Sì», disse, «credo che lo faresti davvero». Gli toccò una guancia e poi gli passò le dita sulla bocca. «Ma non servirebbe a niente, vero? No. Non mi farò ingabbiare e torturare come un animale. So troppo. Farei condannare un'altra decina di...» Cinque metri più in là qualcosa picchiettò sul pavimento. Michael si voltò con il cuore in gola e vide che uno dei soldati aveva appena lanciato una granata dalla tromba delle scale. Esplose prima che qualcuno di loro potesse spostarsi. La fiamma crepitava sulla miccia. Si sentì un pop, ci fu una fiammata luminosa e cominciò a venir fuori un fumo biancastro. Solo che non era fumo... Michael impiegò due secondi a capirlo. Aveva un odore dolciastro nauseante, simile a quello d'arancia: odore di sostanze chimiche. Un'altra granata esplose vicino alla prima. Chesna, con gli occhi già bagnati per il bruciore, si stava portando la capsula di cianuro alla bocca. Michael non poteva permetterlo. Nella buona e nella cattiva sorte, le spazzò via la capsula dalla mano. Furono avvolti dal fumo chimico come tra le pieghe di un velo. Lazaris tossiva sempre più forte e si reggeva in piedi a fatica, accecato dalle lacrime, dimenandosi in mezzo ai vapori. Michael si sentiva scoppiare i polmoni... non riusciva a tirare neanche un respiro. Chesna tossiva e ansimava; quando cercò di sollevarla, lei gli si aggrappò. Ma lui non aveva più fiato... e il fumo era così denso da impedire l'orientamento. Una delle invenzioni di Hildebrand, pensò accecato e lacrimante prima di cadere in ginocchio. Sentì tossire anche i prigionieri, sopraffatti dal gas. Una figura gli apparve davanti in mezzo al fumo: era un soldato con una maschera antigas. L'uomo gli puntava il fucile contro la testa. Chesna si accasciò accanto a lui, sussultando con tutto il corpo. Michael le crollò addosso, lottò per rialzarsi, ma aveva perso tutte le sue forze. Qualunque cosa fosse, quella sostanza chimica era potente. E così, con l'odore acre di arancia marcia nelle narici, Michael Gallatin perse i sensi.
7. Si svegliarono in una cella con le sbarre alla finestra che dava sul campo d'aviazione. Michael, con la mano fasciata dalle bende, si affacciò nella luce argentea del giorno e vide che il grosso Messerschmitt da trasporto era sempre lì. Non avevano ancora caricato le bombe. Le loro attrezzature e i parka erano spariti. Anche Chesna aveva una fasciatura alla caviglia; quando sollevò le bende per controllare la situazione, si accorse che le avevano pulito la ferita ed estratto il proiettile. Gli effetti delle granate a gas persistevano; continuavano a sputare tutti muco acquoso, e nella cella trovarono un secchio appositamente messo a loro disposizione. Michael aveva un mal di testa terribile, mentre Lazaris non poteva far altro che starsene disteso sul sottile materasso di una branda a fissare il soffitto, come un ubriacone dopo una grande sbornia di vodka. Gallatin camminava avanti e indietro nella cella, fermandosi di tanto in tanto a guardare fra le sbarre del riquadro nella porta. Il corridoio era deserto. «Ehi!», gridò. «Portateci da mangiare e da bere!» Un attimo dopo arrivò una guardia: fissò Michael con gli occhi azzurri e poi sparì di nuovo. Meno di un'ora dopo, due guardie portarono un denso e pastoso porridge di avena e una borraccia d'acqua. Quando tutto il pasto fu consumato, i due soldati ricomparvero con il mitra in mano e intimarono ai prigionieri di uscire dalla cella. Michael sosteneva Chesna, che camminò zoppicando lungo il corridoio. Lazaris inciampò, con la testa annebbiata e le ginocchia molli come gelatina. Le guardie li portarono fuori dall'edificio, una prigione militare di pietra a ridosso del campo d'aviazione, e poi giù per un passaggio che conduceva alla fabbrica. Pochi attimi dopo entrarono in un altro edificio più grande, non lontano da dove erano stati catturati. «No, no!», sentirono gridare una voce acuta da ragazzino. «Passa la palla! Non tenerla! Passa!» Erano entrati in una palestra, con il pavimento di tavole di quercia levigate. All'interno c'erano file di gradinate e finestre dai vetri smerigliati. Un capannello di prigionieri emaciati lottava per il possesso di una palla da basket mentre le guardie sorvegliavano con i fucili. Ci fu un fischio, che nel recinto risultò assordante. «No!» La voce infantile si fece acuta per l'esasperazione. «È fallo per la squadra degli azzurri! Palla ai rossi». Al braccio i prigionieri avevano una fascia azzurra o rossa. Esili figure
nelle loro grigie uniformi flosce avanzavano inciampando e barcollando verso il canestro dall'altra parte del campo. «Devi passare la palla, Vladimir! Ma non lo capisci?» L'uomo gridava stando in piedi sul bordo del campo. Indossava pantaloni sportivi scuri con una maglia a righe da arbitro, aveva una lunga chioma bionda che gli scendeva fino a metà schiena ed era alto circa due metri e dieci. «Stringi bene la palla, Tiomkin!», gridò battendo il piede a terra. «Ti sei mangiato un comodo tiro a canestro!» Sembra una gabbia di matti, pensò Michael. E c'era Jerek Blok, in piedi sulle gradinate a dare indicazioni. Boots era seduto poche file più in alto del suo comandante, torvo in volto come un bulldog. «Ciao!», disse a Chesna l'uomo alto due metri e dieci e dalla fluente chioma bionda. Sorrise mostrando i denti da cavallo. Indossava occhialetti tondi; Michael non gli diede più di ventitré anni. Aveva gli occhi di un castano intenso, brillanti e da bambino. «Siete voi che avete fatto tutto quel fracasso, stamattina?» «Sì, sono loro Gustav», rispose Blok. «Oh». Il sorriso del dottor Gustav Hildebrand si spense e il suo sguardo si fece tetro. «Mi avete svegliato». Hildebrand poteva anche essere un genio della guerra chimica, pensò Michael, ma questo non gli impediva di essere un sempliciotto. Il giovane altissimo si voltò e urlò ai prigionieri: «Non vi fermate! Continuate la partita!» I poveretti correvano incespicando e ondeggiando verso il canestro, e qualcuno inciampava nei suoi stessi piedi e cadeva. «Siediti qui». Blok indicò la gradinata accanto a lui. «Chesna, vieni a sederti accanto a me, per favore». La donna obbedì, convinta dalla canna di una pistola. Michael prese posto accanto a lei; Lazaris, che in vita sua non aveva mai visto niente di più assurdo, si accomodò accanto all'inglese. Le due guardie rimasero in piedi a pochi passi di distanza. «Ciao, Chesna». Blok si allungò per prenderle la mano. «Sono così felice di riveder...» La donna gli sputò in faccia. Blok mostrò i denti d'argento. Boots si era alzato in piedi, ma il colonnello disse: «No, no. Non è niente», e l'uomo massiccio si sedette di nuovo. Blok prese un fazzoletto dal taschino e si asciugò lo sputo dalla guancia. «Hai del carattere», disse in tono calmo. «Sei una vera tedesca, Chesna. Anche se ti rifiuti di crederlo». «Io sono una vera tedesca», convenne freddamente la donna, «ma non sarò mai come te». Blok tenne il fazzoletto in mano, nel caso servisse di nuovo. «Fra vince-
re e perdere c'è un abisso. Tu parli dal fondo di quell'abisso. Oh, questo sì che era un bel tiro!» Batté le mani in segno di apprezzamento, subito imitato da Boots. Hildebrand fece un sorriso smagliante. «Gliel'ho insegnato io!», annunciò il dottore folle. Il gioco andò avanti, con i prigionieri che a malapena riuscivano a raggiungere la palla. Uno di loro cadde ormai senza fiato e Hildebrand urlò: «Alzati! Alzati! Sei il playmaker, devi giocare!» «Per favore... non ce la faccio...» «Alzati subito». La voce di Hildebrand era meno infantile e molto minacciosa. «In questo istante. Tu continui a giocare finché io non dichiarerò finita la partita». «No... non riesco ad alzarmi...» Qualcuno sollevò un fucile. Il prigioniero si alzò. Il gioco proseguì. «Gustav - il dottor Hildebrand - è appassionato di basket», spiegò Blok. «Lo conosce da quando ha letto una rivista americana. Io invece non riesco a capire bene il gioco. La mia passione è il calcio. Ma a ciascuno la sua. Vi pare?» «Il dottor Hildebrand sembra proprio comandare il gioco con un pugno di ferro», disse Michael. «Oh, non ricominciamo di nuovo!» Il viso di Blok assunse una tonalità cremisi. «Non ti sei stancato ormai di battere sempre sullo stesso chiodo?» «No, ancora non riesco a piantare il chiodo fino in fondo». Michael decise che era arrivato il momento del pezzo forte: «L'unica cosa che non so», disse in tono casuale, «è dov'è custodita la Fortezza Volante. Il Pugno di Ferro: è il nome di un bombardiere B-17, vero?» «Barone, tu non smetti di stupirmi!», sorrise Blok, ma il suo sguardo era diffidente. «Non ti fermi mai, vero?» «Vorrei saperlo», incalzò Michael. «Il Pugno di Ferro... dov'è?» Il colonnello rimase in silenzio per un attimo, osservando gli sfortunati prigionieri correre da un lato all'altro del campo, mentre Hildebrand strillava ad ogni errore o mossa sbagliata. «Vicino a Rotterdam», disse. «In un campo di aviazione della Luftwaffe». Rotterdam, pensò Michael. Quindi non in Francia, ma nell'Olanda occupata dai tedeschi. Circa 1.600 km a sud dell'Isola di Skarpa. Si sentì un po' nauseato, nel sapere che i suoi sospetti erano fondati. «Detto questo, devo aggiungere una cosa», continuò Blok. «Tu e i tuoi amici - e anche quel gentiluomo con la barba laggiù che nessuno mi ha presentato e neanche tengo a conoscere - rimarrete qui su Skarpa finché non terminerà il progetto. Credo che l'isola ti sembrerà un osso più duro di
Falkenhausen. Oh, a proposito, Chesna: tradire è lecito, non trovi anche tu? I tuoi amici sono arrivati da Bauman, i miei da uno di quei gentiluomini che si sono imbattuti nel tuo aereo nei pressi di Uskedahl». Le fece un breve sorriso agghiacciante. «A dire il vero, è da una settimana che sono a Skarpa per sistemare alcune cose e aspettarvi. Barone, sapevo dove saresti andato una volta uscito da Falkenhausen. Era solo questione di vedere quanto avresti impiegato ad arrivare qui». Fece una smorfia notando uno scontro fra due prigionieri con la palla che rimbalzava fuori dal campo. «Il nostro radar vi ha visto zigzagare nel campo minato. Ottimo lavoro». Kitty! pensò Michael. Cosa ne era stato di lei? «Credo che troverai la prigione militare più spaziosa del tuo alloggio a Falkenhausen», disse il colonnello. «Ti godrai anche una piacevole e fresca brezza marina». «E tu che farai nel frattempo? Prenderai la tintarella sul tetto?» «Non proprio». I denti d'argento scintillarono mentre sorrideva. «Barone, mi preparerò ad annientare l'invasione dell'Europa da parte degli alleati». Lo disse con tanta disinvoltura che Michael, malgrado sentisse una morsa alla gola, dovette rispondere a tono: «Davvero? È di questo che ti occupi nel fine settimana?» «Credo che ci vorrà molto meno di un fine settimana. L'invasione verrà annientata circa sei ore dopo il suo inizio. Le truppe britanniche e americane si annegheranno a vicenda tentando di tornare indietro a nuoto alle loro navi e i comandanti impazziranno in preda al panico. Sarà il più grande disastro della storia - per i nemici del Reich, naturalmente - e un trionfo per la Germania. E tutto questo, barone, accadrà senza che i nostri soldati debbano sparare un solo colpo delle nostre preziose munizioni». Michael fece un borbottio di disapprovazione. «Tutto grazie al Pugno di Ferro? E al gas corrosivo di Hildebrand? Ventiquattro bombe da quarantacinque chili non fermeranno migliaia di soldati. A dire il vero, è più facile che le tue truppe si becchino il gas di ritorno dritto in faccia. Allora dimmi: da quale manicomio ti hanno fatto uscire?» Blok lo guardò fisso negli occhi. Un muscolo si contrasse su una guancia. «Oh, no!» Ridacchiò... e fu un suono terribile. «Oh, mio caro barone! Chesna! Nessuno di voi l'ha capito, vero? Credete che le bombe verranno sganciate su questo versante della Manica?» La sua risata aumentò vertiginosamente. Michael e Chesna si guardarono. Un senso di orrore cominciò ad agitarsi
nello stomaco di Gallatin, quasi fosse un groviglio di serpenti. «Vedete, non sappiamo dove avverrà l'invasione. Ci sono decine di possibilità». Rise di nuovo, portandosi il fazzoletto agli occhi. «Oh, santo cielo! Che sorpresa! Ma capite, non conta dove avrà luogo. Se avverrà quest'anno, sarà tra due e quattro settimane da adesso. Non appena inizierà», disse Blok, «sganceremo quelle ventiquattro bombe su Londra». «Mio Dio», sussurrò Michael; tutto fu chiaro. Nessun bombardiere tedesco poteva penetrare le difese aeree inglesi. La Royal Air Force era troppo forte e troppo esperta dopo la Battaglia d'Inghilterra. Nessun bombardiere tedesco si sarebbe potuto neanche lontanamente avvicinare a Londra. Ma una Fortezza Volante B-17 americana sì. Specialmente una che avesse l'aspetto di un rottame pieno di buchi, di ritorno da una missione di bombardamento sulla Germania. Anzi, la Royal Air Force avrebbe perfino scortato l'aeromobile in difficoltà. Come potevano immaginare i piloti inglesi che quei fori di proiettili e gli altri danni di battaglia erano stati dipinti da un artista di strada di Berlino? «Quelle ventiquattro bombe», disse il colonnello, «hanno un nucleo centrale di carnagene liquido racchiuso in un guscio di potente esplosivo. Carnagene è il nome del gas creato da Gustav, e rappresenta una vera e propria conquista. Potrebbe mostrarti le equazioni e le formule chimiche... io non le capisco. So solo che, se inalato, il gas stimola i batteri che abbiamo nel corpo: i microbi che causano il deterioramento dei tessuti, producendo necrosi. In un certo senso i microbi diventano carnivori. Nell'arco di settedieci minuti, la carne comincia a venire... come dire... divorata dall'interno: stomaco, cuore, polmoni, arterie... tutto». Michael non parlò. Aveva visto le fotografie e ci credeva. Uno dei prigionieri era crollato a terra e non si muoveva più. «Alzati». Hildebrand pungolava le costole dell'uomo con la scarpa. «Forza! Alzati, ho detto!» Il prigioniero rimase immobile. Il dottore guardò verso Blok. «È fuori uso! Mandamene uno nuovo!» «Esegui», disse il colonnello alla guardia più vicina; il soldato corse fuori dalla palestra. «La squadra dei rossi dovrà continuare con quattro giocatori!» Hildebrand fischiò. «Riprendete il gioco!» «Che magnifico esemplare della razza eletta», disse Michael, ancora sbalordito. «È troppo stupido per accorgersi che è un idiota». «Temo che per certi versi sia un idiota», convenne il colonnello. «Ma
nel campo della guerra chimica Gustav Hildebrand è un genio, ancor più di suo padre. Prendiamo il carnagene, per esempio: è un concentrato straordinario. Quello che c'è in quelle ventiquattro bombe è sufficiente a uccidere, facendo una stima approssimata, trentamila persone, a seconda dei venti e delle precipitazioni del momento». Chesna si era alzata, cercando di superare lo stesso shock che aveva colpito Michael. «Perché Londra?», chiese. «Perché non bombardate la flotta d'invasione?» «Perché, mia cara Chesna, bombardare le navi è un'impresa infruttuosa. Gli obiettivi sono piccoli, i venti nel canale sono imprevedibili e il carnagene non agisce bene in presenza di sodio. Come nell'acqua salata». Le picchiettò sulla mano, prima che lei riuscisse a ritirarla. «Non preoccupatevi. Sappiamo quello che facciamo». Anche Michael lo sapeva. «Volete colpire Londra perché la voce arrivi alle truppe d'invasione. Quando i soldati conosceranno gli effetti del gas, rimarranno paralizzati dal terrore». «Esatto. Torneranno tutti a casa a nuoto come tanti bravi pesciolini, e ci lasceranno in pace». Il panico tra le truppe di terra avrebbe messo fine ad ogni possibilità di successo. I soldati avrebbero saputo dell'attacco su Londra... se non dalla rete della BBC, di certo attraverso quella delle indiscrezioni. Gallatin disse: «Perché soltanto ventiquattro bombe? Perché non cinquanta?» «Il B-17 che abbiamo non può portarne di più. Bastano allo scopo. Comunque», aggiunse scrollando le spalle, «stanno mettendo a punto la prossima partita di carnagene. È un procedimento lungo e costoso, e un solo errore può distruggere tanti mesi di fatica. Però faremo in tempo ad averne dell'altro pronto per profumare i vostri compagni dell'Est». Michael si rese conto che le ventiquattro bombe contenevano tutto il carnagene disponibile. Ma ce n'era più che a sufficienza per cancellare il D-Day e consolidare la presa di Hitler alla gola dell'Europa. «A proposito, abbiamo un bersaglio a Londra», disse Blok. «Le bombe cadranno lungo Parliament Street fino a Trafalgar Square. Magari riusciremo persino a colpire Churchill, mentre fuma uno di quei suoi sigari disgustosi». Un altro prigioniero cadde in ginocchio. Hildebrand lo afferrò per i capelli bianchi. «Ti avevo detto di passare la palla a Mathias, no? Non ti avevo detto di tirare a canestro!» «Non ci rivedremo più», comunicò Blok ai suoi ospiti involontari. «Ho
altri progetti dopo questo... vedete, questa è solo una delle tante frecce al mio arco». Fece un sorriso argenteo. «Chesna, mi hai spezzato il cuore». Spense il sorriso puntandole il lungo dito sottile sotto il mento. La donna si voltò dall'altra parte. «Ma sei un'attrice magnifica», le disse, «e amerò sempre la donna dei tuoi film. Guardie, adesso riportateli in cella». I due soldati avanzarono. Lazaris si mise in piedi sconvolto. Michael aiutò Chesna ad alzarsi; la donna ansimò per il dolore quando il peso del corpo poggiò in parte sulla caviglia ferita. «Addio, barone», disse Blok mentre Boots aveva lo sguardo fisso e impassibile. «Sono certo che ti troverai benissimo con il comandante del prossimo campo di prigionia in cui soggiornerai». Mentre percorrevano i bordi del campo, il dottor Hildebrand fischiò la fine della partita. Rivolse un largo sorriso a Chesna, la seguì per qualche passo e disse: «La chimica è il futuro, sai. È la forza, l'essenza e il cuore della creazione. Tutte cose che a te non mancano affatto». «A te invece deve mancarne più d'una», gli rispose la donna; poi andò via zoppicando aiutata da Michael: aveva visto il futuro. .. ed era da pazzi. Una volta richiusa la porta della cella, per loro sarebbe stata la fine. E così anche a Londra per trentamila e più abitanti, forse anche per lo stesso primo ministro. Sarebbe stata la fine anche per l'invasione europea. Tutto sarebbe finito, dopo aver richiuso la porta della cella. Era questo che pensava Michael mentre sorreggeva Chesna. Lazaris camminava qualche passo più avanti, i soldati un po' più indietro. Stavano attraversando il vicolo diretti alla prigione. Michael non avrebbe permesso che chiudessero di nuovo quella porta. A qualunque costo. In inglese disse: «Inciampa e cadi a terra». Chesna obbedì immediatamente, lamentandosi e afferrandosi la caviglia. Gallatin si chinò ad aiutarla, mentre i due soldati mugugnavano per intimargli di rialzare la donna. «Riesci a metterne fuori combattimento uno?», le chiese, sempre in inglese. Lei annuì. Sarebbe stata una mossa disperata, ma loro erano al massimo della disperazione. Aiutò Chesna ad alzarsi, poi improvvisamente torse il busto proiettandola contro la guardia più vicina. La donna artigliò gli occhi del suo bersaglio. Michael afferrò il fucile dell'altro soldato e lo strattonò. Il dolore alla mano ferita lo trafiggeva, ma cercò di tenere l'arma con tutte le sue forze. Il soldato stava per strappargliela quando Gallatin colpì l'uomo all'inguine con il ginocchio. Mentre il soldato ansimava piegato in due, Michael gli strappò via di mano il fucile e lo usò per colpirlo sul collo.
Lazaris sbatté le palpebre, con la testa ancora annebbiata dal gas delle granate. Vide Chesna che graffiava gli occhi del soldato e l'uomo che cercava di allontanarla. Fece un passo incerto in avanti. Si sentì uno sparo: un proiettile si conficcò nel selciato fra lui e la donna. Il russo si fermò, alzò lo sguardo e vide un altro soldato in alto su una passerella. Michael gli sparò, ma fu un colpo alla cieca e la mano gli si era intorpidita di nuovo. L'altra guardia gridò e spinse Chesna da parte; la donna urlò e cadde, finendo seduta sulla caviglia menomata. «Scappa!», gridò a Michael. «Vai!» La guardia semiaccecata, con gli occhi sanguinanti e pieni di lacrime, ruotò il fucile verso Michael. Un proiettile sparato dalla passerella passò sibilando accanto alla testa dell'inglese. Gallatinov riprese a correre. La guardia alle sue spalle si asciugò gli occhi e vide l'uomo che svaniva in mezzo alla foschia. Sollevò l'arma e prese la mira, poi premette il grilletto. Prima che il proiettile uscisse dalla canna, un corpo gli si abbatté sulla schiena. La guardia barcollò e cadde a terra, mentre il fucile sparava in aria. Lazaris gli atterrò addosso e lottò per portargli via il fucile. Il soldato sulla passerella mirò la sua preda con il fucile... e fece fuoco. Qualcosa picchiò contro un lato della testa di Michael. Un pugno, pensò. Un pugno di ferro. No, qualcosa di caldo... di incandescente. Fece altri tre passi e cadde: lo slancio lo fece scivolare, mandandolo a pancia sotto in un'area piena di lattine vuote e casse rotte. Pensò di avere la testa in fiamme. Dov'era il fucile? Sparito, fuori dalla sua portata. Si premette la mano contro la tempia destra e sentì qualcosa di caldo e umido. Gli sembrava di avere il cervello fradicio, come se gli si fosse liquefatto per lo shock. Devi assolutamente alzarti, si esortò. Devi scappare. Devi... Mentre si drizzava sulle ginocchia, un secondo proiettile risuonò contro una lattina a pochi centimetri di distanza. L'uomo si alzò, con la testa che pulsava per l'atroce dolore, e attraversò barcollando il passaggio che pensava portasse al recinto. Il recinto... doveva strisciarvi sotto. Svoltò un angolo e si ritrovò sulla traiettoria di un furgone che stava sopraggiungendo. Il veicolo frenò con uno stridio, ma Michael si appiattì contro il muro e ricominciò a correre, con l'odore di gomma bruciata nelle narici. Girò un altro angolo, perse l'equilibrio e andò a sbattere contro il muro. Cadde... e l'oscurità cominciò a scendere su di lui; si trascinò in uno stretto passaggio e restò lì a tremare per il dolore. L'avevano colpito. Sapeva solo questo. Il proiettile gli aveva scalfito la testa, portandogli via carne e capelli. Dov'era Chesna? Dov'erano Alekza e
Renati? No, no... quello era un altro mondo... migliore. Dov'era Lazaris? Il russo era in salvo con Wiktor? Scosse la testa; la mente era annebbiata e gli nascondeva qualche segreto. Il treno era in ritardo! Ce la farò, Nikita! Guardami! La pelle gli pizzicava e pungeva. L'aria aveva un pessimo odore. Cos'era quel puzzo acre? La sua pelle... cosa stava succedendo alla sua pelle? Si guardò le mani. Si stavano trasformando, con le dita che diventavano artigli. Le bende si sfilarono e caddero. Le ossa della spina dorsale scricchiolarono curvandosi. Ancora un nuovo dolore colpì i legamenti, ma paragonato al supplizio della testa era quasi gradevole. Chesna! Gridò mentalmente il nome della donna. Dov'era? Non poteva lasciarla. No, no! Wiktor! Wiktor si sarebbe preso cura di Chesna, vero? Il corpo si dibatteva per combattere alcune cose strane che lo imprigionavano, legandogli le gambe. Qualcosa si distaccò dalla schiena coperta di peli neri: si sbarazzò anche di quella. Le cose che gli cadevano accanto avevano un terribile odore. Un odore umano. I muscoli scattarono e si gonfiarono. Doveva andare via da quel posto orribile, prima che i mostri lo trovassero. Era in un mondo alieno, in cui nulla aveva senso. Il recinto. Oltre il recinto c'era libertà... ed era ciò che desiderava di più. Ma si stava lasciando dietro qualcuno. No, non una persona soltanto. Due. Gli venne in mente un nome, aprì la bocca per gridare, ma il suono fu aspro e stridente e non aveva alcun senso. Si scrollò via gli oggetti pesanti che pendevano dalle zampe posteriori, appese a dei nastri, e corse a trovare la via di uscita. Scovò le tracce del suo stesso odore. Tre mostri dalle facce pallide e crudeli lo videro e uno di loro strillò dal terrore: anche un lupo poteva comprendere quell'emozione. Un'altra figura sollevò un bastone da cui si sprigionò una fiamma. Michael scappò via, mentre un vento caldissimo gli arruffava il pelo sulla nuca... e continuò a correre. L'olfatto lo condusse alla buca sotto il recinto. Perché in quel punto c'era anche odore umano? si chiese. Erano aromi familiari. .. di chi erano? Ma la foresta lo chiamava e prometteva sicurezza. Stava soffrendo terribilmente. Aveva bisogno di riposo. Di un posto in cui raggomitolarsi a leccarsi le ferite. Scivolò sotto il recinto... e senza voltarsi indietro a guardare il mondo che abbandonava, spiccò un salto fra le braccia spalancate della foresta. 8.
La lupa gialla venne ad annusare il suo odore nell'aria mentre se ne stava raggomitolato in un anfratto roccioso. Si era leccato a lungo la zampa ferita, la testa preda di un dolore atroce che prima si intensificava e poi si attenuava, i contorni delle forme leggermente offuscati alla vista. Riusciva però a vederla anche nella luce azzurrina del crepuscolo. Si era fermata su una roccia a una ventina di metri sopra di lui e lo guardava soffrire. Un lupo dal pelo bruno la raggiunse dopo un po', seguito da un altro grigio e con un occhio solo. I due maschi andavano e venivano, ma la femmina restava lì all'erta. Qualche tempo dopo, ma non sapeva esattamente quanto dal momento che il tempo era ormai come un sogno, avvertì l'odore di esseri umani. Sono in quattro, pensò... forse di più. Passarono accanto a dove si era nascosto. Sentì poi il rumore dei loro stivali sulle pietre. Andarono oltre alla ricerca di... Alla ricerca di cosa? si chiese. Cibo? Un riparo? Non lo sapeva, ma gli uomini - quei mostri dalla pelle bianca - gli facevano paura e decise di starne alla larga. Un'esplosione lo risvegliò da un sonno febbricitante. Fissò con gli occhi verdi assonnati delle fiamme che si levavano nel buio. La barca, pensò. L'avevano trovata giù al porto. Quel pensiero gli rimbalzò nella testa e lo colpì. Si chiese come facesse a saperlo. Di chi era quella barca e cosa poteva mai avere a che fare un lupo con una barca? La curiosità lo fece alzare e scendere lentamente e con grande sofferenza lungo le rocce verso il porto. Da una parte lo seguì la lupa gialla e dall'altra un piccolo lupo dal pelo castano che guaì nervosamente per tutto il tratto fino al villaggio. La città dei lupi, pensò guardando le case. Era il nome giusto perché poteva sentirvi l'odore della sua specie. Il fuoco crepitava dietro il frangiflutti e figure di uomini si muovevano nel fumo. Si fermò all'angolo di una casa di pietra davanti alla visione di quei mostri vaganti. Uno di loro chiamò un altro e chiese: «Thyssen, hanno lasciato qualche traccia?» «No, sergente!», urlò un altro ancora in risposta. «Nessuna traccia! Però abbiamo trovato la squadra di salvataggio e la donna. Da quella parte», indicò. «Bene, se cerca di nascondersi qui, quei maledetti lupi lo ammazzeranno!» Il sergente si diresse da una parte con un gruppo di uomini, Thyssen dall'altra. Si chiese di chi stessero parlando, le fiamme riflesse nel verde dei suoi
occhi. Era un rompicapo a cui pensare quando la testa avesse smesso di battergli. Ora quello di cui aveva bisogno erano acqua e un posto dove dormire. Lappò qualche sorso da una pozzanghera di neve sciolta, poi scelse una casa e vi entrò attraverso la porta aperta. Si distese in un angolo acciambellandosi per stare caldo, mise il muso tra le zampe e chiuse gli occhi. Più tardi fu risvegliato da uno scricchiolio delle assi del pavimento. Alzò gli occhi verso la luce accecante di una torcia elettrica e sentì una voce dire: «Cristo, questo deve essersi azzuffato!» Si levò sulle zampe, la coda rivolta al muro, e mostrò le zanne agli intrusi, il cuore impazzito di paura. «Buono, buono», sussurrò uno dei mostri. «Ficcagli una pallottola nella pancia, Langner!» «Io no! Non voglio ritrovarmi con un lupo ferito che mi salta alla gola!» Langner indietreggiò e dopo qualche istante l'uomo con la torcia fece lo stesso. «Non è qui!», urlò Langner a qualcun altro là fuori. «Troppi lupi in giro per i miei gusti. Me ne vado». Il lupo nero con il capo incrostato di sangue si risistemò nel suo angolo e si addormentò. Fece uno strano sogno. Il suo corpo si stava mutando, diventando bianco e mostruoso. Gli artigli, le zanne e il manto di lucido pelo nero erano scomparsi. Nudo, si avviava carponi verso un mondo di orrori e - cosa impensabile - era sul punto di sollevarsi su due gambe quando l'incubo lo riportò con un sussulto alla realtà. Un'alba grigia e la fame, le due cose andavano insieme. Si sollevò e si mise alla ricerca di cibo. Il cranio gli doleva ancora, ma non più così tanto. Aveva i muscoli tutti intorpiditi e il passo era incerto. Fiutò un odore di morte: da qualche parte lì vicino qualcuno era stato ucciso nella città del lupi. L'odore lo guidò in un'altra casa, e qui li trovò. I corpi senza vita di quattro esseri umani. Uno era di un'enorme femmina dai capelli color carota. Gli altri di tre maschi vestiti di nero e con i volti imbrattati dello stesso colore. Si accovacciò sulle zampe posteriori e si mise a osservare le loro posizioni. La femmina, il corpo crivellato da almeno una dozzina di fori, aveva le mani serrate attorno alla gola di uno dei maschi. Un altro maschio giaceva piegato in un angolo improbabile, come una bambola rotta, la bocca aperta in un ultimo respiro. Il terzo era steso sulla schiena accanto a un tavolo rovesciato, un coltello con il manico di corno intarsiato piantato nel cuore.
Il lupo nero fissò il coltello. L'aveva già visto. Da qualche parte. Come in una visione rivide una mano umana poggiata su un tavolo e la lama di quel coltello calare con violenza negli spazi tra le dita. Era un mistero troppo difficile per lui e lasciò perdere. Cominciò con il maschio accasciato nell'angolo. La carne del viso era morbida e anche la lingua. Stava ancora rimpinzandosi, quando sentì l'odore muschiato di un altro lupo, immediatamente seguito da un basso ringhio di avvertimento. Si girò di scatto, il muso macchiato di rosso, ma il lupo bruno aveva già spiccato il balzo per attaccarlo, agitando gli artigli nell'aria. Il lupo nero fece un rapido movimento di lato, ma le zampe erano ancora insicure e perse l'equilibrio, andando a sbattere sul tavolo capovolto. L'animale bruno cercò di azzannargli una zampa anteriore, mancandola solo di poco con le fauci possenti. Un altro lupo, di un color ambra sfumato di rosso, entrò nella stanza dalla finestra e saltò addosso al nero a zanne scoperte. Il lupo nero sapeva che la fine era ormai vicina. Una volta bloccato tra loro, lo avrebbero dilaniato. Lui non li conosceva e loro non conoscevano lui, e sapeva che stavano combattendo per il territorio. Fece per azzannare il lupo ambrato, una giovane femmina, con ferocia tale da farla indietreggiare. Ma il lupo bruno, un maschio robusto, non si fece intimidire con tanta facilità: un bagliore di artigli, e sul torace coperto di pelo nero apparvero profonde striature rosse. Fecero schioccare le fauci, affondando e ritirando le zanne come armi di due spadaccini. Si scagliarono l'uno contro l'altro, petto contro petto, cercando ognuno di avere la meglio con forza selvaggia. Il lupo nero colse la sua occasione e ridusse in brandelli l'orecchio sinistro di quello bruno. L'animale guaì e indietreggiò, fece finta di farsi da parte, ma poi attaccò di nuovo, una furia assassina negli occhi. I loro corpi si scontrarono ancora una volta con una violenza che lasciò entrambi senza fiato. Si batterono corpo a corpo con furore, ciascuno cercando di arrivare alla gola dell'altro mentre si muovevano nella lotta avanti e indietro per la stanza, una danza mortale di zanne e artigli. Una spalla nerboruta e ricoperta di pelo bruno andò a sbattergli sulla parte sinistra del cranio, accecandolo con rinnovato supplizio. Urlò di dolore, un guaito acuto e spezzato, e cadde indietro nell'angolo. L'aria gli gorgogliò nei polmoni e soffiò sangue. Il lupo bruno, quasi ghignando nell'eccitazione della lotta, si preparò a saltargli addosso e finirlo.
Una brusca serie di latrati veloci e sordi lo bloccarono proprio sul punto di attaccare. La femmina gialla era entrata nella casa attraverso la porta, subito seguita dal lupo grigio con un occhio solo, un vecchio maschio. La femmina balzò in avanti, spingendo il lupo bruno da parte con il muso. Gli leccò l'orecchio insanguinato e lo fece spostare con un colpo di spalla. Il lupo nero era in attesa, i muscoli tremanti. Ancora una volta quel dolore feroce alla testa. Voleva rendere chiaro che non avrebbe rinunciato alla vita senza combattere ancora, ed emise un latrato, l'equivalente di «Fatevi sotto!» Quel suono gutturale fece fremere le orecchie della femmina gialla che si accovacciò sulle zampe posteriori e si mise a guardarlo, forse un luccichio di rispetto negli occhi per quel lupo nero che dichiarava la sua intenzione di restare vivo. Lo fissò a lungo, mentre il vecchio lupo grigio e quello bruno le leccavano il manto. Il piccolo maschio castano entrò e cominciò a guaire nervosamente finché lei non lo zittì con una leggera zampata sul muso. Poi si voltò, un movimento regale, e con un solo colpo di coda si avvicinò al corpo con il coltello conficcato e cominciò a sbranarlo. Cinque lupi, pensò. Cinque. Quel numero lo tormentava. Era un numero oscuro e gli evocava l'odore del fuoco. Cinque. Gli venne alla mente l'immagine di una spiaggia e di soldati che si affannavano tra le onde cercando di arrivare al bagnasciuga. Su di loro incombeva l'ombra di un enorme corvo nel suo volo inarrestabile verso occidente. Il corvo aveva occhi di vetro e misteriosi graffi sul becco. Si rese conto che non erano graffi. Erano lettere. E un qualche disegno. Ferro... Fu distolto dall'odore inebriante di sangue e carne fresca. Gli altri lupi stavano mangiando. La lupa gialla sollevò la testa e gli rivolse un ringhio. Il messaggio era chiaro... ce n'era per tutti. Mangiò e lasciò che i misteri volassero via, ma quando il maschio bruno e la femmina ambrata presero a dilaniare a morsi l'enorme corpo senza vita della donna dai capelli color carota, fu preso da tremiti e uscì fuori, dove vomitò. Quella notte il cielo era stellato. Gli altri si misero a cantare, le pance gonfie. Si unì a loro, prima con fare incerto, perché non conosceva i loro motivi, poi a piena voce una volta che gli altri accettarono il suo canto e lasciarono che diventasse parte del loro. Adesso era uno del branco, nonostante il lupo bruno continuasse a ringhiargli contro e a fiutarlo con disprezzo.
Un altro giorno sorse e tramontò. Il tempo era solo un'illusione, non aveva alcun significato lì, nel ventre della città dei lupi. Diede dei nomi agli altri lupi: Golda alla capobranco gialla, più vecchia di quanto sembrasse; Ratkiller al maschio bruno il cui passatempo principale era dare la caccia ai topi nelle case; Oneeye, un eccezionale cantante; Yipper, il cucciolo del gruppo che non aveva tutte le rotelle a posto; e Ambra, una sognatrice che se ne stava seduta per ore a contemplare dall'alto delle rocce. E, come venne a sapere poco dopo, i quattro cuccioli di Ambra e Ratkiller. Una notte ci fu una breve spolverata di neve. Ambra si mise a ballare tra i fiocchi cercando di afferrarli con la bocca, mentre Ratkiller e Yipper le giravano veloci intorno. I fiocchi di neve si scioglievano appena a contatto con il tepore della terra, segno dell'arrivo imminente della primavera. Il giorno dopo se ne stava seduto sulle zampe posteriori sulle rocce mentre Golda gli concedeva l'onore di leccargli via il sangue raggrumato dalla ferita alla testa. La lupa gli parlava attraverso la lingua e gli diceva che, se voleva, poteva montarla. Si risvegliò in lui il desiderio, lei aveva una coda deliziosa. Era ormai eccitato e pronto a soddisfarla, quando sentì il rumore di motori. Alzò gli occhi. Un enorme corvo si stava levando in aria. No. Si rese conto che non era un corvo... i corvi non avevano motori. Una macchina volante con un'immensa apertura alare. Quell'aereo che si levava nell'aria argentata del mattino gli fece venire i brividi. Era un oggetto orribile... Un gemito leggero gli risuonò dal profondo della gola mentre l'aereo virava verso sud. Bisognava fermarlo! Guardò Golda e vide che non capiva. Perché? Perché solo lui riusciva a capire? Balzò giù dalle rocce e corse fino al porto, l'aereo di trasporto sempre più lontano. Si arrampicò sul frangiflutti e vi rimase a guaire finché l'aereo non scomparve dalla vista. Pensò di aver fallito. Ma cercare di capire in cosa avesse fallito gli provocava dolore alla testa e fu costretto a rinunciarvi. Gli incubi continuavano però a tormentarlo, e a quelli era impossibile sfuggire. In quegli incubi era un essere umano. Un giovane uomo che ignorava ogni cosa del mondo. Correva attraverso un campo coperto di boccioli gialli e aveva in mano un filo teso. All'altra estremità del filo un aquilone bianco si librava nel cielo blu, danzando e piroettando tra le correnti d'aria. Una femmina umana lo chiamava, un nome che non riusciva esattamente a capire, e mentre lui guardava l'aquilone levarsi sempre più in alto, sopraggiungeva l'ombra di un corvo dagli occhi di vetro, e una delle sue eliche vorticose riduceva l'aquilone in migliaia di pezzettini che vola-
vano via come polvere. L'aeroplano era verde oliva e crivellato di fori di proiettile. Il filo reciso ricadeva al suolo, e calava anche una foschia che prendeva a turbinargli attorno e che lui aspirava. Allora la carne gli si cominciava a sciogliere e a cadere in brandelli sanguinolenti, e lui finiva in ginocchio mentre gli si aprivano squarci sulle gambe e sulle braccia. La donna, una volta bella, gli si avvicinava barcollando attraverso il campo; mentre lo raggiungeva con le braccia tese, dove prima c'era il volto di lei ora riusciva a vedere solo una cavità insanguinata. Sedette sul molo nella cruda luce del mondo reale e fissò la carcassa bruciata di un'imbarcazione. Cinque, pensò. Che aveva quel numero da terrorizzarlo in quel modo? I giorni trascorrevano nel rituale succedersi di cibo, sonno e ore passate a crogiolarsi al sole ogni giorno più caldo. I cadaveri, ormai svuotati e ridotti a mucchi d'ossa, offrirono al branco un ultimo pasto. Si adagiò sulle zampe posteriori e prese a fissare il coltello conficcato in un involucro di ossa. Aveva la punta ricurva. Aveva visto quel coltello da qualche altra parte, mentre veniva calato tra un paio di dita umane. Il gioco di Kitty, pensò. Ma chi era Kitty? Un aereo, e il metallo verde disseminato di fori dipinti. Il volto di un uomo con i denti d'argento... un volto demoniaco. Una città con un'altissima torre dell'orologio e un largo fiume che serpeggiava verso il mare. Una donna bellissima dai capelli biondi e dagli occhi dorati. Cinque del sei. Cinque del sei. Solo ombre. La testa gli faceva male. Era un lupo, cosa poteva mai sapere o importargli di quel genere di cose? Sentiva il richiamo del coltello. Gli si avvicinò, mentre Golda lo guardava con pigro interesse. Poggiò una zampa sul manico. Naturalmente non c'era alcuna possibilità che riuscisse a estrarlo da lì. Cosa gli aveva fatto credere il contrario? Cominciò a prestare attenzione al sorgere e al tramontare del sole e al passare dei giorni. Notò che le giornate si andavano allungando. Cinque del sei. Qualunque cosa fosse, si stava avvicinando velocemente e questo lo faceva tremare e guaire. Smise di cantare con gli altri. Gli occhi infossati, assistette al levarsi di un altro giorno e se ne andò a fissare il coltello conficcato nello scheletro scarnificato, quasi fosse l'ultima traccia di un mondo perduto. Il cinque del sei gli era ormai addosso. Poteva sentirlo, ticchettargli sempre più vicino. Non c'era modo di fermare il suo approssimarsi, e quella consapevolezza gli faceva torcere le budella. Ma perché nessuno altro
del branco ne era angustiato? Perché era il solo a star male? Comprese che il motivo stava nel suo essere diverso dagli altri. Da dove era venuto? Da quali mammelle aveva succhiato? Come era arrivato lì, nella città dei lupi, mentre il cinque del sei si avvicinava ad ogni suo respiro? Erano vicino al frangiflutti, il lupo nero e Golda, a crogiolarsi nella tiepida brezza con le stelle che risplendevano in cielo, quando sentirono Yipper lanciare un ululato lungo e tremulo dalla cima delle rocce. Quel suono non piacque a nessuno dei due, c'era una nota di allarme. Poi Yipper prese a emettere una serie di latrati veloci e acuti, un segnale di avvertimento per tutta la città dei lupi. Si levarono immediatamente sulle zampe al risuonare di un rumore che fece urlare Yipper di dolore. Degli spari. Golda sapeva solo che significavano morte. Il lupo nero sapeva che era il rumore di una mitraglietta Schmeisser. Un'altra raffica di colpi e le urla di Yipper cessarono bruscamente. Ratkiller raccolse il segnale di allarme e Ambra cominciò a diffonderlo. Il lupo nero e Golda si affrettarono nel centro della città dei lupi e ben presto avvertirono l'odiato odore di uomini. Ce n'erano quattro, e stavano scendendo giù dalla scogliera per raggiungere il villaggio, facendosi luce con delle torce. Sparavano a qualunque cosa si muovesse. Il lupo nero fiutò un nuovo odore e lo riconobbe: schnapps. Almeno uno degli uomini era ubriaco, e forse anche gli altri. Dopo un altro istante sentì le loro voci impastate: «Ti farò una pelliccia di lupo, Hans! Certo, che te la farò! Ti farò la più bella stramaledetta pelliccia che tu abbia mai visto!» «No, non lo farai! La farai per te, figlio di puttana!» Ci fu una risata volgare. Una raffica di proiettili crivellò il muro di una casa. «Uscite fuori, bastardi! Uscite fuori a giocare!» «Ne voglio uno grosso! Quella cosetta piccola sulle rocce non basterà nemmeno a farmi un cappello decente!» Avevano ucciso Yipper. Nazisti ubriachi armati di mitragliette che se ne andavano a caccia di lupi per pura noia. Il lupo nero ne era cosciente, senza sapere perché. Quattro soldati della guarnigione che presidiava l'impianto chimico. Le ombre gli si agitavano nella mente, ogni cosa prese a smuoversi e ricordi assopiti cominciarono a ridestarsi. La testa gli batteva, non di dolore ma per l'intensità dei ricordi. Pugno di Ferro. La Fortezza Volante. Il cinque del sei. Il quinto giorno del sesto mese, comprese finalmente. Il cinque giugno.
Il giorno dello sbarco, il D-Day. Era un lupo. O no? Certo che lo era! Aveva il pelo nero, gli artigli e le zanne. Era un lupo, e i cacciatori avevano quasi raggiunto lui e Golda. Un fascio di luce passò velocemente accanto ai due animali e poi tornò indietro, sorprendendoli nel suo bagliore. «Guarda quei due! Diamine, che pellicce! Una nera e una dorata!» Una mitraglietta si mise in azione e le pallottole rimbalzarono sul terreno proprio vicino a Golda, che presa dal panico si voltò e scappò via. Il lupo nero le corse dietro. La femmina entrò nella casa dove c'erano i cadaveri. «Non lasciarteli scappare, Hans! Saranno due magnifiche pellicce!» Anche i soldati si misero a correre il più velocemente possibile sulle gambe vacillanti. «Sono lì dentro! In quella casa!» Golda indietreggiò contro il muro, il terrore negli occhi. Il lupo nero fiutò i soldati là fuori. «Fa' il giro, va' sul retro!», urlò uno di loro. «Li prenderemo in mezzo!» Golda fece un balzo verso la finestra proprio mentre una raffica di proiettili colpiva gli infissi facendo volare schegge tutto intorno. La lupa ricadde sul pavimento e terrorizzata prese a girare in tondo in un turbine giallo. Il lupo nero si lanciò attraverso la porta, ma fu accecato da una torcia e indietreggiò mentre le pallottole crivellavano il muro sopra la sua testa. «Ora li abbiamo in pugno!», gracchiò una voce rauca. «Max, entra e portali fuori!» «Io no, bastardo! Entra tu per primo!» «Ah, pezzo di merda senza coglioni! Va bene! Entrerò io! Erwin, tu e Johannes controllate le finestre». Ci fu uno scatto metallico. Il lupo nero sapeva che era una nuova cartuccia caricata nel fucile. «Io entro!» Golda provò ancora una volta a fuggire dalla finestra. Fu raggiunta dalle schegge taglienti provocate da un'altra raffica e ricadde indietro con il muso coperto di sangue. «Smettetela di sparare!», ordinò la voce rauca. «Li prenderò tutti e due da solo!» Il soldato si avvicinò a lunghi passi alla casa, seguendo la luce della torcia, nelle vene il coraggio dato dalla schnapps. Il lupo nero sapeva che il destino suo e di Golda era ormai segnato. Non c'erano vie di scampo. Da lì a poco il soldato avrebbe raggiunto la porta e la luce della sua torcia li avrebbe trovati. Nessuna via di scampo... e artigli e zanne cosa avrebbero potuto mai fare contro quattro uomini armati di mitragliette? Guardò il coltello.
Toccò il manico con una zampa. Non deludermi, pensò. Wiktor gli aveva detto così tanto tempo prima. I suoi artigli cercarono disperatamente di stringersi attorno all'impugnatura. La luce della torcia del soldato era quasi arrivata alla stanza. Wiktor. Mouse. Chesna. Lazaris. Blok. Nomi e volti turbinavano nella mente del lupo nero come scintille che si sprigionano da un falò. Michael Gallatin. Non sono un lupo, pensò mentre un lampo di memoria gli attraversò il cervello. Io sono un... La zampa cominciò a trasformarsi. Comparvero strisce di carne bianca. Il pelo nero si ritirò, ossa e tendini si andarono ricongiungendo con un fruscio. Le dita si chiusero attorno al manico del coltello e lo estrassero dallo scheletro. Golda emise un ringhio allibito quasi le mancasse il respiro. Il soldato si fermò sulla soglia. «Ora vi farò vedere chi comanda qui!», e si voltò a lanciare un'occhiata a Max. «Vedi? Ci vuole uno coraggioso per entrare nella tana di un lupo!» «Devi ancora fare due passi, vigliacco!», lo canzonò Max. Il soldato esplorò l'interno con la torcia. Vide gli scheletri e il lupo giallo. Ah! La bestia tremava. Ma dov'era il bastardo nero? Fece i due ultimi passi col fucile pronto a spappolargli il cervello. Mentre il soldato entrava, Michael uscì da dove si era nascosto accanto alla porta e piantò la lama ricurva del coltello di Kitty nell'incavo della gola del militare con tutta la forza che gli riuscì. Il tedesco, soffocato dal sangue, lasciò cadere lo Schmeisser e la torcia per portarsi le mani alla trachea squarciata. Michael raccolse la mitraglietta, mise un piede sulla pancia dell'uomo e lo spinse indietro attraverso la porta. Quindi fece fuoco in direzione della torcia dell'altro soldato; si sentirono delle grida quando le pallottole gli dilaniarono la carne. «Cos'è stato? Chi ha urlato?», gridò uno degli uomini sul retro della casa. «Max? Hans?» Michael attraversò la porta, i legamenti delle ginocchia indolenziti e la schiena dolorante. Si fermò all'angolo della casa e mirò appena sopra i fasci di luce delle due torce. Una di queste fece un segnale nella sua direzione. Gallatin aprì il fuoco contro i nazisti, facendo esplodere entrambe le torce mentre i corpi si accasciavano al suolo. Era tutto finito. Sentì un rumore alle sue spalle. Si voltò, un sudore viscido che gli usci-
va dai pori. Vide Golda, a pochi passi da lui. Lo fissò, il corpo teso, poi digrignò le zanne, ringhiò e fuggì via nel buio. Michael capì. Lui non apparteneva al suo mondo. Ora sapeva chi era e cosa doveva fare. L'aereo da trasporto aveva già portato via le bombe di carnagene, ma c'erano altri corvi ancora a terra: i caccia notturni. Ciascuno di questi poteva volare per un paio di migliaia di chilometri. Se fossero riusciti a stabilire con esattezza dove era tenuto il Pugno di Ferro e... E se non era troppo tardi. Che giorno era? Non c'era modo di saperlo. Si affrettò a cercare sui quattro uomini morti qualcosa da indossare. Dovette prendere la camicia e la giacca da uno, i pantaloni da un altro e gli stivali da un altro ancora. Tutti i vestiti era impregnati di sangue, ma non c'era altra soluzione. Si riempì le tasche di cartucce. C'era lì per terra un berretto di lana grigia senza macchie di sangue. Se lo mise e le dita toccarono lo squarcio e la crosta ruvida sul lato destro della testa. Bastava un solo millimetro e il proiettile gli avrebbe sfondato il cranio. Si mise a tracolla la mitraglietta e si avviò lungo la strada sul versante roccioso. Il 5 giugno, pensò. Era già passato? Quanti giorni e quante notti aveva trascorso in quel posto credendo di essere un lupo? Tutto gli sembrava ancora un sogno. Affrettò il passo. La prima cosa da fare era riuscire a entrare nell'impianto chimico, poi trovare la prigione e liberare Chesna e Lazaris. Solo allora avrebbe saputo se aveva fallito o meno, e se per colpa sua le strade di Londra erano disseminate di corpi straziati. Sentì un ululato, un suono vibrante che gli aleggiò alle spalle. La voce di Golda... ma non si voltò. Continuò a salire su due gambe Verso il suo destino. 9. Avevano cercato di riempire alla bell'e meglio la buca che aveva scavato sotto la recinzione, ma era chiaro che non ci avevano dato dentro con il badile: gli bastarono pochi minuti per togliere la terra che vi era stata gettata dentro e sgattaiolarvi di nuovo attraverso. L'impianto era nuovamente in piena attività, con il suo battito ritmato simile a quello di un cuore pulsante e le passerelle in alto illuminate dalla luce di lampadine. Percorse i vialetti diretto verso il limitare del campo d'aviazione dov'era la prigione. Da dietro un angolo spuntò un soldato che andò nella sua direzione. «Ehi! Hai da
fumare?», gli chiese. «Certo». Michael lo lasciò avvicinare e infilò la mano in una tasca a cercare delle sigarette che non c'erano. «Che ora è?» Il tedesco controllò l'orologio al polso. «Dodici e quarantadue». Guardò Michael e aggrottò la fronte. «Hai bisogno di sbarbarti. Se il capitano ti trova in queste condizioni, ti prenderà a calci nel...» Si accorse del sangue e dei fori delle pallottole che ricamavano la giacca. Michael lo vide sbarrare gli occhi. Colpì il tedesco allo stomaco con il calcio del fucile, poi gli diede una botta sul cranio e trascinò il corpo fino a un gruppo di barili di sostanze chimiche vuoti. Gli prese l'orologio, sollevò il corpo fin dentro un barile e richiuse il coperchio. Si rimise in marcia, quasi correndo. Quarantadue minuti dopo la mezzanotte, pensò. Ma di che giorno? L'ingresso dell'edificio della prigione era incustodito, ma c'era un soldato da solo seduto alla scrivania appena entrati, gli stivali appoggiati al tavolo e gli occhi chiusi. Michael con un calcio gli tolse la sedia di sotto e lo sbatté contro il muro, facendolo tornare nel mondo dei sogni. Prese un mazzo di chiavi dal gancio alla parete dietro la scrivania e si diresse lungo il corridoio che correva tra due file di celle. Fece un ghigno beffardo: nel corridoio risuonava il russare di un certo russo barbuto, simile al rumore di una sega. Mentre provava varie chiavi nella serratura della prigione di Lazaris, sentì qualcuno lasciarsi scappare un sospiro di sorpresa. Guardò la cella due porte più avanti dall'altra parte del corridoio e dietro le sbarre vide Chesna, con gli occhi colmi di lacrime sul viso sporco e tirato, che stava cercando di dire qualcosa senza riuscire a far uscire le parole. Alla fine scoppiò: «Dove diavolo sei stato?» «Mi sono dato alla macchia», disse, poi andò alla porta della sua cella. Trovò la chiave giusta e la serratura scattò. Non appena ebbe spalancato la porta, Chesna gli si gettò tra le braccia. La strinse a sé tutta tremante: poteva sentirle le costole e aveva i vestiti sudici, ma almeno non l'avevano picchiata. Chesna fece un unico, lacerante, singhiozzo e poi si sforzò di darsi nuovamente un contegno. «Va tutto bene», disse Michael, poi le baciò le labbra. «Adesso usciamo da qui». «Va bene, ma prima fa' uscire me da qui, bastardo!», urlò Lazaris dalla sua cella. «Maledizione, pensavamo che ci avessi lasciato a marcire qui dentro!» Aveva i capelli arruffati e ispidi che sembravano un nido di corvi, lo sguardo era truce e furioso. Chesna prese la mitraglietta e restò a con-
trollare il corridoio, mentre Michael cercava la chiave giusta e liberava Lazaris. Il russo uscì fuori emanando un odore pungente non proprio di rose. «Dio mio!», disse. «Non sapevamo se ce l'avessi fatta a fuggire o no! Pensavamo che forse ti avevano ucciso». «Ci sono andati molto vicini». Diede un'occhiata all'orologio. Stava lentamente per segnare l'una. «Che giorno è oggi?» «E chi diavolo lo sa!», rispose Lazaris. Ma Chesna aveva tenuto il conto dei pasti che venivano portati due volte al giorno. «È troppo tardi, Michael», disse, «sei stato via quindici giorni». La fissò senza capire. «Oggi è il sei di giugno», continuò Chesna. «È troppo tardi». Troppo tardi. Era come se quelle parole lo avessero morso. «Ieri era il D-Day», disse Chesna. Si sentì leggermente mancare e dovette aggrapparsi alla spalla di Michael. Soprattutto quelle ultime ventiquattr'ore le avevano ridotto i nervi a pezzi. «Ormai è finita». «No!» Michael scosse la testa, rifiutandosi di crederci. «Ti sbagli! Non posso essere stato un... non posso essere stato via così a lungo!» «Non mi sbaglio». Gli prese il polso e guardò l'orologio. «È il sei di giugno da un'ora e due minuti». «Dobbiamo scoprire che cosa sta succedendo. Dev'esserci una sala radio da qualche parte». «È lì», disse Lazaris. «È in un edificio laggiù accanto alle cisterne del carburante». Spiegò a Michael di essere stato costretto a lavorare con altri prigionieri usati come operai per sbloccare un pozzo nero intasato accanto alla baracca dei soldati, il che spiegava il fetore dei suo vestiti. Immerso nella merda fino al petto, era riuscito a raccogliere informazioni sull'impianto dagli altri prigionieri. Hildebrand, per esempio, viveva nel suo laboratorio al centro dell'impianto, vicino alla ciminiera. Le enormi cisterne di carburante contenevano il combustibile necessario a riscaldare gli edifici durante i lunghi mesi invernali. Gli operai prigionieri erano tenuti in un'altra baracca, non lontano dagli alloggiamenti dei soldati. Lazaris aggiunse che c'era un'armeria in caso di attacco da parte dei partigiani, ma non sapeva esattamente dove. «Riesci a entrare in quei vestiti?», chiese Michael a Lazaris quando giunsero dove la guardia giaceva allungata per terra. Lazaris disse che ci avrebbe provato. Chesna frugò nella scrivania e trovò una Luger e dei
proiettili. Dopo qualche istante Lazaris aveva indosso l'uniforme nazista, la camicia che gli stringeva le spalle e i pantaloni che gli cascavano. Strinse la cintura fino all'ultimo buco. Almeno il berretto dalla tesa dritta gli andava bene. Il russo portava ancora gli stivali che gli avevano dato quando avevano lasciato la Germania, ma ormai erano incrostati di schifezze immonde. Si avviarono verso la sala radio. Chesna zoppicava ancora, ma ce la faceva a camminare da sola. Michael vide la torre radio con le sue luci intermittenti per segnalarne la presenza agli aerei a bassa quota, e diresse gli altri due in quella direzione. Dopo aver corso per una quindicina di minuti passando da un vialetto all'altro per non farsi vedere, raggiunsero una piccola struttura di pietra anch'essa incustodita. La porta era chiusa a chiave, ma uno degli stivali coperti di merda di Lazaris ne ebbe facilmente la meglio. Michael trovò l'interruttore della luce e su una scrivania vide la radio coperta da una protezione di plastica trasparente. Chesna era più esperta di radio tedesche di lui, che si fece quindi da parte mentre lei l'accendeva. I quadranti si illuminarono di un verde pallido e l'altoparlante di metallo cominciò a emettere dei fruscii. Poi si sentì una voce distante parlare in tedesco di un motore diesel che doveva essere revisionato: una nave in mare. Chesna si sintonizzò su una voce norvegese che disquisiva sulla pesca al maccarello reale, forse un messaggio in codice trasmesso verso l'Inghilterra. Cambiò ancora frequenza e nella stanza risuonò la musica di un'orchestra, una marcia funebre. «Se ci fosse già stata l'invasione, dovrebbe essere su tutte le onde radio», disse Michael. «Cosa sta succedendo?» Chesna scosse la testa e continuò a cercare. Trovò un notiziario trasmesso da Oslo. L'annunciatore tedesco stava parlando con voce brusca di un nuovo carico di rocce ferrose appena salpato per la gloria del Reich e della fila per le razioni di latte che si sarebbe formata alle sei davanti al Palazzo del Governo. Il tempo avrebbe continuato ad essere incerto, con il settantacinque percento di possibilità di rovesci temporaleschi. E ora di nuovo la musica rilassante di Gerhardus Kaathoven... «Allora, dov'è l'invasione?» Lazaris si grattò la barba. «Se doveva esserci il cinque...» «Forse non c'è stata», disse Michael. Guardò Chesna. «Forse è stata annullata o rinviata». «Ci dev'essere stata una ragione stramaledettamente buona per rinviare qualcosa di quella portata».
«Forse c'è stata. Chi lo sa cosa potrebbe essere? Ma sono convinto che l'invasione non abbia ancora avuto luogo. Se fosse iniziata la mattina del cinque, ora se ne sentirebbe parlare su tutti i canali». Chesna sapeva che Michael aveva ragione. Notiziari e messaggi trasmessi da e per i vari gruppi di partigiani avrebbero arroventato le frequenze radio. Invece era solo un'altra mattinata di marce funebri e di file per il latte. Michael aveva perfettamente chiaro il da farsi. «Lazaris, saresti in grado di far volare uno di quei caccia notturni là fuori sulla pista?» «Posso far volare qualunque cosa dotata di ali. Sarei però per il Dornier 27. È in grado di volare per quasi duemila chilometri con i serbatoi pieni, ed è un figlio di puttana abbastanza veloce. Dove andiamo?» «Prima a svegliare il dottor Hildebrand. Poi a scoprire esattamente dov'è tenuto il Pugno di Ferro. Quanto ci vorrebbe per volare da qui a Rotterdam? Sono quasi duemila chilometri». Lazaris aggrottò la fronte. «Ci si arriverebbe a malapena anche con i serbatoi pieni fino all'orlo». Ci pensò un attimo. «Un Dornier può volare a una velocità massima di più di cinquecento chilometri orari. Si potrebbe riuscire a mantenere una velocità di quattrocento su una lunga distanza. A seconda dei venti. .. direi più o meno cinque ore». Michael pensò che c'erano troppe incognite, ma non restava altro da fare. Si misero a rovistare nell'edificio. In un'altra stanza piena di schedari, Gallatin trovò una pianta dell'Impianto Chimico di Skarpa delle Industrie Hildebrand attaccata al muro con delle puntine, accanto a un ritratto di Adolf Hitler. Una x rossa indicava la posizione della sala radio e sugli altri edifici era segnato OFFICINA, SALA MENSA, SALA ESPERIMENTI, ARMERIA, BARACCA NUMERO 1, e così via. Il laboratorio era a un centinaio di metri da dove si trovavano, mentre l'armeria era molto più in là, sul lato opposto dell'impianto rispetto al campo di volo. Michael ripiegò la mappa e se la infilò in una tasca macchiata di sangue per poterla usare più tardi. Il laboratorio di ricerca, un lungo edificio bianco con un fitto intreccio di tubi che lo collegavano a tutta una serie di edifici più piccoli, si trovava accanto alla ciminiera centrale. La luce filtrava dalle strette finestre con i vetri coperti di brina: il dottore era all'opera. In cima all'edificio c'era un enorme serbatoio, ma Michael non era in grado di stabilire se contenesse combustibile o acqua. La porta d'ingresso era sbarrata e chiusa a chiave da dentro, ma c'era una scala di metallo arrugginita che portava al tetto: presero quella strada. Sul tetto c'era un lucernario che era stato lasciato aperto.
Gallatin vi si sporse mentre Lazaris lo teneva dalle gambe e sbirciò dentro. Tre uomini in camice e guanti bianchi stavano lavorando su una fila di lunghi tavoli su cui erano disposti microscopi, porta-provette e altre attrezzature. Su un lato in fondo al laboratorio c'erano quattro giganteschi cilindri di metallo sigillati, simili a enormi pentole a pressione, dai quali proveniva quel rumore cadenzato simile a un battito cardiaco. Michael pensò che doveva essere prodotto da qualche meccanismo alimentato da un motore elettrico per mescolare i componenti di quell'intruglio malefico, qualunque fossero. A circa sei metri dal suolo una passerella attraversava tutto il laboratorio, passando non molto lontano dal lucernario, per andare a finire a un pannello di misuratori di pressione accanto ai cilindri metallici. Uno dei tre uomini era alto più di due metri e indossava un berretto bianco sui capelli biondi che gli ricadevano lungo la schiena. Era tutto preso a esaminare una serie di vetrini. Michael si risollevò dal lucernario. Il battito nei cilindri faceva tremare il soffitto. «Voglio che voi due torniate al campo d'aviazione», disse a Lazaris e a Chesna; la donna cominciò a protestare, ma Michael le mise un dito sulle labbra. «Statemi semplicemente a sentire. Lazaris, se i serbatoi del Dornier non sono pieni, dovrete riempirli voi. Se ricordo bene, credo di aver visto un camion di carburante sul campo di volo. Puoi farcela?» «Io riempivo da solo i serbatoi del mio Warhammer. Ero io la mia squadra di terra». Scrollò le spalle. «Non sarà molto diverso. Ma potrebbero esserci guardie a controllare gli aeroplani». «Lo so. Finito qui, creerò un diversivo. Ve ne accorgerete quando lo farò». Guardò l'orologio. L'una e trentadue. Se lo tolse e lo diede a Chesna. «Tra una trentina di minuti sarò al campo d'aviazione», promise. «Quando avranno inizio i fuochi d'artificio, avrete la possibilità di riempire i serbatoi del Dornier fino all'orlo». «Io resto con te», disse Chesna. «Lazaris ha bisogno del tuo aiuto più di me. Niente discussioni. Pensate solo a raggiungere il campo di volo». Chesna era una professionista e sapeva quando stava perdendo tempo. Lei e Lazaris si affrettarono attraverso il tetto per raggiungere la scala. Michael assicurò la cinghia della mitraglietta alla spalla, scavalcò il bordo del lucernario e afferrò una tubatura di ferro che serpeggiava attraverso il soffitto del laboratorio. Una mano dopo l'altra, ondeggiò fino alla passerella e ne scavalcò il corrimano. Si accovacciò e si mise a osservare i tre uomini. Hildebrand ne chiamò
uno e gli mostrò qualcosa su un vetrino. Poi si mise a sbraitare e batté il pugno sul tavolo, mentre l'altro annuiva senza ribattere, le spalle abbassate in segno di ubbidienza. Il lavoro non sta andando bene, pensò Michael. Che peccato. Una goccia di liquido cadde accanto a lui sulla passerella con un tonfo quasi impercettibile. Guardò cos'era. A intervalli regolari lungo la tubatura di ferro c'erano degli spruzzatori, e uno perdeva. Stese il palmo, vi fece cadere alcune gocce e le annusò. Odore di salsedine. Si leccò il palmo. Acqua salata. Capì che proveniva dal serbatoio sul soffitto. Probabilmente semplice acqua di mare. Perché mai mettere un serbatoio di acqua di mare sul tetto di un laboratorio? Gli tornò in mente qualcosa che aveva sentito dire da Blok: Il carnagene non va d'accordo con il sodio. Come quello nell'acqua di mare. Forse l'acqua di mare distruggeva il carnagene. Se era così, Hildebrand aveva disposto un sistema per cui, se ci fosse stata una fuga del gas nel laboratorio, gli spruzzatori avrebbero emesso getti di acqua salmastra. Il sistema di controllo doveva essere in un punto facilmente raggiungibile da chi lavorava lì sotto. Michael si rialzò e camminò fino al pannello di controllo accanto ai cilindri metallici. C'era una fila di interruttori rossi, tutti attivati. Cominciò ad abbassarli uno a uno. Il rumore simile al battito cardiaco si affievolì fino a cessare. Un'ampolla cadde in frantumi sul pavimento. Uno degli uomini lanciò un grido. Era Hildebrand. «Incoscienti!», urlò. «Riavviate gli aeratori!» «Nessuno si muova». Michael tornò indietro verso di loro con la canna dello Schmeisser alzata. «Dottor Hildebrand, ora noi due faremo una piccola chiacchierata». «La prego! Gli interruttori! Li riavvii». «Voglio sapere dov'è il Pugno di Ferro. A quale distanza da Rotterdam?» D'un tratto uno degli altri uomini si lanciò in direzione della porta, ma Michael lo freddò prima che potesse fare tre passi. L'uomo cadde e una macchia cremisi gli si allargò sul camice bianco. Lo sparo risuonò in tutto il laboratorio. Di certo qualcuno l'aveva sentito. Il tempo cominciava a scarseggiare. Puntò la canna ancora fumante verso Hildebrand. «Il Pugno di Ferro. Dov'è?» «Il...» Hildebrand deglutì con forza, fissando il foro della canna dello Schmeisser. «Il campo aereo della Luftwaffe a Wassenaar. Sulla costa, trenta chilometri a nord di Rotterdam». Lanciò uno sguardo ai cilindri me-
tallici. «La prego... la supplico! Riavvii gli aeratori!» «E cosa succede se non lo faccio? Il carnagene andrà perso?» «No! E...» Michael sentì un rumore di metallo che cedeva. «Esploderà nella sua forma grezza!», urlò Hildebrand, la voce soffocata dal panico. Michael guardò i cilindri sigillati. I coperchi si stavano gonfiando e lungo le giunture si cominciavano a vedere degli squarci dovuti alla pressione. Dio mio! finalmente comprese. Quella roba dentro i cilindri stava crescendo come lievito! L'altro tecnico prese all'improvviso una sedia e corse verso una finestra. Spaccò il vetro e gridò: «Aiuto! Qualcuno ci aiuti...» Il fucile di Michael lo zittì. Hildebrand alzò le braccia. «Riattivi gli interruttori! La supplico!» I contenitori stavano cedendo verso l'esterno. Michael si lanciò verso il pannello di controllo, ma nello stesso istante Hildebrand corse verso la finestra rotta e cercò di passarci attraverso con il suo lungo corpo. «Guardie!», gridò. «Guardie!» Michael si fermò a meno di tre metri dagli interruttori e diresse l'arma su quell'artefice del male. I proiettili dilaniarono le gambe di Hildebrand, che ricadde sul pavimento contorcendosi dal dolore. Gallatin infilò un altro caricatore nello Schmeisser, pronto a finire l'uomo. Uno dei contenitori si squarciò, aprendosi lungo la chiusura e facendo schizzare i rivetti in ogni direzione. Un fiume di liquido denso e giallo cominciò a fuoriuscirne e a spargersi sul pavimento. L'ululato di una sirena coprì le grida di Hildebrand. Un secondo contenitore si squarciò come un bubbone gonfio, e un'altra ondata gialla si riversò sul pavimento. Michael stava lì, paralizzato dall'orrore e affascinato, mentre il liquido avanzava sotto la passerella, spingendo davanti a sé tavoli e sedie con la sua massa melmosa. In quel pantano giallo di sostanze chimiche si vedevano strisce di una materia schiumosa, di un colore marrone scuro, che sfrigolava come olio in una padella. Il terzo contenitore esplose con una tale forza da sbattere il coperchio contro il soffitto; mentre quella melma usciva dal bordo, Michael tornò verso il lucernario. Il carnagene - di consistenza fangosa e non gassosa in quello stato ancora non raffinato - procedeva inesorabile sul pavimento. Hildebrand stava disperatamente strisciando verso il volano rosso sul muro. Michael capì
che serviva ad aprire il serbatoio di acqua marina. Hildebrand lo afferrò tra le dita e con uno strattone lo fece ruotare di un quarto. Michael sentì l'acqua cominciare a scorrere nella tubatura, ma dopo un istante il carnagene grezzo raggiunse Gustav Hildebrand, che si mise a gridare nell'abbraccio corrosivo della sostanza. Si contorceva come una lumaca su cui fosse stato versato del sale, i capelli e il volto intrisi di carnagene. Prese a graffiarsi gli occhi, la voce un gemito d'agonia, mentre pustole si formavano e si aprivano scoppiando sulla carne bianca delle mani. Gli spruzzatori cominciarono a far uscire acqua salmastra. Dove cadevano le gocce, la sostanza sfrigolava e si scioglieva. Ma non faceva più differenza per Hildebrand, ormai ridotto a un ammasso brulicante di piaghe che si dibatteva in quella melma. Si sollevò sulle ginocchia con la carne che gli si staccava a brandelli dal volto e spalancò la bocca in un urlo muto e terrificante. Michael prese la mira, schiacciò il grilletto e crivellò di colpi il petto del dottore. Il corpo scivolò giù con il fumo che usciva dai polmoni dilaniati. Gallatin si rimise lo Schmeisser a tracolla, salì sul corrimano della passerella e saltò. Si aggrappò a una tubatura sul soffitto e scorse lungo di essa fino a raggiungere il lucernario. Poi, con i muscoli delle spalle indolenziti, si sollevò e si ritrovò sul tetto. Guardò di nuovo in basso. Il carnagene stava evaporando sotto gli spruzzi di acqua salata; Hildebrand giaceva a terra come una medusa abbandonata sulla sabbia da una mareggiata. Michael si rimise in piedi e corse verso la scala. Due soldati stavano cercando di salire. «Il carnagene è fuoriuscito!», urlò Gallatin, fingendo un'espressione di terrore che avrebbe suscitato l'ammirazione anche di Chesna. I soldati saltarono giù dalla scala. Altri tre tedeschi stavano cercando di sfondare la porta. «È fuoriuscito il gas!», urlò uno dei soldati con autentico orrore; tutti si sparpagliarono, gridando a pieni polmoni mentre la sirena continuava a suonare. Michael controllò la mappa e si avviò di corsa verso l'armeria. Ogni volta che vedeva un soldato, gli gridava che il carnagene era fuoriuscito. In pochi minuti udì le urla riecheggiare in tutto l'impianto. Gli effetti del gas erano noti a tutti, anche alle semplici guardie. Le sirene suonavano ormai in ogni punto dello stabilimento. Quando arrivò all'armeria, vi trovò una mezza decina di soldati che si erano già introdotti nell'edificio e ne stavano correndo via con maschere antigas e respiratori. «Il carnagene è fuoriusci-
to!», gli disse un tedesco con gli occhi sbarrati. «Alla sezione C sono già tutti morti!» Indossò la maschera antigas e se ne andò inciampando e respirando dalla sua bombola di ossigeno. Michael entrò nell'armeria, scardinò una cassa di bombe a mano e poi un'altra di cartucce per mitragliatrici aeree calibro .12,7. «Tu!», urlò un ufficiale entrando nella stanza. «Cosa credi di fa...» Gallatin lo tolse di mezzo con una raffica e continuò la propria opera. Mise la cassa di bombe a mano su quella di cartucce, trascinò un'altra cassa di granate e scardinò anche quella. Poi tolse le sicure a due di esse, le ributtò nelle casse con le altre e corse via. Sul campo di volo Lazaris e Chesna erano accovacciati accanto al camion del carburante, mentre le sirene ululavano. Cinque metri più in là un soldato giaceva per terra con il petto trapassato dal proiettile di una Luger. La pompa del camion ronzava, riversando il carburante attraverso un tubo di tela nel serbatoio dell'ala destra del caccia notturno Dornier. Lazaris aveva trovato entrambi i serbatoi alari pieni per tre quarti, ma quella era la loro unica possibilità di fare rifornimento di carburante, e il volo sarebbe stato lungo. Teneva ferma la lancia della pompa, mentre Chesna controllava che non arrivassero altre guardie. A una trentina di metri c'era un capanno di lamiera ondulata usato dai piloti come sala riunioni; dopo averne scassinato la porta, vi aveva trovato una bella ricompensa: mappe della Norvegia, della Danimarca, dell'Olanda e della Germania, con sopra indicata la posizione precisa dei campi aerei della Luftwaffe. Il cielo si illuminò. Ci fu un'esplosione potente e Chesna al principio la scambiò per un tuono. Era appena saltato per aria qualcosa di grosso. Riusciva a sentire un rumore di raffiche, come di centinaia di proiettili che scoppiavano. Ci furono altre esplosioni e vide fiamme e scie di razzi da ricognizione levarsi nella notte sopra l'altro lato dell'impianto. Una folata di vento caldo soffiò attraverso il campo, portando un odore di bruciato. «Dannazione!», disse Lazaris. «Quando quel figlio di puttana dice diversivo, non lo dice per scherzo!» Chesna guardò l'orologio. Dov'era Michael? «Dai, forza», sussurrò. «Ti prego, sbrigati». Dopo una quindicina di minuti sentì sopra l'incessante frastuono di distruzione il rumore di qualcuno che arrivava correndo. Si gettò a terra sul cemento, la Luger pronta a far fuoco. Ma poi le giunse la sua voce: «Non sparare! Sono io!» «Dio ti ringrazio!» Si alzò da terra. «Che cosa è esploso?»
«L'armeria», rispose Michael. Il berretto gli era volato via e la camicia gli era stata quasi stracciata dalla ventata provocata dalla deflagrazione, che l'aveva colto proprio mentre si lanciava di corsa in un vialetto. «Lazaris! Quanto ci vuole ancora?» «Tre minuti! Voglio riempire i serbatoi fino all'orlo!» Dopo tre minuti era tutto fatto. Michael mandò il camion del carburante a sbattere contro il Messerschmitt Bf-109, distruggendo un'ala, poi entrò con Chesna nel Dornier, mentre Lazaris si allacciava le cinture al posto di pilotaggio. «D'accordo!», disse il russo facendo scrocchiare le dita. «Adesso vediamo cosa sa fare un russo con un caccia tedesco!» Le eliche rombarono e il Dornier decollò con una accelerata. Lazaris fece fare all'aereo un giro sul centro di Skarpa in fiamme. «Un attimo!», urlò. «Dobbiamo completare il lavoro!» Schiacciò un interruttore che avviò la ricarica delle mitragliatrici, poi si lanciò in una picchiata terrificante che li schiacciò contro i loro sedili. Si diresse verso le enormi cisterne del carburante. Al terzo passaggio radente riuscì finalmente ad attizzare una macchia rossa di fuoco, che divampò all'improvviso in un globo bianco e arancio. La ventata fece sobbalzare il Dornier mentre Lazaris riprendeva velocemente quota. «Ah!», esclamò con un ghigno soddisfatto in volto. «Adesso mi sento di nuovo a casa!» Fece compiere all'aereo un ultimo cerchio sull'isola, come un avvoltoio che volteggia su un letto di carboni ardenti, poi lo diresse verso l'Olanda. 10. Jerek Blok aveva sempre immaginato che il giorno in cui sarebbe finalmente accaduto avrebbe avuto il sangue talmente freddo che, se avesse avuto del ghiaccio in mano, non si sarebbe sciolto. Ma adesso, alle 7.48 della mattina del 6 giugno, entrambe le mani gli tremavano. Nell'edificio di calcestruzzo grigio del controllo del campo d'aviazione, il radio operatore si stava tranquillamente sintonizzando sulle varie frequenze. Le voci si affollavano e svanivano in continuazione in una tempesta di scariche elettrostatiche; non tutte erano tedesche, segno che le truppe inglesi e americane avevano già catturato alcuni radiotrasmettitori. Nelle ore che precedevano l'alba erano giunte notizie sparse di lanci di paracadute sulla Normandia. Varie basi aeree segnalarono di essere state bombardate e colpite a bassa quota da aeroplani alleati; poco prima delle
cinque del mattino due caccia da combattimento erano usciti rombando in mezzo a una tempesta di pioggia e avevano sganciato pallottole sull'edificio in cui adesso si trovava Blok, infrangendo tutti i vetri e uccidendo un ufficiale segnalatore. Il sangue rappreso striava la parete alle sue spalle. Uno dei tre Messerschmitt sulla pista era stato colpito in modo irreparabile e un altro aveva la fusoliera crivellata di colpi. Anche il magazzino vicino in cui era stato confinato Theo von Frankewitz era stato malamente danneggiato. Ma, grazie al cielo, l'hangar era rimasto intatto. Mentre il sole sorgeva in un cielo avvolto dalle nuvole e una forte brezza salata soffiava verso l'interno dalla Manica, i notiziari radio raccontavano frammentariamente una pagina di storia: l'invasione alleata dell'Europa era cominciata. «Voglio qualcosa da bere», disse Blok a Boots; il massiccio aiutante aprì un thermos di brandy e glielo porse. Il colonnello lo stappò, e il liquore secco gli fece lacrimare gli occhi. Poi rimase ad ascoltare con il cuore trepidante, mentre il radio operatore trovava altre voci nel ciclone della guerra. Sembrava che ondate di alleati stessero sbarcando in una decina di punti. Al largo delle spiagge della Normandia si estendeva un'armata davvero impressionante: centinaia di navi per il trasporto delle truppe, cacciatorpediniere, incrociatori e corazzate, tutti con la bandiera a stelle e strisce o la Union Jack. Il cielo era occupato da centinaia di caccia da combattimento alleati Mustang, Thunderbolt, Lightning e Spitfire, che colpivano a bassa quota le roccaforti tedesche, mentre i grandi bombardieri Lancaster e le Fortezze Volanti si libravano addentrandosi sempre più nel cuore del Reich. Blok bevve di nuovo. Era arrivato il suo momento... e quello della Germania nazista. Guardò gli altri sei uomini nella stanza, tra cui il capitano Van Hoven e il luogotenente Schrader, che erano stati addestrati in qualità di pilota e copilota del B-17. Blok disse seccamente: «Andiamo». Van Hoven, con la faccia dura e risoluta, passò sui vetri frantumati e raggiunse una leva sulla parete, poi la abbassò senza la minima esitazione. Dalla cima dell'edificio una campanella stridula cominciò a suonare. Van Hoven e Schrader, insieme ai loro armiere e navigatore, corsero per circa cinquanta metri verso l'ampio hangar di cemento armato, mentre gli altri uomini del personale di terra e i mitraglieri del B-17 arrivavano da una caserma dietro l'hangar. Blok mise da parte il thermos, lasciò l'edificio e si avviò a grandi passi
insieme a Boots. Dopo aver lasciato l'isola di Skarpa, il colonnello era andato a vivere in una villa in Danimarca, a circa sei chilometri e mezzo dalla base aerea, da dove poteva sorvegliare il carico delle bombe al carnagene e l'addestramento finale dell'equipaggio. Da allora c'erano state esercitazioni a tutte le ore del giorno e della notte; ora avrebbe scoperto se ne era valsa la pena. Gli uomini dell'equipaggio erano entrati nell'hangar da un ingresso laterale; mentre Blok e Boots arrivavano, si aprirono le porte scorrevoli di quello principale. Giunte a metà, un lieve brontolio echeggiò dal fondo. Il suono crebbe rapidamente in un ringhio e poi in un ruggito. Le porte dell'hangar continuarono a scorrere; quando si aprirono, cominciò a emergere il mostro sciolto dalle catene. La cupola di vetro della postazione del bombardiere era deturpata dalle crepe, che sembravano reali perfino a pochi centimetri di distanza. Fori di proiettile, dipinti con i bordi azzurrastri per simulare la lamiera scoperta, tempestavano la livrea verde oliva, sotto l'immagine di Hitler schiacciata in un pugno metallico serrato. Le parole IRON FIST, Pugno di Ferro, completavano la decorazione sul muso del B-17. L'enorme velivolo uscì dall'hangar, con le quattro eliche rotanti. La torretta ventrale del mitragliere e quella superiore avevano il vetro dipinto in modo da sembrare quasi del tutto spaccato. Falsi fori di proiettile in ordine sparso butteravano i fianchi dell'aereo ed erano disegnati sulla sagoma della deriva di coda. Tutti i pezzi erano stati messi insieme utilizzando parti rottamate di vari B17 distrutti, secondo il bozzetto fatto da Frankewitz. L'insegna della United States Army Air Force - l'aeronautica militare statunitense - completava l'inganno. Di tutti gli armamenti del B-17, soltanto due - le mitragliatrici laterali erano presidiati e pronti all'uso. Ma non sarebbe stato necessario far fuoco, perché in sostanza sarebbe stato un volo suicida. Gli aerei alleati avrebbero lasciato avanzare il Pugno di Ferro verso il suo obiettivo, ma tornare a casa era tutta un'altra questione. Van Hoven e Schrader comprendevano entrambi l'onore di pilotare questa missione e sapevano che le loro famiglie sarebbero state adeguatamente assistite. Ma gli armamenti laterali, con le aperture rettangolari da cui le mitragliatrici venivano manovrate per seguire gli obiettivi, sarebbero stati molto più convincenti se... Be', era un compito che andava ancora assolto. Una volta fuori dall'hangar, Van Hoven tirò i freni e il Pugno di Ferro si fermò. Blok e Boots, tenendosi fermo il berretto nella tempesta di vento
delle eliche, si diressero verso l'entrata principale sulla fiancata destra dell'aereo. Lo sguardo del colonnello fu colpito da un movimento. Guardò verso l'alto. Un apparecchio volava attorno al campo. Per due secondi rimase atterrito, temendo un altro attacco a bassa a quota, ma poi vide che si trattava di un Dornier da combattimento notturno. Cosa faceva quello stupido? Non aveva il permesso di atterrare lì! Uno dei mitraglieri laterali sbloccò il portello, lasciandoli entrare nell'aereo. Mentre Boots camminava chinandosi per uno stretto passaggio lungo la parte centrale dell'aereo, Jerek Blok estrasse la Luger e sparò due colpi sulla testa del mitragliere laterale di destra; poi, allo stesso modo, fece saltare le cervella al mitragliere di sinistra. Si occupò di sistemare i corpi nelle aperture rettangolari in modo che il sangue colasse giù per i fianchi dell'aereo e gli uomini fossero ben visibili. Un autentico tocco artistico, pensò. Van Hoven dalla cabina sbloccò i freni e l'aereo cominciò a rullare lungo la pista fino al punto di decollo. Quindi si fermò ancora, mentre pilota e copilota controllavano livelli e strumenti. Nel vano bombe sul retro, Boots svolgeva il suo incarico personale: togliere il cappuccio di sicurezza dalla spoletta delle ventiquattro bombe verde scuro, dando con prudenza un quarto di giro e uno strappo a ciascuna spoletta per armarle. Eseguito il suo compito finale, Blok lasciò il Pugno di Ferro e scese ad aspettare Boots di lato alla pista. Come una freccia in procinto di essere scoccata, l'aereo tremolava, camuffato in modo splendido. Dopo l'esplosione del carnagene nelle strade di Londra, i messaggi del disastro sarebbero giunti ai comandanti dell'armata al largo della costa della Normandia, poi sarebbero filtrati fino ai soldati. Entro il calare della notte si sarebbe scatenato il panico di massa, e avrebbe avuto inizio la ritirata. Oh, quale gloria per il Reich! Il Führer in persona avrebbe danzato con... Blok avvertì una morsa alla gola. Il Dornier stava atterrando. E peggio ancora, quello stupido idiota di un pilota aumentava la velocità sulla pista, puntando dritto sul Pugno di Ferro! Il colonnello corse incontro al B-17, sbracciandosi in modo scomposto. Il Dornier ridusse la velocità, sgommando per la frenata, ma continuò ad andare avanti, bloccando la pista. «Levati di mezzo, idiota!», gridò Blok, estraendo di nuovo la Luger. «Dannato imbecille, sgombra la pista!» Dietro di lui i motori del Pugno di Ferro andavano su di giri in un rombo fragoroso. Il berretto volò via dalla testa del colonnello e si infilò in una delle
eliche, dove fu ridotto in polvere. Il calore oleoso emanava riflessi di luce nell'aria, mentre i motori del B-17 salivano di giri. Blok puntava la Luger con il braccio teso contro il Dornier, che scivolava verso di lui. Il pilota era impazzito! Tedesco o no, quell'uomo doveva essere costretto a interrompere quella corsa... Attraverso il parabrezza del Dornier vide che il copilota aveva i capelli dorati. Il pilota aveva la barba. Riconobbe entrambi i volti: Chesna von Dorne, e l'uomo che accompagnava lei e il barone. Non aveva alcuna idea di come ci fossero riusciti, ma sapeva il motivo per cui erano lì, ed era inammissibile. Con un urlo di rabbia, Blok iniziò a sparare con la Luger. Un proiettile mandò in frantumi il parabrezza davanti al viso di Chesna. Un altro rimbalzò sulla fusoliera e un terzo si conficcò nel vetro e colpì Lazaris alla clavicola. Il russo urlò dal dolore, mentre i frammenti di vetro volavano attorno a Michael, seduto dietro la cabina di pilotaggio. Mentre Blok continuava a sparare contro il parabrezza, Gallatin abbassò la maniglia del portello, balzò sulla superficie della pista e passando con uno scatto sotto l'ala del Dornier lo raggiunse, mentre le eliche del caccia notturno e del B-17 turbinavano sollevando una violenta tempesta di vento. Fu addosso al nazista prima che si accorgesse del suo arrivo. Blok ansimò e cercò di indirizzare un colpo contro il viso di Michael, che gli afferrò il polso capovolgendo la canna della Luger mentre partiva il colpo. Lottarono fra le eliche; Blok cercò di affondare le dita negli occhi dell'inglese, che gli assestò a sua volta un pugno alla mascella, facendogli sbalzare la testa all'indietro. Il nazista stringeva la presa sulla pistola e Michael sul polso del militare. Il colonnello si piegò nel tentativo di spingere Gallatin nell'elica del Dornier, ma l'inglese - che aveva intuito la mossa qualche secondo prima - fu pronto a resistere. Blok gridò qualcosa, un'imprecazione che si perse nel rumore del motore, e con la mano libera vibrò un colpo di piatto contro il naso dell'avversario. Michael riuscì ad attutirne la forza, ma il colpo gli arrivò alla tempia e lo stordì. Riuscì comunque a mantenere la presa sul polso del nazista e gli piegò il braccio all'indietro all'altezza del gomito, cercando di spezzarglielo. L'indice di Blok sul grilletto si tese dal dolore e due proiettili partirono. Bucarono una delle lamiere che coprivano il motore del B-17 e dai fori spuntò il fumo nero dell'olio bruciato. Nell'urlo del vento, Michael e Blok lottarono fra le eliche, rischiando di finire nelle pale rotanti. Van Hoven, dalla cabina del Pugno di Ferro, vide
l'olio in fumo provenire da uno dei quattro motori. Tolse i freni e l'apparecchio cominciò ad avanzare barcollando. Boots lavorava ancora nel vano bombe e, accorgendosi che si stavano muovendo, alzò lo sguardo e tuonò: «Ma che diavolo state facendo?» Blok tirò una forte gomitata al mento di Michael e con uno strattone liberò la Luger. La sollevò per spaccare in due il cranio del falso barone. Fece una smorfia di trionfo: il suo ultimo ghigno, un trionfo effimero. Infatti un secondo dopo Gallatin si lanciò in avanti: in una nuvola di polvere afferrò Blok per le ginocchia e lo sollevò spingendolo indietro. La pallottola della Luger mancò la schiena di Michael, ma le pale dell'elica del Pugno di Ferro colsero in pieno nel segno. Tagliarono Jerek Blok dalla cintola in su in tante strisce rosse di sangue e ossa, mentre Michael si spingeva sulle gambe tuffandosi a terra sotto le eliche. In un batter d'occhio non rimase più niente del colonnello, a parte le gambe e il velo di sangue che macchiava il cemento. Alcuni denti d'argento caddero tintinnando e tutto finì. Michael si rotolò sotto le pale, mentre le gambe smembrate di Blok si contraevano ancora. Dalla cabina di pilotaggio del Pugno di Ferro, Van Hoven virò verso l'erba dalla pista per evitare il Dornier, ma nel sorpassare il caccia notturno non riuscì a notare la figura che li inseguiva. Il bombardiere stava acquistando velocità, tornando sulla pista. Michael Gallatin si allungò verso l'alto, oltre il corpo sanguinante che sporgeva dall'apertura rettangolare, e si appigliò con le mani alla canna della mitragliatrice. Un secondo dopo, il B-17 si lanciò in avanti; Michael sollevò i piedi, spiccò il volo e saltò sull'aereo spostando da parte il morto con una spallata. Il Pugno di Ferro raggiunse la fine della pista e sollevò il muso. Le ruote abbandonarono il terreno; lasciandosi dietro lo scarabocchio di fumo nero di uno dei motori, Van Hoven puntò verso l'Inghilterra. Due minuti dopo il Dornier lo seguì. Chesna aveva preso il controllo mentre Lazaris teneva premuta la mano sulla clavicola rotta e lottava per non perdere i sensi. La donna osservò l'indicatore del carburante: le lancette avevano superato la linea rossa e le spie di segnalazione di entrambi i serbatoi lampeggiavano. Spinse l'aereo inseguendo la scia di fumo, mentre il vento fischiava fra le crepe del parabrezza davanti ai suoi occhi. Il B-17 salì di circa cinquemila piedi prima di mettersi in assetto orizzontale sulla Manica. Nel settore centrale, mentre il vento si infilava attraverso i portelli delle mitragliatrici, Michael guardò all'esterno il motore
fumante. L'elica aveva smesso di girare e la gondola annerita era cosparsa di piccoli getti di fuoco. Quel danno non avrebbe fermato il Pugno di Ferro: in realtà rendeva soltanto più convincente la messa in scena. Gallatin cercò le armi degli uomini morti, ma non trovò nulla. Rialzandosi, sentì il B-17 aumentare la velocità e udì un sibilo, come qualcosa che sfrecciasse accanto al portello di destra. Diede un'occhiata fuori: era il Dornier. Chesna gli volteggiava sopra a circa cinquecento piedi. Spara! pensò Michael. Abbatti questo bastardo! Ma lei non lo fece e lui capì il perché: aveva paura di colpirlo. Il dado era tratto. Se qualcuno doveva bloccare il Pugno di Ferro, era lui. Avrebbe dovuto uccidere il pilota e il copilota, con le sue stesse mani se necessario. Ogni secondo che passava si avvicinavano sempre di più all'Inghilterra. Si guardò attorno alla ricerca di un'arma. Le mitragliatrici erano caricate con nastri di munizioni, ma erano attaccate ai supporti. L'interno dell'aereo era completamente spoglio, a parte un estintore rosso. Stava quasi per passare oltre, quando attraverso il portello vide un altro aereo. No, altri due. Si stavano buttando sul Dornier. Si sentì gelare il sangue. Erano caccia Spitfire inglesi; quando aprirono il fuoco su Chesna, vide le striature color arancio brillante dei loro traccianti. Il camuffamento di Blok ebbe successo; i piloti degli Spitfire credevano di proteggere una Fortezza americana colpita in combattimento. Al comando del Dornier, Chesna virò bruscamente da un lato mentre i traccianti le passavano accanto. Agitò le ali e accese le luci di atterraggio, ma naturalmente gli Spitfire non andarono via... erano venuti per uccidere. Chesna sentì l'aereo vibrare e i proiettili abbattersi sull'ala sinistra. Poi i segnalatori d'allarme si spensero e il carburante finì. Scesero in picchiata verso il mare, tallonati da uno Spitfire che scaricava una scia di pallottole sulla fusoliera del Dornier. I proiettili rimbalzarono sulle nervature metalliche dell'aereo come una tempesta di chicchi di grandine. Il Dornier era quasi arrivato all'acqua. Chesna disse a Lazaris: «Reggiti!», e un istante prima dell'impatto tirò indietro la cloche per sollevare il muso. Lo strattone della forza dinamica fu notevole: la donna si sentì tagliare dalle cinture di sicurezza per la spinta in avanti. Batté la testa contro la cloche e fu sul punto di perdere i sensi. Sentiva il sapore del sangue in bocca e la lingua tagliata. Il Dornier galleggiava, gli Spitfire gli volteggiarono sopra e volarono via dietro alla Fortezza. Bel colpo, pensò arcigna. Lazaris si tolse la cintura di sicurezza mentre Chesna sganciava la sua.
L'acqua stava allagando la cabina. La donna si alzò con un dolore pulsante alle costole e si diresse nel vano posteriore in cui era conservato un gommone. Il portello d'emergenza era lì vicino e cercò di forzarlo insieme al russo. Michael vide il gommone arancione spuntare sulla superficie del canale. Un cacciatorpediniere inglese stava già avviandosi verso il Dornier abbattuto. I due Spitfire volteggiarono sul Pugno di Ferro, poi presero posizione ai lati, leggermente indietro. Ci scortano a casa, pensò Michael. Si affacciò dal portello di destra nel gemito del vento e si sbracciò in modo frenetico. Lo Spitfire sullo stesso lato oscillò le ali in segno di saluto. Dannazione! Michael si tirò indietro furioso. Sentiva odore di sangue e vide che ne aveva dappertutto sulle mani. Proveniva dal cadavere che sporgeva dall'aereo. Il sangue era colato lungo tutta la fiancata del bombardiere. Si affacciò di nuovo, si imbrattò ancora di più le mani di sangue e cominciò a disegnare una svastica nazista sul metallo verde oliva. Dagli Spitfire non arrivò alcuna risposta. Mantennero la posizione. Disperato, Michael sapeva di avere ancora una sola possibilità. La salvezza giunse dalla mitragliatrice di destra. La allentò e diresse la canna sullo Spitfire in volo lento. Poi premette il grilletto. I proiettili crivellarono di fori tutta la fiancata dell'aereo. Michael vide l'espressione sorpresa del pilota che lo fissava dritto in volto. Rigirò l'arma e continuò a sparare; un istante dopo, il motore dello Spitfire eruttò fumo e fiamme. L'apparecchio picchiò, ancora comandato dal pilota, ma con rotta verso il mare. Spiacente vecchio mio, pensò Michael. Passò al portello opposto e cominciò ad aprire il fuoco con l'altra mitragliatrice, ma il pilota del secondo Spitfire era risalito in candela ad alta quota dopo aver visto cos'era accaduto al suo compagno. Michael sparò qualche raffica, tanto per chiarire le cose, ma per fortuna i proiettili mancarono il bersaglio di un ampio margine. «Cos'era quel dannato rumore?», gridò Van Hoven nella cabina di pilotaggio. Guardò Schrader e poi Boots, che era diventato pallido di fronte all'eventualità concreta di fare il viaggio per Londra in quell'aereo della morte. «Sembrava una delle nostre armi!» Van Hoven guardò oltre il vetro e ansimò inorridito nel vedere lo Spitfire in fiamme planare verso il mare. Il secondo Spitfire volava su di loro con il ronzio di un calabrone infuriato. Boots sapeva che il colonnello aveva ucciso i mitraglieri. Faceva parte del piano, anche se le armi erano state caricate per indurre gli uomini del-
l'equipaggio a credere che sarebbero stati vivi al momento di attraversare la Manica. Ma allora, chi era tornato a manovrare le mitragliatrici? Boots uscì dalla cabina diretto al vano bombe, dove il carnagene era armato e pronto. Michael continuava a sparare con l'arma che vibrava nelle mani, mentre lo Spitfire volava su di loro. Poi ottenne ciò che voleva: la mitragliatrice laterale dello Spitfire entrò in azione. I proiettili colpirono con un rumore sordo la fiancata del Pugno di Ferro e schizzarono intorno a Michael, che rispose al fuoco mentre l'aereo inglese faceva un rapido giro. Il bastardo adesso era impazzito, pronto prima a sparare e poi a fare doman... Michael sentì il rumore degli scarponi chiodati sul metallo. Si voltò a sinistra e vide Boots puntare verso di lui attraversando il passaggio. L'uomo massiccio si fermò all'improvviso con dipinta sul viso una smorfia che era un misto di shock e di rabbia nel vederlo manovrare la mitragliatrice, poi riprese a camminare con lo sguardo da assassino. Michael ruotò l'arma verso sinistra per abbatterlo, ma la canna si agganciò al bordo dell'apertura e non ne volle più sapere di muoversi. Boots si precipitò in avanti e sferrò un calcio: lo stivalone colpì Michael allo stomaco prima che potesse ripararsi, spedendolo barcollante nel passaggio. L'inglese cadde e scivolò, senza più fiato. Lo Spitfire lanciò un altro fuoco di fila; mentre Boots raggiungeva Michael, tutt'intorno rimbalzarono proiettili di mitragliatrice, squarciando il rivestimento del Pugno di Ferro. Gallatin sferrò un calcio al ginocchio destro del nazista, che urlò dal dolore e indietreggiò a grandi passi, mentre Van Hoven mandava il Pugno di Ferro in picchiata per evitare la rabbia del pilota dello Spitfire. Boots cadde afferrandosi il ginocchio, mentre Michael ansimava senza fiato. Il passo successivo dello Spitfire fu di inviare scariche di pallottole nel vano bombe del Pugno di Ferro. Una di queste rimbalzò su una sbarra metallica e deviò, andando a colpire la spoletta di una bomba al carnagene, che sfrigolò; il fumo cominciò a invadere il compartimento. Mentre Boots provava ad alzarsi in piedi, Michael lo colpì al mento con un montante facendogli rimbalzare la testa all'indietro. Ma il tedesco era forte come un toro, e un attimo dopo si sollevò e si abbatté a testa bassa su Gallatin, facendo finire entrambi con le spalle contro una paratia bordata di metallo. Michael prese a martellare di pugni la testa rasata di Boots, che lo colpì allo stomaco con un pugno. I proiettili dello Spitfire fendevano la paratia accanto a loro, investendoli di scintille arancioni. Il Pugno di Ferro
vibrava, con il motore dell'ala destra che ora emetteva fumo. Van Hoven dalla cabina di pilotaggio mise l'aereo in assetto orizzontale a centomila piedi. Lo Spitfire continuava a guizzare avanti e indietro, determinato ad abbatterli. Schrader gridò: «Laggiù!», e indicò qualcosa. La massa dell'Inghilterra emergeva dall'acqua; era confusamente visibile, ma ora anche un terzo motore fumava e cominciava a perdere colpi. Van Hoven aumentò la velocità, dando tutta la potenza che il bombardiere poteva reggere. Il Pugno di Ferro si dirigeva verso l'Inghilterra a 210 miglia all'ora, sollevando la cresta dei cavalloni sulla Manica lungo la sua scia. Un pugno picchiò contro la mascella di Michael; Boots gli sferrò anche una ginocchiata all'inguine. Mentre Gallatin si accasciava, il nazista lo afferrò alla gola e lo sollevò, sbattendogli il cranio sulla parete metallica alle sue spalle. Stordito, Michael capì di dover cambiare tattica, ma non riusciva a mettere a fuoco le idee. Si sentì ancora sollevare... e il cranio riprese a sbattere contro la lamiera. Quando Boots fu sul punto di alzarlo una terza volta, Gallatin picchiò forte la fronte contro il viso del tedesco e gli frantumò il naso. Il nazista lasciò la presa e indietreggiò, grondando sangue dalle narici. Ma prima che Michael si predisponesse per un altro attacco, Boots gli assestò un calcio nelle costole. L'inglese schivò il colpo, ricevendo la maggior parte dell'impatto sulla spalla destra; respirò sibilando fra i denti serrati. Lo Spitfire si avvicinò frontalmente al Pugno di Ferro. Le mitragliatrici laterali sprizzarono scintille e un istante dopo l'aria nella cabina si riempì di vetri e di fiamme. Van Hoven scivolò in avanti, con il petto crivellato da una mezza decina di pallottole; Schrader si contorceva con un braccio spezzato. Uno dei motori del Pugno di Ferro esplose lanciando schegge che perforarono la cabina di pilotaggio. Il bombardiere urlò, accecato dai frammenti di metallo. L'apparecchio scese in picchiata verso le onde, mentre le fiamme divoravano l'interno della cabina distrutta e l'ala destra. Boots si avvicinò zoppicando a Michael, che cercava disperatamente di reagire al dolore. Piegandosi in basso, il nazista lo prese per il colletto e lo alzò, poi gli assestò un pugno in pieno viso. L'inglese cadde all'indietro contro la paratia, con la bocca ricoperta di sangue. Il tedesco tirò indietro il pugno chiuso per colpirlo di nuovo sul volto. Prima che il colpo lo raggiungesse, Michael si allungò da un lato trovando con le mani la bombola rossa dell'estintore. Con uno strattone la liberò dalle cinghie e se ne fece scudo proprio mentre il pugno gli giungeva davanti agli occhi. La bombola lo bloccò all'istante, spezzando le dita di
Boots come fiammiferi. Gallatin lo colpì nello stomaco usando l'estintore come se fosse un grosso martello. L'uomo massiccio respirava con un sibilo; Michael colpì mirando con la bombola alla mascella del tedesco. Sentì lo scricchiolio della mandibola che si rompeva. Boots, con lo sguardo vitreo per il dolore e le labbra socchiuse, si avvinghiò a lui per strappargli l'estintore. Michael ricevette una ginocchiata alla tempia e cadde carponi, mentre Boots glielo toglieva. Il tedesco sollevò la bombola con l'intenzione di fracassargli la testa. L'inglese gli si scagliò addosso prima che l'estintore potesse abbattersi su di lui. Sopra l'urlo del vento, Gallatin sentì il crepitio delle armi dello Spitfire. Da un lato dell'apparecchio provenivano traccianti infuocati che rimbalzarono sulle paratie. Sull'ampio petto di Boots vide aprirsi tre fori grossi quanto un pugno. Un istante dopo un proiettile colpì l'estintore, che esplose con fragore come una bomba in miniatura. Michael si appiattì a terra mentre i pezzi di metallo si spargevano in tutte le direzioni. La schiuma chimica sibilava sulle paratie. Gallatin alzò lo sguardo e vide Boots in piedi, con un braccio aggrappato al supporto della mitragliatrice. L'altro braccio del nazista era per terra alcuni metri più in là, con la mano che ancora si muoveva. Boots lo guardò, sbattendo le palpebre con muto stupore. Lasciò la presa e si avvicinò a grandi passi all'arto reciso. Nel muoversi, l'intestino cominciò a scivolare fuori dallo squarcio aperto sul fianco. Alcuni pezzi di metallo rosso brillavano all'interno del foro e gli abiti del nazista erano fradici di schiuma. Da un altro squarcio sul collo scorreva sangue, che zampillava come una fontana cremisi dalle vene spezzate. Boots perdeva pezzi ad ogni passo. Si fermò, si osservò la mano e il braccio e volse lo sguardo verso Michael. Rimase lì, morto in piedi, finché Gallatin si alzò, gli si avvicinò e lo buttò giù con un dito. Il nazista crollò a terra immobile. Michael si sentì quasi svenire, ma guardando fuori dall'apertura si accorse che il mare era a meno di trecento piedi sotto l'aereo e gli si schiarirono le idee. Scavalcò la mole raccapricciante di Boots e andò verso la cabina di pilotaggio. Arrivato al vano bombe, sobbalzò per il fumo e per il sibilo... una delle bombe al carnagene stava per esplodere. Entrò e vide il navigatore che tentava disperatamente di far volare l'aereo, dal momento che il pilota gia-
ceva morto lì accanto e il copilota era gravemente ferito. Il Pugno di Ferro stava perdendo quota con rapidità e lo Spitfire gli volava sopra. La costa dell'Inghilterra era a meno di sette miglia. Michael disse al navigatore terrorizzato: «Portaci giù. Subito!» L'uomo armeggiò con i comandi, togliendo potenza ai motori e cercando di mantenere alzato il muso mentre il Pugno di Ferro - che ora era davvero un uccello ferito - scendeva di altri cento piedi. Gallatin si tenne forte al seggiolino del pilota. L'aereo cadde, finendo nella Manica con un sobbalzo inaspettatamente lieve, esaurendo così finalmente le forze. Le onde coprirono le ali. Michael non attese il navigatore. Tornò nel vano bombe al centro dell'aereo e aprì il portello. Non aveva tempo di cercare il gommone... del resto dubitava che si fosse salvato dalla gragnuola di colpi. Saltò giù nell'acqua gelida e nuotò allontanandosi più che poté dall'aereo. Lo Spitfire si abbassò sfiorando la superficie, lo superò e proseguì verso la verde isola. Michael continuò a nuotare per aumentare il più possibile la distanza tra lui e la Fortezza. Sentiva sfrigolare le superfici incandescenti dell'aereo che cominciava ad affondare. Forse il navigatore era uscito, o forse no. Non si fermò a controllare. L'acqua salata gli bruciava sulle ferite e gli impediva di perdere i sensi. Una bracciata dopo l'altra, si lasciò l'aereo alle spalle. Arrivato a una certa distanza, sentì un tonfo e un gorgoglio; si voltò e vide la coda dell'aereo che affondava. Il muso si rialzò: sulla sua punta Gallatin vide l'immagine di Hitler stretto nel Pugno di Ferro, disegnata da Frankewitz. Se i pesci avessero potuto apprezzare l'arte, si sarebbero divertiti un mondo. Il Pugno di Ferro iniziò a scomparire, affondando rapidamente nell'acqua che entrava a fiotti dalle aperture laterali. Un attimo dopo non c'era più e le bolle d'aria salivano scoppiettando sulla superficie turbolenta. Michael si voltò e nuotò verso terra. Le sue forze diminuivano; aveva voglia di lasciarsi andare. Ma non ancora, disse a se stesso. Ancora una bracciata... e poi un'altra... e un'altra... Nuotare con le braccia era decisamente più efficace che con le zampe. Sentì lo scoppiettio di un motore. Una nave di pattuglia gli stava andando incontro con due uomini armati di fucili a prua. Una bandiera dell'Union Jack sventolava a bordo. Era a casa. Lo issarono sull'imbarcazione, gli avvolsero attorno una coperta e gli diedero una tazza di tè forte come piscio di lupo. Poi gli puntarono i fucili
contro finché non toccarono terra, dove lo consegnarono alle autorità. La nave era a circa un miglio dal porto quando Michael sentì un boato sordo e lontano. Si voltò e vide un enorme geyser fuoriuscire dalla superficie dell'acqua. Un'altra bomba al carnagene era esplosa nel vano in fondo alla Manica. Il geyser si calmò, l'acqua continuò ad agitarsi ancora un po', e poi finì tutto. Ma non completamente. Michael saltò sul molo, voltò la schiena al villaggio ed esaminò attentamente con lo sguardo il Canale alla ricerca di un cacciabombardiere inglese che sapeva sarebbe arrivato presto. Si scrollò le gocce d'acqua dai capelli e dai vestiti. Si sentì sopraffatto dalla gioia, anche in piedi sotto la minaccia dei fucili della Home Guard. Era talmente felice che ebbe voglia di ululare. Circostanze impreviste 1. Aveva gli occhi cerchiati di rosso e il viso bianco come il gesso. Era un pessimo segno. «Temo che non sia sopravvissuto niente», disse Martin Bormann. Si schiarì la gola. «Il dottor Hildebrand è morto e... il progetto sembra non aver portato alcun frutto». Aspettò di saperne di più, serrando le mani a pugno sulla scrivania che aveva davanti. Sul muro alle sue spalle un ritratto di Federico il Grande lo osservava quasi a volerlo giudicare. «Noi... non pensiamo che l'aereo sia mai arrivato a Londra», continuò Bormann. Guardò a disagio l'altro uomo nella stanza, un feldmaresciallo con i capelli grigi e la schiena rigida. «Non ci sono prove che il carnagene abbia raggiunto il bersaglio». Non disse nulla. Si sentì una tempia pulsare ritmicamente. Attraverso una finestra con il bordo dorato, le ombre del 6 giugno calavano su Berlino. Su un altro muro erano attaccate con delle puntine da disegno alcune mappe della Normandia, che mostravano spiagge che il mondo avrebbe ben presto conosciuto sotto i nomi in codice Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword. Ovunque su quelle mappe le linee rosse spingevano verso l'interno e le linee nere segnavano la ritirata - maledetti traditori! pensò mentre le
guardava - delle truppe tedesche. «Il progetto è stato un fallimento», disse Bormann. «Dovuto a... circostanze impreviste». «No, non è così», rispose Hitler con voce tranquilla. «Il fatto è che qualcuno non ci ha creduto abbastanza. Qualcuno non ha avuto la forza di volontà necessaria. Portatemi Blok». La sua voce si fece più stridente. «Il colonnello Jerek Blok. È lui che voglio vedere. Subito». «Il colonnello Blok... non è più con noi». «Il traditore!» Hitler quasi si alzò dalla scrivania. «Cos'ha fatto? È scappato e si è consegnato al primo soldato inglese che ha visto?» «Il colonnello Blok è deceduto», disse Bormann. «Sì, anch'io mi sarei suicidato se avessi rovinato tutto come ha fatto lui!» Hitler si alzò. Era rosso in viso e aveva gli occhi umidi. «Avrei dovuto capire che non dovevo assegnargli nessuna responsabilità! Era un fallito che fingeva di essere un uomo di successo! Il mondo è pieno di questi sciagurati!» «O almeno temo che lo sia la Germania», disse sottovoce il feldmaresciallo. «Quando penso al tempo e al denaro spesi su questo progetto, mi sento male!» Hitler uscì da dietro la scrivania. «E così Blok si è tolto la vita, vero? Com'è avvenuto? Con una pillola o con una pistola?» «Con un...» Bormann fu sul punto di dire elica. Ma raccontare al Führer quello che era veramente successo avrebbe aperto un vespaio. Ci sarebbe stata la questione della Resistenza tedesca - quegli sporchi maiali - e degli agenti segreti che avevano distrutto tutto il carnagene. E poi c'era anche la sgradevole questione di Chesna von Dorne. No, no! Era meglio lasciare la storia com'era: una flotta di bombardieri aveva colpito i serbatoi e il deposito d'armi di Skarpa, e l'esplosione aveva rovinato i composti chimici. In quei momenti difficili il Führer aveva ben più della realtà di cui preoccuparsi. «Una pistola», disse. «Be', ci ha fatto risparmiare un proiettile, giusto? Ma tutto quel tempo e quegli sforzi sprecati! Potevamo sviluppare il cannone solare, con quel denaro! Ma no, no... Blok e i suoi cospiratori mi hanno convinto a non farlo! Io mi fido troppo, è questo il problema! Martin, penso che quell'uomo lavorasse per gli inglesi!» Bormann scrollò le spalle. A volte era meglio fargli credere quello che voleva. Così era più facile averci a che fare. «Mio Führer?» Il feldmaresciallo indicò le mappe della Normandia. «Se
è così gentile da rivolgere la sua attenzione alla situazione attuale, noterà che qui gli inglesi e i canadesi stanno avanzando verso Caen. Qui» - toccò un altro punto sulla mappa - «le truppe americane si muovono verso Carentan. Le nostre forze sono insufficienti a contenere entrambi i problemi. Posso chiedere la sua opinione su quali divisioni usare per bloccare questa minaccia?» Hitler non disse nulla. Rimase in piedi a fissare non le mappe sulle quali erano evidenziate le lotte cruciali, ma la sua collezione di acquerelli in cui erano in agguato lupi immaginari. «Mio Führer?», lo spronò il feldmaresciallo. «Cosa dobbiamo fare?» Un muscolo si contrasse sul volto di Hitler. Il Führer si allontanò dai dipinti, andò alla scrivania e aprì il primo cassetto. Vi infilò una mano e prese un tagliacarte simile a un coltello. Tornò ai dipinti con lo sguardo vitreo e il passo di un sonnambulo e affondò la lama nel primo, strappando la scena della casa colonica da cima a fondo e con essa un lupo accucciato dietro una roccia. «Bugie», sussurrò Hitler lacerando le tele. «Bugie e inganni». «Mio Führer?», chiese il feldmaresciallo, ma non ci fu risposta. Martin Bormann si voltò e andò alla finestra che si affacciava sul Reich dei Mille Anni. La lama strappò il terzo dipinto, in cui un lupo si nascondeva in un campo di stelle alpine bianche. «Bugie», ripeté l'uomo con la voce piena di tensione. La lama andò avanti e indietro, i pezzi di tela caddero intorno alle scarpe lucide dell'uomo. «Bugie, bugie, bugie». In lontananza si sentì una sirena che avvertiva di un'incursione aerea. Il suo urlo risuonò sulla città distrutta velata dalla polvere e dal fumo dei bombardamenti precedenti. A est la notte stava arrivando. Hitler fece cadere il tagliacarte sul tappeto. Si portò le mani alle orecchie. Una bomba balenò alla periferia della città. Bormann si riparò gli occhi con le mani per schermarli dal bagliore. Mentre Hitler calpestava tremante i resti delle sue visioni, il feldmaresciallo tedesco gli mise una mano sulla bocca, temendo che potesse urlare. 2. Il Big Ben suonò l'Undicesima ora. Michael Gallatin rifletté che in altre circostanze era conosciuta come l'ora del lupo. Tuttavia in quel caso erano
le undici di una mattina soleggiata di metà giugno, e persino un lupo non avrebbe avuto abbastanza coraggio da affrontare il traffico di Londra. Osservò i veicoli da una finestra che dava su Downing Street, le macchine che si muovevano lungo il Tamigi nel turbine di Trafalgar Square. Si sentiva rinnovato e vivo. Era sempre così, quando la morte veniva affrontata e battuta... almeno per un po'. Indossava un completo blu scuro, una camicia bianca e una cravatta a disegni blu; sotto i vestiti le costole erano fasciate strette con del cerotto. La ferita sul palmo della mano era ancora bendata e la coscia gli dava qualche problema, ma in generale stava bene. Avrebbe corso di nuovo, più veloce che mai. «Cosa stai pensando?», gli chiese la donna arrivando da dietro. «Oh, che è una bellissima giornata e che sono felice di essere uscito dall'ospedale. I giorni come questo non sono piacevoli visti da un letto». «Direi che dipende dal letto, ti pare?» Michael si voltò per guardarla. Chesna era riposata, con il volto libero dalle rughe dovute al dolore. Be', forse ne era rimasta qualcuna... era la vita. «Sì», convenne l'uomo. «Sono d'accordissimo». La porta dell'ufficio si aprì; entrò un uomo dalle ossa grandi e dal naso grosso con indosso l'uniforme di un capitano della Royal Air Force. I capelli di Lazaris erano cresciuti molto e il russo aveva tenuto la barba, anche se adesso era tagliata con cura. Era pulito come un pezzo di sapone nuovo e ne aveva anche l'odore. Sotto la giacca della RAF, il braccio e la spalla sinistra erano ingessati per curare la clavicola rotta. «Salve!», disse sorridendo, felice di vederli. Chesna si rese conto che a suo modo Lazaris era davvero affascinante. «Scusate il ritardo», aggiunse il russo. «Nessun problema. Evidentemente non seguiamo l'orario militare». Il loro appuntamento era previsto per le undici in punto. «Parlando di militari, ti sei arruolato nella RAF?» «Be', sono ancora un ufficiale dell'aviazione russa», rispose parlando nella sua lingua madre, «ma proprio ieri mi hanno nominato capitano onorario. Ho volato su uno Spitfire. Quello sì che è un aereo! Se solo li avessimo avuti anche noi, avremmo potuto...» Sorrise di nuovo e lasciò cadere il discorso. «Tornerò a casa appena possibile». Scrollò le spalle. «Come ho detto, in cielo sono un leone. E voi due?» «Io sono a casa», disse Michael. «E ci rimarrò a lungo. Chesna andrà in California». «Oh, sì!» Lazaris provò a parlare in inglese: «Cal-i-for-niei?» «Proprio così», disse la donna.
«Muolto biene! Sarai grande stella!» «Cercherò una piccola parte. O forse farò la stuntwoman nelle scene di volo in cui serve un pilota». «Un pilota! Ya!» Il solo nominare quella parola fece apparire un'espressione sognante sul viso del russo. Michael fece scivolare la sua mano in quella di Chesna e guardò Londra dalla finestra. Era una bellissima città, resa ancora più bella dal fatto che nel suo cielo non avrebbero mai più volato aerei nazisti. Il brutto tempo aveva costretto a rimandare il D-Day dal 5 al 6 giugno; da quel momento centinaia di migliaia di soldati alleati erano sbarcati sulle spiagge della Normandia, respingendo senza sosta i nazisti verso la Germania. Naturalmente la guerra non era ancora finita; ci sarebbero stati altri travagli e tribolazioni, una volta respinti i nazisti nella loro tana. Ma il passo iniziale era stato fatto. L'invasione dell'Europa era un successo enorme, anche se molto costoso. Era solo questione di settimane prima che Parigi venisse liberata e la patria di Gaby si affrancasse dal nazismo. L'avanzata di Hitler era terminata. Da quel momento in poi ci sarebbe stata una lunga ritirata: la macchina da guerra tedesca ormai allo sbando era schiacciata - osava pensarlo? - dai pugni di ferro di America, Gran Bretagna e Russia. Mentre il sole gli cadeva sul viso, Michael pensò alla strada percorsa. A McCarren e Gaby, ai passaggi sotterranei, a Camille e a Mouse, alla lotta sul tetto dell'Opéra di Parigi, al combattimento nei boschi prima di Berlino, alla casa e alla vita distrutte di Mouse, alla croce di ferro che non aveva alcun significato. Pensò al Reichkronen, al treno della morte di Harry Sandler, ai canili di Falkenhausen e al lungo volo fino in Norvegia. A Kitty e a un coltello con la lama ricurva. C'era stata anche un'altra strada: la percorreva da quando un bambino aveva inseguito un aquilone in una foresta russa. Quella corsa l'aveva portato in un mondo di gioia e di tristezza, di tragedia e di trionfo, fino a quel momento... e oltre questo punto si apriva il futuro. Uomo o bestia? si chiese. Adesso sapeva a quale mondo apparteneva davvero. Accettando il suo posto nel mondo degli uomini, aveva realizzato il miracolo. Non pensava di aver deluso Wiktor... anzi, pensava che sarebbe stato fiero di lui, come un padre è fiero del figlio che ama. Vivi libero, pensò. Se era possibile in quel mondo, avrebbe fatto del suo meglio per riuscirci. Una suoneria trillò sulla scrivania della segretaria. Era una donna piccola
dal viso affilato con un garofano sul bavero. «Adesso può ricevervi», disse ai tre in attesa, poi si alzò per aprire la porta del sancta sanctorum. L'uomo all'interno era massiccio come un bulldog, si alzò dalla scrivania e avanzò per accoglierli. Disse che aveva sentito grandi cose su di loro. Prego, sedetevi! Indicò tre sedie. Disse che la cerimonia di consegna delle medaglie sarebbe stata privata... era inutile avvertire la stampa di un'impresa così delicata. Erano d'accordo? Naturalmente sì. «Le dispiace se fumo?», chiese a Chesna; quando la donna rispose di no, l'uomo prese uno dei suoi caratteristici sigari da una scatola di palissandro che aveva sulla scrivania e lo accese. «Dovete rendervi conto del grande servizio che avete fatto per l'Inghilterra. Anzi, per il mondo. Un servizio incalcolabile. In alto avete amici che si prenderanno cura di voi. Ah, parlando di amici!» Aprì il cassetto della scrivania e prese una busta sigillata con la ceralacca. «Questa è di un suo amico, maggiore Gallatin». Michael la prese. Riconobbe il sigillo e fece un debole sorriso. Infilò la busta nella tasca del soprabito. Il primo ministro parlò a lungo delle ramificazioni dell'invasione e disse che alla fine dell'estate i nazisti avrebbero combattuto ai confini della Germania. I loro piani per una guerra chimica erano stati frantumati, non soltanto per quanto riguardava il Pugno di Ferro, ma anche per la... vogliamo chiamarla scomparsa di Gustav Hildebrand? Michael guardò attentamente il viso del politico. Doveva fargli una domanda. «Mi scusi, signore». «Sì, maggiore?» «Per caso... lei ha parenti in Germania?» «No», disse Churchill. «Certo che no. Perché?» «Io... ho visto una persona travestita in modo da somigliarle». «Ah, quei bastardi impudenti!» ringhiò il primo ministro facendo uscire dalla bocca del fumo blu. Quando l'incontro con Churchill terminò, i tre lasciarono l'edificio uscendo su Downing Street. Una macchina con un autista della RAF stava aspettando Lazaris. Il russo abbracciò Chesna con una mano sola, poi strinse a sé il suo compagno. «Gallatinov, prenditi cura di Riccioli d'Oro, d'accordo?» Lazaris sorrise, ma aveva gli occhi lucidi. «Con lei comportati da gentiluomo... il che significa come un inglese, non come un russo!» «Lo terrò a mente». Tuttavia Michael pensò che Lazaris fosse un vero gentiluomo, anche se era un russo. «Dove andrai?»
Il pilota alzò lo sguardo verso il cielo senza nuvole. Fece di nuovo un timido sorriso, diede una pacca affettuosa sulla spalla di Gallatin ed entrò nella macchina che lo aspettava come se fosse un membro della famiglia reale. L'autista della RAF si allontanò dal marciapiede e il russo fece il saluto a Michael. Poi l'automobile si confuse nel traffico e sparì. «Facciamo due passi», disse l'inglese. Prese la mano di Chesna e la guidò verso Trafalgar Square. Lei zoppicava ancora un po', ma la caviglia stava guarendo senza complicazioni. Gli piaceva la compagnia di quella donna. Voleva mostrarle la sua casa... e chissà cosa poteva succedere dopo? Una relazione duratura? No, probabilmente no. Si stavano muovendo entrambi in direzioni diverse, ma adesso erano tenuti insieme dalle mani intrecciate. Per un po', almeno... poteva essere dolce. «Ti piacciono gli animali?», le chiese. «Cosa?» «Sono solo curioso». «Be'... cani e gatti sì. A quali animali ti riferisci?» «Un po' più grandi», disse, ma non approfondì il discorso. Non voleva spaventarla prima che lasciassero l'albergo di Londra. «Vorrei che vedessi la mia casa in Galles. Ti piacerebbe andarci?» «Con te?» Gli strinse la mano. «Quando partiamo?» «Presto. La mia casa è molto tranquilla. Avremo parecchio tempo per parlare». Lei rimase di nuovo confusa. «Parlare? Di cosa?» «Oh... miti e folclore», rispose lui. Chesna rise. Michael Gallatin era uno degli uomini più curiosi - e sicuramente unici - che avesse mai incontrato. La sua vicinanza la eccitava. Disse: «Parleremo soltanto?» Michael si fermò all'ombra di Lord Nelson, mise le braccia intorno a Chesna von Dorne e la baciò. I loro corpi si strinsero l'uno contro l'altro. Alcuni passanti londinesi si fermarono fissandoli a bocca aperta, ma né l'uomo né la donna se ne preoccuparono. Le loro labbra si fusero insieme come fuoco liquido; mentre il bacio continuava, Michael sentì un formicolio. Sapeva cos'era. Dei peli neri e lucidi gli si stavano formando lungo la schiena, sotto i vestiti. Sentì altri peli crescergli sulle spalle. Gli pizzicavano in quel momento di pura e intensa passione e gioia, poi sentì la carne prudere mentre cominciavano a ritirarsi. Be', di certo non era finita lì.
Michael le baciò gli angoli della bocca. L'aroma della donna, cannella e pelle, era nella sua anima. Chiamò un taxi che passava; lui e Chesna vi salirono e si diressero verso il loro albergo a Piccadilly. Lungo la strada Gallatin prese la busta dalla tasca, ruppe il sigillo di cera e tirò fuori la lettera. Sul foglio c'erano scritte due parole in una calligrafia familiare: Un'altra missione? Rimise la lettera nella busta e la infilò in tasca. L'uomo desiderava la pace, ma il lupo agognava l'azione. Chi avrebbe vinto? Non poteva dirlo. Chesna si appoggiò contro di lui, mettendogli la testa sulla spalla. «È una cosa di cui ti devi occupare subito?» «No», le disse Michael. «Non oggi». Una battaglia era stata vinta, ma la guerra continuava. FINE