ROBERT CRAIS L'OSTAGGIO (Hostage, 2001) A Frank, Toni, Gina, Chris e Norma; e a Jack Hughes, che arricchisce la nostra v...
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ROBERT CRAIS L'OSTAGGIO (Hostage, 2001) A Frank, Toni, Gina, Chris e Norma; e a Jack Hughes, che arricchisce la nostra vita. Per vent'anni di amicizia e risate, per quello che può valere. Prologo L'uomo nella casa stava per uccidersi. Quando aveva scagliato il telefono in cortile, Talley aveva capito che era pronto a farla finita. Dopo sei anni come negoziatore nella squadra Swat del Dipartimento di polizia di Los Angeles, il reparto speciale di pronto intervento, il sergente Jeff Talley sapeva che le persone sotto pressione comunicano spesso mediante azioni simboliche. E il significato di questa era chiaro: basta parlare. Talley temeva che l'uomo potesse suicidarsi o fare qualcosa per costringere gli agenti a ucciderlo. Lo chiamavano "suicidio da polizia". Talley era convinto che fosse colpa sua. «Hanno trovato la moglie?» «No, non ancora. La stanno cercando.» «Cercare non basta, Murray. Dopo quello che è successo gli devo qualcosa di più.» «Non è colpa tua.» «Invece sì. Io ho sbagliato, e ora questo tizio sta andando a fondo.» Talley andò a ripararsi dietro un veicolo blindato insieme al comandante della squadra, un tenente di nome Murray Leifitz che era anche il supervisore del suo gruppo di negoziatori. Da quella posizione, Talley aveva parlato a George Donald Malik per mezzo di una linea telefonica di fortuna allacciata in tutta fretta. Ora che Malik aveva lanciato il telefono in cortile, Talley poteva continuare a parlargli o con l'altoparlante dell'auto oppure faccia a faccia. Lui odiava il megafono, che rendeva dura la voce e spersonalizzava il contatto. L'illusione di un rapporto personale era importante; l'illusione della fiducia era tutto. Talley indossò il giubbotto antiproiettile. Malik urlò attraverso la finestra sfondata, la voce tesa e stridula: «L'ammazzo, questo cane! Ora l'ammazzo!». Leifitz si sporse oltre Talley per guardare la casa. Era la prima volta
che Malik faceva riferimento a un cane. «Ma che cazzo?... C'è un cane, là dentro?» «E come faccio a saperlo? Sto cercando di limitare i danni, d'accordo? Chiedilo ai vicini se ha un cane. Scopri il nome.» «Se spara, noi entriamo, Jeff. Non c'è altro da fare.» «Adesso calmati e fatti dire come si chiama il cane.» Leifitz si allontanò per andare a parlare con i vicini di Malik. George Malik era un imbianchino disoccupato e pieno di debiti; aveva una moglie infedele, che si vantava delle proprie avventure, e un tumore alla prostata. Quattordici ore prima, alle due e dodici di notte, aveva sparato un colpo sopra la testa dei due poliziotti che si erano presentati alla sua porta in seguito a una segnalazione per schiamazzi. Poi si era barricato in casa, minacciando di uccidersi se la moglie non avesse accettato di parlargli. I poliziotti che avevano isolato l'area erano venuti a sapere dai vicini che la moglie di Malik, Elena, se n'era andata portando con sé il loro unico figlio, un bambino di nove anni di nome Brendan. Mentre gli agenti della divisione di Rampart cercavano di rintracciarla, Malik aveva continuato a minacciare di suicidarsi con frequenza sempre maggiore, finché Talley si era convinto che l'uomo fosse arrivato al capolinea. Quando quelli di Rampart gli riferirono che pensavano di aver scoperto dove si trovasse la donna, grazie alle indicazioni fornite dalla sorella di lei, Talley decise di rischiare. Disse a Malik che sua moglie era stata rintracciata. Era stato quello il suo errore. Aveva violato una regola cardinale della trattativa: aveva mentito, ed era stato scoperto. Aveva fatto una promessa che non poteva mantenere, distruggendo così quell'illusione di fiducia che era andato lentamente costruendo. Questo era successo due ore prima, e ora aveva saputo che la moglie non era ancora stata trovata. «Lo ammazzo questo cane maledetto! È il suo bastardo, e se lei non mi parla io gli sparo in testai» Talley usci da dietro il veicolo. Si trovava sul posto ormai da undici ore. Era sudato, la testa gli pulsava e aveva i crampi allo stomaco per il troppo caffè e il troppo stress. Mantenne un tono di voce colloquiale, ma era preoccupato. «George, sono io, Jeff. Non ammazzare il cane, okay? Non vogliamo sentire sparare.» «Bugiardo. Avevi detto che mia moglie mi avrebbe parlato!» Era una piccola casa decorata a stucco, color polvere. Ai due lati della porta d'ingresso, sotto un minuscolo porticato, si aprivano due finestre
con le tende tirate. Il vetro di sinistra era stato rotto dal lancio del telefono. A tre metri sulla destra del porticato, cinque uomini di un'unità tattica della Swat erano accovacciati contro il muro, pronti a sfondare la porta. Malik non si vedeva. «George, ascoltami. Ti ho detto che l'avevamo trovata, ma mi sono sbagliato. Lascia che ti spieghi. Qui fuori c'è un po' di casino e mi hanno dato l'informazione sbagliata. Ma la stiamo ancora cercando e quando l'avremo trovata la porteremo qui perché parli con te.» «Mi hai mentito prima, bastardo, e ora stai di nuovo mentendo. Vuoi proteggere quella puttana, ma io non me la bevo. Adesso ammazzo il suo cane e poi mi faccio saltare le cervella.» Talley aspettava. Era importante apparire calmo e dare a Malik il tempo per sbollire. Parlando, la gente sfoga lo stress. Se fosse riuscito a ridurre il suo livello di tensione, potevano ancora superare l'ostacolo e venirne fuori. «Non sparare al cane, George. Qualunque cosa ci sia fra te e tua moglie, non prendertela con lui. È anche il tuo cane, no?» «Non so di chi cazzo sia questo bastardo. Mi ha mentito su tutto il resto e magari mi ha mentito anche su questo. È una bugiarda nata. Come te.» «Avanti George. Ho sbagliato, ma non racconto bugie. Ho fatto un errore. Un bugiardo non lo ammetterebbe mai, ma io voglio essere sincero con te. Anche a me piacciono i cani. Di che razza è il tuo?» «Non ti credo. Tu sai dov'è lei, e se non la convinci a parlarmi io lo ammazzo, questo bastardo.» Gli abissi insondabili della disperazione possono facilmente schiacciare un uomo, come la pressione dell'acqua sul fondo dell'oceano. Talley aveva imparato a capire quando quella pressione cresceva nella voce delle persone, e adesso la sentiva. Malik stava per esserne annientato. «Non disperare, George. Sono sicuro che verrà a parlarti.» «E allora perché non vuole aprire bocca? Perché non dice qualcosa? Non deve fare altro.» «Troveremo una soluzione.» «Parla, maledetta!» «Ti ho detto che troveremo una soluzione.» «Di' qualcosa o sparo a questo maledetto bastardo!» Talley prese fiato, riflettendo. Le parole di Malik lo lasciavano perplesso. Lui aveva parlato chiaro, ma quell'uomo si comportava come se non avesse sentito. Talley temeva che fosse prossimo a un attacco psicoti-
co. «George, non ti vedo. Vieni alla finestra così ti posso vedere.» «SMETTILA DI GUARDARMI!» «Per favore, George, vieni alla finestra!» Talley vide Leifitz tornare dietro al veicolo. Erano vicini, a meno di due metri di distanza, Leifitz al riparo, Talley allo scoperto. «Qual è il nome del cane?» chiese Talley sottovoce. Leifitz scosse la testa. «Dicono che non ha nessun cane.» «APRI SUBITO QUELLA MALEDETTA BOCCA O SPARO A QUESTO BASTARDO!» Talley avvertì una sensazione di gelo alla schiena. Fu come se qualcosa gli esplodesse dentro la testa. All'improvviso si rese conto che l'inganno valeva nei due sensi. I poliziotti di Rampart non avevano trovato la moglie di Malik perché la moglie di Malik era là dentro. I vicini si erano sbagliati. Lei era stata lì fin dall'inizio. Lei e il bambino. «Murray, entrate!» L'urlo di Talley si sovrappose a un'esplosione proveniente dall'interno della casa. Un secondo sparo echeggiò proprio mentre gli uomini della Swat sfondavano la porta d'ingresso. Talley si precipitò in avanti, sentendosi quasi senza peso. In seguito, non avrebbe ricordato di essere saltato nel portico o di aver varcato la soglia. Il corpo senza vita di Malik era trattenuto saldamente al suolo, i polsi ammanettati dietro la schiena anche se ormai era morto. La moglie giaceva scomposta sul divano del soggiorno, morta da più di quattordici ore. Due agenti della Swat stavano cercando di fermare il fiotto di sangue arterioso che sprizzava dal collo del ragazzo. Uno dei due urlò chiamando ì paramedici. Gli occhi del bambino erano spalancati, e frugavano la stanza come se fossero alla ricerca di una ragione per tutto quello. Boccheggiava, la sua pelle traslucida stava progressivamente perdendo colore. I suoi occhi trovarono Talley, che si inginocchiò e gli appoggiò una mano sulla gamba. Talley non smise mai di guardarlo negli occhi, costringendosi a non sbattere neppure le palpebre, il solo conforto che poteva dare a Brendan Malik mentre lo guardava morire. Dopo un po', Talley uscì a sedersi nel portico. La testa gli ronzava come se fosse ubriaco. Dall'altra parte della strada, gli agenti si attardavano intorno alle loro auto. Talley si accese una sigaretta, poi ripassò mentalmente le ultime undici ore, alla ricerca di qualche indizio che avrebbe do-
vuto fargli capire come stavano realmente le cose. Non ne trovò. Forse perché non ce n'erano, ma lui non ci credeva. Aveva fallito. Aveva fatto degli errori. Il bambino era stato là per tutto il tempo, accoccolato ai piedi della madre assassinata, proprio come un cagnolino leale e fedele. Murray Leifitz gli appoggiò una mano sulla spalla, dicendogli di andare a casa. Jeff Talley faceva parte della Swat da tredici anni, e da sei ricopriva l'incarico di negoziatore dell'unità di crisi. Quello di oggi era stato il suo terzo intervento in cinque giorni. Cercò di ricordare gli occhi del bambino, ma aveva già dimenticato se fossero castani o azzurri. Talley spense la sigaretta, si avviò verso l'auto e andò a casa. Aveva una figlia di undici anni, Amanda. Voleva guardarle gli occhi. Non ricordava il loro colore e lo atterriva il fatto che la cosa non gli importasse. Parte prima IL CAMPO DI AVOCADO 1 Venerdì, 14.47 Bristo Camino, California DENNIS ROONEY Nei complessi residenziali a nord di Los Angeles era uno di quei giorni arroventati in cui l'aria è così secca che ti sembra di respirare sabbia; i raggi del sole lambivano la loro pelle come lingue di fuoco. Stavano mangiando hamburger presi a un fast-food a bordo del fuoristrada di Dennis, un pickup Nissan di colore rosso che lui aveva comprato per seicento dollari da un boliviano conosciuto mentre lavorava in un cantiere, due settimane prima di essere arrestato; alla guida c'era Dennis Rooney, ventidue anni, uscito undici giorni prima dall'Antelope Valley Correctional Facility, il "Formicaio", come lo chiamavano i suoi ospiti; sul sedile del passeggero un giovane di nome Mars; incastrato nel mezzo c'era Kevin, il fratello minore di Dennis. Dennis e Mars si conoscevano da appena quattro giorni. In seguito, ripensando affannosamente alle proprie azioni, Dennis avrebbe concluso che non era stato il caldo micidiale a fargli venire voglia
di commettere un crimine: era stata la paura. La paura che qualcosa di speciale lo stesse aspettando, e che, se non l'avesse colto, questo qualcosa si sarebbe volatilizzato, e con esso la sua unica opportunità di diventare qualcuno. Dennis decise che avrebbero dovuto rapinare il minimarket. «Ehi, sentite. Perché non ripuliamo quel fottuto minimarket, quello dall'altra parte di Bristo, sulla strada che va verso Santa Clarita?» «Ma non dovevamo andare al cinema?» Tipico di Kevin, con quella sua faccia da cagasotto: sopracciglia che gli arrivavano fino alla radice dei capelli, occhi spiritati, e labbra tremolanti da lattante. Nel film della sua vita, Dennis si vedeva come il tenebroso outsider che tutte le ragazze pon-pon si sarebbero volute scopare; suo fratello era lo sfigato che glielo impediva. «Questa è un'idea migliore, stronzo. Al cinema ci andremo dopo.» «Sei appena uscito dal Formicaio, Dennis. Hai intenzione di tornarci?» Dennis lanciò la sigaretta fuori dal finestrino e si attardò a rimirarsi nel retrovisore laterale della Nissan, ignorando lo sbuffo di cenere e scintille che gli arrivava addosso. A suo avviso possedeva occhi profondi e malinconici del colore della tempesta, zigomi alti e labbra sensuali. Guardandosi, cosa che faceva spesso, sapeva che era solo questione di tempo prima che il suo destino si compisse, prima che quella cosa speciale che aspettava solo lui si facesse avanti permettendogli di liberarsi di una vita fatta di lavori pagati quattro soldi e di quel buco di appartamento che divideva con quello stronzo di suo fratello. Dennis si aggiustò la semiautomatica calibro 32 nella cintura dei pantaloni e lanciò un'occhiata a Mars. «Cosa ne pensi, amico?» Mars era un tipo grande e grosso, con spalle e schiena massicce. Aveva la testa completamente rasata con un tatuaggio sulla nuca che diceva "Brucialo". Dennis lo aveva conosciuto al cantiere dove lui e Kevin lavoravano a giornata per un imprenditore edile. Non sapeva quale fosse il suo cognome. Non glielo aveva mai chiesto. «Ehi, amico, ti ho chiesto cosa ne pensi.» «Andiamo a vedere.» Tutto lì. Il minimarket si trovava sulla Flanders Road, uno stradone in aperta campagna che collegava parecchi complessi edilizi molto esclusivi. Quat-
tro isole di rifornimento circondavano il piccolo emporio a forma di bunker che vendeva articoli da toletta, bibite, alcolici e altri oggetti di largo consumo. Dennis accostò sul retro dell'edificio, in modo da non essere visto dall'interno. Mentre scalava le marce, la Nissan cominciò a procedere a strappi. La trasmissione faceva schifo. «Guarda guarda. 'Sto posto sembra proprio deserto. È perfetto.» «Dennis, è una cosa stupida. Ci prenderanno.» «Voglio solo dare un'occhiata. Non è il caso che ti pisci addosso.» Il parcheggio era vuoto, a parte una Bmw nera ferma a una pompa e due biciclette accanto all'ingresso. Dennis aveva il cuore che andava a mille e le ascelle umide di sudore nonostante il caldo asciutto che gli seccava la bocca. Non lo avrebbe mai ammesso, ma si sentiva nervoso. Era appena uscito dal Formicaio; non voleva assolutamente tornarci, ma non riusciva proprio a vedere come potessero prenderli, o cosa potesse andare storto. Era come essere travolto da una passione irragionevole. Inutile resistere. L'aria fredda lo investì appena varcò la soglia. Due ragazzini erano davanti allo scaffale delle riviste vicino alla porta. Un cinese grasso se ne stava accovacciato dietro il bancone, seduto così in basso che Dennis riusciva a vedergli solo la testa che spuntava come una rana che gioca a fare il sottomarino in una pozzanghera di fango. Il minimarket era costituito da due corridoi tra le scaffalature e da un mobile frigorifero pieno di birra, yogurt e bibite. Dennis ebbe un attimo di indecisione, pensò di raccontare a Mars e Kevin che dietro il bancone c'era un intero esercito di cinesi, così da avere la scusa per non rapinare quel posto, ma non ne fece nulla. Andò al mobile frigorifero e poi percorse la parete sul fondo per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei corridoi, con il cuore che batteva forte perché sapeva che l'avrebbe fatto. Stava per rapinare quel posto di merda. Mentre tornava al fuoristrada, la Bmw si allontanò. Dennis andò al finestrino del passeggero, da Mars. «Ci sono solo due ragazzini e un cinese, il cinese sta dietro al bancone. È un grassone.» «Sono coreani» disse Kevin. «Cosa?» «Sull'insegna c'è scritto "Kim". Kim è un nome coreano.» Tipico di Kevin, sempre con qualcosa del genere da dire. Dennis avrebbe voluto allungare un braccio e afferrarlo per il collo. Si tirò su la T-shirt per mettere in mostra il calcio della pistola. «E chi se ne fotte, Kevin? Quel cinese se la farà addosso non appena ve-
drà questa. Non dovrò nemmeno estrarla. Trenta secondi, e saremo già fuori. E lui dovrà pulirsi per bene il culo prima di chiamare la polizia.» Kevin si contorceva in preda a un attacco di panico, gli occhi che ballavano di qua e di là come fagioli in una padella di olio bollente. «Dennis, ti prego. Cosa vuoi farci qui, un paio di biglietti da cento? Dài, andiamo al cinema.» Dennis pensò che se Kevin non fosse stato una tale lagna, avrebbe anche potuto andarsene, ma no, Kevin doveva sempre fare quella faccia da mezzasega, doveva sempre metterlo in difficoltà. Mars li osservava. Dennis si sentì avvampare, e si chiese se lui lo stesse giudicando. Era grosso come una montagna; massiccio, tranquillo, attento, paziente. Dennis se n'era accorto sul lavoro: Mars studiava la gente. Lui osservava una conversazione, che so, tipo due messicani che cercano di convincere un terzo a unirsi a loro per comperare dei tamales. Mars osservava come se fosse al di fuori della scena, al di sopra di tutto, come se potesse vedere la loro vita fin dalla nascita, vederli quando bagnavano il letto a cinque anni o quando si masturbavano credendo di essere soli. E poi faceva quel suo sorriso assente, come se fosse a conoscenza di tutto quello che avrebbero fatto, adesso e in futuro, anche a proposito di quei maledetti tamales. C'erano delle volte che quella sua espressione gli faceva venire i brividi, ma Mars pensava che Dennis avesse delle buone idee, e di solito lo seguiva. La prima volta che si erano incontrati, quattro giorni prima, Dennis aveva sentito di avere finalmente il proprio destino a portata di mano. Ecco Mars, carico di un qualche pericoloso potenziale energetico che gli crepitava sotto la pelle, e che faceva qualunque cosa lui gli dicesse. «Mars, facciamolo. Ripuliamo 'sto cazzo di posto.» Mars scese dal fuoristrada, l'espressione così gelida che neppure un caldo torrido come quello avrebbe potuto sciogliere. «Facciamolo.» Kevin non si mosse. I due ragazzini si allontanarono in bicicletta. «Kevin, dentro non c'è nessuno! Devi solo stare di fianco alla porta e fare la guardia. Quel grassone tirerà subito fuori la grana. Sono assicurati, consegnano subito i soldi. Se non lo fanno, li licenziano.» Dennis afferrò il fratello per la maglietta. Una maglietta dei Lemonheads, perdio. Suo fratello era un "lemonhead"! Mars era già a metà strada verso la porta d'ingresso. «Scendi, stronzo. Ci stai facendo fare una figura di merda.» Kevin, mortificato, scivolò fuori come un bambino.
JUNIOR KIM, JR KIM'S MINIMART Junior Kim, Jr, sapeva riconoscere un piantagrane a un chilometro di distanza. Junior, un coreano-americano di seconda generazione, aveva passato sedici anni dietro il bancone di un minimarket a Newton, Los Angeles. Sul "Fronte di Newton" (come lo chiamava la polizia di Los Angeles) Junior era stato picchiato, aggredito, accoltellato, preso a colpi di pistola e rapinato quarantatré volte. Quando è troppo è troppo. Dopo sedici anni di quella vita, Junior, sua moglie, i sei figli e tutti e quattro i nonni avevano abbandonato il crogiolo multietnico della Grande Los Angeles e si erano spostati più a nord, verso la coabitazione di gran lunga meno pericolosa delle comunità dormitorio. Junior non si faceva illusioni. Un minimarket, per sua natura, attira i piantagrane come la carne andata a male attira le mosche. Anche lì a Bristo Camino c'erano taccheggiatori (per la maggior parte ragazzini, ma spesso anche uomini in giacca e cravatta), gente che leggeva i giornali a sbafo (per la maggior parte donne), prostitute che ti rifilavano banconote false (portate fin lì da Los Angeles dai loro protettori) e ubriachi (in maggioranza bianchi attaccabrighe con quelle facce rosse da alcolizzati). Roba da ridere in confronto a Los Angeles, ma Junior era un convinto assertore dell'essere preparati. Dopo sedici anni di lezioni di "vita in città" imparate a caro prezzo, teneva in serbo una "cosina" per chiunque andasse fuori dal seminato. Quando tre malintenzionati entrarono nel negozio quel venerdì pomeriggio, Junior si chinò in avanti in modo che il torace appoggiasse contro il bancone e le mani restassero nascoste alla vista. «Desiderate?» Un ragazzo magro con una T-shirt dei Lemonheads si era fermato accanto alla porta. Un altro più grande che indossava una maglietta senza maniche nera sbiadita e un uomo massiccio con la testa rasata venivano verso di lui, il secondo ragazzo sollevando l'orlo della maglietta per mostrare la minacciosa impugnatura nera di una pistola. «Due pacchetti di Marlboro per il mio amico e tutti i soldi che hai in quella cassa, fottuto muso giallo.» Junior Kim sapeva fiutare un problema a un chilometro di distanza. Restando impassibile, allungò la mano sotto il bancone verso la Glock 9
millimetri. La trovò proprio mentre il piantagrane con la maglietta nera si lanciava sopra il bancone. Junior si alzò barcollando in piedi, brandendo la Glock mentre il ragazzo gli piombava addosso. Junior non si aspettava che quello stronzo scavalcasse, e non aveva fatto in tempo a togliere la sicura. «Ha una pistola!» urlò l'uomo più grosso. Accadde tutto così in fretta che Junior non capì più dove fossero le mani di chi. Il ragazzo con la maglietta nera dimenticò la sua pistola e cercò di strappargli di mano la Glock. L'uomo più grosso allungò le braccia al di sopra del bancone, anche lui cercando di afferrare la pistola. Junior non aveva mai avuto così tanta paura le altre volte in cui era stato costretto a difendersi. Se non riusciva a togliere la sicura prima che il ragazzo estraesse la pistola o riuscisse a strappargli di mano la sua, sapeva di essere finito. Junior Kim lottava per salvarsi la pelle. D'un tratto la sicura scattò, e Junior Kim capì di avere vinto. «Vi ho beccato, stronzi» disse. Dalla Glock partì un colpo, un'esplosione così forte che il ragazzo spalancò gli occhi per la sorpresa. Junior sorrise, trionfante. «Vaffanculo!» A quel punto Junior provò un dolore incredibile al petto, che lo sopraffece come se fosse un attacco di cuore. Barcollò all'indietro andando a sbattere contro il distributore di granite, mentre il sangue zampillava dal petto inzuppandogli la camicia. Poi scivolò a terra. L'ultima cosa che Junior sentì fu il ragazzino alla porta che urlava: «Dennis, sbrigati! C'è qualcuno, fuori!». MARGARET HAMMOND TESTIMONE Alla seconda pompa di benzina, Margaret Hammond sentì il botto del ritorno di fiamma di un'auto mentre scendeva dalla sua Lexus. La donna, che viveva dall'altra parte della strada, in una casa con il tetto di tegole esattamente uguale ad altre cento del suo complesso, vide tre giovani di razza bianca correre fuori dal minimarket e saltare a bordo di un pickup Nissan rosso che si allontanò a balzi con l'andatura saltellante caratteristica di una frizione bruciata. Il fuoristrada si diresse a ovest, verso l'autostrada. Margaret mise il blocco all'erogatore per fare il pieno, poi entrò nel
minimarket per comperarsi una barretta di cioccolato che voleva mangiarsi sulla strada di casa. Meno di dieci secondi dopo, tornò di corsa nel parcheggio. La Nissan era scomparsa. Con il cellulare, Margaret Hammond chiamò il 911, che la mise in contatto con il Dipartimento di polizia di Bristo Camino. DENNIS Le loro voci si accavallavano. Kevin afferrò Dennis per un braccio, facendo sbandare il fuoristrada. Dennis lo allontanò con un pugno. «Hai ammazzato quel tizio! Gli hai sparato!» «Non lo so se è morto!» «C'era sangue dappertutto! Anche tu sei tutto sporco!» «Piantala, Kevin! Aveva una fottuta pistola! Io non potevo saperlo! È partito un colpo!» Kevin continuava a picchiare sulla plancia, rimbalzando tra Dennis e Mars, come se fosse sul punto di schizzare fuori dal tetto. «Siamo fottuti, Dennis, fottuti! E se è morto?» «Chiudi quella bocca!» Dennis si leccò le labbra, e sentì un gusto salato e metallico. Si guardò nello specchietto. Aveva il volto tutto schizzato da una specie di rugiada rossa. A quel punto perse il controllo, terrorizzato all'idea di aver ingerito del sangue umano. Si passò la mano sul volto, pulendosela sui jeans. Mars lo sfiorò. «Calmati, amico.» «Dobbiamo andarcene da qui!» «Ce ne stiamo andando. Nessuno ci ha visto. Nessuno ci ha fermato. Siamo a posto.» Mars se ne stava tranquillo sul sedile del passeggero. Kevin e Dennis erano come impazziti, invece lui sembrava essersi appena svegliato da una trance. Stringeva in mano la pistola del cinese. «Cazzo! Buttala via! Potrebbero fermarci.» Mars si infilò la pistola nella cintura dei pantaloni, lasciandovi la mano posata sopra, come certi uomini si tengono l'inguine. «Potremmo averne bisogno.» Dennis cambiò marcia con violenza, ignorando il rumore di ingranaggi e avviandosi velocemente verso l'autostrada, tre chilometri più avanti. Almeno quattro persone avevano visto il fuoristrada. Persino quegli stupidi
poliziotti di Bristo sarebbero stati capaci di fare due più due, se avessero avuto dei testimoni in grado di collegarli alla Nissan. «Sentite, dobbiamo riflettere. Dobbiamo pensare a cosa fare.» Gli occhi di Kevin erano sgranati. «Cristo, Dennis, dobbiamo costituirci.» Dennis sentiva una pressione così forte dentro la testa che temeva gli sarebbero schizzati gli occhi dalle orbite. «Qui non si costituisce nessuno! Possiamo venirne fuori! Dobbiamo solo pensare!» Mars lo sfiorò di nuovo. «Senti.» Mars sorrideva assente. Non li guardava neppure. «Siamo solo tre tizi su un fuoristrada rosso. Ci sono un milione di camioncini rossi.» Dennis voleva disperatamente credergli. «Dici davvero?» «Devono trovare dei testimoni. Se rintracciano quei due ragazzini, o la donna, loro devono dare una nostra descrizione. Forse sono in grado di farlo, ma non è detto. Quando i poliziotti hanno risolto tutto questo, allora inizieranno a cercare tre bianchi su un fuoristrada rosso. Sai quanti ce ne sono?» «Un milione.» «Esatto. E quanto tempo ci vuole? Tutto oggi? Tutto domani? In quattro ore possiamo essere oltre il confine. Andiamo in Messico.» Lui era così calmo, il suo sorriso assente così sicuro, che Dennis scoprì di essersi convinto; era come se Mars avesse già percorso questa strada altre volte e ne conoscesse tutte le insidie. «È proprio uno sballo di piano, Mars. Questo sì che è un piano! Ci rilassiamo per qualche giorno, e quando tutto si è sgonfiato torniamo indietro. Tutto si sgonfia, prima o poi.» «Esatto.» Dennis pigiò ancora di più sull'acceleratore, sentì il fuoristrada esitare, poi da sotto la carrozzeria venne un forte "bang". La trasmissione era andata. Seicento dollari, in contanti. Cosa si aspettava? «Fottuto cambio di merda!» Il pickup perse potenza, procedendo a balzi mentre Dennis accostava a lato della strada. Ancora prima di fermarsi con un ultimo sussulto, aveva già spalancato la porta, pronto a scappare. Kevin lo prese per un braccio,
trattenendolo. «Non possiamo fare nulla, Dennis. Stiamo solo peggiorando le cose.» «Sta' zitto!» Dennis si liberò dalla mano del fratello e smontò. Guardò la strada in entrambe le direzioni, quasi si aspettasse di vedere una pattuglia della Stradale, ma le auto erano poche, e per la maggior parte guidate da casalinghe. Dal punto in cui si trovavano fino all'autostrada, la Flanders Road attraversava una zona di lussuosi complessi residenziali. Alcuni erano protetti da inferriate, ma la maggior parte no, seppure nascosti da siepi messe lì per mascherare massicci muri di pietra. Dennis osservò le siepi e i muretti che queste nascondevano. Si chiese se la loro salvezza fosse là dietro. Fu come se Mars gli avesse letto nel pensiero. «Rubiamo una macchina.» Dennis guardò nuovamente verso il muro. Dall'altra parte ci dovevano esserci decine di auto. Potevano introdursi in una casa, legare per bene la casalinga del caso per guadagnare un po' di tempo, e filare via con la sua automobile. Dennis non ci pensò un attimo. «Andiamo.» «Dennis, ti prego.» Dennis tirò giù a forza il fratello dal fuoristrada. Si aprirono la strada fra le siepi e saltarono oltre il muro. AGENTE MIKE WELCH POLIZIA DI BRISTO CAMINO L'agente Mike Welch, trentadue anni, sposato con un figlio, era nel bel mezzo di un codice sette, diretto alla caffetteria Krispy Kreme nella parte ovest di Bristo Camino, quando ricevette la chiamata. «Auto quattro, qui centrale.» «Auto quattro.» «Rapina a mano armata al Kim's Minimart sulla Flanders Road. Sono stati uditi colpi d'arma da fuoco.» Welch pensò che fosse assurdo. «Ripeti, colpi d'arma da fuoco? Stai scherzando?» «Tre maschi di razza bianca, vent'anni circa, jeans e magliette, a bordo di un pickup Nissan di colore rosso visto per l'ultima volta sulla West Flanders Road. Vai sul posto e guarda come sta Junior.»
Mike Welch stava percorrendo la Flanders Road in direzione ovest. La stazione di servizio di Junior era dritto davanti a lui, a meno di tre chilometri. Welch partì a razzo con un codice tre, inserendo lampeggianti e sirena. Nei suoi tre anni di servizio non aveva mai utilizzato il codice tre se non per fermare qualche automobilista che andava troppo forte. «Mi trovo sulla Flanders. Hanno sparato a Junior?» «Affermativo. Sta arrivando l'ambulanza.» Welch accelerò a tavoletta. Era così intento a cercare di battere sul tempo i paramedici che oltrepassò il fuoristrada parcheggiato sull'altro lato della strada prima di rendersi conto che corrispondeva alla descrizione del veicolo in fuga. Welch spense la sirena e accostò. Si voltò a guardare indietro lungo la strada. Non si vedeva nessuno a bordo né nelle vicinanze, ma il pickup Nissan rosso era lì. Welch attese un varco nel traffico, quindi fece inversione di marcia e tornò indietro, andando a fermarsi dietro il fuoristrada. Attivò il microfono che portava appuntato sulla spalla. «Centrale, qui auto quattro. Sono sulla Flanders, due chilometri a est del minimarket di Kim. Ho trovato un pickup Nissan di colore rosso, targa Tre-Kilo-Lima-Mike-Quattro-Due-Nove. Sembra abbandonato. Potete mandare qualcun altro da Kim?» «Va bene.» «Vado a controllare.» «Tre-Kilo-Lima-Mike-Quattro-Due-Nove. Ricevuto.» Welch scese dall'auto tenendo la mano destra sul calcio della Browning Hi-Power. Non la estrasse, ma voleva essere pronto. Costeggiò il lato destro del fuoristrada, guardò sotto la carrozzeria, poi girò intorno alla parte anteriore. Il motore stava ancora ticchettando, il cofano era caldo. Porca puttana, pensò Welch, quello poteva essere il fuoristrada dei fuggiaschi. «Centrale, qui auto quattro. L'area è libera. Il veicolo è stato abbandonato.» «Ricevuto.» Welch proseguì il giro, arrivò alla portiera del guidatore e guardò dentro. Non era certo che quello fosse il fuoristrada della fuga, ma il cuore gli batteva forte per l'eccitazione. Mike Welch era arrivato al Dipartimento di polizia di Bristo Camino dopo sette anni passati a costruire tetti. Aveva pensato che il lavoro di poliziotto fosse qualcosa di più che fare multe per eccesso di velocità o ricomporre liti familiari, ma non era andata così; ora,
per la prima volta nella sua carriera, poteva trovarsi faccia a faccia con un vero criminale. Gettò uno sguardo su e giù lungo la strada, chiedendosi perché avessero abbandonato il pickup e dove fossero andati. All'improvviso ebbe paura. Welch guardò verso le siepi, accucciandosi sotto i rami bassi, ma non vide nulla a parte un muro. Estrasse la pistola e si avvicinò, esaminandole più da vicino. Parecchi rami erano spezzati. Si voltò verso il pickup, valutando la situazione, immaginandosi i tre sospetti che si aprivano la strada tra le siepi. Tre ragazzi in fuga, che se la facevano addosso per la paura, e saltavano oltre il muro. Dall'altra parte c'era un complesso residenziale molto esclusivo chiamato York Estates. Dopo il suo giro di perlustrazione, Welch si rese conto che c'erano solo due vie di uscita, a meno che non decidessero di scavalcare di nuovo il muro. Si sarebbero nascosti in qualche garage, oppure avrebbero cercato di fuggire correndo come matti verso il retro. Welch rimase ad ascoltare il motore della Nissan che continuava a ticchettare e stabilì che non potevano avere più di un paio di minuti di vantaggio. I battiti del suo cuore accelerarono. Welch prese la sua decisione e partì sgommando, determinato a tagliare loro la strada prima che riuscissero a fuggire dal complesso, pronto ad arrestarli. DENNIS Dennis si lasciò cadere oltre il muro e si ritrovò in un mondo diverso, nascosto da felci lussureggianti, piante con grandi foglie lucide e verdi, e da alberi di arancio. Il suo primo impulso fu quello di continuare a scappare, di correre a perdifiato attraverso il cortile, scavalcare il muro successivo, e continuare a correre, ma la sirena era proprio dietro di loro. E poi si era zittita. «Dennis, ti prego, la polizia vedrà il fuoristrada. Capiranno dove siamo» disse Kevin. «Sta' zitto, Kevin. Lo so. Lasciami pensare!» Si trovavano in un fitto giardino che circondava un campo da tennis sul retro di una casa che pareva una reggia. Davanti a loro c'era una piscina, e oltre quella l'edificio principale a due piani, con un sacco di finestre e di porte, una delle quali era aperta. Proprio così. Aperta. Se c'era qualcuno in casa, doveva esserci una macchina. Da una grossa radio Sony posata vicino alla piscina proveniva della musica. Non sarebbe stata accesa, se in casa non ci fosse stato nessuno.
Dennis lanciò un'occhiata a Mars e questi, senza guardarlo, quasi gli avesse letto nel pensiero, annuì. JENNIFER SMITH A una ventina di metri da loro, oltre la porta aperta, Jennifer Smith era davvero stufa della piega che aveva preso la sua vita. Suo padre era chiuso nello studio che dava sul davanti della casa. Faceva il contabile, e lavorava spesso a casa. Sua madre era in Florida, a fare visita alla zia Kate. Con mamma in Florida e papà che lavorava, Jen era costretta a tenere d'occhio Thomas, il fratellino di dieci anni, ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana. Se le sue amiche volevano andare al Multiplex, dovevano portarsi dietro anche Thomas. Se avesse mentito dicendo che andava a Palmdale, così da poter fare una scappata fino a Los Angeles, Thomas avrebbe fatto la spia. Jennifer Smith aveva sedici anni. Avere una piattola come Thomas sempre attaccata al sedere le stava rovinando l'estate. Jen era stata per un po' sdraiata sul materassino in piscina, ma ora era entrata in casa per preparare qualche sandwich al tonno. Le sarebbe piaciuto far morire di fame quello stronzetto, ma doveva preparare da mangiare anche per suo padre. «Thomas?» Lui odiava essere chiamato Tommy. Neanche Tom gli piaceva. Doveva essere Thomas. «Thomas, va' a dire a papà che il pranzo è pronto.» «Lasciami stare.» Thomas stava giocando in soggiorno con il suo Nintendo. «Avverti papà.» «Urla, tanto ti sente.» «Vai a chiamarlo, altrimenti ti sputo nel panino.» «Sputaci due volte. Mi eccita.» «Sei un maiale.» Thomas mise in stand-by il videogioco e alzò gli occhi verso la sorella. «Lo vado a chiamare se tu chiedi a Elyse e a Tris di venire a prendere il sole da noi.» Elyse e Tris erano le sue due migliori amiche. Avevano smesso di venire da lei perché Thomas faceva di tutto per metterle a disagio. Se ne stava in casa fino a che non erano sdraiate vicino alla piscina, poi saltava fuori offrendosi di spalmare loro l'olio solare. E anche se tutt'e due dicevano: "Che
schifo! Fila via!", lui restava lì a fissarle. «Non verranno se ci sei tu. Sanno che tu le guardi.» «A loro piace.» «Sei proprio un maiale.» Quando i tre giovani entrarono, il primo pensiero di Jen fu che si trattasse di giardinieri, ma tutti i giardinieri che conosceva erano bassi, con la pelle scura e originari del Centroamerica. Poi pensò che fossero ragazzi all'ultimo anno di scuola, ma scartò anche questa idea. «Desiderate?» chiese Jennifer. Il primo ragazzo indicò Thomas. «Mars, occupati del nanetto.» Il più grosso dei tre corse verso Thomas, mentre quello che aveva parlato si precipitava in cucina. Jennifer fece appena in tempo a gridare, che il ragazzo le coprì la bocca con una violenza tale da farle sembrare che la faccia le si schiacciasse. Anche Thomas cercò di urlare, ma il giovane più grosso gli premette il viso contro il tappeto. Il terzo era più giovane. Era rimasto indietro, vicino alla porta, e parlava concitato, cercando però di tenere la voce bassa. «Dennis, andiamocene! È una pazzia!» «Sta' zitto Kevin! Ormai è fatta! Rassegnati!» Quello che la teneva ferma, quello che ora sapeva chiamarsi Dennis, la spinse all'indietro sul bancone della cucina, schiacciando i sandwich. Le cosce di lui premevano contro le sue, immobilizzandola. L'alito gli puzzava di hamburger e di sigarette. «Piantala di tirare calci! Non ti faccio niente!» Lei cercò di mordergli la mano. Dennis la spinse ancora di più all'indietro, finché le sembrò che il collo fosse sul punto di spezzarsi. «Ho detto di smetterla. Rilassati e ti lascio andare.» Jennifer continuò a divincolarsi finché non vide la pistola. Il ragazzo più grosso la teneva puntata contro la testa di Thomas. Jennifer smise di lottare. «Ora tolgo la mano, ma farai meglio a non urlare. Hai capito bene?» Jennifer non riusciva a distogliere lo sguardo dalla pistola. «Kevin, chiudi la porta.» Lei sentì il rumore della porta che si chiudeva. Dennis tolse la mano, ma la tenne vicina, pronto a tapparle nuovamente la bocca. La sua voce era un sibilo.
«Chi altro c'è qui?» «Mio padre.» «Qualcun altro?» «No.» «Dov'è?» «Nel suo studio.» «Avete una macchina?» Le mancò la voce. Riuscì solo ad annuire. «Non urlare. Se urli ti ammazzo. Capito?» Lei fece cenno di sì con la testa. «Dov'è lo studio?» Jennifer indicò la porta d'ingresso. Dennis le affondò le dita tra i capelli e la spinse in direzione dell'ingresso. La seguiva così da vicino che il suo corpo la sfiorava, ricordandole che indossava solo un paio di calzoncini e il reggiseno di un bikini. Jennifer si sentì nuda e vulnerabile. Lo studio di suo padre si apriva sull'ingresso, dietro una grande porta doppia. Non si presero il disturbo di bussare o di dire qualcosa. Dennis aprì la porta di scatto e il ragazzo più grosso, Mars, trascinò dentro Thomas, sempre tenendogli la pistola puntata alla testa. Dennis la gettò a terra, poi attraversò di corsa la stanza, puntando la pistola contro suo padre. «Non dire una parola! Non ti muovere!» Suo padre stava lavorando al computer, circondato da un cumulo disordinato di fogli. Era un uomo magro e stempiato, con gli occhiali. Sbatté le palpebre, guardando da sopra le lenti come se non riuscisse a capire bene ciò che stava succedendo. Forse pensava che fossero suoi amici, che gli stessero facendo uno scherzo. Ma poi Jennifer capì che suo padre si era reso conto della realtà. «Cosa state facendo?» Dennis gli puntò contro la pistola, tenendola con entrambe le mani, urlando ancora più forte. «Non muoverti, cazzo! Resta con il culo su quella sedia! Fammi vedere le mani!» Ciò che suo padre disse a quel punto, per Jennifer non aveva alcun senso. «Chi vi manda?» Dennis diede uno spintone a Kevin con la mano libera. «Kevin, chiudi le finestre! E piantala di fare lo stronzo!»
Kevin eseguì e chiuse le tapparelle. Piangeva ancora più di Thomas. Dennis agitò la pistola verso Mars. «Amico, coprilo e fa' attenzione alla ragazza.» Mars spinse Thomas sul pavimento insieme a Jennifer, poi puntò la pistola contro il padre. Dennis si infilò la pistola nella cintura, poi con uno strattone staccò dal muro la spina di una lampada sulla scrivania, quindi strappò il cavo. «Non vi fate prendere dal panico e andrà tutto bene. Capito? Mi prendo la macchina. Prima però vi lego, così non potete chiamare la polizia. Non voglio farvi del male, voglio solo la macchina. Dammi le chiavi.» Suo padre sembrava confuso. «Cosa state dicendo? Perché siete venuti qui?» «Voglio quella cazzo di macchina, brutto stronzo! Voglio rubarti la macchina! Dove sono le chiavi?» «È solo questo che vuoi, la macchina?» «Parlo russo, forse? Ce l'hai una macchina?» Suo padre alzò le mani, in un segno conciliante. «In garage. Prendetela e andatevene. Le chiavi sono appese alla parete, vicino alla porta. Dopo la cucina.» «Kevin, va' a prendere le chiavi, poi dammi una mano a legare questi bastardi, così ce ne andiamo.» Kevin, ancora vicino alle finestre, disse: «Sta arrivando un poliziotto». Jennifer vide l'autopattuglia attraverso le fessure delle tapparelle. Ne scese un poliziotto che si guardò intorno, come per orizzontarsi, e quindi si diresse verso la loro casa. Dennis l'afferrò nuovamente per i capelli. «Non dire una parola! Non dire un cazzo!» «Vi prego, non fate male ai miei ragazzi.» «Zitto. Mars, stai pronto! Mars!» Jennifer osservò il poliziotto venire verso di loro lungo il vialetto. Scomparve oltre la cornice della finestra, poi il campanello suonò. Kevin corse verso il fratello, afferrandolo per il braccio. «Sa che siamo qui, Dennis! Deve avermi visto chiudere le tapparelle!» «Sta' zitto!» Il campanello suonò di nuovo. Jennifer sentì il sudore di Dennis gocciolarle sulla spalla, e avrebbe voluto urlare. Suo padre la guardò, gli occhi fissi nei suoi, scuotendo lentamente la testa. Lei non capiva se le stesse dicendo di non urlare, o di non
muoversi, e neppure se fosse conscio di ciò che stava facendo. Il poliziotto superò le finestre, diretto verso l'altro lato della casa. «Sa che siamo qui, Dennis! Sta cercando di entrare!» «Non sa un cazzo! Sta solo guardando in giro.» Kevin era come impazzito, e ora Jennifer avvertiva la paura anche nella voce di Dennis. «Mi ha visto alla finestra! Sa che c'è qualcuno qui! Molliamo tutto!» «Zitto!» Dennis andò alla finestra. Sbirciò attraverso le tapparelle, poi all'improvviso tornò indietro verso di lei e l'afferrò di nuovo per i capelli. «Alzati.» WELCH L'agente Mike Welch non sapeva che in quel momento tutti gli occupanti della casa erano raggruppati a meno di dieci metri da lui, e lo osservavano attraverso le fessure delle tapparelle. Al suo arrivo non aveva visto né Dennis Rooney né nessun altro. Era troppo impegnato a parcheggiare la macchina. Ma poteva supporre che gli occupanti della Nissan avessero scavalcato il muro e fossero finiti dentro il giardino di quella casa. Temeva che i tre sospetti fossero ormai lontani, ma sperava che qualcuno, in quella o nelle altre case del "cul-de-sac", li avesse visti e potesse dirgli da che parte erano fuggiti. Quando nessuno venne a rispondere alla porta, Welch andò verso il cancello laterale e chiamò. Ancora nessuna risposta. Allora tornò alla porta e suonò una terza e ultima volta. Era sul punto di allontanarsi per andare a chiedere informazioni ai vicini quando il pesante portone dell'ingresso si aprì e fece capolino un'adolescente molto carina. Era pallida e aveva gli occhi arrossati. Welch sfoderò il suo miglior sorriso professionale. «Signorina, sono l'agente Mike Welch. Ha per caso visto qui in giro tre giovani che andavano di corsa?» «No.» La sua voce era così bassa che Welch riuscì a malapena a sentirla. Notò che sembrava turbata e si chiese come mai. «Dovrebbe essere accaduto cinque o dieci minuti fa. Ho motivo di credere che abbiano scavalcato il muro del vostro giardino.» «No.»
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime. Welch se ne accorse, vide due lacrime scenderle lungo le guance e capì che loro erano nella casa con lei. Probabilmente si trovavano proprio dietro la porta. Il cuore di Mike Welch cominciò a battere forte. Gli formicolavano le dita. «Va bene signorina, come le ho detto, stavo solo controllando. Le auguro una buona giornata.» Senza dare troppo nell'occhio slacciò il gancio della fondina e appoggiò la mano sulla pistola. Lanciò uno sguardo verso la porta, poi mosse in silenzio le labbra in una muta domanda, chiedendole se ci fosse qualcuno con lei. La ragazza non ebbe il tempo di rispondere. All'interno, qualcuno che Mike Welch non poteva vedere urlò: «Sta prendendo la pistola!». Esplosioni assordanti eruppero attraverso la porta e la finestra. Qualcosa colpì Mike Welch in pieno petto, facendolo volare all'indietro. Il giubbotto di Kevlar fermò il primo proiettile, ma un altro gli perforò il ventre sotto il giubbotto, mentre il terzo scivolò sopra il bordo superiore della protezione per andare a conficcarsi nella parte alta del torace. Cercò di restare eretto, ma sentì i piedi sfuggirgli da sotto. La ragazza urlò, come pure qualcun altro dentro la casa. Mike Welch si ritrovò sdraiato sulla schiena nel cortile davanti alla casa. Si tirò su a sedere, poi si rese conto di essere stato colpito e cadde di nuovo a terra. Sentì altri spari, ma non fu più in grado di alzarsi per schivare i colpi né di correre al riparo. Estrasse la pistola e sparò verso la casa, senza pensare a chi avrebbe potuto colpire. Pensava solo a sopravvivere. Ancora spari, urla, ma ormai non riusciva più a reggere la pistola. Poté solo accendere il microfono sulla spalla. «Agente ferito. Agente ferito. Oh, Dio, mi hanno sparato!» «Ripeti. Mike? Mike, cosa sta succedendo?» Mike Welch fissava il cielo, senza poter rispondere. 2 Venerdì, 15.24 JEFF TALLEY Jeff Talley era parcheggiato a tre chilometri e mezzo dagli York Estates, in un campo di avocado, il volume della radio di servizio ridotto a un sus-
surro mentre parlava al cellulare con la figlia. Spesso, nel pomeriggio, lasciava l'ufficio e andava in quel campo, che aveva scoperto poco tempo dopo aver accettato l'incarico di capo del Dipartimento di polizia di Bristo Camino e dei suoi quattordici membri. File di alberi, tutti uguali, tutti alla stessa calcolata distanza l'uno dall'altro, immobili nell'aria limpida del deserto come un coro di testimoni silenziosi. Nell'armonia di quel posto lui trovava la pace. Sua figlia, Amanda, ora quattordicenne, aveva interrotto quella pace. «Perché non posso portare con me Derek? Almeno avrei qualcuno con cui stare.» La voce della ragazza trasudava freddezza. Lui l'aveva chiamata perché quel giorno era venerdì e lei sarebbe venuta per il weekend. «Pensavo che saremmo andati insieme al cinema.» «Andiamo al cinema tutte le volte che vengo da te. Possiamo andarci comunque e portare anche Derek.» «Magari un'altra volta.» «Quando?» «La prossima volta. Non so.» Lei fece un sospiro esagerato che lo mise sulla difensiva. «Mandy? Mi va bene se porti degli amici. Ma mi piace anche quando stiamo da soli. Voglio parlare con te di tante cose.» «Mamma vuole parlarti.» «Ti voglio bene.» Lei non rispose. «Ti voglio bene, Amanda.» «Dici sempre che vuoi parlare, ma poi finisce che ci rinchiudiamo in un cinema e non lo facciamo mai. Ti passo la mamma.» Jane Talley prese il telefono. Si erano separati cinque mesi dopo che lui aveva dato le dimissioni dal Dipartimento di polizia di Los Angeles. Si era installato sul divano e aveva cominciato a restare davanti alla televisione per venti ore al giorno, finché sua moglie non aveva più resistito e lui se n'era andato. Questo accadeva due anni prima. «Salve, capo. Mandy non è del suo umore migliore.» «L'ho capito.» «Come te la passi?» Talley ci pensò su. «Non le vado molto a genio.» «Adesso è dura, per lei. Ha quattordici anni.»
«Lo so.» «Sta ancora cercando di capire. Ogni tanto lo accetta, ma ci sono delle volte in cui tutto sembra sopraffarla.» «Cercherò di parlarle.» Avvertì la frustrazione nella voce di Jane, e nella propria. «Jeffrey, sono due anni che cerchi di parlarle, ma non risolvi nulla. Un bel giorno te ne sei andato e hai iniziato una nuova vita, di cui noi non facevamo più parte. Ora tu hai la tua nuova vita, lì, e lei se ne sta facendo una nuova qui. Questo lo capisci, vero?» Talley non rispose, perché non sapeva cosa dire. Ogni giorno, da quando si era stabilito a Bristo Camino, si riprometteva di chiedere loro di raggiungerlo, ma ancora non era stato capace di farlo. Sapeva che Jane aveva passato gli ultimi due anni ad aspettarlo. Pensò che se glielo avesse chiesto in quel preciso momento lei avrebbe accettato, ma tutto quello che gli riuscì fu fissare in silenzio le file di alberi immobili e silenziosi. Alla fine, Jane ne ebbe abbastanza di quel silenzio. «Non voglio più andare avanti così. Tu e Mandy non siete gli unici che hanno bisogno di rifarsi una vita.» «Lo so. Lo capisco.» «Non ti chiedo di capire. Non mi interessa se capisci.» La sua voce si fece dura e dolente, poi entrambi restarono in silenzio. Talley pensò a lei nel giorno del matrimonio; a come la sua pelle dorata spiccava sul bianco abito country da sposa. Alla fine Jane ruppe il silenzio con voce rassegnata. Quel giorno non avrebbe saputo niente di più rispetto al precedente; suo marito non le avrebbe detto niente di nuovo. Talley si sentì in imbarazzo, in colpa. «Vuoi che te la porti a casa o in ufficio?» «A casa va bene.» «Alle sei?» «Alle sei. Potremmo cenare insieme.» «Non mi fermo.» Quando il telefono divenne muto, Talley lo mise da parte e pensò al sogno. Era sempre lo stesso, una piccola casa di legno circondata da una squadra tattica della Swat al gran completo, elicotteri in cielo, giornalisti tutt'intorno relegati dietro le transenne. Talley era il primo negoziatore, ma in quell'incubo quasi reale si trovava allo scoperto, senza protezione, mentre Jane e Amanda lo guardavano da dietro le barriere. Talley era impegnato in una trattativa con un soggetto sconosciuto di sesso maschile che si era
barricato dentro la casa e minacciava di suicidarsi. "Lo faccio! Adesso lo faccio!" continuava a gridare. Ogni volta Talley riusciva a convincerlo a fare marcia indietro, ma ogni volta sapeva che l'uomo era andato un po' più vicino alla fine. Era solo questione di tempo. Nessuno lo aveva mai visto. Non era stato trovato alcun vicino o familiare che potesse fornirne l'identità. Per tutti era una voce dietro un muro, per tutti tranne che per Talley, che sapeva con un cupo terrore di essere lui l'uomo nella casa. Era diventato il soggetto nella casa, imprigionato nel tempo e nello spazio, costretto a trattare con se stesso per salvarsi la vita. In quelle prime settimane, gli occhi di Brendan Malik lo guardavano da ogni angolo buio. Talley vedeva la loro luce morire più e più volte, smorzarsi come un televisore con il cavo di alimentazione staccato dalla presa, la scintilla che era stata Brendan Malik diventava sempre più piccola, allontanandosi fino a sparire. Dopo un po' Talley non provò più nulla, guardava quegli occhi morenti allo stesso modo in cui avrebbe potuto guardare un gioco a premi in tivù: perché era sempre lì. Talley aveva dato le dimissioni dal Dipartimento di polizia di Los Angeles e per quasi un anno era rimasto seduto sul divano, prima a casa sua, poi nello squallido appartamento che aveva affittato a Silver Lake dopo che Jane lo aveva cacciato di casa. Si ripeteva che aveva lasciato il lavoro e la famiglia perché non poteva sopportare che assistessero alla sua autodistruzione, ma dopo un po' cominciò a credere che le sue ragioni fossero più semplici, e meno nobili: si era convinto che la sua vita precedente lo stesse uccidendo, e aveva paura. La municipalità di Bristo Camino stava cercando un capo per il suo corpo di polizia forte di quattordici unità. Furono felici di assumerlo: a loro piaceva che avesse fatto parte della Swat, anche se il lavoro non prevedeva altro che scrivere multe o parlare nelle scuole. Talley si convinse che era un buon posto per guarire. Jane era stata disposta ad attendere la guarigione, ma questa pareva non arrivare mai. E lui temeva che non sarebbe mai avvenuta. Mise in moto la macchina e si allontanò sul terreno compatto del campo, imboccando un viottolo di ghiaia, e lo seguì fino all'autostrada che attraversava da un capo all'altro la Santa Clarita Valley. Quando entrò in autostrada, alzò il volume della radio e sentì subito Sarah Weinman, l'operatrice radio del Dipartimento di polizia, che urlava terrorizzata: «... Welch è a terra. Abbiamo un uomo a terra agli York Estates...». Altre voci si inserirono gracchiando per rispondere, e le parole degli a-
genti Larry Anders e Kenn Jorgenson si accavallarono in una folle rincorsa. Talley pigiò il pulsante di selezione delle frequenze, che gli permetteva di collegarsi all'operatore su un canale riservato. «Sarah, qui auto uno. Cosa significa, Mike è ferito?» «Capo?» «Cosa è successo a Mike?» «Gli hanno sparato. I paramedici del pronto intervento di Sierra Rock sono per strada. Jorgy e Larry stanno arrivando da est.» Nei nove mesi che Talley aveva passato a Bristo Camino, c'erano stati solo tre crimini degni di questo nome: due rapine incruente e una donna che aveva tentato di investire il marito con l'auto di famiglia. «Stai dicendo che gli hanno sparato intenzionalmente?» «Hanno sparato anche a Junior Kim! Tre maschi di razza bianca a bordo di un pickup Nissan di colore rosso. Mike ha ritrovato il fuoristrada, poi ha comunicato un quarantuno-quattordici al diciotto di Castle Way negli York Estates, e subito dopo ha chiamato per dire che gli avevano sparato. Da allora non sono più riuscita a mettermi in contatto con lui.» Quarantuno-quattordici. Welch aveva intenzione di avvicinarsi all'abitazione. Talley premette l'interruttore che azionava luci e sirena. Gli York Estates si trovavano a sei minuti da lì. «Quali sono le condizioni del signor Kim?» «Al momento sconosciute.» «Abbiamo l'identità dei sospetti?» «Al momento no.» «Mi trovo a sei minuti di distanza. Sto andando là. Tienimi aggiornato.» Nell'ultimo anno Talley si era convinto che il giorno in cui era diventato negoziatore per il Dipartimento di polizia di Los Angeles avesse cambiato per sempre la sua vita in peggio. Ma la sua vita stava per cambiare di nuovo. JENNIFER Jennifer non aveva mai sentito nulla di così assordante come gli spari delle loro armi; di certo non i mortaretti che Thomas aveva fatto esplodere nel giardino o l'urlo della folla quando i Lakers avevano messo a segno l'impossibile canestro della vittoria. Le sparatorie dei film non erano nep-
pure comparabili. Quando Mars e Dennis avevano iniziato a sparare, il rumore le aveva scosso il cervello, assordandola. Jennifer urlò. Dennis chiuse con violenza la porta e la trascinò all'indietro verso lo studio, poi la spinse a terra. Lei afferrò Thomas e lo tenne stretto a sé. Il padre li prese tra le braccia. Il fumo degli spari restava come sospeso nelle lame di luce che filtravano attraverso le tapparelle; l'odore le faceva pizzicare il naso. Quando la sparatoria cessò, il respiro di Dennis ricordava il soffio di un mantice, mentre camminava avanti e indietro fra lo studio e l'ingresso, pallido come un morto. «Siamo fottuti! Il poliziotto è morto!» Mars andò nell'ingresso. Senza fretta, senza paura, apparentemente rilassato. «Prendiamo l'auto prima che ne arrivino degli altri.» Kevin era a terra accanto alla scrivania, e tremava, bianco come un cencio. «Hai sparato a un poliziotto. Hai sparato a un poliziotto, Dennis!» Dennis afferrò il fratello per la maglietta. «Non hai sentito Mars? Stava per impugnare la pistola!» Al di sopra delle urla, Jennifer sentì una sirena che si avvicinava. Anche Dennis la udì e si precipitò di nuovo verso le finestre. «Oh, merda, stanno arrivando!» Il padre di Jennifer la strinse a sé con tutte le forze. «Prendete le chiavi e andatevene. Sono sul muro vicino al garage. È una Jaguar. Prendetela, finché siete in tempo.» Dennis guardava attraverso i listelli delle tapparelle come fossero sbarre di una prigione, fissava la strada con un'attesa carica di paura. Jennifer avrebbe voluto che fuggissero, che se ne andassero, che uscissero dalla sua vita, e invece Dennis restava lì, impietrito davanti alle finestre come in attesa di qualcosa. Mars parlò dall'ingresso, la voce piatta come l'acqua di uno stagno. «Prendiamo la macchina di quest'uomo, Dennis. Dobbiamo andare.» Poi, all'improvviso, parve che la sirena fosse dentro la casa, e allora fu troppo tardi. Fuori si sentì uno stridore di pneumatici. Dennis corse alla porta d'ingresso e la sparatoria ricominciò. TALLEY
Gli York Estates, un complesso residenziale cintato da un muro, avevano preso il nome dalla leggendaria città di York, in Inghilterra, separata dal mondo da imponenti mura di pietra. I costruttori avevano edificato ventotto abitazioni su lotti da quattro a dodicimila metri quadri, collegati da strade serpeggianti, alcune senza sbocco, che portavano nomi come Lancelot Lane, Queen Anne Way, e King John Place, il tutto circondato da un muro di pietra che aveva più una funzione estetica che di protezione. Imboccando l'ingresso sul lato nord, Talley spense la sirena, ma lasciò accesi i lampeggianti. Jorgenson e Anders stavano urlando, dicevano di essere sotto tiro. Dalla radio gli giunse il rumore di un colpo d'arma da fuoco. Come imboccò Castle Way, Talley vide Jorgenson e Anders accovacciati dietro la loro auto con le pistole in pugno. Due donne stavano sulla soglia della casa alle loro spalle, mentre un ragazzo era fermo in piedi all'imbocco del cul-de-sac. Mentre risaliva la strada a tutta velocità, Talley premette l'interruttore che collegava il suo microfono all'altoparlante dell'auto. «Voi, laggiù, mettetevi al riparo! Entrate in casa!» Jorgenson e Anders si voltarono verso di lui. Le due donne sembravano confuse e il ragazzo non dava cenno di muoversi. Talley accese per un attimo la sirena e urlò nuovamente verso di loro. «Andate dentro! Muovetevi!» Frenò bruscamente, andando a fermarsi dietro l'auto di Jorgenson. Due spari esplosero dalla casa, un proiettile passò alto sopra di loro, l'altro colpì con un tonfo sordo il parabrezza. Talley scivolò fuori dalla portiera e si accovacciò dietro la ruota anteriore, usando il cofano come riparo. Mike Welch giaceva rannicchiato sul prato antistante la casa, una grande casa in stile Tudor a poco più di una decina di metri da loro. «Welch è ferito! Gli hanno sparato!» urlò Anders. «Tutti e tre i fuggiaschi sono all'interno?» «Non lo so! Non abbiamo visto nessuno!» «Ci sono dei civili in casa?» «Non lo so!» Altre sirene si stavano avvicinando da est. Talley sapeva che doveva trattarsi dell'unità sei, con Dreyer e Mikkelson, e dell'ambulanza. Gli spari erano cessati, ma si sentivano urla e strilli provenire dall'interno della casa. Si appiattì al suolo e chiamò Welch da sotto la macchina. «Mike! Mi senti?» Welch non rispose. «Ho paura che sia morto!» urlò Anders terrorizzato.
«Calmati, Larry. Ti sento.» Doveva valutare la situazione e prendere delle decisioni senza sapere con chi o con che cosa aveva a che fare. Welch era nel bel mezzo del prato, immobile e allo scoperto. Talley doveva agire. «Il retro di questa casa dà sulla Flanders Road?» «Sì, capo. Il fuoristrada è sull'altro lato del muro che corre dietro la casa. È la Nissan rossa! Sono quelli che hanno fatto il colpo da Kim.» Le sirene erano più vicine. Talley doveva presumere che degli innocenti fossero all'interno della casa. Doveva presumere che Mike Welch fosse vivo. Attivò il microfono della ricetrasmittente. «Auto sei, qui auto uno. Chi c'è a bordo?» Gli rispose la voce di Dreyer. «Sono Dreyer, capo. Siamo a un minuto da voi.» «Dov'è l'ambulanza?» «Subito dietro di noi.» «Va bene. Voi prendete posizione sulla Flanders, vicino al pickup, nel caso questi qui decidessero di scavalcare di nuovo il muro. Fate entrare l'ambulanza, ma avvertiteli di aspettare all'incrocio tra la Castle e la Tower. Porterò io Welch da loro.» Talley chiuse la comunicazione, poi si raddrizzò, restando però rannicchiato. «Larry, voi avete aperto il fuoco contro la casa?» «No, capo.» «Non fatelo.» «Cos'ha intenzione di fare?» «State giù. E non sparate contro la casa.» S'infilò in macchina, tenendo la testa bassa e la portiera spalancata. Indietreggiò, poi partì veloce sul prato, andandosi a fermare tra Welch e la casa, usando l'auto come scudo. Un altro colpo fece esplodere il finestrino del passeggero. Talley rotolò fuori dall'auto, rischiando di finire addosso a Welch. Aprì la portiera posteriore, poi trascinò il collega verso la macchina. Era come sollevare un peso morto di un quintale, ma Welch si lamentava. Era vivo. Talley lo sollevò e, facendo appello a tutte le proprie forze, lo spinse sul sedile posteriore. Chiuse con violenza la portiera, poi vide la pistola di Welch sull'erba e tornò indietro a raccoglierla. Risalì in auto e partì a tutta velocità, sbandando sull'erba viscida mentre attraversava il prato, diretto verso l'imbocco della strada, dove lo aspettava l'ambulanza. Due paramedici tirarono fuori Welch dall'auto e gli premettero una com-
pressa di garza sul torace. Talley non chiese se Welch ce l'avrebbe fatta. Sapeva per esperienza che non sarebbero stati in grado di dirglielo. Rimase a fissare la strada e venne percorso da un brivido. La prima ondata di panico stava passando; ora aveva tempo per pensare. Aveva tempo per prendere coscienza del fatto che quello che stava accadendo lì era ciò che gli era costato così caro a Los Angeles. Si trattava a tutti gli effetti di un sequestro di ostaggi. Si sentiva la bocca asciutta e qualcosa di acido in gola, che rischiava di farlo vomitare. Attivò ancora la ricetrasmittente per chiamare l'operatrice radio. Disponeva di quattro pattuglie operative e di altri cinque agenti fuori servizio. Avrebbe avuto bisogno di tutti. «Capo, ho richiamato Dreyer e Mikkelson dal minimarket. Ora non abbiamo più nessuno sulla scena del crimine. È completamente scoperta.» «Chiama la Stradale e l'Ufficio dello sceriffo. Riferisci cosa sta succedendo e richiedi un'unità di crisi al completo. Digli che abbiamo due uomini feriti e dei possibili ostaggi.» Gli occhi di Talley si riempirono di lacrime quando si rese conto di aver usato quella parola. Ostaggi. Si ricordò della pistola di Welch. Annusò la canna, poi controllò il caricatore. Welch aveva risposto al fuoco, e questo significava che poteva aver colpito qualcuno all'interno della casa. Forse addirittura un innocente. Strinse forte gli occhi e aprì la ricetrasmittente. «Digli di sbrigarsi.» JENNIFER «Papà» bisbigliò Jennifer. «Shh» sussurrò lui, tenendole la testa. Si strinsero ancora più vicini. Jennifer aveva l'impressione che suo padre stesse tentando di farli passare attraverso il pavimento, e che se solo fosse riuscito a renderli abbastanza piccoli, sarebbero potuti scomparire. Guardò Mars sbirciare attraverso le tapparelle; la sua grossa schiena curva ricordava un enorme rospo gonfio. Quando si voltò verso di loro sembrava come drogato. Kevin gli lanciò una rivista di programmi televisivi. «Che cazzo hai in testa? Perché hai cominciato a sparare?» «Per tenerli lontano.» «Avremmo potuto scappare dal retro!» Dennis spinse Kevin verso l'ingresso.
«Svegliati, Kev! Hanno trovato il fuoristrada. Ci stanno addosso.» «Cazzate, Dennis! Dovremmo arrenderci!» Jennifer avrebbe voluto che se ne andassero. Che riuscissero a scappare, se necessario, purché se ne andassero da lì. «Non vi vogliamo qui!» Le parole le uscirono dalla bocca prima che potesse trattenerle. Suo padre la strinse. «Calmati» le disse con dolcezza. Ma Jennifer non riusciva più a fermarsi. «Non avete il diritto di stare qui! Nessuno vi ha invitato!» Suo padre la strinse ancora di più a sé. Dennis le puntò contro un dito. «Sta' zitta, troia!» Poi si voltò e spinse il fratello contro il muro con tale violenza che Jennifer trasalì. «Smettila Kevin! Fa' il giro della casa e chiudi tutte le finestre. Chiudi le porte, e sorveglia il giardino sul retro. Passeranno da lì, scavalcando il muro, proprio come abbiamo fatto noi.» Kevin pareva confuso. «Perché non ci arrendiamo, Dennis? Siamo in trappola.» «Tra un paio d'ore farà buio. Le cose cambiano, di notte. Datti da fare, Kev. Ci tireremo fuori da questo casino. Vedrai, ne usciremo.» Jennifer sentì suo padre sospirare, poi, lo vide alzarsi lentamente in ginocchio. «Nessuno di voi ne uscirà.» «Zitto, stronzo!» disse Dennis. «Avanti, Kevin, va' a sorvegliare il retro.» Kevin scomparve, diretto verso il retro della casa. Il padre di Jennifer si alzò in piedi. Dennis e Mars gli puntarono contro le pistole. Jennifer si aggrappò alle sue gambe. «Papà! Non farlo!» Suo padre alzò le mani. «È tutto a posto, tesoro. Non ho intenzione di fare nulla. Voglio solo andare alla scrivania.» Dennis lo teneva sotto tiro. «Sei fuori di testa?! Tu non vai da nessuna parte!» «Sta' calmo, figliolo.» «Papà, non farlo!» Suo padre sembrava muoversi come in un sogno. Lei avrebbe voluto
fermarlo, ma non poteva. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non riusciva a parlare. Lui camminava rigido, quasi si aspettasse di essere colpito. Era come se quell'uomo nel sogno non fosse suo padre, ma qualcuno che non aveva mai visto prima. Lui andò dietro la scrivania e infilò con calma due dischetti in una custodia di pelle nera. Dennis lo seguì, standogli di fianco, urlandogli di fermarsi, di non provare a fare un altro passo, tenendogli la pistola puntata alla testa. Dennis sembrava spaventato almeno quanto lei. «Cazzo, ti ho avvertito!» «Ora apro il cassetto.» «Ti ammazzo, stronzo!» «Papà, ti prego!!!» Il padre di Jennifer alzò un dito, come per dire che un solo piccolo dito non poteva fare loro nessun male, poi lo usò per aprire il cassetto. Fece un cenno con il capo verso l'interno, come per mostrare a Dennis che non c'era niente di pericoloso. Poi tirò fuori uno spesso libriccino. «Questo è l'elenco di tutti i penalisti della California. Se vi arrendete adesso, vi farò avere il miglior avvocato dello Stato.» Dennis diede un colpo al libretto, facendolo volare via. «Vaffanculo! Abbiamo appena ammazzato un poliziotto! Abbiamo ammazzato quel cinese! Ci daranno la pena di morte!» «E io ti dico che non sarà così, se lasciate che vi aiuti. Ma se resterete in questa casa, ti posso garantire una cosa: che morirete.» «Zitto!» Dennis roteò con violenza la pistola e lo colpì alla tempia con un tonfo sordo. Lui si afflosciò di lato come un sacco lasciato cadere a terra. «No!» Jennifer si lanciò in avanti. Prima di rendersi conto di cosa stava facendo, diede uno spintone a Dennis. «Lascialo stare!» Spinse Dennis da una parte e si lasciò cadere in ginocchio accanto al padre. La pistola gli aveva aperto un orribile squarcio sulla tempia destra. La ferita era piena di sangue e pulsava, gonfiandosi a vista d'occhio. «Papà! Papà, svegliati!» Lui non rispose. «Papà, ti prego!» Gli occhi di suo padre danzarono in modo folle sotto le palpebre, mentre il corpo venne percorso da un tremore.
«Papà!» Le lacrime le offuscarono la vista, mentre mani invisibili la sollevavano, trascinandola via. L'incubo era cominciato. 3 Venerdì, 15.51 TALLEY Talley avrebbe voluto restare con Welch, ma non c'era tempo. Doveva rendersi conto di cosa stava succedendo dentro quella casa. Richiese una seconda ambulanza, nel caso ci fossero altri feriti, quindi risalì in auto e tornò ancora una volta in fondo alla strada. Si fermò così vicino a quella di Anders che i paraurti delle due macchine cozzarono leggermente. Scivolò fuori e tornò ad accucciarsi dietro la ruota, chiamando Anders e Jorgenson. «Larry, Jorgy, ascoltate.» Erano giovani, ragazzi che avrebbero fatto il carpentiere o il piazzista se non fossero entrati nella polizia. Non avevano mai visto niente di paragonabile a ciò che stava accadendo su Castle Way, e, come loro, nessuno degli altri uomini di Talley. Non si erano mai trovati nella condizione di dover estrarre la pistola o di arrestare qualcuno per un grave crimine. «Dobbiamo evacuare queste case e isolare la zona. Voglio che vengano bloccate tutte le strade che portano qua.» Anders annuì con vigore, eccitato e spaventato al tempo stesso. «Solo il cul-de-sac?» «Tutte quelle che portano a questi lotti. Prendi l'auto di Welch, torna all'angolo e passa di casa in casa, tenendoti sul retro. Scavalca i muri di cinta, se necessario, e fa evacuare tutti, dalla stessa strada. Non fatevi vedere dalle persone che sono là dentro, né tu né gli altri.» «E se non vogliono venire?» «Faranno quello che gli ordini. Ma non permettere a nessuno di uscire dall'ingresso sul davanti. Comincia dalla casa che si trova qua dietro. Potrebbe esserci qualcuno ferito, là dentro.» «Subito, capo.» «Scopri chi vive in quella casa. Dobbiamo saperlo.» «D'accordo.»
«Un'ultima cosa. Potrebbe esserci ancora qualche criminale in giro. Di' agli altri di perquisire casa per casa. E avverti tutti gli abitanti del quartiere perché stiano all'erta.» Restando accucciato, Anders si avvicinò all'auto di Welch, la prima della fila, salì, fece una brusca inversione e uscì dal cul-de-sac a tutta velocità. I primi minuti di ogni situazione di crisi sono sempre i peggiori. All'inizio è raro sapere con cosa si ha a che fare, e questa incognita potrebbe risultare fatale. Talley doveva assolutamente scoprire chi aveva di fronte e chi si trovava in quella casa. Forse tutti e tre i criminali erano là dentro, ma lui non aveva modo di saperlo. Potevano essersi separati, o forse aver già ucciso tutte le persone all'interno. Potevano aver massacrato gli occupanti, essere fuggiti lungo la strada ed essersi suicidati. In quel caso, lui si sarebbe trovato davanti a una casa piena di morti. Talley aprì il microfono della ricetrasmittente per comunicare con le altre unità. «Parla Talley. Liberate la frequenza e rimanete all'ascolto. Jorgenson e io ci troviamo davanti al 18 di Castle Way agli York Estates. Anders sta facendo evacuare i residenti delle abitazioni vicine. Dreyer e Mikkelson sono sul retro della proprietà, sulla Flanders Road, vicino al pickup Nissan rosso. Crediamo che nella casa si trovi uno o più dei rapinatori che hanno sparato a Junior Kim e a Mike Welch. Sono armati. Bisogna identificarli. Welch aveva già chiesto un controllo sulla targa del fuoristrada?» Fu Mikkelson a rispondere. «Capo, qui auto due.» «Parla, auto due.» «Il fuoristrada è intestato a un certo Dennis James Rooney, maschio, bianco, ventidue anni. Residente ad Agua Dulce.» Talley tirò fuori il taccuino e annotò il nome di Rooney. In un'altra vita avrebbe mandato immediatamente una pattuglia al suo indirizzo, ma adesso non aveva gli uomini sufficienti per farlo. La radio crepitò nuovamente. «Capo, sono Anders.» «Dimmi, Larry.» «Sono con una vicina. Dice che gli abitanti della casa si chiamano Smith, Walter e Pamela Smith. Hanno due figli, un maschio e una femmina. Un momento... Va bene. Si chiamano Jennifer e Thomas. Dice che la ragazza ha una quindicina d'anni, il maschio è più piccolo.» «Sa se sono in casa?»
Talley udì Anders parlare con la donna. Il suo collega era così nervoso che attivò il microfono prima ancora di essere pronto a riferire. Talley gli disse di calmarsi. «Dice che la moglie è in Florida, a far visita a una sorella, ma crede che il resto della famiglia sia dentro. Il marito lavora a casa.» Talley imprecò sottovoce. Era possibile che ci fossero tre ostaggi. Tre assassini, tre ostaggi. Doveva assolutamente scoprire cosa stava succedendo in quella casa e tenere calmi i rapinatori. Nel gergo della polizia questo si chiamava "stabilizzare la situazione". Non c'era altro da fare. Continuò a ripeterselo più volte, come un mantra: "Non c'è altro da fare". Fece un respiro profondo, per calmarsi, poi un altro. Attivò l'altoparlante dell'auto in modo da poter parlare agli occupanti della casa. Da lì a un momento avrebbe stabilito un contatto. In quell'istante sarebbe cominciata la trattativa. Talley aveva giurato a se stesso che non si sarebbe mai più trovato in una situazione del genere. Aveva stravolto la sua esistenza per evitarlo, e invece eccolo di nuovo lì. «Mi chiamo Jeff Talley. C'è qualche ferito nella casa?» La sua voce echeggiò per il vicinato. Sentì un'auto della polizia fermarsi all'imbocco della strada, ma non si voltò a guardare. Tenne lo sguardo fisso sulla casa. «Ehi, voi, nella casa, restate calmi. Non c'è nessuna fretta. Se avete dei feriti, lasciate che vengano soccorsi. Possiamo trovare una soluzione.» Nessuno rispose. Talley sapeva che i soggetti all'interno si trovavano sottoposti a una tensione incredibile. Erano stati coinvolti in due sparatorie, e ora erano in trappola. Sicuramente avevano paura, e il rischio per i civili era alto. Il compito di Talley era quello di ridurre il loro stress. Se si dava ai soggetti il tempo per calmarsi e riflettere sulla propria situazione, talvolta erano loro stessi a rendersi conto che l'unica via d'uscita era la resa. A quel punto era sufficiente fornire loro una scusa per consegnarsi. Era così che funzionava. Queste cose, Talley le aveva imparate al corso dell'Fbi sulla gestione delle crisi, e ogni volta aveva sempre funzionato, finché George Malik non aveva sparato al figlio. «Prima o poi dovremo cominciare a parlare. Tanto vale farlo adesso. State tutti bene, o qualcuno ha bisogno di un dottore?» Finalmente dalla casa rispose una voce. «Vaffanculo!» JENNIFER
Le palpebre di suo padre sbattevano come se stesse sognando, avanti e indietro, su e giù. Dalle labbra gli sfuggì un debole gemito, ma i suoi occhi non si aprirono. Thomas, accucciato accanto a lei, sussurrò: «Cosa succede?». «Non si sveglia. Perché non si sveglia?» Non era possibile che stesse accadendo tutto questo: non in casa sua, non a Bristo Camino, non in quella perfetta giornata d'estate. «Papà, ti prego!» Mars si inginocchiò accanto a lei per tastargli il collo. Era grosso e rozzo. Puzzava di sudore e verdura. «Sembra una lesione cerebrale.» Jennifer venne assalita da un'ondata di nausea e di paura, ma poi capì che l'uomo si stava solo prendendo gioco di lei. «Vai a farti fottere.» Mars sbatté le palpebre, turbato, come se le parole di lei lo avessero sorpreso e messo in imbarazzo. «Io non le faccio quelle cose. Sono brutte.» Mars si allontanò. La ferita continuava a pulsare, ma non sanguinava quasi più; il sangue rappreso e il tessuto gonfio intorno alla lesione ricordavano un orribile vulcano rosso. Jennifer si alzò e affrontò Dennis. «Vado a prendere del ghiaccio.» «Chiudi il becco e posa il culo.» «Io vado a prendere del ghiaccio. È ferito.» Dennis la fulminò con lo sguardo, rosso in volto per la collera. Lanciò un'occhiata a Mars, poi a suo padre. Alla fine tornò a voltarsi verso le tapparelle. «Mars, accompagnala in cucina. Controlla che Kevin non stia combinando qualche casino, là dietro.» Jennifer si allontanò senza aspettare Mars ed entrò in cucina. Vide Kevin nascosto dietro il divano nella saletta in modo da poter tenere d'occhio la porta finestra. Avrebbe voluto che il giardino sul retro fosse pieno di poliziotti e cani feroci, ma purtroppo era vuoto. L'acqua della piscina era così limpida e calma che il materassino con cui aveva giocato fino a neppure mezz'ora prima sembrava galleggiare immobile sull'aria. La radio era ancora posata per terra al bordo della piscina, ma da dove si trovava non poteva sentirla. Era accaduto tutto così in fretta...
Jennifer aprì lo sportello sotto il lavandino. Mars lo richiuse con un calcio. «Cosa stai facendo?» Mars incombeva su di lei, l'inguine a pochi centimetri dal suo volto. Lentamente Jennifer si alzò in piedi. Anche così lui era una trentina di centimetri più alto di lei, e tanto vicino che faceva male guardarlo. Jennifer sentì nuovamente quella puzza di verdura. Si fece forza per non scappare. «Sto prendendo uno strofinaccio. Poi aprirò il freezer per tirare fuori il ghiaccio. Ti va bene?» Mars le andò ancora più vicino. Con il torace le sfiorò la punta dei seni. Jennifer si costrinse a non distogliere lo sguardo, a non arretrare, ma la sua voce era roca. «Stammi lontano.» Mars abbassò gli occhi, lo sguardo annebbiato come se non la vedesse. Sulle sue labbra comparve un sorriso assente. Ondeggiò, sfiorandole piano il seno con il torace. Ma Jennifer non indietreggiò di un passo. Facendo ricorso a tutte le proprie forze, ripeté, questa volta con voce chiara: «Stammi lontano». Il sorriso vuoto svanì, gli occhi di lui si focalizzarono come se potesse nuovamente vederla. Jennifer aprì lo sportello senza aspettare una risposta, trovò uno strofinaccio, quindi andò verso il frigo. Era un grosso Sub-Zero nero, il tipo con lo scomparto del freezer nella parte bassa. Lo aprì e mise un po' di ghiaccio nello strofinaccio, rovesciandone qualche cubetto per terra. «Ho bisogno di una ciotola.» «Fa' pure.» Mentre lei prendeva la ciotola, Mars si allontanò. Andò nella saletta e chiese a Kevin se avesse visto qualcosa. Jennifer non udì la risposta di Kevin. La ragazza scelse una grossa ciotola di plastica verde, poi vide il coltellino da verdura sul bancone, che aveva dimenticato dopo aver tagliato la cipolla per il sandwich al tonno. Si voltò a guardare Mars e vide che era ancora con Kevin. Sentiva il terrore all'idea che potessero vederla allungare la mano verso il coltello. Poi, pensò: anche se fosse riuscita a prenderlo, cosa avrebbe potuto fare? Aggredirli? Figuriamoci, loro erano più grandi e più forti. Inoltre, i calzoncini non avevano tasche ed era impossibile nascondere un coltello nel reggiseno del bikini. Si voltò di nuovo. Mars la stava fissando. Jennifer distolse subito lo sguardo, ma con la coda dell'oc-
chio vide che era rimasto con Kevin. Mars tornò in cucina. Senza pensarci, Jennifer spinse il coltellino dietro il mixer Cuisinart che sua madre teneva sul bancone. «Perché ci metti così tanto?» «Ho finito.» «Un momento.» Mars andò al frigo e lo aprì. Tirò fuori una birra, la stappò e bevve. Poi prese una seconda bottiglia e gliela porse. «Ne vuoi una?» «Non bevo birra.» «La mamma non lo verrà a sapere. Ora puoi fare tutto quello che vuoi, tanto lei non lo scoprirà.» «Voglio tornare da mio padre.» Lo seguì nello studio. Mars diede la seconda birra a Dennis, di guardia dietro le tapparelle. Jennifer raggiunse Thomas, che stava sempre al fianco del padre, accanto alla scrivania. Prese lo strofinaccio con il ghiaccio dalla ciotola e lo premette contro la ferita. Trasalì sentendo suo padre gemere. Thomas le si avvicinò e le parlò con voce così bassa che lei lo udì appena. «Cosa succederà?» La voce di Mars attraversò la stanza. «Zitti!» Mars la stava fissando, facendo correre lo sguardo lungo le curve del suo corpo. Jennifer arrossì, sforzandosi di concentrarsi su suo padre. Capiva che Mars si stava divertendo alle sue spalle, proprio come prima. Squillò il telefono. Tutti si voltarono a guardare l'apparecchio, ma nessuno si mosse. Gli squilli sembrarono farsi più forti, più insistenti. «Cristo!» esclamò Dennis. Arrabbiato, andò al telefono e sollevò il ricevitore ma gli squilli proseguirono. «Che cazzo succede? Perché non la smette?» «C'è più di una linea» rispose Thomas. «Bisogna premere il pulsante che lampeggia.» Dennis diede un pugno sulla lucina, poi sbatté giù la cornetta. Gli squilli si interruppero. Quindi tornò alla finestra, borbottando qualcosa sui ricchi che si potevano permettere più di una linea.
Il telefono riprese a squillare. «Vaffanculo!» La voce all'altoparlante in strada echeggiò per tutta la casa. «Dennis Rooney, rispondi al telefono. È la polizia.» TALLEY Rannicchiato dietro la ruota anteriore della sua auto, Talley ascoltava il telefono squillare, quando vide arrivare l'elicottero. Il velivolo scese a spirale avvicinandosi finché Talley riuscì a vedere che era di una delle stazioni televisive di Los Angeles. Dovevano aver sentito di Kim e Welch sintonizzandosi sulle frequenze radio della polizia. Se già c'erano gli elicotteri, presto sarebbe stata la volta dei furgoni e dei fotoreporter. Talley coprì il ricevitore con la mano e si voltò verso Jorgenson. «Dove sono gli uomini dello sceriffo?» «Stanno arrivando, capo.» «Richiamali e chiedi una copertura aerea. Digli che stanno arrivando gli elicotteri delle stazioni televisive.» Il telefono all'interno della casa stava ancora squillando. "Rispondi a quel telefono, brutto figlio di puttana" pensò Talley. «Di' a Sarah di chiamare la società dei telefoni. Fatti dare un elenco di tutte le linee della casa e fa' bloccare ogni possibilità di accesso escluso il mio cellulare. Non voglio che questa gente parli con nessun altro a parte noi.» «Okay.» Talley stava ancora impartendo ordini quando al telefono rispose una voce maschile. «Pronto?» Talley fece un cenno con la mano verso Jorgenson per farlo tacere, poi respirò a fondo nel tentativo di concentrarsi. Non voleva che dalla sua voce trasparisse la paura. «Parla Dennis Rooney?» «E tu chi sei?» «Mi chiamo Jeff Talley. Sono del Dipartimento di polizia di Bristo. Sono qui, dietro l'auto che vedi davanti alla casa. Tu sei Dennis Rooney?» Talley aveva evitato di proposito di identificarsi come capo della polizia. Voleva far capire di avere un certo potere, ma non essere visto come il più alto in grado. Il negoziatore è sempre l'uomo che sta nel mezzo. Se Rooney
avesse avanzato delle richieste, Talley voleva avere la possibilità di guadagnare tempo dicendo che doveva parlarne con il suo superiore. In quel modo avrebbe interpretato la parte del buono. E avrebbe potuto stabilire un legame con Rooney attraverso le comuni difficoltà. «Quel poliziotto stava estraendo la pistola. E anche il cinese ha tirato fuori la pistola. Nessuno voleva sparargli. È stato un incidente.» «Sei Dennis Rooney? Voglio sapere con chi sto parlando.» «Sì, sono Rooney.» Talley cominciò a rilassarsi. Rooney non era un pazzo scatenato: non aveva iniziato urlando di voler uccidere tutti quelli che si trovavano dentro la casa. Talley si sforzò di parlare in modo che la sua voce apparisse decisa ma rilassata. «Bene, Dennis, vorrei sapere se qualcuno lì dentro ha bisogno di un dottore. Abbiamo sentito un sacco di spari.» «Stiamo bene.» «Se vuoi, posso mandarti un dottore.» «Ho detto che stiamo bene. Non ci senti?!» La voce di Rooney era tesa, agitata. Talley se lo aspettava. «Qua fuori sono preoccupati. Vogliono sapere chi c'è lì con te e se stanno tutti bene. C'è qualcuno lì?» Rooney non rispose. Talley udì un respiro, poi dei rumori soffocati come se l'altro avesse coperto il ricevitore con la mano. Stava pensando. Talley sapeva che in quelle circostanze sarebbe stata dura per Rooney riflettere razionalmente. Di certo era carico di adrenalina e spaventato. Alla fine Rooney riprese la comunicazione. «C'è una famiglia. Ma non si tratta di rapimento, no? Voglio dire, loro stavano già qua. Non è che li abbiamo presi e trascinati da qualche parte.» La risposta di Rooney era un buon segno: la sua preoccupazione per il futuro indicava che non voleva morire e temeva le conseguenze delle proprie azioni. «Mi puoi dire chi sono, Dennis?» «Non ti interessa. Ti ho già detto fin troppo.» Talley lasciò correre. Il negoziatore dello sceriffo avrebbe potuto richiederglielo più tardi. «E va bene. Ora non vuoi dirmi i loro nomi. Ho capito. Posso sapere almeno come stanno?» «Stanno bene.»
«E i tuoi due amici? Non è che uno sta morendo, vero?» «Stanno bene.» Talley era riuscito a fargli ammettere che tutti e tre i fuggiaschi si trovavano all'interno della casa. Coprì il ricevitore e si rivolse a Jorgenson. «Tutti e tre i soggetti sono nella casa. Di' a Larry di sospendere le perquisizioni.» «Ricevuto.» Jorgenson comunicò la notizia via radio, mentre Talley tornava a parlare con Rooney. Un secondo elicottero si aggiunse a quello già presente e si posizionò direttamente sopra di loro. Un'altra rete televisiva. «Okay, Dennis» disse Talley. «Ora ti spiego come sei messo.» Rooney lo interruppe. «Tu mi hai fatto un sacco di domande. Ora voglio dirti una cosa io. Non ho sparato a quel cinese. Lui ha tirato fuori la pistola, stavamo lottando ed è partito un colpo. Si è sparato da solo.» «Capisco, Dennis. Probabilmente c'è una telecamera di sorveglianza. Potremo vedere cosa è successo.» «Ti dico che è partito un colpo. È partito un colpo e noi siamo scappati. Ecco cosa è successo.» «D'accordo.» «Quello che voglio sapere è se il cinese sta bene.» «Il signor Kim non ce l'ha fatta, Dennis. È morto.» Rooney non rispose, ma Talley sapeva che nella sua testa stava vorticando una serie di possibilità: da quella di aprirsi una via di fuga sparando all'impazzata a quella del suicidio. Doveva dargli la possibilità di sfogare la pressione. «Non voglio mentirti, Dennis. Siete nei guai. Ma se quello che mi hai detto a proposito della lotta è vero, potrebbe essere un'attenuante. Non peggiorare le cose. Possiamo trovare una via d'uscita.» Il fatto che Kim avesse tirato fuori la pistola non attenuava proprio un bel niente. Per la legge della California, ogni uccisione avvenuta nel corso di un crimine grave era considerata un omicidio, ma Talley doveva dare a Rooney un barlume di speranza. Funzionò. «E il poliziotto? Anche lui stava tirando fuori la pistola.» «È ancora vivo. In questo caso t'è andata bene.» «Non dimenticare che ho qui questa gente, nel caso ti venisse in mente di fare irruzione qua dentro.» La voce di Rooney aveva perso un po' della sua aggressività.
«Dennis, devo chiederti di lasciarli andare.» «Non ci penso nemmeno.» «Finché a loro non succede nulla, per te è un vantaggio. Il poliziotto è vivo. Hai detto che è stato Kim a tirare fuori la pistola. Lascia andare quella gente.» «Fottiti. Loro sono l'unica cosa che vi trattiene dal fare irruzione qua dentro. Ci uccidereste per aver sparato a quel poliziotto.» «Lo so che adesso la pensi così, Dennis, ma ti do la mia parola: non faremo irruzione nella casa. Non entreremo con la forza. D'accordo?» «Sarà meglio per voi.» «Non lo faremo. Ma voglio che tu sappia cosa vi aspetta. E non lo dico per minacciarti, lo dico perché voglio essere onesto con te. La casa è circondata, la zona è isolata. Non potete fuggire, Dennis. È impossibile. Il motivo per cui sono qua fuori a parlare con te è che voglio che tu esca da questa situazione senza che tu o qualcun altro nella casa vi facciate male. Questo è il mio scopo. Lo capisci?» «Lo capisco.» «La cosa migliore che tu possa fare è lasciar andare quella gente, Dennis. E poi ti arrendi. Tutto regolare, calmo, tranquillo. Se collabori ora, il giudice ne terrà conto. Questo lo capisci, no?» Rooney non rispose, e Talley lo prese come un segnale positivo. Rooney non faceva obiezioni: stava pensando. Talley decise di troncare il contatto e lasciare che riflettesse sulle opzioni. «Non so tu, Dennis, ma io ho bisogno di una pausa. Pensa a quello che ti ho detto. Ci risentiamo tra una ventina di minuti. Se vuoi parlarmi prima, lancia un urlo e ti chiamo.» Talley interruppe la comunicazione. Gli tremavano così tanto le mani che il cellulare gli scivolò a terra. Inspirò a fondo una volta, due, ma non servì. «Capo, si sente bene?» chiese Jorgenson. Talley rispose con un cenno della mano. Gli elicotteri erano ancora lassù. Erano fermi a mezz'aria, come sospesi. Significava che stavano riprendendo la scena. Talley infilò il telefono in tasca, disse a Jorgenson di chiamarlo se ci fossero stati sviluppi, quindi uscì in retromarcia dalla strada. Una conversazione con un ventenne terrorizzato e gli veniva da vomitare. Larry Anders aspettava al bivio con altri due agenti, Scott Campbell e Leigh Metzger. Campbell era un agente di sicurezza di Bakersfield in pensione ar-
ruolatosi nella polizia di Bristo per arrotondare. Metzger era una madre single che aveva all'attivo otto anni come istruttrice nella polizia di San Bernardino ma ben poca esperienza sul campo. Vederli non diede a Talley alcuna tranquillità. «Larry, ma quei maledetti sceriffi vengono qui a piedi? Dove sono, Cristo?» «Sarah gli ha parlato al telefono. Dice se la chiami.» Talley avvertì una morsa allo stomaco. «Cosa c'è?» «Non lo so. Dice anche che i giornalisti vogliono sapere cosa sta succedendo. Alcuni reporter sono stati al minimarket e ora stanno venendo qui.» Talley si sfregò il volto, poi guardò l'orologio. Erano passati cinquantatré minuti da quando Junior Kim era stato ucciso. Cinquantatré minuti, e il suo mondo si era ridotto alle dimensioni di quel complesso residenziale. «Quando arrivano i giornalisti, lasciali entrare nel comprensorio, ma non farli avvicinare al cul-de-sac.» «Ah, c'è uno spiazzo libero all'incrocio tra la King e la Lady. Posso metterli là?» «Perfetto. E non lasciare che se ne vadano in giro. Tra qualche minuto verrò io a fare una dichiarazione.» Talley si diresse alla sua auto, dicendosi che andava tutto bene. Aveva stabilito un contatto, aveva scoperto che tutti e tre i soggetti erano nella casa e al momento nessuno stava sparando. Aprì la portiera e fu investito da una vampata di aria rovente, ma era così stanco che non ci fece caso. Chiamò l'ufficio via radio. «Dammi qualche buona notizia, Sarah. Ne ho bisogno.» «La Stradale ha inviato sei auto di pattuglia da Santa Clarita e da Palmdale. Dovrebbero trovarsi a una decina di minuti da lì.» Auto di pattuglia. «E l'unità tattica? La squadra dei negoziatori? Abbiamo bisogno di quella gente.» La voce gli uscì stridula, ma non se ne curò. «Mi dispiace, capo. La squadra di pronto intervento è bloccata a Pico Riviera. Hanno detto che arriveranno appena possibile.» «Fantastico! E noi cosa dovremmo fare, fino ad allora?» «Hanno detto che dovrà cavarsela da solo.» Talley teneva il microfono posato in grembo: non aveva neppure la forza di sollevarlo.
«Capo? È ancora lì?» Talley chiuse la portiera, avviò il motore e accese il condizionatore. Quando udirono il motore partire, Anders e Campbell si voltarono e rimasero perplessi nel vedere che l'auto non si muoveva. Talley girò le bocchette in modo che gli sparassero l'aria fredda dritto in faccia. Tremava così tanto che fu costretto a infilare le mani sotto le cosce. Provava paura e vergogna. Affondando le unghie nelle gambe, si disse che quella non era Los Angeles, lui non era più un negoziatore e che la vita delle persone dentro quella casa non era nelle sue mani. Doveva soltanto tenere duro finché non fossero subentrati gli uomini dello sceriffo, e allora avrebbe potuto tornarsene al campo di avocado, alla sua pace e alla sua perfetta immobilità. Era solo questione di minuti. Di secondi. Si disse che chiunque avrebbe potuto tenere duro per pochi secondi. Ma non ci credeva. 4 Venerdì, 16.22 DENNIS Dennis sbatté giù il ricevitore, livido di rabbia. «Vaffanculo!» urlò. Talley doveva considerarlo un idiota, con tutte quelle stronzate sul fatto di volere una soluzione pacifica e le promesse di non fare irruzione nella casa. Dennis sapeva benissimo come andavano a finire le cose con la polizia. C'era un agente ferito? Qualcuno doveva pagare. Probabilmente quei bastardi lo avrebbero ammazzato alla prima occasione senza neppure dargli la possibilità di arrivare al processo. E forse quel Talley voleva essere proprio lui a premere il grilletto. Dennis era così incazzato che gli veniva da vomitare. «Cosa vogliono?» chiese Mars. «Secondo te cosa vogliono? Vogliono che ci arrendiamo!» Mars si strinse nelle spalle, un'espressione vacua sul viso. «Io non mi arrendo.» Dennis lanciò uno sguardo torvo ai due ragazzi raccolti intorno al loro padre, quindi uscì a grandi passi dalla stanza. Doveva trovare un modo per andarsene da quel cazzo di casa e sfuggire alla polizia. Aveva bisogno di un piano. Camminando gli riusciva più facile pensare, quasi potesse allontanarsi dalla paura di essere in trappola; una casa da ricchi come quella...
gli pareva che lo schiacciasse con il suo peso, impedendogli di respirare. Se avesse vomitato, non voleva farlo di fronte a Mars. Dennis attraversò la cucina. Trovò le chiavi appese a un pannello nella dispensa, proprio come aveva detto il vecchio, e spalancò la porta che dava in garage. Una scintillante Jaguar berlina e una Range Rover erano lì che lo aspettavano. Entrambe dovevano avere al massimo due anni. Controllò il serbatoio della Jaguar e vide che era pieno. Se il loro fuoristrada si fosse rotto solo cinque minuti prima, se avessero trovato quella casa cinque minuti prima, se si fossero allontanati a bordo di quella splendida Jaguar cinque minuti prima, non si sarebbero trovati a dover rispondere di un'accusa di omicidio. Non si sarebbero trovati in trappola. «Merda!!» urlò, mollando un pugno sul volante. Chiuse gli occhi. Calmati. Doveva esserci una soluzione. «Dennis?» Dennis aprì gli occhi e vide Kevin sulla porta; si dimenava come se gli scappasse da pisciare. «Non dovresti essere di guardia per controllare se arriva la polizia?» «Ho bisogno di parlarti. Dov'è Mars?» «Sta facendo la guardia sul davanti, quello che dovresti fare tu da un'altra parte. Fila!» Dennis serrò gli occhi. La polizia teneva sotto controllo il davanti e il retro, ma era una casa grande; doveva pur esserci una porta o una finestra che i poliziotti non potevano vedere. L'abitazione era circondata da alberi, cespugli e muri di cinta che si fondevano con quelli delle case vicine. Quando fosse scesa la notte, le ombre sarebbero state come pesanti mantelli neri. Se lui fosse riuscito a creare un diversivo - per esempio vestire gli ostaggi in modo da sembrare loro tre, legarli dentro la Jaguar e poi aprire la porta del garage con il telecomando - tutti i poliziotti si sarebbero concentrati sull'auto, mentre lui se la filava dall'altra parte con il favore delle tenebre. «Dennis?» «C'è in ballo un'accusa di omicidio, Kevin. Lasciami pensare.» «Si tratta di Mars. Dobbiamo parlare di quello che è successo.» Kevin aveva di nuovo quell'espressione da mezzasega, le sopracciglia da cane bastonato e quell'aria da non-prendermi-a-calci che a Dennis faceva venire voglia di prenderlo a pugni. Dennis odiava il fratello minore. Da
sempre. Odiava il fastidio opprimente di doverselo portare dietro per tutta la vita. Non aveva avuto bisogno dello strizzacervelli del carcere per capire il perché: Kevin rappresentava il loro passato, la loro madre debole e inetta, il loro padre violento e drogato che li picchiava, il loro patetico, imbarazzante posto nella vita. Kevin era l'ombra del loro futuro di falliti, e Dennis lo odiava per questo. Scese dalla Jaguar sbattendo la portiera. «Dobbiamo trovare un modo per andarcene da questa fottutissima casa, Kevin, ecco cosa dobbiamo fare. Semplice. Adesso cerchiamo di darci una mossa, perché io non ho nessuna intenzione di tornarmene in galera.» Dennis passò davanti al fratello, spingendolo di lato, incapace persino di guardarlo. Kevin lo seguì. Attraversarono la cucina e poi, seguendo un ampio corridoio, passarono davanti alla sala da pranzo fino a una saletta con lussuosi divani di pelle e un magnifico mobile bar rivestito di rame. Dennis si immaginò mentre serviva da bere a degli ospiti eleganti, protagonisti di spot pubblicitari o di cassette porno. Se avesse potuto vivere in una casa come quella, se la sarebbe goduta. Sarebbe diventato l'artefice del suo destino. Arrivarono alla camera da letto padronale sul retro della casa. Era enorme, con porte finestre scorrevoli che davano sulla piscina; più grande dell'appartamento che lui divideva con Kevin. Si chiese se per caso in bagno non ci fosse una finestra da cui svignarsela. Kevin lo tirò per un braccio. «Dennis, ascolta.» «Cerca un modo per uscire di qui.» «Mars ha mentito su quel poliziotto che è venuto alla porta. Non aveva estratto la pistola. Non c'era bisogno di sparargli.» Dennis afferrò Kevin per la maglietta. «Piantala! Non avevamo altra scelta!» «Io ero lì. Lo stavo guardando, Dennis. Il poliziotto ha messo la mano sulla pistola, ma non l'ha tirata fuori. Ti sto dicendo che non ha estratto la pistola.» Dennis mollò la presa e fece un passo indietro, non sapendo che dire. «Tu non hai visto bene.» «Io ero là! Mars ha mentito.» «Perché avrebbe dovuto?» «C'è qualcosa che non va, in quel tipo. Lui voleva sparargli, a quel poliziotto.»
Dennis si sentì chiudere la gola. Era furibondo, convinto che fosse una delle solite uscite di quello svitato di suo fratello, che gli stava scaricando addosso un'altra palata di merda proprio adesso che lui c'era già dentro fino al collo. In camera da letto si aprivano tre porte. Dennis pensò che dessero su ripostigli o bagni, magari con una finestra sul lato della casa, ma non fu questo che trovò. Vestiti appesi, scarpe riposte negli appositi scomparti sotto gli abiti, come in una qualsiasi cabina armadio di grandi dimensioni, ma c'era qualcos'altro. Una fila di piccoli schermi in biaaco e nero occupava tutta una parete; su uno degli schermi si vedevano Mars e i due ragazzi, un altro mostrava l'auto della polizia ferma davanti alla casa, un terzo inquadrava la Jaguar e la Range Rover nel garage; ogni ambiente - stanza, bagno, corridoio - all'interno della casa era visibile sugli schermi, come pure inquadrature esterne della piscina, il piccolo edificio adibito a spogliatoio, e persino la zona dietro a questo. Pareva che ogni centimetro quadrato della proprietà fosse sotto controllo. «Kevin?» Kevin si avvicinò, lasciandosi sfuggire un'esclamazione. «Cos'è questo?» «Un sistema di sicurezza. Cristo, guarda che roba!» Dennis osservò le immagini della camera da letto. Sembrava che la telecamera riprendesse dall'angolo sinistro del soffitto sopra la porta dalla quale era appena entrato. Dennis uscì e guardò in alto, ma non vide niente. «Ehi, ti vedo» disse Kevin da dentro. Dennis tornò dal fratello. I monitor erano sistemati sopra una lunga console munita di file e file di bottoni, display led e lucine rosse e verdi. Sulla destra si trovava una serie di pulsanti contrassegnati da etichette: "sensori movimento", "infrarossi", "blocco piano superiore", "blocco piano inferiore", "allarmi". Dennis ebbe paura. Si voltò verso la porta e la spinse lentamente. La porta si mosse senza difficoltà, ma si capiva che era pesante. Nell'anta era installato un massiccio chiavistello in modo che potesse essere chiusa dall'interno. Dennis batté con le nocche sulla superficie: acciaio. Tornò a voltarsi verso il fratello. «Che cazzo succede, qua dentro? Questo posto è blindato come una banca.» Kevin era inginocchiato in fondo alla cabina armadio, parzialmente coperto dagli abiti appesi. Lentamente spostò il peso sui talloni e si voltò.
Teneva tra le mani una scatola di cartone bianca, grande quanto una scatola da scarpe. Dennis vide che la parete dietro gli abiti sembrava una piccola saracinesca da garage e poteva essere sollevata e abbassata. Ora era alzata e dentro si vedevano pile di scatole bianche. Kevin gli porse quella che teneva in mano. «Guarda.» La scatola era piena di banconote da cento dollari. Kevin ne tirò fuori una seconda e poi una terza. Erano piene zeppe di soldi. Dennis ne aprì una quarta. Ancora soldi. Dennis e Kevin si guardarono. «Va' a chiamare Mars.» JENNIFER Jennifer era preoccupata. Il respiro di suo padre era ridotto a un sibilo. Gli occhi si muovevano spasmodici sotto le palpebre, come succede quando si sta facendo un brutto sogno. Prese un cuscino dal divano e glielo mise sotto la testa, quindi si sedette accanto a lui, tenendogli il ghiaccio premuto contro il capo. Ora la ferita non sanguinava più, ma era rossa e infiammata, e sul viso si stava allargando un brutto ematoma. Thomas le diede un colpetto al ginocchio e le sussurrò: «Perché non si sveglia?». Prima di rispondere, lei lanciò un'occhiata a Mars. Aveva trascinato la scrivania sull'altro lato della stanza e ci si era seduto sopra per poter osservare meglio le mosse della polizia. «Non lo so.» «Morirà?» Anche Jennifer lo temeva, ma non voleva dirlo. Pensava che suo padre potesse avere una commozione cerebrale, anche se la sua unica esperienza in questo campo veniva dalla volta in cui il ricevitore della sua squadra di baseball si era fatto male durante una partita quando aveva bloccato una casa base e un giocatore più grosso di lui lo aveva travolto. Il ragazzo aveva dovuto passare la notte in ospedale ed era rimasto assente da scuola per due giorni. Jennifer aveva paura che anche suo padre avesse bisogno di un medico, e che potesse peggiorare senza le cure adeguate. «Jen?» Thomas la richiamò con un altro colpetto, sussurrando con insistenza. «Jen?»
Alla fine lei rispose, cercando di sembrare ottimista. «Credo che abbia una commozione cerebrale. Tutto qui.» Il telefono sulla scrivania squillò. Mars lo guardò, ma non si mosse. Il telefono si zittì nell'attimo in cui Dennis e Kevin ricomparvero dal retro della casa. Dennis si avvicinò, fissò il padre di Jennifer e poi lei. L'espressione del suo volto le fece accapponare la pelle. Anche Kevìn li stava fissando. Dennis si accucciò accanto a lei. «Il tuo vecchio, che lavoro fa?» «Il contabile.» «Fa le denunce dei redditi per altri ricconi come lui, gestisce i loro soldi, cosa?» «Be'... fa quello che fanno i contabili.» Sapeva che lo stava provocando, ed era preparata alla sua collera; invece Dennis parve riflettere. Guardò Thomas, poi di nuovo lei, sorridendo. «Come ti chiami?» «Jennifer.» «Il cognome?» «Smith.» «Okay, Jennifer Smith. E il tuo vecchio?» «Walter Smith.» Dennis guardò verso Thomas. «E tu, ciccione?» «Fottiti.» Dennis afferrò il ragazzo per l'orecchio. «Thomas!» si affrettò a rispondere. «Ciccione, se mi provochi ancora ti rompo il culo. Intesi?» «Sissignore.» Dennis lasciò andare l'orecchio. «Bravo, ciccione.» Jennifer avrebbe voluto che lui li lasciasse in pace, ma purtroppo non fu così. Dennis sorrise. «Staremo qui per un po', Jennifer. Dov'è la tua stanza?» disse, abbassando la voce. Lei arrossì violentemente e lui sorrise ancora di più. «Non pensare male, Jennifer. Non intendevo in quel senso. Pensavo che avessi freddo, solo con il bikini. Ti prenderò una maglietta per coprire quel tuo bel corpicino.» Lei distolse lo sguardo e arrossì ancora di più.
«È al piano di sopra.» «Okay. Ti porto qualcosa.» Dennis ordinò a Mars di andare con lui e i due uscirono. Kevin andò alla finestra. Il telefono riprese a suonare, ma Kevin fece finta di niente. Gli squilli parvero andare avanti un'eternità. Thomas le diede un altro colpetto al ginocchio. Voltandosi verso di lui, Jennifer vide che era pallido in volto, con chiazze rosa acceso agli angoli della bocca. Gli succedeva così quando si arrabbiava. Jennifer sapeva che essere chiamato ciccione lo mandava in bestia. Lui le diede un altro colpetto. Voleva dirle qualcosa. «Allora?» disse lei, muovendo silenziosamente le labbra, dopo essersi accertata che Kevin non li stesse guardando. Thomas si avvicinò. Le chiazze rosa agli angoli della bocca si fecero più accese. «So dove papà tiene una pistola» disse in un sussurro. 5 Venerdì, 17.10 GLEN HOWELL Dopo quindici squilli, Glen Howell chiuse il cellulare. La cosa non gli piaceva. Era atteso, e sapeva che chi lo aspettava rispondeva sempre al telefono. Era irritato dal fatto che quel figlio di puttana avesse scelto di non rispondere proprio adesso, quando lui era già così in ritardo. Nel mondo di Glen Howell i ritardi non erano tollerati e le scuse erano meno che inutili. Le punizioni potevano essere severe. Howell non sapeva perché le strade che portavano agli York Estates fossero bloccate, ma il traffico era fermo. Doveva trattarsi di un guasto a una conduttura del gas o qualcosa del genere: una cosa grossa, se erano arrivati a chiudere l'intero complesso, bloccando il traffico e facendo perdere del tempo a tutti. I ricchi non amano i contrattempi. Il finestrino della grossa Mercedes Classe S si abbassò senza fare rumore. Glen mise fuori la testa, cercando di capire il motivo di quel rallentamento. Un poliziotto smistava il traffico all'incrocio; fece allontanare alcune auto con un gesto, ma lasciò passare il furgone di una stazione televisi-
va. Glen chiuse il finestrino, e subito il vetro oscurato attenuò il bagliore del sole. Prese dalla tasca la Smith & Wesson calibro 40 e la mise nel vano portaoggetti. Aveva una regolare licenza rilasciata dallo Stato della California, ma non voleva attirare l'attenzione nel caso fosse stato costretto a scendere dall'auto. Guardò l'orologio per la quarta volta nel giro di cinque minuti. Ne aveva già dieci di ritardo. Di questo passo sarebbero diventati ancora di più. Tre delle auto davanti a lui erano state deviate, una era passata, e ora era il suo turno. Il poliziotto era giovane, alto e squadrato, con un pomo d'Adamo prominente. Glen abbassò il finestrino. Il caldo lo investì, facendogli desiderare di essere a Palm Springs invece che lì, a fare il fattorino. Provò ad assumere un atteggiamento superiore e professionale, cercando di far leva sulle differenze sociali: un ricco uomo d'affari, un impiegato pubblico senza istruzione. «Cosa succede, agente? Perché la strada è bloccata?» «Lei vive qui, signore?» Glen sapeva che, se avesse risposto di sì, il poliziotto avrebbe potuto chiedergli la patente per verificare il suo indirizzo, e lui non voleva essere sorpreso a mentire. «Ho un appuntamento di lavoro. Mi stanno aspettando.» «Abbiamo un problema all'interno, e siamo stati costretti a isolare la zona. Facciamo passare solo i residenti.» «Che genere di problema?» Il poliziotto parve incerto. «Ha dei familiari che abitano qui, signore?» «Solo degli amici, agente. Ma quello che mi dice mi fa preoccupare per loro.» Il poliziotto aggrottò la fronte e si voltò a guardare la fila di auto dietro a quella di Glen. «Be', degli individui sospettati di aver commesso una rapina si sono asserragliati in una delle case. Siamo stati costretti a evacuare parecchie abitazioni e a isolare il complesso finché la zona non sarà sicura. Potrebbe volerci un po' di tempo.» Glen annuì, cercando di apparire ragionevole. Dopo dieci secondi aveva già capito che non sarebbe servito a nulla allungargli un centone per convincerlo a lasciarlo passare. Quel tizio non avrebbe mai accettato. «Senta, agente, il mio cliente mi sta aspettando. Non ci vorrà molto,
davvero. Pochi minuti e me ne vado.» «Mi dispiace, signore, ma non è possibile. Se vuole può telefonare a quella persona e chiederle di venire qui, se è ancora in casa. Abbiamo mandato degli agenti di porta in porta per avvertire i residenti di non muoversi o per accompagnarli fuori. Non posso farla passare.» Glen si sforzò di restare calmo. In ogni confronto, il suo primo impulso era sempre stato quello di mettere mano alla pistola e piazzare due pallottole in fronte al suo avversario, ma ora riusciva a dominarsi. Anni di terapia gli avevano insegnato che, nonostante la sua personalità iraconda, poteva riuscire a controllarsi. E ora si controllò. «Okay. Potrebbe essere un'idea. Posso parcheggiare là per telefonare?» «Certamente.» Glen accostò l'auto, quindi chiamò di nuovo. Anche questa volta lasciò squillare quindici volte, ma non ebbe risposta. La cosa non gli piaceva. Con tutta quella polizia in giro, il suo uomo poteva essersela fatta addosso dalla paura ed essersi nascosto sotto il letto, o forse era stato costretto ad abbandonare l'abitazione. Era addirittura possibile che si ritrovasse dentro casa un gruppo di poliziotti che la utilizzava come posto di comando, o qualcosa del genere. Al pensiero, Glen scoppiò in una fragorosa risata. No, questo non era possibile, doveva essere stato evacuato. In quel caso avrebbe chiamato Palm Springs per fissare un incontro da qualche altra parte, e Palm Springs avrebbe avvertito lui. Probabilmente il poliziotto sapeva quali famiglie erano state evacuate, o avrebbe potuto scoprirlo, ma lui non voleva attirare l'attenzione sul suo uomo. Glen fece una lenta inversione di marcia e si avviò nella direzione da cui era venuto, immerso nelle proprie riflessioni, quando vide che un altro furgone di una rete televisiva si metteva in coda. Decise di tentare la sorte e abbassò il finestrino, avvicinandosi al veicolo. L'autista era un tizio quasi calvo, con un ciuffo di capelli dietro le orecchie e la pelle cascante. Sul sedile del passeggero era appollaiata una donna orientale tutta azzimata e con le labbra turgide. Glen pensò che fosse la bella del notiziario e si chiese se quella bocca carnosa fosse naturale o siliconata. Le donne che si iniettavano quella schifezza nelle labbra gli facevano venire i brividi. Decise che probabilmente era una che sputava quando parlava. «Scusate» disse. «Non vogliono dirmi cosa sta succedendo, so solo che alcune persone del complesso sono state evacuate. Voi ne sapete niente?» La donna si voltò e si sporse in avanti per vedere oltre l'autista. «Non lo sappiamo per certo, ma pare che tre tizi che fuggivano dopo a-
ver compiuto una rapina abbiano preso in ostaggio una famiglia.» «Davvero? Ma è terribile.» A Glen non importava un accidente, se non fosse stato per il fatto che gli stavano rovinando la giornata. Gli venne in mente che forse avrebbe potuto convincere l'autista a portarlo con loro. «Lei abita qui?» chiese la donna. Glen capì dove stava cercando di arrivare e cominciò a rilassarsi. Forse, se avesse avuto il dubbio che lui sapeva qualcosa di utile, sarebbe stata disposta a farlo entrare insieme a loro. «No, io no, ma ho degli amici che ci vivono. Perché?» La coda di veicoli si stava muovendo, ma il furgone restava fermo. La giornalista sfogliò un taccuino giallo. «Notizie non confermate dicono che sono coinvolti dei bambini, ma non riusciamo a trovare nessuno che ci dica qualcosa di questa famiglia. Si chiamano Smith.» La grossa Mercedes avvertì che la temperatura era salita. Il condizionatore si mise a pompare più forte, ma Glen non se ne accorse. «Come ha detto che si chiamano?» «Walter Smith e signora. Abbiamo saputo che hanno due bambini, un ragazzo e una ragazza.» «E li hanno presi in ostaggio? Questi tre tizi hanno preso in ostaggio gli Smith?» «Esattamente. Li conosce? Stiamo cercando di avere notizie dei bambini.» «Mi spiace, ma non li conosco.» Glen chiuse il finestrino e ripartì. Guidò lentamente, in modo da non attirare l'attenzione. Aveva la strana sensazione di trovarsi al di fuori del proprio corpo, come se il mondo si fosse ritirato e lui non ne facesse più parte. Il condizionatore andava al massimo. Walter Smith. Tre stronzi avevano fatto irruzione nella casa di Walter Smith, che ora era circondata da poliziotti e telecamere, e tutto il fottiitissimo complesso isolato. Tre isolati più avanti, Glen si infilò in un parcheggio. Tirò fuori la pistola dal vano portaoggetti e se la mise in tasca. Si sentiva più sicuro, con quella. Aprì di nuovo il telefono e compose un altro numero. Questa volta risposero al primo squillo. Glen pronunciò solo tre parole. «Abbiamo un problema.»
Venerdì, 17.26 Palm Springs, California SONNY BENZA L'ossigeno era la chiave. Sonny fece un respiro profondo, nel tentativo di alimentare il suo cuore. Aveva quarantasette anni, la pressione alta, e viveva nel terrore dell'infarto che si era portato via suo padre a cinquantacinque. Sonny Benza si trovava nella sala da biliardo della sua grande casa appollaiata sulle alture di Palm Springs. Fuori, Chris e Gina, i suoi due bambini a casa per le vacanze, sguazzavano in piscina. Dentro, sudando come porci, Phil Tuzee e Charles "Sally" Salvetti stavano trascinando un televisore accanto allo schermo gigante, un Sony da trentasei pollici. Lavoravano in fretta, freneticamente, ansiosi di collegarlo. Tra lo schermo gigante, con la funzione "immagine nell'immagine", e il Sony sarebbero stati in grado di seguire tutte e tre le maggiori stazioni televisive di Los Angeles. Due trasmettevano vedute dall'alto della casa di Walter Smith, la terza la faccia di un tizio effeminato che parlava davanti a una stazione di rifornimento. Sonny Benza ancora non riusciva a crederci. «Cosa sappiamo? Non queste stronzate che dicono in televisione... cosa sappiamo per certo? Forse si tratta di un altro Walter Smith.» Salvetti si asciugò il sudore dalla fronte, pallido sotto l'abbronzatura da Palm Springs. «Ha chiamato Glen Howell, Sonny. Si trova nelle vicinanze della casa. È il nostro Walter Smith.» Tuzee fece un piccolo gesto con le mani, cercando di calmare gli animi. «Cerchiamo di non agitarci. Calmiamoci e affrontiamo la questione un passo alla volta. Non è che abbiamo i federali alla porta.» «Non ancora.» Phil Tuzee sembrava sul punto di farsela addosso. Sonny gli mise un braccio intorno alle spalle, stringendolo, per fargli vedere che aveva tutto sotto controllo. «Abbiamo ancora dieci, quindici minuti prima che arrivino, eh, Phil?» Tuzee rise. Bastò quello, e si sentirono subito più calmi. Preoccupati, certo, consapevoli di avere un grosso problema per le mani, ma la prima ondata di panico era passata. Ora avrebbero affrontato razionalmente la si-
tuazione. «Allora» disse Benza «come siamo messi, esattamente? Cos'ha Smith in casa?» «È periodo di denunce dei redditi, Sonny. Dobbiamo presentare i resoconti trimestrali della società. Ha tutti i nostri registri.» Benza sentì un brivido. «Ne sei sicuro? Glen non era passato a ritirarli?» «Ci stava andando quando è scoppiato il casino. È arrivato là e ha scoperto che l'intero complesso è stato isolato. Ha detto che Smith non risponde al telefono, cosa che farebbe se potesse, e poi ha saputo di questa storia da alcuni reporter. Tre stronzi hanno fatto irruzione nella casa per sfuggire alla polizia e ora tengono in ostaggio lui e la sua famiglia. È il nostro Walter Smith.» «E tutte le nostre carte sono ancora lì da lui.» «Tutte.» Benza fissò i televisori. Fissò la casa sugli schermi. Fissò gli agenti di polizia che circondavano la casa, accucciati dietro i cespugli e le auto. Le attività legali di Sonny Benza comprendevano sedici bar, otto ristoranti, una società di catering, e tredicimila ettari di vigneti nella California centrale. Queste attività erano già di per sé remunerative, ma servivano anche a riciclare i novanta milioni di dollari generati annualmente da traffico di droga, contrabbando e commercio con l'estero di veicoli e macchinari edili rubati. Il compito di Walter Smith era quello di creare una documentazione falsa, ma credibile, che giustificasse i profitti delle attività legittime. Benza avrebbe poi consegnato questi documenti ai suoi "veri" contabili che, a loro volta, avrebbero presentato regolari denunce dei redditi ignari del fatto che i dati su cui avevano lavorato erano stati falsificati. Benza avrebbe pagato regolarmente le tasse (tolta ogni detrazione legalmente applicabile), dopodiché sarebbe stato in grado di versare in banca, spendere o investire il contante che restava. Perché potesse fare questo, Walter Smith teneva la contabilità di tutte le attività di Benza, legali e illegali. E la contabilità era nei suoi computer. Nella sua casa. Circondata da poliziotti. Sonny andò alla grande vetrata da cui si godeva una vista mozzafiato di Palm Springs adagiata nel deserto sottostante. Phil Tuzee lo seguì, cercando di mostrare un atteggiamento ottimista.
«Senti, Sonny, sono solo tre ragazzi. Si stancheranno e usciranno. Smith sa cosa fare. Nasconderà la nostra roba. Quelli si arrendono, la polizia li arresta e la cosa finisce lì. Non c'è motivo per cui la polizia debba perquisire la casa.» Sonny non lo stava ascoltando. Pensava a suo padre. Un tempo Frank Sinatra viveva lì, su quella strada, nella casa che aveva fatto ristrutturare con l'idea di ricevere John Kennedy, spendendo duecentomila dollari per rimetterla a nuovo solo perché lui e "The Man" potessero godersi qualche ragazza sul bordo della piscina mentre discutevano di affari; aveva gettato via tutti quei soldi solo per vedersi scaricare da JFK che, dopo che gli assegni erano stati firmati e il lavoro ultimato, si era rifiutato di fargli visita. Pare che allora Sinatra andò su tutte le furie, si mise a sparare contro le pareti, gettò i mobili in piscina, urlando che gli avrebbe sparato di persona a quel figlio di puttana del presidente degli Stati Uniti. Chissà come, si era messo in testa che Kennedy avrebbe accettato di diventare culo e camicia con un cantante in odore di amicizie mafiose. La casa di Sonny Benza era un po' più in alto sulla collina rispetto alla vecchia residenza di Sinatra, e più grande, ma suo padre era rimasto molto colpito dalla casa del cantante. La prima volta che era andato da lui era sceso a piedi lungo la strada, vi si era fermato davanti ed era rimasto a guardarla come se fossero vestigia dell'impero romano. "La cosa migliore che io abbia mai fatto, Sonny, è stata di cedere le redini a te. Guarda quanta strada hai fatto, e ora vivi nello stesso quartiere di Francis Albert." I persiani che allora vivevano nella casa si erano così spaventati per la presenza del padre di Sonny che avevano chiamato la polizia. «Sonny?» Benza si voltò a guardare l'amico. Tuzee era sempre stato la persona a lui più vicina, fin da quando erano ragazzi. «I registri non mostrano solo le nostre attività, Phil. Indicano da dove arrivano i soldi, come li ricicliamo e come li dividiamo con le famiglie dell'altra costa. Se la polizia mette le mani su quei dati, non saremo gli unici a cadere. Anche la costa orientale prenderà una bella batosta.» Phil Tuzee espirò come se fosse sul punto di crollare. Sonny si voltò verso gli altri. Lo guardavano. Aspettavano ordini. «Okay. Sono solo ragazzi. La polizia gli darà il tempo di calmarsi, di capire che sono in trappola e che l'unica via d'uscita è arrendersi. Nel giro di due ore al massimo usciranno con le mani alzate e finiranno alla stazione
di polizia per fare la loro brava deposizione. Fine della storia.» A sentirlo dire così, aveva senso. «Ma questa è l'ipotesi migliore. Nella peggiore, potrebbe esserci un bagno di sangue. E quando tutto è finito, gli investigatori entrano per raccogliere le prove e se ne escono con il computer di Smith. Se dovesse succedere, noi finiamo in galera per il resto dei nostri giorni.» Guardò i suoi uomini, uno per uno. «Sempre che viviamo abbastanza a lungo da finire sotto processo.» Salvetti e Tuzee si scambiarono un'occhiata, ma nessuno dei due aggiunse una parola, perché sapevano che era vero. Le famiglie della costa orientale li avrebbero uccisi. «Forse dovremmo avvertirli» disse Tuzee. «Chiamiamo il vecchio Castellano e gli raccontiamo come stanno le cose. Potremmo tenerli buoni per un po'.» Salvetti alzò le mani al cielo. «Per carità! Non se ne parla nemmeno. Andrebbero fuori di testa e ci salterebbero addosso.» Sonny era della stessa idea. «Sally ha ragione. Dobbiamo occuparci al più presto di questo problema con Smith, e risolverlo prima che quei bastardi di Manhattan lo vengano a sapere.» Sonny tornò a guardare i televisori, riflettendo. Controllo e riservatezza. «Sotto che giurisdizione cade? Polizia di Los Angeles?» Salvetti emise un grugnito. Come Phil Tuzee, si era laureato in legge alla University of South California - gli studi se li era pagati rubando auto e vendendo cocaina - e conosceva bene il codice penale. «Bristo Camino è una municipalità autonoma nella Canyon Country. E hanno il loro Dipartimento di polizia: dieci, quindici agenti in tutto. Stiamo parlando di un foruncolo sul culo di Los Angeles.» Tuzee scosse il capo. «Questo non ci aiuta. Se la polizia locale non ce la fa da sola, chiamerà lo sceriffo, se non addirittura i federali. Ci manca solo questo, i federali. In un modo o nell'altro, non si tratta di qualche poliziotto di campagna.» «Questo è vero, Phil, ma tutto dovrà passare attraverso la polizia di Bristo, perché la giurisdizione resta comunque la loro. Hanno un capo della polizia. Anche se passa il controllo ad altri, il capo resta sempre lui.» Sonny si girò verso gli schermi. Una telecamera stava inquadrando la casa dalla strada. A Sonny parve di vedere qualcuno muoversi dietro una
finestra, ma non ne era certo. «Questo capo della polizia, come si chiama?» Salvetti lanciò un'occhiata ai suoi appunti. «Talley. L'ho visto quando lo intervistavano.» La telecamera passò a inquadrare tre poliziotti accucciati dietro un'autopattuglia. Uno di loro stava indicando con il dito il lato della casa, come se stesse impartendo degli ordini. Sonny si chiese se quello fosse Talley. «Mandiamo là qualcuno dei nostri. Quando arrivano gli uomini dello sceriffo e i federali, voglio sapere chi li comanda e se si è mai occupato di crimine organizzato.» In quel caso, avrebbe dovuto prestare molta attenzione a chi mandava sul posto. «Ci ho già pensato, Sonny. Sono per strada, gente pulita, nessuno che possa essere riconosciuto.» Benza annuì. «Voglio sapere tutto quello che esce da quella casa. Voglio sapere chi sono i tre stronzi che hanno combinato questo casino. Quel bastardo di Smith potrebbe parlare, anche solo per salvare se stesso e la sua famiglia. Potrebbe spifferare tutto.» «Non è così stupido.» «Be', io voglio esserne sicuro, Phil.» «Ho capito. Me ne occupo io.» Sonny Benza continuò a osservare i tre poliziotti accucciati al riparo dietro l'autopattuglia. Quello che lui pensava fosse il capo della polizia stava parlando a un telefono cellulare. Non aveva mai ammazzato un poliziotto perché era dannoso per gli affari, ma adesso non avrebbe esitato un attimo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Anche se questo significava ammazzare un poliziotto. «Voglio sapere di questo Talley. Scopri tutto quello che c'è da scoprire, e come possiamo fare pressioni su di lui. Prima di stasera voglio averlo in pugno.» «Tranquillo, Sonny. Consideralo già fatto.» «Sarà meglio per tutti.» Parte seconda LA MOSCA 6
Venerdì, 18.17 TALLEY Due degli agenti di Talley incaricati del turno di notte, Fred Cooper e Joycelyn Frost, arrivarono a bordo delle loro auto personali. Cooper era senza fiato, come se fosse venuto di corsa da casa sua, a Lancaster; Frost non aveva neppure perso tempo a indossare l'uniforme: si era infilata il giubbotto antiproiettile e il cinturone con la fondina sopra una maglietta di cotone e un paio di calzoncini sformati che lasciava scoperte le gambe pallide come la pasta di pane cruda. Raggiunsero Campbell e Anders sulla strada. Talley sedeva immobile a bordo della sua auto. Quando era ancora con la Swat e veniva chiamato a risolvere situazioni simili, in cui qualcuno si era barricato all'interno di un edificio con degli ostaggi, l'unità di crisi era formata da una squadra tattica, una di negoziatori, una che gestiva le comunicazioni, più i supervisori che coordinavano tutte le operazioni. Già solo la squadra dei negoziatori comprendeva un supervisore, un agente incaricato di raccogliere informazioni e condurre interrogatori, un primo negoziatore per trattare con il soggetto, un secondo negoziatore con il compito di prendere appunti e tenere nota di tutto, più uno psicologo di sostegno per valutare la personalità del soggetto e suggerire le adeguate tecniche di trattativa. Ora Talley poteva contare solo su se stesso e una manciata di agenti privi di qualsiasi preparazione. Chiuse gli occhi. Sapeva che quelli erano i primi momenti di panico. Si costrinse a concentrarsi sulle cose fondamentali da fare: isolare la zona, raccogliere informazioni, tenere calmo Rooney. Solo questo, finché non fossero arrivati gli uomini dello sceriffo a prendere in mano la situazione. Talley ripassò mentalmente l'elenco: era l'unico modo per impedire che la testa gli esplodesse. Sarah lo chiamò via radio. «Capo?» «Parla, Sarah.» «Mikkelson e Dreyer hanno la registrazione video del sistema di sicurezza del minimarket. Dicono che i tizi si vedono perfettamente, come un punto nero sul naso.»
«Stanno venendo qui?» «Sì. Arriveranno fra cinque minuti. Forse meno.» Pensando alla cassetta, Talley cominciò a rilassarsi: era qualcosa di concreto su cui concentrarsi. Vedere Dennis Rooney e gli altri soggetti avrebbe reso più facile decifrare i contenuti emotivi nella voce del ragazzo. Non aveva mai rischiato la vita di un ostaggio basandosi sul proprio intuito, ma era convinto che ci fossero sottili indizi di punti deboli, o di forza, che un negoziatore accorto poteva decifrare. Quella era una cosa che sapeva, che gli era familiare. I suoi quattro agenti lo fissavano. In attesa. Talley scese dall'auto e si avviò verso di loro. Metzger aveva un'espressione sulla faccia come per dire: "Era ora". Avevano bisogno di un posto in cui visionare la cassetta. Talley incaricò Metzger di occuparsene, quindi assegnò gli altri compiti: qualcuno doveva scoprire se gli Smith avessero dei parenti nella zona e, in quel caso, avvertirli; poi dovevano rintracciare la signora Smith in Florida. Gli uomini dello sceriffo avrebbero avuto bisogno di una piantina della casa e di sapere se questa fosse dotata di qualche impianto di allarme; se non ne avessero trovato una copia all'ufficio del catasto, qualche vicino avrebbe potuto farne uno schizzo. Inoltre bisognava scoprire, sempre tramite i vicini, se qualcuno degli Smith aveva bisogno di farmaci salvavita. Talley cominciò a sentirsi a proprio agio nel familiare svolgersi dell'azione. Era un lavoro che aveva già fatto altre volte, finché non ne era stato annientato. Stava terminando di assegnare gli incarichi quando arrivarono Mikkelson e Dreyer con la cassetta. Li incontrò in una grande casa in stile mediterraneo, proprietà di una donna corpulenta dall'aspetto solare, originaria del Brasile, la signora Pena. Talley si identificò come capo della polizia e la ringraziò per la sua collaborazione. Lei li accompagnò in un soggiorno spazioso, spiegando come funzionava il videoregistratore. Mikkelson inserì la cassetta. «Abbiamo guardato il nastro da Kim per essere sicuri di avere qualcosa. L'ho fermato al momento dell'irruzione.» «Hai trovato qualcosa a carico di Rooney? Arresti o multe della Stradale?» «Sì, signore.» Dreyer aprì il blocchetto delle multe. Talley vide che aveva scarabocchiato gli appunti sopra una contravvenzione, probabilmente mentre stava
guidando. «Dennis James Rooney. Ha un fratello più giovane di lui, Kevin Paul, diciannove anni. Vivono insieme ad Agua Dulce. Dennis ha appena scontato trenta giorni al Formicaio per una violazione di domicilio con furto, patteggiata in furto semplice. Ha molti precedenti, compresi furto d'auto, taccheggiamento, detenzione di droga, possesso di merce rubata, guida in stato di ubriachezza. Il fratello, Kevin, è stato in riformatorio per furto d'auto. Anche se in momenti diversi, sono stati entrambi in affidamento o sotto tutela dello Stato. Nessuno dei due ha terminato la scuola.» «Precedenti per reati violenti?» «Non c'è altro, a parte quello che le ho detto.» «Quando abbiamo finito qui, voglio che tu vada a parlare con il loro padrone di casa. Gente come questa è sempre in arretrato con l'affitto o fa troppo rumore, ed è possibile che il padrone di casa abbia dovuto richiamarli all'ordine. Nel caso, voglio sapere come hanno reagito. Scopri se l'hanno minacciato, magari tirando fuori un'arma, o se invece se ne sono stati calmi e tranquilli.» Talley sapeva che il comportamento precedente di un soggetto criminale era un buon modo per prevedere quello futuro. Era plausibile che persone che in passato avevano fatto ricorso alla violenza e all'intimidazione reagissero con percosse e minacce. Era il loro modo di affrontare lo stress. «Fatti dire dal padrone di casa se hanno un'occupazione, nel qual caso chiedi ai loro datori di lavoro di venire a parlare con me.» «Ricevuto.» Mikkelson si allontanò dal videoregistratore. «Siamo pronti, capo.» «Vediamo.» Lo schermo prese vita mentre la cassetta partiva. Le vivaci immagini a colori di una soap opera in lingua spagnola vennero quasi immediatamente sostituite dai muti fotogrammi in bianco e nero registrati dal sistema di sicurezza del minimarket di Junior Kim. Dall'inquadratura si capiva che la telecamera era montata in alto sulla destra rispetto al registratore di cassa, e inquadrava Junior Kim e una piccola zona dietro il bancone, che terminava sulla sinistra dell'inquadratura, mentre sulla destra si vedeva il primo scaffale. La telecamera offriva una veduta parziale del resto del negozio. Sulla parte inferiore destra dello schermo, dei numeretti bianchi riempivano la casella del contaminuti. «Okay. Eccoli che arrivano» disse Mikkelson. «Il tizio che crediamo sia
Rooney è entrato qualche minuto prima, poi è uscito. Qui dove inizia la registrazione saranno passati circa cinque minuti.» «Okay.» Un maschio di razza bianca, con i lineamenti affilati, che corrispondeva alla descrizione di Dennis Rooney aprì la porta e andò dritto verso Kim Junior. Insieme a lui entrò un altro maschio di razza bianca, con la faccia larga e una corporatura più massiccia. Il secondo uomo aveva il cranio rasato. «Questo è il fratello di Rooney?» «Sta per entrare il terzo uomo, quello che somiglia a Rooney.» Un terzo individuo apparve prima che Mikkelson finisse di parlare. Anche se era più basso e più magro, dalla somiglianza Talley capì che si trattava del fratello di Dennis Rooney, Kevin, che indossava una T-shirt dei Lemonheads. Kevin rimase ad aspettare vicino alla porta. Talley studiò le loro espressioni e il modo in cui si muovevano. Dennis era un bel ragazzo, con uno sguardo duro ma indeciso. Aveva una camminata arrogante e dinoccolata. Talley pensò che fosse tutta una posa, ma non avrebbe saputo dire se a beneficio degli altri o di se stesso. Kevin si appoggiava un po' su un piede un po' sull'altro, continuando a guardare ora Dennis ora la pompa di benzina davanti al negozio. Era chiaramente terrorizzato. Il tizio più grosso, invece, quello con la faccia piatta e larga, aveva occhi del tutto inespressivi. «Sappiamo chi è quello grosso?» «No, signore.» «La telecamera è nascosta?» «È appesa al soffitto, in bella vista, e questi tipi non si sono neppure preoccupati di indossare delle maschere.» Talley guardò il video senza la minima partecipazione. Nel periodo trascorso alla polizia di Los Angeles aveva visto almeno tre o quattrocento di queste registrazioni, tutte che riprendevano rapine finite in tragedia, proprio come stava per accadere con questa, e solo un rapinatore su venti si era preoccupato di nascondere il volto. Perlopiù non gliene importava, oppure non ci pensavano. I geni non si danno al crimine. Soltanto il primo video lo aveva scioccato. Aveva ventidue anni, era appena uscito dall'accademia ed era ancora un ufficiale giudiziario addetto alla sorveglianza delle persone in libertà vigilata. Aveva visto una ragazzina vietnamita di tredici anni entrare in un negozietto come quello, sparare a bruciapelo in faccia al vecchio commesso negro, e poi rivolgere la pistola verso l'unica
persona presente nel negozio, una donna latinoamericana incinta, di nome Muriel Gonzales. La donna era caduta in ginocchio, implorando con le mani alzate di essere risparmiata. La vietnamita le aveva poggiato la canna della pistola contro la fronte e, senza la minima esitazione, aveva fatto fuoco. Poi, con calma, era andata dietro il bancone e aveva ripulito la cassa, prima di avviarsi verso l'uscita. Giunta sulla porta, aveva esitato un attimo, quindi era tornata al bancone, dove aveva rubato una scatola di caramelle alla menta. Poi, scavalcato il corpo di Muriel Gonzales, era uscita. Talley era rimasto così scosso da quegli omicidi che nei due mesi successivi aveva seriamente pensato di dare le dimissioni. I fatti al minimarket di Kim erano avvenuti con altrettanta velocità: Rooney che solleva la camicia per far vedere la pistola, quindi salta oltre il banco. Kim si alza stringendo in mano una pistola. Talley si sentì sollevato nel vedere che Rooney aveva detto la verità: in tribunale non sarebbe servito a nulla, ma poteva essere utile per far leva sulla convinzione di Rooney di essere vittima della sfortuna. Al momento gli interessava solo questo: trovare degli elementi da poter usare per manipolare Dennis Rooney. La lotta fra Rooney e Junior Kim dura pochi secondi, poi Kim barcolla all'indietro, lasciando cadere la pistola e accasciandosi contro la macchina delle granite. Si vede chiaramente che Rooney è sorpreso. Salta di nuovo il banco e corre alla porta. Il tizio più grosso non si muove. Talley lo trovò strano. Kim è appena stato colpito, Rooney sta scappando, ma quello resta lì. La pistola di Junior Kim è caduta. Il terzo uomo se la infila in cintura, quindi si sporge oltre il banco, poggiando tutto il peso sulla mano sinistra. «Cosa sta facendo?» chiese Mikkelson. «Sta guardando Kim che muore.» Il volto pallido e molliccio dell'uomo si increspa. «Gesù, sta sorridendo» disse Mikkelson. Talley avvertì un prurito al petto e alla schiena. Fermò la cassetta, quindi la riavvolse fino al punto in cui il tizio non identificato si sporgeva in avanti. «Abbiamo bisogno della conferma che il più giovane è Kevin Rooney, e poi dobbiamo identificare il terzo soggetto. Fate sviluppare delle stampe dal video. Mostratele al padrone di casa di Rooney, ai vicini, a quelli che lavorano con lui. In questo modo potremmo riuscire a identificare velocemente anche l'altro uomo.» Mikkelson lanciò un'occhiata incerta in direzione di Dreyer. «Ehm, capo, come facciamo a fare delle stampe dal video?»
Talley imprecò sottovoce. A Los Angeles qualunque agente avrebbe portato la cassetta alla Scientifica di Glendale e un'ora dopo sarebbe stato di ritorno con tutte le stampe che desiderava. Talley pensò che forse il Dipartimento di polizia di Palmdale poteva avere l'apparecchiatura necessaria, ma ci si metteva un sacco di tempo per arrivare fin là, specialmente di venerdì sera. «Sai quel negozio di computer al centro commerciale?» «Certo. Quello che vende le PlayStation.» «Chiamali. Digli che hai un video e chiedi se possono stampare un'immagine. Se sanno come fare, portaglielo. Se ti dicono di no, chiama il negozio di apparecchiature fotografiche di Santa Clarita. Se neanche loro possono farlo, chiama Palmdale.» Talley indicò la mano del soggetto sconosciuto posata sul banco, e si voltò verso Cooper e Frost. «Avete visto dove mette la mano? Andate da Kim ad attendere gli uomini dello sceriffo e riferitegli questo. Loro saranno in grado di rilevare una bella serie di impronte.» «Sì, signore.» Talley disse loro di affrettarsi, quindi tornò in strada e salì in macchina. Pensò all'impressione che aveva ricavato sul conto di Rooney dal video e dalla loro conversazione. Quel ragazzo voleva essere "capito", ma anche dare di sé un'immagine esageratamente eroica: duro, virile, dominante. Talley decise che il giovane aveva pochissima autostima e desiderava ardentemente l'approvazione degli altri, oltre che tentare di dominare l'ambiente circostante. Era quasi certo che fosse un codardo che mascherava la sua mancanza di coraggio con un comportamento aggressivo. Talley concluse che avrebbe potuto usare le aspirazioni di Rooney a proprio vantaggio. Guardò l'orologio. Era ora. Talley aprì il cellulare e premette il pulsante di composizione automatica dell'ultimo numero chiamato. Il telefono in casa Smith prese a squillare. E andò avanti. Al decimo squillo, Rooney non aveva ancora risposto. Talley cominciò a preoccuparsi, immaginando una strage, anche se era molto più probabile che Rooney stesse facendo lo stronzo. Chiamò Jorgenson con la radio. «Jorgy, sta succedendo qualcosa nella casa?» Jorgenson era ancora accucciato dietro la sua auto in fondo al cul-de-sac. «Nada. Finora è tutto tranquillo. L'avrei chiamata se avessi sentito qualcosa.»
«Okay. Resta in linea.» Talley premette di nuovo il pulsante di ripetizione. Questa volta lasciò che il telefono suonasse almeno una dozzina di volte prima di chiudere. Quindi tornò alla radio. «Hai sentito qualche rumore provenire dalla casa?» «Mi è parso di sentir squillare il telefono.» «Vedi qualche movimento?» «No, capo. È tutto tranquillo.» Talley si chiese se Rooney si stesse rifiutando di rispondere al telefono. Nel corso del primo contatto si era dimostrato abbastanza ragionevole. Talley tornò nuovamente alla radio. «Chi c'è con gli uomini della Stradale?» Gli agenti della California Highway Patrol erano stati dispiegati in appoggio ai suoi uomini per rafforzare il controllo del perimetro della proprietà. Utilizzavano le proprie frequenze radio, diverse da quelle della polizia di Bristo. «Io.» «Digli di avanzare fino al confine della proprietà. Non voglio che si espongano, ma voglio che Rooney li veda. Falli prendere posizione sui lati est e ovest, e sul muro posteriore.» «Ricevuto. Me ne occupo subito.» Se Rooney non voleva rispondere al telefono, lui lo avrebbe costretto a chiamare. DENNIS Il denaro cambiava tutto. Dennis non riusciva a smettere di pensare al denaro. Ora non era più sufficiente scappare: voleva scappare con il denaro. Portò Mars a vedere l'armadio, mostrandogli le scatole piene di soldi che coprivano il pavimento. Dennis posò le mani sulle banconote per assaporare la sensazione vellutata. Si portò una mazzetta di banconote da cento dollari al naso e le fece frusciare, inalando l'odore della carta e dell'inchiostro, come pure quello più dolciastro lasciato dalle dita di chi le aveva maneggiate. Cercò di indovinare il numero di banconote per mazzetta. Almeno cinquanta, forse cento. Cinquemila dollari. Forse diecimila. Dennis non riusciva a smettere di toccarle, di accarezzarle. Più morbide di qualsiasi seno, più setose della coscia di una donna, più sexy del più sexy dei culi. Si voltò verso Mars con un sorriso così largo che gli vennero i crampi al-
le mascelle. «Qui dentro dev'esserci un milione di dollari, se non di più. Guarda, Mars! Questo posto è una banca!» Mars lanciò appena un'occhiata distratta al denaro. Andò in fondo alla stanzetta osservando il soffitto e il pavimento, battendo sulle pareti, quindi si mise a osservare i monitor, scostando le scatole con i piedi. «È una camera di sicurezza. Porta d'acciaio, pareti blindate, sistemi di allarme. È come un bunker. Se qualcuno fa irruzione dentro la casa, ti ci puoi nascondere. Chissà se ci fanno anche sesso qua dentro?» Dennis era seccato che Mars dimostrasse così poco interesse per tutti quei soldi. Lui, invece, avrebbe voluto farne un mucchio e tuffarcisi dentro nudo. «Ma chi se ne frega, Mars! Guarda quanti soldi! Siamo ricchi!» «Siamo intrappolati in una casa.» Dennis si stava incazzando. Quello era l'evento che avrebbe cambiato la sua vita, l'evento che, come lui aveva sempre saputo, lo stava aspettando. Quella casa, quel denaro, lì, adesso... quello era il suo destino e il suo fato; il momento che lo aveva trascinato per tutti gli anni della sua vita, che lo aveva spinto a rischiare, a commettere gesti violenti, che lo aveva fatto diventare la star del film della sua vita... e Mars voleva rovinargli la festa. Si infilò una mazzetta di banconote in tasca e si alzò. «Mars, ascolta, noi ci porteremo via questi soldi. Li metteremo dentro a qualcosa. Avranno pure delle valigie, delle borse di plastica.» «Non possiamo correre con una valigia.» «Troveremo un modo.» «Peserà un accidente.» Dennis si stava incazzando sempre di più. Diede un pugno nel petto a Mars. Era come colpire un muro, ma Mars distolse lo sguardo. Dennis aveva imparato che Mars si lasciava convincere solo se lo picchiavi. «Ce la faremo. Piuttosto ce li infiliamo su per il culo, ma non li lasceremo qui.» Mars annuì, adeguandosi, proprio come Dennis si aspettava. «Sono contento che tu abbia trovato i soldi, Dennis. Puoi tenere anche la mia parte.» Mars lo deprimeva. Dennis gli disse di tornare nello studio per controllare che Kevin non stesse facendo casini. Quando se ne andò, Dennis provò un senso di sollievo: quel tipo era strano e lo stava diventando sempre di più. Se non voleva i soldi, li avrebbe tenuti tutti lui.
Frugò negli altri armadi della camera finché non trovò una valigia Tumi nera, con la maniglia e le rotelle. Dennis la riempì di mazzette da cento, tutte banconote usate, usatissime, neppure una nuova. Quando la valigia fu piena, la trascinò in camera e la posò sul letto. Mars aveva ragione: non sapeva proprio come avrebbe potuto andarsene da lì trascinandosi dietro quell'affare. Non avrebbe potuto svignarsela da una finestra o scappare attraverso i cortili sul retro, ma avevano due auto e tre ostaggi. Dennis si rifiutava di credere di essere arrivato così vicino al proprio destino e doverselo lasciar sfuggire dalle mani. Tornò nello studio e trovò Mars che guardava la televisione. Mars alzò il volume. «Sei su tutti i canali, amico. Sei diventato una star.» Dennis si vide sullo schermo. I giornalisti avevano scovato una vecchia foto di un suo arresto, che ora campeggiava nell'angolo superiore destro dello schermo. Sembrava Charles Manson. L'inquadratura cambiò, sostituita da una veduta aerea della casa in cui si trovavano. Dennis vide le auto della polizia ferme in strada e due poliziotti accucciati dietro le ruote. Una conduttrice piuttosto figa stava dicendo che lui era stato recentemente rilasciato dal Formicaio. Dennis si scoprì di nuovo a sorridere. Qualcosa di indefinibile gli corse nelle vene, proprio come gli succedeva quando riusciva a rubare un'auto: in parte rabbia e furore, in parte eccitazione, in parte la splendida sensazione che il mondo intero si stesse congratulando con lui. Eccolo lì, con un milione di dollari tutti per lui, eccolo lì, in televisione. Era un grosso VAFFANCULO per i suoi genitori, per i suoi insegnanti, per i poliziotti, per tutti gli stronzi che lo avevano ostacolato. VAFFANCULO! Era arrivato. Era se stesso. Era meglio del sesso. «E vai! Vai così!» Andò alla porta. «Kevin! Vieni a vedere!» Il telefono si mise a squillare rompendo l'incantesimo. Doveva essere Talley. Dennis lo ignorò e tornò davanti al televisore. Gli elicotteri, i poliziotti, i reporter... erano tutti lì per lui. Quello era il Dennis Rooney Show, e lui aveva appena pensato a un finale: avrebbero usato i ragazzini come ostaggi e sarebbero arrivati al confine a bordo di quella grossa Jaguar luccicante, con gli elicotteri che riprendevano e trasmettevano dal vivo ogni istante del viaggio. Dennis diede un colpo sul braccio a Mars.
«Io so come faremo, amico. Useremo la Jaguar. Prendiamo i soldi e i bambini, e lasciamo qui il padre. La polizia ci lascerà in pace se abbiamo i ragazzini. Ce ne andiamo dritti a Tijuana.» Mars si strinse nelle spalle, calmo, la voce poco più che un sussurro. «Non funzionerà, Dennis.» Dennis si irritò nuovamente. «Perché no?» «Ci spareranno nelle gomme e poi un cecchino della polizia ti pianterà una pallottola in mezzo alla fronte da cento metri di distanza.» «Cazzate, Mars. O.J. Simpson se n'è andato in giro per ore.» L'inquadratura cambiò di nuovo, sostituita da una veduta aerea del minimarket circondato da macchine della polizia. L'immagine zumò lentamente intorno alle auto. Quel movimento gli fece venire la nausea, come quando viaggiava in macchina sul sedile posteriore. Osservò i poliziotti accucciati dietro le auto e temette che Mars avesse ragione a proposito dei cecchini. Era proprio il genere di giochetto che quegli stronzi della polizia erano capacissimi di fare. Stava ancora pensando a questo quando Kevin si mise a urlare dal suo punto di osservazione dietro le porte finestre. «Dennis! Qua fuori è pieno di poliziotti! Stanno arrivando!» Dennis dimenticò i cecchini e corse dal fratello. TALLEY Talley era nel cul-de-sac, in attesa dietro la sua auto, quando Dennis cominciò a urlare dall'interno della casa. Lo lasciò sfogare, poi aprì il cellulare e lo chiamò. Dennis rispose al primo squillo. «Bastardo! Di' a quei fottuti poliziotti di allontanarsi! Non li voglio così vicini!» «Calmati, Dennis. Stai dicendo che non ti va di vedere poliziotti intorno alla casa?» «Piantala di ripetere tutto quello che ti dico! Sai benissimo cosa voglio dire!» «Lo faccio solo per essere sicuro di aver capito bene. Non possiamo permetterci malintesi.» «Se quei bastardi cercano di entrare qui dentro, io faccio una strage! Li ammazzo tutti!»
«Nessuno ti farà del male, Dennis. Te l'ho detto anche prima. Ora dammi un minuto per capire cosa sta succedendo qua fuori, d'accordo?» Talley premette il tasto di attesa, escludendo Dennis dalla comunicazione. «Jorgy, sei con gli agenti sul perimetro della proprietà?» «Sì, signore.» «Sono ancora sui muri dove li abbiamo fatti mettere?» «Sì, signore. Due a nord sulla Flanders, altri due in ognuno dei cortili laterali sul retro.» Talley riaprì la comunicazione. «Dennis, sto controllando, d'accordo? Dimmi cosa vedi.» «Vedo dei fottuti poliziotti. Ce li ho qui davanti. Sono troppo vicini!» «Io non riesco a vederli da dietro la mia auto. Aiutami, okay? Dove sono?» Talley udì dei rumori attutiti, come se Rooney si stesse muovendo con il telefono. Si chiese se fosse un telefono senza fili. Come tutti i negoziatori che dovevano liberare degli ostaggi, odiava i cordless e i cellulari perché davano la possibilità di muoversi. Con gli apparecchi fissi si poteva stabilire una posizione certa. A quel punto sapevi dove si trovava il soggetto ogni volta che era al telefono con te. Se dovevi lanciare un'azione, conoscere con certezza la posizione del soggetto poteva salvare delle vite. «Sono tutt'intorno!» urlò Rooney. «Quei bastardi maledetti sono qui, su questa casa bianca. Sono sul muro! Falli scendere!» Talley premette nuovamente il tasto di attesa. La casa bianca era una costruzione moderna, di pianta estesa e irregolare, alla sua sinistra. Un cancello bloccava il vialetto d'accesso. La casa sul lato orientale alla destra di Talley era grigio scuro. Talley contò fino a cinquanta, poi riaprì la comunicazione. «Dennis, abbiamo un piccolo problema.» «Lo puoi ben dire, cazzo. Falli rientrare!» «Quelli sono uomini della Stradale, Dennis. Io appartengo al Dipartimento di polizia di Bristo Camino. Loro non lavorano con me.» «Stronzate!» «So già cosa mi diranno.» «Me ne sbatto di quello che ti diranno! Se superano il muro, qualcuno ci rimetterà la pelle! Ho degli ostaggi, qui dentro!» «Se dico a quei tizi che tu stai collaborando, loro saranno più disposti ad accontentarti. Questo lo capisci, vero? Qua fuori sono tutti preoccupati che
le persone che sono lì dentro stiano bene. Fammi parlare con il signor Smith.» «Ti ho detto che stanno bene.» Talley capì che le cose non stavano proprio come diceva Rooney, e questo lo preoccupò. Di solito, i soggetti che prendono in ostaggio delle persone acconsentono che queste dicano qualche parola, perché tenere in scacco la polizia li fa sentire potenti. Se Rooney non voleva lasciar parlare gli Smith significava che aveva paura di ciò che avrebbero potuto dire. «Dimmi cosa c'è che non va, Dennis.» «Non c'è niente che non va! Lascerò parlare quel figlio di puttana quando andrà bene a me, d'accordo? Sono io che comando, qui, non tu!» Sembrava così sotto pressione che Talley decise di fare marcia indietro. Se nella casa c'era qualcosa che non andava, non voleva peggiorare la situazione. Ma, dopo aver insistito perché Rooney gli facesse una concessione, doveva per forza ottenere qualcosa, altrimenti avrebbe perso credibilità. «D'accordo, Dennis. Per adesso va bene così. Ma devi pur darmi qualcosa in cambio se vuoi che quegli uomini si ritirino. Senti cosa ti propongo: tu mi dici chi hai lì con te. Mi dici solo i loro nomi.» «Lo sai di chi è la casa.» «Abbiamo sentito dire che insieme ai ragazzi potrebbero esserci dei loro amichetti.» «Se te lo dico, convincerai quegli stronzi a ritirarsi?» «Posso farlo, Dennis. Ho appena sentito il loro comandante. È d'accordo.» Dopo un attimo di esitazione, Rooney rispose. «Walter Smith, Jennifer Smith e Thomas Smith. Non c'è nessun altro.» Talley escluse di nuovo il microfono del cellulare. «Jorgy, di' a quelli della Stradale di scendere dal muro. Voglio che si appostino in modo da tener d'occhio la casa, ma che non stiano sul muro. Subito.» «Ricevuto.» Talley attese che Jorgenson avesse finito di parlare nel suo microfono, quindi riprese la comunicazione. «Dennis, cosa vedi?» «Si stanno ritirando.» «Okay. Sembra che ci siamo riusciti, tu e io. Siamo riusciti a fare qualcosa, Dennis. Va bene così.»
Talley voleva che Rooney avesse l'impressione che, insieme, erano riusciti a raggiungere un obiettivo, come se fossero una squadra. «Tienili lontani. Non mi piace averli così addosso. Se scavalcano il muro, la gente che è qui morirà. Capisci cosa sto dicendo? Guarda che con me non si scherza.» «Ti do la mia parola fin da ora. Non entreremo. Non scavalcheremo quel muro, a meno che qui qualcuno non pensi che tu stia facendo del male a quella gente. Voglio essere franco, con te. Se dovessimo pensare che tu stia per fare del male a quelle persone, entreremo senza preavviso.» «Se state lontani non farò male a nessuno. Semplice.» «Bene, l'importante è restare calmi.» «Tu la vuoi questa gente, Talley? La vuoi sana e salva? Ora?» Talley sapeva che Rooney stava per fare la sua prima richiesta. Poteva essere una cosa innocente come un pacchetto di sigarette, oppure eccessiva, come una telefonata dal presidente. «Lo sai benissimo.» «Voglio un elicottero con il serbatoio pieno che ci porti in Messico. Tu mi fai avere l'elicottero e ti prendi queste persone.» Negli anni passati alla Swat, Talley aveva ricevuto richieste di elicotteri, jet, limousine, autobus, macchine e, una volta, persino di un disco volante. A tutti i negoziatori veniva insegnato che certe pretese non erano trattabili: armi, munizioni, droga, alcol, mezzi di trasporto. Non si doveva mai dare a un soggetto la speranza di poter fuggire. Bisognava tenerlo isolato. In quel modo si spezzava la sua resistenza. Talley rispose senza alcuna esitazione, cercando di risultare ragionevole ma fermo, facendo capire a Rooney che il suo rifiuto non era poi la fine del mondo e, soprattutto, non era frutto di un braccio di ferro. «Questo non posso farlo, Dennis. Non accetteranno mai di darti un elicottero.» La voce di Rooney si fece ancora più nervosa. «Io ho queste persone.» «Lo sceriffo non li scambierà con un elicottero. Hanno le loro regole su queste cose. Potresti chiedere anche una corazzata, ma non te la daranno comunque.» Quando parlò di nuovo, Rooney sembrava meno sicuro di sé. «Tu chiediglielo.» «Non potrebbe neppure atterrare, qui, Dennis. E poi il Messico non significa la libertà. Anche se avessi l'elicottero, la polizia messicana ti arresterà non appena toccherai terra. Non siamo nel Far West.»
Talley voleva spostare la conversazione su un altro argomento. Rooney avrebbe continuato a rimuginare sull'elicottero, ma lui voleva dargli qualcos'altro a cui pensare. «Ho visto il nastro registrato dalla telecamera del sistema di sicurezza del minimarket.» Rooney esitò, come se gli ci volesse un momento per rendersi conto di cosa stava parlando, ma poi la sua voce suonò apprensiva e speranzosa. «Hai visto il cinese che tirava fuori la pistola? L'hai visto?» «Proprio come avevi detto tu.» «Tutto questo non sarebbe successo se lui non avesse estratto quella pistola. Mi sono quasi cagato addosso per la paura.» «Quindi non c'è stata premeditazione. È questo che mi stai dicendo, che non avevi progettato quanto è successo?» Rooney voleva essere considerato una vittima della situazione, quindi Talley gli stava inviando un sottile messaggio per fargli capire che simpatizzava con lui. «Noi volevamo solo rapinare il negozio. Lo ammetto. Ma poi questo cazzo di cinese tira fuori una pistola. Dovevo difendermi, no? Non volevo sparargli. Stavo solo cercando di togliergli la pistola di mano perché non sparasse a me. È stato un incidente.» Dalla voce di Rooney era sparita quella nota polemica. Talley sapeva che era la prima indicazione che il giovane cominciava a considerarlo dalla sua parte. Abbassò la voce, per fargli capire che ciò che stava per dire doveva restare fra loro. «Gli altri due possono sentirmi?» «Perché lo vuoi sapere?» «So che potrebbero essere lì con te, quindi non devi per forza rispondere alle mie domande, Dennis. Limitati soltanto ad ascoltare.» «Cosa stai dicendo?» «So che sei preoccupato di quello che potrebbe accadere perché avete sparato all'agente. Ci ho pensato, sai, e ho una domanda da farti. Lì dentro, ha sparato qualcun altro, a parte te? Mi basta un sì o un no, se non puoi dire altro» Talley conosceva già la risposta da Jorgenson e Anders. Lasciò che la domanda restasse sospesa nell'aria. Sentiva il respiro di Rooney. «Sì.» «Allora, forse non sono stati i proiettili della tua pistola a colpire l'agente. Forse non sei stato tu a sparargli.»
Talley si era spinto fin dove era possibile. Aveva insinuato che Rooney avrebbe potuto cavarsela dando la colpa a qualcun altro. Gli aveva indicato una via d'uscita. Ora doveva fare un passo indietro e lasciare a lui la possibilità di decidere se varcare o meno quella soglia. «Dennis, voglio darti il mio numero di cellulare. Così puoi chiamarmi in qualsiasi momento, senza dover gridare dalla finestra.» «Buona idea.» Talley gli diede il numero, e gli disse che avrebbe fatto un'altra pausa, quindi ancora una volta uscì in retromarcia dal cul-de-sac. Leigh Metzger lo stava aspettando in strada davanti alla casa della signora Pena. Non era sola. Con lei c'erano la moglie e la figlia di Talley. Pronto soccorso del Santa Monica Hospital Santa Monica, California Quindici anni prima L'agente Jeff Talley, senza camicia ma con indosso i pantaloni blu dell'uniforme strappati e intrisi di sangue, per prima cosa viene attirato dalle sue caviglie. Lui va pazzo per le belle caviglie. È seduto su una barella, la mano straziata infilata in una scodella piena di ghiaccio per ridurre il gonfiore e calmare il dolore mentre aspetta che lo portino a fare i raggi. Il suo compagno, un agente anziano di nome Darren Consueto, sta mettendo al sicuro nel portabagagli dell'auto di pattuglia la pistola di Talley, la radio, il cinturone e altre attrezzature. L'infermiera sbuca da una porta e attraversa la stanza, tutta presa da qualcosa che sta annotando su una cartellina rigida. È vestita di bianco, con un grembiule azzurro, i capelli scuri raccolti in una coda di cavallo. Le caviglie lo colpiscono perché non sono nascoste dalle pesanti calze bianche che le infermiere indossano di solito: sono snelle, forti, abbronzate. Ha le gambe di una ginnasta o di una velocista, cosa che a Talley piace molto. La guarda meglio: bel fondoschiena, corpo snello, spalle larghe per la corporatura minuta. E poi vede il suo viso. Dimostra più o meno la sua età: ventitré, ventiquattro anni. «Infermiera?» Quando lei si volta a guardarlo lui fa una smorfia, cercando di apparire molto sofferente. In realtà, non sente neppure la mano. Lei riconosce i pantaloni e le scarpe della polizia, e gli rivolge un sorriso di incoraggiamento.
«Come va, agente?» Non è bella, si potrebbe dire graziosa, con una pelle liscia e l'aspetto sano, e un'espressione dolce che lo colpisce. I suoi occhi emanano un calore che lo rincuora. «Ah, infermiera...» Legge il suo nome sulla targhetta. Jane Whitehall. «Jane... dovevano portarmi a fare i raggi, ma sono qui da un'eternità. Potrebbe informarsi?» Fa un'altra smorfia, cercando di impressionarla con le sue sofferenze. «So che oggi sono molto indietro, ma vedo cosa posso fare. Cos'è successo?» Lui solleva la mano dal ghiaccio ormai diventato rosa. Il polpastrello del dito medio è dilaniato. I margini della ferita sono blu per il freddo, ma il sanguinamento è quasi del tutto cessato. L'infermiera Whitehall sorride comprensiva. «Oh, brutta ferita!» Talley annuisce. «Ho rincorso un presunto stupratore in un cortile a Venice. Il tizio mi ha aizzato contro il suo pit bull. Sono fortunato ad avere ancora la mano.» L'infermiera Wliitehall rimette con attenzione la mano nel ghiaccio. Il suo tocco è caldo e deciso come il suo sguardo. «Lo ha preso?» «Sì. Si è difeso, ma ce l'ho fatta. A me non sfuggono mai.» Sorride per farle capire che sta scherzando, e lei contraccambia il sorriso. Talley pensa di essere sulla buona strada ed è sul punto di dirle che è stato appena ammesso al corso per diventare un agente della Swat quando arriva Consueto con la sua andatura pesante, una Diet Coke e due barrette di cioccolato in mano. Come sempre, puzza di sigarette. «Cristo, sei ancora lì? Non ti hanno ancora scattato la foto?» Talley prende la Diet Coke, sperando che in quel modo il suo compagno torni al distributore di bibite. Vuole restare solo con l'infermiera. «Sono indietro con il lavoro. Puoi aspettarmi nella caffetteria, se vuoi. Vengo a cercarti quando ho finito qui.» L'infermiera Whitehall rivolge un sorriso gentile a Consuelo. «Vado a vedere a che punto sono con i raggi.» Consuelo grugnisce, seccato di dover passare la giornata al pronto soccorso. «Già che c'è, prenda anche una boccetta di pillole contro l'imbranatag-
gine per il mio amico. Di quelle forti.» «Vai, aspettami alla caffetteria» si affretta a dire Talley. L'infermiera Whitehall piega la testa di lato, perplessa, interrogandosi sul significato di quelle parole. «Era con lui quando il pit bull lo ha attaccato?» «È questo che le ha detto a proposito della mano?» Talley avverte una vampata al collo. Guarda Consuelo negli occhi, con una silenziosa implorazione d'aiuto. «Già, lui era là. Quando abbiamo arrestato lo stupratore a Venice.» Consuelo scoppia in una risata fragorosa, spruzzando caramello e noccioline per tutta la barella. «Uno stupratore? Un pit bull? Questo scemo si è schiacciato il dito nella portiera dell'auto.» Consuelo si allontana, con la sua risata gorgogliante da fumatore. Talley vorrebbe infilarsi sotto la barella e scomparire. Quando alza nuovamente gli occhi, vede che l'infermiera lo sta guardando. Talley si stringe nelle spalle, cercando di scherzarci su. «Ci ho provato.» «Davvero si è fatto male in quel modo? Si è chiuso la mano nella portiera dell'auto?» «Non è molto eroico, vero?» «No.» «Be', è andata così.» L'infermiera fa qualche passo per allontanarsi, poi si ferma, si volta e lo guarda con un'espressione profondamente confusa. «Devo essere pazza» Lo bacia proprio mentre due medici e un'altra infermiera escono dall'ascensore. Talley l'attira a sé, baciandola con passione, proprio come fa la sera del loro appuntamento al Rod and Gun Club dell'Accademia di polizia, e tutte le sere seguenti. Nell'attimo in cui vede il calore del suo sguardo, Jeff Talley si innamora. Dopo tre mesi e un giorno si sposano. TALLEY Talley si sentiva imbarazzato e in collera con se stesso. Era stato così occupato da dimenticarsi di Jane e Amanda. Controllò che la batteria del cellulare fosse ancora carica, quindi se lo infilò in tasca e andò da loro.
Amanda assomigliava a sua madre: tutte e due piccole di statura, anche se Amanda era un poco più alta, tutte e due magre. Avevano in comune quella che lui considerava la loro caratteristica più significativa: un volto talmente espressivo da essere lo specchio dell'anima. Talley era sempre stato in grado di leggere i sentimenti di Jane: all'inizio, quando tutto andava bene, era una bella cosa, ma verso la fine, l'evidente riflesso di dolore e confusione era andato ad aggiungersi a un peso già di per sé insopportabile. Talley baciò la figlia, che rispose con il calore di un asciugamano bagnato. «Sarah ci ha detto che ci sono degli uomini armati barricati in una casa! Dove sono?» Talley indicò il cul-de-sac. «In fondo a quella strada, dietro l'angolo. Vedi gli elicotteri?» Il frastuono dei velivoli rendeva difficile capirsi. Amanda si guardava intorno con occhi sgranati ed eccitati, ma Jane aveva un'aria tirata e profonde occhiaie scure. Talley pensò che fosse stanca, e provò una fitta di rimorso e vergogna. «Stai facendo gli straordinari?» le chiese. «Non molti. Due sere la settimana.» «Hai l'aria stanca.» «Significa che sembro anche più vecchia?» «Gesù, Jane! Non intendevo questo. Scusami.» Lei chiuse gli occhi e annuì, ma la sua espressione diceva che si erano già trovati a fare quel discorso. Per non restare in strada, Talley le accompagnò dentro la casa della signora Pena. La cucina era invasa dall'aroma ricco di caffè appena fatto e di enchiladas al formaggio. La signora Pena aveva messo sul tavolo una brocca d'acqua fresca e alcune lattine di bibite, insistendo perché gli agenti si servissero, e ora stava preparando da mangiare. Talley le presentò Jane e Amanda, quindi accompagnò moglie e figlia in soggiorno. Il grosso televisore trasmetteva immagini in diretta. Amanda si avvicinò. «Sarah ha detto che hanno degli ostaggi.» «Un uomo e i suoi figli. Pensiamo che non ci sia nessun altro, ma non è sicuro. La ragazzina ha la tua età.» «Accidenti! Possiamo andare a vedere la casa?» «No, non si può.»
«Ma tu sei il capo della polizia. Perché no?» «È la scena di un crimine, Mandy. È pericoloso» disse Jane. Talley si voltò verso la moglie. «Avrei dovuto avvertirti, Jane. Ma è successo tutto subito dopo che ci siamo parlati, e così in fretta che non ci ho neppure pensato. Mi dispiace.» Jane gli sfiorò il braccio. «Come stai?» «Credo che quel tizio si convincerà. Gli ho parlato al telefono: è spaventato, ma non mi sembra che abbia intenzione di suicidarsi.» «Non voglio sapere com'è la situazione, capo. Voglio sapere di te.» Lei lanciò un'occhiata alla mano che gli teneva posata sul braccio, poi tornò a guardarlo negli occhi. «Stai tremando.» Talley si spostò di un passo, in modo che la mano di lei cadesse. Poi lanciò un'occhiata allo schermo. Si vedeva Jorgenson accucciato dietro l'autopattuglia. «Subentreranno gli uomini dello sceriffo, appena saranno arrivati.» «Ma non ci sono ancora. Ci sei tu. E io lo so l'effetto che ha su di te.» «Arriveranno quando arriveranno, Jane. Io sono il capo della polizia. È così.» Lei lo guardò come faceva quando cercava un significato recondito dietro le sue parole. Era una cosa che lo mandava in bestia. Mentre il viso di Jane era un libro aperto, il volto di lui era impassibile e non lasciava trapelare nulla. Lei lo aveva accusato spesso di indossare una maschera, e lui non era mai riuscito a spiegarle che non si trattava di una finzione. Era quel rigido autocontrollo che gli impediva di crollare. Lui distolse lo sguardo. Gli faceva male vedere la sua preoccupazione. «Va bene, Jeff. Sono solo preoccupata per te, tutto qui.» Talley annuì. «Dovreste mangiare qualcosa prima di ripartire. Così anche il traffico sarà diminuito. Cosa ne dici del ristorante thailandese? Ti piaceva, no?» Jane assunse un'espressione seria, poi annuì. «Si potrebbe fare. Non ho motivo di tornare a casa di corsa.» «Bene.» «Non voglio mollarla a casa tua e lasciarla là tutta sola. Cosa ne dici se io e lei andiamo a mangiare qualcosa, e poi ci fermiamo tutt'e due? Noleggiamo una cassetta. Se la cosa si risolve in nottata, domani a quest'ora tu e Mandy ci riderete sopra.»
Talley era imbarazzato. Annuì, ma solo perché non sapeva cosa dire. Vide che Jane aveva tinto i capelli di un colore nuovo. Da sempre se li tingeva di un bel castano profondo, ma ora erano di un rosso così scuro da sembrare quasi nero. Se li era anche tagliati, un bel taglio piuttosto corto, quasi maschile. Talley si rese conto che quella donna meritava più di quanto lui avrebbe mai potuto darle. Si disse che, se ancora teneva a lei e a ciò che avevano vissuto insieme, avrebbe dovuto lasciarla libera e non gettarle addosso il peso di un uomo il cui cuore era morto. «Cosa c'è?» Lui distolse nuovamente lo sguardo. «Tu e io dobbiamo parlare.» Per un attimo lei non rispose, limitandosi a guardarlo finché l'ombra di un sorriso non le passò sulle labbra. Talley capì che era spaventata. «Va bene, Jeff.» «Gli uomini dello sceriffo saranno qui tra poco. Quando si saranno sistemati passo a loro il telefono e poi dovrei essere libero di venire via.» Jane annuì. Talley avrebbe voluto dirglielo in quel momento. Avrebbe voluto dirle che era libera, che lui non voleva più trattenerla e che aveva capito di essere andato oltre ogni possibilità di redenzione. Ma non gli venivano le parole, e questo lo fece sentire un codardo. Ordinò a Metzger di scortare la moglie e la figlia fuori dal complesso residenziale, quindi tornò alla sua auto ad aspettare l'arrivo degli uomini dello sceriffo nella luce morente del giorno. Venerdì, 19.02 Santa Clarita, California Nove chilometri a ovest di Bristo Camino Chill's Restaurant GLEN HOWELL Non c'era bisogno che Glen Howell ricordasse ai suoi uomini di parlare a bassa voce; erano circondati da famigliole bianche della classe media, venute a ingozzarsi di gamberetti surgelati e formaggio fuso a prezzi popolari, gente che Glen Howell considerava degli zombi: donne e uomini frustrati, alla fine di un'altra inconcludente settimana, che facevano di tutto per ignorare che i loro bambini grassi, urlanti e maleducati erano dei mo-
stri. Howell proibì ai quattro uomini e alle due donne di ordinare alcolici o piatti che non fossero già pronti. Non aveva tempo da perdere aspettando i comodi dei cuochi in cucina, ex detenuti in libertà sulla parola, e l'alcol avrebbe fatto venir loro sonno, mentre lui aveva bisogno che fossero ben svegli. Howell li aveva convocati uno per uno, personalmente, dopo aver vagliato ogni nome insieme a Sonny Benza. Erano collaboratori da lungo tempo, in grado di fare ciò che doveva essere fatto senza attirare l'attenzione, e in fretta. Dalle notizie che gli giungevano, la velocità era determinante. La velocità e il totale controllo della scena. Sapeva già che non avrebbe potuto concedersi un minuto di sonno finché la vicenda non si fosse conclusa. Ken Seymore, che aveva passato le ultime due ore fingendosi un reporter del "Los Angeles Times", stava dicendo: «Hanno richiesto un'unità di crisi al completo all'Ufficio dello sceriffo di Los Angeles. Stanno venendo qui, ma hanno avuto qualche problema e sono in ritardo». Duane Manelli sparò una domanda a bruciapelo. Manelli parlava a scatti improvvisi, un po' come un M16A2 che faceva partire raffiche di tre colpi. «Quante persone ci sono?» «Nella squadra dello sceriffo?» «Sì.» Quando Duane Manelli aveva diciotto anni, un giudice del tribunale statale gli aveva dato la possibilità di scegliere tra arruolarsi nell'esercito o farsi venti mesi di galera per rapina a mano armata. Manelli aveva scelto l'esercito, e gli era piaciuto. Ci aveva passato dodici anni, nelle truppe aviotrasportate, nei ranger e infine nelle forze speciali. Ora gestiva la migliore banda di contrabbandieri di tutta l'organizzazione di Sonny Benza. Seymore guardò gli appunti. «Dunque, ecco cosa ci dobbiamo aspettare: una squadra di comando, un gruppo di negoziatori, una squadra tattica - composta da agenti addetti al controllo del perimetro, una squadra d'assalto, cecchini e demolitori - e una squadra per la raccolta delle informazioni. Alcune di queste persone potrebbero rivestire un doppio incarico, ma in linea di massima dovrebbero arrivare circa trentacinque persone.» Qualcuno fece un fischio. «Accidenti, quando ci si mettono, fanno le cose in grande.» LJ Ruiz si sporse in avanti, poggiato sui gomiti, la fronte aggrottata. Ruiz era un tipo tranquillo, dai modi pacati, che lavorava per Howell come
"persuasore". Era specializzato nel terrorizzare i proprietari di bar finché non accettavano di acquistare gli alcolici dai grossisti approvati da Benza. «Cos'è un demolitore?» «Se c'è bisogno di far saltare una porta o una finestra, i demolitori sistemano la carica. Frequentano un corso speciale, per questo.» A Howell non piaceva che stessero arrivando così tanti poliziotti, ma se lo aspettava. Seymore aveva riferito che per il momento non erano stati chiamati i federali, ma Howell sapeva bene che con il passare del tempo le probabilità di averli tra i piedi aumentavano. Chiese quando sarebbero arrivati gli uomini dello sceriffo. «Il poliziotto con cui ho parlato ha detto fra tre ore, massimo quattro.» Howell guardò l'orologio, poi fece un cenno con il capo in direzione di Gayle Devarona, una delle due donne sedute al tavolo. Come Seymore, anche lei si era finta giornalista in modo da poter fare liberamente delle domande. Se queste erano troppo sfacciate, usava la sua abilità di ladra. «Cosa mi dici della polizia locale?» «Abbiamo sedici persone, di cui quattordici agenti di polizia, alcuni part-time, altri in servizio pieno, più due persone che fanno lavoro d'ufficio. Ho i loro nomi e l'indirizzo di alcuni. Avrei potuto procurarmeli tutti, ma ho dovuto interrompere per venire qua.» Seymore scoppiò a ridere. «Ah, che stronza!» «Fottiti.» Howell ordinò loro di smetterla. Non c'era tempo per le cazzate. Gayle Devarona strappò un foglio da un taccuino giallo e glielo passò. «Mi sono fatta dare i nomi dall'ufficio della polizia di Bristo. Gli indirizzi e i numeri di telefono li ho avuti da un contatto nella società dei telefoni.» Howell scorse l'elenco scritto a mano con cura. Il nome di Talley era il primo della lista, completo di indirizzo e due numeri di telefono. Howell pensò che il primo fosse quello di casa, l'altro del cellulare. «Hai qualche informazione su queste persone che ci faccia capire con chi abbiamo a che fare?» La donna riferì i dati in suo possesso, che facevano assomigliare Bristo a un ricovero per vigilesse addette ai tassametri e ritardati mentali. In realtà non era proprio così, ma Howell pensò che tutto sommato erano stati fortunati. Sapeva di piccole cittadine dell'Idaho in cui metà della popolazione aveva lavorato nella squadra Omicidi e Rapine della polizia di Los Angeles e l'altra metà era composta da agenti dell'Fbi in pensione. Se a qualcu-
no fosse venuto in mente di andare a fare dei casini laggiù, gliene avrebbero fatto passare la voglia. Howell guardò di nuovo l'orologio. Entro mezzanotte avrebbe avuto in mano la situazione finanziaria e lo stato di servizio nell'esercito (se disponibili) di tutti quegli agenti, come pure informazioni dettagliate sulle loro famiglie. «E questo Talley?» Sonny Benza le aveva chiesto espressamente di concentrarsi su di lui. Se tagli la testa, il corpo muore. «Ho trovato quello che ho potuto» rispose la donna. «Single, proviene dal Dipartimento di polizia di Los Angeles. L'appartamento in cui vive è messo a disposizione dall'amministrazione cittadina.» Seymore la interruppe. «I poliziotti con cui ho parlato davanti alla casa degli Smith mi hanno detto che Talley faceva il negoziatore nella polizia di Los Angeles.» Gayle lo guardò torva, risentita che lui le avesse rubato la scena. «Lo è stato per gli ultimi tre anni di servizio nella polizia di Los Angeles. Prima era nella Swat. In ufficio c'è una sua fotografia appesa al muro, con tanto di tuta tattica e artiglieria spianata.» Howell annuì. Queste due ultime informazioni erano la prima cosa interessante che sentiva. Si chiese come mai un negoziatore della Swat fosse finito a dirigere il traffico davanti alle elementari nel paradiso delle Bmw. Forse era per via dell'appartamento gratis. «È rimasto nella polizia di Los Angeles per un totale di quattordici anni, poi ha dato le dimissioni. La donna con cui ho parlato non me l'ha voluto confermare, ma credo che non abbia retto allo stress. C'è qualcosa di strano nel modo in cui ha mollato tutto, all'improvviso.» Howell prese un appunto per ricordarsi di passare l'informazione a Palm Springs. Sapeva che Benza aveva dei contatti nella polizia di Los Angeles. Se avessero trovato qualcosa di marcio sul conto di Talley, avrebbero potuto usarla per far leva su di lui. Aveva ancora una domanda su Talley. «Faceva il detective, laggiù?» «L'ho chiesto. La ragazza non lo sapeva, ma varrebbe la pena di accertarlo.» Quando Gayle Devarona ebbe finito di parlare, Howell aspettò un attimo, ma le informazioni erano esaurite. Ognuno aveva riferito quanto sapeva. Tutto sommato, non poteva lamentarsi. Avevano avuto a disposizione sì e no due ore per mettere insieme quei dati. Ora bisognava andare avanti. Rifletté sui sedici nomi che comparivano nell'elenco di Gayle. L'elenco di
banchieri, avvocati, investigatori privati e agenti sul libro paga di Sonny Benza e dei suoi soci era ben più lungo: centinaia e centinaia di nomi che potevano essere attivati per occuparsi della questione. «Okay, procuratevi gli indirizzi che mancano, poi dividetevi i nomi e cominciate a scavare. Gayle, tu occupati della parte economica. Se siamo fortunati, uno di questi potrebbe essere con l'acqua alla gola, e noi potremmo lanciargli un salvagente. Duane, Ruiz, voi scoprite cosa fa nel tempo libero questa gente. Ci sarà pure uno sposato che se la spassa con una puttana, oppure che ha tendenze particolari. Scavate e scoprite i loro segreti. Ken, tu torna alla casa insieme ai giornalisti. Se succede qualcosa, voglio venire a saperlo ancora prima di Dio.» Seymore si appoggiò allo schienale con un'espressione irritata. Howell si incazzava sempre quando lui faceva così. «Non cominciare con quella faccia. Se hai qualcosa da dire, sputa il rospo.» «Ci serve più gente. Se questa vicenda dovesse trascinarsi per qualche giorno, ci vorrà un sacco di aiuto.» «Me ne sto già occupando.» Seymore si sporse in avanti, abbassando ulteriormente la voce. «Se le cose si mettono male, avremo bisogno di gente che sappia gestire la situazione.» Si riferiva a qualcuno che si sporcasse le mani. Howell ci aveva già pensato e aveva telefonato a chi di dovere. «Le persone giuste sono già per strada. Tu preoccupati del tuo lavoro. Al mio ci penso io.» Howell guardò l'orologio ancora una volta, quindi annotò l'indirizzo e i numeri di telefono di Talley in fondo al conto del ristorante. Strappò via il pezzo di carta e si alzò mettendoselo in tasca. «Voglio un aggiornamento fra due ore.» Howell si avviò alla macchina. Non si poteva incaricare uno qualunque di assassinare un capo della polizia circondato da un esercito di telecamere e giornalisti. Per un lavoro del genere ci voleva una persona speciale. 7 Venerdì, 19.39 Newhall, California
MARION CLEWES Si chiamava Marion Clewes. Aspettava in una caffetteria di Newhall, California, una ventina di chilometri a ovest di Bristo Camino, una zona dove tutte le insegne erano in spagnolo. Marion era l'unica persona, lì dentro, a parte la donna dietro il banco che non parlava inglese e sembrava a disagio per la sua presenza. Anche se era ormai il tramonto, il negozio, privo di aria condizionata, era un forno. La donna aveva la pelle coperta da una patina di sudore. Era un locale lurido, con il pavimento appiccicoso e i cerchi scuri lasciati dalle tazze di caffè sui ripiani di formica scheggiata dei tavoli. A Marion non interessava. Avvertiva il peso dell'aria, greve di grasso e cannella. Era seduto a un tavolo davanti alla porta, in attesa di Glen Howell. Marion era abituato a incontrarlo in posti come quello. Howell non si trovava a proprio agio con lui, probabilmente lo temeva. Marion aveva il sospetto di non andargli a genio, ma pazienza: lo pagavano bene per fare un lavoro che gli piaceva. E lui lo faceva con spietata affidabilità. Marion fissò la donna. Lei incrociò le braccia sul petto, più volte, quindi scomparve dietro la friggitrice, ansiosa di sottrarsi al suo sguardo. Marion si mise a guardare il parcheggio. Una mosca gli passò ronzando vicino all'orecchio. Era una mosca del deserto, nera, coperta di peli ispidi, e rifletteva bagliori verdi sotto la luce al neon delle lampade sudicie. Prese a volare bassa sopra il tavolo, seguendo un percorso a S, virò lentamente e andò a posarsi su alcuni granelli di zucchero. Marion la colpì con la mano. Aspettò, cercando di capire se si muoveva. Quando sollevò la mano, la mosca si muoveva lentamente di lato, agitando le zampe nel tentativo di camminare. Marion la osservò. Tutto ciò che l'insetto riusciva a fare era spostarsi in un patetico girotondo. Marion si esaminò la mano: aveva il dito medio sporco di una sostanza appiccicosa, cui era attaccata una singola zampetta nera. Si leccò il dito e sentì un gusto dolciastro. Osservò la mosca trascinarsi in cerchio. Delicatamente, la tenne ferma con l'indice sinistro e con l'unghia del destro staccò un'altra zampa e se la mise in bocca. A una a una strappò le zampe della mosca e se le mangiò. Un'ala era danneggiata, ma l'altra batteva furiosamente. Tirò via anche questa. Si chiese cosa stesse pensando la mosca. Fasci di luce guizzarono sul vetro. Marion alzò lo sguardo e vide la Mercedes di Howell che si fermava. Era una bellissima macchina. Osservò Howell scendere dall'auto ed entra-
re; quando venne a sedersi accanto a lui, Marion spinse via la mosca. «C'è una donna nel retro, ma non credo che parli inglese.» «Non ci vorrà molto.» Howell parlò a voce bassa, andando dritto al punto. Posò un foglio di carta giallo sul tavolo davanti a Marion. «Talley vive qui. È un appartamento in un residence. Non so niente di questo posto, né se è sorvegliato.» «Non ha importanza.» «Adesso le istruzioni: quest'uomo dev'essere nostro, sono ordini dall'alto, e non abbiamo molto tempo. Ho bisogno che tu trovi il sistema per convincerlo.» Marion mise l'indirizzo al sicuro. Sapeva già come fare. Avrebbe cercato i suoi punti deboli. La gente se li teneva belli stretti. Avrebbe annotato il numero di conto corrente, avrebbe cercato materiale pornografico, droga, vecchie lettere d'amore e giocattoli erotici, ricette mediche e file nel computer. Magari un esame diagnostico prescritto da un medico che evidenziava una patologia cardiaca, o qualche telefonata alla moglie di un altro. Poteva trattarsi di qualsiasi cosa, ma c'era sempre qualcosa. «Ora è là?» «Ma non ascolti le notizie?» Marion scosse il capo. «Non è a casa, ma non so dirti se tornerà e quando. Quindi, tieniti pronto.» «E se mi becca?» Howell distolse lo sguardo, prese una decisione e tornò a voltarsi verso di lui. «Allora, uccidilo.» «D'accordo.» «Senti, noi non lo vogliamo morto. Vogliamo essere in grado di controllarlo. Ci serve. Ma se ti becca, pazienza. Fallo fuori.» «E dopo? Dopo che l'abbiamo usato?» «Quella è una decisione che spetta a Palm Springs.» Marion non fece obiezioni. Talvolta li tenevano in vita per utilizzarli di nuovo, ma di solito gli permettevano di portare a termine il lavoro. Era la parte che preferiva. «Hai i miei numeri di cercapersone e di cellulare?» «Sì.» «Okay. Chiamami sul cercapersone quando hai finito. Che tu abbia tro-
vato qualcosa o no, tienimi al corrente.» «E se in casa non c'è niente?» «Proveremo in ufficio. Anche se sarà più difficile. È il capo della polizia.» Howell si alzò senza aggiungere altro. Marion rimase a osservare la splendida Mercedes che si allontanava nel crepuscolo, quindi tornò a guardare la mosca. Il corpo privo di zampe giaceva rovesciato di lato, immobile. L'ala superstite sbatteva. «Povera mosca» disse Marion. Poi staccò con cura l'ala e uscì, pronto a mettersi al lavoro. 8 Venerdì, 19.40 TALLEY Gli elicotteri sopra gli York Estates accesero le luci, trasformandosi in stelle scintillanti. Talley non era contento che il sole fosse tramontato: l'avanzare delle tenebre cambiava la psicologia dei sequestratori, come pure quella degli agenti. I criminali si sentivano più sicuri, al buio, nascosti e più forti, la notte alimentava le loro fantasie di fuga. Gli agenti di guardia al perimetro lo sapevano, e la tensione aumentava in maniera inversamente proporzionale al loro livello di efficienza. La notte creava i presupposti per reazioni sproporzionate, e per epiloghi tragici. Talley era in piedi accanto all'auto, sorseggiando Diet Coke mentre i suoi agenti facevano rapporto. Il datore di lavoro di Rooney, che pensava di poter dare un nome al terzo soggetto, ancora sconosciuto, era stato rintracciato e stava per arrivare; della moglie di Walter Smith, invece, non si sapeva ancora nulla; era stato identificato il funzionario addetto alla sorveglianza di Dennis Rooney dopo che era uscito sulla parola dal Formicaio, ma era in viaggio per Las Vegas e non c'era modo di contattarlo; dieci grosse pizze (metà vegetariane, metà con salsiccia) erano appena state consegnate dalla Domino's, ma qualcuno aveva dimenticato di portare i tovaglioli. Le informazioni si susseguivano a un ritmo tale che Talley cominciava a non tenergli più dietro, e il flusso si sarebbe intensificato. Imprecò dentro di sé perché gli uomini dello sceriffo non erano ancora arrivati. Barry Peters ed Earl Robb arrivarono a passo svelto lungo la strada.
Robb teneva in mano la torcia. «Capo, con la compagnia dei telefoni siamo a posto. La Pacific Bell dice che la casa ha sei linee fisse, quattro sull'elenco e due riservate. Le hanno bloccate tutte come ha chiesto lei. Nessun altro può chiamare quei numeri, e dalla casa l'unico numero raggiungibile è quello del suo cellulare.» Talley provò un senso di sollievo, seppure contenuto: non doveva più preoccuparsi che qualche svitato chiamasse il numero degli Smith e convincesse Rooney a far fuori gli ostaggi.» «Ben fatto, Earl. Ci hanno mandato altri rinforzi dalla Stradale?» «Quattro uomini e due auto da Santa Clarita.» «Schierali sul perimetro. Fallo fare a Jorgenson. Lui sa cosa ho detto a Rooney.» «Sì, signore.» Robb si allontanò rapidamente mentre Peters accendeva la torcia e illuminava due piantine schizzate a mano su fogli bianchi. «Le ho messe assieme con l'aiuto dei vicini, signore. Questo è il pianterreno, questo il piano superiore.» Talley si lasciò sfuggire un grugnito. Non erano fatte male, ma non si illudeva che fossero precise; particolari come la posizione delle finestre e degli armadi a muro erano di fondamentale importanza nel caso fosse stato necessario entrare con la forza. Talley chiese se esistessero dei disegni del progetto. «Questo è il meglio che sono riuscito a procurarmi. All'ufficio del catasto non c'era niente.» «Eppure dovrebbe esserci. Questo complesso è nato sulla base di un progetto unitario. Per ogni casa dovrebbe essere stato depositato un piano esecutivo.» Peters sembrava mortificato. «Mi dispiace, capo. Ho chiamato sia il catasto di Santa Clarita sia quello di Antelope Valley, ma non hanno nulla. Vuole che provi da qualche altra parte?» «Gli uomini dello sceriffo avranno bisogno di quei prospetti, Barry. Trova qualcuno dell'ufficio del sindaco o del consiglio municipale. Sarah ha tutti i loro numeri. Digli che abbiamo bisogno di visionare immediatamente tutti i permessi edilizi per controllare chi è il costruttore. Qualcuno deve pur avere le planimetrie di queste case.» Mentre Peters si allontanava di corsa, da dietro l'angolo sbucò l'auto di Larry Anders, che venne a fermarsi accanto a Talley. Un uomo magro e
nervoso scese dal lato del passeggero. «Capo, questo è Brad Dill, il datore di lavoro di Rooney.» «Grazie per essere venuto, signor Dill.» «Si figuri.» Talley sapeva che Dill era il titolare di una piccola impresa edile con sede a Lancaster. Aveva la pelle cotta dal sole e occhi piccoli che continuavano a guizzare di qua e di là. Aveva problemi a mantenere il contatto visivo. «Lei sa cosa sta succedendo qui, signor Dill?» L'uomo lanciò un'occhiata oltre Talley, poi abbassò lo sguardo. Era molto nervoso. «Sì, me l'ha detto l'agente. Ma io non so nulla di tutto questo. Non avevo idea di quali fossero le loro intenzioni.» A Talley venne il sospetto che l'uomo avesse qualche precedente penale. «Signor Dill, quei due non avevano idea di cosa avrebbero combinato fino a un attimo prima di farlo. Non si preoccupi di questo. Lei è qui perché ha lavorato con loro e io spero che possa fornirmi degli elementi utili a conoscerli meglio. Capisce?» «Sì. Certo. Dennis lo conosco da quasi due anni, Kevin da un po' meno.» «Prima di cominciare, vorrei che lei li identificasse. L'agente Anders mi ha detto che lei conosce anche il terzo soggetto?» «Okay. Certo. Dovrebbe essere Mars.» «Diamo un'occhiata alle foto. Larry, le hai qui?» Anders andò alla macchina e tornò con le stampe diciotto per ventiquattro che aveva fatto fare dalla cassetta. Fu costretto a tornare alla macchina una seconda volta per prendere la torcia. Presto avrebbero dovuto spostarsi all'interno di una delle case. Talley si chiese se la signora Pena li avrebbe ospitati. «Allora, signor Dill, diamo un'occhiata. È in grado di identificare queste persone?» La prima foto era un'immagine un po' sfocata di Kevin Rooney accanto alla porta d'ingresso; nella seconda si vedevano chiaramente Dennis e il terzo soggetto. Talley era soddisfatto. Anders aveva fatto un buon lavoro. «Okay. Certo. Questo è Kevin, il fratello minore di Dennis. E quest'altro è Dennis. È appena uscito dal Formicaio.» «Conosce il terzo uomo?» «Mars Krupchek. È venuto a lavorare da noi circa un mese fa. No, un momento, non sono neppure quattro settimane, mi pare. Lui non lo cono-
sco bene.» Anders annuì mentre Dill parlava, confermando quanto aveva già sentito. «Venendo qui ho chiamato Sarah, dicendole di fare qualche controllo sul conto di Krupchek. Sta guardando negli archivi della motorizzazione e dell'Ncic.» Talley chiese a Dill come si comportasse Dennis sul lavoro. L'uomo descrisse una personalità instabile, con una propensione alle esagerazioni e agli atteggiamenti teatrali. Talley si convinse sempre più che la sua prima impressione fosse corretta: Rooney era un narcisista aggressivo con problemi di autostima. Kevin, invece, mostrava di preoccuparsi degli altri; mentre Dennis arrivava tardi al lavoro e non si impegnava, Kevin era sempre in orario e disposto ad aiutare gli altri; aveva un atteggiamento passivo e si faceva trascinare dalle personalità più forti. Non avrebbe mai guidato un'azione, ma avrebbe reagito agli eventi. Talley fece una pausa, chiedendosi se per caso non stesse trascurando di chiedere qualcosa di ovvio. Prese la torcia dalle mani di Anders per osservare meglio la foto di Kevin, quindi decise di passare a Mars Krupchek. Questo soggetto gli aveva dato da pensare fin dal momento in cui lo aveva visto sporgersi oltre il bancone per vedere Junior Kim morire. Nella foto Talley notò un particolare che gli era sfuggito visionando la cassetta, un tatuaggio sulla nuca rasata che diceva: "Brucialo". «Cosa mi sa dire di Krupchek?» «Non molto. Si è presentato un giorno a cercare lavoro. Io avevo bisogno di una persona. Lui era educato, parlava bene. È grosso e forte, sa. E così ho deciso di prenderlo in prova.» «Conosceva i Rooney prima di venire a lavorare per lei?» «No. Lo so per certo. Sono stato io a presentarli. Sa, del tipo: Mars, ti presento Dennis. Dennis, questo è Mars. Mars se ne sta per conto suo, se non è con Dennis.» Talley indicò il tatuaggio. «Cosa significa "Brucialo"?» «Non lo so. È un tatuaggio...» Talley lanciò un'occhiata ad Anders. «Hai inserito il tatuaggio tra i segni particolari?» «Sì, signore.» L'identità delle persone sul computer dell'Ncic, l'archivio nazionale del crimine, poteva essere sottoposta a controllo incrociato inserendo segni
particolari permanenti quali tatuaggi e cicatrici. Talley tornò a concentrarsi su Brad Dill. «Sa cosa faceva prima di venire a lavorare per lei?» «No, signore.» «Sa da dove viene?» «Non parla volentieri. Anche se gli fai delle domande, non dice molto.» «Va d'accordo con gli altri uomini?» «Abbastanza. Ma da quando Dennis è tornato non sta molto con gli altri. Parliamo di una settimana, al massimo. Prima che Dennis tornasse, se ne stava sempre per conto suo a osservare gli altri.» «Cosa intende dire?» «Non so se riesco a spiegarmi. Quando gli uomini fanno una pausa, lui non si siede insieme a loro. Rimane in disparte e li osserva, come se li tenesse d'occhio. No, non è neanche questo. È più come se stesse guardando la tivù. Mi capisce? A volte mi veniva da pensare che si fosse addormentato, e invece era lì che li fissava.» A Talley non piaceva quanto stava scoprendo sul conto di Krupchek, ma d'altro canto non sapeva neppure come interpretarlo. «Si è mai dimostrato violento o aggressivo verso gli altri uomini?» «No. Si limita a starsene seduto per i fatti suoi.» Talley restituì le foto ad Anders. Mars Krupchek poteva essere ritardato o soffrire di qualche handicap mentale, ma lui non aveva modo di saperlo. Non aveva idea di chi fosse, di cosa fosse capace, né di come potesse comportarsi. E questo lo preoccupava. L'ignoto può ucciderti e spesso va oltre ogni immaginazione. «Signor Dill, lei ha l'indirizzo di Krupchek?» Dill tirò fuori un'agendina dalla tasca posteriore dei pantaloni e lesse un indirizzo e un numero di telefono. Anders li annotò. Talley ringraziò l'uomo per la sua collaborazione e gli disse che Anders lo avrebbe riaccompagnato a casa, quindi prese da parte l'agente. «Controlla che l'indirizzo di Krupchek corrisponda a quello registrato presso la compagnia telefonica. In questo caso, chiama l'ufficio del procuratore di Palmdale e fatti dare un mandato di perquisizione per telefono. Poi vai a casa sua e vedi cosa ti riesce di trovare. Porta qualcuno con te.» Mentre Anders e Dill si allontanavano, Talley cercò di ricordare ciò che doveva ancora fare. Bisognava trovare la signora Smith, i suoi agenti dovevano mangiare e lui voleva controllare la posizione degli ultimi uomini della Stradale per accertarsi che Jorgenson non li avesse piazzati troppo vi-
cino alla casa. Quando si rese conto che presto avrebbe dovuto ristabilire il contatto con Rooney, venne sopraffatto da un'ondata di panico. Doveva chiamarlo ogni ora, per tutta la notte, interrompergli il sonno, spezzare la sua resistenza, sfiancarlo. Quella contro i sequestratori di ostaggi era una guerra di logoramento e di nervi. Talley non sapeva se i suoi fossero sufficientemente saldi per arrivare fino in fondo. Dalla radio gli giunse la voce di Metzger. «Capo, parla Metzger.» «Dimmi, Leigh.» «Gli uomini dello sceriffo stanno arrivando. Saranno qui fra dieci minuti.» Talley si appoggiò all'auto, chiudendo gli occhi. Grazie al cielo. DENNIS Dopo aver parlato con Talley, Dennis si sforzò di non guardare Mars, ma non riusciva a trattenersi. Ripensò a quanto gli aveva detto Kevin, al fatto che Mars aveva voluto sparare al poliziotto venuto alla porta, al fatto che aveva mentito, e sparato per primo. Forse Talley aveva ragione. Forse avrebbe potuto cavarsela se era stato Mars, e non lui, a sparare all'agente. Se Kevin gli fosse venuto dietro, forse sarebbero riusciti a fare un accordo con il procuratore in cambio della loro testimonianza contro Mars. Dennis provò una speranza rabbiosa, ma poi si ricordò del denaro. Per fare un accordo doveva rinunciare al denaro. Spinse da parte il telefono e tornò a voltarsi verso gli altri. Non era disposto a rinunciare al denaro. Kevin lo guardò con espressione ansiosa. «Ci danno l'elicottero?» «No. Dobbiamo trovare un altro modo per andarcene da qui. Cominciamo a pensarci.» La ragazza e quel ciccione del fratello erano ancora inginocchiati accanto al padre. Lei iniziò immediatamente a inveire contro di lui. «Non c'è niente da pensare. Dovete fare qualcosa per aiutare mio padre.» Continuava a tenergli lo strofinaccio premuto contro la tempia, ma il ghiaccio si era sciolto e la pezza era intrisa d'acqua. Dennis provò un'ondata di collera. «Chiudi quella boccaccia! Ho un problema da risolvere, caso mai non te ne fossi accorta.» L'espressione di lei si fece più dura.
«Tu non fai altro che guardarti in tivù. Lo hai ferito. Guardalo. Ha bisogno di un dottore.» «Sta' zitta.» «Sono passate ore!» «Metti dell'altro ghiaccio nel panno.» «Il ghiaccio non serve!» Il ragazzino ciccione cominciò a piangere. «È in coma!» La ragazza lo colse di sorpresa. Saltò in piedi con lo scatto improvviso di un pupazzo a molla e si diresse verso la porta. «Io vado a chiamare un dottore!» Dennis era fuori di sé, come se l'incubo dei poliziotti e del fatto di essere intrappolato dentro quella casa fosse diventato improvvisamente reale, a differenza di prima. La raggiunse in due passi, schiaffeggiandola proprio come aveva visto suo padre fare con la madre, quella cagna petulante. La colpì in pieno sulla guancia, con tutta la forza, facendola cadere a terra. Il ciccione urlò il suo nome e si lanciò in avanti, prendendolo a pugni come un nano incazzato. Dennis affondò le dita nella carne morbida del collo del ragazzo, che strillò. Kevin gli diede una spinta. «Piantala!» Kevin buttò il ragazzino a terra, insieme alla sorella, e si piazzò fra loro e Dennis. «Smettila, Dennis. Per favore!» Dennis era furibondo. Avrebbe voluto stendere Kevin, rompergli la faccia, ridurlo in polpette a suon di calci. Avrebbe voluto ammazzare di botte la ragazzina e il ciccione, gettare i soldi a bordo della Jaguar, sfondare la porta del garage e arrivare fino in Messico sparando all'impazzata contro la polizia. Mars lo fissava con un'ombra sul volto, gli occhi ridotti a minuscoli puntini di una strana luce, come quelli di un furetto che sbircia da una caverna. «Cos'hai da guardare?» urlò Dennis. Mars fece quel suo sorriso quieto e scosse il capo. Dennis arretrò, ansimando. Stava andando tutto a rotoli. Si voltò a guardare il televisore, aspettandosi quasi di vedere i poliziotti che attaccavano la casa, ma la scena all'esterno era esattamente la stessa di qualche minuto prima. La ragazza si stringeva il volto fra le mani. Il ciccione lo guardava con occhi pieni d'odio, quasi avesse voluto tagliargli la gola. Il padre dei ragazzi respirava rumorosamente con il naso. Tutta quella tensione lo fa-
ceva impazzire. «Dobbiamo fare qualcosa. Non possiamo continuare a sopportare queste stronzate» disse. Mars si alzò in piedi, grosso e ingombrante. «Dobbiamo legarli, così non ci dovremo più preoccupare di loro. Dovevamo farlo comunque.» Dennis fece un cenno con la testa in direzione della ragazza, rivolto a Kevin. «Mars ha ragione. Non possiamo lasciare che questi due stronzi se ne vadano in giro e ci stiano fra i piedi. Legali e portali di sopra.» «E con cosa li lego?» «Guarda in garage, in cucina. Mars, trova tu qualcosa, okay? Sai cosa ci serve, no? Questo stronzo non capisce niente.» Mars scomparve nel garage. Kevin prese la ragazza per il braccio come se temesse di essere colpito, ma lei si alzò senza opporre resistenza, il volto contratto e le lacrime che scendevano copiose. «E mio padre? Non potete lasciarlo lì così.» Suo padre era freddo al tatto; a intervalli sempre più brevi il suo corpo era scosso da tremiti. Dennis gli tastò il polso come se sapesse cosa fare, ma non capì un accidente. Non gli piaceva il suo aspetto, ma non disse nulla, perché non c'era nulla da dire. «Lo metteremo sul divano. Starà più comodo.» «Ha bisogno di un dottore.» «Sta solo dormendo. Se prendi un colpo in testa, ti fai una bella dormita e ti passa, tutto qui. Il mio vecchio mi picchiava molto peggio di così.» Dennis si fece dare una mano da Kevin per sistemare l'uomo sul divano. Quando Mars tornò, Dennis gli disse di portare di sopra i ragazzi. Era stanco di doversi occupare di loro. Era stanco di dover pensare a qualsiasi cosa che non fosse il denaro. Doveva trovare una via d'uscita. JENNIFER Mars aprì la porta della camera, poi si fece da parte per far entrare la ragazza e Kevin. Era tornato dal garage con prolunghe, nastro adesivo da pacchi, un martello e dei chiodi. Diede due prolunghe a Kevin. «Falla sedere su quella sedia e legala stretta. Bloccale i piedi. Quando avrò finito con il ragazzo mi occuperò io di porte e finestre.» Mars la guardò con occhi sfocati, come se si fosse appena svegliato da
un sonno profondo e lei fosse soltanto il ricordo di un sogno. «Quando torno controllo come l'hai legata.» Mars trascinò Thomas via con sé mentre Kevin la faceva entrare nella camera. Le luci erano accese perché lei non le spegneva mai: si addormentava con la luce accesa, parlando al telefono o guardando la tivù, e quando si svegliava al mattino erano ancora accese e lei non si preoccupava di spegnerle. Le tende erano tirate, il telefono per terra contro la parete, la spina frantumata in modo da non poter essere utilizzata. Kevin trascinò la sedia della scrivania in mezzo alla stanza. Era nervoso. Evitava il suo sguardo. «Lasciami fare e andrà tutto bene. Devi fare pipì o qualcosa?» Jennifer avvampò, imbarazzata. Aveva una tale voglia di urinare che sentiva un bruciore fortissimo. «È là dentro.» «Cosa? Hai il tuo bagno personale?» «Sì. È là dentro.» «Okay. Andiamo.» Lei non si mosse. «Non puoi venire con me.» Kevin era fermo sulla porta del bagno, e aspettava. «Non posso lasciarti sola.» «E io non posso farlo di fronte a te.» «Preferisci pisciarti addosso?» «Non voglio che tu mi guardi. Non ho pistole o cose del genere, qua dentro, se è questo che ti preoccupa.» Lui parve seccato, ma a lei non importava. Kevin entrò in bagno, si guardò intorno, poi uscì. «Okay, non entrerò con te, ma non puoi chiudere la porta. Io resto qui, così non ti vedo.» «Ma mi senti.» «Ascolta. Se vuoi pisciare fallo, a me non interessa. Se non vuoi, posa il culo su quella sedia prima che torni Mars.» Le scappava così tanto che decise di andare. Cercò di fare piano, ma le parve che la pipì facesse più rumore che mai. Quando ebbe finito, tornò in camera, troppo imbarazzata per guardarlo in faccia. «Sei disgustoso.» «Pazienza. Siediti lì e metti le mani dietro lo schienale.» «Non capisco perché tu non possa semplicemente chiudermi dentro. Non
è che possa andare da qualche parte.» «O ti lego io, o lo farà Mars.» Lei sedette, rigida e tesa. Kevin aveva due prolunghe nere. Quando la toccò, Jennifer si fece piccola piccola, ma lui non le fece male. «Non voglio fare il nodo troppo stretto, ma un po' devo stringere. Mars verrà a controllare.» La sua voce esprimeva un rammarico che la sorprese. Sapeva che Kevin era spaventato, ma ora si chiedeva se non provasse imbarazzo per ciò che stavano facendo. Forse aveva persino una coscienza. Quando ebbe finito di legarle i polsi, si spostò davanti a lei per assicurarle le caviglie alle gambe della sedia. Lei lo guardò, pensando che di tutti era l'unico che poteva farsi amico. «Kevin.» «Cosa c'è?» Lei tenne la voce bassa, per paura che Mars la sentisse. «Tu sei finito dentro questa cosa proprio come me.» Il volto di lui si fece scuro. «Vi ho sentito parlare. Tu sei l'unico che sa di aver peggiorato le cose venendo qui. Dennis sembra non capirlo» continuò la ragazza. «Non parlare di Dennis.» «Perché fai sempre quello che ti dice?» «Le cose succedono, tutto qui. Non voglio parlarne.» «Mio padre ha bisogno di un medico.» «È solo svenuto. È successo anche a me.» «Sai benissimo che sta male. Pensa a quello che stai facendo, Kevin, ti prego. Cerca di far ragionare Dennis. Se mio padre muore, vi accuseranno anche del suo omicidio. Lo sai.» «Non posso farci niente.» «Non è stata tua l'idea di rapinare quel minimarket, vero? Scommetto che hai cercato di convincere Dennis a non farlo, ma lui non ha voluto ascoltarti, e ora siete tutti intrappolati qui dentro e ricercati per omicidio.» Lui teneva gli occhi bassi, armeggiando con le prolunghe. «Sono sicura che è andata così. Tu sapevi che era una cosa sbagliata. E ora sai che anche questo è sbagliato. Mio padre ha bisogno di un dottore, ma Dennis è ostinato. Se continui ad assecondare Dennis e Mars, la polizia vi ucciderà tutti.» Kevin si appoggiò all'indietro sui talloni. Sembrava stanco, come se ci
pensasse da tempo e tutto quel rimuginare lo avesse logorato. Scosse la testa. «Mi dispiace.» Un'ombra si mosse dietro a Kevin, attirando l'attenzione di Jennifer. Mars era fermo sulla porta e li fissava con espressione vacua. Lei non sapeva da quanto fosse lì, né cosa avesse sentito. Mars non guardava Kevin. Fissava lei. «Non ti scusare.» Kevin si alzò così di scatto che per poco non cadde. «Le avevo legato le caviglie troppo strette. Ho dovuto rifare il nodo.» Mars andò alle finestre. Piantò dei grossi chiodi nei davanzali interni, in modo che non si potessero aprire, poi venne a mettersi davanti a lei. Le stava molto vicino, incombeva su di lei, così alto che pareva toccare il soffitto. Poi si accucciò tra le sue gambe, tirando i legacci che le immobilizzavano le caviglie. Il cordone le incise la pelle. «Non è stretto bene. Hai fatto un nodo da femminuccia.» Mars strinse il nodo, e poi fece lo stesso con quello dei polsi. Il cavo le premeva sulla carne così forte che dovette mordersi la lingua per non urlare, ma era troppo spaventata per protestare. Poi Mars strappò un pezzo di nastro adesivo grigio dal grosso rotolo e glielo premette con forza sulla bocca. Kevin continuava a tormentarsi le mani, chiaramente intimorito da Mars. «Assicurati che possa respirare, Mars. Non metterlo così stretto.» Mars premette le dita sul nastro. Il suo tocco le fece così schifo che avrebbe voluto urlare. «Va' di sotto, Kevin.» Sulla soglia, Kevin esitò. Mars era ancora inginocchiato davanti a lei e premeva il nastro così forte che pareva volesse farglielo entrare nei pori. Premeva e premeva, con movimento ritmico. Jennifer pensò che sarebbe svenuta. «Tu non vieni?» chiese Kevin. «Ora arrivo. Tu vai.» Jennifer guardò Kevin, implorandolo con gli occhi di non lasciarla sola con Mars. Kevin scomparve. Quando, alla fine, alzò lo sguardo verso Mars, vide che lui la stava osservando. Si abbassò con il viso all'altezza di quello di lei, poi si sporse in avanti. Jennifer si ritrasse, pensando che lui volesse baciarla, ma si sba-
gliava. Mars rimase immobile per un tempo che le parve interminabile, fissandola prima nell'occhio sinistro, poi in quello destro. Quindi si sporse ancora più in avanti e tirò su con il naso. La stava annusando. Poi si tirò su. «Voglio mostrarti una cosa.» Si tolse la maglietta, scoprendo un corpo flaccido e biancastro, un colore che ricordava quello di un lenzuolo sporco. Sul torace aveva un tatuaggio che diceva: "Cocco di mamma". «Lo vedi? Mi è costato duecentoquaranta dollari. Ecco quanto voglio bene a mia madre.» Guardarlo le fece venire il vomito. Aveva il petto e la pancia punteggiati di piccoli rigonfiamenti grigiastri. Pensò che fossero verruche. Lui ne toccò uno, un nodulo duro e grigio, poi un altro, e l'angolo della sua bocca si incurvò in un impercettibile sorriso. «Mia madre mi bruciava con le sigarette.» Jennifer provò un senso di nausea. Non erano bitorzoli o verruche: erano cicatrici. Mars si rimise la maglietta, quindi tornò a sporgersi verso di lei, e questa volta lei fu certa che l'avrebbe toccata. Il cuore le batteva all'impazzata. Avrebbe voluto voltarsi ma non poteva. Lui le mise una mano sulla spalla. Jennifer diede uno strattone ai legacci, voltando la testa di qui e di là, inarcando la schiena, sentendo il cavo segarle polsi e caviglie, mentre lei cercava di urlare sotto il nastro adesivo. Mars le strinse la spalla, una sola volta, come se stesse saggiando la consistenza dell'osso sotto la carne, quindi ritrasse la mano. Fece di nuovo quell'impercettibile sorriso, poi andò alla porta. Lì si fermò, fissandola con occhi così vuoti che lei li vide pieni di incubi. Spense le luci e uscì chiudendo la porta. Il rumore del suo martello era forte come il tuono, ma non come il battito terrorizzato del cuore di Jennifer. DENNIS Dennis era alla finestra intento a osservare i movimenti della polizia quando udì il rumore degli elicotteri cambiare. Quello era il primo segnale: gli elicotteri si riposizionavano. Poi l'autopattuglia di testa si mise in moto e compiendo un ampio cerchio si allontanò proprio mentre arrivava un'altra macchina della Stradale. Non avrebbe saputo dire se Talley fosse an-
cora là fuori o meno. Di certo la polizia aveva in mente qualcosa, e questo lo metteva in ansia, lo spaventava. Dennis pensò che se non se ne fossero andati da lì al più presto, forse non avrebbero potuto farlo mai più. Mars sedette sul divano accanto a Walter Smith. Gli posò una mano sulla testa come se stesse accarezzando la peluria morbida fra le orecchie di un cane. «Non ti hanno dato l'elicottero perché non credono che tu faccia sul serio.» Dennis si allontanò dalla finestra, irritato. Non gli piaceva quel sorrisetto compiaciuto di Mars del tipo "te l'avevo detto". Era lui che lo aveva istigato a rapinare il minimarket, lui che aveva sparato al poliziotto. «Tu non sai di cosa parli. Hanno delle regole, per queste cose. E comunque, che vadano a farsi fottere. Non ho mai pensato che ce l'avrebbero dato, ma valeva la pena provarci.» Mars accarezzò la testa di Smith, facendo correre lentamente le dita sul cranio come se stesse tastandone i contorni. Dennis la trovò una cosa strana. «A te sfugge la situazione d'insieme, Dennis.» «Vuoi sapere com'è la situazione, Mars? Ora te la spiego: dobbiamo trovare un modo per andarcene da qui con quei soldi.» Mars diede un colpetto sulla testa di Smith. «La nostra via d'uscita è qui dentro. Tu non ti rendi conto del potere che abbiamo.» «Gli ostaggi? Cristo, è l'unica cosa che abbiamo. Altrimenti gli sbirri ci salterebbero addosso.» Quando Mars alzò di nuovo lo sguardo, Dennis pensò che i suoi occhi fossero più luminosi e in un certo senso più vigili. «Quello che noi abbiamo è la paura che provano. La loro paura è il nostro potere. La polizia ci prenderà sul serio solo quando avrà paura che uccidiamo questa gente. Non sono le persone, che dobbiamo usare come scambio, Dennis. È la loro morte.» Dennis pensò che stesse scherzando. «Okay, amico. Sbalordiscimi.» «La polizia non ha motivo di trattare se non ci prende sul serio. Non devono fare altro che aspettare che ci stanchiamo e ci arrendiamo. Loro lo sanno, Dennis, e ci contano.» Dennis sentì il petto espandersi contro la tensione che opprimeva la stanza. Mars continuava a guardarlo, gli occhi ridotti a due puntini neri e
duri. Dennis aveva la vaga sensazione che tra di loro il rapporto di forza fosse in qualche modo cambiato e che ora fosse Mars a condurre, aspettando di vedere se lui lo avrebbe seguito. «Allora, come facciamo a convincerli?» «Gli diciamo che siamo disposti a lasciar andare il ciccione in segno di buona volontà.» Dennis rimase immobile. Vedeva Kevin con la coda dell'occhio e sapeva che anche lui avvertiva quell'insopportabile pressione. «Mandiamo fuori il ciccione. Ci limitiamo ad aprire la porta e gli diciamo di andarsene. Deve solo attraversare il cortile e dirigersi verso le auto. Il tuo amico Talley probabilmente lo chiamerà, dicendogli qualcosa tipo: "Su, vieni, è tutto a posto".» Dennis aveva i sudori freddi alla schiena. «Aspettiamo che arrivi a metà strada, e poi gli spariamo.» Dennis udì il battito del proprio cuore. Udì il proprio respiro fluire attraverso i denti come un sibilo lontano. Mars allargò le mani davanti alla semplice bellezza del suo piano. «Allora capiranno che facciamo sul serio, e avremo qualcosa da scambiare.» Dennis cercò di convincersi che Mars stava scherzando, ma sapeva che era serio. Mortalmente serio. «Mars, non possiamo fare una cosa simile.» Mars lo guardò, incuriosito. «Io sì. Se vuoi, lo faccio io.» Dennis non sapeva cosa dire. Sopra di loro, il frastuono degli elicotteri si era fatto più forte. Andò alle tapparelle e finse di sbirciare fuori, ma la verità era che non riusciva più a guardare Mars. Lo terrorizzava. «No, amico. Direi di no.» «No?» «No. Non possiamo farlo.» Gli occhi di Mars persero la loro brillante intensità, come una candela la cui fiamma si affievolisce. Mars si strinse nelle spalle e Dennis provò un gran sollievo. Disse a lui e a Kevin di stare in guardia e si allontanò per fare un altro giro della casa. Entrò in ogni stanza del pianterreno, controllando le finestre per vedere se potevano essere usate per svignarsela, ma erano tutte in piena vista. Dennis sapeva di avere poco tempo a disposizione. Se voleva fuggire doveva farlo in fretta perché stavano arrivando altri poliziotti. Si spostò sul retro della casa, attraversò il soggiorno e andò in gara-
ge. Sperava di trovarci una porticina laterale, ma scoprì solo un piccolo bagno di servizio in fondo a una specie di officina annessa al garage. Nella parete sopra il lavandino c'era una finestrella con il vetro scorrevole. Dennis l'aprì e vide le foglie fitte di un cespuglio di oleandro, verde scuro e appuntite, che spingevano contro la rete della zanzariera. Premette il volto contro la griglia e guardò fuori, ma era impossibile vedere qualcosa nell'oscurità crescente. La finestra dava sulla strada dalla parte del muro, ma era nascosta dall'oleandro. Se non fosse stato per il cespuglio, i poliziotti in strada avrebbero potuto vederlo. Dennis spinse all'esterno la zanzariera, attento a non fare rumore. Aprì ulteriormente la finestra, salì sul lavandino e si sporse. Di giorno non avrebbe mai fatto una cosa simile, ma il buio gli dava coraggio. La finestra si trovava a un metro e mezzo d'altezza dal terreno. Infilò le spalle nell'apertura. La fila di oleandri costeggiava il muro, ma non si capiva per quanto. Dennis era sempre più eccitato. Tornò dentro e si girò in modo da far uscire i piedi, prima una gamba, poi l'altra. Si lasciò cadere a terra. Era fuori. Si accucciò sotto l'oleandro, la schiena premuta contro la parete del garage, e rimase in ascolto. Sentiva le radio delle due autopattuglie parcheggiate sul davanti della casa. Le intravide attraverso le foglie, scintillanti sotto la luce dei lampioni. Non riusciva a vedere i poliziotti, ma sapeva che stavano sorvegliando il davanti della casa, e non la fila di cespugli che correvano sul lato. Dennis si sdraiò e strisciò piano lungo il muro. In alcuni punti gli oleandri erano più folti, in altri più radi, ma nessuno lo vide. Arrivò in fondo al muro e vide che gli oleandri proseguivano nel giardino della casa accanto. Dennis era sempre più eccitato. Potevano prendere i soldi, trascinarli lungo i cespugli e svignarsela proprio sotto il naso della polizia che sorvegliava il davanti della casa! Dennis tornò alla finestrella e si infilò di nuovo in casa. Era eccitatissimo. Ce l'avrebbe fatta! Sarebbe sfuggito a Talley e all'accusa di omicidio, e sarebbe andato a spassarsela alla grande a Tijuana. Corse nello studio per comunicare a Kevin e Mars che aveva trovato una via d'uscita. CLEWES Venere brillava bassa a occidente nel cielo sempre più buio, correndo verso il crinale delle montagne e il colmo del tetto di Talley. Le stelle non si vedevano ancora, ma lì, nell'alto deserto, lontano dalla città, il cielo sa-
rebbe stato presto invaso dalle loro luci. L'appartamento di Talley era una delle quarantotto unità distribuite in quattro edifici disposti in modo da formare una H. Grandi alberi di eucalipto si piegavano sopra gli edifici come ubriachi appoggiati a una ringhiera. Marion immaginò che un tempo gli appartamenti dovevano essere stati unità più grandi poi frazionate e vendute. Ognuno aveva un piccolo patio circondato da una recinzione e, al centro fra i quattro edifici, c'era una bella piscina; sui due lati esterni di ogni edificio c'erano dei posti auto scoperti per i residenti. Sembrava un bel posto in cui vivere. Marion attraversò il complesso, sentendo musica e voci. Alcune auto stavano parcheggiando, uomini e donne che tornavano dal lavoro; una donna anziana nuotava con bracciate metodiche, unica occupante della piscina. Erano accesi parecchi barbecue, che riempivano l'aria dell'odore di carne bruciata. Marion girò intorno all'edificio in cui si trovava l'appartamento di Talley. Poiché non era di recente costruzione (Marion immaginò che risalisse agli anni Settanta), i contatori del gas, della luce e le centraline di telefono e tivù via cavo erano tutti radunati in un punto lontano, di fronte ai parcheggi. Qualunque impianto individuale di sorveglianza doveva essere collegato alle linee telefoniche. Marion vide con piacere che gli edifici non erano dotati di sistemi di allarme. Il fatto non lo sorprese. Trattandosi di una cittadina sonnolenta e tranquilla, così lontana da Los Angeles, il massimo di cui il condominio avrebbe potuto dotarsi in fatto di sicurezza sarebbe stato un agente di sorveglianza che facesse un giro ogni ora. E forse neppure quello. Marion trovò l'appartamento di Talley e varcò il cancello che conduceva alla porta d'ingresso. Strinse la mascella per non scoppiare a ridere: il patio e la porta erano nascosti da una staccionata alta neppure due metri, tanto per garantire un miniino di privacy. Non avrebbe potuto essere più facile di così. Suonò il campanello due volte, poi bussò, sapendo già che in casa non c'era nessuno. Indossò i guanti di lattice, tirò fuori il grimaldello, quindi si mise all'opera. Dopo quattro minuti il chiavistello scattò. Ottanta secondi dopo, Marion entrò «C'è qualcuno?» Non si aspettava una risposta, e infatti non ci fu. Richiuse la porta ma non a chiave. Sulla sinistra c'era la cucina, sulla destra una piccola sala da pranzo. Una porta a vetri dava sul patio. Davanti si apriva un grande soggiorno con un
caminetto. Marion cercò una scrivania o una postazione di lavoro, ma non ne vide. Spalancò la porta a vetri e poi attraversò il soggiorno per andare ad aprire la finestra più grande. Se fosse uscito con calma avrebbe richiuso tutto, ma per il momento voleva garantirsi rapide vie di fuga. Howell non voleva Talley morto, quindi Marion avrebbe cercato di non ucciderlo, anche se lui lo avesse sorpreso in casa. Marion salì la ripida scala che portava al primo piano. Sul pianerottolo si aprivano un bagno e due camere da letto; quella alla sua destra era la camera padronale. Accese la luce. Si aspettava di dover perquisire ogni armadio e ogni cassetto della casa alla ricerca di qualche elemento che potesse essere usato per far leva su Talley, e invece eccolo lì, proprio davanti a lui, che l'aspettava. A volte succedeva proprio così. Appoggiata alla parete di fronte a lui c'era una scrivania, e sopra, gettate alla rinfusa, carte, conti, ricevute. Ma non fu questo ad attirare l'attenzione di Marion. Furono le cinque foto incorniciate e posate verso il fondo della scrivania: Talley in compagnia di una donna e una bambina, la donna e Talley sempre uguali, la bambina ritratta in età diverse. Marion si accovacciò, e se le avvicinò al volto. Una donna. Una bambina. Una moglie. Una figlia. Marion rifletté sulle possibilità. 9 Venerdì, 20.06 TALLEY L'unità di crisi dello sceriffo della contea di Los Angeles sbucò da dietro la curva come un convoglio militare. Una berlina senza contrassegni apriva la fila, seguita da un ingombrante veicolo adibito a postazione mobile di comando che sembrava il furgone di una panetteria dopo una cura di anabolizzanti. Gli uomini dello sceriffo non avrebbero avuto bisogno della casa della signora Pena: il furgone era dotato di generatore di corrente, toilette, centralina per i computer dell'agente incaricato delle operazioni di intelligence e tutto l'occorrente per trasmettere gli ordini e coordinare l'azione. C'era anche un distributore automatico di caffè. La squadra Swat seguiva a bordo di due grossi GMC Suburban e con un secondo furgone
che portava armi e attrezzature. Mentre il convoglio si fermava, gli uomini della Swat scesero di corsa, già vestiti con le loro uniformi tattiche verde scuro. Andarono rapidamente al secondo furgone, dove un sergente supervisore distribuì ricetrasmittenti e armi. A bordo di quattro autopattuglie, che seguivano i veicoli tattici, arrivarono altri vice in uniforme, al comando di un ufficiale di coordinamento. Talley percepì una variazione nella turbolenza generata dalle pale degli elicotteri, mentre questi si riposizionavano per riprendere l'arrivo degli automezzi. Se Rooney stava guardando la televisione, il suo stress sarebbe salito alle stelle. In momenti come quelli aumentava la possibilità che il soggetto si facesse prendere dal panico e decidesse di agire. Talley andò velocemente verso la prima auto della fila. Dal posto di guida scese un afroamericano alto e snello, mentre dall'altra parte smontava un uomo con radi capelli biondi. «Jeff Talley» disse, porgendo la mano. «Sono il capo della polizia locale. È lei il comandante della squadra?» L'uomo di colore gli rivolse un sorriso tranquillo. «Will Maddox. Sono il primo negoziatore. Questo è Chuck Ellison, il mio secondo. Il comandante è il capitano Martin. Ci segue a bordo del furgone.» Mentre Talley e Maddox si scambiavano una stretta di mano, Ellison disse, con una strizzatina d'occhio: «Lei preferisce viaggiare a bordo del furgone anziché con noi negoziatori. Ci sono un sacco di belle lucine là dentro». «Chuck!» Ellison assunse un'aria innocente. «Perché, cos'ho detto?» L'attività nella strada cambiò drasticamente. Talley si era sentito come appeso per la punta delle dita a uno spuntone di roccia, ma ora una forza organizzata militarmente stava prendendo il controllo della situazione negli York Estates. Una macchia di luce bianca scintillante li investì spostandosi lungo il convoglio. Tutti e tre alzarono le mani per difendersi dal bagliore accecante. Per Talley era un conforto vedere le diverse squadre che si organizzavano con collaudata efficienza. Non si sentiva più solo. Di lì a pochi minuti questo Will Maddox gli avrebbe tolto dalle spalle la responsabilità di altre vite umane. «Signor Maddox, sono davvero felice di vederla» disse. «Will» ribatté lui. «Il signor Maddox è mia moglie.» Ellison scoppiò in una sonora risata.
Maddox si limitò a sorridere distrattamente per la battuta, lanciando un'occhiata verso l'imbocco del cul-de-sac, poco più avanti. «I soggetti asserragliati sono laggiù?» «In fondo. Ho due uomini piazzati proprio davanti alla casa, tre sparsi per la proprietà su ogni lato, altri tre oltre il muro di cinta sul retro, che dà sulla Flanders Road. Abbiamo anche due agenti in ogni punto di accesso agli York Estates, e tre con i giornalisti. Avremmo bisogno di rinforzi per tenere a bada i reporter, prima che comincino a infiltrarsi nel complesso.» «Di questo potrà informare il capitano, ma prima di tutto ci sono un paio di punti che avrei bisogno di chiarire con lei.» «Dica.» Talley andò con i due uomini verso il furgone della postazione mobile di comando per parlare con il capitano. Sapeva per esperienza che Maddox ed Ellison avrebbero voluto ascoltare una replica il più dettagliata possibile delle sue conversazioni con Rooney. «È lei ad aver avuto contatti diretti con i soggetti?» «Sì. Solo io.» «Okay. Gli ostaggi sono in immediato pericolo?» «Non credo. L'ultima conversazione con Rooney l'ho avuta una ventina di minuti fa. Da come gliel'ho messa, si è convinto di potersela cavare sia per l'omicidio di Kim che per il tentato omicidio dell'agente. Voi siete al corrente, vero?» Mentre erano diretti là, gli uomini dello sceriffo avevano ricevuto un aggiornamento via radio sugli eventi che avevano portato all'attuale situazione. Maddox confermò che conoscevano i fatti essenziali. «Bene. È saltato fuori che Kim aveva una pistola, e qualcun altro dei soggetti oltre a Rooney ha sparato all'agente. Io gli ho lasciato intendere che un buon avvocato potrebbe trovare un accordo per entrambi i capi di imputazione.» «Ha avanzato qualche richiesta?» Talley spiegò che Rooney aveva chiesto un arretramento degli agenti dal perimetro e dell'accordo che avevano raggiunto, i nomi degli ostaggi in cambio del ritiro. La prima concessione era spesso la più difficile da ottenere, e il modo cui vi si giungeva poteva stabilire un precedente per quanto sarebbe venuto in seguito. Maddox camminava con le mani in tasca, un'espressione concentrata e pensierosa sul volto. «Ottimo lavoro, capo. Pare che non siamo messi poi così male. Lei era
nella squadra Swat del Dipartimento di polizia di Los Angeles, vero?» Talley lo guardò con maggior attenzione. «Esatto. Ci siamo già visti?» «Prima di andare a lavorare nell'Ufficio dello sceriffo, ero agente di pattuglia nel Dipartimento di polizia di Los Angeles, più o meno nel periodo in cui c'era anche lei. Quando ci hanno chiamato qui, oggi, il suo nome non mi è giunto nuovo. Lei è quello dell'asilo nido.» Ogni volta che qualcuno menzionava l'asilo nido, Talley si sentiva a disagio. «È successo tanto tempo fa.» «Dev'essere stata dura. Io non credo che avrei avuto le palle per farlo.» «Non si tratta di palle. È che non mi è venuto in mente nient'altro.» In una radiosa mattina di primavera, nella zona di Fairfax, un uomo aveva fatto irruzione in un asilo nido ebraico, prendendo in ostaggio un'insegnante e tre bambini. Al suo arrivo, Talley aveva trovato l'uomo confuso, incoerente e in preda a un rapido processo di dissociazione. Temendo che il soggetto fosse vicino a un attacco psicotico, e che i bambini si trovassero in imminente pericolo, Talley aveva offerto se stesso come ostaggio in cambio dei piccoli, un gesto che andava contro gli ordini espliciti del suo superiore e violava le procedure del Dipartimento di polizia di Los Angeles. Talley si era avvicinato all'asilo disarmato e senza protezione, consegnandosi all'uomo, che contemporaneamente aveva rilasciato i piccoli. Mentre l'uomo stava sulla porta con un braccio stretto intorno al collo di Talley e una Smith & Wesson 9 millimetri puntata alla sua tempia, il miglior amico di Talley a quell'epoca, Neal Craimont, lo aveva fatto secco da cinquanta metri con un colpo al sopracciglio destro. Il proiettile ultrasonico da 5,56 millimetri era passato a soli dieci centimetri dal cervello di Talley. I giornali avevano parlato di lui come di un eroe, anche se per Talley gli avvenimenti di quella mattina erano da considerarsi un insuccesso. Lui era un primo negoziatore, e per un negoziatore quando muore qualcuno è sempre un fallimento. Il successo deriva solo dalla sopravvivenza. Maddox parve avvertire il disagio di Talley e lasciò cadere l'argomento. Quando arrivarono dietro il veicolo di comando, una donna in tuta tattica si staccò da un gruppo di sergenti per andare loro incontro. Aveva una mascella volitiva, occhi neri molto vivaci, capelli biondi e corti. «È il capo Talley?» Maddox annuì. «È lui.»
Lei gli porse la mano. Ora che le era vicino, Talley vide i gradi di capitano sul colletto. La donna aveva una stretta decisa. «Laura Martin. Capitano. Sono il comandante operativo dell'unità di crisi.» A differenza di Maddox ed Ellison, che erano rilassati, il capitano Martin era tesa come una corda di violino, e i suoi modi bruschi fino al limite della scortesia. «Mi fa piacere che abbia già conosciuto i nostri negoziatori. Il sergente Maddox prenderà il comando come primo.» Laura Martin attivò la ricetrasmittente assicurata all'imbracatura e chiese un controllo delle comunicazioni tra i supervisori da lì a cinque minuti, quindi tornò a rivolgersi a Talley. «Ha piazzato degli uomini intorno alla casa?» «Sissignora.» «Quanti sono?» «Undici. In parte uomini miei, in parte agenti della Stradale. Prima li ho disposti vicino alla casa, poi li ho fatti arretrare per prendere contatto con Rooney, quindi dovrete stare attenti.» Il capitano Martin pareva non prestare alcuna attenzione alle sue parole; continuava a voltarsi per guardare la strada in entrambe le direzioni. Talley si convinse che fosse intenta a valutare la situazione e a farsi un'idea dei suoi uomini. La cosa lo irritò. Stavano spostando il furgone della postazione di comando vicino a un quadro di accesso alle linee elettriche e telefoniche interrate. Se volevano collegarsi alle linee telefoniche della casa, come pure a quelle elettriche, da lì avrebbero potuto farlo. Talley aveva già convocato sul posto alcuni uomini della compagnia telefonica e di quella che forniva l'energia elettrica. «Radunerò tutti i miei supervisori, in modo che lei possa fare un unico resoconto. Appena avremo stabilizzato la situazione, voglio far subentrare la mia squadra tattica.» Talley provò un'altra ondata di irritazione: era evidente che la situazione era stabilizzata. Suggerì al capitano Martin di radunare i suoi supervisori in casa della signora Peña, ma lei obiettò che ci voleva troppo tempo. Mentre la donna riuniva i suoi sotto un lampione, Talley chiamò via radio Metzger chiedendo le copie della piantina della casa. Le distribuì e fece un rapido resoconto delle sue conversazioni con Rooney, descrivendo quanto aveva appreso sulla casa e sulle persone che si trovavano all'interno. Laura Martin gli stava accanto, le braccia incrociate sul petto, e lo osser-
vava con quello che lui avvertiva come un crescente scetticismo. «Avete fatto tagliare luce e telefono?» «Abbiamo bloccato i telefoni. Ma non vedevo il motivo di tagliare la corrente elettrica finché non sapevamo per certo con chi avevamo a che fare.» Il capitano Martin ordinò al suo agente addetto all'intelligence, un sergente di nome Rojas, di chiamare qualcuno delle compagnie fornitrici, in caso avessero avuto bisogno di staccare la spina. Metzger indicò un punto lungo la strada. «Sono già qua. Vede quel tizio con il berretto della Duke? È lui.» Il responsabile della squadra tattica, un sergente di grande esperienza di nome Carl Hicks, studiò gli schizzi della piantina della casa, e parve seccato scoprendo che Talley non era in grado di fornirgli una copia del progetto originale presentato al comune. «Sappiamo dove tengono gli ostaggi?» «No.» «E la posizione dei soggetti?» «La stanza subito a destra rispetto alla porta d'ingresso è lo studio del padre. Di solito quando Rooney parla con me sta lì, ma non potrei dire che sia sempre così. So che si muove all'interno della casa per tenere d'occhio il perimetro, ma è molto abbottonato. Le tapparelle sono tutte chiuse tranne quelle della porta finestra che dà sulla piscina nel retro. Lì non ci sono tende, ma lui tiene le luci spente.» Hicks guardò il capitano con espressione accigliata. «Peggio per noi, ma cosa ci possiamo fare? Potremmo riuscire a scattare qualche immagine termica.» Se fossero stati costretti a fare irruzione nella casa, sarebbe stato molto più sicuro per tutti conoscere con certezza la posizione degli occupanti. Maddox fece un cenno con il mento in direzione di Talley. «Il capo, qui, è riuscito a far ammettere a Rooney che tutti e tre i ricercati si trovano dentro la casa. Forse potrei riuscire a farmi dire dove si trovano.» Laura Martin non parve affatto colpita. «Hicks, sguinzaglia due uomini intorno al perimetro per scoprire esattamente con cosa abbiamo a che fare. Accertiamoci che il posto sia sicuro.» «Capitano» disse Talley «la avverto che Rooney è ossessionato dalla posizione degli agenti. Ho fatto arretrare gli uomini per poter cominciare una trattativa. Faceva parte dell'accordo.»
La donna si spostò di qualche passo per vedere meglio la strada. Talley non avrebbe saputo dire cosa stesse guardando esattamente. «L'ho capito, capo. Grazie. Allora, è pronto a passare il telefono a Maddox ed Ellison non appena si saranno sistemati?» «Sono già pronto adesso.» Lei fece schioccare la lingua con un gesto brusco e poi si rivolse a Maddox. «Per me va bene, Maddox. Voi tre dovreste prendere posizione davanti alla casa.» Maddox aveva un'espressione tesa. Talley pensò che i modi della donna irritassero pure lui. «Preferirei avere ancora qualche minuto per esaminare le precedenti conversazioni del capo con quei tizi.» Laura Martin guardò l'orologio, impaziente. «Potrete farlo mentre subentriamo sulla scena. Voglio cominciare. Capo Talley, ho il comando della situazione?» «Sissignora, è tutto suo.» Il capitano Martin guardò l'orologio. «Allora, da questo momento subentro al comando. Sergente Maddox, prenda posizione. Sergente Hicks, lei resti con me.» Martin e Hicks si allontanarono a passo svelto verso gli uomini della Swat. Maddox rimase a fissarla per un momento, poi si voltò verso Talley. «È molto tesa.» Talley annuì ma non disse nulla. Aveva creduto che si sarebbe sentito sollevato al momento di passare il comando, ma non era così. THOMAS SMITH Solo nella sua camera buia, Thomas tratteneva il respiro per udire meglio oltre il mutevole rumore delle pale degli elicotteri. Temeva che Mars potesse far finta di allontanarsi e poi tornare in silenzio per vedere se lui cercava di slegarsi. Thomas conosceva ogni cigolio del corridoio del piano superiore perché Jennifer si divertiva a spiarlo: un'asse che scricchiolava era proprio davanti alla sua porta, un'altra a metà strada tra la sua camera e quella di Jennifer. Restò in ascolto. Niente. Thomas era sdraiato a braccia e gambe divaricate sul più basso dei letti a
castello, faccia in su, i polsi e le caviglie legati così stretti alle colonnine del letto che non sentiva più i piedi. Una volta finito di legarlo, Mars era rimasto lì accanto, incombendo su di lui come una specie di gigante ritardato, la bocca aperta come quei pervertiti che si trovano nei gabinetti pubblici, contro i quali sua madre lo metteva in guardia ogni volta che andavano al centro commerciale. Poi Mars gli aveva chiuso la bocca con il nastro adesivo. Thomas era terrorizzato: sudava come se fosse un irrigatore a pioggia e pensava di soffocare. Si dimenava, tirando i legacci che lo immobilizzavano, lottando per liberarsi, finché sentì l'alito di Mars sulla guancia. E allora non riuscì più neppure a muoversi, come se il suo corpo e la sua mente non comunicassero più tra loro e lui fosse condannato a restare lì, fermo come una tartaruga che aspetta la macchina che la ridurrà in poltiglia. Mars gli posò una mano sul petto, e l'alito si spostò sull'orecchio. Caldo e umido. Poi un sussurro. «Ti mangerò il cuore.» Thomas provò una sensazione di bruciore, dall'interno verso l'esterno, una specie di calore umido che si faceva sempre più rovente. Se la fece nei pantaloni. Mars andò alla porta, spense le luci e uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Thomas attese, contando lentamente fino a cento. Poi si mise al lavoro per liberarsi. Era bravissimo, in questo. Ed era anche molto abile a sgattaiolare fuori dalla casa, cosa che aveva fatto quasi ogni notte, quell'estate. Aspettava che i suoi andassero a letto e poi se la svignava per andare da Duane Fergus, che viveva in una grande casa rosa in King John Place. A volte lanciavano uova e rotoli di carta igienica bagnata contro le auto che passavano sulla Flanders. Quando si stufavano, attraversavano la strada e andavano nel cantiere di un complesso in costruzione dove parcheggiavano gli adolescenti per pomiciare. Duane Fergus (che aveva un anno più di lui e sosteneva di farsi la barba) una volta aveva lanciato un sasso contro una Bmw nuova fiammante perché (così diceva lui) quello stronzo fortunato al volante si stava facendo fare un pompino. Per poco non se l'erano fatta addosso tutti e due quando l'auto si era messa in moto, illuminandoli con i fari. Avevano attraversato la Flanders così di corsa che per poco non erano finiti sotto le ruote di un gigantesco autoarticolato. Thomas aveva perfezionato l'arte di muoversi non visto attraverso la casa cambiando l'angolazione di alcune telecamere. Appena appena, solo un
pochino, quel tanto perché i suoi non potessero vedere proprio tutto. Sapeva che gran parte della gente non viveva in case in cui ogni stanza era sorvegliata da un sistema televisivo a circuito chiuso. Suo padre gli aveva spiegato che quella precauzione era necessaria perché lui teneva i libri contabili di persone importanti e qualcuno avrebbe potuto tentare di rubarli. Era un grossa responsabilità, aveva detto, e quindi dovevano proteggere la casa nel miglior modo possibile. Spesso aveva raccomandato a lui e Jane di stare in guardia da tipi sospetti, e di non parlare mai degli allarmi e delle telecamere con i loro amici. Sua madre diceva che le considerava tutte sciocchezze e che erano solo il giocattolo del padre. Ma per Duane erano una bomba. Il cavo che gli bloccava il polso sinistro era allentato. Mentre Mars gli legava il polso destro alla colonnina del letto, Thomas si era scostato appena, in modo che ora il cavo aveva un po' di gioco. Tirò con forza, serrando di più i nodi, ma riuscendo così a toccare con le dita il nodo che lo assicurava alla colonnina. Era stretto. Thomas vi conficcò le dita così forte che il dolore gli fece venire le lacrime agli occhi, ma il nodo si allentò. Continuò a lavorare freneticamente, terrorizzato all'idea che Mars o uno degli altri spalancasse la porta, ma poi il nodo cedette e la sua mano fu libera. Strappare il nastro adesivo dalla bocca gli fece più male di un'otturazione dal dentista. Slegò la mano destra, poi i piedi, e fu libero. Come diceva Duane, dovevi rischiare di rimanere spiaccicato sulla strada se volevi vedere un tizio che si faceva fare un pompino. Thomas rimase sdraiato sul letto, in ascolto. Niente. So dove papà tiene una pistola. Thomas si sentiva calmo e sicuro di ciò che doveva fare. Sapeva esattamente cosa le telecamere potevano riprendere e cosa no. Avrebbe voluto andare in bagno a lavarsi, ma sapeva che sarebbe stato visibile sul monitor. Si tolse i pantaloni e si pulì alla meglio con le mutande, quindi le appallottolò e le infilò sotto il letto. Scivolò a terra e strisciò lungo la parete verso l'armadio, passando sotto la scrivania. Qualcuno aveva divelto il suo telefono dal muro, lasciando la spina nella presa, ma strappando i fili. Stronzi. Nel libro Il leone, la strega e l'armadio, i bambini trovavano una porta segreta in fondo al guardaroba attraverso la quale fuggivano dal mondo reale per entrare nella terra fantastica di Narnia. Anche lui aveva la sua porta segreta in fondo al guardaroba: una botola di accesso a un passaggio che correva sotto le falde ripide del tetto. Era il suo percorso privato (suo e di
Duane), attraverso il quale poteva raggiungere le altre botole di accesso sparse per la casa. Thomas aprì lo sportello e si infilò nell'apertura, facendo attenzione a non battere la testa contro le travi. Il calore accumulatosi nello spazio ristretto lo avvolse come un gas. Cercò la torcia elettrica che teneva lì vicino, la accese, quindi richiuse lo sportello. In quella parte della casa il sottotetto era un lungo tunnel a sezione triangolare che seguiva il margine posteriore del tetto. Nei punti in cui le finestre erano ritagliate nel tetto, il triangolo diventava un basso rettangolo che lo costringeva a strisciare sulla pancia. Procedette così finché non arrivò a una seconda botola d'accesso, che si apriva nell'armadio a muro di Jennifer. Rimase in ascolto finché non fu certo che gli stronzi non fossero nella camera della sorella, quindi la aprì facendo crollare una montagna di scarpe. L'armadio era avvolto nell'oscurità, la porta chiusa. Si fece largo tra le scarpe e i vestiti, quindi spense la torcia. Arrivato alla porta si immobilizzò, ma non sentì nessun rumore. La socchiuse. Nella camera le luci erano spente; era un bene perché gran parte del locale era visibile sui monitor. Aprì la porta così lentamente che gli parve di impiegarci un'eternità. La stanza era illuminata dal chiarore azzurrino della luna. Vide Jennifer legata alla sedia, la schiena rivolta verso di lui. «Jen?» Lei si mosse di colpo e borbottò qualcosa. Thomas le parlò, tenendo la voce bassa. «Sono nel tuo armadio a muro. Rilassati, okay? Se stanno guardando, ti possono vedere sui monitor.» Lei smise di agitarsi. Thomas cercò di ricordare quale parte della camera venisse coperta dalla telecamera. A volte, quando i suoi erano via, lui e Duane andavano nella stanza di sicurezza perché l'amico potesse vedere Jennifer nuda. Era quasi certo che se fosse uscito strisciando a terra e poi si fosse tenuto contro la parete sotto le finestre, dove c'era più ombra, avrebbe potuto avvicinarsi alla sedia. Se avesse sentito Mars o gli altri avvicinarsi, avrebbe potuto rifugiarsi di nuovo dentro il sottotetto e da lì tornare nella propria camera, oppure fuggire in garage. «Jen, ascoltami. Ora vengo vicino a te.» Lei scosse il capo con violenza, borbottando freneticamente sotto il nastro adesivo. «Sta' zitta! Non posso slegarti.»
Thomas spinse la porta di qualche centimetro, poi avanzò nell'oscurità strisciando sui gomiti. Passando davanti alla scrivania, si accorse che anche il telefono di Jane era stato strappato dal muro. Stronzi. Girò tutt'intorno alla stanza, e presto si trovò sdraiato accanto al letto, sfruttando l'ombra per nascondersi. Era a poco più di un metro dalla sorella, e vide che aveva la bocca coperta dal nastro adesivo. Alzò gli occhi verso l'angolo del soffitto in cui era inserita la telecamera. Queste telecamere non erano visibili: erano quelli che suo padre chiamava "stenoscopi", montati nel sottotetto dietro la parete da cui sbirciavano attraverso minuscoli fori. Scivolò fino alla sedia e andò a mettersi dietro la sorella. Immaginò che la telecamera potesse riprenderla dalla vita in su, ma non molto bene nell'oscurità. Decise di rischiare. Allungò la mano e velocemente strappò via il nastro adesivo per poi tornare a nascondersi dietro alla sedia. «Merda! Che male!» «Sta' zitta e ascolta!» «Ti beccheranno!» «Shh! Ascoltami!» Thomas allungò le orecchie, concentrandosi per sentire oltre il rumore degli elicotteri e della polizia, là fuori. Niente. «Va tutto bene, Jen. Non mi hanno visto e ora non possono vedermi. Non ti voltare. Stammi solo a sentire.» «Come hai fatto a entrare qui?» «Sono passato attraverso il sottotetto. Ora ascoltami e sta' ferma. Adesso ti slego. Hanno inchiodato le finestre, ma credo che possiamo scendere passando per il sottotetto. Se riusciamo ad arrivare fino al garage, possiamo aprire la porta e scappare.» «No!» Thomas lavorava con gesti frenetici. Il cavo non era teso intorno a polsi e caviglie, ma i nodi erano stati stretti molto forte. «Thomas, smettila! Dico sul serio! Non slegarmi.» «Ma sei scema? Potremmo riuscire a scappare!» «Ma papà resterebbe qui. Io non me ne vado senza di lui.» Thomas si accovacciò sui talloni, confuso. «Ma, Jen...» «No! Thomas, se ci riesci fa' pure, ma io non me ne vado senza papà.» Thomas era così arrabbiato che l'avrebbe presa a pugni. Erano chiusi là dentro con tre killer pazzi furiosi che probabilmente bevevano sangue u-
mano, tra cui un maniaco deciso a mangiargli il cuore, e lei non voleva andarsene. Ma poi, riflettendoci, Thomas capì che la sorella aveva ragione. Neanche lui avrebbe potuto lasciare lì suo padre. «Cosa facciamo, Jen?» Per lunghi istanti lei non rispose. «Chiama la polizia.» «La casa è circondata dalla polizia.» «E tu chiamali comunque! Forse loro hanno un'idea. Forse se gli diciamo esattamente cosa sta succedendo qua dentro, questo potrebbe aiutarli.» Thomas lanciò un'occhiata verso la scrivania, ricordandosi che i cavi erano stati strappati. «Hanno messo fuori uso i telefoni.» Jennifer rimase di nuovo in silenzio. «Allora non lo so. Thomas, tu dovresti scappare.» «No!» «Dico sul serio. Se riesci a raggiungere la polizia, forse li puoi aiutare. Tu sai tutto sugli allarmi e le telecamere. Sai che papà è ferito. Quel bastardo di Dennis ha mentito, continua a dire che stiamo tutti bene.» «Lascia almeno che ti sleghi. Potresti nasconderti nell'intercapedine.» «No! Potrebbero fare del male a papà. Senti, se scoprono che non sei più nella tua camera, io dirò loro che sei scappato. Non possono sapere che sei nascosto dentro le pareti. Non ci penseranno mai! Ma se scompariamo tutti e due, se la prenderanno con papà. Potrebbero fargli del male!» Thomas ci rifletté. «Okay, Jen.» «Okay, cosa?» «Non lo lasceremo. Troverò il modo. Ce ne andremo tutti.» Jennifer tirò il cavo con tanta violenza che per poco non fece ribaltare la sedia. «Lascia stare quella pistola! Ti uccideranno!» «No, se ho la pistola. Li posso tenere a bada abbastanza a lungo da chiamare la polizia. Non dobbiamo fare altro.» Lei si girò sulla sedia, nel tentativo di vederlo. «Thomas, non ci provare! Sono adulti! Sono dei criminali e anche loro sono armati!» «Non parlare così forte, o ti sentiranno!» «Non mi interessa! È sempre meglio che lasciare che ti uccidano!» Thomas allungò la mano verso l'alto e le rimise il nastro adesivo sulla
bocca, premendo con forza perché si riattaccasse. Jennifer si dimenò, cercando di urlare sotto il bavaglio. Thomas non sopportava l'idea di lasciarla lì, ma non aveva altra scelta. «Mi spiace Jen. Ti slegherò quando torno. Porteremo papà fuori di qui, vedrai. Non lascerò che ci facciano del male.» Jennifer si stava ancora dimenando quando Thomas rifece il percorso al contrario, nascosto nell'ombra. Quando arrivò all'armadio a muro, sentì che cercava ancora di urlare attraverso il nastro. Continuava a urlare la stessa cosa. Lui riusciva a capirla anche se le parole erano smorzate dal bavaglio. Ti uccideranno. Ti uccideranno. Thomas si infilò nel sottotetto, avanzando con cautela nel buio. DENNIS Il piccolo bagno di servizio annesso al garage era buio come una caverna quando Dennis mostrò loro la finestra, spiegando che avrebbero potuto infilarsi nel giardino della casa vicina e da lì girare intorno all'edificio eludendo la polizia. Mars sembrava pensieroso, ma Dennis non avrebbe saputo dirlo con certezza, lì, con tutto quel buio. «Potrebbe funzionare.» «Puoi dirlo forte che potrebbe funzionare.» «Ma non sappiamo cosa sta facendo la polizia né dove possono essere. Dobbiamo dargli qualcosa da pensare, a parte noi.» «Staranno sorvegliando questa casa. Non hanno nient'altro da fare.» «A me non piace proprio per niente» disse Kevin. «Io dico che dovremmo arrenderci.» «Sta' zitto.» Mars andò in garage e si fermò accanto alla Range Rover. Dennis temeva che avrebbe suggerito di nuovo di uccidere il ragazzo «Dài, Mars, dobbiamo muoverci. Non abbiamo tutto il tempo di questo mondo.» Mars si voltò verso di lui, il volto illuminato dal debole chiarore proveniente dalla cucina. «Se vuoi scappare, dovremmo dar fuoco alla casa.» Dennis fece per dire di no, poi si bloccò. Aveva pensato di far salire i ragazzi a bordo della Jaguar e di aprire la porta con il telecomando come a-
zione diversiva, ma un incendio era molto meglio. I poliziotti se la sarebbero fatta addosso per la paura se la casa avesse preso a bruciare. «Non è una cattiva idea. Potremmo dar fuoco a qualcosa sull'altro lato della casa.» Kevin alzò le mani. «Voi siete matti. Così ci accuseranno anche di incendio doloso.» «Ma Kevin, è una buona idea! Tutti i poliziotti saranno concentrati sull'incendio. Non guarderanno il giardino della casa vicina.» «Ma... e questa gente?» Kevin si riferiva agli ostaggi. Dennis stava per rispondere quando Mars parlò di nuovo. La sua voce era calma e inespressiva. «Bruceranno.» Dennis sentì un brivido alla schiena, come se Mars avesse passato un chiodo su una lavagna. «Mars, non ce n'è bisogno. Possiamo chiuderli qui in garage prima di andarcene. Penseremo a qualcosa.» Decisero di usare della benzina per far scoppiare l'incendio. Dennis trovò una tanica di plastica da dieci litri che probabilmente la famiglia teneva per le emergenze, ma era quasi vuota. Allora Mars si servì della cannuccia di plastica dell'acquario per aspirare benzina dalla Jaguar. Riempì la tanica e poi un grosso secchio. Stavano portando la benzina in casa quando il rumore degli elicotteri cambiò nuovamente e altre auto vennero a prendere posizione nel cul-de-sac. Dennis si fermò, con il secchio in mano, in ascolto. Poi, all'improvviso, la parte anteriore della casa venne investita da una luce fortissima che si concentrò sulla grossa porta del garage e filtrò all'interno del bagno di servizio nonostante gli oleandri. «Ma che cazzo... Cosa sta succedendo?» Si precipitarono verso il davanti della casa, con la benzina che sciabordava dal secchio. «Kevin! Tu sorveglia la porta finestra!» Dennis e Mars lasciarono la benzina nell'ingresso, poi corsero nello studio, dove Walter Smith continuava a tremare sul divano. Lame di luce filtravano, dipingendo ogni cosa con pennellate luminose. Dennis aprì i listelli delle tapparelle e vide altre due auto della polizia ferme in strada. Tutte e quattro le auto avevano puntato i fari sulla casa, mentre dagli elicotteri potenti fasci di luce investivano il giardino. Arrivarono altre mac-
chine. «Oh, merda!» La televisione stava trasmettendo l'arrivo degli uomini dello sceriffo della contea di Los Angeles attraverso le strade buie degli York Estates. Dennis vide un gruppo della Swat attraversare correndo l'ovale di luce proiettato dagli elicotteri e andare ad appostarsi intorno alla casa. Cecchini. Killer a sangue freddo vestiti come guerrieri ninja, armati di fucili dotati di visori notturni, puntatori laser e - per quello che ne sapeva lui - pure di raggi mortali. Mars aveva ragione: quei bastardi li avrebbero fatti secchi se avessero cercato di fuggire con i ragazzi. «Siamo fottuti. Guarda quanti poliziotti.» Dennis sbirciò attraverso i listelli delle tapparelle, ma in strada erano stati sistemati così tanti fari che la luce era accecante: avrebbero anche potuto esserci mille poliziotti a venti metri da loro e lui non li avrebbe visti. «Vaffanculo!» La situazione era di nuovo cambiata. Un attimo prima aveva un piano di fuga fantastico, un attimo dopo tutti i lati della casa erano illuminati a giorno e le strade invase da un esercito di poliziotti. In cielo, pareva che gli elicotteri stessero per atterrare sul tetto. Ora sarebbe stato impossibile svignarsela attraverso il giardino della casa accanto. Dennis tornò a voltarsi verso la televisione. Sei autopattuglie ostruivano il cul-de-sac, illuminate dalla luce bianca degli elicotteri, e dietro di loro si muoveva almeno una dozzina di agenti. Dennis andò da Walter Smith e ispezionò la ferita. Il livido si allargava intorno all'orbita e si stava espandendo fin sotto la guancia, coprendo anche gran parte del lato destro della fronte. L'occhio si era gonfiato così tanto che era completamente chiuso. Dennis si pentì di aver colpito quel figlio di puttana. Si voltò e andò alla porta. «Vado a controllare di nuovo le finestre. Voglio essere sicuro che Kevin non si addormenti. Mars, tu tieni d'occhio la tivù. Se succede qualcosa, fammi un fischio.» Mars, appoggiato alla parete con il viso rivolto verso le tapparelle, non rispose. Dennis non era sicuro che lo avesse sentito, ma non gliene importava. Andò in soggiorno, dov'era Kevin. «Cosa succede? Non ce ne andiamo più?» «Sono arrivati quei fottutissimi sceriffi. Sono dappertutto, come le formiche. E hanno piazzato dei tiratori scelti, là fuori!» Dennis era terrorizzato all'idea di poter essere ucciso. I poliziotti non vo-
levano altro che farla pagare al bastardo che aveva ferito uno dei loro, e quel bastardo era lui. Se fosse passato davanti a una finestra o si fosse fatto vedere alla porta finestra, quei maledetti cecchini gli avrebbero piazzato una pallottola in mezzo alla fronte. Ovviamente, Kevin rese le cose ancora peggiori assumendo quella sua aria da inconcludente. «E ora cosa facciamo?» «Non lo so, Kevin! Hanno acceso così tante luci là fuori che non distinguo più un cazzo. Forse potrei vedere qualcosa di più in quelle televisioni nella stanza di sicurezza.» Kevin si voltò di colpo verso il retro della casa. «Hai sentito?» Dennis rimase in ascolto, terrorizzato che quei killer della Swat si stessero infilando in casa silenziosi come un verme su per il culo di un gatto. «Sentito cosa?» «Mi è parso di sentire un tonfo, là dietro.» Dennis trattenne il fiato per ascoltare meglio, ma non udì alcun rumore. «Stronzo. Avvertimi se arriva Mars.» Dennis lasciò Kevin di guardia all'inizio del corridoio, quindi si avviò veloce verso la camera padronale e da lì entrò nella stanza di sicurezza. Era dal tramonto che non controllava più i monitor. Vide Mars in piedi vicino alle finestre, l'ingresso con la porta forata dai proiettili, la ragazza legata alla sedia nella sua camera al piano superiore. Non vide il ragazzo ma non ci fece caso. Cercò i monitor che riprendevano l'esterno della casa, ma le inquadrature erano buie e indecifrabili. «Merda!» Si allontanò di scatto dai monitor, frustrato e irritato. Afferrò una bracciata di giacche appese al bastone dell'armadio e le scagliò contro la parete in fondo. Se c'era un modo per farsi fottere, si poteva stare sicuri che lui lo avrebbe trovato! Dennis tornò a guardare gli schermi. Osservò i pulsanti e gli interruttori della console. Non c'erano indicazioni, ma tanto lui non aveva niente da perdere. Abbassò tutte le levette che trovò alzate e premette tutti i tasti. All'improvviso, un monitor che fino ad allora aveva mostrato solo ombre sul lato non illuminato della casa prese vita con un'immagine luminosa. Pigiò un pulsante e la zona della piscina si riempì di luce. Un altro, e si illuminò anche il lato del garage. Vide alcuni poliziotti indicare le luci che li avevano abbagliati.
Dennis premette altri pulsanti, e il muro sul retro della proprietà oltre la piscina venne inondato dalla luce. Due uomini della Swat armati di carabina lo stavano scavalcando. «MERDA!!!!» Dennis attraversò di corsa la casa, urlando. «STANNO VENENDO QUI!! KEV, MARS!!! STANNO ARRIVANDO!!!» Andò alla porta finestra della cucina. Non riusciva a vedere i poliziotti per via della luce accecante proveniente dall'esterno, ma sapeva che erano là e sapeva che stavano arrivando. Dennis sparò due colpi alla cieca, senza pensarci, così, solo per premere il grilletto. Due pannelli della porta finestra andarono in frantumi. «Quei porci stanno arrivando! Quel bastardo di Talley! Quel fottuto bugiardo!» Dennis pensò che il suo mondo stesse per esplodere. Avrebbero sparato candelotti lacrimogeni e poi sfondato le porte. Probabilmente in quello stesso istante stavano correndo verso la casa con gli arieti. «Mars! Kev! Andiamo a prendere i ragazzi!» Dennis corse su per le scale, con Kevin che gli urlava dietro. «Cosa ce ne facciamo dei ragazzi?» Dennis non rispose. Salì i gradini tre alla volta. THOMAS Tre minuti prima che Dennis Rooney vedesse gli agenti della Swat e sparasse i due colpi, Thomas si era calato attraverso il soffitto nel locale lavanderia. Era così buio che mise una mano davanti alla torcia e si arrischiò ad accenderla per pochi istanti, usando il debole bagliore che filtrava dalle dita per orientarsi. Poi si lasciò cadere in cima al boiler dell'acqua calda, cercò con il piede la lavatrice, e da lì scivolò a terra. Rimase immobile, in ascolto. La lavanderia era collegata alla cucina da un piccolo corridoio dal quale si accedeva anche alla dispensa. Thomas sentiva le voci di Kevin e Dennis ma non riusciva a capire cosa stessero dicendo, poi le voci si zittirono. Thomas attraversò silenzioso la lavanderia fino al piccolo locale che suo padre usava come laboratorio per i suoi hobby, sull'altro lato rispetto alla cucina. Si trovavano entrambi sul retro del garage, ma per andare in garage si doveva per forza passare attraverso la lavanderia. Era quello il percorso
che bisognava fare per entrare in casa, una volta scesi dall'auto: garage, lavanderia, cucina. Arrivato nel laboratorio, Thomas chiuse piano la porta, poi accese di nuovo brevemente la torcia. Suo padre aveva l'hobby di costruire modellini in plastica di razzi risalenti ai primi periodi dei programmi spaziali. Comperava i kit da eBay, li costruiva e li dipingeva al piccolo banco da lavoro, poi li riponeva sulle mensole. Sullo scaffale più alto, suo padre conservava anche una Sig Sauer 9 millimetri chiusa in una scatola di metallo. Thomas aveva sentito i genitori discutere in proposito: prima papà la teneva sotto il sedile della Jaguar, ma la mamma aveva piantato un tale casino che lui era stato costretto a metterla altrove. Sulla mensola più alta. Parecchio in alto. Thomas riaccese la torcia per pochi secondi, allargando appena le dita della mano per far filtrare una lama di luce. Pensò che poteva servirsi dello sgabello per salire sul banco e da lì, forse, allungare la mano fino alla scatola. Si arrampicò. C'era un tale silenzio che ogni minimo scricchiolio del banco pareva un terremoto. Accese ancora una volta la torcia, solo per un attimo, per fissare negli occhi della mente la posizione della scatola, poi allungò la mano in quella direzione, ma la scatola era troppo in alto. Si sollevò sulla punta dei piedi. Le sue dita la sfiorarono quel tanto da spostarla verso il bordo dello scaffale. Fu allora che sentì Dennis urlare. «STANNO VENENDO QUI!! KEV, MARSH! STANNO ARRIVANDO!!!» Thomas non perse un solo secondo: era andato lì per prendere la pistola, ma ora non c'era tempo. Il suo unico pensiero fu quello di tornare nella sua stanza prima che lo scoprissero. Saltò giù dal banco e corse nella lavanderia mentre due colpi in rapida successione esplodevano dentro la casa, così forti da fargli fischiare gli orecchi. Non pensava assolutamente alla borsa di Jennifer, ma eccola lì, posata sul tavolino pieghevole accanto alla porta del garage, il posto più comodo dove ogni membro della famiglia mollava le proprie cose entrando in casa dal garage. La borsa di Jennifer era proprio lì, una Kate Spade uguale a quella di tutte le altre ragazze della sua scuola. Thomas l'afferrò. Si arrampicò sulla lavatrice e da lì sul boiler, quindi si infilò dentro la botola che portava al sottotetto. L'ultima cosa che udì prima di chiudere lo
sportello fu Dennis che urlava di prendere i ragazzi. TALLEY Passare le consegne come primo negoziatore non era mai facile. Talley era riuscito a costruire un legame con Rooney e ora doveva ritirarsi, lasciando che Maddox lo sostituisse. Rooney avrebbe potuto opporre resistenza, ma al soggetto non era mai data alcuna scelta. Avere la possibilità di scegliere significava avere potere, e al soggetto questo non era concesso, mai. Talley accompagnò Maddox ed Ellison nel cul-de-sac, e lì si accucciarono dietro la loro auto. Talley avrebbe voluto descrivere con maggiori dettagli le sue precedenti conversazioni con Rooney, in modo che Maddox avesse più elementi su cui lavorare, ma non c'era tempo. Gli spari provenienti dalla casa crepitarono nell'aria estiva come ritorni di fiamma di un'auto in un canyon lontano. Quasi istantaneamente dalle loro ricetrasmittenti si scatenò una tempesta di messaggi. «Colpi d'arma da fuoco! Colpi d'arma da fuoco! Ci stanno spaiando dall'interno della casa, muro posteriore, lato ovest! Aspettiamo ordini!» Tutti e tre capirono cos'era successo nell'attimo stesso in cui udirono i messaggi. «Maledizione, li ha messi troppo vicini! Rooney pensa che stiano per fare irruzione!» «Siamo fottuti» disse Ellison. Talley venne assalito da un'ondata di nausea: era così che le cose degeneravano, che la gente ci lasciava la pelle. Bastavano pochi secondi. Maddox allungò la mano verso la radio, mentre altri agenti chiedevano di verificare posizione e collegamenti. La voce metallica di Carl Hicks, il supervisore tattico, rispose calma al di sopra delle richieste concitate dei suoi uomini. «Restate in attesa, tenetevi pronti mentre valutiamo la situazione.» Talley non perse tempo. Digitò la frequenza della squadra tattica sulla sua ricetrasmittente. «Ritiratevi. Ritiratevi! Non rispondete al fuoco!» La voce del capitano Martin si sovrappose alla sua, brusca e tagliente. «Chi parla?» «Talley. Le avevo detto di rispettare il perimetro!» «Talley, liberi la frequenza.»
Maddox era finalmente riuscito ad afferrare la radio, imprecando mentre attivava il microfono. «Unità uno, qui Maddox. Gli dia ascolto, capitano. Non faccia irruzione nella casa. Ritiri gli uomini, altrimenti sarà una carneficina!» «Liberi la frequenza! Quella gente è in pericolo.» «Non fate irruzione nella casa! Posso parlargli!» Talley aveva già estratto il cellulare. Premette il pulsante di ripetizione automatica dell'ultimo numero chiamato, pregando che Rooney rispondesse, quindi corse all'auto di Jorgenson, ancora ferma nella strada, e accese l'altoparlante. THOMAS Thomas corse carponi in mezzo ai travetti, veloce come un ragno. Picchiò la testa contro le travi del tetto così forte da battere i denti, ma non si fermò né si curò del rumore che stava facendo. Scappò per il tunnel lungo e diritto del sottotetto, oltrepassando la stanza di Jennifer, infilandosi sotto la finestra di lei, poi sotto la propria, fino alla botola da cui si accedeva al suo armadio a muro. Non si fermò neppure per controllare se fossero già entrati nella sua stanza, ma corse subito al letto. Voleva legarsi di nuovo per fingere di non essersi mai mosso. Si avvolse il cavo intorno alle caviglie, con movimenti frenetici, le mani umide per il sudore, mentre dal corridoio gli giungevano urla e rumore di passi. Girò il cavo e vi infilò dentro le mani, rendendosi improvvisamente conto con terrore di aver dimenticato il nastro adesivo che gli copriva la bocca, ma ormai era troppo tardi. DENNIS Dennis spalancò la porta di colpo. Vide che il ragazzo era quasi riuscito a slegarsi, ma ora non aveva più importanza. «Avanti, ciccione!» «Stammi lontano!» Dennis si infilò la pistola nella cintura dei pantaloni, quindi immobilizzò Thomas con un ginocchio per slegarlo. Fuori, la voce di Talley echeggiò attraverso l'altoparlante, ma Dennis non riuscì a distinguere le parole. Sbatté il ragazzo giù dal letto, lo afferrò mettendogli un braccio intorno al collo e lo sospinse verso le scale. Se i poliziotti avessero fatto irruzione attraver-
so l'ingresso principale, gli avrebbe puntato la pistola alla tempia, minacciando di ucciderlo. Lo avrebbe usato come scudo per costringere i poliziotti ad arretrare. Era una chance, una speranza. «Sbrigati, Kevin! Porta la ragazza!» Dennis trascinò il ragazzo giù per le scale fin dentro lo studio dove Mars aspettava, accanto alla finestra. Sembrava perfettamente calmo, come se stesse ammazzando il tempo in un bar in attesa di andare al lavoro. Quando vide Dennis piegò la testa di lato, con quel suo sorrisetto da stupido sul volto impassibile. «Non stanno facendo nulla. Sono fermi lì.» Dennis trascinò il ragazzino fino alla finestra. Mars aprì le tapparelle quel tanto da permettergli di vedere fuori. I poliziotti non stavano per fare irruzione nella casa: erano accucciati dietro le auto. Dennis si rese conto che il telefono stava squillando mentre l'altoparlante diffondeva la voce di Talley. «Rispondi al telefono, Dennis. Sono io, Talley. Rispondi al telefono, così posso spiegarti cosa è successo.» Dennis afferrò il ricevitore. TALLEY Il capitano Martin e Hicks corsero verso il fondo del cul-de-sac senza aspettare un veicolo di copertura. Laura Martin si buttò a terra dietro l'auto con una tale violenza che per poco non lo travolse. «Cosa diavolo crede di fare interferendo con il mio operato?» urlò. «Sta sparando ai suoi uomini perché è convinto che stiano per assaltare la casa, capitano. Lei sta violando gli accordi che io ho preso con lui.» «Ora la scena è di mia competenza. Lei mi ha passato il comando.» «Faccia arretrare i suoi uomini, capitano, e si rilassi. In quella casa non sta succedendo niente.» Talley attivò di nuovo il microfono dell'altoparlante. «Dennis, vacci piano là dentro. Per favore. E rispondi al telefono.» «Hicks!» Hicks si sporse dentro l'auto e strappò il cavo del microfono dalla spina. Talley aveva la testa che pulsava, si sentiva preso in una morsa. «Mi lasci parlare con lui, capitano. Ordini ai suoi di stare indietro e mi lasci parlare con lui. Se la situazione degenera farete irruzione, ma ora mi faccia provare. Glielo dica anche lei, Maddox.»
Il capitano Martin lanciò un'occhiata torva in direzione di Maddox, il quale annuì, imbarazzato. «Ha ragione, capitano. Non facciamoci vedere troppo aggressivi. Se Talley ha fatto un accordo, dobbiamo rispettarlo, altrimenti questo tizio non si fiderà più di me.» Laura Martin gli rivolse uno sguardo così feroce che pareva volesse incenerirlo. Poi si voltò verso Hicks e a denti stretti disse: «Ritiratevi». Hicks, imbarazzato, inserì di nuovo il cavo del microfono nella spina, quindi mormorò gli ordini nella sua ricetrasmittente. Talley tornò a voltarsi verso la casa. «Rispondi al telefono, Dennis. Abbiamo fatto un errore, qua fuori, ma non abbiamo intenzione di entrare nella casa. Guarda tu stesso. Gli uomini si stanno ritirando. Controlla e poi vieni a parlare con me.» Talley teneva il cellulare premuto contro l'orecchio, contando gli squilli. Suonò quattordici volte, quindici... Alla fine, Rooney rispose, urlando. «Mi hai mentito, testa di cazzo! Ho una pistola puntata contro la testa del ragazzino! Questa gente è nelle nostre mani. Lo uccideremo!» Talley parlò sopra le sue parole, con voce forte e decisa in modo che Rooney lo sentisse. Era importante far vedere che si aveva il controllo della situazione, anche se così non era. «Si stanno ritirando. Si stanno ritirando, Dennis. Guarda. Vedi gli agenti che si allontanano?» Al telefono si sentì un rumore come di movimento. Talley immaginò che Rooney avesse un cordless e stesse osservando la squadra tattica sul retro della proprietà. «Sì, credo di sì. Stanno scavalcando il muro.» «Io non ti ho mentito, Dennis. Ora è tutto a posto, okay? Non fare del male a nessuno.» «Se cercate di entrare, gli diamo fuoco a questo cazzo di posto! Abbiamo già la benzina pronta, Talley. Se cercate di entrare, questo posto va arrosto!» Talley guardò Maddox negli occhi. Il fatto che Rooney stesse collocando trappole incendiarie in giro per la casa era un brutto segno; se si veniva a creare una situazione pericolosa per gli ostaggi, questo avrebbe giustificato un'irruzione nella casa. «Non fare nulla che possa mettere in pericolo te stesso o quei ragazzi, Dennis. Per il tuo bene e per il bene delle persone innocenti che sono lì
dentro con te. Questo tipo di comportamento può creare dei problemi.» «E allora restate dall'altra parte del muro. Cercate di venire a prenderci, brutti stronzi, e questa casa brucerà come un fiammifero.» Mentre Dennis rispondeva, Talley coprì il telefono con la mano per avvertire Maddox della benzina. Maddox passò l'informazione all'unità tattica. Se Rooney diceva la verità, il lancio di candelotti lacrimogeni o granate stordenti all'interno della casa avrebbe potuto scatenare un inferno. «Nessuno vuole entrare. Abbiamo fatto un po' di casino, tutto qui. È arrivata gente nuova e non ci siamo capiti, ma io non ti ho mentito. Non lo farei mai.» «Lo puoi ben dire che avete fatto un casino, amico!» La tensione nella voce di Rooney era diminuita e con essa anche la morsa alla testa di Talley. Finché continuava a parlare, Rooney non avrebbe sparato. «Com'è la situazione lì dentro, Dennis? Non hai fatto del male a nessuno, vero?» «Non ancora.» «Quei colpi che hai sparato, erano diretti fuori dalla casa?» «Io non ho detto di aver sparato. Lo stai dicendo tu, non io. Lo so che stai registrando tutto.» «Non c'è nessuno che ha bisogno di un dottore?» «Ne avrai bisogno tu di un dottore, se ci riprovi con queste cazzate.» Talley fece un respiro profondo. Era fatta. Avevano superato il momento di crisi. Talley lanciò un'occhiata al capitano Martin. Pareva seccata, ma seguiva attentamente gli sviluppi. Talley coprì il ricevitore. «Si sta calmando. Credo che questo sarebbe il momento buono per un passaggio delle consegne.» Laura Martin guardò Maddox. «È pronto?» «Sono pronto.» Il capitano Martin fece un cenno con il capo a Talley. «Vada.» Talley scoprì il ricevitore. «Dennis, hai riflettuto su quello che ti ho detto prima?» «Ho un sacco di cose a cui pensare.» «Non ne dubito. Però era un buon consiglio, quello che ti ho dato.» «Può darsi.»
Talley abbassò la voce cercando di dare l'impressione che ciò che stava per dire era una cosa tra loro due, da uomo a uomo. «Posso dirti una cosa personale?» «Cosa?» «Ho una gran voglia di fare una bella pisciata.» Rooney scoppiò a ridere e Talley capì che il passaggio non sarebbe stato un problema. Cercò di apparire rilassato, assumendo un tono amichevole, facendo intendere che ciò che stava per accadere era la cosa più naturale del mondo. Rooney era sollevato quanto lui di aver superato l'incidente. «Dennis, io devo fare una pausa. Vedi tutta questa gente nuova?» «Avrete mille uomini là fuori... certo che la vedo.» «Ora ti passo un agente che si chiama Will Maddox. Mi hai fatto prendere un tale spavento che devo andare a pulirmi le braghe, mi capisci? Quindi, se vuoi parlare o devi chiedere qualcosa, Maddox resterà in linea.» «Sei davvero un tipo strano, Talley.» «Eccolo qui, Dennis. E mantenete la calma, là dentro, okay?» «Io sono calmo.» Talley porse il telefono a Maddox, che si presentò con voce morbida e calda. «Ehi, Dennis, avresti dovuto vedere Jeff, qua fuori. Credo che se la sia fatta addosso.» Talley non ascoltava più. Da lì in poi se ne sarebbe occupato Maddox. Si sedette a terra, appoggiandosi alla macchina, come prosciugato. Lanciò un'occhiata al capitano Martin e si accorse che lei lo stava osservando. La donna gli si avvicinò camminando accucciata e venne a sedersi al suo fianco, poi lo guardò negli occhi come se stesse cercando le parole giuste. I suoi lineamenti si ammorbidirono. «Aveva ragione. Mi sono lasciata prendere dalla fretta e ho commesso un errore.» Talley l'ammirò per quanto aveva detto. «Siamo sopravvissuti.» «Per adesso.» THOMAS Dopo tutte quelle urla, quei momenti frenetici in cui Thomas credeva che Dennis gli avrebbe sparato in testa come minacciava, Jennifer lo fulminò con lo sguardo e gli disse solo due parole: «Non farlo».
Solo Thomas le udì. Dennis stava camminando su e giù, parlando da solo, Kevin seguiva Dennis con gli occhi come un cane nervoso osserva il padrone. Si trovavano nello studio, con il televisore acceso che riportava la notizia dei colpi di arma da fuoco esplosi all'interno della casa. Dennis si fermò a guardare, scoppiando improvvisamente a ridere. «Cristo, ci siamo andati vicino!» Kevin incrociò le braccia, dondolandosi nervosamente. «E adesso cosa facciamo? Non possiamo più scappare. Hanno circondato la casa. Sono persino nel giardino qui accanto.» Dennis si fece scuro in volto e rispose brusco. «Non lo so, Kevin, non lo so. Ci verrà in mente qualcosa.» «Dovremmo arrenderci.» «Sta' zitto!» Thomas si sfregò il collo, pensando che avrebbe vomitato. Dennis lo aveva trascinato giù nello studio tenendogli un braccio intorno alla gola, stringendo così forte da impedirgli di respirare. Jennifer venne a inginocchiarsi accanto a lui, fingendo di aiutarlo; invece gli diede un pizzicotto sul braccio e gli sussurrò, spaventata e arrabbiata al tempo stesso: «Hai visto? Hai visto? Per poco non ti sei fatto beccare!». Poi si avvicinò al padre. Mars entrò nello studio, portando un fascio di grosse candele bianche. Senza dire una parola ne accese una, fece colare un po' di cera sul televisore, quindi vi fece aderire la base della candela. Andò alla libreria e fece lo stesso. Dennis e Kevin stavano crollando, ma Thomas aveva l'impressione che Mars fosse compiaciuto. Alla fine Dennis se ne accorse. «Che cazzo stai facendo?» Mars continuò accendendo un'altra candela. «Potrebbero tagliare la corrente. Prendi questa.» Si interruppe solo per lanciare una torcia a Dennis. Era quella che di solito stava nel cassetto degli utensili in cucina. Ne lanciò un'altra a Kevin, che se la lasciò sfuggire di mano. Dennis accese la torcia, poi la spense. «Queste candele sono una buona idea.» In breve, lo studio assunse l'aspetto di un altare. Thomas guardava Dennis: pareva chiuso in se stesso, e seguiva Mars con circospezione, come se questi lo tenesse in pugno per qualche oscuro motivo. Thomas li odiava tutti quanti, pensava che se avesse avuto la pi-
stola li avrebbe uccisi, Mars con le sue candele, Dennis che guardava Mars, Kevin che guardava Dennis, e nessuno che guardasse lui, lui che li avrebbe ammazzati tutti, uno dopo l'altro, bangbangbang. «Dovremmo sistemare delle pentole sotto le finestre, nel caso cercassero di entrare. Cose che facciano rumore, così possiamo sentirli» disse Dennis all'improvviso. Mars grugnì. «Mars, quando torni fra noi fallo, per piacere, okay? Sistema qualche trappola.» «E mio padre?» chiese Jennifer. «Oh, Cristo. Ora basta! Non ricominciare!» «Ha bisogno di un dottore, stronzo!» rispose lei, alzando la voce. «Kevin, riportali di sopra. Per favore.» Thomas non fece una piega. Era proprio quello che voleva. «Vuoi che li leghi di nuovo?» Dennis stava per rispondere, ma poi si bloccò e fece una smorfia, riflettendo. «C'è voluto troppo tempo per slegarli. Tu e Mars li avete legati che sembravano due mummie. No, ma assicurati che siano chiusi dentro come si deve. Non solo con i chiodi.» Mars finì di accendere le candele. «Posso farlo io. Tu portali su.» Kevin obbedì. Prese Jennifer per il braccio, quasi costretto a trascinarla; Thomas, invece, camminava davanti a loro, ansioso di tornare nella sua stanza, anche se cercava di non darlo a vedere. Arrivati in cima alle scale attesero che Mars li raggiungesse con un martello e un cacciavite. Salì i gradini rumorosamente, con la lenta inesorabilità di un montacarichi buio e sporco. Mars entrò prima nella camera di Thomas, in fondo al corridoio. Era spettrale, senza luce. «Entra, ciccione. Tirati le coperte sulla testa.» Mars lo spinse dentro in malo modo, poi si inginocchiò davanti alla maniglia, quella che Thomas avrebbe usato se avesse cercato di uscire. Piantò il cacciavite sotto la base servendosi del martello, la fece saltare, tolse le viti, quindi la estrasse, lasciando solo un buco squadrato. E poi guardò Jennifer, solo lei. «Visto? È così che si fa per tenere un bambino chiuso nella sua stanza.» Lo lasciarono là dentro, richiudendo la porta e poi bloccandola con dei chiodi. Thomas rimase in ascolto, finché non sentì il tonfo della maniglia
di Jennifer che cadeva dalla porta, e poi i colpi delle martellate. Solo allora corse all'armadio a muro. Pensava alla pistola ma, come accese la torcia, vide la borsa di Jennifer. L'aveva gettata dentro quando era tornato in camera di corsa. La aprì e la rovesciò. Il cellulare di Jennifer cadde a terra. 10 Venerdì, 20.32 Palm Springs, California BENZA Benza, Tuzee e Salvetti stavano parlando con Glen Howell al telefono vivavoce, le televisioni accese senza il sonoro in modo da sentire quello che lui diceva. Benza, alla terza pastiglia di Gaviscon, si massaggiava lo stomaco, nell'inutile tentativo di calmare il bruciore. Howell era seduto da qualche parte nel buio, a bordo della sua auto. «Ha una moglie e una figlia» disse, la voce gracchiante per il pessimo collegamento. «Sono divorziati, separati, o qualcosa del genere. La moglie e la figlia vivono giù a Los Angeles, ma lui vede la figlia ogni due settimane, o qualcosa del genere.» Tuzee, pallido come un morto sotto l'abbronzatura, si sfregò la faccia, irritato, e lo interruppe. «Piantala.» «Cosa?» «Piantala di dire "o qualcosa del genere". Non finire ogni frase con "o qualcosa del genere". Mi dà fastidio. Sei anche andato al college.» Benza allungò una mano e gli diede un colpetto sulla gamba, senza dire una parola. Tuzee si teneva il volto stretto fra le mani, la pelle floscia intorno alle dita come quella di un uomo con il doppio dei suoi anni. «O vede la figlia ogni due settimane oppure no. Non c'è alternativa. Prima di chiamarci vedi di appurare i fatti, perdio.» Si udirono sibili e scoppiettii, poi un rombo in sottofondo. «Scusa.» «Va' avanti.» «Si vedono questo weekend. La moglie sta accompagnando su la figlia.»
«Di questo sei sicuro?» chiese Benza schiarendosi la voce. «Sicurissimo. L'abbiamo saputo dal suo ufficio, una signora anziana che adora chiacchierare. Sai, dice a tutti come sia triste la situazione, perché lui è una così brava persona.» «Dove sono, adesso? La sua famiglia, intendo.» «Non lo so. Ho qualcuno che se ne sta occupando. Ma devono arrivare stasera, questo è certo.» Benza annuì. «Dobbiamo riflettere.» Salvetti aveva già deciso. Si appoggiò allo schienale, le gambe allungate e divaricate davanti a sé, e incrociò le braccia. «Dobbiamo muoverci. Ci siamo andati troppo vicino.» «Ti riferisci agli uomini dello sceriffo?» «Già.» «Sì, c'è mancato poco.» Rimasero in silenzio per un po', ognuno immerso nelle proprie considerazioni. Benza aveva chiamato Howell appena aveva visto le auto dello sceriffo entrare nel complesso. Poi, quando la televisione aveva riferito degli spari, c'era mancato poco che non vomitasse la cena all'idea che era finita: quelli della Swat stavano per fare irruzione nella casa e loro erano fritti. «C'è dell'altro» disse Howell. «Parla.» «Stanno facendo indagini sulle licenze edilizie.» «Perché?» «Quando succede una cosa del genere, e uno stronzo si barrica dentro un edificio, loro vogliono vedere le planimetrie. E così ora stanno cercando l'impresa che ha costruito la casa.» «Merda.» Benza si appoggiò allo schienale della poltrona con un sospiro. Tuzee gli lanciò un'occhiata, scuotendo la testa. Benza era il titolare delle imprese che avevano costruito la casa e installato i sistemi di sorveglianza. Non gli piaceva per niente la piega che stavano prendendo le cose. Si alzò in piedi. «Ho bisogno di camminare. Se non riesci a sentirmi, dimmelo, okay?» «Certo, Sonny.» «Prima le cose più importanti. I libri contabili. Sto vedendo la casa in questo momento, in tivù, e ci sono così tante divise che sembra lo sbarco in Normandia. Ma voglio farti una domanda.»
«Dimmi.» «Potremmo far entrare dei nostri uomini là dentro?» «Nella casa?» «Sì, nella casa. Ora, sotto gli occhi della polizia, sotto gli occhi delle telecamere, eccetera eccetera. È possibile infiltrare un paio di persone all'interno?» «No. I miei uomini sono in gamba, Sonny. I migliori. Ma non possiamo entrare, in questo momento. Non come stanno le cose adesso. Dovremmo avere dei poliziotti sul libro paga per fare una cosa del genere. Dammi un giorno o due e forse potrei riuscirci.» Benza, irritato, guardò i televisori, uno mostrava la casa con un gruppo di uomini della Swat davanti, l'altro una lesbica vestita come un uomo, capelli biondi e corti pettinati all'indietro. «Non potremmo almeno avvicinarci? Adesso. Senza la collaborazione dei poliziotti, ma adesso?» Howell ci pensò su. «Okay. Senti, io non ho un televisore, quindi non vedo quello che vedi tu, giusto? Ma conosco la casa di Smith e conosco i dintorni, quindi ti rispondo di sì. Probabilmente potremmo avvicinarci.» Benza guardò Tuzee e Salvetti. «E se la bruciassimo? Stanotte. Facciamo entrare qualcuno con degli acceleranti. Lo capiranno tutti che si tratta di un incendio doloso, ma chi se ne frega, basta che la casa bruci tutta e non resti più niente.» Allargò le mani, guardando gli altri, pieno di speranza. Salvetti si strinse nelle spalle, impassibile. «Non c'è modo di essere sicuri che i dischetti vengano distrutti. Ma una cosa te la do per certa. Se Smith tiene quella roba nella stanza di sicurezza, non brucerà. Siamo fottuti.» Benza fissò il pavimento, vergognandosi di se stesso, pensando che era un'idea stupida quella di dare fuoco alla casa. Tuzee si allungò nuovamente, incrociando le braccia e fissando il soffitto. «Okay. Ecco come la vedo io: se quei ragazzi avessero voluto arrendersi, l'avrebbero già fatto. C'è qualcosa che li trattiene in quella casa. Non so perché, ma non vogliono uscire. Più poliziotti si ammassano intorno alla casa, più è probabile che ci sia un'irruzione.» Salvetti si sporse in avanti, alzando una mano come se fosse a scuola, per interromperlo.
«Aspetta. Dimmi pure che sono pazzo, ma senti questa. Perché non li chiamiamo? Gli parliamo noi e facciamo un accordo.» La voce di Howell sibilò dall'altoparlante. «Le linee sono bloccate. È stata la polizia.» «Forse le linee normali di Smith, ma non le nostre. Paghiamo un costo extra, per quelle.» «Cosa intendi dire con "facciamo un accordo"?» stava chiedendo Tuzee. «Facciamo capire a quegli stronzi con chi hanno a che fare, gli diciamo che conosciamo i loro guai con la polizia, ma che non possono neppure immaginare il genere di problemi che possiamo dargli noi. Ci mettiamo d'accordo, gli promettiamo cinquanta testoni se si arrendono, e gli forniamo gli avvocati e tutto il resto.» «Non esiste.» «Perché?» «Vuoi andare a spifferare i nostri affari a tre balordi? Avanti, Sally.» Salvetti si zittì, imbarazzato. Benza si accorse che Tuzee lo guardava, rassegnato. «Phil?» Tuzee era accasciato sulla poltrona, più stanco che mai. «La famiglia di Talley.» «Dobbiamo pensarci bene.» «Lo so. Ci sto pensando. Una volta imboccata quella strada non si può più tornare indietro.» «E tu sai dove porta, vero?» «Hai appena suggerito di dare fuoco alla casa con sei persone dentro, e con tutto il mondo che ci guarda.» «Lo so.» «Non possiamo starcene qui seduti a guardare. Con quello che è successo stasera ci siamo andati a un passo. Ora stanno cercando le licenze edilizie e Dio solo sa cos'altro. Come se non bastasse, sono preoccupato per New York. Quanto tempo ancora potremo tenerli all'oscuro?» «Per ora ci stiamo riuscendo. Mi fido delle persone che abbiamo sul posto.» «Anch'io mi fido di loro, ma prima o poi Castellano lo verrà a sapere. È inevitabile.» «Sono passate solo poche ore.» «Comunque sia, dobbiamo avere la situazione sotto controllo prima che loro scoprano tutto. Quando lo verrà a sapere il vecchio, bisogna potergli
dire che la cosa non costituisce più una minaccia, per lui, e che può riderci sopra davanti a un bicchiere e a un buon sigaro, se non vogliamo giocarci il culo.» Benza si sentiva mortalmente stanco, ma anche sollevato. Aver preso una decisione era già un conforto. «Glen?» «Sono qui, Sonny.» «Se decidiamo di procedere in questo modo, con Talley, hai un uomo che possa occuparsene?» «Sì, Sonny.» «È in grado di fare tutto quello che deve essere fatto? Fino in fondo?» «Sì, Sonny. È in grado di farlo e lo farà. Io posso occuparmi del resto.» Benza lanciò un'occhiata a Phil Tuzee, che annuì, e poi guardò Salvetti, che fece un unico, secco cenno del capo. «Okay, Glen. Procedi pure.» 11 Venerdì, 23.40, ora della costa Est 20.40, ora della costa Ovest New York City VIC CASTELLANO Sua moglie aveva il sonno pesante e così Vittorio "Vic" Castellano uscì dalla camera da letto per prendere la chiamata. Indossò il morbido accappatoio di spugna, regalo di compleanno dei suoi figli con la scritta "Non scocciatemi" ricamata sulla schiena, e, zoppicando, seguì Jamie Beldone in cucina. Beldone teneva in mano un cellulare. All'altro capo c'era l'uomo del quale si servivano per tenere d'occhio gli affari in California. Vic, settantotto anni, reduce da solo due settimane da un intervento all'anca, si versò un bicchiere di succo d'arancia, ma non riuscì a berlo. Aveva già acidità di stomaco. «Sei sicuro che la faccenda sia così grave?» «La polizia ha circondato la casa, e dentro ci sono tutti i documenti di Benza, compresi i libri contabili che lo collegano a noi.» «Quel figlio di puttana! Cosa c'è in quei libri?» «Tutti i movimenti, le cifre che ci passa. Non so fino a che punto siano
dettagliati, ma di certo deve tener conto di dove vanno a finire i soldi. Se i federali ci mettono le mani sopra, potrebbero accusarla di frode fiscale.» Vic versò il succo d'arancia nel lavandino e fece scorrere dell'acqua nel bicchiere. Ne bevve un sorso. Era calda. «E da quanto è cominciata questa cosa?» «Ormai sono quasi cinque ore.» Castellano guardò l'orologio. «Benza sa che ne siamo al corrente?» «No, signore.» «Quello stronzo, figlio di puttana. Non sia mai che mi chiami per avvertirmi, come un vero uomo. Preferisce lasciare che mi becchino di sorpresa anziché informarmi.» «È un pezzo di merda, capo. Non c'è altro da dire.» «Cosa sta facendo?» «Ha mandato una squadra. Conosce Glen Howell?» «No.» «È il liquidatore di Benza. Uno in gamba.» «Abbiamo un nostro uomo, sul posto?» Beldone inclinò il telefono, annuendo. «Ce l'ho in linea. Sta aspettando che gli dica cosa fare.» Vic bevve dell'altra acqua tiepida, poi sospirò. Sarebbe stata una lunga nottata. Stava già pensando a quello che avrebbe dovuto dire ai suoi avvocati. «Pensi che dovremmo mandare la nostra squadra?» Beldone increspò le labbra, poi scosse il capo. «Dovremmo mettere insieme gli uomini, senza contare le cinque ore d'aereo... non c'è tempo, Vic. È lo show di Sonny. Sonny e Glen Howell.» «Non riesco a credere che quello stronzo non mi abbia chiamato. Ma cos'ha nella testa?» «Starà pensando che, se va tutto a puttane, lui scappa. Probabilmente ha più paura di lei che dei federali.» «E fa bene.» Vic fece un altro sospiro, poi si avviò alla porta. Quarant'anni al vertice della più potente famiglia criminale della costa Est gli avevano insegnato a preoccuparsi delle cose che poteva controllare e lasciare agli altri quelle su cui non aveva alcun potere. Giunto sulla soglia si fermò e si voltò verso Jamie Beldone. «Sonny Benza è uno stronzo incompetente, proprio come suo padre.»
«È la mafia di Topolino, capo. Il sole della California gli ha danneggiato il cervello.» «Se va tutto a puttane, Sonny Benza non ci deve scappare. Hai capito bene?» «Sì, signore.» «Se fanno dei casini la devono pagare.» «La pagheranno, capo.» «lo me ne vado a letto. Se succede qualcosa, avvertimi.» «Sì, signore.» Vic Castellano se ne tornò a letto zoppicando, ma non riuscì a dormire. 12 Venerdì, 20.43 TALLEY Talley si trovava nella casa della signora Pena insieme agli uomini dello sceriffo. Bevevano il caffè preparato dalla donna, forte, con molto zucchero di canna e latte. Lei spiegò che in Brasile si beveva così. Stavano guardando la cassetta registrata dalla telecamera del sistema di sorveglianza del minimarket. Talley indicò lo schermo con la mano che reggeva la tazza. «Il primo a entrare è Rooney, poi viene Krupchek. L'ultimo è Kevin.» Il capitano Martin guardava le immagini con l'espressione distaccata e imperturbabile del poliziotto esperto. Talley si scoprì a osservare lei anziché il nastro, chiedendosi come fosse arrivata a diventare un capitano della Swat. La donna fece un cenno con il capo in direzione dello schermo. «Cos'ha sulla testa, un tatuaggio? Quello lì, il tizio grande e grosso.» «Krupchek.» «Sì, Krupchek.» «Dice "Brucialo". Stiamo controllando sul computer.» Talley riferì quanto aveva appreso da Brad Dill sul conto di Krupchek e dei fratelli Rooney, quindi informò gli altri di aver mandato Mikkelson e Dreyer a cercare il padrone di casa e i vicini. «Questa gente ha una famiglia, qualcuno che possiamo far venire qui?» chiese Ellison. «Una volta ci è capitato un tizio che ci ha tenuto in scacco per dodici ore finché non è arrivata sua madre: lei gli ha detto di muovere le chiappe e di uscire da quella casa, e lui è venuto fuori piangendo come
un bambino.» Anche a Talley erano capitati tipi così. «Forse Rooney ha una zia a Bakersfield, ma Dill non sa nulla di Krupchek. Se riusciamo a trovare i loro padroni di casa, o degli amici, potremmo anche arrivare alle famiglie. Se volete posso chiedere a Larry Anders, il mio ufficiale superiore, di mettere in contatto il vostro agente addetto all'intelligence con chiunque riusciamo a trovare.» Maddox annuì, il volto corrugato per la concentrazione. «Avrei piacere di parlare di persona con Dill e con gli altri. A lei non dispiace, vero?» «Conosco il lavoro. Tutto quello che vuole. Lo dica ad Anders e lui li porterà qui.» In quanto primo negoziatore, Maddox doveva formarsi una sua opinione personale delle caratteristiche comportamentali di un soggetto. Nei suoi panni, Talley avrebbe fatto lo stesso. Il capitano Martin si avvicinò allo schermo. Erano arrivati al punto in cui Krupchek si sporgeva oltre il banco. «Cosa sta facendo?» «Guardi.» Maddox raggiunse il capitano davanti al televisore. Incrociò le braccia in un gesto che a Talley parve di difesa. «Gesù, sta guardando quell'uomo mentre muore.» Talley annuì. «L'ho pensato anch'io.» «Quel figlio di puttana sta sorridendo.» Talley finì di bere il caffè e posò la tazza. Non aveva bisogno di rivedere quel nastro. «Abbiamo avvertito gli investigatori della mano sul banco. Vedete? Dovrebbero aver ricavato un'impronta palmare piuttosto buona, ma non li ho ancora sentiti.» Laura Martin lanciò un'occhiata a Ellison. «Controlla le impronte di tutti i ricercati e delle persone colpite da mandato.» «Sissignora.» Metzger si avvicinò a Talley e gli sfiorò il braccio. «Capo, posso parlarle un secondo?» Talley si scusò e la seguì nella stanza accanto. L'agente lanciò un'occhiata agli uomini dello sceriffo, quindi si decise a parlare, abbassando la voce.
«Sarah vuole che la chiami immediatamente. Dice che è importante. Mi ha detto di darle un colpo in testa e trascinarla a un telefono, se necessario, tanto è importante.» «Perché stai bisbigliando?» «Ha detto che è molto importante. Deve chiamarla sulla linea dell'ufficio, e non con la radio.» «Perché?» «Perché sulla radio possono sentire anche altre persone. Ha detto di usare un telefono.» Talley provò una fitta di apprensione all'idea che fosse successo qualcosa a Jane e Amanda. Tirò fuori il cellulare e premette il tasto di composizione automatica del numero dell'ufficio. Maddox lo osservava preoccupato, sempre vicino al televisore. Sarah rispose al primo squillo. «Sarah, sono io. Cosa c'è?» «Oh, grazie al cielo! C'è un ragazzino al telefono. Dice di chiamarsi Thomas Smith e di telefonare dalla casa.» «È uno scherzo. Lascia perdere.» Warren Kenner, il responsabile del personale di Talley e uno dei due sergenti della polizia di Bristo, si inserì nella conversazione. «Capo, credo che sia una cosa seria. Ho controllato il numero di cellulare da cui il ragazzo dice di chiamare. La compagnia telefonica mi ha confermato che è intestato agli Smith.» «Hai parlato anche tu con il ragazzo, o soltanto Sarah?» «Gli ho parlato anch'io. Mi sembra che dica la verità, ha raccontato dei tre tizi nella casa, di sua sorella e di suo padre. Dice che suo padre è ferito, che è privo di sensi.» Talley si morse il labbro, riflettendo, e cominciò ad accalorarsi. «È ancora al telefono?» «Sissignore. Sarah sta parlando con lui su un'altra linea. Lo hanno rinchiuso nella sua stanza. Dice che sta usando il cellulare della sorella.» «Resta in linea.» Talley andò alla porta: parecchi agenti dello sceriffo e della Stradale indugiavano vicino alla cucina della signora Pena, bevendo caffè e mangiando enchiladas al formaggio. Chiamò il capitano Martin, Maddox ed Ellison e li condusse il più possibile lontano dagli altri. «Forse abbiamo qualcosa. C'è un ragazzo al telefono che afferma di essere Thomas Smith e di chiamare da dentro la casa.»
L'espressione del capitano si fece subito tesa. «È vero o è uno scherzo?» Talley tornò a parlare nel telefono. «Warren, chi altri sa di questo?» «Solo noi, capo. Io e Sarah, e adesso lei.» «Se la cosa dovesse risultare vera, non voglio che la stampa lo venga a sapere, hai capito? Dillo anche a Sarah. Questo significa che non dovete farne cenno con nessuno, neppure con altri agenti della polizia, neppure in via confidenziale.» Parlando, Talley guardava il capitano Martin, che annuì. «Se Rooney e gli altri venissero a sapere che qualcuno ha chiamato da dentro la casa, non so cosa potrebbero fare.» «Bene, capo. Lo dirò anche a Sarah.» «Passamelo.» Si sentì la voce di un ragazzo che parlava a voce bassa, con circospezione, ma non spaventato. «Pronto? Parlo con il capo della polizia?» «Sì, sono il capo Talley. Dimmi come ti chiami, figliolo.» «Thomas Smith. Sono dentro la casa che si vede in televisione. Dennis ha colpito mio papà e lui non si sveglia più. Dovete venire a prenderlo.» Una nota di paura si insinuò nella voce del ragazzo mentre parlava di suo padre, ma Talley non era ancora certo che quella telefonata non fosse uno scherzo. «Prima ho un paio di domande da farti, Thomas. Chi c'è nella casa con te?» «Questi tre tizi. Dennis, Kevin e Mars. Mars ha detto che mi mangerà il cuore.» «A parte loro.» «Mio padre e mia sorella. Dovete convincere Dennis a mandare mio papà da un dottore.» Il ragazzo poteva aver appreso tutte quelle informazioni dalla televisione ma, per quanto ne sapeva Talley, nessuno finora aveva detto dove si trovasse la madre. Stavano ancora cercando di rintracciarla. «E tua madre?» Il ragazzo rispose senza la minima esitazione. «È in Florida, dalla zia Kate.» Talley sentì qualcosa di caldo sbocciargli nel petto. Poteva essere vero. Fece un cenno con la mano, come per scrivere, indicando al capitano di stare pronta a prendere nota. Questa lanciò un'occhiata a Ellison, che co-
minciò ad armeggiare con un taccuino a spirale e una penna. «Come si chiama tua zia, socio?» «Kate Toepfer. Ha i capelli biondi.» Talley ripeté, osservando Ellison che scriveva. «Dove vive?» «A West Palm Beach.» Talley non si diede la briga di coprire il ricevitore. «È lui. Trovate il numero di questa donna, di questa Kate Toepfer a West Palm Beach. La madre si trova lì.» Maddox ed Ellison si scambiarono qualche parola, che Talley non sentì perché era già tornato in linea con il ragazzo. Il capitano gli si avvicinò, tirandolo per il braccio in modo da inclinare il telefono per poter sentire anche lei. «Dove sei, adesso, figliolo? Stai bene? Possono scoprirti mentre telefoni?» «Mi hanno chiuso nella mia stanza. Questo è il cellulare di mia sorella.» «Dove si trova la tua stanza?» «Al piano di sopra.» «Okay. Dove sono tuo papà e tua sorella?» «Papà è giù nel suo studio. Lo hanno messo sul divano, ma ha bisogno di un dottore.» «Gli hanno sparato?» «Dennis lo ha colpito e ancora non si sveglia. Mia sorella dice che ha bisogno di un dottore, ma Dennis non vuole ascoltarla.» «Sta sanguinando?» «Ora non più. È solo che non si sveglia. Ho paura.» «E tua sorella? Lei sta bene?» «Gli chieda se sa dove si trovano gli ostaggi» disse Maddox. Talley alzò una mano; il ragazzo stava ancora parlando, stava dicendo qualcosa a proposito della sorella. «Come hai detto, Thomas? Non ho capito. Lei sta bene?» «Ho detto che non ha voluto venire via. Ho cercato di convincerla, ma lei non ha voluto andarsene senza papà.» Il capitano tirò Talley per un braccio. «Può uscire? Gli chieda se può uscire.» Talley annuì. «Okay, Thomas, vi tireremo fuori di lì il più in fretta possibile, ma ora ti voglio chiedere una cosa. Tu sei solo nella tua stanza al piano superiore,
giusto?» «Sì.» «Potresti calarti dalla finestra se noi fossimo sotto a prenderti?» «Hanno bloccato le finestre con i chiodi. Ma anche se fossero libere, mi vedrebbero.» «Ti vedrebbero calarti dalla finestra anche se sei solo?» «Abbiamo delle telecamere di sorveglianza. Mi potrebbero vedere sui monitor che sono in camera dei miei. Vedrebbero anche voi se vi avvicinaste alla casa.» «Okay, figliolo. Ancora una cosa. Dennis mi ha detto di avere della benzina per dare fuoco alla casa. È vero?» «C'è un secchio di benzina nell'ingresso. L'ho visto quando mi hanno portato giù. Puzza.» Talley udì un fruscio e poi la voce del ragazzo divenne un sussurro. «Stanno venendo qui.» «Thomas? Thomas, stai bene?» Il ragazzo non c'era più. «Cosa sta succedendo?» chiese il capitano Martin. Talley rimase in ascolto, ma la linea era muta. «Ha detto che stavano arrivando e ha chiuso la comunicazione.» Laura Martin inspirò a fondo ed espirò facendo sibilare l'aria. «Pensa che l'abbiano scoperto?» Talley chiuse il telefono e lo mise via. «Direi di no. Non mi sembrava in preda al panico, quindi non credo che l'abbiano scoperto. Ha solo dovuto interrompere la telefonata.» «Rooney diceva la verità a proposito della benzina?» «Sì.» «Merda. Questo è un problema. È un fottutissimo problema. Ci manca solo un bel barbecue.» «Ha detto anche che c'è un sistema di telecamere di sorveglianza. È così che Rooney ha visto i suoi uomini avvicinarsi alla casa.» Il capitano si rivolse a Ellison. «Di' all'agente addetto all'intelligence di controllare le linee telefoniche per vedere se c'è qualche collegamento dedicato. Potremmo riuscire a rintracciare il provider e capire con chi abbiamo a che fare.» Talley stava per informarlo che i suoi uomini avevano già controllato senza trovare nulla, ma poi ci ripensò. Nella sua posizione, avrebbe verificato di nuovo.
«Dice che il padre è ferito. È per questo che ha chiamato, per dire che suo padre ha bisogno di un medico.» L'espressione di Laura Martin si fece cupa. Quella parte non l'aveva sentita. «Prima la benzina, adesso questo. Se quell'uomo è in imminente pericolo di vita, potrebbe rendersi necessario tentare un'irruzione.» Maddox si mosse, chiaramente a disagio. «Come possiamo decidere un'irruzione sapendo che questo tizio ci vede, e tiene pronta la benzina? Faremmo soltanto dei morti.» «Se c'è qualcuno che sta morendo, non possiamo ignorarlo.» Talley alzò le mani come se volesse dividerli. «Il ragazzo non ha detto che sta morendo, solo che è ferito.» Ripeté le parole precise usate da Thomas per descrivere le condizioni del padre. Il capitano ascoltò, a capo chino, guardando ora Maddox ora Ellison, come per valutare le loro reazioni. Quando Talley ebbe concluso, annuì. «Be', non ci dice molto.» «No.» «Va bene, se non altro sappiamo che non si tratta di una ferita da arma da fuoco. Smith non sta morendo dissanguato.» «Sembra più un colpo alla testa.» «Potrebbe essere un trauma cranico, ma non possiamo saperlo con certezza. Non possiamo certo richiamare Rooney per chiedergli di Smith. Potrebbe capire che uno dei ragazzi sta comunicando con l'esterno.» Talley fu costretto a darle ragione. «Dobbiamo proteggere il ragazzo. Se avrà occasione di richiamare, sono certo che lo farà.» Maddox annuì. «La prossima volta che parlo con Rooney insisterò per sapere come stanno gli ostaggi. Chissà, forse riuscirò a strappargli qualche informazione sul padre dei ragazzi.» Convennero che per il momento la cosa migliore era lasciare che Rooney e gli altri si calmassero. «Se il ragazzo richiama, passerà attraverso il suo ufficio» disse il capitano, guardando Talley. «Suppongo di sì. Deve essersi fatto dare il numero dal servizio informazioni.» Talley sapeva dove lei voleva arrivare.
«Farò in modo che in ufficio ci sia sempre qualcuno. Se il ragazzo si farà vivo, mi rintracceranno e io vi avvertirò.» Laura Martin guardò l'orologio e poi Maddox. «Dobbiamo metterci al lavoro. Voglio che tu ed Ellison prendiate posizione davanti alla casa, in modo da poter cominciare a martellare quegli stronzi.» Talley sapeva bene a cosa si riferiva: avrebbero mantenuto un livello di rumore piuttosto alto, chiamando periodicamente Rooney nel corso della notte per tenerlo sveglio. Avrebbero cercato di sfiancarlo impedendogli di prendere sonno. A volte, se si riusciva a stancarli abbastanza, si arrendevano. Il capitano Martin si voltò verso Talley, questa volta con un'espressione cordiale sul volto. Gli tese la mano e lui la strinse. La stretta di lei non era più così forte come prima. «La ringrazio per il suo aiuto, capo. Ha fatto un buon lavoro per tenere la situazione sotto controllo.» «Grazie, capitano.» «Se vuole mettere in libertà i suoi uomini, adesso lo può fare. Mi servirebbero quattro dei suoi per mantenere i contatti con i locali, ma a parte questo siamo a posto. So che il suo Dipartimento non è molto numeroso.» «È tutto suo, capitano. I miei numeri li ha tutti. Se ha bisogno, mi chiami. In caso contrario, mi prenderò qualche ora di riposo e ci vediamo domani mattina.» «Siamo a posto.» La donna gli rivolse un sorriso incerto, ma aggraziato, poi si allontanò. Talley pensò che avesse difficoltà a sorridere; ma alla gente succede spesso, e per i motivi più sorprendenti. Maddox ed Ellison la seguirono. Talley riportò la tazza del caffè in cucina, ringraziò la signora Pena per l'ospitalità e andò alla sua auto. Informò Larry Anders degli ultimi sviluppi, quindi guardò l'ora, chiedendosi se Jane e Amanda stessero ancora cenando o lo aspettassero a casa. E poi si chiese perché mai Laura Martin gli avesse stretto la mano. KEN SEYMORE Quei pezzenti delle troupe televisive non avevano intenzione di dividere con lui la loro cena a base di caffè e cibo in grossi contenitori che qualcuno aveva fatto arrivare da Starbucks, ciambelle di Krispy Kreme e pizza. Tan-
to meglio. Se l'avessero fatto, Ken Seymore non si sarebbe accorto che Talley stava andando via. Invece di mangiare, Seymore se ne stava seduto a bordo della sua auto, una Ford Explorer, subito fuori dal cancello. Ai due poliziotti che gli avevano chiesto cosa ci facesse lì, aveva risposto che aspettava un fotografo che stava arrivando da Los Angeles per fare qualche foto ai ragazzi che montavano la guardia al complesso. Era bastato. Da quel momento lo avevano lasciato in pace. Quando Seymore vide uscire Talley, prese il telefono. «Sta venendo via.» Non fu necessario aggiungere altro. 13 Venerdì, 20.46 JANE Il cuore le batteva forte, le labbra formicolavano ancora per il bacio, la voce di lui era un sussurro nel buio dell'auto parcheggiata davanti a casa. «Staremmo bene insieme. Ci penso da settimane. Noi due siamo fatti l'uno per l'altra, come tessere di un puzzle.» Lui era medico nell'ospedale dove lei lavorava; divorziato da poco, due figli alle superiori, uno più grande di un anno rispetto a Mandy, l'altro più giovane di uno. «Lo sai anche tu che sarebbe bello.» «Sì.» Lei amava il suo calore, la sua fisicità, una cosa di cui sentiva la mancanza, questo forte corpo maschile che stringeva il suo, e che lei poteva stringere. E poi era un bell'uomo. Proprio un bell'uomo. Avevano lo stesso senso dello humour, pungente e sarcastico. «Vieni a casa mia, stasera. Solo per un po'.» Era il suo primo appuntamento con un altro da quando Jeff se n'era andato, quasi un anno prima. Jeff là a Bristo, Jeff che le aveva chiuso in faccia la porta del suo cuore, aveva smesso di provare sentimenti, si era ritirato in se stesso, allontanato, scomparso, o cosa diavolo fosse. Le pareva di tradirlo. «Non lo so.»
«Non voglio che questa sera finisca. Non dobbiamo fare niente. Almeno per i primi cinque minuti.» Lei non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere. Lui la baciò, e lei ricambiò il suo bacio, in un gioco sensuale di labbra e lingue. Si sentiva ebbra, e viva. «Ho detto ad Amanda che sarei rientrata a quest'ora.» «Mi viene da piangere. Peggio. Faccio il broncio. Sono terribile quando faccio il broncio.» Ridendo, lei gli mise una mano sul volto e lo spinse via. Dolcemente. Lui sospirò, improvvisamente serio. «D'accordo. Sono stato bene.» «Anch'io.» «Ci vediamo domani al lavoro. Faccio un salto in reparto a salutarti.» «Non sono in servizio domani e dopodomani.» «Allora giovedì. Ci vediamo giovedì.» Lo baciò un'ultima volta, un bacio veloce, anche se avrebbe voluto che durasse di più, poi corse dentro, nella casa deserta. Amanda dormiva a casa della sua amica Connie. Non le aveva detto che sarebbe uscita, tantomeno che sarebbe rientrata a quell'ora. Era stata una bugia. Il giorno seguente si tinse i capelli di un altro colore, passando a un rosso scuro, quasi nero, chiedendosi se l'avrebbe fatta sembrare più giovane, chiedendosi cosa avrebbe detto Jeff. Tutto, di quella sera, le era parso un tradimento. «Pianeta terra chiama mamma.» Jane Talley si concentrò sulla figlia. «Scusa.» «A cosa stavi pensando?» «Se a tuo padre piacciono i miei capelli.» Amanda si fece scura in volto. «Come se te ne importasse qualcosa. Per favore!» «D'accordo. Mi stavo chiedendo se questo casino gli scoppierà fra le mani. Così va meglio?» Si erano fermate al Le Chine, un ristorante vietnamita-thailandese in un centro commerciale vicino all'autostrada, e avevano ordinato pho ga, una zuppa di taglierini e gamberi croccanti che erano... be', gamberi croccanti. Mangiavano spesso lì, a volte con Jeff. Jane aveva assaggiato appena il riso scondito e più nulla. Posò la forchetta.
«Voglio spiegarti una cosa.» «Non possiamo andarcene a casa? Io non voglio stare qui, e lui lo sa. Gliel'ho detto.» «Non dire "lui". È tuo padre.» «Comunque sia.» «Sta passando un momento difficile.» «Un anno fa era un momento difficile. Ora è soltanto una rottura.» Jane era così stanca di fare i salti mortali, di fare la madre comprensiva e affettuosa, di aspettare che Jeff rinsavisse, che avrebbe voluto urlare. Certi giorni lo faceva. Premeva il viso contro il cuscino e urlava con tutta la forza che aveva in corpo. Provò un impeto di rabbia così forte che, se Mandy avesse alzato gli occhi al cielo ancora una volta, lei l'avrebbe infilzata con la forchetta. «Lascia che ti dica una cosa. È stato duro per tutti: per te, per me, per lui. Lui non è così. È colpa di quel maledetto lavoro.» «Rieccoci con il lavoro.» Jane chiese il conto, così arrabbiata che non riusciva neppure a guardare in faccia la figlia. Come sempre la proprietaria, una donna di nome Po, che le conosceva, insistette nell'offrire loro la cena. Come sempre Jane pagò, questa volta più in fretta del solito, in contanti, e senza aspettare il resto. «Andiamo.» Jane uscì nel parcheggio, sempre senza guardare Amanda, i tacchi che picchiettavano sull'asfalto come spari. Si mise al volante ma non avviò il motore. Amanda salì accanto a lei, chiudendo la portiera. L'aria della notte odorava di salvia, polvere e aglio. «Perché non partiamo?» «Sto cercando di non ucciderti.» Quando finalmente Jane riuscì a mettere a fuoco ciò che voleva dire, parlò. «Ho una paura del diavolo che tuo padre stia per arrendersi. L'ho capito vedendolo stasera. Si rende conto dell'effetto che questa situazione ha su di noi, non è uno stupido. Noi parliamo, Amanda: lui dice che si sente vuoto, e io non so come riempire questo vuoto. Dice che si sente morto, e io non so come farlo rinascere. Pensi che non ci abbia provato? Eppure eccoci qui, uno da una parte, uno dall'altra, con il tempo che passa, e lui che si crogiola in questa maledetta depressione. La farà finita per risparmiarci tutto questo. Be', signorina, lascia che ti dica una cosa: io non voglio essere risparmiata. Scelgo di non esserlo. Un tempo tuo padre era una persona
piena di vita e di forza, e io mi sono innamorata di questa persona speciale in un modo che tu non puoi neanche immaginare. Non vuoi sentir parlare del suo lavoro. Okay. Ma solo un uomo buono come tuo padre poteva essere colpito nel modo in cui è rimasto colpito lui. Se pensi che lo stia scusando, bene. Se pensi che io sia una perdente perché ho deciso di aspettarlo, pazienza. Potrei avere altri uomini, ma non li voglio. Non so neppure se lui mi ami ancora, ma lascia che ti dica una cosa: io lo amo, io voglio che questo matrimonio vada avanti, e ti posso assicurare che mi interessa eccome se gli piacciono i miei capelli.» Fra le lacrime, Jane si accorse che anche Amanda stava piangendo: grossi lucciconi color miele si gonfiavano nei suoi occhi. Si appoggiò all'indietro, contro lo schienale. «Merda.» «Signora, si sente bene?» Jane abbassò il finestrino di qualche centimetro. L'uomo sembrava imbarazzato, proteso in avanti, una mano posata sul tetto, l'altra sulla portiera, la faccia che pareva chiedere se poteva fare qualcosa per lei. «Mi scusi, lo so che non sono fatti miei, ma l'ho sentita piangere.» «È tutto a posto. Grazie.» «Ne è sicura?» «Sì. Grazie.» Jane stava allungando la mano verso la chiavetta d'accensione quando lui spalancò la portiera, spingendola di lato contro Amanda; l'auto venne invasa da un forte odore di ciambelle. In seguito, sarebbe venuta a sapere che si chiamava Marion Clewes. 14 Venerdì, 21.12 TALLEY Il cielo era strano senza le luci rosse e verdi degli elicotteri. Talley spense la radio di servizio e abbassò i finestrini, lasciandosi avvolgere dall'aria dolce, ancora tiepida per il calore della terra e odorosa di yucca. Non era più il suo show, quindi la radio non serviva. Aveva bisogno di pensare. La strada si apriva davanti a lui, curvando fra le montagne, tempestata di fari scintillanti che gli venivano incontro. Le ultime sei ore erano passate
in un lampo; ogni istante si era sovrapposto a quello precedente come le auto in un tamponamento a catena, rincorrendosi con un'intensità che Talley non ricordava da tempo: in parte era paura, in parte euforia. Si scoprì a passare in rassegna gli avvenimenti della giornata e dopo un po' si rese conto che si era divertito. La cosa lo sorprese. Era come se una parte sopita di lui si stesse risvegliando. L'aria calda della notte gli riportò alla mente ricordi di Jane. Erano andati in luna di miele nel deserto. Non subito dopo il matrimonio - allora non avevano abbastanza soldi - ma in seguito, al termine dei suoi sei mesi di prova. Si erano presi due giorni di ferie da attaccare a un fine settimana, pensando di andare a Las Vegas. L'idea era quella di evitare il caldo estivo mettendosi in viaggio dopo il tramonto, ma Las Vegas era lontana, quattro ore di macchina. Si fermarono a metà strada per mangiare qualcosa, una cittadina insignificante ai confini del deserto californiano, e non proseguirono più. Quella notte, la suite della loro luna di miele fu la stanza di un motel da venti dollari accanto all'autostrada; la cena una semplice bistecca da Sizzler, dopodiché andarono a esplorare la città. Ora, mentre guidava, Talley si rammentò del calore di quella sera; Jane lo aveva spaventato - lui, il giovane e duro poliziotto della Swat - sporgendosi con il tronco dal finestrino dell'auto e sedendosi sulla portiera mentre correvano per le strade buie in mezzo al deserto. Erano anni che Talley non ripensava a quei giorni, quasi fossero stati dispersi dentro di lui, e si sentì a disagio. Si chiese cos'altro potesse essersi smarrito, insieme a quei ricordi. Si infilò nel parcheggio del residence dove abitava. Trovò l'auto di Jane nel primo dei due posti a lui assegnati e vi si fermò accanto. Rimase a fissare il vialetto che portava al suo appartamento, preoccupato per la discussione che li aspettava. Lei lo aveva invitato a prendere una decisione sul loro futuro, e ora lui doveva affrontare il problema. Basta fuggire, basta negare, basta scuse: poteva riuscire a trattenerla oppure perderla. Quella sera si sarebbe deciso tutto. Scendendo dall'auto, si accorse che il parcheggio era più buio del solito: entrambe le luci di sicurezza erano spente. Talley stava chiudendo a chiave la portiera quando una donna sbucò dal vialetto che portava al suo edificio. «Capo Talley? Posso parlarle un attimo?» Talley pensò che fosse una vicina. Quasi tutti i residenti del complesso sapevano che era il capo della polizia, e spesso si rivolgevano a lui per esporgli lamentele o problemi.
«È un po' tardi. Non può aspettare domani?» Era attraente ma non bella, con un'espressione pulita ed efficiente, i capelli che le incorniciavano il volto. Non la riconobbe. «Mi piacerebbe, capo, ma dobbiamo parlarne stasera.» Talley udì un passo dietro di sé, il fruscio di una scarpa sulla ghiaia, poi un braccio lo afferrò per la gola da dietro, sollevandolo. Qualcuno gli puntò una pistola davanti alla faccia. «La vedi? Vedi la pistola? Guardala.» Talley tentò di afferrare il braccio che lo stava strangolando, ma quando vide l'arma smise di lottare. «Così va meglio. Vogliamo solo parlare, tutto qui, ma se mi costringi t'ammazzo.» Lo lasciarono andare. Qualcuno aprì di nuovo la portiera mentre qualcun altro gli frugava sotto la giacca e intorno alla cintura. «Dov'è la pistola?» «Non la porto.» «Stronzate. Dov'è?» Le mani si spostarono alle caviglie. «Non la porto. Sono il capo. Non mi serve.» Lo spinsero al posto di guida. Talley vide delle ombre, ma non avrebbe saputo dire quanti fossero: tre, o forse cinque. Qualcuno sul sedile posteriore mandò in frantumi la luce dell'abitacolo colpendola con la pistola, quindi gli premette l'arma contro la nuca. «Metti in moto e fai retromarcia. Vogliamo solo parlarti.» «Chi siete?» Talley fece per voltarsi, ma mani forti gli spinsero la testa in avanti. Sul sedile posteriore c'erano due uomini con passamontagna e guanti neri. «Metti la retromarcia.» Talley fece come gli veniva ordinato. I fasci dei fari sferzarono il vialetto. La donna era scomparsa. Le luci posteriori rosse di un'auto attendevano in fondo al parcheggio. «Vedi quell'auto? Seguila. Non andremo lontano.» Talley si avvicinò all'auto. Era una Ford Mustang ultimo modello, verde scuro con il tettuccio rigido e targa della California. Talley si sforzò di memorizzare il numero, 2KLX561, poi guardò nello specchietto retrovisore, mentre una seconda macchina si accodava subito dietro di lui. «Chi siete?» «Tu guida.»
«Ha a che fare con quanto sta succedendo?» «Tu pensa solo a guidare. Il resto non ti interessa.» La Mustang procedeva con cautela, diretta verso la strada principale, poi imboccò la Flanders Road e proseguì fino a un piccolo centro commerciale a meno di due chilometri di distanza. Tutti i negozi erano chiusi, il parcheggio deserto. Talley seguì l'auto in un vicolo sul retro; si fermò accanto a un grosso contenitore per rifiuti. «Avvicinati. Più vicino. Attaccato al paraurti.» Talley urtò leggermente la Mustang. «Spegni il motore e dammi le chiavi.» Aveva conosciuto la paura, quando lavorava nelle unità tattiche della Swat prima di diventare negoziatore, ma quella era una paura spersonalizzata, la paura di andare in combattimento, alimentata dalla divisa che indossavi, dalle armi, dal sostegno dei tuoi compagni. Questa paura era diversa, più vicina, più privata. La gente veniva assassinata in quel modo, e poi i corpi finivano nei cassonetti. «Dammi quella cazzo di chiave.» Talley la tenne alzata, e una mano l'afferrò. La portiera del passeggero si aprì e salì un terzo uomo, anche lui con guanti e passamontagna. Indossava una giacca sportiva nera sopra i jeans e una T-shirt grigia. La manica sinistra salì appena, scoprendo un Rolex d'oro. L'uomo non era grosso, aveva una corporatura come quella di Talley, alto più o meno uno e ottanta, magro. La pelle intorno agli occhi e alla bocca era abbronzata. Teneva in mano un cellulare. «Okay, capo, lo so che hai paura, ma ti assicuro che, a meno che tu non faccia qualcosa di stupido, non ti faremo del male. Quindi controllati, d'accordo? Hai capito?» Talley cercò di ricordare il numero di targa della Mustang. Era KLX o KLS? «Non mi guardare, capo. Dobbiamo proseguire.» «Cosa volete?» L'uomo fece un gesto con il telefono in direzione del sedile posteriore, scoprendo nuovamente l'orologio. Mentalmente Talley lo soprannominò "l'Uomo con l'orologio". «Ora la persona dietro di te ti immobilizzerà. Non ti far prendere dal panico. È per il tuo bene. Okay? Vuole solo tenerti fermo.» Il braccio gli serrò nuovamente la gola. Una mano gli afferrò il polso sinistro torcendoglielo dietro la schiena. Il secondo uomo lo prese per la de-
stra. Talley riusciva a malapena a respirare. «Cosa significa?» «Ascolta.» L'Uomo con l'orologio gli accostò il telefono all'orecchio. «Saluta.» Talley non riusciva a immaginare chi fossero né cosa volessero. Si sentiva la bocca come se fosse piena d'ovatta. Il telefono era freddo contro l'orecchio. «Chi parla?» «Jeff, sei tu?» disse la voce di Jane, scossa e spaventata. Tailey cercò di liberarsi dal braccio che lo immobilizzava, lottando invano. Passò qualche secondo prima che si rendesse conto che l'Uomo con l'orologio gli stava parlando. «Calmati, capo. Lo so, lo so. Ora ascolta, okay? Tua moglie sta bene. Anche tua figlia sta bene. Calmati, respira a fondo e ascolta. Sei pronto? Ricordati una cosa: da questo momento in poi dipende da te. Te solo. Tu hai il controllo su quello che accade a loro. Vuoi sentirla di nuovo? Vuoi parlarle? Chiederle se sta bene?» Talley annuì contro il braccio che lo teneva fermo, e alla fine riuscì a gracchiare: «Figlio di puttana». «Brutto inizio, capo, ma ti capisco. Anch'io sono sposato. Fosse per me, io vorrei che qualcuno se la prendesse, mia moglie, ma è solo un parere personale. Ecco, tieni.» L'Uomo con l'orologio gli avvicinò di nuovo il telefono all'orecchio. «Jane?» «Cosa succede, Jeff? Chi è questa gente?» «Non lo so. Stai bene? E Mandy?» «Jeff, ho paura.» Jane stava piangendo. L'Uomo con l'orologio riprese il cellulare. «Ora basta.» «Chi diavolo siete?» «Possiamo lasciarti andare? Hai superato lo choc? Non farai qualcosa di stupido, vero?» L'Uomo con l'orologio lanciò un'occhiata verso il sedile posteriore e Talley fu libero. L'Uomo con l'orologio si avvicinò a lui, molto vicino, per guardarlo dritto negli occhi. «Walter Smith ha in casa due dischetti di computer che ci appartengono.
Non ti preoccupare del motivo per cui li vogliamo. Anzi, ti dirò di più, non ti deve interessare. Ma ci servono, e tu farai in modo di lasciarceli recuperare.» Talley non capiva di cosa stesse parlando. Scosse la testa. «Cosa significa?» «Che tu avrai il controllo delle operazioni.» «Non io, gli uomini dello sceriffo.» «Non più. Ora è il tuo momento. Tu farai in modo che sia così, a qualunque costo, perché nessuno, ripeto, nessuno, dovrà mettere piede in quella casa finché non ci sono entrati i miei uomini.» «Non sapete di cosa state parlando.» L'Uomo con l'orologio sollevò un dito come se stesse per impartire una lezione. «Io so esattamente di cosa sto parlando. Ora è in corso un'azione coordinata tra il Dipartimento di polizia di Bristo e l'Ufficio dello sceriffo. Tra un paio d'ore un gruppo di miei uomini arriverà agli York Estates. Tu dirai a tutti che sono una squadra tattica dell'Fbi. Lo sembreranno in tutto e per tutto e sanno come comportarsi. Ora capisci dove voglio arrivare?» «Non ho idea di cosa stia dicendo. Io non ho alcun controllo sulle operazioni. Non ho potere su quello che accade in quella casa.» «Allora sarà meglio che tu ti dia da fare. Tua moglie e tua figlia contano su di te.» Talley non sapeva cosa dire. Si infilò le mani sotto le cosce, cercando di pensare. «Cosa volete che faccia?» «Tu prepari la scena per i miei uomini, poi ti fai da parte e aspetti istruzioni da me.» L'Uomo con l'orologio gli porse il cellulare. «Quando questo telefono squilla, tu rispondi. Sarò io. Ti dirò cosa fare.» Talley rimase a fissare il telefono. «Quando verrà il momento di entrare nella casa, i miei saranno i primi. Niente, e intendo dire niente, verrà rimosso da quella casa se non dai miei uomini. Hai capito bene?» «Io non controllo i movimenti di quei ragazzi. Potrebbero essersi arresi in questo momento, come invece aver cominciato a sparare. Oppure gli uomini dello sceriffo potrebbero aver deciso di fare irruzione.» L'Uomo con l'orologio lo colpì forte con una manata in piena fronte. La testa di Talley volò all'indietro.
«Niente panico, capo. Tu dovresti saperlo. Quelli della Swat le sanno queste cose. Il panico uccide.» Talley strinse il cellulare con entrambe le mani. «Okay. D'accordo.» «Ti chiederai "cosa posso fare?". Sei un poliziotto, potresti pensare di chiamare l'Fbi o di chiedere aiuto agli uomini dello sceriffo, perché mi prendano prima che accada qualcosa a tua moglie e a tua figlia. Ma ricordati questo: io ho degli uomini agli York Estates, proprio sotto il tuo naso, gente che mi riferisce tutto quello che succede. Se ne parli con qualcuno, se fai qualcosa di diverso da quello che ti dico io, ti restituiremo moglie e figlia per posta. Ci siamo capiti?» «Sì.» «Quando avrò avuto ciò che voglio, loro verranno rilasciate. Di questo puoi essere certo. Non sanno chi le ha rapite, propria come tu non sai chi siamo noi. Meglio così.» «Cos'è che volete? Dei dischetti di computer? Dove sono? In che punto della casa?» «Due dischetti, poco più grossi di quelli normali. Si chiamano zip, e portano l'etichetta "Disco Uno" e "Disco Due". Finché non li troviamo non sappiamo dove sono, ma Smith lo sa.» L'uomo aprì la portiera, poi si fermò e si voltò a guardare il cellulare. «Rispondi quando squilla, capo.» Le chiavi dell'auto gli caddero in grembo. Le portiere si aprirono e si richiusero e lui restò solo nel vicolo dietro il piccolo centro commerciale in mezzo al nulla. La Mustang si allontanò. La seconda macchina partì in retromarcia, rombando. Talley rimase seduto al volante, ansimante, incapace di muoversi, sentendosi al di fuori del proprio corpo, come se tutto fosse successo a qualcun altro. Afferrò le chiavi, mise in moto e girò con forza il volante, schiacciando l'acceleratore a tavoletta e facendo schizzare ghiaia tutt'intorno. Accese luci e sirena, su codice tre, tornando a tutta velocità al suo appartamento. Parcheggiò a casaccio, con i lampeggianti accesi, e corse dentro come se loro potessero essere sedute lì ad aspettarlo, e quanto era accaduto fosse frutto di un'allucinazione. L'appartamento era vuoto, il silenzio assordante. Le chiamò, non sapendo cos'altro fare. «Jane! Amanda!» L'unico segno della loro presenza erano le chiavi dell'auto di Jane, posa-
te in bella vista sul tavolo in soggiorno, piccole e fredde, lasciate lì come avvertimento. Talley si infilò in tasca le chiavi di Jane. Salì al piano superiore e andò alla piccola scrivania in camera da letto. Rimase a fissare le fotografie: Jane e Amanda, molto più giovani, allora, in una foto scattata a Disneyland, Jane seduta in uno di quei ristoranti all'aperto di Adventureland, che stringeva a sé Amanda, mettendo entrambe in mostra denti bianchissimi. Avevano mangiato tostadas o tacos, con una salsa così poco piccante che ne avevano riso a lungo; proprio loro tre, losangelini DOC, costretti a mangiare una salsa saporita quanto una zuppa Campbell, che solo gente del Minnesota o del Wisconsin avrebbe potuto trovare piccante. Talley soffocò un singhiozzo. Estrasse la foto dalla cornice e la mise in tasca insieme alle chiavi. Andò all'armadio a muro, prese la sacca da ginnastica di nylon blu e la posò sul letto. Tirò fuori la pistola che aveva in dotazione durante il suo servizio alla Swat, una Colt .45 modello 1911, messa a punto dall'armaiolo della squadra perché fosse ancora più precisa e affidabile. Era grossa, sinistra ed estremamente pericolosa. Aveva solo sette colpi, ma veniva usata come pistola da combattimento perché anche uno solo di quei proiettili era in grado di stendere un uomo grande e grosso. Una .38 o una 9 millimetri non potevano garantirlo, ma la .45 sì. Era letale. Talley estrasse il caricatore vuoto, lo riempì e lo rimise a posto. Frugò dentro la sacca alla ricerca della fondina di nylon nero. Si tolse l'uniforme, indossò un paio di jeans e scarpe da ginnastica. Agganciò la fondina alla cintura, spostandola sul fianco, quindi la coprì con una felpa nera. Alla cintura assicurò anche il distintivo. Il cellulare consegnatogli dall'Uomo con l'orologio era posato sulla scrivania. Talley lo fissò. E se avesse squillato? E se gli avessero ordinato di fare subito irruzione nella casa e la gente al suo interno fosse rimasta uccisa? E se avesse sentito le urla di Jane e Amanda mentre venivano assassinate? Sedette sul bordo del letto dicendosi che era uno stupido. Avrebbe dovuto rivolgersi immediatamente allo sceriffo e all'Fbi: anche l'Uomo con l'orologio lo sapeva. Sarebbe stato il modo più furbo per togliersi da quel casino, e l'avrebbe anche fatto se non fosse stato convinto che l'uomo diceva la verità: aveva effettivamente qualcuno agli York Estates, e avrebbe ucciso la sua famiglia. Talley aveva paura. È facile dire cos'è giusto fare se non sei coinvolto, ma quando si tratta di te è un incubo. Si impose di stare
attento. L'Uomo con l'orologio aveva ragione anche su un altro punto: IL PANICO UCCIDE. Un cartello con quello stesso motto era appeso su una parete alla scuola della Swat: "Il panico uccide". Gli istruttori glielo avevano inculcato. Anche se la situazione era incalzante bisognava riflettere: agire in fretta ma con efficienza. La mente è un bene troppo prezioso per essere sprecato, e niente la danneggia più in fretta di un proiettile. Pensa, prima di agire. Talley si infilò in tasca il cellulare, salì in auto e andò al suo ufficio. Il Dipartimento di polizia di Bristo Camino occupava i locali di un ex negozio di giocattoli, un immobile su due piani nel centro commerciale. I suoi uomini lo chiamavano scherzosamente "la culla". A quell'ora di notte, il centro commerciale era deserto; parcheggiata davanti alla sede c'era solo un'autopattuglia, a parte le auto personali degli agenti. Talley si fermò accanto al marciapiede. Il piano superiore ospitava una camera di sicurezza, una sala riunioni, un bagno e uno spogliatoio. I criminali più pericolosi trattenuti là dentro erano stati due ladri d'auto sedicenni scappati da Santa Monica a bordo di una Porsche rubata che poi avevano distrutto andandosi a schiantare contro una palma. Gran parte del pianterreno era occupato dall'ufficio di Sarah con un bancone destinato all'agente di guardia: pur non essendo un pubblico ufficiale, Sarah assolveva anche a quella funzione ogni qualvolta non era impegnata al centralino. La stanza di Talley si trovava sul retro, ma il suo computer non era collegato al Nlets, il sistema informativo nazionale delle forze dell'ordine. Un solo computer aveva accesso al sistema, e si trovava nell'ufficio centrale, sulla scrivania di Sarah. Kenner, seduto al bancone, vedendolo entrare inarcò le sopracciglia, sorpreso. «Ehi, capo, credevo che fosse in codice sette.» Il codice sette indicava la pausa pranzo, ma in gergo significava anche smontare dal servizio. Talley varcò il cancelletto che separava la zona destinata al pubblico dalle scrivanie, senza guardare in faccia l'agente. Voleva evitare ogni conversazione. «Ho da fare.» «Cosa sta succedendo alla casa?» «Ora se ne occupano gli uomini dello sceriffo.» Sarah, al centralino, lo salutò con la mano. Era un'insegnante in pensione con i capelli rosso fuoco che svolgeva quel lavoro perché le piaceva. Talley le fece un cenno con il capo, ma non si fermò a scambiare due parole, come avrebbe fatto normalmente. Invece, andò subito al computer collega-
to al Nlets. «Pensavo fosse andato a casa» osservò Sarah. «Avevo delle cose da fare.» «Non è triste, per quel povero bambino? Com'è andata a finire?» «Ho fatto un salto perché avevo bisogno di cercare una cosa, ma devo tornare laggiù.» Cercò di usare un tono brusco per scoraggiarla. Talley batté il numero di targa della Mustang, 2KLX561, e richiese una verifica agli archivi della motorizzazione civile. «Ah, capo, mi farebbe piacere partecipare anch'io, sa, alla casa...» Kenner si era avvicinato alle sue spalle, e lo guardava con aria speranzosa. Talley si sporse in avanti per impedirgli di vedere lo schermo. «Chiama Anders. Digli che ho dato ordine di farti prendere servizio là alla fine del turno.» Talley tornò a rivolgere la propria attenzione al computer. «Ah, capo, pensa che potrei stare di guardia al perimetro?» «Vuoi fare un po' di tiro a segno, eh, Kenner?» L'agente si strinse nelle spalle. «Be'... sì, signore.» «Dillo ad Anders.» Talley rimase a guardare finché Kenner non fu tornato al bancone. Dalla motorizzazione arrivò la risposta: il numero di targa 2KLX561 non corrispondeva ad alcuna auto immatricolata. Allora batté il nome "Walter Smith" e fece una ricerca nell'archivio nazionale del crimine, limitandola ai maschi di razza bianca del Sudovest in un arco di tempo di dieci anni. Questo gli fruttò centoventotto risposte. Conoscendo il secondo nome di Smith avrebbe potuto limitare di molto il campo, ma purtroppo lo ignorava. Restrinse la ricerca a cinque anni e questa volta ottenne trentuno risultati. Li esaminò. Ventuno dei trentuno arrestati erano ancora in carcere, gli altri dieci erano troppo giovani. Per il sistema informativo delle forze dell'ordine il Walter Smith che viveva negli York Estates era solo un onesto cittadino americano che conservava in casa qualcosa per cui qualcuno era disposto a uccidere. Talley spense il computer, poi cercò di ricordare quanti più dettagli possibile dei tre uomini e della donna che lo avevano rapito. La donna: capelli scuri e neri che le incorniciavano il volto, un metro e sessantacinque, snella, camicetta chiara e gonna. Era troppo buio per vedere altro. I tre uomini indossavano giacche sportive di buon taglio, guanti e passamontagna. Non
aveva notato alcun segno particolare. Cercò di ricordare eventuali rumori di sottofondo quando aveva parlato con Jane, qualcosa che potesse identificare il luogo in cui si trovava, ma non c'era stato nulla. Talley estrasse il telefono dell'Uomo con l'orologio, chiedendosi se fosse possibile rilevare qualche impronta. Era un Nokia nero nuovo. Il display della batteria indicava che era completamente carica. All'improvviso ebbe paura che si scaricasse, e così lui non avrebbe mai più potuto parlare con Jane e Amanda. Cominciò a tremare, man mano che il panico cresceva, ma si costrinse a scacciare quei pensieri. Rifletti. Il cellulare era il suo legame con le persone che avevano rapito Jane e Amanda, un legame che avrebbe potuto condurlo a loro. Se era stato l'Uomo con l'orologio a chiamare il luogo in cui si trovava Jane, il numero avrebbe dovuto trovarsi in memoria. Il suo cuore prese a battere forte. Premette il tasto per ricomporre l'ultimo numero chiamato. Niente. Allora controllò la memoria, ma non vi erano numeri inseriti. Rifletti!!! Se erano stati i carcerieri di Jane a telefonare all'uomo, lui avrebbe potuto richiamare utilizzando la funzione asterisco-6-9. La digitò. Non accadde nulla. Il suo cuore batté ancora più forte. Avrebbe voluto farlo a pezzi, quel fottuto telefono. Avrebbe voluto lanciarlo contro il muro, e poi saltarci sopra finché non fosse stato ridotto in frantumi. Rifletti, maledizione!!! Qualcuno aveva acquistato quel telefono e pagava per il servizio. Talley lo spense e poi lo riaccese. Quando il display si accese, comparve il numero: 555-1367. Talley si sarebbe messo a saltare per l'eccitazione. Copiò il numero, la sua unica traccia. Ma poi si rese conto che ne aveva anche un'altra: Walter Smith. Smith avrebbe potuto identificare questa gente, Smith aveva quello che loro volevano, forse era addirittura in grado di dirgli dove avevano portato Jane e Amanda. Smith aveva tutte le risposte. Talley doveva solo arrivare a lui. E farlo uscire da quella casa. Quando arrivò a qualche chilometro dal complesso, Talley chiamò Larry Anders, dicendogli di venirgli incontro all'ingresso sud e di attenderlo lì, da solo. Il traffico era diminuito rispetto a prima, ma quando lasciò la Flanders, restò intrappolato in una lunga fila di curiosi. Azionò per un attimo la sirena per farli scostare e oltrepassò il posto di blocco. Anders era parcheggiato a lato della strada. Talley andò a fermarsi dietro di lui e gli fece segno con le luci. Anders si avvicinò al finestrino, visibilmente agitato. «Cosa c'è, capo?»
«Dov'è Metzger?» «Con gli uomini dello sceriffo, caso mai avessero bisogno di qualcosa. Ho fatto qualcosa che non va?» «Sali.» Talley attese che Anders girasse intorno alla macchina e salisse. Pur non essendo la persona più anziana del suo dipartimento, lo era in quanto a servizio, e Talley lo rispettava. Ripensò al fatto che gli uomini con il passamontagna avevano qualche infiltrato sul posto, e si chiese se quella persona fosse Larry Anders. Ripensò a quella foto, apparsa sul "Los Angeles Times", quella scattata all'asilo, che mostrava Spencer Morgan, l'uomo che aveva preso in ostaggio i bambini, mentre gli puntava la pistola alla testa. Pensò alla fiducia cieca che gli ci era voluta per stare lì, immobile, mentre il suo amico Neal Craimont prendeva la mira. Anders era chiaramente a disagio. «Capo, perché mi guarda in quel modo?» «Ho un lavoro per te. Ma non devi parlarne con nessuno, né con Metzger né con gli altri, neppure con gli uomini dello sceriffo. Con nessuno. Di' solo che ti ho chiesto di fare alcuni controlli, ma non dire quali. Mi hai capito bene, Larry?» «Credo di sì» rispose lentamente Anders. «Non basta. O sai tenere la bocca chiusa oppure no. È importante.» «Non è qualcosa di illegale, vero, capo? A me piace fare il poliziotto. Non potrei mai fare una cosa illegale.» «È lavoro di polizia, quello vero. Voglio che tu scopra quanto più possibile sul conto di Walter Smith.» «Il tizio della casa?» «Credo sia coinvolto in attività illegali, di persona o attraverso suoi soci. Devo scoprire di cosa si tratta. Parla con i vicini, ma non ti scoprire. Non dire a nessuno cosa stai facendo e non parlare dei tuoi sospetti. Cerca di capire tutto quello che puoi: da dove viene, che lavoro fa, chi sono i suoi clienti, qualunque cosa ci possa fornire degli elementi su di lui. Mi servirebbe anche conoscere il suo secondo nome. Quando hai finito, torna in ufficio e fa' una ricerca su di lui nelle banche dati del Nlets e dell'Fbi. Io sono andato indietro di cinque anni, ma tu vai indietro di venti.» Anders si schiarì la gola. La cosa non lo convinceva. «Perché non devo parlarne con gli altri?» «Perché voglio così, Larry. Ho le mie buone ragioni, ma non posso parlartene adesso. E conto sul fatto che tu sappia tenere la bocca chiusa.»
«Lo farò, capo. Sissignore.» Talley gli diede il numero del Nokia. «Prima di tutto, però, voglio che tu risalga all'intestatario di questo numero. Puoi farlo anche per telefono da qui. Scopri a chi sono intestate le bollette. Se hai bisogno di un ordine del tribunale, chiama il tribunale distrettuale, giù a Palmdale. Hanno un giudice sempre in servizio per le emergenze notturne. Sarah ha il numero.» Anders guardò il pezzetto di carta. «Il giudice vorrà sapere il motivo, no?» «Digli che pensiamo che questo numero ci possa fornire informazioni di vitale importanza sul conto di uno degli uomini all'interno della casa.» Anders annuì, poco convinto, sapendo che si trattava di una bugia. «D'accordo.» Talley si sforzò di ricordare se ci fosse qualcos'altro, qualcosa che potesse fornirgli un'indicazione sulla gente con cui aveva a che fare. «Quando torni in ufficio, fa' una ricerca sull'elenco delle auto rubate. Una Mustang verde scuro, ultimo modello. Dovrebbe essere un furto recente, forse addirittura di oggi.» Anders tirò fuori il taccuino per prendere nota. «Ha il numero di targa?» «Il computer dice che è un numero inesistente. Se la trovassi, prendi nota di dove è stata rubata. Chi doveva controllare i permessi edilizi?» «Ah... Cooper.» «Voglio che lo faccia tu.» «Ma è mezzanotte.» «Se devi tirare giù dal letto i responsabili dell'ufficio licenze edilizie, fallo. Digli che gli uomini dello sceriffo hanno un disperato bisogno del progetto della casa, che è una questione di vita o di morte. Digli quello che vuoi, ma scopri chi ha costruito quella casa.» «Sì, signore.» «Dovrai lavorare tutta la notte, Larry. È importante.» «Non c'è problema.» «Aggiornami su tutto quello che trovi, a qualunque ora. Non usare la radio. Chiamami sul cellulare. Ce l'hai il numero?» «Sì, signore.» «Datti da fare.» Talley rimase a osservarlo mentre si allontanava a bordo dell'auto. Si disse che poteva fidarsi di Anders. Gli aveva appena messo tra le mani la
vita della sua famiglia. Talley parcheggiò davanti alla casa della signora Pena e andò verso il posto mobile di comando dello sceriffo. Il portellone posteriore era aperto, illuminato da un bagliore rossastro proveniente dall'interno. Il capitano Martin, Hicks e l'agente addetto all'intelligence erano radunati intorno al distributore del caffè. Talley bussò sul portellone e salì. Il capitano si voltò e, vedendolo, gli sorrise con una cordialità che lo sorprese. «Credevo che se ne fosse andato.» «Riprendo il comando delle operazioni.» Ci volle un momento perché il significato delle sue parole venisse pienamente compreso, e allora il capitano si accigliò. Ogni cordialità scomparve. «Non capisco. È stato lei a richiedere il nostro aiuto. Non vedeva l'ora di passarmi la patata bollente.» Talley aveva già la bugia pronta. «Lo so, capitano, ma è una questione di responsabilità. Gli amministratori cittadini vogliono che il comando sia in mano a un rappresentante di Bristo. Mi spiace, ma è così. Da questo momento in poi, riprendo io il comando delle operazioni.» Hicks si portò le mani strette a pungo sui fianchi. «Queste sono cazzate da campagnoli ignoranti.» Talley lo guardò fisso. «Nessuna azione dovrà essere intrapresa senza il mio consenso. Sono stato chiaro?» Il capitano Martin andò verso Talley a grandi passi, fermandosi a qualche centimetro. Era alta quasi quanto lui. «Venga fuori. Voglio parlarle.» Talley non si mosse. Sapeva che per gli uomini dello sceriffo era normale intervenire sotto il controllo delle autorità locali quando venivano chiamati con compiti di supporto e appoggio tattico: il capitano Martin avrebbe comunque mantenuto il comando diretto dei suoi uomini, anche se Talley avrebbe avuto la responsabilità dell'operazione. Talley sapeva che lei non avrebbe fatto storie. «Non c'è niente di cui parlare, capitano. Non ho alcuna intenzione di venire a dirle come fare il suo lavoro: ho bisogno di voi e apprezzo il fatto che siate qui. Ma devo avallare ogni decisione che verrà presa, e al momento le dico che non ci sarà alcuna irruzione.»
Laura Martin fece per dire qualcosa, ma ci ripensò. Lo fissava come se volesse leggergli dentro. Talley sostenne il suo sguardo senza abbassare gli occhi, nonostante l'imbarazzo e la paura. Si chiese se per caso la donna non avesse capito che stava mentendo. «E se quegli stronzi là dentro perdessero la testa, capo? Vuole che le corra dietro per chiederle il permesso di salvare quei ragazzini?» Talley si costrinse a rispondere. «Non si arriverà a questo.» «Non può saperlo. Nel giro di un secondo quella casa potrebbe diventare un inferno.» Talley arretrò di qualche passo. Voleva uscire dal furgone. «Voglio parlare con Maddox. È ancora davanti alla casa?» Il capitano continuò a scrutarlo negli occhi. «Cosa c'è che non va, capo?» gli chiese, abbassando la voce. «Sembra che qualcosa la preoccupi.» Talley distolse lo sguardo. «Mi è stato ordinato così. Semplice. Io devo rispondere al consiglio cittadino.» Il capitano continuò a osservarlo, poi disse, abbassando ancor più la voce, come se non volesse che Hicks e l'agente dell'intelligence potessero sentire: «Maddox mi ha raccontato qualcosa di lei. Si è fatto un nome, giù a Los Angeles». «È successo molto tempo fa.» Laura Martin si strinse nelle spalle e sorrise, anche se con minore cordialità rispetto a prima. «Non così tanto.» «Voglio vedere Maddox.» «È laggiù, al cul-de-sac. Lo avvertirò che sta andando da lui.» «Grazie, capitano, per non aver reso le cose più difficili.» Lei lo guardò, poi si voltò senza rispondere. Talley trovò Maddox ed Ellison ad attenderlo vicino alla loro auto. Ellison aveva un'espressione incuriosita. «Non riesce proprio a stare lontano, eh, capo?» «No. Ha fatto altre richieste?» Maddox scosse il capo. «Niente. Lo chiamiamo ogni quindici, venti minuti per tenerlo sveglio ma, a parte questo, non è successo niente.» «Va bene. Voglio avvicinarmi alla casa. Maddox aprì la portiera dalla parte del guidatore.
«Riprende lei il telefono?» «Esatto. Andiamo.» Talley controllò il cellulare che gli aveva dato l'Uomo con l'orologio, per accertarsi che fosse acceso. Si infilarono nel cul-de-sac e tornarono verso la casa. JENNIFER Jennifer continuava ad appisolarsi, senza però addormentarsi completamente, un orecchio rivolto al rumore degli elicotteri e al gracchiare delle radio dei poliziotti. Pensò che si trattasse di un sogno. Jennifer non riusciva a mettersi comoda, sdraiata sul letto sopra le coperte con i polsi immobilizzati, la stanza così calda che lei si sentiva sudare in modo disgustoso. Ogni volta che si assopiva, il telefono si metteva a squillare, lontano, al piano di sotto, e la sua testa tornava a riempirsi di pensieri che non riusciva a fermare: suo padre, suo fratello, e l'idea che vagasse nel sottotetto per fare qualcosa di stupido. Quando la porta si aprì, Jennifer si tirò su di scatto. Vide Mars illuminato da dietro da una debole luce. Si sentì accapponare la pelle nel trovarsi sul letto con lui lì, lui e i suoi occhi da rospo. Si alzò in piedi. «Non riusciamo a far funzionare il microonde.» «Cosa?» «Abbiamo fame. Devi cucinare.» «Siete pazzi. Io per voi non cucino.» «Lo farai.» «Va' a farti fottere!» Le parole le uscirono dalla bocca prima che potesse fermarle. Mars si avvicinò e la guardò negli occhi come aveva fatto quando lei era legata alla sedia, prima un occhio, poi l'altro. Jennifer cercò di scostarsi, ma lui la afferrò per i capelli, attirandola a sé. Parlò a voce così bassa che lei fece fatica a sentire. «Te l'ho già detto. È una cosa brutta.» «Lasciami andare.» Mars strinse ancora di più, tirandole i capelli. «Piantala.» Lui torse il pugno, tirando. Il suo volto non tradiva alcuna emozione, se non una blanda curiosità. Il dolore era insopportabile. Jennifer era tesa in tutto il corpo, sudata.
«Io posso farti tutto quello che voglio, bambina. Tienilo a mente.» Mars la spinse oltre la porta, lungo il corridoio, e la costrinse a scendere le scale. In cucina tutte le luci erano accese, forti e accecanti dopo l'oscurità della sua camera. Mars tagliò il nastro adesivo che le immobilizzava i polsi. Jennifer non aveva ancora visto il suo coltello: la lama era ricurva e minacciosa. Lanciò un'occhiata alla porta finestra, provando l'impulso di fuggire anche se prima, quando Thomas gliel'aveva proposto, aveva rifiutato. Due pizze surgelate erano posate sul bancone e lo sportello del microonde era aperto. «Riscalda la pizza.» Mars si allontanò da lei e andò al frigorifero. La sua schiena imponente le faceva paura. Jennifer si ricordò del coltellino che aveva spinto dietro il mixer poco dopo la loro irruzione. Lanciò un'occhiata per accertarsi che fosse ancora lì. Quando tornò a voltarsi verso Mars, vide che lui la osservava, tenendo in mano una confezione di uova. Era come se lui potesse guardarle dentro. «Sulla mia ci voglio uova strapazzate e hot dog.» «Sulla pizza?» «Sì. E burro e salsa piccante.» Mentre Jennifer tirava fuori l'occorrente, Dennis comparve sulla soglia. I suoi occhi erano torvi e segnati da profonde occhiaie. «Sta cucinando?» «Fa delle uova.» Dennis grugnì, indifferente, e si allontanò senza dire altro. Jennifer si scoprì ad augurarsi che morisse. «Quando ci lascerete andare?» «Tu sta' zitta e pensa a preparare.» Ruppe tutte e nove le uova in una ciotola di vetro, quindi mise la padella sul fuoco. Non si diede la pena di aggiungere sale e pepe. Voleva che risultassero pessime. Mars era sempre lì in piedi, che la osservava. «Smettila di guardarmi o brucerò le uova.» Mars andò alla porta finestra. Quando lui si allontanò, Jennifer provò un tale sollievo, come se le avessero tolto un peso dalle spalle. Riprese a respirare. Sbatté le uova e le versò nella padella, dopo averla unta. Prese la salsa piccante dal frigorifero, poi si voltò a guardare Mars. Era in piedi davanti alla porta finestra e fissava il nulla, una mano poggiata contro il vetro. Versò della salsa piccante nelle
uova finché non diventarono arancione, sperando che li avvelenasse. E poi pensò che avrebbe potuto avvelenarli sul serio. Sua madre aveva delle pillole per dormire, nel garage doveva esserci del veleno per i topi o del diserbante. E poi c'era il liquido per sgorgare i lavandini. Pensò che Thomas avrebbe potuto prendere il sonnifero e, se l'avessero obbligata a cucinare di nuovo, lei poteva metterlo nel cibo. Lanciò un'altra occhiata a Mars, aspettandosi che le avesse di nuovo letto nel pensiero e che ora la stesse guardando, ma lui si era spostato nella saletta. Jennifer fissò il coltellino, il cui manico spuntava da dietro il mixer, proprio sotto il pensile dei piatti. Guardò di nuovo verso Mars. Non riusciva a vedere il suo volto, solo la sagoma del suo corpo. Forse la stava osservando, ma lei non poteva saperlo. Andò al pensile, tirò giù qualche piatto e prese il coltello. Resistette alla tentazione di voltarsi verso Mars, sapendo che se i loro sguardi si fossero incrociati, lui avrebbe capito. Infilò il coltello nelle mutandine del costume da bagno, orizzontalmente, in modo che restasse schiacciato contro la pancia. «Cosa stai facendo?» «Prendo i piatti.» «Hai bruciato le uova. Sento l'odore.» Portò i piatti accanto ai fornelli, sentendo il coltello premere contro la pancia e pensando che ora, se le avessero dato le spalle, lei avrebbe potuto ucciderli. Nello studio, il telefono cominciò a squillare. 15 Venerdì, 23.02 TALLEY Gli uomini dello sceriffo avevano installato una linea telefonica dedicata per Maddox ed Ellison. Utilizzava un collegamento cellulare tra l'auto di Maddox e la postazione mobile di comando, e da lì si connetteva alla linea telefonica fissa di Smith. Forniva ai negoziatori la libertà di movimento di un telefono cellulare e nello stesso tempo permetteva che le conversazioni venissero registrate dall'apparecchiatura sul furgone. Il capitano Martin, Hicks e chiunque altro si trovasse a bordo potevano ascoltare ogni parola. E questo a Talley non andava bene.
Estrasse il suo cellulare, ma aveva dimenticato il numero di Smith e fu costretto a chiederlo. «Abbiamo la nostra linea» obiettò Maddox, perplesso. Talley lo ignorò. «Mi sento più a mio agio con questo. Ha il numero?» A meno che gli uomini dello sceriffo non avessero dato altre disposizioni, il telefono degli Smith avrebbe dovuto ancora accettare le chiamate dal suo cellulare. Ellison gli dettò il numero, mentre Maddox restava a osservarlo. Talley sapeva che lui trovava strana la cosa, ma non se ne curò. «Perché fa questo?» «Cosa?» «Così, all'improvviso, chiama il soggetto. Ogni telefonata ha un suo scopo ben preciso. Perché?» Talley si interruppe e cercò di riordinare le idee. Aveva cominciato a nutrire un certo rispetto per Maddox e avrebbe voluto dirgli la verità, ma la paura non glielo permetteva. Lui voleva Smith. Smith era il collegamento con le persone che avevano preso sua moglie e sua figlia. Osservò la casa e immaginò ciò che poteva esserci dall'altro lato della porta, poi tornò a guardare verso Maddox. Doveva dire qualcosa per portare quell'uomo dalla sua parte. «Ho paura che Smith sia morto. Credo di poter convincere Rooney a dircelo senza fargli capire che il ragazzino ci ha chiamato.» «Se è morto, Rooney non ci dirà una parola, e poi il ragazzino ce l'avrebbe detto.» «Allora cosa facciamo, Maddox? Vuole fare irruzione?» Maddox sostenne il suo sguardo, poi si voltò a guardare la casa e annuì. «D'accordo.» Talley digitò il numero e attese che il telefono nella casa squillasse. Il davanti e i lati dell'edificio erano illuminati a giorno dai riflettori sistemati dagli uomini dello sceriffo, un bagliore così accecante che la casa sembrava quasi priva di colore. Smisurate ombre scure si allungavano sul prato come pietre tombali. Il telefono fece quattro lunghi squilli prima che Rooney rispondesse. «Sei tu, Talley? Ti ho visto arrivare.» Per la durata di tre lunghi battiti Talley non disse nulla. Non gli era mai accaduto, ma ci volle tutto quel tempo per riuscire a calmare l'ansia che, lo sapeva, sarebbe trapelata dalla sua voce. Non poteva permettersi alcuna debolezza, niente che potesse avvisare Rooney o metterlo in guardia.
«Talley?» «Ciao, Dennis. Eri nello studio? Ci stavi guardando?» I listelli delle veneziane si aprirono per un attimo e si richiusero. «Già, suppongo di sì. Ti sono mancato?» continuò Talley. «Non mi piace quel tizio nuovo, quel Maddox. È convinto che io sia un idiota, mi chiama ogni quindici minuti, fingendo di volersi assicurare che stiamo bene, ma lo fa solo per tenerci svegli. Non sono stupido.» Adesso che era di nuovo al telefono, Talley cominciò a calmarsi. Poche ore prima aveva odiato quella situazione, ma ora la sensazione familiare gli dava forza: lui, il telefono e il soggetto, un piccolo mondo a sé stante in cui lui giocava una partita contro una voce all'altro capo del filo. Fu sorpreso di provare quella sicurezza che non conosceva più da anni, la sensazione profonda di poter controllare almeno quel mondo. Alzò lo sguardo verso gli elicotteri. Angeli rossi e verdi. «Sono tornato, stasera, perché qua abbiamo un problema.» Come Talley aveva previsto, Rooney esitò. Stava pensando. Talley sapeva che ciò che stava per dire avrebbe sorpreso Maddox ed Ellison, quindi si voltò verso di loro e si portò un dito alle labbra. Poi si accinse a riempire il silenzio lasciato da Rooney, assumendo un tono fermo, serio e deciso. «Ho bisogno che tu mi faccia parlare con il signor Smith.» «Ne abbiamo già discusso, Talley. Lascia perdere.» «Questa volta non posso lasciar perdere, Dennis. Le persone qua fuori, gli uomini dello sceriffo, sono convinti che tu non voglia farmi parlare con il signor Smith o con i suoi figli perché sono morti. Pensano che tu li abbia ammazzati.» «Stronzate!» Maddox ed Ellison si avvicinarono, tenendo gli occhi puntati su di lui. Talley avvertì su di sé il peso dei loro sguardi, ma li ignorò. «Se non mi fai parlare con il signor Smith, loro daranno per scontato che sia morto e faranno irruzione nella casa.» Rooney si mise a imprecare, a urlare che sarebbero morti tutti e che la casa sarebbe bruciata. Talley si aspettava una reazione del genere, e lasciò che Rooney si sfogasse. Maddox lo afferrò per un braccio. «Cosa diavolo sta dicendo? Non può dire una cosa del genere!» Talley alzò una mano, facendogli cenno di allontanarsi. Attese un momento di tregua nello sproloquio di Rooney.
«Dennis? Dennis, ti dico subito che io ti credo, ma loro no. Non dipende da me, figliolo. Io ti credo. Ma se non mi dai qualcosa per convincerli, questi entrano. Fammi parlare con lui, Dennis.» Talley stava correndo un grosso rischio. Se Smith era cosciente e in grado di parlare, Rooney avrebbe davvero potuto passarglielo. In quel caso, Talley avrebbe comunque cercato di ottenere delle informazioni sugli uomini con il passamontagna, ma sapeva che le probabilità di riuscirci erano minime. L'unica sua speranza era che Smith fosse ancora privo di conoscenza. Se Rooney lo avesse ammesso, lui poteva tentare di convincerlo a liberarlo. «Vaffanculo tu e anche loro!» urlò Rooney. «Se cercate di entrare qua dentro, faccio fuori i ragazzi!» «Lascia che gli parli, Dennis. Per favore. Sono convinti che lui sia morto e faranno irruzione.» «MERDA!!» urlò Rooney. Talley avvertì la frustrazione nella sua voce. Attese. Rooney rimase in silenzio: significava che stava pensando; non poteva chiamare Smith al telefono, ma aveva paura di ammettere che l'uomo era ferito. Talley provò un moto di eccitazione, ma non lo diede a vedere. Ammorbidi il tono della voce, cercando di apparire comprensivo e disponibile. Siamo sulla stessa barca, amico. «C'è qualcosa che non va, Dennis? C'è un motivo per cui non puoi passarmi Smith?» Rooney non rispose. «Parlami, Dennis.» Rooney ci mise almeno un minuto prima di rispondere. «Ha preso un colpo in testa. Non si sveglia.» Talley si guardò bene dal chiedergli come fosse successo. Sarebbe solo servito a mettere Rooney sulla difensiva e lui questo non lo voleva. Ormai il ghiaccio era rotto: avrebbe cercato di farsi consegnare Smith. Maddox continuava a osservarlo, un'espressione interrogativa sul volto. Talley annuì, arrivando al punto: ripeté l'ammissione a beneficio di Maddox. «Allora mi stai dicendo che è privo di sensi. Va bene, sono felice che tu me l'abbia detto, Dennis. Questo spiega un sacco di cose. Ora potremo occuparcene noi.» «Sarà meglio che non tentino di entrare qui dentro.» "Tentino". Non "tentiate". «Credo che riusciremo a trovare una soluzione, Dennis. Si tratta di una
ferita alla testa? Non ti sto chiedendo come è successo. Voglio solo sapere cos'ha.» «È stato un incidente.» «Respira?» «Sì, ma è svenuto. Non parla.» Ora Talley doveva passare alla mossa successiva. Doveva entrare nella casa, oppure far uscire Smith. «Dennis, ora capisco perché non potevi passarmelo, ma c'è un uomo che ha bisogno di essere portato in ospedale. Lascia che venga a prenderlo.» «Col cazzo! Lo so cosa farete, bastardi! Assalterete la casa.» Rooney era spaventato. Terrorizzato. «No. Non lo faremo.» «Va' a farti fottere. Tu qui dentro non ci vieni!» Talley insistette. Sapeva che avrebbe potuto suggerire di mandare un medico o un paramedico, ma non voleva che nessuno entrasse in quella casa. Voleva che Walter Smith uscisse. «Se non ti va di lasciarci entrare, mettilo fuori, davanti alla porta.» «Non sono così stupido! Non ho intenzione di uscire da quella porta con tutti i cecchini che avete là fuori!» Talley avvertì un movimento al suo fianco. Maddox ed Ellison. Sentì Maddox attivare la sua radio e ordinare a qualcuno di mandare un'ambulanza. «Non ti sparerà nessuno. Tu mettilo fuori e noi verremo a prenderlo. Se gli salvi la vita, Dennis, questo ti aiuterà in tribunale.» «No!» «Non serve altro, Dennis. Mettilo fuori.» «NO!» urlò nuovamente Rooney, a voce più alta. «Salvalo.» «No!» «Aiutami ad aiutarti.» Rooney sbatté giù il telefono. «Dennis?» Niente. Rooney non c'era più. «DENNIS?!» Maddox ed Ellison lo fissavano, immobili. Aspettavano. «Allora?» Talley c'era andato vicinissimo, ma aveva chiesto troppo. Aveva insistito troppo. E aveva perso.
DENNIS Dennis sbatté giù il telefono, poi lo afferrò di nuovo e lo scagliò sulla scrivania. «Quello stronzo! Quello stronzo mi vuole morto!» Era così arrabbiato che si sentiva scoppiare la testa. Kevin camminava su e giù davanti al televisore a braccia incrociate. Era un fascio di nervi. Andò al divano e rimase a fissare Walter Smith. «Dovremmo darglielo. È molto peggiorato.» «Che vadano a farsi fottere! Loro non ce l'hanno dato l'elicottero, no?» «Cosa importa? Guardalo, Dennis! Credo che abbia degli attacchi epilettici.» Smith giaceva immobile come un cadavere, poi all'improvviso veniva scosso da un sussulto, tutto il corpo percorso da uno spasmo. Dennis non riusciva neppure a guardarlo. «Non riconosceresti una crisi epilettica neanche se ce l'avessi tu.» «Potrebbe avere dei danni al cervello.» Dennis andò alle finestre. Niente era cambiato dall'ultima volta che aveva guardato fuori, o dalla volta precedente: il cul-de-sac era pieno di agenti e auto della polizia, e pareva che continuassero ad arrivarne. Dennis non voleva ammetterlo con Kevin, ma aveva paura. Era affamato e stanco, e l'odore di benzina nell'ingresso gli faceva venire la nausea. Aveva le tasche rigonfie di banconote. Kevin gli si avvicinò. «Dennis, sta morendo. Già abbiamo fatto fuori il cinese. Poi c'è il poliziotto. Se questo tizio crepa ci affibbiano un'altra accusa di omicidio.» «Chiudi quella bocca, Kevin.» «Dovremmo parlare con un avvocato come ha detto quel poliziotto. Ci serve un avvocato che faccia un accordo. Possiamo dare la colpa a Mars.» «Sta' zitto, che ti sente.» «Non mi interessa, se mi sente!» «Calmati, Kevin. Ci sto pensando, okay? Ho solo bisogno di mangiare. Qualcosa da mettere nello stomaco e un po' di tempo per pensare. Troveremo una via d'uscita. La ragazza sta cucinando.» «Come puoi pensare a mangiare? A me viene su tutto.» «Ho visto del Gaviscon in bagno. Prendi quello.» «Voglio dormire.»
«Vuoi chiudere quella cazzo di bocca? I poliziotti ti sbatteranno in galera, così potrai dormire ogni notte per il resto della tua vita!» Dennis sapeva che Kevin aveva ragione, ma non voleva pensarci. Ogni piano che gli veniva in mente aveva dei buchi grandi come una casa e ora la polizia minacciava di abbattere la porta. Walter Smith si contorse sul divano, percorso da un altro tremito. Sembrava che stesse morendo di freddo, e rabbrividiva come se fosse sdraiato su una lastra di ghiaccio. Dennis era così spaventato che gli occhi gli si riempirono di lacrime. Era lì, con un milione di dollari a portata di mano e non sapeva cosa fare. Mars e la ragazza entrarono portando le pizze. Dennis pensò che forse il cibo lo avrebbe aiutato, ma quando la ragazza vide il padre mollò la pizza e corse da lui. «Cosa succede? Papà!» Dennis pensò che gli sarebbe scoppiata la testa. Lei cadde in ginocchio, china sopra il padre, ma senza toccarlo. «Guarda come trema. Perché trema in questo modo? Fai qualcosa!» Kevin esibì quella sua espressione inconcludente. «Dennis, ha bisogno di un medico.» Dennis avrebbe voluto spaccargli la testa. «No.» La ragazza lo guardò piena d'odio, urlando: «È ghiacciato! Ma non capisci che sta morendo?». Kevin si avvicinò a Dennis, implorandolo. «Per favore, se muore ci becchiamo un'altra accusa di omicidio. Siamo già abbastanza nei casini così.» Dennis era spaventato. Non voleva che quel figlio di puttana morisse. Non voleva un'altra accusa di omicidio. Kevin sollevò il telefono. «Chiamali. Lascia che se lo vengano a prendere.» «No.» «Terranno conto del fatto che sei disposto ad aiutarli. Potrebbero farci uno sconto di pena. Pensaci, Dennis. Riflettici.» Kevin si avvicinò ancora, il suo sussurro era più che un'implorazione. «Se quei tizi entrano qui dentro, tu non potrai tenerti i soldi.» Dennis lanciò un'occhiata a Mars che, seduto a terra, mangiava un piatto di pizza con le uova. Mars incrociò il suo sguardo e fece quel suo sorrisetto, come se l'avesse sempre saputo che lui non aveva le palle per giocare duro. Vaffanculo anche Mars.
Dennis voleva i soldi. Prese il telefono e compose il numero di Talley. TALLEY Talley stava ricaricando il cellulare nella presa dell'accendisigari a bordo della macchina di Maddox quando il telefono squillò. Si irrigidì, assalito dalla paura, poiché temeva che fosse il Nokia dell'Uomo con l'orologio. «È il suo telefono» disse Maddox. Talley lo aprì. «Parla Talley.» Era Rooney. «Okay, Talley. Se lo vuoi, vienitelo a prendere. Ma solo tu.» Talley aveva pensato che fosse finita, era convinto di essersi giocato ogni possibilità di mettere le mani su Smith, e invece ora Rooney glielo stava consegnando. A Talley parve di rinascere. Aveva un'occasione per salvare Jane e Amanda. Talley si mise in ginocchio e sbirciò oltre il cofano dell'auto. Coprì il microfono del telefono e bisbigliò a Maddox: «Ambulanza. Sta uscendo». «Figlio di puttana» disse Ellison. Maddox tornò alla linea dedicata mentre Talley riprendeva a parlare. «Okay, Dennis. Sono qui. Sono con te. Vediamo di risolvere questo problema.» «Non c'è niente da risolvere. Te lo vieni a prendere e basta. Ma sarà meglio che tieni lontano quelli della Swat. Questo è l'accordo.» «Non posso portarlo da solo. Devo farmi aiutare da qualcuno.» «Maledetto bugiardo! Tu stai cercando di fregarmi!» «No, Dennis. Di me puoi fidarti. Io, un'altra persona e un barelliere. Fine.» «Fottiti, Talley! Fottiti! E va bene! Tu e un altro tizio, e basta. Però dovete spogliarvi! Vi voglio vedere spogliati! Devo sapere che non siete armati!» Talley guardò Maddox e gli fece un segno con il dito, per dire che facesse arrivare in fretta l'ambulanza. «Okay, Dennis. Se è questo che vuoi, lo faremo.» «Tienili lontani da qui! L'accordo è questo, giusto? Siamo d'accordo?» «Siamo d'accordo.» «Giuro su Dio che se quei bastardi cercano di fare qualcosa, questi ra-
gazzi moriranno! Moriranno tutti.» «Calmati. Collabora con me e non morirà nessuno.» «Vaffanculo!» Si sentì un fruscio. Rooney non c'era più. Talley fissò la casa. Passarono parecchi istanti prima che abbassasse il cellulare. La mano era ferma, ma gli faceva male l'orecchio per la pressione. Aveva la felpa zuppa di sudore e la Colt gli premeva contro la pancia. Si sentiva come intontito. Maddox lo fissava. Ellison sorrideva. «Figlio di puttana! È riuscito a farne mollare uno. Gran bel lavoro, amico. Da manuale.» Talley si allontanò senza dire una parola. Sedette sul sedile posteriore, si tolse tutto, tranne le mutande e le scarpe, e attese l'arrivo dell'ambulanza. Nella sua vita precedente si sarebbe sentito orgoglioso, ma ora no. Non l'aveva fatto per Walter Smith. Stava rischiando la vita di Smith, la propria e quella dei due ragazzi dentro la casa. L'aveva fatto per sé, per Amanda e per Jane. 16 Venerdì, 23.19 TALLEY Il capitano Martin gli stava appresso come una vespa arrabbiata. Era a bordo dell'ambulanza insieme a un medico del pronto soccorso del Canyon Country Hospital di nome Klaus. «Indossi un giubbotto antiproiettile. Anche a torso nudo. Lui vedrà che non è armato.» «L'accordo è che saremmo stati svestiti. Non voglio innervosirlo» ribadì Talley. Klaus era un uomo giovane e magro, con occhiali dalla montatura nera. Si presentò, stringendo la mano a Talley. «Mi hanno detto che abbiamo un trauma cranico e possibili ferite da arma da fuoco.» «Speriamo di no, dottore.» Klaus sorrise, imbarazzato. «Immagino che abbiano mandato me perché ho fatto due anni al Martin
Luther King, a Los Angeles. Se ne vedono di tutti i colori, laggiù.» Uno dei paramedici, un uomo sovrappeso di nome Bigelow, si era offerto di andare con Talley. Ed eccolo scendere dall'ambulanza nella luce fioca dietro la linea del fronte, con indosso soltanto dei boxer a righe, un paio di grosse scarpe da paramedico e calzettoni neri al ginocchio. Il compagno di Bigelow, una donna di nome Colby, portava la barella. «È pronto?» chiese Talley. «Sì, signore. Prontissimo.» Il capitano Laura Martin sembrava seccata. «Sa che è una cosa stupida accettare condizioni del genere. Lei era nella Swat. Sa bene che non ci si deve mai esporre senza un'adeguata protezione. Potremmo ritrovarci con altri due morti.» «Lo so.» Talley non fece parola dell'asilo nido. Avvolse la felpa intorno alla Colt e la lasciò insieme agli altri abiti sul sedile posteriore dell'auto di Maddox, quindi raggiunse Bigelow. Voleva agire prima che Rooney cambiasse idea. Chiamò la casa con il cellulare. Rooney rispose al primo squillo. «Okay, Dennis. Portalo fuori. Siamo svestiti, quindi puoi vedere che siamo disarmati. Aspetteremo sul vialetto. Non ci avvicineremo alla casa finché tu non avrai richiuso la porta.» Rooney riattaccò senza rispondere. «Non mi piace. Dovrebbe essere una squadra tattica a recuperare quest'uomo» disse il capitano Martin. Talley la ignorò e lanciò un'occhiata a Bigelow. «Eccoci qua. All'andata starò davanti io. Quando lo avremo caricato sulla barella, starò dietro. D'accordo?» «Non è necessario.» «Va bene così.» Talley e Bigelow uscirono da dietro l'auto e si fermarono in piena luce. Era come entrare in un mondo accecante. Figure indistinte si mossero all'imbocco del vialetto e poi si fermarono, in attesa. Talley capiva che Bigelow aveva paura; probabilmente le parole di Laura Martin lo avevano spaventato. «Andrà tutto bene.» «Oh, certo. Lo so.» «Pensi che figura da scemi se mettono la nostra foto sul giornale.» Bigelow sorrise nervoso. Talley fissò la casa. Le tapparelle si aprirono appena, come un occhio
che si socchiude. Doveva essere Rooney, per accertarsi che non avessero armi. La porta si aprì di qualche centimetro, poi un po' di più. Talley avvertì il cambiamento nella linea di agenti alle sue spalle: neppure uno scalpiccio, nessuno che si schiarisse la voce, non un colpo di tosse. Il rumore degli elicotteri cambiò di tono e un fascio di luce investì la porta, senza aggiungere nulla al bagliore accecante dei riflettori. Non era Dennis Rooney. Kevin e Mars Krupchek uscirono con andatura goffa e ondeggiante, portando Smith. Lo deposero a terra, a circa due metri dalla porta, quindi rientrarono in casa. «Okay, andiamo.» Talley andò dritto verso Walter Smith. Era un uomo di mezza età, con una maglietta Polo, jeans sbiaditi e scarpe da ginnastica; e c'erano persone disposte a uccidere Jane e Amanda per qualcosa che quest'uomo teneva in casa sua. La ferita alla tempia era visibile dall'imbocco del vialetto. «Mi lasci inginocchiare vicino alla testa» disse Bigelow. Talley si fece da parte, lasciando che il paramedico aprisse la barella e la bloccasse in posizione. Si sforzò di non guardare verso la casa. Teneva gli occhi puntati su Smith. Cercava qualche indicazione che si stesse svegliando, ma la profondità del sonno lo spaventò. L'uomo era scosso da tremiti che parevano partire dall'interno del suo corpo, e Talley ebbe paura che fosse in coma. «Cosa gliene pare?» Bigelow sollevò una palpebra, puntò una pila sottile nell'occhio di Smith e rispose con un grugnito. «Di sicuro ha una brutta commozione cerebrale.» Bigelow gli tastò il collo, alla ricerca di lesioni cervicali, e parve soddisfatto di quanto aveva appurato. «Okay. Siamo fortunati. Non c'è bisogno di collare. Io gli sostengo la testa e le spalle, lei lo sollevi prendendolo tra le anche e le ginocchia. Sarà più pesante di quanto possa pensare, quindi stia pronto. Al mio tre. Tre.» Lo fecero scivolare sulla barella. Bigelow si accingeva a legarlo con una cintura sul petto, ma Talley lo fermò. «Lasci perdere. Portiamolo via di qui finché possiamo.» Puntarono dritto verso il marciapiede e poi sulla strada, dentro la luce. Furono subito circondati dalla squadra tattica di Hicks. Klaus corse immediatamente alla barella, gridando a Bigelow: «Perché non gli ha messo il collare?». «Non ho visto alcun segno di lesione cervicale.»
«Avrebbe dovuto metterglielo comunque.» Colby prese il posto di Talley per aiutare Bigelow. Ellison portò i vestiti e Talley indossò i pantaloni mentre caricavano Smith sull'ambulanza. Talley seguì Klaus all'interno del mezzo. «Devo parlargli.» «Un momento.» Se prima Klaus era parso timido e imbarazzato, adesso appariva molto concentrato e deciso. Sollevò una palpebra al ferito e gli puntò la torcia nell'occhio, come aveva fatto Bigelow. Poi ripeté la manovra con l'altro occhio. «Abbiamo una reazione pupillare disuguale. Nella migliore delle ipotesi si tratta di un grave trauma cranico, ma potrebbe anche esserci una lesione cerebrale. Per saperlo dobbiamo fare i raggi e una Tac.» «Lo svegli. Ho bisogno di parlargli.» Klaus continuò a darsi da fare. Controllò il polso di Smith. «Non ho nessuna intenzione di svegliare quest'uomo» ribatté. «Ho bisogno di parlargli solo per pochi minuti. È per questo che sono andato a prenderlo.» Klaus premette lo stetoscopio contro il collo del ferito. «Quest'uomo va portato in ospedale. Potrebbe avere un ematoma intracranico o una frattura, oppure entrambe le cose. Se dovesse verificarsi un aumento della pressione endocranica potrebbe morire.» Talley si sporse oltre Klaus. Prese Smith per il viso e lo scosse. «Smith! Si svegli!» Klaus gli afferrò la mano cercando di allontanarla. «Che cazzo sta facendo? Lo lasci stare!» Talley lo scosse ancora più forte. «Svegliati, maledizione!» Le palpebre di Smith sbatterono, una più aperta dell'altra. Ma pareva che l'uomo non lo vedesse e così Talley gli andò ancora più vicino. Sembrò che gli occhi mettessero a fuoco. «Chi sei?» disse Talley. Klaus lo spinse via. «Lo lasci stare. Io la denuncio, figlio di puttana.» Gli occhi di Smith si annebbiarono e si richiusero. Talley afferrò Klaus per il braccio, cercando di convincerlo. «Usi i sali, gli faccia un'iniezione, quello che vuole. Ho bisogno solo di un minuto.»
Colby mise in moto e Talley batté la mano contro il divisorio, urlando: «Ferma!». Klaus e Bigelow si voltarono a guardarlo. Klaus abbassò lentamente lo sguardo sulla mano di Talley, che gli stringeva forte il braccio. «Non ho intenzione di svegliarlo. Non so neppure se sia possibile. E ora mi lasci andare.» «Ma stiamo parlando di altre vite. Vite innocenti. Ho solo bisogno di fargli qualche domanda.» «Mi lasci andare.» Talley fissò gli occhi duri e implacabili del dottore, il viso e il collo contratti per la tensione. Continuava a stringergli il braccio, pensando alla Colt avvolta nella felpa. «Solo una domanda, la prego.» Gli occhi duri non mostrarono alcuna pietà. «Non può risponderle.» Talley fissò il corpo immobile di Smith. Vicino. Così vicino. Klaus abbassò nuovamente lo sguardo sul braccio che Talley continuava a stringere spasmodicamente. «Mi lasci andare, maledizione! Devo portare quest'uomo in ospedale.» Il capitano Martin osservava la scena dal portellone aperto, con Ellison e Metzger accanto. Talley mollò la presa. «Quando si sveglierà?» «Non so se si sveglierà. In presenza di un'emorragia tra cranio e cervello, la pressione può aumentare al punto da causare la morte cerebrale. Per ora non sono in grado di dirle niente. E ora si sieda o scenda, ma ci lasci andare.» Talley guardò un'ultima volta il viso di Smith, sentendosi impotente. Scese dall'ambulanza e prese da parte Metzger. «Chi c'è qui, dei nostri uomini?» «Jorgy. Credo che Campbell sia ancora...» «Allora, Jorgenson resta qui. Voglio invece che tu non abbandoni mai quest'uomo. Voglio sapere l'istante, e intendo dire l'istante esatto, in cui si sveglia.» Metzger si voltò, attivando il microfono appuntato sulla spalla per comunicare con Jorgenson. Talley andò all'auto di Maddox per rivestirsi e recuperare tutta la sua roba. Ansimava. Era teso, furibondo. Aveva messo a repentaglio la vita di tutti, e Smith era comunque irraggiungibile. Non poteva parlare. Rimase a
fissare la casa. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma non c'era nulla da fare. Talley provava un odio così feroce nei confronti di Dennis Rooney che avrebbe voluto ucciderlo. Si voltò e vide che Laura Martin lo stava osservando. Non gliene importava nulla. DENNIS Niente sembrava reale: Talley e l'altro tizio, in mutande, che portavano via Smith e lo caricavano sull'ambulanza; i fasci di luce degli elicotteri che si incrociavano sul terreno come sciabole luminose. Le pozze di luce erano così forti da alterare il colore delle cose: i poliziotti erano ombre grigie, la strada era blu, l'ambulanza rosa. Dennis la osservò uscire dal cul-de-sac, riflettendo solo allora che quello avrebbe potuto essere il suo veicolo di fuga, che avrebbe potuto chiederlo come parte dell'accordo, prendere la valigia con i soldi, assicurare una pistola alla mano con il nastro adesivo e poi la pistola al corpo di Smith, quindi prendere il comando dell'ambulanza e farsi portare al confine con il Messico. Perché le idee migliori gli venivano sempre quando era ormai troppo tardi? Mars gli si avvicinò con la stessa espressione che aveva quando osservava gli operai messicani: posso leggerti dentro, so cosa stai pensando, tu non hai segreti per me. «Ti avrebbero ucciso appena fossi salito sull'ambulanza. Meglio restare qua.» Dennis lanciò un'occhiata a Mars e si allontanò, furibondo all'idea di risultare così ovvio. Mars stava diventando una vera rottura di coglioni. Dennis sedette alla scrivania di Smith e ci appoggiò sopra i piedi. «Sono stufo di stare qua, Mars. A te potrà anche piacere, ma io voglio andarmene. Ho guadagnato un po' di tempo; ora, però, dobbiamo trovare una soluzione. Qualche idea?» Spostò lo sguardo da Mars a Kevin, ma nessuno dei due disse nulla. «Fantastico. Davvero fantastico! Caso mai qualcuno decidesse di dare una mano mi faccia un fischio.» Dennis si voltò verso la ragazza, allargando le mani. «Bene. Il tuo vecchio è uscito. Sei contenta, adesso?» «Grazie.» «Sto morendo di fame. Va' in cucina a prepararmi qualcos'altro. E questa volta non farlo cadere per terra. E fai del caffè. Bello forte. Staremo svegli
tutta la notte.» Mars riaccompagnò la ragazza in cucina. Quando furono usciti dalla stanza, Dennis si accorse che Kevin lo stava fissando. «Cosa c'è?» «Non usciremo mai da qui.» «Oh, Cristo! Per favore!» «A Mars e a me non interessano i soldi. Tu non li vuoi mollare ed è per questo che siamo ancora qui. Non c'è modo di cavarsela, Dennis. Siamo circondati Siamo in televisione, cazzo! Siamo fottuti.» Dennis si alzò dalla sedia così in fretta che Kevin fece un salto all'indietro. Era arcistufo di dover lottare con il loro atteggiamento negativo. «Siamo fottuti finché non troviamo una soluzione, stronzo. E a quel punto non saremo più fottuti, saremo ricchi.» Dennis girò intorno alla scrivania e andò a passo deciso verso la saletta. Lì l'odore di benzina era forte, a causa della vicinanza con l'ingresso, ma lui aveva voglia di bere e voleva stare nella saletta. Era la sua stanza preferita. Le pareti pannellate di legno scuro e i morbidi divani di pelle lo facevano sentire ricco, come se si trovasse nell'atrio di un albergo di lusso. Il bar, poi, era bellissimo: rame martellato, lucidissimo, che sembrava risalire a dieci secoli prima, mobiletti bar con vetri smerigliati, accessori in acciaio inossidabile che scintillavano sotto la luce dei faretti. Dennis scelse una bottiglia di vodka Stolichnaya, trovò del ghiaccio in un piccolo frigorifero e i bicchieri su una mensola di vetro fumé. Si versò un po' di liquore, girò intorno al banco del bar e andò a sedersi su uno sgabello. Estrasse una banconota da cento dal rotolo che aveva in tasca e la gettò sul banco. «Tenga il resto.» Dennis bevve quasi tutta la vodka nel bicchiere. Gli piaceva il modo in cui gli scendeva veloce nella gola, una staffilata che si faceva strada a forza nella sua testa. Si riempì un'altra volta il bicchiere. La vodka fredda e secca gli fece bruciare il naso e lacrimare gli occhi. Se li sfregò, ma non riuscì a fermare le lacrime. Vivevano in un appartamentino sopra una stazione di rifornimento della Exxon: Dennis, undici anni, Kevin, più giovane di due, e la loro madre, Flo Rooney. Dennis non sapeva quanti anni avesse, né allora né adesso; il loro padre se n'era andato da tempo, un tossico di nome Frank Rooney che facezia il meccanico e non mandava i soldi per il loro sostentamento.
Be', chi se ne frega, tanto non erano neppure sposati, stavano solo insieme. Dennis spinse Kevin verso la camera da letto, Kevin con quei suoi occhi così sporgenti che sembrava dovessero schizzargli fuori dalla testa, e lui si tirava indietro perché aveva paura. Avrebbero dovuto dormire: fuori era buio. «Lo stanno facendo.» «Smettila di dire così.» «Non li senti? Fanno le cose sporche. Andiamo a vedere.» Avevano vissuto in così tanti appartamenti che Dennis non se li ricordava neppure più; in alcuni solo una o due settimane, in altri per quasi un anno, ma tutti posti squallidi, con i soffitti macchiati e i gabinetti che perdevano. Di solito Flo Rooney aveva un lavoro, una volta ne aveva avuti due, spesso neanche uno. Non c'erano mai abbastanza soldi. Flo era una donna piccola, con il corpo come una palla da bowling, gambe secche e la pelle rovinata. Le piaceva il gin e puzzava di crema da barba Noxzema. Quando era depressa e beveva troppo, cominciava a tormentare i ragazzi, dicendo che non aveva abbastanza soldi per tenerli e che avrebbe dovuto metterli in un istituto. Allora Kevin si metteva a piangere, ma Dennis pregava: sì, sì, mettimi in un istituto. Era sempre un problema di soldi. Dennis spinse Kevin verso la porta della camera da letto della madre. Cercavano di non fare rumore, perché lei era con un uomo che si era portata a casa dal bar. Quel mese lavorava come barista, il mese dopo avrebbe fatto qualcos'altro, ma c'era sempre un uomo. Lei li chiamava i suoi "piccoli piaceri", Dennis li chiamava "ubriaconi". «Non vuoi vederli mentre lo fanno?» «No!» «Avevi detto di sì! Senti cosa le sta facendo!» «Dennis, smettila! Ho paura!» L'odore di sudore e di sesso ammorbava l'aria, e Dennis la odiò per questo. Era geloso per il tempo che lei dedicava a quegli uomini e umiliato da ciò che lei gli lasciava fare, e da ciò che lei faceva a loro. Si vergognava, ma al tempo stesso la cosa lo eccitava. I suo sospiri, i suoi grugniti lo attiravano. Diede un'altra spinta a Kevin, questa volta meno violenta. «Su, vai. Capirai.» Questa volta Kevin andò, avvicinandosi lentamente alla porta. Dennis rimase sul divano letto, a osservarlo. Non sapeva perché lo stesse spin-
gendo a guardare; forse voleva che la odiasse almeno quanto lui. Con il padre in galera e la madre al lavoro, Dennis doveva occuparsi del fratello minore, preparare la colazione e andare a scuola, assicurarsi che tornasse a casa e poi preparare la cena. Se proprio doveva fargli da padre e da madre, non c'era posto per nessun altro. Forse era quello il motivo, o forse voleva soltanto punirla. Kevin arrivò alla porta e sbirciò dentro. Dennis capì che stava succedendo qualcosa di brutto perché sentiva l'uomo che le diceva cosa fare. Lei non si era neppure preoccupata di chiudere la porta. Kevin rimase a guardare per un tempo interminabile, e poi entrò, oltre la soglia, dove sua madre avrebbe potuto vederlo. «Kev!» chiamò Dennis, con un sussurro. Kevin si lasciò sfuggire un singhiozzo, poi scoppiò a piangere. Da dentro la camera l'uomo urlò: «Brutto figlio di puttana, vattene subito da lì!». Kevin barcollò all'indietro mentre l'uomo si lanciava verso la porta, nudo, con un'enorme erezione. In mano stringeva i jeans, «Ti insegnerò io a guardare, stronzo!» Era un uomo grosso, con il corpo bianco e le braccia abbronzate, rozzo e peloso, le spalle coperte di tatuaggi, e una pancia molle e cascante. Aveva gli occhi rossi per l'alcol e la droga. Sfilò la spessa cintura di cuoio dai pantaloni e si mise a rincorrere Kevin, facendola roteare. La fibbia era un grosso ovale d'ottone con intarsi di turchese. La cintura calò, colpendo sulla schiena Kevin, che urlò di dolore. Dennis si scagliò contro l'uomo con tutte le proprie forze, tempestandolo inutilmente di pugni. Adesso la cintura era tutta per lui, e l'uomo continuò a colpirlo finché lui non ebbe più lacrime. La madre non uscì neppure dalla camera e dopo un po' l'uomo tornò da lei. Il suo piccolo piacere. «Dennis?» Dennis si asciugò gli occhi e scese dallo sgabello. «Sta' zitto, Kevin. Io non me ne vado da qui senza soldi.» Dennis tornò nello studio e staccò il telefono dalla presa. Era inutile parlare con la polizia se non sapeva cosa dire. Lui voleva i soldi. SEYMORE
Il furgone del notiziario di Channel Eight era fermo sul limitare del parcheggio deserto. Il reporter era un ragazzo effeminato sui venticinque anni, che si esaltava nel dire a tutti che frequentava la University of South California. Trojan di qui, Trojan di là, anche Dio apparteneva alla squadra sportiva dell'università. Per Seymore, Trojan era solo una marca di preservativi, ma si guardò bene dal dirglielo. I giornalisti non avevano fatto altro che lamentarsi tutta la sera che non c'erano gabinetti; la polizia locale aveva promesso di farne arrivare uno portatile al più presto, ma per il momento non si era ancora visto. Seymore chiese al tizio se poteva andare dietro il loro furgone per "cambiare l'acqua al canarino". Il ragazzo rise. Certo che poteva andare, ma che stesse attento a dove metteva i piedi, perché non era il primo ad andare là dietro. Testa di cazzo. Doveva essere uno che ordinava "chocolate martini". Seymore andò dietro il furgone, dove nessuno poteva vederlo, e si fece due cucchiaini di roba. Gli andò alla testa come un getto d'aria gelida e gli fece bruciare gli occhi, ma aiutava a restare sveglio. Erano le undici passate e ormai erano tutti lì da ore. Seymore notò che la bella giornalista orientale continuava a entrare e uscire dal suo SUV e aveva un bel paio di narici dilatate. Quel posto sembrava una convention della Hoover. Uscendo da dietro il furgone, Seymore vide la reporter di Channel Eight parlottare con il responsabile della troupe e il cameraman, un uomo con le braccia muscolose. Parevano molto eccitati. «Grazie, amico» disse Seymore. Figurati. Hai sentito? Dalla casa ne stanno portando via uno.» Seymore si bloccò. «Davvero?» «Credo che sia il padre. È ferito.» Si udì una sirena, e tutti capirono che si trattava dell'ambulanza. Ogni troupe presente si precipitò in strada nella speranza di riprendere qualcosa, ma l'ambulanza imboccò un'altra uscita. Il suono della sirena si fece più forte e poi pian piano svanì. Il telefono di Seymore squillò proprio mentre l'urlo della sirena scemava. Rispose allontanandosi dai reporter, abbassando la voce, ma incapace di nascondere la propria irritazione. Sapeva già chi era. Partì subito all'attacco. «Perché cazzo devo venire a saperlo da un giornalista? Quello stronzo di Smith esce, perdio, e io sono l'ultimo a saperlo?»
«Pensi che possa attaccarmi al telefono ogni volta che voglio? Guarda che sono esposto. Devo stare attento.» «D'accordo. D'accordo. Allora, dimmi, ha parlato? Il tizio, qui, dice che era ferito.» «Non lo so. Non sono riuscito ad avvicinarmi abbastanza.» «Aveva i dischetti?» «Non lo so.» Seymore sentì che stava per perdere la pazienza. Casini come quello potevano costargli il culo. «Se c'è qualcuno che dovrebbe saperlo, quel qualcuno sei tu, accidenti. Che cazzo ti paghiamo a fare?» «Lo stanno portando al Canyon Country Hospital. Va' a farti fottere.» La comunicazione si interruppe. Seymore non aveva tempo per incazzarsi. Chiamò Glen Howell. Parte terza LA TESTA 17 Venerdì, 23.36 Pearblossom, California MIKKELSON E DREYER Era notte fonda quando Mikkelson e Dreyer trovarono la roulotte di Krupchek, uno sgangherato caravan di dieci metri, che li aspettava in fondo a una stradina lastricata di Pearblossom, una comunità di agricoltori e braccianti ai piedi delle colline dell'Antelope Valley. Quando finalmente trovarono quel dannato posto, l'impressione di Mikkelson fu che la roulotte li stesse aspettando come un rospo grosso, piatto e polveroso aspetta di ingoiare un insetto. Dreyer girò il faro mobile sul lato del passeggero e glielo puntò contro. Qui e là, sotto la polvere, era azzurro chiaro e chiazzato di ruggine. «Pensi che dovremmo aspettare la polizia di Palmdale?» chiese Dreyer, più cauto per natura. «Perché fare tanta fatica per ottenere un mandato e poi aspettare? Lascia il faro acceso» rispose Mikkelson, impaziente di entrare.
La stradina di Krupchek correva lungo un canyon chiuso da due basse creste. Niente lampioni, niente televisione via cavo, niente di niente: c'erano luce e telefono, ma lì finivano le comodità. Quando il sole tramontava, era il buio assoluto. Mikkelson, alta e atletica, al volante perché soffriva il mal d'auto quando guidava Dreyer, scese per prima. Dreyer, basso e squadrato, la seguì, facendo scricchiolare il selciato a ogni passo. Tutti e due impugnavano le torce. Rimasero a fissare il caravan, un po' tesi. «Credi che ci sia qualcuno, dentro?» «Lo scopriremo.» «Pensi che quella sia la sua auto?» «Controlleremo la targa, una volta che avremo finito dentro.» Una Toyota Camry degli anni Ottanta, anch'essa coperta di ruggine e di polvere, era parcheggiata accanto alla roulotte immersa nell'oscurità. Erano arrivati così tardi perché prima erano andati all'appartamento di Rooney, dove avevano perso un sacco di tempo con il padrone di casa e la donna che abitava al piano di sopra, una stupida che aveva continuato a chiedere se sarebbe finita in televisione. Mikkelson avrebbe voluto prenderla a sberle. Quando finalmente erano arrivati a Pearblossom, trovare il caravan era stata una menata, per via del buio e delle strade non segnalate, e quindi erano stati costretti a fermarsi tre volte per chiedere indicazioni. Scoprirono così che l'ultima persona cui si erano rivolti, un messicano di Zacatecas che faceva il mozzo di stalla per ricche signore, viveva subito accanto. Il messicano, un ometto minuto con una moglie minuta e sei o sette bambini, minuti pure loro, disse che Krupchek se ne stava per conto suo, non faceva rumore e non dava mai fastidio a nessuno. Lui gli aveva parlato una volta sola, quando qualcuno aveva lasciato un cuore inciso in un osso sui loro gradini, e lui era andato a chiedergli se per caso fosse suo. Krupchek aveva risposto di no e aveva chiuso la porta. Fine. «Andiamo» disse Mikkelson. Si avvicinarono alla roulotte, osservandola da un capo all'altro. Era come se qualcosa li trattenesse dal toccarla, una di quelle strane sensazioni. «Come facciamo a entrare?» chiese Dreyer. «Vediamo se c'è una chiave, o cosa?» «Non lo so.» Avevano un mandato, ma non sapevano come fare a entrare. Non ci avevano pensato. Mikkelson bussò alla porta tenendo in mano la torcia. «Polizia! C'è
qualcuno in casa?» Lo ripeté per due volte, poi, non ricevendo risposta, provò ad aprire. Era una di quelle maniglie dall'aria inconsistente ma ingannevole. La porta era chiusa a chiave. «Potremmo forzarla.» «Forse dovremmo cercare il padrone e chiedergli di aprirla.» Il messicano aveva detto che tutto il terreno lungo la strada era proprietà di un certo Brennert, che affittava i lotti, principalmente a braccianti emigrati. «Merda, ci vorrà un secolo. La faremo saltare.» Dreyer assunse un'espressione afflitta. «Non voglio doverla ripagare.» «Abbiamo il mandato, non dobbiamo ripagarla.» «Lo sai che quel bastardo potrebbe farci causa? Non dico Krupchek, ma Brennert. Sai com'è la gente.» «Oh, al diavolo!» Dreyer era fatto così. Era terrorizzato all'idea che la gente potesse fargli causa. Non faceva che parlarne, di come gli agenti di polizia venivano denunciati a destra e a manca solo per aver fatto il loro lavoro. Meditava di intestare ogni suo avere alla moglie per mettersi al sicuro dagli avvocati. Mikkelson prese il cric dal bagagliaio, lo infilò nello stipite all'altezza della maniglia e spinse contro la porta. Finì che dovette darle una spallata perché quelle maledette serrature erano più forti di quanto sembrassero. Vennero investiti da un odore come di foglie di senape messe a bollire. «Gesù, ma questo tizio non pulisce mai?» Mikkelson si sporse all'interno, fiera di sé perché quella era la prima volta che faceva irruzione in una proprietà privata con il pieno appoggio della legge, e la cosa le dava una gran soddisfazione. «C'è qualcuno in casa? Toc-toc. Siamo amici. Polizia.» «Piantala.» «Rilassati. Non c'è nessuno.» Mikkelson trovò l'interruttore ed entrò. L'interno della roulotte era squallido, ingombro di mobili sfondati e scoloriti, soffocante per il calore accumulatosi durante la giornata. «E ora?» chiese Dreyer. Fu Dreyer a vederle per primo, voltandosi verso la cucina. «Gesù, guarda là.» Avrebbe potuto essere persino divertente se non fossero state così tante:
cinque, sei scatole, magari addirittura dieci o dodici, e Mikkelson ne avrebbe riso, ci avrebbe anche scherzato sopra, senonché quello spettacolo gridava follia. In seguito, la squadra Scientifica dello sceriffo avrebbe contato settecentosedici scatole di Count Chocula, vuote, schiacciate e piegate, accuratamente legate con lo spago, impilate contro le pareti e sul banco della cucina, negli armadietti, ogni scatola mutilata esattamente allo stesso modo, con una singola bruciatura di sigaretta, nera e carbonizzata, sulla punta del naso di Count Chocula. In seguito avrebbero compreso anche il significato di quelle bruciature. Dreyer, che non ne aveva ricevuto la stessa sensazione inquietante di Mikkelson, ci scherzò su. «Pensi che abbia vinto qualche premio con tutte queste scatole?» «Mettiti i guanti.» «Cosa?» «I guanti. Dobbiamo fare attenzione.» «Ma sono solo cereali!» «Tu mettiti i guanti.» «Pensi che se li sia mangiati tutti?» «Come?» «Tutti questi cereali. Credi che li mangi? Forse vuole solo le scatole. Dev'esserci qualche concorso a premi.» Il caravan era diviso in tre sezioni: la cucina a destra, il soggiorno con l'ingresso e una camera da letto alla loro sinistra; il tutto risultava compresso e claustrofobico, ingombro di giornali, indumenti sporchi e lattine di birra. Il cucinino era costituito da un minuscolo lavandino, un fornello elettrico e un frigorifero di dimensioni ridotte. Mikkelson, ignorando le parole di Dreyer, incuriosita dall'odore, andò a sinistra, verso la camera da letto, indossando i guanti usa e getta in vinile. Si fermò sulla porta e illuminò il letto con la torcia, vide un groviglio di lenzuola macchiate, altre cartacce e vestiti sul pavimento, e poi i vasi di vetro. «Dreyer. Credo che dovremmo chiamare qualcuno.» Lui le si avvicinò da dietro, e il fascio di luce della sua torcia danzò nella stanza buia. «Oh, merda. Cos'è?» disse a voce bassa. Mikkelson entrò, puntando la torcia. Allineati contro le pareti c'erano dei contenitori di vetro, di quelli che si comprano nei supermercati con dentro i sottaceti. I barattoli erano impilati l'uno sull'altro, anche contro le fine-
stre, che erano state sigillate per non far passare l'aria. All'interno galleggiavano delle forme sospese in un liquido giallo. Alcuni vasetti erano così pieni che il liquido quasi non si vedeva. «Accidenti! Credo che siano topi.» «Gesù!» Mikkelson si accucciò per guardare meglio. Avrebbe tanto voluto potersi coprire la bocca, magari indossare una maschera antigas, per non dover respirare quell'aria fetida. «Oh, merda! Sono scoiattoli!» «Cazzo. Io chiamo.» Dreyer uscì, attivando la ricetrasmittente mentre batteva in ritirata verso l'aria più salubre della notte. Mikkelson uscì arretrando dalla camera e rimase sulla soglia, pensando al da farsi. Sapeva che avrebbe dovuto frugare tra le cose di Krupchek, cercare informazioni, numeri di telefono di familiari, elementi che avrebbero potuto essere utili a Talley. Tornò in cucina, cercando un telefono. Schifata, rimase a fissare il forno. In seguito avrebbe spiegato di aver provato una sensazione di raccapriccio, tutto lì: l'odore, gli scoiattoli, tutte quelle scatole deturpate. Fece un respiro profondo, come se stesse per tuffarsi nell'acqua gelida, e spalancò il forno. Ancora scatole di cereali. Mikkelson rise di sé. Cosa si aspettava di trovare? Svanita la tensione, cominciò ad aprire gli armadietti, uno dopo l'altro, tutti pieni di scatole, legate e bruciacchiate. Tornò al telefono, ma ancora una volta esitò. Poi si ritrovò davanti al frigorifero. «Allora, esci o no?» urlò Dreyer, da fuori. «Va tutto bene.» «Ti aspetto qui. Lo sceriffo sta mandando degli uomini.» «Dreyer?» «Cosa c'è?» «Hai mai notato che un frigorifero assomiglia a una bara messa in piedi?» «Gesù! Vuoi venire fuori o no?» Il frigorifero si aprì senza sforzo; era vuoto e stranamente pulito in confronto allo squallore del resto. Niente bibite, niente birra, niente avanzi, solo smalto bianco pulito con cura. Quel frigorifero, avrebbe dichiarato Mikkelson in seguito, era la cosa più pulita di tutta la roulotte. Nella parte superiore si trovava uno sportello sottile di metallo. Il free-
zer. Pareva che la mano di Mikkelson agisse da sola. Avanzò e aprì lo sportello. Il suo primo pensiero fu che doveva trattarsi di un cavolo, avvolto nel foglio di alluminio e poi nella pellicola trasparente. Lo guardò, lo osservò meglio, poi richiuse gli sportelli: non fu tentata, neppure per un attimo, di toccare quella cosa dentro il freezer. Mikkelson uscì dalla roulotte e rimase ad attendere con Dreyer nell'aria calda della notte, senza dire nulla, aspettando gli uomini dello sceriffo e pensando: "Lascia che la tocchino loro". 18 Venerdì, 23.40 Santa Clarita, California HOWELL Howell prese tre stanze al Comfort Inn, tutte situate sul retro del motel e con ingresso direttamente dall'esterno. In una c'era Marion Clewes, che faceva la guardia alla donna e alla ragazza. Le avevano legate mani e piedi, e messo del nastro adesivo su occhi e bocca. Dopo essere andato a controllare che fosse tutto a posto, Howell se n'era tornato nella sua stanza, anche se puzzava di detergenti e moquette nuova. Non gli piaceva stare vicino a Clewes. Era seduto sul letto quando ricevette la telefonata di Ken Seymore. Come seppe che Walter Smith era stato portato via dalla casa, gli parve che il cuore volesse schizzargli dal petto. «La polizia è entrata? Che cazzo sta succedendo?» «Non è entrato nessuno. È solo uscito Smith.» «Se n'è uscito, così?» «Lo hanno portato fuori. È messo male. Uno degli stronzi là dentro deve averlo picchiato per bene. L'hanno caricato su un'ambulanza.» Howell rimase in silenzio per un attimo, a riflettere. Che Smith fosse uscito ma i suoi figli rimanessero ancora dentro era un problema. E anche il fatto che lo stessero portando in un ospedale, dove lo avrebbero imbottito di stupefacenti, era un problema. «È uscito qualcos'altro, dalla casa?» «Niente, secondo i giornalisti.» Howell riattaccò e chiese subito al servizio informazioni il numero di te-
lefono e l'indirizzo del Canyon Country Hospital, quindi chiamò l'ospedale per avere indicazioni sul percorso uscendo dall'autostrada. Fece un ulteriore controllo sulla sua Thomas Guide, poi chiamò Palm Springs con il cellulare. Rispose Phil Tuzee. Howell lo mise al corrente degli sviluppi, quindi attese che Tuzee riferisse agli altri. Sonny Benza venne al telefono. «Va di male in peggio, Glen.» «Lo so.» «Aveva i dischetti con sé?» «Non lo so, Sonny. Me l'hanno detto due minuti fa. È appena successo. Mando subito una persona.» «Scopri se ha i dischetti e vedi se ha parlato con qualcuno. Speriamo di no. I figli sono ancora nella casa?» «Già.» «Figlio di puttana.» Howell sapeva che tutti stavano pensando la stessa cosa: un uomo che cerca disperatamente di salvare i propri figli è pronto a raccontare qualunque cosa. Howell tentò di sembrare ottimista. «Dicono che è messo parecchio male. Non ne sono certo, Sonny, ma se è privo di conoscenza non c'è pericolo. I giornalisti qui parlano di commozione cerebrale e di possibili lesioni al cervello. Dicono che è in coma.» «Senti, non azzardare ipotesi se non sei sicuro. Con i "si dice" mi ci pulisco il culo. Tu resta al tuo posto, mantieni il controllo e occupati della cosa.» «È quello che sto facendo.» «È per questo che quegli stronzi lo hanno lasciato andare, perché è ferito? Chissà, con un po' di fortuna potrebbe anche lasciarci la pelle.» «È stato Talley a convincerli a mollarlo.» «Sai una cosa, Glen? Non mi pare che tu abbia il controllo della situazione. A me pare che le cose siano del tutto fuori dal tuo controllo. Devo venire lì io?» «Assolutamente no, Sonny. È tutto a posto.» «Io voglio quei fottutissimi dischetti.» «Certo.» «Non voglio che Smith parli. Con nessuno. Mi sono spiegato bene?» «Sì.» «Hai capito cosa sto dicendo?» «Sì.»
«Okay.» Benza riattaccò. Era una decisione che spettava a loro e loro l'avevano presa. Howell alzò il ricevitore e chiamò la stanza vicina. «Vieni qui subito. Ho un lavoro per te.» 19 Venerdì, 23.52 TALLEY Talley guardò l'ora, poi tirò fuori il Nokia dell'Uomo con l'orologio e controllò il livello di carica della batteria. Gli balenò per la mente un pensiero folle: lui che puntava una pistola alla tempia del medico, minacciandolo. Smith sapeva chi c'era, dietro a tutto questo. Sapeva chi aveva rapito la sua famiglia. Talley camminava avanti e indietro all'imbocco del cul-desac, la mente un caleidoscopio di pensieri: Amanda, Jane, Rooney. Maddox ed Ellison avevano ripreso a telefonare, ma Dennis si rifiutava di rispondere alle loro chiamate e aveva staccato l'apparecchio. Talley sentiva che Dennis si stava preparando a qualcosa, ma non sapeva cosa. Quando udì lo squillo del cellulare, Talley pensò che si trattasse del Nokia, e invece era la sua linea privata. «Capo? È solo?» Era Larry Anders. Parlava a voce bassa, come se cercasse di non farsi sentire. Anche Talley l'abbassò, nonostante non ci fosse nessuno vicino a lui. «Dimmi, Larry.» «Sono con Cooper nell'ufficio del capo settore urbanistica. Ragazzi, com'era incazzato! Non voleva alzarsi.» Talley tirò fuori il taccuino. «Prima dimmi del cellulare. Hai già controllato?» «Ho dovuto farmi dare un telefonico per quello. Non è sull'elenco e la compagnia dei telefoni non voleva passarmi le informazioni.» Il "telefonico" significava che Anders era stato costretto a ottenere un mandato per telefono. «Okay.» «Il numero è intestato alla Rohiprani Bakmanifelsu & Associates. È una ditta di gioiellieri di Beverly Hills. Vuole che cerchi di contattarli?» «Lascia perdere. Non porterebbe a nulla.»
Talley aveva già capito che il numero di cellulare era stato clonato. Ma visto che la Bakmanifelsu non l'aveva ancora disattivato, voleva dire che non l'aveva ancora scoperto. Probabilmente il numero era stato clonato dopo l'emissione dell'ultima bolletta. «E la Mustang?» «Niente, capo. Ho controllato i dati sui modelli degli ultimi due anni. Ho trovato sedici denunce di auto rubate e non ancora ritrovate, ma nessuna era verde.» «Qualcuna rubata oggi?» «No, signore. Neppure nell'ultimo mese.» Talley lasciò perdere. «Okay. Ora le licenze edilizie.» «Non riusciamo a trovarle, ma forse non ci servono. Il responsabile dell'ufficio urbanistica conosce l'impresario che ha costruito gli York Estates, un certo Clive Briggs. Prima, lì c'erano solo campi di avocado.» «Va' avanti.» «Gli ho appena parlato per telefono. Dice che il costruttore della casa degli Smith potrebbe trovarsi a Terminal Island.» Terminal Island era il carcere federale di San Pedro. «Potrebbe?» «Briggs non lo sa di sicuro, ma gli sembra di ricordare il costruttore. Si chiamava Lloyd Cunz. Briggs se lo ricorda perché gli piaceva così tanto come lavorava questo tizio, che aveva cercato di assoldarlo per un altro complesso che aveva in programma, ma Cunz aveva rifiutato. La sede della ditta era a Palm Springs, gli aveva risposto, e lui non voleva prendere altri lavori così lontano.» «Veniva da Palm Springs?» «Non solo l'imprenditore, anche tutti gli operai: carpentieri, muratori, idraulici, elettricisti, tutta la banda. Non aveva assunto nessuno sul posto. Diceva che voleva essere sicuro della qualità del lavoro. Tre o quattro anni dopo, Briggs aveva cercato nuovamente di affidargli un cantiere ed era venuto a sapere che Cunz era stato accusato di contrabbando e attività di racket. Aveva cessato l'attività.» Talley sapeva che un costruttore non si porta dietro un'intera squadra di operai da così lontano a meno che non stia costruendo qualcosa di cui la gente del posto non deve sapere nulla. Talley si stava facendo un'idea della situazione: crimine organizzato. «Hai già passato il nome di Cunz al computer?»
«Sono ancora qui, dal capo settore urbanistica.» «Quando torni in ufficio fallo, e guarda se trovi qualcosa.» «Pensa che questa gente appartenga alla mafia, vero?» «Sì, Larry. Proprio così. Fammi sapere cosa trovi.» «Non ne parlerò con nessuno.» «Ecco. Bravo.» Talley chiuse il telefono e rimase a fissare il cul-de-sac. Quasi sicuramente Walter Smith aveva legami con il crimine organizzato. Probabilmente l'Uomo con l'orologio era suo socio, e i dischetti contenevano prove altamente compromettenti per entrambi. La pressione che avvertiva era come un pallone che gli si gonfiava dentro la testa e nel petto. Talley era consapevole che stava perdendo il controllo delle operazioni e degli eventi che presto si sarebbero verificati. Con l'arrivo dei finti agenti dell'Fbi mandati dall'Uomo con l'orologio, la situazione gli sarebbe sfuggita completamente di mano e questo avrebbe aumentato i rischi per le persone dentro la casa. All'Uomo con l'orologio non interessava chi poteva morire. Lui voleva solo i dischetti. Anche Talley li voleva. Voleva sapere cosa contenevano. Quella gente non avrebbe mai rapito la sua famiglia se i dischetti in casa di Smith non avessero costituito una grave minaccia. Temevano che cadessero nelle mani della polizia ancora più di quanto temessero un'indagine sul rapimento della famiglia di Talley. Sapevano di poter sopravvivere a un'inchiesta, ma non al ritrovamento di quei dischetti. Quindi, quei dischetti significavano nomi. Talley era convinto che né lui né la sua famiglia sarebbero sopravvissuti fino al giorno seguente. Gli uomini che lo avevano preso a bordo dell'auto non potevano contare sul fatto che, dopo quanto era accaduto, non ci sarebbe stata un'indagine su di loro. Non potevano correre un rischio del genere. Talley era assolutamente certo che, appena entrato in possesso dei dischetti, l'Uomo con l'orologio li avrebbe ammazzati tutti e tre. Talley doveva arrivarci prima di lui e credeva di sapere come fare. Si avviò a passo svelto verso l'auto di Maddox ed Ellison. «Ha risposto al telefono?» Ellison stava bevendo caffè da un bicchiere di plastica. «Negativo. La compagnia dei telefoni dice che l'apparecchio è ancora staccato.» «Avete un altoparlante, su questa macchina?» «No, perché?»
Talley si allontanò, camminando piegato, diretto all'unica auto della polizia di Bristo Camino rimasta sul posto. Afferrò il microfono e accese l'impianto. Maddox lo aveva seguito, curioso. «Cosa sta facendo?» «Mando un messaggio.» Talley attivò il microfono. «Sono Talley. Ho bisogno di parlarti.» La sua voce echeggiò tra le case. Gli agenti schierati intorno lo guardarono. «Se puoi, chiamami.» Talley non si aspettava che Rooney lo chiamasse. Non era a lui che si stava rivolgendo. «Vaffanculo!» rispose la voce di Rooney dalla casa. Ellison scoppiò a ridere. «Tentar non nuoce.» «Cosa voleva dire con "se puoi"?» chiese Maddox. Talley non rispose. Gettò il microfono nell'auto e tornò in fondo al culde-sac. Si sedette sul marciapiede, al riparo di un'autopattuglia. Sperava che il ragazzo avesse capito che si stava rivolgendo a lui. Il suo telefono si mise a squillare quasi immediatamente. Era Sarah, tutta eccitata. «Capo, c'è di nuovo il ragazzino in linea.» Il cuore di Talley si mise a battere più forte. Se Smith non poteva dirgli chi aveva rapito la sua famiglia, forse avrebbe potuto scoprirlo da quei dischetti. «Thomas? Stai bene, figliolo?» «Non ero sicuro che stesse parlando a me. Papà sta bene?» Il ragazzo sembrava calmo, però la sua voce era molto bassa, quasi un sussurro. Talley alzò il volume del telefono, ma anche così riusciva a malapena a sentirlo. «È in ospedale, al Canyon Country. Tu e tua sorella state bene?» «Sì. Lei non è più nella sua camera. L'hanno portata al piano di sotto. Credevo che volessero farle del male, ma era perché non sapevano come usare il microonde.» «Sei in pericolo, adesso?» «No.» Talley guardò fuori dal cul-de-sac. Le squadre tattiche dello sceriffo erano in posizione dietro ai veicoli. Hicks e il capitano Martin dovevano esse-
re a bordo della postazione di comando, in attesa che succedesse qualcosa. Talley ripensò al suo primo giorno nella Swat, quando un sergente gli aveva spiegato che il loro lavoro era fatto soprattutto di lunghe attese. Gli occhi di Talley si riempirono di lacrime, mentre cercava di dominare la paura. Provò a concentrarsi sui ragazzi dentro la casa. Se avesse avuto anche il minimo sospetto che Thomas o Jennifer si trovavano in immediato pericolo di vita, avrebbe ordinato di fare irruzione. L'avrebbe fatto, senza un solo attimo di esitazione. Ma non lo pensava. «Com'è la batteria del cellulare?» «Indica metà carica, forse un po' meno. Lo spengo, quando non lo uso.» «Bravo. Puoi caricarlo, quando non lo usi?» «No. I caricabatteria sono tutti al piano di sotto. Ci pensa sempre la mamma, perché noi ce ne dimentichiamo.» Talley temeva che se la batteria si fosse esaurita, avrebbero perso ogni possibilità di comunicare. Non gli restava altro che fare in fretta. «Okay, Thomas, spegnilo quando non parli e cerca di conservare quanta più carica possibile, d'accordo?» «D'accordo.» «Tuo papà ha dei soci. Tu sai chi sono?» «No.» «Ha mai fatto i loro nomi?» «Non mi ricordo.» «Oggi stava lavorando nello studio?» «Sì. Doveva finire una cosa perché sarebbe venuto un cliente a prenderla.» Talley aveva qualche problema a passare al livello successivo, ma sapeva che quel ragazzo era l'unica speranza di salvare sua moglie e sua figlia. «Thomas, ho bisogno che mi aiuti in una cosa. Potrebbe essere facile, oppure pericoloso. Se pensi che i tizi lì dentro possano scoprirti, non voglio che tu faccia niente. Okay?» «Certo.» Thomas era eccitato. Era un ragazzo. Non capiva i rischi. «Tuo papà ha un paio di dischetti di computer. Non ne sono sicuro, ma è probabile che siano sulla sua scrivania o nella sua valigetta. Probabilmente ci stava lavorando oggi. Si chiamano zip. Tu sai di cosa parlo?» Thomas si lasciò sfuggire una risatina ironica. «Ce li ho da anni, capo. Gli zip sono grossi e spessi. Contengono più informazioni dei dischetti normali.»
«Sono contrassegnati "Disco Uno" e "Disco Due". Quando ti troverai di nuovo giù, potresti andare alla scrivania, prenderli e vedere cosa contengono?» «No. Non mi lasciano avvicinare alla scrivania. Dennis mi fa sedere sul pavimento.» La sottile speranza che Talley aveva nutrito fino a pochi attimi prima svanì. Ma Thomas proseguì. «Però, potrei sgattaiolare nello studio, se loro non sono lì intorno. Così, potrei fregare i dischetti e aprirli sul computer in camera mia.» «Credevo che ti avessero chiuso nella tua camera.» «Sì, ma posso uscire.» «Davvero?» Talley ascoltò Thomas che gli spiegava come fosse in grado di spostarsi nel sottotetto e uscire in diverse parti della casa attraverso le botole di accesso. «Thomas, potresti arrivare nello studio in quel modo, attraverso il sottotetto?» «No, lì no, ma nella saletta sì. C'è una porta di servizio nella cantina dietro il bar. Si trova proprio di fronte allo studio di papà. La mamma dice che si accorge sempre quando lui fa un giro di troppo al bar.» La speranza di Talley riaffiorò, seppure gravata dalla consapevolezza di non avere il diritto di rischiare la vita di quel ragazzino. «Mi sembra troppo pericoloso.» «No, se non mi vedono. Mars sta quasi sempre nello studio, ma Kevin è alla porta finestra. Dennis è sempre in giro per la casa. A volte va nella stanza di sicurezza, quella dove si trovano i monitor. Ma una volta arrivato alla saletta non ci vuole niente a passare nello studio e andare alla scrivania di papà. Ci metto solo un secondo.» Talley rifletté, cercando di non lasciare che la necessità gli offuscasse il buon senso. Doveva fare in modo che tutti e tre i soggetti si allontanassero da quella parte della casa. E doveva accecare le telecamere, nel caso che qualcuno di loro si trovasse davanti ai monitor. «Se riuscissi a far allontanare Rooney e gli altri dallo studio, credi che riusciresti a prendere i dischetti senza farti vedere?» «Nessun problema.» «Riusciresti a farlo al buio?» «Lo faccio quasi ogni notte.» Thomas lo disse ridendo. Talley, però, non rise. Avrebbe dovuto aiutare
quel ragazzo, e invece era lui a chiedere aiuto. Si sentiva ostaggio almeno quanto Thomas e Jane, e sperava di potersi perdonare per ciò che stava per fare. «Okay, figliolo. Vediamo un po' di trovare una soluzione.» L'aria della notte era così limpida che le case, le auto e i poliziotti sulla strada sembravano incisi sul vetro. Le luci delle case, dei lampioni e il bagliore rosso delle sigarette erano nitidi punti luminosi. Sopra di loro, gli elicotteri fluttuavano contro il cielo stellato come uccellarci notturni in attesa di qualche vittima. Talley guardò l'ora e capì che l'Uomo con l'orologio avrebbe richiamato presto. Thomas era ancora nella sua stanza e la sorella stava cucinando, ma le cose potevano cambiare da un minuto all'altro. Talley non aveva molto tempo. Trovò Jorgenson e lo condusse al camion della compagnia distributrice dell'energia elettrica. Il tecnico, un giovane con la testa rasata e una barbetta intrecciata, dormiva allungato sul sedile a panchetta del camion. Talley lo scrollò prendendolo per un piede. «Può togliere la corrente elettrica alla casa?» Il tecnico si sfregò la faccia, assonnato. «Certo, che posso. Lo faccio subito.» «Non ora. Se lei la toglie, l'energia elettrica viene a mancare in tutta la casa e non solo in una parte?» Talley non poteva permettersi errori, e neppure Thomas. Il tecnico scese dal camion. Il tombino di servizio era aperto, circondato da una bassa ringhiera di protezione. «Non solo nella casa, in tutto il cul-de-sac. Da qui controllo tutta la diramazione. Se la taglio, si spegne tutto. Se mi fossi piazzato là, dentro il cul-de-sac, avrei potuto tagliare l'energia a una singola casa, ma mi hanno detto di mettermi qui.» «Qui va benissimo. Quanto tempo ci vuole per togliere la corrente?» «Un secondo. Come accendere e spegnere un interruttore.» «I telefoni ne risentiranno?» «Con quelli io non c'entro.» Talley lasciò Jorgenson insieme al tecnico, quindi chiamò il capitano Martin con la ricetrasmittente perché dicesse a Hicks e Maddox di andare alla postazione mobile di comando per incontrarsi con lui. Il capitano gli rispose in modo brusco. «Senta, apprezzo che lei abbia convinto Rooney a rilasciare il signor
Smith, ma poi se n'è andato senza una parola. Se vuole avere lei il comando, deve restare a disposizione. Potevamo avere bisogno di un suo okay per qualche azione, ma lei non c'era.» Talley si mise subito sulla difensiva, ma era anche risentito che lei lo stesse riprendendo, facendogli perdere tempo. «Non me ne sono andato. Ero con Maddox ed Ellison, e poi ho fatto qualche telefonata.» Non le disse che aveva parlato con Thomas. «Lei ha il comando di questa operazione, ma la prego di non fare altre bravate senza prima avvertirmi. Se vuole la mia collaborazione, deve tenermi informata di quello che fa.» «A cosa si riferisce?» «L'ho sentita, con l'altoparlante, quando ordinava a Rooney di chiamarla. I negoziatori ci sono per questo.» «Maddox era proprio accanto a me.» «Lui dice che lei l'ha fatto senza consultarsi.» «Potremmo parlarne dopo, capitano? Al momento vorrei occuparmi di Rooney.» Laura Martin accettò di ordinare a Hicks e a Maddox di incontrarlo sul furgone. Quando arrivò, Talley non disse loro di aver parlato con Thomas, né spiegò il vero motivo di ciò che stava per fare. «Sappiamo che Rooney è fissato sulla posizione degli agenti intorno alla casa. Voglio tagliare la corrente, e poi scuoterlo un po' con una Starflash per costringerlo a riprendere i contatti.» La Starflash era una granata sparata da un fucile, costituita da un numero variabile di submunizioni che esplodevano come una serie di potenti mortaretti. Veniva utilizzata per disorientare i soggetti armati prima di un'irruzione. Hicks incrociò le braccia. «Ha intenzione di spararla dentro la casa con tutta quella benzina in giro?» «No, all'esterno. Dobbiamo richiamare la sua attenzione. L'ultima volta che ho fatto avanzare gli uomini non abbiamo dovuto chiamarlo. È stato lui a chiamare noi.» Il capitano Martin lanciò un'occhiata a Maddox, il quale annuì, come pure Hicks. Il capitano si strinse nelle spalle, quindi tornò a voltarsi verso Talley. «È lei che comanda.»
Erano partiti. THOMAS Thomas rimase in ascolto dietro la porta. Non si sentivano rumori in corridoio. Tornò all'armadio a muro costeggiando la parete e si infilò nel sottotetto. Questa volta non si fermò a ogni botola. Jennifer era ancora in cucina, ma gli altri non si sentivano. Gli bastava uno starnuto o un colpo di tosse per localizzarli, ma non udì nulla. La casa aveva la forma di una U corta e larga, con la base orientata verso il cul-de-sac e i lati brevi che puntavano verso la piscina. Gran parte del sottotetto seguiva l'interno della U tranne una diramazione che si infilava in uno spazio morto sopra la cantina. Thomas aveva sempre pensato che fosse strano chiamarla cantina, visto che in realtà si trattava solo di un piccolo locale dietro il bar nella saletta. Non era facile da raggiungere. La cantina aveva un suo impianto di condizionamento, e il compressore, appeso con quattro catene ai travetti, occupava tutto lo spazio utile. Thomas fu costretto a infilarvisi sotto per arrivare all'ultima botola. Non si poteva girargli intorno. L'aveva già fatto altre volte, ma non molto spesso, e a quei tempi era più piccolo. Si sdraiò a pancia in su e pian piano vi strisciò sotto. Anche così, toccò con il naso il fondo piatto del compressore. Puzzava di umido. Quando sbucò dall'altra parte era fradicio di sudore. La polvere che lo copriva si era trasformata in una specie di fanghiglia. C'era voluto molto più tempo di quanto pensasse. Thomas rimase in ascolto vicino alla botola. Dopo qualche secondo, la sollevò lentamente. La cantina era buia e deserta. Era un locale lungo e stretto, le pareti coperte da scaffali per bottiglie che andavano dal pavimento al soffitto, la temperatura mantenuta costante sui dodici gradi. Thomas accese la torcia, la infilò tra una bottiglia e l'altra, poi si girò in modo da uscire con i piedi, cercando un appiglio. Dopo pochi secondi era a terra. Socchiuse la porta. La saletta era inondata di luce. Sentì il televisore acceso nello studio di suo padre, sull'altro lato del corridoio, e Jennifer in cucina. Poi udì una voce maschile: non avrebbe saputo dire se si trattasse di Dennis o di Mars, ma era quasi certo che non fosse quella di Kevin. La saletta era una stanza accogliente che suo padre usava per gli incontri d'affari e per fumare i sigari. Due divani di pelle scura con in mezzo un ta-
volino, scaffali pieni di libri che il padre amava leggere nel tempo libero, vecchi volumi sulla caccia in Africa, e romanzi di fantascienza che lui sosteneva valessero oro per i collezionisti. Un lato della stanza era occupato dal bar, davanti al quale erano allineati quattro sgabelli. Era l'unica stanza della casa in cui mamma permetteva a papà di fumare i sigari, ma sempre con la porta chiusa. Thomas doveva solo arrivare allo studio, che si trovava proprio davanti alle doppie porte della saletta, e poi attraversare il corridoio di corsa. Alla sua destra c'era la porta d'ingresso, alla sua sinistra la cucina e il retro della casa. Thomas prese il cellulare e lo accese. Chiamò il capo Talley. TALLEY Talley controllò la ricetrasmittente. «Jorgenson?» «Eccomi, capo.» «Tieniti pronto.» Talley si trovava sul retro della proprietà degli Smith, in compagnia di un agente della squadra tattica dello sceriffo, un uomo di nome Hobbs. Hobbs aveva un fucile di precisione Remington modello 700 dotato di visore notturno. La camera di scoppio era vuota, come pure il caricatore. Talley portava una carabina caricata con la granata Starflash. «Mi faccia vedere.» Talley prese il fucile dalle mani di Hobbs e lo puntò contro la porta finestra. Erano quasi sei minuti che sbirciava da sopra il muro, in attesa che Thomas lo chiamasse. Jennifer e Krupchek erano in cucina. Pensava che Kevin fosse in soggiorno, ma non ne era sicuro. Dennis attraversò due volte la cucina. Tre minuti prima era uscito in direzione della camera da letto e non era ancora tornato. Talley pensò che fosse nella stanza di sicurezza e stesse sorvegliando i confini della proprietà dai monitor. Il telefono squillò. Talley se lo aspettava, ma trasalì comunque, spaventato. «Calma» sussurrò Hobbs. Talley gli restituì il fucile, e poi rispose, a voce bassa: «Talley». «Salve, capo» sussurrò la voce di Thomas. «Sono nella saletta.» «Okay, amico. Sei pronto? Ricordi cosa abbiamo detto?»
«Sì. Non mi farò beccare.» «Se c'è un pericolo, anche minimo, torna nella tua stanza.» Al solo pronunciare quelle parole, Talley si sentì un bugiardo. Tutto il piano era disseminato di pericoli. «Si parte.» Talley attivò il microfono sulla spalla. «Via la luce.» La casa piombò nell'oscurità. DENNIS Dennis era seduto alla scrivania di Walter Smith e guardava la televisione. Kevin era nuovamente di guardia alla porta finestra, Mars teneva d'occhio la ragazza in cucina. Tutte le stazioni, tranne due emittenti locali, erano tornate alla programmazione normale, interrompendola spesso con riprese dall'alto degli York Estates, ma i canali nazionali via cavo non si interessavano più della cosa. Dennis si sentì come sminuito. Guardava MTV con il volume abbassato; c'erano dei neri con i capelli biondi che fingevano di essere gangster. Dennis gli puntò contro la pistola. "Beccati questo, figlio di puttana." Era passato dalla vodka con ghiaccio alla vodka liscia direttamente dalla bottiglia, arrovellandosi alla ricerca di un modo per scappare con i soldi. Era incazzato, frustrato, e sempre più spaventato all'idea che Kevin avesse ragione: che non fosse possibile andarsene con i soldi e che lui sarebbe tornato a essere uno dei tanti falliti rinchiusi in una cella. Dennis bevve un'altra sorsata di vodka pensando che avrebbe preferito morire, piuttosto. Forse poteva semplicemente scappare. Infilarsi in tasca più soldi che poteva, dar fuoco alla casa come aveva suggerito Mars e poi svignarsela a gambe levate dalla finestrella, giù fra gli oleandri. Probabilmente lo avrebbero steso a colpi di mitra prima che potesse fare tre metri, ma era sempre meglio che essere un fallito. «Merda.» Dennis uscì dallo studio, tornò in camera e mise la valigia sul letto. Fissò il denaro. Accarezzò le banconote usate, morbide e setose. Le desiderava così tanto che il suo corpo venne percorso da un tremito. Libertà, auto, donne, vestiti, droga, Rolex, buon cibo, barche, case, libertà, felicità. Tutti volevano essere ricchi. Non importava chi eri, da dove venivi, né quanti soldi avevi. Tutti ne volevano di più. Era quello il sogno americano. Essere
ricchi. L'idea lo colpì come un rush indotto dall'ecstasy, mentre fissava il denaro: i poliziotti sono poveri. I poliziotti desiderano essere ricchi, come chiunque altro. Forse poteva dividere il bottino con Talley, barattare i soldi con un passaggio in Messico, ideare un piano all'insaputa degli altri poliziotti, che so, fingere di scambiare gli ostaggi con lui, e poi scappare a Tijuana insieme, loro due, ridendosela per tutto il viaggio perché gli altri agenti non avrebbero osato assassinarlo se pensavano che la vita di Talley fosse in pericolo. Era persino disposto a mettere sulla bilancia anche Kevin e Mars, che pagassero loro per la morte del cinese. A mano a mano che elaborava le varie possibilità, Dennis si sentiva sempre più eccitato. Lo sanno tutti che i poliziotti non guadagnano un cazzo. Fin dove si sarebbe spinto Talley per centomila dollari? Duecentomila? Mezzo milione? Dennis decise di chiamarlo subito. Era già a metà strada verso lo studio, pensando al modo migliore per convincerlo che poteva diventare un uomo ricco, quando la casa piombò nell'oscurità. Le luci si spensero, la televisione pure, quel ronzio di sottofondo che riempie ogni casa abitata scomparve. «Dennis! Cos'è successo?» gridò Kevin dall'altra parte della casa. «È la polizia! Prendi i ragazzi!» Reso cieco dall'oscurità, Dennis si precipitò in avanti, seguendo la parete. Si aspettava di sentire da un momento all'altro la porta che andava in pezzi, e sapeva che la sua unica possibilità di salvezza era arrivare alla ragazza o a quel ciccione del fratello. «Kevin! Mars! Prendete i ragazzi!» Una luce lattea proveniente dalla porta finestra riempiva il soggiorno. Kevin era dietro il divano, Mars in cucina, e teneva la ragazza per i capelli. Sorrideva, quel pazzo bastardo. Come se si stesse divertendo un mondo. «Te l'avevo detto che avrebbero tagliato la luce.» La voce amplificata di Talley echeggiò nella casa, ma questa volta non proveniva dalla strada. Veniva dal giardino sul retro. «Dennis? Dennis Rooney?» Dennis si chiese perché mai Talley fosse dietro la casa. «Dennis, è ora di parlare.» Poi ci fu una specie di eruzione: forti esplosioni riempirono l'aria, riflesse dalla superficie della piscina, come colpi di un'arma automatica. Lampi accecanti come stelle illuminarono il giardino come una parata del Capodanno cinese. Il mondo si stava trasformando in un inferno.
Dennis si tuffò dietro il bancone della cucina, aspettando la fine. THOMAS Thomas uscì dalla cantina non appena le luci si spensero, scivolò intorno al banco del bar e corse alla porta. Dennis e Kevin stavano urlando; le loro voci provenivano dal soggiorno. Sapeva di non avere molto tempo. Thomas si mise a quattro zampe e sbirciò oltre la soglia. Di fronte a lui, sull'altro lato del corridoio, lo studio di suo padre era appena illuminato dalla luce delle candele. Thomas si sporse ancora un po' più avanti per vedere se arrivava qualcuno. Il corridoio era vuoto. Non c'è gloria senza coraggio. Thomas attraversò il corridoio di corsa e si infilò nella stanza proprio mentre la voce di Talley rimbombava nella casa. Sapeva che stava per esplodere qualcosa che avrebbe fatto molto rumore, quindi decise di non lasciarsi distrarre. Si concentrò, invece, sul rumore dei passi. Andò dritto al computer. Aveva portato con sé la torcia, ma le candele erano sufficienti, quindi non l'accese. La scrivania era ingombra di carte, ma non vide alcun dischetto. Controllò il driver dello zip. Vuoto. Sollevò le carte intorno al computer e alla tastiera, ma non trovò nulla. Una serie di esplosioni attraversò la casa come una salva di potenti mortaretti. Thomas pensò che Dennis stesse sparando. Kevin urlò qualcosa, ma Thomas non capì. Aveva paura che venissero da quella parte. Corse alla porta per tornare nella saletta, ma sulla soglia si fermò, in ascolto. Il cuore gli batteva così forte che quasi non riusciva a sentire altro, ma non arrivava nessuno. Il capo Talley gli aveva detto di non perdere più di un minuto o due. Non aveva molto tempo e lo aveva già usato quasi tutto. Thomas guardò in corridoio, verso la salvezza della saletta, poi si voltò a guardare la scrivania e gli tornò alla mente un'immagine: quel giorno, subito dopo la sparatoria, suo padre aveva cercato di convincere Dennis a trovarsi un avvocato e ad arrendersi. Era andato alla scrivania, infilando i dischetti in un astuccio nero, che poi aveva riposto nel cassetto. I dischetti erano nel cassetto! Thomas tornò alla scrivania. DENNIS
Il retro della casa venne travolto da un'esplosione di rumore e di luce. Sembrava uno sbarco dei marines. Dennis vide i poliziotti appostati sul muro, illuminati dal bagliore degli scoppi, ma restavano fermi. "Che cazzo?..." pensò Dennis. La voce di Talley echeggiò dal giardino sul retro. «È ora che parliamo, Dennis. Tu e io. Faccia a faccia. Voglio che tu venga fuori, da solo. Ti verrò incontro e parleremo.» Kevin arrivò in cucina camminando a quattro zampe come un personaggio dei cartoni animati. «Cosa stanno facendo? Cosa succede?» Dennis non sapeva cosa dire. Era confuso, perplesso, spaventato. «Mars! Quei porci fottuti stanno cercando di fregarci! Va' a vedere cosa stanno facendo sul davanti!» Dennis strappò la ragazza dalle mani di Mars, che si rimise in piedi e si precipitò lungo il corridoio. THOMAS L'astuccio di morbida pelle nera era grande quanto una custodia per CD. Dietro la scrivania il chiarore delle candele era troppo debole per poter vedere dentro il cassetto, e così Thomas accese la torcia, schermando con una mano il raggio di luce. L'astuccio era nel primo cassetto. Si apriva a libro. Ogni lato aveva delle tasche per contenere i dischetti. In quelle di destra ce n'erano due, contrassegnati proprio come aveva detto Talley, "Disco Uno" e "Disco Due". Thomas stava chiudendo il cassetto quando udì dei passi avvicinarsi lungo il corridoio. Avrebbe voluto scappare, ma era troppo tardi. I passi si avvicinavano veloci! Stavano venendo verso lo studio! Erano sulla porta! Thomas spense la torcia e si infilò sotto la scrivania, raggomitolandosi a palla, le braccia strette intorno alle ginocchia, sforzandosi di non respirare. Nella stanza c'era qualcuno. La scrivania di suo padre era un mostro di quercia, antica, pesante, grande come una barca (papà la chiamava scherzosamente "Lexington", come la portaerei). Poggiava su gambe di legno curvo che lasciavano aperto un piccolo spiraglio vicino al pavimento. Thomas vide dei piedi. Pensò che
fossero di Mars, ma non ne era sicuro. I piedi andarono alla finestra. Thomas sentì aprirsi di scatto i listelli delle tapparelle. La luce proveniente da fuori invase la stanza. Poi i listelli si richiusero. I piedi rimasero davanti alle tapparelle. "Sta sbirciando attraverso le fessure" pensò Thomas. «Cosa diavolo sta succedendo?» urlò Dennis dal retro della casa. Quello nella stanza con lui era Mars. Thomas restò immobile. «Accidenti, Mars!» I piedi si allontanarono dalla finestra, ma Mars non uscì dalla stanza. I piedi si voltarono verso la scrivania. Thomas cercò di farsi ancor più piccolo e strinse le ginocchia così forte da farsi male alle braccia. I piedi mossero un passo verso la scrivania. «Mars! Che cazzo stai facendo?» I piedi andarono fino in fondo alla scrivania. Thomas cercò di chiudere gli occhi, di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. Continuò a fissare i piedi come se fossero serpenti. «Mars!» I piedi fecero dietrofront e uscirono. Thomas seguì il rumore dei passi, fuori, lungo il corridoio, finché non sparì del tutto. Uscì veloce da sotto la scrivania e andò alla porta. Sbirciò in corridoio, quindi corse nella saletta. Sentì il capo Talley parlare con l'altoparlante, mentre entrava nella cantina, si arrampicava sugli scaffali e si infilava nuovamente al sicuro nel sottotetto. TALLEY Talley sapeva che Rooney e gli altri sarebbero stati presi dal panico. Avrebbero pensato che fosse in corso un'irruzione e Dennis o qualcuno degli altri si sarebbe precipitato sul davanti della casa per vedere cosa stavano facendo gli uomini dello sceriffo. Talley doveva tenere la loro attenzione concentrata sul retro della casa. Su di sé. «È ancora in cucina?» Hobbs guardava attraverso il visore notturno. «Sì. Lui e la ragazza. Sta cercando di vederci, ma non può, per via delle luci. Quello grosso si è allontanato lungo il corridoio. Non vedo il fratello.» Talley aprì il megafono.
«Non abbiamo intenzione di fare irruzione, Dennis. Ma io e te dobbiamo parlare. Faccia a faccia. Vengo alla piscina.» Il capitano Martin e Hicks uscirono dall'ombra e corsero verso di lui. Laura Martin non era affatto contenta. «Perché faccia a faccia? Non se n'era discusso.» «Io vado.» Talley posò a terra il megafono e si issò oltre il muro, prima che lei potesse dire altro. Voleva distogliere l'attenzione di Rooney dal davanti della casa, anche se questo significava offrirsi come ostaggio. La voce del capitano lo seguì dalla sommità del muro. «Maledizione, Talley. Così si sta solo offrendo come bersaglio.» Talley arrivò al bordo della piscina e gridò: «Sono disarmato. Ma questa volta non ho intenzione di spogliarmi, quindi devi fidarti della mia parola. Sono solo e disarmato». Talley allontanò le mani dai fianchi, con i palmi aperti e rivolti in avanti, e andò verso la casa, costeggiando la piscina. Un materassino scuro galleggiava sull'acqua. Un asciugamano era allargato vicino al bordo, la radio ormai muta perché le batterie si erano scaricate. Arrivato all'estremità della piscina più vicina alla casa si fermò. Sul pavimento della cucina giaceva una torcia accesa: il fascio di luce pareva una lama bianca che rimbalzava sui piani di lavoro. Talley sollevò ancora di più le mani. Le potenti luci dietro di lui proiettavano la sua ombra verso la casa. Pareva quella di un crocefisso. «Vieni fuori, Dennis. Parlami.» Dennis urlò da dentro la casa, la voce attutita dai vetri della porta finestra chiusa. «Tu sei pazzo!» «No, Dennis, sono solo stanco.» Talley si avvicinò ancora. «Nessuno ti farà del male. Purché tu non faccia del male a quei ragazzi.» Giunto davanti alla porta finestra, Talley si fermò. Ora riusciva a vedere chiaramente Dennis e Jennifer. Con una mano, Dennis teneva la ragazza, con l'altra impugnava una pistola. Un'ombra si mosse alla sinistra di Talley, in soggiorno, e lui scorse una figura snella. Kevin. Sembrava un bambino. Sull'altro lato della cucina, quello opposto al soggiorno, si apriva un corridoio che veniva verso il retro. Talley vide un chiarore incerto provenire da una porta. Una grossa sagoma bloccava la luce, e pareva diventare più grande nell'ombra. Doveva trattarsi di Krupchek. Talley provò un'on-
data di sollievo: ovunque fosse Thomas, loro non lo avevano scoperto. Era riuscito a tenerli occupati. Allargò ancora di più le mani. E si avvicinò. «Sono qui, Dennis. Ti vedo. Esci e parliamo.» Talley li sentì confabulare. Dennis chiamava Kevin in cucina. Ora Krupchek era fermo all'imbocco del corridoio, come sospeso nel buio. Aveva qualcosa in mano, una torcia, forse una pistola. Dennis si alzò in piedi e andò alla porta finestra. Guardò oltre Talley, poi cercò di vedere il lato della casa, probabilmente pensando che qualcuno sarebbe entrato di corsa se lui avesse aperto. Talley parlò con calma. «Non c'è nessuno, qui, a parte me, Dennis. Ti do la mia parola.» Dennis posò la pistola sul pavimento, poi aprì la porta e uscì. Talley sapeva che in fotografia le persone sembrano sempre più grandi, ma Rooney era più basso e più magro di quanto avesse pensato dopo averlo visto sul nastro registrato, e molto più giovane. Talley sorrise, ma Rooney non ricambiò. «Come va, Dennis?» «Ho conosciuto tempi migliori.» «Devo darti atto che è stata una lunga giornata.» Dennis fece un cenno con il capo in direzione del muro. «Hai un cecchino lassù, pronto a spararmi?» «Se tu cercassi di afferrarmi probabilmente lo farebbero. Altrimenti no. Avremmo potuto spararti dal muro, se avessimo voluto.» Dennis parve convenirne. «Posso uscire? Venire più vicino?» «Certo. Fa' pure.» Dennis si allontanò dalla porta e raggiunse Talley alla piscina. Fece un respiro profondo, alzando gli occhi a guardare le stelle. «È bello stare qua fuori.» «Già.» «Ora abbasso le mani, va bene?» disse Talley. «Certo.» Talley vide che Kevin era ancora con la ragazza, mentre Krupchek era fermo in corridoio. Thomas era dentro, da qualche parte, occupato a prendere i dischetti. Talley sperava che non ci volesse molto. «Questa cosa va avanti da un sacco di tempo. Cosa stai aspettando?» «Tu avresti fretta di finire in prigione per il resto dei tuoi giorni?» «Al tuo posto farei di tutto per ottenere il miglior accordo possibile. Lascerei andare questa gente, collaborerei con le autorità, lascerei che fosse
un avvocato a parlare per me. Sarei abbastanza furbo da capire di essere circondato dalla polizia e di non poter andare da nessuna parte senza il loro permesso.» «Voglio quell'elicottero.» Talley scosse la testa. «Te l'ho già detto prima. E dove potrebbe atterrare? Non posso dartelo. Non è possibile.» «Allora una macchina. Voglio una macchina che mi porti in Messico, con una scorta e un lasciapassare per la frontiera.» «Ne abbiamo già parlato.» Pareva che Rooney si stesse infiammando. Agitò le braccia in un gesto di rabbia. «E allora a che cazzo mi servi?» «Sto cercando di salvarti la vita.» Dennis si voltò verso la casa. Talley lo osservò, pensando che mostrava tutto lo stress di quella giornata. Alla fine, Rooney tornò a girarsi verso di lui e disse a bassa voce: «Sei ricco?». Talley non rispose. Non sapeva dove volesse arrivare. Aveva imparato a lasciar parlare i soggetti finché non avevano detto tutto quello che avevano da dire. Rooney si diede un colpetto sulla tasca. «Posso mettere una mano in tasca per mostrarti una cosa?» Talley annuì. Rooney gli si avvicinò. Sulle prime Talley non riusciva a capire cosa Rooney avesse tirato fuori, ma poi vide che si trattava di denaro. Pareva che Rooney cercasse di non farsi vedere dagli altri. «Queste sono cinquanta banconote da cento dollari, capo. Cinquemila dollari. Ne ho una valigia piena, in casa.» Rooney si rimise le banconote in tasca. «Quanto vorresti per tirarmi fuori da qui? Centomila dollari? Potresti portarmi in Messico, solo tu e io, senza che nessuno sappia niente. Basta dire agli altri che hai fatto un accordo, senza parlare dei soldi. Io non parlo. Ce ne sono un sacco in questa casa, capo. Più di quanti ne abbia visti in vita tua. Possiamo dividerceli.» Talley scosse la testa. «Hai scelto la casa sbagliata per nasconderti, Dennis.» «Duecentomila in contanti, in banconote da cento, dritti nelle tue tasche, senza che nessuno sappia niente.»
Talley non rispose. Si chiese cosa ci facesse Smith lì, in mezzo al nulla, in quella anonima comunità di Bristo Camino, con tanti soldi per i quali quel ragazzo era pronto a morire, e informazioni così importanti che gli uomini della macchina erano pronti a uccidere. E dire che a volte si crede di conoscere i propri vicini... «Arrenditi, Dennis.» Rooney si passò la lingua sulle labbra. Il suo sguardo saettò oltre Talley, poi tornò a posarsi su di lui. «Stai cercando di tirare su il prezzo? Okay, trecento. Trecentomila dollari. Arriverai mai a guadagnare così tanto? Puoi avere Mars e Kevin. Puoi sbatterli dentro. Fanno parte dell'accordo.» «Tu non sai con chi hai a che fare. Non puoi comperarti la libertà.» «Ma tutti vogliono i soldi! Tutti! Io non ho intenzione di rinunciarci!» Talley lo guardò, chiedendosi fin dove spingersi. Se Rooney si arrendeva adesso, Amanda e Jane avrebbero potuto pagare per questo. Ma se Rooney si fosse arreso in quel momento e fosse uscito da quella casa, lui avrebbe avuto i dischetti. Una volta arrivata la squadra dell'Uomo con l'orologio, lui avrebbe potuto non avere un'altra occasione. «Questa casa non è quello che pensi. Credi davvero che qualcuno potrebbe tenere in casa tutto quel denaro?» «Là dentro c'è un milione di dollari, se non addirittura due! Ti darò la metà!» «L'uomo che avete spedito all'ospedale, Walter Smith, è un criminale. Quel denaro è suo.» Rooney scoppiò in una risata. «Stai mentendo, sono tutte cazzate!» «Ha dei soci, Dennis. Questa è casa loro, e loro la rivogliono. Quella che ti sto offrendo è la tua unica possibilità di salvezza.» Rooney lo fissò, poi si sfregò il volto. «Vaffanculo, Talley. Vaffanculo. Credi davvero che sia un idiota?» «Ti ho detto la verità. Arrenditi. Collabora con me, se non altro ti salverai la pelle.» Rooney si lasciò sfuggire un sospiro e Talley vide la tristezza scendere su di lui come un pesante mantello. «E cosa vale?» «Quello che intendi farne tu.» «Ora torno dentro. Ci penserò e domani ti darò una risposta.» Talley sapeva che Dennis stava mentendo. Aveva imparato a capire
quando erano disposti ad arrendersi: Rooney restava aggrappato a qualcosa che non poteva mollare. «Ti prego, Dennis.» «Vai a farti fottere.» Rooney indietreggiò, varcò la soglia e chiuse la porta finestra. L'oscurità della casa lo ingoiò come una pozzanghera d'acqua sporca. Talley si voltò verso gli agenti disposti lungo il muro e si allontanò, pregando che Thomas avesse preso i dischetti e si fosse messo in salvo. Rooney non era il solo a restare aggrappato a qualcosa che non poteva mollare. 20 Sabato, 00.04 THOMAS Thomas grondava sudore. Aveva le ginocchia ferite per aver strisciato contro i travetti, e quando il sudore colava sui tagli, bruciava. Ma lui non se ne curava: era felice ed eccitato, era... carico! Quella era la sua miglior fuga in assoluto, meglio di qualunque altra compiuta con Duane Fergus! Adesso che non c'era più la luce, non doveva preoccuparsi che lo vedessero sui monitor. Si infilò nella botola da cui si accedeva al suo armadio a muro, e attraversò la stanza, diretto al computer. Lo smontò e lo trascinò a terra ai piedi del letto, in modo da non essere visto dalla telecamera quando fosse tornata la corrente. Aveva le mani così sudate che lo schermo gli scivolò e lui lo prese con le ginocchia. Le luci si accesero senza preavviso. Thomas era preoccupato che quegli stronzi salissero a controllarlo, quindi si affrettò a caricare il primo dischetto. La cartella che comparve era senza nome. Vi cliccò sopra due volte per aprirla. Comparve un elenco di nomi di società che non conosceva. Aprì un file a caso, ma vide solo tabelle e numeri. Venne assalito dal timore di aver preso i dischetti sbagliati, ma quelli erano gli unici che aveva trovato. Non capiva nulla di quanto vedeva sullo schermo, ma erano i dischetti che Talley voleva, forse per lui avrebbero avuto un senso. Thomas si immobilizzò per sentire se arrivava qualcuno. Il corridoio era silenzioso. Accese di nuovo il cellulare, e questa volta l'indicatore di carica della
batteria era a meno di metà, anzi, era più vicino a un quarto. Premette il tasto di ripetizione automatica del numero per chiamare Talley. TALLEY Talley scavalcò il muro oltre il quale lo aspettavano il capitano Martin e Hicks. Laura Martin era furibonda. «È stata una mossa davvero stupida. Cosa pensava di ottenere?» Talley si allontanò in fretta senza rispondere. Non la voleva intorno quando Thomas avesse chiamato. Si mise in contatto radio per riferire a Maddox la sua conversazione con Rooney mentre girava intorno alla proprietà confinante. La fece breve e non parlò dell'enorme quantità di denaro nascosta nella casa, poiché sapeva che questo avrebbe sollevato troppe questioni, ma si sentì in colpa. Era un negoziatore. Un altro negoziatore dipendeva dalle sue indicazioni e lui gli stava mentendo, o quanto meno stava omettendo informazioni importanti. Forse fu per questo che tagliò corto: si odiava per ciò che stava facendo. Il telefono squillò proprio mentre arrivava al cul-de-sac. Si infilò nel vialetto di una casa vicina, in cerca di silenzio e solitudine. «Li ho presi!» Talley si sforzò di restare calmo. Non aveva ancora niente in mano. «Ottimo lavoro, figliolo. Ora sei di nuovo nella tua camera, vero? Sei al sicuro?» «Quello grosso, Mars, per poco non mi beccava, ma io mi sono nascosto. Cos'era quella roba che avete fatto esplodere in giardino? È stato fantastico!» «Thomas, quando questa storia sarà finita, te ne faccio sparare uno tutto da solo, se vuoi. Ma ora devo sapere cosa c'è su quei dischetti, d'accordo?» «Numeri. Credo siano le tasse di qualcuno.» «Li hai aperti?» «Gliel'avevo detto che sono capace.» Laura Martin e Hicks uscirono dal vialetto accanto e si avvicinarono agli agenti appostati dietro i veicoli che bloccavano il cul-de-sac. Il capitano stava andando verso Maddox. Talley si allontanò. «Bravo, Thomas. Sono etichettati?» «Sì, proprio come ha detto lei. "Disco Uno" e "Disco Due".» «Dimmi cos'hai trovato quando li hai aperti.»
«Ce l'ho proprio davanti in questo momento.» «Okay, dimmi cosa vedi.» Talley si tastò alla ricerca di penna e taccuino nel caso avesse dovuto prendere nota di qualcosa. Thomas gli descrisse un elenco di file contrassegnati da nomi che Talley non riconobbe, nomi anonimi tipo Southgate Holdings e Desert Entertainment. Poi Thomas menzionò altre due società: Palm Springs Ventures e The Springs Winery. C'era il collegamento con Palm Springs: la casa di Smith era stata costruita da un imprenditore edile di Palm Springs. Talley chiese a Thomas di aprire il file della Palm Springs Ventures, ma dalla descrizione del ragazzo sembrava un bilancio patrimoniale o una specie di conto economico, senza i nomi delle persane interessate. Talley annotò i nomi delle società. «Apri i file e guarda se trovi dei nomi.» Dopo qualche secondo, Thomas disse: «Vedo solo numeri. Soldi». «Okay. Apri l'altro dischetto e dimmi cosa c'è.» I pochi secondi che Thomas impiegò a cambiare dischetto parvero un'eternità. Ogni attimo che passava, Talley temeva che il ragazzo potesse essere scoperto. Ma quando Thomas gli lesse i nomi dei file, capì che era quello giusto: "Nero", "Pulito", "Entrate", "Uscite", "Trasferimenti", "Fonti", "Ricevute"... Thomas stava ancora leggendo quando Talley lo interruppe. «È sufficiente. Apri il file contrassegnato con "Nero".» «Contiene più di un file.» «Come si chiamano?» «Credo siano nomi di Stati. CA, AZ, NV, FL. NV sta per Nevada, vero?» «Sì, è il Nevada. Apri la California.» Thomas gli descrisse una tabella lunga pagine e pagine, sulla quale erano elencati nomi che a Talley non dicevano nulla, insieme a date e pagamenti ricevuti. Talley divenne impaziente. Ci stavano mettendo troppo tempo. «Leggimi i nomi degli altri file.» Thomas aveva letto sei o sette nomi, quando Talley lo fermò di nuovo. «Apri questo. "Tasse società".» «Ci sono degli altri file... credo che si riferiscano agli anni. Novantadue, novanta tré, novantaquattro eccetera.» «Apri quello di quest'anno.»
«È uno di quei moduli delle tasse che mio padre compila per mandarli al governo.» «Guarda in cima alla pagina. Dice di chi sono quelle tasse? C'è il nome di una ditta?» Il ragazzo non rispose. «Thomas?» «Sto guardando.» Talley lanciò un'occhiata verso il cul-de-sac. Il capitano Martin lo stava osservando. Lo guardò negli occhi per un attimo, poi disse qualcosa a Hicks, e venne verso di lui, il capo chino per restare coperta dalle auto. «Dice Family Enterprises.» «Ma non c'è un nome di persona?» «No.» Talley avrebbe dovuto guardare i dischetti di persona: allora avrebbe potuto trovare quello che cercava senza dover dipendere da un ragazzino di dieci anni. «Cerca qualcosa con un nome tipo "Compensi dirigenti" o "Funzionari". Qualcosa del genere.» Laura Martin aveva costeggiato tutta la fila di veicoli e ora si trovava fuori dalla linea di tiro della casa. Si raddrizzò e si diresse verso di lui. Talley alzò una mano come per fermarla, ma lei aggrottò la fronte e proseguì. «Devo parlarle» disse. «Tra un minuto.» «È importante.» Talley si allontanò da lei, seccato. «Quando ho finito di telefonare.» Il suo tono la bloccò. La donna gli rivolse uno sguardo duro e infunato, ma mantenne le distanze. «Eccolo qui» disse Thomas. «Hai trovato il nome?» «Sì, c'è un file che si chiama "Retribuzione dirigenti", ma c'è solo un nome.» «Quale?» «Charles G. Benza.» Talley fissò il terreno. Di colpo l'aria fresca della notte si fece soffocante. Guardò la casa, poi si voltò verso il capitano Martin. Si era sbagliato. Walter Smith non era un mafioso che nascondeva in casa qualcosa di prezioso. Teneva i conti di Sonny Benza. Sì, doveva essere proprio così:
Smith era il contabile di Benza, e conservava la sua documentazione finanziaria. Era tutto lì, in casa di Smith, e ce n'era abbastanza per stroncare Benza e la sua organizzazione. Lì, a Bristo Camino. Talley fece un sospiro profondo che sembrò salire dall'anima e lasciarlo prosciugato di ogni forza. Ecco perché quella gente era disposta a rapire e a uccidere. Smith poteva farli chiudere. Smith conosceva i loro segreti e poteva mandarli dentro per sempre. La mafia. Gli uomini dell'auto erano mafiosi. Jane e Amanda erano in mano al capo della più potente famiglia mafiosa della costa Ovest. La voce di Thomas si fece bassa e concitata. «Sta arrivando qualcuno. Devo andare.» La comunicazione si interruppe. «Possiamo parlare, ora?» disse Laura Martin, con le mani sui fianchi. «No.» Talley corse alla sua auto. Se i dischetti potevano sbattere dentro Benza, poteva farlo anche Walter Smith. Mentre si allontanava a tutta velocità, chiamò Metzger all'ospedale. THOMAS Thomas sentì il chiodo che veniva estratto dallo stipite. Con uno strattone staccò il cavo del computer dalla presa e si catapultò sul letto, nascondendo il cellulare sotto le coperte proprio mentre la porta si apriva. Era Kevin. Portava un piatto di carta con due fette di pizza e un bicchiere di Diet Coke. «Ti ho portato qualcosa da mangiare.» Thomas infilò le mani fra le gambe incrociate, nel tentativo di nascondere il fatto che si era slegato, ma il nastro che si era tolto dai polsi era rimasto in bella vista sul pavimento. Vedendolo, Kevin si fermò di colpo, fulminandolo con lo sguardo. «Brutto stronzo. Dovrei prenderti a calci.» «Mi faceva male.» «Chi se ne frega, tanto non ha più importanza.» Thomas si sentì sollevato dal fatto che Kevin non sembrava troppo arrabbiato. Gli porse la pizza e la Coca, poi andò a controllare i chiodi che bloccavano le finestre. Thomas temeva che si accorgesse che il computer si trovava in un posto diverso, ma Kevin sembrava assorto nei suoi pensieri.
Si accertò che le finestre fossero ben salde, quindi si appoggiò alla parete quasi avesse bisogno di sostegno per restare in piedi. I suoi occhi parvero posarsi su ogni oggetto della stanza, ogni gioco, ogni libro, ogni mobile, sugli abiti gettati in un angolo, sui poster alle pareti, sul telefono rotto gettato a terra, sul televisore e sul lettore CD, persino sul computer appoggiato contro il muro, ma il suo sguardo era vuoto, distante. Alla fine gli occhi si posarono su Thomas. «Sei proprio fortunato.» Kevin si staccò dalla parete e si avviò verso la porta. «Quando ve ne andrete da casa mia?» chiese Thomas. «Mai.» Kevin uscì senza voltarsi indietro e richiuse la porta. Thomas aspettò. Il chiodo venne piantato di nuovo al suo posto nello stipite. Il pavimento scricchiolò sotto i passi di Kevin che si allontanava. Thomas cercò di contare fino a cento, ma arrivato a cinquanta si fermò. Si infilò ancora una volta nell'armadio a muro. Voleva sapere cosa avevano in mente di fare. E voleva prendere la pistola. 21 Sabato, 00.02 Canyon Country, California MARION CLEWES Il Canyon Country Hospital si trovava fra due crinali in una po2za di luce azzurrina. Era una costruzione bassa e moderna a tre piani, dalla forma irregolare. Marion pensò che assomigliava a quelle costruzioni high-tech che ospitano società di servizi, tirate su nel giro di una notte in mezzo al nulla accanto a un'uscita dell'autostrada, tutte pietra rossa e vetri a specchio. Girò intorno all'ospedale con l'auto e trovò l'ingresso del pronto soccorso sul retro. Venerdì sera, mezzanotte appena passata, il posto era praticamente deserto. Marion conosceva ospedali così trafficati che al venerdì sera il personale del pronto soccorso raddoppiava e le urla si sentivano a un isolato di distanza. Doveva essere proprio bello vivere nella Santa Clarita Valley, pensò. Più cose scopriva di quel posto, più gli piaceva.
Nel piccolo parcheggio c'erano solo tre auto e un paio di ambulanze, ma poco più in là erano fermi quattro veicoli delle stazioni televisive. Marion se l'aspettava e non si fece scoraggiare. Piazzò l'auto vicino all'ingresso, con il muso rivolto verso la strada, quindi entrò nell'ospedale. I giornalisti erano ammassati davanti al banco dell'accettazione e parlavano con una donna in camice bianco, che pareva infastidita. Marion rimase ad ascoltare quel tanto da apprendere che era la dottoressa Reese, responsabile del pronto soccorso, e che al momento Walter Smith era sottoposto ad accertamenti. Due giovani infermiere, entrambe molto graziose e con occhi da tolteche, osservavano con interesse la scena da dietro il bancone. Marion pensò che per loro doveva essere molto eccitante avere lì tutti quei giornalisti. Andò a un distributore automatico nella piccola sala d'attesa e prese una tazza di caffè nero. Un'agente di polizia osservava la scena. Un giovane ispanico era seduto di fronte a lei e cullava un bambino mentre un altro bimbo, un po' più grande, dormiva sdraiato per metà in grembo a lui e per metà sul sedile accanto. L'uomo aveva un'aria così atterrita che Marion provò pena per lui: probabilmente si trovava lì per via della moglie. «È come se si fossero dimenticati di lei, vero?» L'uomo alzò lo sguardo, senza comprendere. Marion sorrise, pensando che probabilmente lui non parlava inglese. «È triste» concluse Marion, poi si allontanò, tornando all'accettazione. Una porta dava su un piccolo corridoio, oltre il quale si apriva una specie di sala comune con parecchi letti separati da tende azzurre e un altro corridoio chiuso da porte a ventola. Marion attese davanti alla porta finché non uscì un inserviente. Gli rivolse un sorriso timido. «Mi scusi, la dottoressa Reese mi ha detto di rivolgermi a qualcuno, qui.» L'inserviente lanciò un'occhiata in direzione della Reese, ancora attorniata dai reporter. «Sono il vicino di casa di Walter Smith. Mi hanno detto di passare a prendere i suoi vestiti e gli effetti personali.» «Il tizio che è stato preso in ostaggio?» «Esatto. Non è orribile?» «Ah, succedono certe cose...» «Già, non si può mai sapere. Siamo preoccupati per i ragazzi. Sono ancora là dentro.» «Poverini.»
«Dovrei portare questa roba a casa.» «Okay. Mi dia un momento e vedo cosa posso fare.» «Come sta?» «Il dottore sta controllando i risultati della Tac proprio ora. Presto si dovrebbe sapere qualcosa.» L'inserviente infilò una delle porte in fondo al corridoio. Marìon si accertò che si fosse allontanato, quindi si intrufolò nel corridoio in modo da non essere visto dalle infermiere al banco dell'accettazione. Aspettò lì finché l'inserviente non ritornò con un sacchetto di carta verde. «Ecco qua. Hanno dovuto tagliargli i vestiti. Non si poteva fare altrimenti.» Marion prese il sacchetto. Sentì le scarpe in fondo a tutto. «Devo firmarle qualcosa?» «No, non è il caso. Non siamo così fiscali. Quando lavoravo a Los Angeles, allora sì che ci voleva una firma per ogni cosa. Qui è diverso. Queste cittadine piccole sono un paradiso.» «Senta, la ringrazio molto. C'è un'altra strada per uscire? Non voglio passare davanti ai giornalisti. Prima mi hanno fatto tante di quelle domande...» «Da quella parte, poi prende a sinistra. In fondo vedrà il cartello rosso dell'uscita. Sbucherà fuori sul davanti.» «Grazie ancora.» Marion posò a terra la borsa per guardare gli effetti personali di Smith. Lo fece lì, nel corridoio. Il sacchetto conteneva jeans, cintura, un portafoglio di pelle nera, mutande bianche di Calvin Klein, una maglietta Polo, calze grigie, scarpe da tennis Reebok nere, un orologio da polso Seiko. Gli indumenti erano stati tutti tagliati sul davanti. Marion frugò nelle tasche dei pantaloni, ma trovò solo un fazzoletto bianco. Niente dischetti di computer. Il signor Howell sarebbe rimasto deluso. Marion si mise il sacchetto sotto il braccio e imboccò il corridoio, passando davanti ai letti della stanza comune. Erano vuoti. Si chiese dove fosse la moglie dell'ispanico, ma non pensò più a lei quando trovò Smith in una stanza verso il fondo. Aveva la tempia sinistra coperta da una medicazione e una cannula dell'ossigeno infilata nel naso. Due infermiere, una con i capelli rossi e l'altra con i capelli scuri, stavano sistemando alcuni macchinari dotati di monitor, apparentemente un elettrocardiografo e un elettroencefalografo. Il fatto che stessero posizionando i monitor solo adesso gli fece capire che i test erano stati completati, ma si stavano ancora
attendendo i risultati. Questo gli dava un po' di tempo. Quando i medici avessero avuto un'idea più chiara delle sue condizioni, avrebbero proceduto a qualche ulteriore intervento, oppure lo avrebbero trasferito in un reparto dell'ospedale. Una stanza avrebbe facilitato le cose, ma nel caso di un intervento chirurgico il suo compito sarebbe stato impossibile. Marion decise di non rischiare. Trovò un punto tranquillo poco più avanti, dove c'era una barella appoggiata contro la parete. Posò il sacchetto sulla barella, quindi vi mise dentro una siringa e una fialetta contenente lidocaina. Sia la fiala che la siringa erano sue. Le aveva portate con sé dalla macchina. Un giovane alto con l'espressione assonnata girò l'angolo spingendo una sedia a rotelle vuota. Marion gli rivolse un sorriso cordiale. «Pensavo che mi sarei abituato a questi orari, ma non ci si abitua mai.» Il giovane ricambiò il sorriso, convinto di aver trovato un'altra vittima dei turni di notte. «A chi lo dice.» Quando il giovane si fu allontanato, Marion si mise all'opera tenendo le mani dentro il sacchetto, in modo che nessuno potesse vedere cosa stava facendo. Strappò l'involucro di carta della siringa, tolse la protezione all'ago e perforò il tappo della fiala. Aspirò tutto il liquido, riempiendo la siringa. La lidocaina era una delle sostanze che preferiva: iniettata a una persona in condizioni cardiache normali provocava l'infarto. Marion posò la siringa sopra gli indumenti di Smith in modo che fosse facile da prendere, quindi chiuse il sacchetto e attese. Dopo qualche minuto, l'infermiera con i capelli scuri uscì dalla stanza di Smith, seguita poco dopo dall'altra. Marion entrò nella stanza. Sapeva di non avere molto tempo, ma gli bastavano pochi secondi. Posò il sacchetto sul letto. Smith sbatté le palpebre, aprendole parzialmente, e poi le richiuse, come se stesse lottando per svegliarsi. Marion gli diede uno schiaffo. «Svegliati.» Marion lo colpì di nuovo. «Walter?» Smith aprì gli occhi, ma non del tutto. Marion non era certo che Smith potesse vederlo. Lo schiaffeggiò una terza volta, lasciandogli un segno rosso sulla guancia. «I dischetti sono ancora in casa tua?»
Smith emise un mormorio che Marion non riuscì a decifrare. Lo afferrò per la faccia e lo scosse violentemente. «Parlami, Walter. Hai detto a qualcuno chi sei?» Smith sbatté di nuovo le palpebre e parve mettere a fuoco lo sguardo su Marion. «Walter?» Gli occhi si annebbiarono e si richiusero. «Okay, Walter. Come vuoi tu.» Marion decise che era venuto il momento. Era ragionevolmente sicuro che i dischetti si trovavano ancora nella casa e che Smith non era stato in grado di parlare con nessuno dopo il rilascio da parte dei suoi sequestratori. Quelli di Palm Springs sarebbero stati contenti. Sarebbero stati contenti anche di sapere che Walter Smith era morto. «Non ti farà male, Walter. Te lo prometto.» Marion sorrise, soffocando una risata. «Be', non è del tutto vero. Gli attacchi di cuore fanno un male dell'accidente.» Marion aprì il sacchetto e fece per prendere la siringa. «Cosa sta facendo?» L'infermiera con i capelli rossi era ferma sulla soglia. Lo fissò, chiaramente insospettita, quindi andò direttamente al letto. «Lei non dovrebbe trovarsi qui.» Marion le sorrise. Era una donna piccola con il collo esile. Con le mani ancora nascoste nel sacchetto, Marion mollò la siringa e sollevò gli abiti in modo che questa ricadesse sul fondo. Non distolse mai lo sguardo da lei, né smise per un attimo di sorridere. Marion aveva un bel sorriso. Un sorriso dolce, diceva sempre sua madre. «Lo so. Sono venuto a prendere la sua roba, ma ho pensato di lasciargli una cosa sua, sa, come portafortuna, e non c'era nessuno a cui chiedere.» Marion tirò fuori il portafoglio e lo aprì. Estrasse una foto consumata di Walter con la moglie e i figli. La mostrò all'infermiera. «Posso lasciarla? La prego, sono sicuro che lo aiuterà.» «Potrebbe andare persa.» Marion guardò oltre la donna. In corridoio non c'era nessuno. Lanciò un'occhiata verso l'altro lato della stanza. Una porta. Forse un bagno, forse un armadio o un corridoio. Avrebbe potuto tapparle la bocca, sollevarla... sarebbero bastati pochi secondi. «Lo so, ma...»
«Be', allora la infili sotto il guanciale. Lei non può stare qui.» L'infermiera con i capelli neri entrò nella stanza e andò a uno dei monitor. Marion chiuse il sacchetto. «Va bene se lascia questa foto? È del signor Smith» disse la rossa. «No. Andrà persa e qualcuno potrebbe avere da ridire. Va sempre a finire così.» Marion rimise la foto nel portafoglio e sorrise all'infermiera con i capelli rossi. «Be', grazie comunque.» Marion era paziente. Era disposto ad aspettare che Smith restasse di nuovo solo, ma mentre tornava verso l'accettazione udì delle sirene. Davanti all'ingresso vide l'agente donna. Pensò che stesse parlando da sola, ma poi si rese conto che stava parlando nella ricetrasmittente. Le sirene si avvicinarono. I reporter uscirono, pochi per volta, per farle delle domande, ma all'improvviso lei si staccò da loro e rientrò di corsa nell'ospedale. Marion decise di non aspettare. Tornò alla macchina, deluso per come erano andate le cose. In effetti, quelli di Palm Springs non sarebbero stati contenti di sentire il suo rapporto, ma non c'era niente da fare. Non adesso, per lo meno. Arrivarono due auto della polizia. Marion rimase a guardare gli agenti che correvano dentro l'ospedale, inseguiti dai reporter, poi telefonò a Glen Howell. TALLEY Dalla sua auto, Talley chiamò Metzger all'ospedale. Le disse che la vita di Smith era in pericolo e le ordinò di piazzarsi davanti alla porta della sua camera. Prelevò Jorgenson e Campbell dalla casa della signora Pena e disse loro di seguirlo. Talley partì con un codice tre, luci e sirena accese. Sapeva che gli uomini di Benza sarebbero venuti a sapere ciò che stava facendo, e questo avrebbe potuto mettere in pericolo lui e la sua famiglia, ma non poteva lasciare che quell'uomo venisse ucciso. Non sapeva cos'altro fare. Quando arrivarono all'ospedale, Talley vide il capannello di reporter venire verso di lui dalla porta d'ingresso. Scese di corsa dall'auto e si unì a Jorgenson e Campbell. «Non dite una parola. Sono tutte informazioni riservate. Avete capito?» I due parvero confusi e intimiditi, quando i giornalisti li circondarono.
«Andiamo.» Mentre entravano nell'ospedale, Talley si guardò intorno con attenzione, sperando di vedere una mano abbronzata, un Rolex massiccio, abiti simili a quelli indossati dagli uomini e dalla donna che l'avevano sequestrato nel parcheggio. Chiunque era sospetto. Chiunque era un potenziale assassino. Chiunque avrebbe potuto condurlo ad Amanda e Jane. Il capo della sicurezza dell'ospedale, un uomo sovrappeso di nome Jobs, andò loro incontro al banco dell'accettazione, insieme a Klaus e al responsabile del pronto soccorso, una donna anziana che si presentò come la dottoressa Reese. Talley chiese di poter parlare loro in privato, e li seguì oltre una porta che dava su un corridoio. Vide Metzger ferma davanti a una porta poco lontano. Andò da lei, dicendo alla Reese e agli altri di aspettare. «Tutto bene?» «Sì. Cosa sta succedendo?» Talley si fermò sulla porta. Smith era solo nella stanza. La testa gli ciondolò di lato, poi si raddrizzò. «Torno subito» disse Talley. Ordinò a Jorgenson e a Campbell di aspettare insieme a Metzger, quindi tornò dai medici per spiegare loro cosa stava succedendo. «Abbiamo motivo di credere che potrebbe esserci un attentato alla vita del signor Smith. Metterò un agente di guardia fuori dalla sua stanza e terrò degli agenti qui in ospedale.» Klaus assunse un'espressione accigliata. «Un attentato alla sua vita? Come quello che ha fatto lei in ambulanza?» La dottoressa Reese lo ignorò. «Questo è un pronto soccorso, sceriffo. Qui dobbiamo poter agire in fretta. Non posso permettere che ci siano intralci.» «Sono il capo della polizia di Bristo, non uno sceriffo.» «Ho capito. Il mio staff è in pericolo?» «Se i miei uomini sono qua, no, signora.» «Sono tutte stronzate» sbottò Klaus. «Chi potrebbe voler uccidere quell'uomo?» Talley non avrebbe voluto mentire. Era stanco di menzogne. Si strinse nelle spalle. «Non possiamo prendere alla leggera queste minacce.» Jobs, il capo della sicurezza, annuì. «Il mondo è pieno di pazzi.» Talley si accordò perché i suoi agenti rimanessero fissi di guardia davan-
ti alla porta di Smith, con il personale di Jobs come rinforzo. Se Smith fosse stato trasferito in un'altra ala dell'ospedale, la polizia di Bristo lo avrebbe scortato. Stavano ancora discutendo quando Metzger chiamò dal suo posto di guardia. «Si sta svegliando.» Klaus si fece largo tra il gruppetto e corse nella stanza, seguito da Talley. Smith aveva gli occhi aperti, ma il suo sguardo, sebbene orientato, era ancora un po' annebbiato. Borbottò qualcosa e poi disse, più chiaramente: «Dove sono?». Le parole erano mal articolate, ma Talley le comprese comunque. Klaus tirò fuori la sottile pila, sollevò le palpebre di Smith ed esaminò prima un occhio poi l'altro. «Mi chiamo Klaus. Sono un medico del Canyon Country Hospital, dove lei si trova. Ricorda il suo nome?» Smith ci mise qualche secondo a rispondere, come se gli ci volesse un po' a capire la domanda e a trovare la risposta. Si passò la lingua sulle labbra. «Smith. Walter Smith. Cosa mi è successo?» Klaus lanciò un'occhiata ai monitor. «Non lo sa?» Smith parve riflettere ancora, poi spalancò gli occhi e cercò di alzarsi a sedere. Klaus lo fece sdraiare. «Piano. Stia giù, se non vuole svenire.» «Dove sono i miei figli?» Klaus si voltò verso Talley, il quale rispose: «Sono ancora nella casa». Gli occhi di Smith si spostarono incerti nella sua direzione. Talley sollevò la felpa in modo che potesse vedere il distintivo. «Sono Jeff Talley, il capo della polizia di Bristo. Ricorda cosa è successo?» «Della gente è entrata in casa mia. Tre uomini. Cosa ne è dei miei ragazzi?» «Sono ancora dentro la casa. Ci risulta che stiano bene. Stiamo cercando di trovare una soluzione.» Klaus annuì di malavoglia. «È stato il capo Talley a tirarla fuori da là.» Smith lo guardò. «Grazie.» La sua voce era debole, lontana. Smith si abbandonò, chiudendo gli occhi. Talley pensò che stesse di nuovo perdendo i sensi. A Klaus non piaceva ciò che vedeva sui monitor. La sua faccia assunse
nuovamente un'espressione tirata. «Non voglio che si stanchi.» Talley prese Klaus di lato e gli parlò a voce bassa. «Dovrei scambiare qualche parola con lui, adesso. Su quello che abbiamo appena detto.» «Non ne vedo il motivo. Servirà solo ad agitarlo.» Talley guardò Smith, sapendo che avrebbe potuto toccare il tasto giusto perché riusciva a leggere Klaus proprio come riusciva a leggere un soggetto barricato dentro una casa. «Ha diritto di sapere, dottore. Lo capisce anche lei. Ci vorrà solo un minuto. La prego.» Klaus scosse la testa, ma uscì. «Smith?» Sinith aprì gli occhi, ma non completamente. Talley vide che stavano per richiudersi, pesanti. Si chinò per essergli più vicino. «Io so chi è lei.» Gli occhi si riaprirono. «Sonny Benza ha rapito la mia famiglia.» Smith lo fissò, inespressivo, senza mostrare alcuna sorpresa, senza rivelare nulla. Ma Talley capì. Lo sentì. «Vuole i suoi registri. Ha preso mia moglie e mia figlia per essere certo che io collabori. Ho bisogno del suo aiuto, Smith. Devo sapere dove le tiene prigioniere. Ho bisogno di sapere come arrivare a lui.» Qualcosa di umido cadde sulla spalla di Smith. Talley sentì gli occhi appannarsi e si rese conto che stava piangendo. «Mi aiuti.» Smith si leccò le labbra. Scosse la testa. «Non so di cosa sta parlando.» Talley gli si avvicinò ancora di più. «Lui ti ucciderà, figlio di puttana!» disse con voce roca. Klaus rientrò nella stanza. «Ora basta.» «Mi lasci ancora un minuto.» «Ho detto basta.» Talley mise gli uomini di guardia e se ne andò. Guidava con i finestrini abbassati, frustrato, arrabbiato. Calò dei pugni sul volante. Urlò. Avrebbe voluto tornare di corsa alla casa, e allo stesso tempo non voleva tornarci. Avrebbe voluto buttare giù porte e finestre, finché non avesse trovato Jane
e Amanda. Era in preda a una rabbia impotente. Prese il Nokia dalla tasca e lo posò sul sedile. Sapeva che avrebbe squillato. Sapeva che l'Uomo con l'orologio avrebbe chiamato. Non aveva altra scelta. Il cellulare squillò. Talley accostò bruscamente. Si trovava su un tratto deserto tra Canyon Country e Bristo, in mezzo al nulla, nient'altro che rocce, strada e camionisti che cercavano di arrivare a Palmdale prima dell'alba. Talley si fermò con una sbandata e rispose. L'Uomo con l'orologio prese a urlare prima che lui potesse dire una sola parola. «Hai fatto una cazzata, coglione di un poliziotto! Hai fatto un'enorme cazzata!» Talley urlò più di lui, coprendo le sue parole. «No! Tu hai fatto una cazzata, figlio di puttana! Pensavi davvero che ti avrei lasciato assassinare un uomo?» «Vuoi sentirle urlare? Eh? Vuoi che avvicini una fiamma da saldatore al bel visino di tua figlia?!» Talley prese a pugni il cruscotto, senza neppure sentire i colpi. «Ti tengo in pugno, testa di cazzo! Io ti ho in pugno! Tu toccale, torci loro un solo capello e io entro in quella casa, mi prendo quei dischetti e vedo cosa c'è dentro. Li vuoi vedere sul giornale? Vuoi che li consegni alla vera Fbi? Non credo proprio che tu voglia questo, BRUTTO FIGLIO DI UNA TROIA! E ho anche Smith, non te lo dimenticare! Io ho Smith!» A Talley tremavano le mani per la rabbia. Era così che si sentiva subito dopo un'irruzione con la Swat, quando si era sparato, e il sangue gli ribolliva in un modo che solo altro sangue avrebbe potuto calmarlo. Quando l'Uomo con l'orologio parlò di nuovo, la sua voce era pacata. «A quanto pare, tutti e due abbiamo qualcosa che l'altro vuole.» Talley si sforzò di stare calmo. Aveva preso tempo. «Ricordatelo. Ricordatelo bene.» «D'accordo. Hai messo degli uomini a guardia di Smith. Mi sembra giusto. Di lui ci occuperemo al momento opportuno. Ora vogliamo ciò che ci appartiene.» «Neppure un capello gli dovete torcere. Un capello e vi rovino, brutti bastardi.» «L'abbiamo già chiarito, Talley. Ora andiamo avanti. Devi ancora fare in modo che io possa avere quei dischetti. Se non ci riesci, altro che capello...» «Cosa vuoi?»
«I miei uomini sono pronti a partire. Sai a chi mi riferisco?» «L'Fbi.» «Sei, a bordo di due furgoni. Se fai qualche cazzata, se fai qualcosa di diverso da quello che ti dico io, la tua famiglia la riavrai indietro un pezzo alla volta.» «Io faccio quello che posso, maledizione! Dimmi cosa vuoi.» «Tutto quello che ti chiedono, tu glielo dai. Tutto quello che ti dicono di fare, tu lo fai. Ricordati, Talley: quando io mi riprendo i dischetti, tu ti riprendi la tua famiglia.» «Cristo! Non puoi mandare una squadra di assassini. Il posto è pieno di agenti di polizia. Non sono stupidi.» «Neanch'io lo sono, Talley. I miei sanno esattamente come muoversi e come parlare. Agiranno in modo professionale. Metti gli uomini dello sceriffo intorno alla casa, ma tieni buoni quelli della squadra tattica. Il mio uomo, il caposquadra, ci penserà lui a parlare con loro. Si trovavano in zona per una missione di addestramento insieme ad agenti doganali e US Marshal. Ti hanno chiamato, ti hanno offerto la loro collaborazione e tu hai accettato.» Talley sapeva che il capitano Martin non se la sarebbe mai bevuta. Capì che la cosa gli sarebbe scoppiata fra le mani. «Non ci crederà nessuno. Perché avrei dovuto accettare, con gli uomini dello sceriffo già sul posto?» «Perché i federali ti hanno informato che Smith fa parte del loro programma di protezione testimoni.» «Davvero?» «Non essere stupido, Talley. Il mio uomo chiarirà tutto con la squadra dello sceriffo quando sarà lì. Sa cosa dire per convincerli. Vuoi sentire di nuovo tua moglie?» «Sì.» La linea rimase muta per qualche momento, poi Talley udì delle voci e sentì Jane urlare. «Jane?!» Talley strinse il cellulare con entrambe le mani. Si mise a urlare, dimenticando dov'era, cosa stava facendo. «JANE!!» L'Uomo con l'orologio tornò in linea. «L'hai sentita, Talley. Ora occupati dei miei uomini e fa' in modo che possano lavorare.»
La comunicazione si interruppe. Talley tremava e sudava. Premette asterisco-6-9, nel tentativo di richiamare il numero, ma non successe nulla. Jane non c'era più. L'Uomo con l'orologio non c'era più. Talley tremava così forte che gli pareva di essere ubriaco. Si sforzò di calmarsi, poi mise via il telefono e tornò alla casa. 22 Sabato, 00.03 DENNIS Quando Dennis rientrò in casa Mars non disse nulla, ma Kevin gli saltò subito addosso. «Cosa ti ha detto? Ti ha offerto un accordo?» Dennis non provava nulla: non era più disperato né spaventato. Era solo confuso. Non capiva come Talley potesse rifiutare così tanti soldi, a meno che non pensasse che stava mentendo a proposito del denaro, proprio come lui aveva mentito sul fatto che la casa apparteneva a un mafioso. «Cosa voleva, Dennis? Ci ha dato un ultimatum?» La ragazza era carponi sul pavimento della cucina e lo fissava. «Il tuo vecchio è un mafioso?» «Cosa stai dicendo?» Capì subito che la ragazza non ne sapeva niente. Era stata una sciocchezza anche solo chiederglielo. «Mars, levamela di torno. Riportala nella sua stanza.» Dennis andò nello studio a prendere la vodka e portò la bottiglia nella saletta, bevendo a garganella strada facendo. Le luci si accesero proprio mentre si lasciava cadere sul divano di pelle. Kevin si fermò sulla porta. «Vuoi dirmi cos'è successo?» «Non avrei dovuto raccontargli del denaro. Ora vorrà tenerlo tutto lui.» «Ha detto questo?» «Ho cercato di convincerlo a spartirlo. Cazzo, sono un sacco di soldi. Pensavo bastassero a farci uscire da qui. Capisci, è stato questo il mio errore. Quando gliene ho parlato, probabilmente ha cominciato a pensare che poteva tenerli tutti per sé. Vaffanculo. Se non riusciamo a scappare lo dirò a tutti. Tutti e tre racconteremo del denaro, così se Talley cerca di tenerselo
gli faranno il culo.» Dennis si attaccò alla bottiglia, senza più sentire l'alcol, incazzato che quel bastardo di Talley volesse rubargli i suoi soldi. «Ci ammazzerà, Kev. Siamo fottuti.» «È pazzesco. Non può ammazzarci.» Kevin era troppo stupido. «Deve ucciderci, idiota! Non può lasciare che diciamo a tutti dei soldi. L'unico modo per tenerseli è che non lo venga a sapere nessuno. Ci farà fuori prima che qualcuno possa leggerci i nostri diritti. Probabilmente proprio in questo momento sta pensando a come fare.» Kevin si avvicinò, fermandosi davanti al divano. Già solo la sua presenza lo infastidiva. «È finita, Dennis. Dobbiamo arrenderci.» «Non è finita un cazzo! Quei soldi sono miei!» Dennis sentì la rabbia montare dentro e bevve dell'altra vodka. Era sempre stato così. Per tutta la vita Kevin lo aveva trattenuto, frenato, tirato a fondo come un peso morto. Kevin gli andò ancora più vicino. «Tu ci farai uccidere, per quei soldi. Talley non scherza. La polizia si stancherà di aspettare e ci ammazzeranno tutti!» Dennis levò la bottiglia, stringendosi nelle spalle. «Allora tanto vale morire ricchi.» «No!» Kevin allontanò la bottiglia con un colpo della mano. Dennis schizzò in piedi, fuori di sé per la rabbia e la frustrazione. Diede uno spintone al fratello, scaraventandolo sul tavolino, e gli si lanciò addosso. Kevin grugnì per il dolore e cercò di ripararsi il volto, ma Dennis lo tenne fermo con la mano sinistra e lo colpì ripetutamente con il destro. «Fermati, Dennis!» Ma lui continuò a mollare pugni con tutta la forza. «Smettila di piangere!» Un altro pugno, ancora più forte «Smettila di piangere!» Kevin si raggomitolò a palla, singhiozzando, il volto rosso per le percosse. Dennis lo odiava. Odiava suo padre, sua madre, quelle topaie in cui avevano vissuto e tutti quegli stronzi che sua madre si portava a casa, odiava il suo lavoro di merda, il Formicaio e ogni giorno della loro vita di falliti, ma più di ogni altra cosa odiava Kevin perché gli ricordava tutte queste
cose ogni volta che lo guardava. «Sei patetico.» Dennis si rimise in piedi, svuotato, senza fiato. «Quei soldi sono miei. Io non me ne vado senza, Kevin. Mettitelo bene in testa. Noi non ci arrendiamo.» Kevin si allontanò strisciando e mugolando come un cane bastonato. Dennis recuperò la bottiglia, e vide Mars fermo sulla soglia che li osservava con un'espressione vuota sul viso. Avrebbe voluto picchiare anche Mars, quel figlio di puttana. «Allora? Hai qualcosa da dire?» Mars non rispose, il volto parzialmente in ombra. «Allora?» Mars rispose con voce grave. «Mi piace qui, Dennis. Non ce ne andiamo.» «Lo puoi ben dire che non ce ne andiamo.» Un vago sorriso passò sulle labbra di Mars, l'unica parte del suo viso che Dennis riusciva a vedere. «Andrà tutto bene, Dennis, vedrai. Mi occuperò io di tutto.» Dennis gli voltò le spalle e bevve un'altra sorsata di vodka. «Bravo, Mars, fallo.» Mars si confuse con l'ombra e sparì. Dennis ruttò. Quel bastardo gli faceva venire i brividi. TALLEY Il silenzio scese sugli York Estates. Il traffico sulla Flanders Road era andato diminuendo; la fila di auto cariche di morbosi guardoni in cerca di un incontro ravvicinato con il crimine se n'era andata, dando un po' di tregua agli agenti della Stradale addetti ai posti di blocco. All'interno del complesso, gli uomini dello sceriffo se ne stavano in auto o ai loro posti. Nessuno parlava. Tutti aspettavano. Talley fermò l'auto accanto al marciapiede davanti alla casa della signora Pena e spense il motore. Guardò la postazione mobile di comando. Visto che nella casa non succedeva nulla, Maddox ed Ellison dovevano essere rientrati nel furgone, alternandosi al telefono; il negoziatore non impegnato poteva fare un pisolino sul furgone o sul sedile posteriore di un'auto. Talley era stanco. Sentiva un dolore alla schiena proprio in mezzo alle scapo-
le, un nodo di tensione che si irradiava a tutta la colonna. Aveva la testa annebbiata, non solo dalla fatica, e temeva di aver perso la lucidità di pensiero. Non era più un ragazzo. Entrò per bere una tazza di caffè, ma tornò subito alla sua auto. In cucina c'erano tre uomini della Stradale e due dello sceriffo, e lui non aveva voglia di parlare. Sedette sul cordolo del marciapiede con il Nokia e il suo cellulare posati accanto. Sorseggiò il caffè pensando ad Amanda e Jane, sedute insieme su un divano nella stanza anonima dove erano tenute in ostaggio, vive, sane e salve. Immaginarsele così aiutava. La ricetrasmittente agganciata al cinturone prese vita. «Capo, qui Cooper.» «Dimmi, Coop.» «Ehm, mi trovo all'ingresso sud. Ci sono dei tipi dell'Fbi che chiedono di lei.» Talley non rispose. Era troppo impegnato a respirare. Fissò la postazione mobile di comando e la fila di auto della polizia lungo la strada, gli agenti che si muovevano tra i veicoli. Si sentiva preoccupato, spaventato. Stava per diventare un traditore. Sarebbe stato come far entrare il nemico nel campo. Avrebbe mentito a questa gente, venuta lì per aiutare lui e le persone nella casa. «Capo? Dicono che lei li sta aspettando.» «Falli passare.» Talley andò fino all'angolo della strada. Non sapeva cosa aspettarsi e voleva incontrarli da solo, lontano dagli altri. Arrivato a un lampione si fermò: in quel modo avrebbe potuto vederli alla luce. Due furgoni grigi svoltarono l'angolo, quattro uomini a bordo del primo, due sul secondo. Talley alzò una mano per fermarli. I due furgoni accostarono al marciapiede, spegnendo il motore. Gli uomini all'interno avevano capelli corti e indossavano tute da combattimento nere, la divisa standard delle unità tattiche dell'Fbi. Uno degli uomini seduti dietro indossava un berretto con la scritta "Fbi". «Lei è Talley?» chiese l'autista del primo furgone. «Sì.» L'uomo seduto dalla parte del passeggero scese e girò intorno al muso del veicolo. Era più alto di Talley e muscoloso. Era perfetto: tuta nera, anfibi, capelli cortissimi. Portava una pistola nera infilata in una fondina sotto l'ascella sinistra. Si fermò di fronte a Talley, lanciò un'occhiata lungo la strada in direzio-
ne della casa, quindi tornò a voltarsi verso di lui. «Okay, capo. Mi mostri un documento. Voglio sapere con chi sto parlando.» Talley sollevò la felpa quel tanto da mostrare il distintivo. «Non me ne faccio un cazzo di quello. Voglio vedere una fotografia.» Talley tirò fuori il portafoglio e gli fece vedere un documento con fotografia. Quando l'uomo fu soddisfatto, tirò fuori la custodia del distintivo e l'aprì perché Talley lo vedesse. «Okay. Io sono l'agente speciale Jones.» Talley esaminò le credenziali che identificavano l'uomo come William F. Jones, agente speciale del Federal Bureau of Investigation. C'era anche una foto. Sembrava un documento autentico. «Non perda tempo a chiedere i documenti a tutti. Ogni uomo della squadra ne ha uno.» «E vi chiamate tutti Jones?» Jones chiuse l'astuccio con un colpo secco e lo mise via. «Non faccia lo spiritoso, capo. Non se lo può permettere.» Diede un colpetto al muso del furgone, facendo un cenno all'autista. Le portiere dei due veicoli si aprirono. Gli altri cinque uomini scesero, dirigendosi verso il retro del secondo furgone. Come Jones, anche gli altri erano perfetti, dagli stivali al taglio di capelli. Indossarono giubbotti antiproiettile con il logo dell'Fbi stampato sulla schiena. «Tra qualche minuto il suo telefono squillerà» disse Jones. «Sa a quale telefono mi riferisco. Quindi, chiariamo prima alcune cose. Mi sta ascoltando?» Talley stava osservando gli uomini. Dopo i giubbotti indossarono delle nuove protezioni per le cosce, il tutto con gesti calcolati ed efficienti. Dal retro del secondo furgone qualcuno cominciò a distribuire passamontagna neri, granate stordenti ed elmetti. Gli uomini piegarono il passamontagna in due e lo infilarono sotto un passante sistemato sulla spalla, dove sarebbe stato a portata di mano. Agganciarono le granate all'imbracatura con gesti precisi e gettarono gli elmetti sui sedili oppure li posarono sul tetto del furgone. Talley conosceva quei gesti perché li aveva compiuti un sacco di volte quando lavorava nell'unità tattica della Swat. Questi uomini dovevano averli fatti altre volte. «La sto ascoltando. Lei prima faceva il poliziotto.» «Non si preoccupi di cosa facevo prima. Ora ha altre cose di cui preoccuparsi.»
Talley lo guardò. «Come potete pensare che funzionerà? Lo sceriffo ha mandato un'unità di crisi al completo. Si incazzeranno e cominceranno a fare delle domande.» «Sono perfettamente in grado di occuparmi di loro e di qualsiasi altra cosa. Come mi chiamo?» Talley non capiva cosa cavolo volesse. «Come?» «Le ho chiesto il mio nome. Ha appena visto il mio tesserino. Come cazzo mi chiamo?» «Jones.» «Bene. Io sono l'agente speciale Jones. Pensi a me in questi termini e non farà stronzate. Io sono perfettamente in grado di fare la mia parte. Sua moglie e sua figlia pregano che lei sappia fare la sua.» Talley aveva la testa che gli pulsava, il collo così teso che sembrava in fiamme, ma riuscì ad annuire. Jones si voltò a guardare la fila di veicoli. «Chi comanda, là?» «Il capitano Laura Martin.» «L'ha già avvertita del nostro arrivo?» «No. Non sapevo cosa dire.» «Bene. Meno tempo ha per fare domande, meglio è. L'uomo al telefono, lei sa a chi mi riferisco, le ha detto che copertura useremo?» «Smith è inserito nel programma di protezione testimoni.» «Esatto. Smith è nel nostro programma, quindi è cosa nostra. Come mi chiamo?» Talley arrossì per la rabbia, ma si sforzò di dominarsi. Sembrava tutto fuori controllo, surreale starsene lì alla luce del lampione, con le falene che sbattevano contro il vetro e quegli agenti che non erano agenti. «Jones. Lei si chiama Jones. Però vorrei tanto sapere il suo vero nome.» «Stia calmo, capo. Noi dobbiamo collaborare. Io comando un'unità operativa speciale che stava conducendo delle esercitazioni insieme agli uomini della Dogana quando Washington è venuta a sapere quello che sta accadendo qui. Hanno chiamato lei, spiegandole la situazione e chiedendo la sua collaborazione. Abbiamo degli obblighi nei confronti di Smith, dobbiamo proteggerlo, lui e la sua copertura, e quindi lei ha accettato. Spiegherò tutto questo al capitano Martin. Lei non dovrà fare altro che stare a sentire e annuire. Ha capito?»
«Ho capito.» «Al capitano non piacerà la nostra presenza, ma non farà storie perché quello che le diremo ha un senso.» «E se decidesse di controllare? Se conoscesse qualcuno dell'ufficio di Los Angeles?» «È mezzanotte passata di venerdì sera. Se chiama Los Angeles troverà solo un agente di servizio, e questo dovrà chiedere a qualcun altro, cosa che non vorrà fare. Anche se chiamasse l'agente responsabile di Los Angeles e lo svegliasse, quello aspetterà domani per parlare con Washington, perché nessuno, assolutamente nessuno, ha motivo di dubitare di noi. E poi non staremo qui molto a lungo.» Jones porse a Talley un biglietto da visita bianco con il sigillo dell'Fbi impresso nell'angolo sinistro in alto e un numero telefonico di Washington. «Se quella si mette in testa di controllare, le dica che questo è il tizio che l'ha chiamata. Può parlare con lui quanto vuole.» Talley si mise il biglietto in tasca, chiedendosi se il nome sul biglietto fosse quello di un vero agente. Probabilmente sì. Il solo pensarlo lo terrorizzò. Era come un avvertimento: questo ti fa capire quanto siamo potenti. Talley lanciò un'occhiata agli uomini. Erano pronti. Dal secondo furgone un uomo stava distribuendo MP5, CAR-15 e relativi caricatori. «Cosa avete intenzione di fare?» «Lei e io chiariremo la situazione con gli uomini dello sceriffo. Due dei miei uomini faranno una ricognizione della casa, per vedere come siamo messi. Dopodiché ci schieriamo in posizione e aspettiamo che l'uomo chiami. Lei ha il suo telefono, io ho il mio. Quando lui dà l'ordine, ci muoviamo. Se nella casa dovesse succedere qualcosa che ci costringe ad agire prima del tempo, agiremo. Ma continueremo ad avere il controllo delle operazioni finché non avremo recuperato l'obiettivo. Dopodiché, la casa è sua.» Talley pensò alle parole dell'uomo, pensò che doveva aver già compiuto azioni simili per l'esercito, i Ranger, o magari le Forze speciali. «Non riuscirò a tenere fuori gli altri, lo sa bene. Gli uomini dello sceriffo entreranno, e io con loro.» Jones incrociò il suo sguardo e scosse la testa. «Senta, amico, se questo la può aiutare, noi non vogliamo uccidere nessuno, neppure quei tre stronzi che hanno causato tutto questo casino. Vogliamo solo la roba che si trova nella casa. Ma sapremo cos'è necessario solo dopo aver fatto irruzione. Prima di recuperare quello che vogliamo,
dobbiamo rendere sicura la scena. E lo faremo. Siamo dei professionisti.» Il telefono prese a squillare nella tasca di Talley. Ne aveva uno nella tasca destra e uno in quella sinistra, e non ricordava più quale fosse. Tirò fuori il cellulare dalla tasca sinistra. Era il Nokia. Suonò di nuovo. «Risponda, capo.» Talley premette il tasto di risposta. «Talley.» «Il signor Jones è con lei?» «Sì, è qui.» «Me lo passi.» Talley porse il Nokia a Jones senza dire una parola. L'uomo se lo portò all'orecchio, dicendo il proprio nome per far capire all'interlocutore che era in linea. Talley lo osservò. Aveva gli occhi azzurri o grigi, non era facile capirlo alla luce debole del lampione. Era sui quarantacinque anni, forte e in perfetta forma fisica. Mentre parlava, i suoi occhi continuavano a guizzare nervosi verso gli uomini dello sceriffo. Talley pensò che forse aveva paura. Qualunque uomo sano di mente avrebbe avuto paura nella sua posizione. Talley si chiese quale potere avesse l'Uomo con l'orologio su di lui, o se Jones lo facesse per i soldi. Jones finì di parlare e restituì il telefono a Talley. «Andiamo, capo. È ora.» «Cosa ha su di lei?» Jones lo fissò, poi distolse lo sguardo senza rispondere. «Io so perché lo faccio. Ma lei? Che cos'ha su di lei?» Jones allacciò il giubbotto, più stretto di quanto fosse necessario, così stretto che le cinghie tiravano. «Lei non sa un cazzo.» Jones si avviò lungo la strada. Talley lo seguì. KEVIN La puzza di benzina era così forte nell'ambiente ristretto dell'ingresso che a Kevin bruciavano gli occhi e sentiva in bocca un sapore metallico. Ebbe un rigurgito, l'acido gli risalì in gola, poi non riuscì più a trattenersi e vomitò, schizzando il muro. Dennis, nella saletta con la sua vodka, era troppo brillo per accorgersene. Sarebbero morti.
A Kevin tornò in mente una storia sentita alla scuola elementare, su come gli africani delle zone costiere catturavano le scimmiette che vivevano sulla riva. Praticavano un buco in una noce di cocco grande quel tanto che la scimmietta potesse infilarvi la zampa e dentro alla noce di cocco mettevano una nocciolina sporca di miele. L'animale infilava la zampa per afferrare la nocciolina ma, essendo stretta a pugno, non riusciva più a tirarla fuori. Finché stringeva la nocciolina, la scimmia non poteva estrarre la zampa. Le scimmie erano così ghiotte delle noccioline coperte di miele che non le lasciavano andare neppure quando i cacciatori si avvicinavano per catturarle con le reti. Dennis era la scimmia in quella casa: circondato dalla polizia, ma deciso a non mollare la sua nocciolina. Kevin entrò nel piccolo bagno vicino all'ingresso e si spruzzò dell'acqua sul viso. L'occhio e il labbro si stavano gonfiando per le percosse ricevute da Dennis. Si sciacquò la bocca, si lavò il viso, passandosi l'acqua tra i capelli e sul collo. Dopo le sparatorie, la paura, la fuga e l'incubo di quella giornata, finalmente capì cosa doveva fare e perché. A dispetto dell'infanzia trascorsa insieme, a dispetto del fatto che il fratello le avesse prese per difenderlo, a dispetto degli orrori che avevano sopportato insieme, lui non sarebbe morto con suo fratello. Dennis era disposto a morire per del denaro che non poteva avere, ma lui no. Avrebbe preso i due ragazzi e tutti e tre sarebbero fuggiti. Che Dennis e Mars facessero pure quello che volevano. Kevin si asciugò il viso e poi tornò nella saletta per vedere se Dennis era ancora là. Si aspettava che lui e Mars gli impedissero di andarsene. Sapeva che avrebbero potuto farlo e voleva portare i ragazzi fuori dalla casa senza essere visto. I piedi di Dennis spuntavano dal divano: era ancora lì, sdraiato sulla schiena. Sbirciò dentro lo studio alla ricerca di Mars, ma non lo vide. Pensò che fosse tornato in soggiorno, alla porta finestra, ma all'improvviso ebbe la sensazione che lui lo stesse osservando attraverso i monitor. Kevin scivolò lungo il corridoio verso la camera da letto matrimoniale. Se Mars era nella stanza di sicurezza, gli avrebbe detto che Dennis lo voleva nuovamente di guardia sul davanti della casa, ma la stanza da letto era vuota, come pure gli armadi a muro e la stanza di sicurezza. Kevin osservò i monitor. Vide la polizia all'esterno, suo fratello nella saletta e la ragazza nella sua camera, ma non vide Mars. Pensò che forse avrebbe fatto meglio a rompere i monitor o a, trovare un modo per spegnere il sistema di sorveglianza, ma se si fosse mosso in fretta, non aveva più importanza; una volta presi i ragazzi, sarebbe stato fuori nel giro di pochi secondi oppure non sarebbe uscito affatto.
Kevin tornò di corsa nell'ingresso e salì le scale. Bussò piano, due volte, alla porta della ragazza, tolse il chiodo dallo stipite ed entrò. La ragazza era raggomitolata sul letto, gli occhi aperti, tutte le luci accese. Quando vide la porta aprirsi, gettò i piedi giù dal letto e si alzò. «Cosa vuoi?» «Shh. Parla piano.» Kevin aveva paura. Era un uomo, eppure si sentiva un bambino ogni volta che si opponeva al volere di suo fratello. Certe volte il misto di paura e desiderio di compiacerlo era così forte da impedirgli di muoversi. «Ce ne andiamo da qui.» La ragazza pareva confusa. Guardò prima la porta, poi lui. «Dove mi portate?» «Non con loro. Voglio dire, non con Dennis e Mars. Porto via te e tuo fratello. Loro li lasciamo qua.» La ragazza si accorse dei segni delle percosse sul volto di Kevin e lui arrossì. «Cosa ti è successo?» «Non ha importanza. Dennis non vuole arrendersi. Resterà qui a ogni costo, ma noi no.» «Ci lasciano andare?» «Dennis e Mars non lo sanno. Ce lo impedirebbero, quindi dobbiamo stare attenti, ma noi ce ne andiamo da qui. Loro facciano quello che vogliono.» La ragazza pareva incerta. Lanciò un'altra occhiata alla porta. «Vuoi venire o no? Ti sto offrendo la possibilità di uscire da qui» disse Kevin. «Non posso andarmene senza Thomas.» «Lo so. Ce ne andremo tutti e tre, ma dobbiamo fare attenzione e muoverci in fretta. Allora vuoi venire o no?» «Voglio venire!» «Resta qui e comportati come se niente fosse. Io vado a prendere Thomas e torno. Quando saremo tutti e tre insieme, scenderemo per le scale e usciremo. Ce l'hai una federa bianca?» «Usciamo dalla porta? Così?» «Certo. Però abbiamo bisogno di una bandiera bianca o qualcosa di simile, così i poliziotti non ci sparano addosso.» Kevin capiva che la ragazza era spaventata, ma anche eccitata e ansiosa di abbandonare la casa.
«Sì, certo. Ce l'ho una federa.» «Preparala, mentre io vado a prendere tuo fratello. Quando torno, non dire una parola. Seguimi e cerca di non fare rumore, ma tieniti pronta. Dovremo fare in fretta.» Lei annuì con convinzione. «Sì, certo.» Kevin aprì piano la porta e sbirciò. Dal piano di sotto proveniva un debole chiarore. Il corridoio sembrava più buio di prima, avvolto in un'oscurità che gli fece desiderare di avere con sé una torcia. Udì delle voci e si preoccupò. Se Mars e Dennis erano nello studio, li avrebbero visti scendere le scale. Kevin si chiuse la porta alle spalle e scivolò silenzioso lungo il corridoio, le orecchie tese. Per ben due volte le assi del pavimento scricchiolarono, facendolo trasalire. Arrivato al pianerottolo si fermò per ascoltare meglio, e provò un'ondata di sollievo: le voci provenivano dal televisore. Tornò indietro verso la camera del ragazzo, dicendosi di far presto, di far piano, di farlo adesso, altrimenti il momento sarebbe passato e lui sarebbe rimasto intrappolato in quella casa con Dennis e Mars e sarebbe morto. Kevin aveva così tanta paura che gli riusciva difficile ragionare. Il ragazzo, la ragazza, fuori. Continuò a ripeterselo come un mantra. Qualcosa si mosse nell'oscurità davanti a lui. Kevin si bloccò, tutti i sensi all'erta, il cuore che batteva all'impazzata. La ragazza doveva essere uscita dalla camera. «Resta nella tua stanza» sussurrò. Un'ombra scura si spostò nel buio fuori dalla camera, ma non rispose. Kevin si sforzò di vedere nella caverna senza fondo del corridoio, ma inutilmente. Il pavimento scricchiolò alle sue spalle. Kevin si voltò di scatto. Mars era a pochi centimetri da lui, illuminato da dietro dalla luce proveniente dalle scale. Kevin fece un balzo all'indietro. Se non fosse riuscito a tenerlo lontano dalla porta d'ingresso erano fottuti. Pensò alla stanza di sicurezza, il punto della casa più lontano dalla porta. «Mars! Mi hai spaventato. Ti stavo cercando. Dennis vuole che vai a controllare i monitor in camera da letto.» Lui gli si avvicinò, il volto pallido e privo di espressione. «Ti ho sentito, con la ragazza, Kevin. Te ne vuoi andare.» Kevin arretrò. Mars lo seguì, standogli vicino in modo inquietante. «Stronzate, Mars. Non so di cosa stai parlando.»
«Non rovinare una cosa buona, Kevin. Te ne pentiresti.» Kevin provò una fitta di rabbia che lo fece tremare. Chi se ne frega. Mars aveva sentito, tanto valeva che sentisse tutto. Kevin smise di arretrare. «E allora resta! Io ne ho abbastanza. Siamo in trappola. È finita! Se restiamo la polizia ci ucciderà. Non lo capisci?» Mars abbassò lo sguardo su di lui, pensieroso. Poi si fece da parte. «Capisco, Kevin. Se vuoi andare, vai.» Kevin attese ancora un po', pensando che Mars fosse sconvolto o arrabbiato, che lo avrebbe trascinato di sotto da Dennis, ma Mars si limitò a sollevare una mano, indicandogli la via delle scale. La sua voce era conciliante. «Va'.» Kevin lanciò uno sguardo verso la camera di Thomas. «Porto con me i ragazzi.» Mars annuì. «Bene. Va' pure.» Kevin lo fissò, poi si voltò ed entrò nelle tenebre. TALLEY Dopo che Talley e Jones ebbero parlato con il capitano Martin, Jones portò i due furgoni all'imbocco della strada. Talley tornò alla sua auto, dove rimase tutto solo a osservare i furgoni. Jones e uno dei suoi uomini, un tizio biondo con i capelli a spazzola e gli occhiali cerchiati di metallo, si allontanarono per perlustrare il perimetro. Talley si sentiva un traditore, un codardo. Era tornato alla macchina in modo da evitare i suoi uomini e quelli dello sceriffo. Quando lui e Jones erano saliti sul furgone della postazione mobile di comando, non era riuscito a guardare in faccia il capitano Martin e aveva lasciato che fosse l'altro a parlare. Quando Jones e il suo uomo scomparvero nel cul-de-sac, la strada rimase deserta. Il capitano Martin scese dalla postazione mobile di comando, vide Talley a bordo dell'auto e si avvicinò. Si era tolta il giubbotto antiproiettile e tutta la roba che gli agenti della Swat si portano addosso, e indossava solo la tuta verde scuro e un berretto con la scritta "Boss". Talley la osservò avvicinarsi, sperando che proseguisse verso la casa della signora Pena, ma lei
venne a mettersi accanto alla sua auto. Si fermò a pochi passi di distanza, tirò fuori un pacchetto di sigarette e ne offrì una a Talley. «Non fumo.» Laura Martin accese la sigaretta senza dire una parola. Aspirò a fondo, poi espirò una boccata di fumo, che si espanse per l'aria della notte come una coltre di nebbia. Talley non conosceva molti agenti della Swat che fumassero. Non andava bene per il fiato. Quando il capitano parlò, il suo tono era calmo e ragionevole. «Vuole dirmi cosa sta succedendo?» Talley fissava il fumo. «Cosa intende dire?» «Non sono stupida.» Talley non rispose. «Tutte quelle telefonate. La scena in ambulanza fra lei e il medico, quando voleva che svegliasse Smith. Pensavo che stesse per sparargli. La sua conversazione con il ragazzo, la corsa verso l'ospedale. Avevo là il mio agente per l'intelligence, Talley; a nessuno risulta che siano state fatte minacce di morte nei confronti di Smith, neppure al suo ufficio.» Tirò un'altra boccata, studiandolo. «E ora arriva l'Fbi con questa stronzata secondo la quale Smith sarebbe nel loro programma di protezione. Cosa sta succedendo, capo? Chi è Walter Smith?» Talley le lanciò un'occhiata: lo sguardo di lei era fermo, tranquillo e privo di cattiveria. A Talley piacevano i suoi modi diretti, l'atteggiamento misurato. Pensò che, se ne avesse avuto il tempo, sarebbe arrivato a trovarla gradevole; probabilmente era una brava poliziotta. All'improvviso tutto il peso della giornata gli crollò addosso con un'intensità che lo lasciò quasi stordito. Troppe cose da tenere sotto controllo, troppe bugie da raccontare. Era tutto troppo complicato, e lui non poteva permettersi di commettere errori. Come un giocoliere con cento palle per aria, prima o poi ne avrebbe lasciata cadere una. Una palla per terra e qualcuno sarebbe morto. Non poteva permetterlo. Non poteva abbandonare Amanda e Jane, o i ragazzi nella casa, e neppure Walter Smith. «Ho bisogno di aiuto.» «È per questo che siamo qui, capo.» «Le dice qualcosa il nome Sonny Benza?» Lei scrutò il suo volto, e Talley pensò che non conoscesse quel nome.
Ma non era così. «Il mafioso, giusto?» «Smith lavora per lui. Smith ha qualcosa in casa sua che può rovinare Benza, e Benza lo vuole.» «Cristo.» Talley la guardò e sentì gli occhi riempirsi di lacrime. «Ha preso mia moglie e mia figlia.» Il capitano Martin distolse lo sguardo. Talley le disse dei dischetti, dell'Uomo con l'orologio e di Jones. Le raccontò di come aveva gestito la cosa e come intendeva mandarla avanti. Lei ascoltò senza fare domande né commenti finché lui non ebbe concluso, poi spense la sigaretta schiacciandola con il piede e si voltò a guardare i due furgoni a bordo dei quali aspettavano gli uomini di Jones. «Deve informare l'Fbi.» «Non posso.» «Si rivolga al Dipartimento crimine organizzato. Con gli elementi che ha in mano potrebbero muoversi subito, tirare Benza giù dal letto e incriminarlo. Noi facciamo irruzione nella casa, prendiamo i dischetti che lui voleva e fine della storia. E così salva la sua famiglia.» «Però, non è la sua famiglia.» Lei fissò la sigaretta spenta e fece un sospiro. «No, suppongo di no.» «Io ho solo una voce al telefono, capitano. Non so dove sono, non so chi le tiene prigioniere. Benza ha delle persone, qui sul posto, è informato di cosa stiamo facendo. Potrebbe far sparire Jane e Amanda prima ancora che riusciamo a leggergli i suoi diritti, e a me cosa resterebbe? Tre uomini che non sono in grado di identificare, a bordo di auto che non esistono, e Jones. Non me ne frega un accidente di incriminarlo. Io rivoglio la mia famiglia.» Laura Martin rimase a fissare i due furgoni, e sospirò di nuovo. Sarebbe stata una lunga notte per tutti. «Non ho intenzione di lasciar commettere alcun omicidio, qui, Talley. Non posso farlo.» «Neanch'io.» «E allora cosa farà?» «Non posso permettere che quei dischetti vengano ritrovati. Sono l'unica merce di scambio che ho.» «Cosa vuole che faccia?»
«Che mi aiuti. Tenga tutto per sé, ma mi aiuti a prendere quei dischetti. Non posso lasciar entrare Jones in quella casa da solo.» Talley la guardò, sperando che acconsentisse. Non poteva impedirle di rivolgersi ai suoi superiori: doveva fidarsi di lei. Lei ricambiò il suo sguardo e annuì. «Farò quello che posso. Mi tenga informata, Talley. Non voglio beccarmi una pallottola nella schiena. E non posso neanche mettere a repentaglio la vita dei miei uomini.» Talley si sentì meglio; il peso era diminuito perché ora lei lo aiutava a portarlo. «Ho solo bisogno di quei dannati dischetti. Se li trovo, avrò qualcosa da scambiare.» Lei lo osservò, quindi rimise le sigarette nella tasca della tuta. Talley capì cosa stava per dire ancora prima che aprisse bocca. «Lei ha bisogno di molto di più. Sa troppe cose perché Benza la lasci vivo. Se ne rende conto, vero? Lei, la sua famiglia, Smith: non può lasciare vivo nessuno di voi. Cos'ha intenzione di fare?» «Ci penserò quando avrò in mano quei dischetti.» Il cellulare di Talley squillò, rumoroso nel silenzio della notte. Il capitano Martin trasalì. «Merda.» Talley pensò che fosse Thomas, ma era Mikkelson. Sembrava lontana e aveva una voce strana. «Capo, Dreyer e io siamo ancora qui alla roulotte con gli investigatori dello sceriffo. Ho delle novità.» Talley si era completamente dimenticato di Mikkelson e Dreyer. Gli ci volle un minuto per raccogliere le idee. «Dimmi, Mikkelson.» «Krupchek non si chiama Krupchek. Il suo vero nome è Alvin Marshall Bonnier. Tiene la testa della madre nel freezer.» Parte quarta STRATEGIE 23 Sabato, 00.52
TALLEY Alvin Marshall Bonnier, ventisette anni, noto anche come Mars Krupchek, era ricercato per quattro omicidi compiuti a Tigard, Oregon. Le autorità locali avevano ricostruito la seguente catena di eventi in base alle deposizioni dei testimoni e ai rilievi della Scientifica: Bonnier, che a quell'epoca viveva con la madre, aveva rapito e violentato una vicina, Helen Getty, di diciassette anni, abbandonandone il corpo nel letto di un ruscello in una zona fitta di vegetazione. La ragazza era stata strangolata e ripetutamente pugnalata al petto, all'addome e alla vagina. Qualche tempo dopo, la signora Bonnier, inferma e affetta da una grave forma di artrite, aveva scoperto le mutandine e la scarpa sinistra della Getty macchiate di sangue nella camera del figlio. Lo aveva affrontato, e lui l'aveva uccisa a pugnalate nel soggiorno, poi aveva portato il cadavere in bagno per farlo a pezzi. Bonnier aveva avvolto arti e torso in fogli di giornale e sacchetti di plastica per la spazzatura e poi seppellito il tutto sotto i cespugli di rose della madre. I vicini avevano raccontato che quando il figlio era piccolo, la donna era solita fare delle bacchette con i rami spinosi delle rose per picchiare il ragazzo. Bonnier aveva tenuto la testa della madre in frigo, per poi trasferirla alcuni giorni dopo nel bagagliaio dell'auto di famiglia. Con la testa della madre al seguito per tenergli compagnia, aveva fatto amicizia in un centro commerciale con un ragazzo sedicenne di nome Stephen Stilwell, e l'aveva convinto a fare un giro in macchina, probabilmente offrendogli birra e sigarette. Invece, Bonnier aveva portato Stilwell in un vicino cinema all'aperto abbandonato, dove lo aveva sodomizzato e poi ripetutamente accoltellato. Messo il corpo nel bagagliaio insieme alla testa della madre, si era quindi recato nella stessa zona dove si era già sbarazzato del cadavere di Helen Getty. Arrivato sul posto si era accorto che Stilwell era ancora vivo; allora gli aveva tagliato la gola, mutilato i genitali e abbandonato i resti senza neppure tentare di occultarli. Alcuni testimoni al centro commerciale erano stati in grado di fornire una descrizione di Bonnier e della sua auto. Dodici giorni più tardi, una diciottenne liceale di nome Anita Brooks aveva chiesto un passaggio a Bonnier dopo aver perso l'autobus. Invece di accompagnarla a scuola, Bonnier l'aveva portata a un lago lì vicino, dove l'aveva strangolata prima di bruciarle seni e vagina con le sue stesse sigarette. Prove raccolte sulla scena del delitto indicavano che Bonnier aveva sistemato la testa della madre su un tavolo da picnic perché potesse osservare la mutilazione. Bonnier era tornato immediatamente a casa, aveva parcheg-
giato l'auto al solito posto e poi, secondo quanto appurato dalla polizia, si era subito allontanato. Le autorità avevano scoperto per primo il cadavere di Anita Brooks, senza sospettare di Alvin Marshall Bonnier, finché due giorni dopo i vicini, insospettiti dal cattivo odore che proveniva dalla casa dei Bonnier, si erano convinti a chiamare la polizia, che aveva rinvenuto il cadavere della madre sotto i cespugli di rose. Stilwell e la Getty furono ritrovati la settimana seguente. Talley ascoltò il resoconto di Mikkelson con una crescente impazienza, che non sfuggì al capitano Martin. «Cosa diavolo sta succedendo?» Talley alzò una mano, facendole segno di aspettare. «Mikki, siamo sicuri che Bonnier e Krupchek siano la stessa persona?» «Affermativo, capo. L'impronta palmare che ha lasciato nel minimarket corrisponde perfettamente, e quelli dell'Fbi hanno portato una copia dei mandati d'arresto emessi in Oregon. Ho visto la foto. È Krupchek.» «Cosa sta succedendo lì, adesso?» «La segnalazione al Vicap ha automaticamente allertato l'Fbi. I detective dello sceriffo hanno isolato la scena in attesa che arrivi una squadra da Los Angeles.» Talley guardò l'orologio. «Quando dovrebbero arrivare?» «Non lo so. Vuole che chieda?» «Sì.» Mentre aspettava Mikkelson in linea, Talley mise al corrente il capitano Martin, che ascoltò con un'espressione cupa e perplessa. Mikkelson tornò in linea prima che lei potesse fare commenti. «Capo?» «Dimmi, Mikki.» «I federali dovrebbero essere qui tra un paio d'ore. Vuole che li aspettiamo o che torniamo lì?» Talley le disse di tornare, quindi chiuse il cellulare con un colpo secco. Si passò una mano tra i capelli e fissò la casa. «Fantastico. Qua fuori abbiamo la mafia, dentro Freddy Krueger.» Il capitano lo osservava, calma. «Questo cambia le cose.» «Lo so che cambia le cose, capitano! Sto cercando di salvare mia moglie e mia figlia, ma devo tirare fuori quei ragazzi da là.» «Per via di Krupchek? È tutto il giorno che sono là dentro con lui. Qual-
che ora in più non farà differenza.» «Invece sì. Eccome.» Talley lasciò Laura Martin alla postazione di comando e trovò Jones che stava impartendo istruzioni ai suoi. Jones lo vide avvicinarsi e si staccò dagli altri. Talley si accorse che sembrava nervoso, e teneva la mano posata sull'MPS appeso alla spalla. «Cosa c'è, capo?» «Abbiamo un problema. Uno dei tre soggetti nella casa non è quello che credevamo. Krupchek. Il suo vero nome è Alvin Marshall Bonnier. È ricercato per omicidio plurimo in Oregon.» Jones fece un sorriso tirato, come se Talley avesse fatto una battuta niente affatto divertente. «Mi sta prendendo per il culo.» «No, e c'è dell'altro che le piacerà ancora meno. La vera Fbi sta venendo qui. Non sto scherzando, Jones, o come diavolo si chiama. Gli uomini dello sceriffo hanno rilevato un'impronta sul banco del minimarket che questi stronzi hanno rapinato. Hanno trovato una corrispondenza sul Vicap. Sa che cos'è?» Jones non sorrideva più, ma l'accenno all'archivio degli arresti per crimini violenti non sembrava preoccuparlo granché. «Lo so.» Talley gli spiegò che gli uomini della Omicidi dell'Ufficio dello sceriffo si trovavano in quel momento al domicilio di Krupchek, in attesa dell'arrivo degli agenti dell'Fbi da Los Angeles. «Perlustreranno la sua casa e poi verranno qui. E non se ne andranno. Domani mattina questo posto sarà invaso dall'Fbi, compresa una vera squadra Swat.» «A quell'ora noi ce ne saremo già andati. Aspettiamo solo l'ordine per l'irruzione.» «Io voglio entrare adesso.» Jones scosse il capo. «Finché non ho ricevuto la telefonata, no.» Talley non sapeva se Jones fosse sospettoso o semplicemente non capisse. «Mi ascolti. Le cose sono cambiate. Non si tratta più di tre balordi che tengono in ostaggio una famiglia. Quei ragazzi sono prigionieri di un pazzo.» «Andrà tutto bene, Talley.»
«Stiamo parlando di un uomo ricercato per diversi omicidi, Jones. Ha tagliato la testa alla madre e l'ha messa nel freezer.» «Non me ne frega un cazzo.» «È uno psicopatico. Gli psicopatici sottoposti a forte stress si scompensano, e questo tizio si trova dentro una pentola a pressione da questa mattina. Potrebbe fare qualsiasi cosa.» Jones fu irremovibile. «Faremo irruzione dopo che sarà arrivata la telefonata.» «Vada a farsi fottere.» «Dopo la telefonata.» Talley si allontanò. Vide che il capitano Martin lo osservava dal furgone, ma non avrebbe saputo cosa dirle. Ripensò alla conversazione con Rooney e concluse che lui non conosceva la vera identità di Krupchek. Se avesse consapevolmente fatto comunella con un serial killer, questo avrebbe significato che traeva un piacere indiretto dalla sua compagnia. Il bisogno di Rooney di essere considerato speciale lo avrebbe spinto a seminare indizi sull'identità di Bonnier nella speranza di far colpo su Talley, ma Rooney non l'aveva fatto. Rooney non sapeva nulla, e quindi poteva cadere vittima di Bonnier quanto tutti gli altri. Talley si voltò a guardare verso Jones. Aspettava insieme ai suoi uomini dietro i furgoni. Aspettava la telefonata. Talley decise che non poteva più attendere. Doveva mettere in guardia Rooney e Thomas, e far uscire di là i ragazzi. In quel momento si udì un urlo provenire dalla casa. DENNIS Dennis allungò una mano verso la bottiglia di Stolichnaya e ruzzolò dal divano, cadendo a faccia in giù in una pozza di vodka. Finì con il sedere per aria, rivolto verso il davanti della casa, in direzione dei poliziotti che affollavano il cul-de-sac. Dennis si siede un colpetto sul deretano, ridendo. «Peccato che voi poliziotti non potete vedermi! Potreste darmi un bacio sul mio bel culo bianco!» Dennis raccolse la bottiglia e si mise in piedi. Si aggrappò ai braccioli del divano per non cadere all'indietro, poi prese la pistola dalla cintola. Tenerla in mano lo faceva sentire meglio. Il televisore trasmetteva l'immagine di una donna che reclamizzava un attrezzo ginnico. Aveva degli addo-
minali così ben scolpiti da sembrare un atlante anatomico. Dennis rimase a guardarla con un senso di profondo smarrimento, poi si portò la pistola alla testa. «Bang.» Abbassò l'arma. «Merda.» Lasciò cadere la pistola sul divano e si mise a fissare il denaro. Mazzette di banconote da cento dollari erano allineate sul tavolino. Ne tirò fuori altre dalle tasche e le aprì come fossero mazzi di carte. Aveva cercato in ogni modo di tenere quei soldi, ma non c'era riuscito. Aveva cercato di farsi dare una macchina e un elicottero, aveva cercato di corrompere Talley. Niente da fare. Dennis Rooney era a corto di idee, e cominciava a pensare che forse i suoi genitori e i suoi insegnanti non avevano tutti i torti: era uno stupido. Era un fallito, uno sfigato, uno che viveva di sogni, e lo sarebbe sempre rimasto. Venne preso dall'impeto folle di scappare con una borsa piena di soldi, di correre attraverso l'oscurità in un ultimo, debole tentativo, ma dentro di sé sapeva che la polizia lo avrebbe ucciso, e lui non voleva morire. Non aveva le palle. Nonostante volesse quei soldi a tutti i costi, Dennis Rooney fu costretto ad ammettere con se stesso di essere uno stronzo. Lacrime di rimpianto e di vergogna gli riempirono gli occhi. Kevin aveva ragione. Era ora di arrendersi. Dennis si asciugò il naso e cercò di riprendersi. «E va bene. È andata così.» Lanciò il denaro per aria e rimase a osservare le banconote verdi che scendevano svolazzando tutt'intorno a lui, poi chiamò il fratello. «Kev!» Kevin non rispose. «Mars!» Niente. «Oh, merda!» Dennis si lanciò in corridoio e andò in cucina. Era ancora avvolta dall'oscurità, illuminata solo dalla luce dei fari della polizia che filtrava dalle porte finestre. Aveva bisogno di un bicchiere d'acqua. Poi avrebbe chiamato Talley. Pensò che avrebbe potuto mollare uno dei ragazzi in cambio di un colloquio con un avvocato, per valutare quale accordo poteva fare prima di arrendersi. «Kevin, dove cazzo sei?» Ecco. Quel figlio di puttana lo aveva implorato di arrendersi, e adesso
che lui era pronto, quella mezzasega era sparito. «Mars!» La voce proveniente dall'altro lato della cucina lo fece trasalire. «Cosa stai facendo, Dennis?» Dennis si voltò come un veliero in virata, strizzando gli occhi per vedere nel buio. «Dov'è Kevin?» «Non è qui.» «Dov'è? Ho bisogno di parlargli.» Dennis voleva chiarire le cose con Kevin prima di parlarne con Mars. Una parte di lui temeva che Mars potesse tentare di fermarlo. Mars prese forma alla luce. Dennis pensò che Kev doveva essere andato in dispensa o in garage. «Kevin non c'è.» Dennis era sempre più seccato. Non capiva. «Questo non mi dice niente, Mars. È nella stanza di sicurezza, nello studio, o cosa? Devo parlargli.» «Non voleva più stare qui. Se n'è andato.» Dennis fissò Mars. Ora aveva capito, ma non voleva crederci. No. Kevin non poteva averlo abbandonato. «Un momento! Mi stai dicendo che se n'è andato nel senso che ha preso la porta e si è arreso?» «L'ho sentito parlare con la ragazza.» «COSA?! QUEL PEZZO DI MERDA!» «Mi dispiace, Dennis. Sono sceso a cercarti.» Dennis provò un senso di nausea. Se Kevin si era arreso portando con sé i ragazzi, gli aveva tolto l'unica possibilità di fare un accordo con Talley. «Ha portato via anche i ragazzi?» «Non lo so.» «Cristo, Mars! Va' su a vedere! Se li ha portati via siamo fottuti!» Mars salì senza dire una parola. «KEVIN! SEI UNO STRONZO!» urlò Dennis con quanto fiato aveva in corpo. Poi lanciò la bottiglia di vodka contro il frigorifero con tanta forza che si fece male a una spalla. Tornò a grandi passi verso la saletta per prendere un'altra bottiglia. Anche quando voleva arrendersi dovevano succedere dei casini. THOMAS
Thomas udì Dennis e Kevin litigare attraverso la bocchetta dell'impianto di condizionamento. Kevin voleva arrendersi, Dennis no. Thomas capiva bene cosa significava: se Dennis non voleva arrendersi, quei tre stronzi sarebbero restati là per giorni, e uno di loro avrebbe potuto cercare di fare del male a sua sorella. Thomas aveva visto come Mars la guardava. Le urla si placarono in fretta. Thomas attese che qualcuno salisse, ma il corridoio rimase silenzioso. Pensò che forse stavano cercando di dormire. Si infilò nell'armadio a muro e tornò nel sottotetto. Pensò di fermarsi nella camera di Jennifer per dirle cosa aveva in mente, ma la sorella non voleva che lui toccasse la pistola. Attraversò tutta la casa, fermandosi ad ascoltare a ogni bocchetta di aerazione, ma sentì solo il televisore acceso nella saletta. Il resto della casa era silenzioso. Si calò attraverso la botola nella lavanderia, scendendo sul boiler e da lì sulla lavatrice e poi a terra. Era buio: l'unica, debole luce filtrava dalla cucina attraverso la dispensa. Fu costretto a ricorrere alla torcia. Come toccò terra, sentì Dennis che chiamava Kevin e Mars. Dennis era vicino, in cucina dall'altra parte del muro, o forse nella saletta. Thomas venne preso dal panico. Fece per risalire verso la botola, ma in quel momento Mars rispose e allora lui si bloccò. Stavano parlando. Thomas aveva ancora paura, ma era arrivato così vicino alla pistola che non voleva dover rinunciare un'altra volta. Si sforzò di sentire cosa dicevano. Dennis stava imprecando contro il fratello. Non stavano andando da quella parte, non cercavano lui. Thomas corse nel laboratorio. Mise una mano davanti alla torcia e l'accese di nuovo, il tempo strettamente necessario a localizzare il punto esatto sopra il bancone, poi la spense e si arrampicò. Si sollevò in punta di piedi, allungandosi più che poteva, ma non riuscì ad arrivare alla scatola. Accese di nuovo la torcia e vide una latta di pittura da cinque litri posata sul bordo del bancone. La mise in posizione, vi montò sopra con un piede e salì. Il barattolo cigolò ma resse. Thomas si allungò di nuovo e questa volta le sue mani trovarono la scatola della pistola. Ce l'aveva fatta! La tirò giù dallo scaffale, scese dalla latta e poi dal bancone. Il cuore gli batteva forte per l'eccitazione. La scatola era molto più pesante di quanto avesse immaginato. Pareva che ci fosse dentro una mitragliatrice! Thomas tirò fuori la pistola. Era pesante come un mattone e di gran lunga troppo grande per la sua mano. Thomas non sapeva che calibro fosse,
non se ne intendeva, anche se una volta, al poligono, suo padre gli aveva permesso di sparare un colpo. Il rinculo era stato così forte che gli aveva fatto male! Thomas aveva bisogno delle mani libere per risalire, e così se la infilò nei pantaloni. La pistola lo faceva sentire potente, ma allo stesso tempo lo spaventava. La sicurezza di poter proteggere se stesso e la sorella lo riempiva di ottimismo, ma non voleva far male a nessuno. Sperava di non doverla usare. Thomas stava per tornare nella lavanderia, quando scivolò. Per poco non cadde, ma riuscì ad aggrapparsi al bancone appena in tempo. Esplorò il pavimento con il piede e trovò qualcosa di bagnato e scivoloso. Alzò la scarpa che si staccò da terra come se fosse finita in un lago di colla. Thomas accese la torcia. Un liquido scuro come l'olio si stava spandendo sul pavimento. Lo seguì con il raggio della torcia. Veniva dal ripostiglio delle scope. Thomas allargò le dita per far filtrare un po' più di luce dalla torcia. Quell'olio era rosso. Nella mente di Thomas, la porta del ripostiglio diventava sempre più grande, mentre si avvicinava progressivamente come l'inquadratura di uno zoom. Lo spazio angusto del ripostiglio si restrinse, mentre la porta aumentava di dimensioni. Dimenticò la pistola: ora esisteva solo la porta e quel liquido rosso e viscoso che filtrava da sotto. Thomas fissava la porta. Avrebbe voluto aprirla. Avrebbe voluto fuggire. Scavalcò la pozza rossa, allungò la mano verso la maniglia, ma non riuscì a toccarla. Le sue dita restavano a pochi centimetri da essa. Aprila! Thomas afferrò la maniglia con attenzione, terrorizzato all'idea che qualunque cosa si trovasse dall'altra parte potesse cercare di tenerla chiusa. Aprì lentamente la porta. Kevin cadde all'esterno, crollando in un fagotto scomposto ai piedi di Thomas, le braccia senza vita intorno alle gambe del ragazzo. Aveva gli occhi spalancati, e la testa quasi staccata di netto, trattenuta ormai solo da un pezzo d'osso biancastro, la gola squarciata da parte a parte si apriva nell'orribile parodia di una risata silenziosa. Thomas urlò. JENNIFER Jennifer ascoltava dietro la porta, l'orecchio premuto contro il legno
freddo, sperando che Kevin tornasse. Doveva soltanto arrivare in fondo al corridoio per prendere Thomas, ma ci stava mettendo così tanto che le venne il dubbio che fosse stato bloccato da Mars o da Dennis. Aveva lo stomaco annodato e si premette un pugno contro il ventre nell'inutile tentativo di alleviare la tensione. Il piccolo coltello nascosto nelle mutandine le punse la pelle, facendola trasalire. Spostò la lama in modo che non le desse fastidio. Il pavimento del corridoio scricchiolò. Kevin! Sentì il chiodo che veniva estratto dallo stipite. Era eccitata, felice, pronta a scappare. Voleva rivedere suo padre. Voleva stringere Thomas così forte da soffocarlo. Voleva abbracciare la mamma! La porta si spalancò ed entrò Mars, alto, grosso, ingombrante come un orso. Jennifer arretrò così bruscamente che per poco non cadde. Il sorriso di lui le ricordava quei ragazzi malvagi che danno fuoco alle formiche. «Aspettavi qualcun altro?» disse lui. Lei si allontanò dalla porta, sperando che Kevin tornasse subito. Mars era un individuo orrendo. Si costrinse a guardarlo in faccia senza abbassare gli occhi. «Non aspetto nessuno, a parte la polizia.» Mars annuì, arrendevole. «Arriveranno presto. Probabilmente non dovrai aspettare molto.» Jennifer maledisse la propria linguaccia: non le piaceva ciò che lui diceva, né il modo in cui lo diceva. Voleva solo che se ne andasse. Mars entrò nella stanza e chiuse la porta. Aveva in mano il chiodo che usavano per bloccare la porta. Lo batté distrattamente contro la propria gamba. A Jennifer non piaceva che avesse chiuso la porta, non le piaceva che giocherellasse con il chiodo. Incrociò le braccia sul petto in un gesto di difesa. «Cosa vuoi?» Mars la osservò con occhi lucidi e nervosi, che contrastavano con la sua espressione inerte. Era come se non si trovasse lì nella stanza con lei, ma dall'altro lato di una parete di vetro, presente e allo stesso tempo lontano, come se da fuori guardasse dentro di sé, dentro il suo orribile mondo. «Cosa vuoi?» «Kevin se n'è andato senza di te.» Jennifer si sentì avvampare. Strinse le braccia con tanta forza che le un-
ghie le affondarono nella carne. Avrebbe voluto urlare. «Voleva che te lo dicessi. Ci ha pensato su e poi ha deciso che era troppo pericoloso svignarsela con te e tuo fratello all'insaputa di Dennis, e così se n'è andato da solo. Mi ha incaricato di dirti che gli dispiace.» Jennifer scosse il capo. Non sapeva più cosa credere, cosa fosse vero e cosa no, cosa Mars sapesse realmente. «Non so di cosa stai parlando.» Mars si avvicinò. «No? Be', non importa. Le luci sono quasi tutte spente.» «Cosa stai dicendo?» Mars sembrava farsi più alto a mano a mano che si avvicinava, pareva riempire tutta la stanza. Jennifer cominciò a indietreggiare. «I bravi ragazzi spengono le luci, così al buio nessuno li vede fare le cose brutte. Me l'ha detto mia madre.» Jennifer urtò con la schiena contro la scrivania. Non poteva più arretrare e adesso Mars era molto vicino. Lui batté con il chiodo contro il petto di lei. «Non toccarmi.» Tap-tap. «Smettila.» Tap. «Kevin se n'è andato. Dennis se n'è andato. Tuo padre se n'è andato. Anche il piccolo ciccione se n'è andato. Ora possiamo divertirci.» Le spinse il chiodo contro il petto, una pressione costante che faceva male, ma non le incise la pelle. Jennifer cercò di allontanarsi ancora, ma non poteva andare da nessuna parte. Mars fece correre il chiodo fra i suoi seni. Jennifer lo guardò negli occhi, la vista annebbiata dalle lacrime. Gli occhi di lui erano pozze di acqua nera, la superficie increspata da venti segreti. Sapeva che stava facendo qualcosa di brutto, sapeva che si stava comportando male. Mars non guardava il chiodo: Jennifer capì che traeva piacere dall'osservare la sua paura. Jennifer fece scivolare una mano verso il basso; infilò le dita sotto le mutandine cercando il coltello. Lui premette più forte il chiodo. Ansimava. Jennifer avrebbe voluto urlare. «Ti piace?» Jennifer afferrò il coltello e colpì alla cieca, cercando di spingerlo via. La lama corta e rigida urtò qualcosa di duro. Mars emise un grugnito di dolore e sorpresa, un suono simile al colpo di tosse di un cane. Il coltello era conficcato nella parte alta del torace, nella clavicola sinistra.
Mars emise un gemito, un uggiolio patetico, il volto contratto dal dolore. Jennifer gli diede uno spintone, urlando, cercando di scappare, ma lui non si mosse. Mars l'afferrò per la gola, stringendo forte, premendo le cosce contro quelle di lei per immobilizzarla contro la scrivania. Con la mano libera afferrò il coltello, e con un altro gemito estrasse la lama. Dalla ferita sbocciò un fiore color cremisi. Lui la guardò negli occhi e le avvicinò il coltello al viso. Strinse ancora di più la gola, impedendole di respirare. «Ti piacerà.» Jennifer credette di svenire. DENNIS L'urlo proveniente dal retro della casa si insinuò nel suo stupore alcolico, lasciandolo più sorpreso che spaventato. Era un urlo stridulo, come se fosse stata una ragazza a gridare, seguito da colpi sordi provenienti dal punto più lontano della cucina, vicino al garage. Dennis tirò fuori la pistola, gridando: «Che cazzo è stato? Chi c'è?». Non poteva essere Mars, che era appena uscito da lì, né i due ragazzi che si trovavano di sopra, a meno che quello stronzo di Kevin non fosse andato a prenderli. Forse Kevin era tornato. «Kev? Sei tu, stronzo?» Dennis accese la torcia ed esplorò la cucina. Nessuna risposta, nessun movimento. «Maledizione, chi c'è qui?» Niente. Dennis puntò la luce verso la porta finestra, terrorizzato al l'idea che la polizia gli stesse tendendo una trappola. «Talley?» Niente. Spianò la pistola davanti a sé e attraversò la cucina diretto in garage. «Sei tu, ciccione?» Niente. Dennis entrò nella dispensa e poi nel locale lavanderia. Il pavimento era coperto da una pozza rossastra che si allargava, venendo verso di lui. Dennis aggrottò la fronte, perplesso. Fece un passo avanti, poi un altro. Vide il fratello sul pavimento. Abbassò la pistola, raddrizzandosi. «Kevin, che cazzo?... Alzati.»
Venne assalito da un tremito profondo e violento, proveniente da dentro, che crebbe fino a che tutto il suo corpo ne fu scosso e il fascio di luce prese a sobbalzare come impazzito per il piccolo locale. «Kevin, alzati!» Dennis avanzò con passo incerto. Era difficile mantenere l'equilibrio. Giunto al limitare della pozza di sangue si fermò e puntò la torcia contro il fratello. Vide il collo squarciato, il grottesco osso bianco esposto tra la carne, gli occhi spalancati. Dennis spense la luce. Non potevano essere stati il ciccione e la ragazza. Mars. Mars aveva mentito. Mars aveva ucciso Kevin. Dennis arretrò fino alla cucina, poi corse verso le scale. «Mars!» Salì i gradini due alla volta, con l'unico scopo di trovare Mars e ucciderlo. Era arrivato a metà della scala quando sentì urlare la ragazza. «MARS!» Dennis si scagliò contro la porta, spalancandola e mandandola a sbattere contro la parete. Mars teneva la ragazza per la gola, spingendola contro la scrivania. Dennis puntò la pistola. «Sei morto, stronzo.» Con calma Mars girò la ragazza davanti a sé, bloccandogli la linea di tiro. Dennis vide il coltello e la macchia di sangue che si allargava sulla spalla sinistra. Mars gli sorrise con un'espressione innocente. «Cosa c'è che non va, amico? Perché sei così incazzato?» Dennis vide la faccia terrorizzata della ragazza, vide i suoi occhi gonfi e arrossati. Lei riuscì a pronunciare solo due parole: «Per favore». Dennis sollevò la pistola. Non voleva sparare con lei davanti, ma voleva piazzare un colpo in mezzo agli occhi di quel bastardo di Mars. Voleva sentirlo urlare. «Questo bastardo ha ucciso Kevin. Gli ha tagliato la gola. C'è sangue dappertutto.» Come se avesse bisogno dell'assoluzione di lei. La ragazza chiuse gli occhi e urlò ancora più forte. Dennis avrebbe dovuto essere pronto, ma non lo era. Avrebbe dovuto premere il grilletto, ma non lo fece. E poi fu troppo tardi.
Mars sollevò la ragazza per il collo e corse in avanti, caricandolo, coprendo in un lampo la distanza che li divideva. Dennis ebbe solo un attimo di esitazione perché non voleva colpire la ragazza, ma fu comunque troppo. La ragazza gli crollò addosso, spinta da tutta la massa del corpo di Mars, facendolo ruzzolare all'indietro, nel corridoio. Poi la ragazza venne scagliata di lato e Mars gli fu addosso. Dennis ebbe solo il tempo di vedere lo scintillio del coltello che calava su di lui. THOMAS Non riusciva a pensare razionalmente, era al di là delle sue possibilità: si sentiva preda di un terrore cieco che lo spingeva a scappare, a uscire da lì, a muoversi. Thomas non si era reso conto di aver urlato. Scivolò sul sangue, cadendo in pieno nella pozza rossa, poi scivolò di nuovo mentre saliva sulla lavatrice. Si arrampicò nel sottotetto, ferendosi mani e ginocchia sui travetti. Gli pareva di non muoversi abbastanza in fretta, e prese una zuccata tremenda. Ora aveva la pistola. Poteva salvarsi. Il suo unico pensiero era quello di raggiungere Jennifer. Sarebbero corsi giù per le scale, fuori dalla porta, e né Mars né Dennis avrebbero potuto fermarli. Aveva la pistola! Thomas udì la porta di Jennifer sbattere contro la parete proprio mentre si calava dalla botola nel suo armadio a muro. Si immobilizzò, restando in ascolto, e sentì delle voci. Dennis stava urlando contro Mars. Mars teneva Jennifer e Dennis stava di fronte a loro, urlando che Mars aveva tagliato la gola a Kevin. Thomas estrasse la pistola dai pantaloni. Era grossa e pesante, ma lui non sapeva cosa fare. Anche Dennis ne aveva una! Poi Mars spinse Jennifer contro Dennis, e tutti e tre caddero a terra in corridoio. Thomas scivolò silenzioso nella stanza. Mars grugniva come un maiale quando mangia, e la bava gli colava dalla bocca mentre continuava a pugnalare Dennis. Jennifer si stava allontanando, strisciando a terra, tutta sporca di sangue. «Jen! Vieni!» Thomas schizzò accanto a Mars nel corridoio, e afferrò la ragazza per il braccio, trascinandola verso le scale. «Scappa!» Si allontanarono incespicando, mentre Mars si tirava su. Gli occhi, spiritati, guizzavano di qua e di là. Era più grosso, più forte, più veloce. Thomas sapeva che li avrebbe presi.
Thomas si voltò, brandendo la pistola con entrambe le mani. «Ti sparo!» Mars si bloccò. Ansimava ed era coperto di sangue, sul volto e sul corpo. C'era sangue anche sulle pareti e sul pavimento. Dennis zampillava come una fontana e si lamentava. La pistola era pesante, difficile da reggere. Ondeggiava, nonostante Thomas la impugnasse a due mani. Jennifer lo tirò per una spalla, sussurrandogli: «Continua a camminare. Usciamo da qui». Arretrarono, con Thomas che cercava di tenere ferma la pistola. Mars li seguiva, passo dopo passo. «Sta' lontano o ti sparo!» Mars allargò le braccia come per stringerli entrambi, e continuò ad avanzare verso di loro. «Ricordi cosa ti ho detto quando ti ho legato al letto?» Thomas se lo ricordava benissimo. Ti mangerò il cuore. Arrivarono al pianerottolo. Jennifer fece per imboccare le scale. Mars accelerò il passo. «Ti strapperò il cuore. Ma prima lo strappo a tua sorella, così starai a guardare.» «Stammi lontano!» La paura saettò attraverso Thomas come corrente elettrica. Il suo corpo tremò, la vescica cedette. Non voleva sparare; lui aveva paura a sparare, paura che fosse una cosa sbagliata anche se era in pericolo la sua vita, paura che sarebbe stato punito per questo e sarebbe bruciato nel fuoco dell'inferno, sarebbe stato marchiato come una persona cattiva che aveva commesso un atto terribile, ma Mars veniva avanti e lui aveva troppa paura per non sparare, aveva paura di quell'orribile coltello e del sangue che colava e sporcava ogni cosa, paura che Mars l'avrebbe fatto veramente, che gli avrebbe strappato il cuore, il suo e quello di Jennifer, e se li sarebbe mangiati. Thomas premette il grilletto. Clic! Mars si immobilizzò, bloccato dal rumore secco. Clic! La pistola non sparò. Gli tornò in mente di colpo tutto quello che suo padre gli aveva insegnato al poligono. Afferrò con forza il carrello e lo tirò indietro per mettere un colpo in canna, ma questo si bloccò in posizione aperta. Thomas guardò
dentro la camera di scoppio. Era vuota. La pistola era scarica. Non c'erano proiettili. Non c'erano proiettili! Quando alzò lo sguardo vide che Mars sorrideva. «Benvenuto nel mio incubo.» «Scappa!» urlò Jennifer. Thomas lanciò la pistola contro Mars e corse via, seguendo la sorella giù per le scale. L'aria puzzava di benzina e vomito. Jennifer arrivò per prima alla porta d'ingresso e allungò una mano verso la maniglia, ma la porta non si aprì. «Aprila!» «Il chiavistello è bloccato! Dov'è la chiave?» La chiave non era nella toppa. Thomas capì che con tutta probabilità era di sopra, nella tasca di Dennis. Mars scese rumorosamente le scale, accorciando la distanza tra loro. Li avrebbe raggiunti in pochi secondi. Non sarebbero mai arrivati alle porte finestre o al garage. Lui li avrebbe raggiunti prima. Jennifer afferrò Thomas per il braccio e tirò. «Da questa parte! Scappa!» Lo tirò verso la camera dei genitori. Thomas capì che lei lo stava portando nel punto più sicuro della casa, ma Mars si stava avvicinando, era arrivato in fondo alle scale ed era dietro di loro. Thomas seguì la sorella, attraversando il corridoio e la camera dei genitori, e si infilò nella stanza di sicurezza. Riuscirono a chiudere la pesante porta di acciaio e a tirare il chiavistello nell'attimo in cui Mars si lanciava contro la porta, dall'altro lato. Il mondo diventò d'un tratto silenzioso. Thomas e Jennifer si abbracciarono, spaventati e tremanti. Thomas udiva solo il proprio respiro affannato. Poi Mars prese a battere sulla porta, colpi lenti e ritmici che echeggiavano nel piccolo locale... bum... bum... bum. Jennifer strinse la mano di Thomas, sussurrando: «Non ti muovere. Non può entrare qua». «Lo so.» «Siamo al sicuro.» «Sta' zitto!» Suo padre gli aveva detto che quella porta era in grado di fermare qualsiasi cosa. I colpi cessarono.
Mars si portò le mani a coppa intorno alla bocca, vicino alla porta e urlò per farsi sentire all'interno. La voce giunse attutita attraverso la lastra d'acciaio. «Siete cattivi, cattivi, cattivi. Ora vi punirò.» Mars diede un ultimo colpo alla porta, poi uscì dalla stanza. Thomas si ricordò del cellulare. Lo tirò fuori dalla tasca e lo accese. Accendendosi, il telefono pigolò. «Thomas! Guarda!» Jennifer stava osservando Mars sui monitor. Era nell'ingresso, davanti alla porta. Prese i due contenitori di benzina e cominciò a fare il giro della casa, rovesciandola sulle pareti. E intanto sorrideva. «Oh, mio Dio! Vuole bruciarci!» disse Jennifer. Il cellulare pigolò di nuovo e Thomas guardò il display. L'indicatore di carica lampeggiava. Il telefono stava per spegnersi. 24 Sabato, 02.16 MARS Mars spense le luci ancora accese a mano a mano che passava davanti agli interruttori. Uno dopo l'altro, l'ingresso, lo studio e la saletta piombarono nell'oscurità. Mars sapeva che i poliziotti avrebbero visto le luci spegnersi e si sarebbero chiesti il motivo. Andò in cucina. Trovò dei fiammiferi in un barattolo vicino ai fornelli, quindi spense le fiammelle pilota. Spruzzò benzina sul piano cottura e sui tubi del gas, poi tornò verso la camera da letto matrimoniale, versando una scia ininterrotta di carburante lungo le pareti. Il buio gli dava la forza dell'invisibilità; l'oscurità gli era amica. Mars pensò con rammarico che non avrebbe più rivisto sua madre, ma solo perché ci godeva un mondo a torturare quella strega schifosa. Sentì la voce di lei, viva e chiara nella mente. Non sopporto di vedere un ragazzo fare le cose brutte! Io non voglio vedere un ragazzaccio, Marshall! Perché mi costringi a punirti in questo modo? Non lo so, mamma.
Questo ti insegnerà a essere migliore. A lei non piaceva vedere un ragazzo fare le cose brutte, e così ora lui la costringeva a vederle tutte, e qualche volta anche a partecipare. Si rammaricò che non fosse con lui in quel momento: gli sarebbe piaciuto presentarla a Kevin e Dennis. Finito il primo secchio di benzina, Mars passò alla tanica, continuando la scia di carburante nella camera da letto. La rovesciò sul letto, sulle pareti e sulla porta della stanza di sicurezza. Poi tirò fuori i fiammiferi. THOMAS Thomas digitò il numero di Talley e premette il tasto di invio della chiamata. Il telefono si spense. «Thomas!» «La batteria è scarica! Ti dimentichi sempre di caricarla!» Jennifer gli strappò il telefono di mano e pigiò il tasto di accensione. Il cellulare pigolò e si accese, ma solo per spegnersi subito dopo. Jennifer scosse l'apparecchio, fuori di sé. «Pezzo di merda!» «Pensi che lo farà davvero?» «Non lo so!» «Forse dovremmo scappare!» «Non riusciremmo mai a farcela.» Thomas vide Jennifer estrarre la batteria del cellulare. Fregò con forza i contatti di rame sulla manica della maglietta, poi li leccò, e rimise la batteria al suo posto. «Cosa stai facendo?» «Thomas, io vivo attaccata a questo telefono. Conosco ogni trucco per farlo funzionare.» Sui monitor, Mars sorrise e poi accese un fiammifero, tenendolo ben alzato per essere certo che lo vedessero. La fiammella era una macchiolina bianca e tremolante sullo schermo. Lasciò che la fiamma prendesse vigore, quindi la avvicinò alla porta. Thomas afferrò Jennifer per un braccio. «Sta per farlo!» Jennifer premette il tasto d'accensione. Il cellulare prese vita con un tril-
lo e questa volta rimase acceso. Jennifer lo mise in mano a Thomas. «Tieni! Funziona!» Thomas digitò il numero di Talley, poi alzò lo sguardo verso i monitor. Mars fissava la telecamera come se stesse guardando dritto nei loro occhi e nei loro cuori. Poi Thomas vide che muoveva le labbra. «Cosa sta dicendo?» Jennifer afferrò Thomas e lo trascinò lontano dalla porta. «Sta dicendo addio.» Mars gettò il fiammifero. La stanza venne inghiottita dalle fiamme. TALLEY Quando Talley udì il primo urlo provenire dalla casa, prese posizione dietro un'auto della Stradale. Gli agenti erano agitati poiché lo avevano sentito anche loro. Talley non avrebbe saputo dire se si trattava di una voce maschile o femminile, ma era stato un grido isolato. Ora la casa era nuovamente silenziosa. Talley andò verso l'agente più vicino. «È sulla frequenza operativa?» «Sì, signore. Ha sentito? Credo che nella casa stia succedendo qualcosa.» «Dammi la tua radio.» Talley chiamò Laura Martin, che prese atto della comunicazione senza fare commenti. Talley si spostò lungo la fila di veicoli, cercando di sentire se dalla casa provenisse qualche altro rumore, ma era tutto silenzioso. Poi, una stanza dopo l'altra, le luci si spensero. Talley vide il capitano Martin avvicinarsi e le andò incontro. L'urlo lo aveva spaventato, ma il silenzio lo atterriva ancora di più. Jones era troppo lontano per averlo sentito. «Cosa succede? Perché la casa è al buio?» sbottò lei, eccitata. Talley aveva cominciato a spiegarle i fatti quando vide un riflesso arancione spostarsi all'interno della casa, incorniciando le tapparelle. Pensò che si trattasse di una torcia. Squillò il telefono. «Talley.» Era Thomas, ma non si distingueva una parola di quanto diceva perché urlava e il collegamento era pessimo.
«Parla più lentamente, Thomas, non ti capisco!» «Mars ha ucciso Kevin e Dennis e ora sta incendiando la casa! Io e Jennifer siamo nella stanza di sicurezza! Siamo in trappola!» Il collegamento stava perdendo di intensità. Talley sapeva che il ragazzo doveva aver esaurito la batteria. «Okay, figliolo. Ora vengo a prendervi! Quanta carica hai?» «Sta finendo.» Talley guardò l'orologio. «Spegnilo, figliolo. Spegnilo, ma riaccendilo fra due minuti. Sto arrivando!» Talley si sentiva stranamente distaccato, come se le sue sensazioni fossero ovattate. Ora non aveva altra scelta: doveva agire per salvare quei ragazzi. Non importava più cosa volesse l'Uomo con l'orologio, o Jones, e neppure che l'azione mettesse a rischio la vita di Jane e Amanda. Afferrò il capitano Martin per il braccio trascinandola con sé mentre correva lungo la strada verso Jones, urlando istruzioni strada facendo. «Krupchek ha dato fuoco alla casa! Chiami i pompieri!» «E Jones?» «Sto andando da lui. Entriamo!» «E sua moglie?» «Chiami i pompieri e dica ai suoi uomini di tenersi pronti. Se Jones non vuole venire, entreremo senza di lui!» Laura Martin rimase indietro, occupata con la radio. Talley corse verso Jones. «Krupchek ha incendiato la casa. Dobbiamo andare.» Jones si voltò a guardare la casa con espressione distaccata. Talley capì che non gli credeva. «Stiamo ancora aspettando istruzioni.» Talley lo afferrò per un braccio e lo sentì irrigidirsi. Alle loro spalle, il camion dei pompieri svoltò l'angolo rombando. «La casa è in fiamme, maledizione! I ragazzi sono intrappolati nella stanza di sicurezza. Non possiamo aspettare.» «Stronzate.» «Guardi!» esclamò Talley, dando uno spintone a Jones in direzione della casa. Attraverso la finestra della saletta ora si vedevano le fiamme. Le ricetrasmittenti della polizia presero vita mentre gli agenti di guardia al perimetro tenevano d'occhio l'incendio e quelli nel cul-de-sac si muovevano nervosi
dietro le loro auto, chiaramente in attesa che qualcuno facesse qualcosa. Hicks e la squadra tattica dello sceriffo arrivarono di corsa verso il capitano Martin. Jones sembrava bloccato, ogni decisione rimandata nell'attesa di quella telefonata. Talley lo tirò di nuovo per il braccio, costringendolo a voltarsi. «Io faccio irruzione nella casa, Jones. Viene con me o no?» «Entreremo quando ce lo dirà il nostro uomo. Non prima.» «Non possiamo aspettare!» «Uccideranno la sua famiglia.» «Quei ragazzi sono in trappola!» Jones impugnò il suo MPS. Talley fece scivolare la mano sotto la felpa e sfiorò la .45. «Vuole un conflitto a fuoco con il capo della polizia qui, in strada? Pensa davvero di riuscire a mettere le mani su quei dischetti in questo modo?» Jones lanciò un'altra occhiata alla casa e fece una smorfia. Niente di tutto ciò era nei piani. All'improvviso ogni cosa era sfuggita al controllo, e Jones, come Talley, era stato spazzato via dalla tempesta. Jones prese una decisione. «E va bene, maledizione, ma saremo solo noi a entrare. Metteremo al sicuro la struttura e poi recupereremo i dischetti.» «Se non fa partire subito i suoi uomini, entreranno prima i pompieri.» Misero a punto il piano d'attacco mentre correvano verso la casa. MARS Le fiamme si propagavano lentamente, avviluppando le porte e le pareti come fiori su un graticcio. Mars le seguì mentre avanzavano seguendo la scia di benzina che lui aveva sparso per tutta la casa. Aveva pensato che il fuoco sarebbe divampato con un boato sordo, e invece si sviluppava con sorprendente lentezza. L'aria si riempì di un fumo nero che puzzava di catrame. Mars voleva della musica. Andò nella saletta, dove aveva visto un bell'impianto stereo. Si sintonizzò su una stazione locale di hip-hop, alzando il volume al massimo. Prese una bottiglia di scotch e tornò in camera da letto. Il letto era un inferno di fuoco. Le fiamme coprivano porte e pareti, un fitto strato di fumo si stava accumulando contro il soffitto. Il calore lo co-
strinse a stringere gli occhi. Mars si tolse la maglietta e bevve. Controllò la pistola del cinese e vide che c'erano ancora un sacco di proiettili, poi tirò fuori il coltello. Si accucciò in un angolo, lontano dalle fiamme e sotto il fumo. Guardò la porta. Sperava che la stanza di sicurezza diventasse rovente e i ragazzi si spaventassero così tanto da aprire la porta per fuggire. Allora si sarebbe divertito. TALLEY Due uomini avrebbero sfondato la porta d'ingresso, altri due la porta finestra, mentre Talley e Jones sarebbero entrati attraverso la finestra di una camera degli ospiti situata accanto a quella padronale. Una volta dentro, Jones avrebbe chiamato via radio il sesto uomo, il quale avrebbe mandato in frantumi le porte finestre scorrevoli della camera da letto padronale per distrarre l'attenzione di Krupchek dalla porta, che sarebbe stata la via di accesso per l'attacco. Ognuno di loro avrebbe portato con sé un estintore per domare le fiamme. Talley non aveva tempo di andare a prendere il giubbotto antiproiettile in macchina e se ne fece prestare uno da un agente della Stradale, lo indossò sopra la felpa, e poi si mise l'estintore a tracolla. I pompieri corsero in avanti con le manichette, rimanendo al coperto finché dalla casa non fosse venuta la comunicazione che i soggetti ostili erano stati neutralizzati. Una volta deciso il piano d'attacco, Talley chiamò Thomas. Il collegamento era ancora più debole della volta precedente, e Talley gli disse di lasciare il cellulare acceso. Riaccenderlo avrebbe probabilmente richiesto più energia di quanta se ne poteva risparmiare. Jones non fece commenti sul fatto che Talley e il ragazzo si stessero parlando. Il capitano Martin si avvicinò a Talley mentre Jones disponeva i suoi uomini. «Cosa vuole che faccia?» «Non lo so.» «Lascerà che si prendano i dischetti?» «Non so cosa farò, capitano, davvero non lo so. Ora devo tirare fuori di là quei ragazzi.» Talley finì di chiudere il giubbotto e sistemò la ricetrasmittente. Tutto procedeva alla perfezione, senza parole o gesti inutili. Quando fu pronto, guardò Jones.
«Pronti?» Jones indossò l'elmetto, poi si scosse un'ultima volta per sistemare l'attrezzatura. «Si ricordi, Talley.» «Facciamolo e basta.» Jones partì in direzione della casa. Talley gli lasciò un passo di vantaggio, poi si voltò verso il capitano Martin. «Se io non dovessi farcela, non lo lasci andare via. Informi chi di dovere e cerchi di salvare la mia famiglia.» «Lei si preoccupi solo di uscirne vivo» ribatté il capitano, e prima che lui potesse rispondere si voltò per gridare ai suoi uomini di restare ai loro posti. Talley raggiunse Jones all'angolo esterno, davanti alla finestra della camera per gli ospiti. Udirono una musica forte e martellante provenire dalla casa in fiamme. Talley era contento di questo, poiché il rumore della musica e dell'incendio avrebbe coperto il loro ingresso. Tolsero la zanzariera e Jones forzò la finestra con un piede di porco. Spinse via il pannello e fece un cenno con i pollici alzati a Talley, indicando che la stanza era vuota. Sollevarono gli estintori e li posarono all'interno, quindi aspettarono. Non sarebbero entrati nella casa finché gli altri non fossero stati in posizione. Talley tirò fuori il telefono e chiamò Thomas. «Thomas?» «Sono qui, capo.» La voce del ragazzo gli giunse frammentata e coperta di scariche elettrostatiche. «Ci siamo quasi. Tre minuti, forse quattro. Appena prendiamo Krupchek entreranno i pompieri.» «Fa molto caldo qui dentro.» «Lo so. Krupchek è ancora lì nella stanza?» Talley voleva continuare a far parlare il ragazzo. Finché parlava, non aveva tempo di rendersi conto di quanto fosse spaventato. E neanche Talley. «È seduto per terra vicino al...» La linea si interruppe. «Thomas? Thomas?» Niente. Il cellulare del ragazzo si era scaricato del tutto. Jones si voltò verso Talley e fece roteare un dito. Si stavano preparando
ad attaccare. «Andiamo, maledizione.» Jones puntò il dito verso la finestra. «Via!» Jones entrò per primo. Talley gli diede una spinta per aiutarlo e poi si arrampicò dietro di lui. La stanza era illuminata solo dalla piccola barriera di fiamme che avvolgeva la porta verso il corridoio. La camera da letto padronale era a soli tre metri da lì. Jones sparò alla serratura con il suo MP5, Talley mise il colpo in canna. Accesero le torce e si scambiarono un'occhiata. Talley annuì. Jones attivò il microfono. «Ora.» Talley udì le finestre scorrevoli della camera da letto padronale andare in frantumi nello stesso momento in cui la porta d'ingresso saltava per aria, divelta dai cardini. Dalla camera da letto vennero due colpi in rapida successione. Talley e Jones si lanciarono lungo il corridoio mentre nella camera echeggiava un terzo sparo, e poi entrarono. La camera da letto era un inferno. L'uomo che aveva infranto le finestre era a terra, ferito, e si contorceva per il dolore. Talley avvertì un movimento alla sua destra e vide Krupchek sollevarsi in piedi dietro una grossa poltrona di legno, a petto nudo, luccicante di sudore e furioso, un sorriso distorto sul volto. Krupchek urlò, un urlo stridulo, puntando la pistola verso di loro e sparando mentre Talley e Jones aprivano il fuoco. Krupchek barcollò all'indietro, facendo mulinare le braccia, e cadde tra le fiamme, dimenandosi e continuando a urlare. Jones gli scaricò addosso altri due colpi, e lui rimase immobile. Deposero gli estintori mentre gli altri uomini di Jones entravano nella stanza con le armi spianate. «La stanza è sicura!» urlò Talley. Jones puntò il dito verso i primi due e indicò loro l'uomo ferito. «Tu e tu. Portatelo fuori, sul furgone.» Talley diresse brevi getti dell'estintore contro la porta della stanza di sicurezza e chiamò Jones perché lo aiutasse. «Jones! I ragazzi sono qua dentro.» Jones spinse l'altro uomo verso la porta. «Lo studio è sul davanti della casa. Assicurati che il corridoio sia libero.» «Mi aiuti a liberare i ragazzi!»
Jones e l'ultimo uomo si unirono a Talley. Gli estintori sibilavano come draghi. Le pareti rosse diventarono nere a mano a mano che le fiamme che le avvolgevano si affievolirono. Talley batté sulla porta con l'estintore. «Thomas! Sono io!» Le fiamme sulle pareti ripresero forza, mangiando la pittura. «Thomas!» Talley diresse il getto sulla porta mentre questa si apriva. Il ragazzo e la sorella si ritrassero, temendo di essere investiti dal calore. Jones afferrò Talley per un braccio. «Sono tutti suoi, Talley. Noi prendiamo i dischetti.» Talley li lasciò andare. Spruzzò nuovamente le pareti intorno alla porta per respingere le fiamme, poi entrò e prese il ragazzo per mano. «Dobbiamo fare in fretta. State dietro di me.» Jennifer gli si avvicinò, guardandosi intorno nervosamente. «È morto?» Quando la vide, Talley provò una fitta di dolore. Jennifer e Amanda avevano più o meno la stessa età. Erano pettinate allo stesso modo. Si chiese dove fosse sua figlia in quel momento. Si chiese se anche lei stesse cercando il suo mostro. «È morto, Jennifer. Venite, ragazzi. Siete stati bravissimi.» Talley fece strada in corridoio, ricorrendo all'estintore ogni volta che le fiamme minacciavano di avvicinarsi troppo. Si fermò solo il tempo necessario a sintonizzare la ricetrasmittente sulla frequenza della polizia di Bristo e chiamare Mikkelson. «Mikki!» «Dica, capo!» «I ragazzi stanno uscendo dalla porta principale. Occupati di loro.» Quando arrivarono nell'ingresso, Talley riuscì a vedere dentro lo studio. Jones e i suoi uomini stavano perquisendo la scrivania di Smith. Talley scostò Thomas di lato perché loro non lo vedessero, consapevole che quelli erano gli ultimi momenti che gli restavano per salvare la sua famiglia. L'Uomo con l'orologio doveva sapere che erano entrati nella casa. Avrebbe chiamato Jones per avere un rapporto e si sarebbe aspettato i dischetti. Talley si chinò verso il ragazzo. «I dischetti sono ancora su nella tua camera?» «Sì, nel mio computer.» Talley indicò l'agente Mikkelson che aspettava nel cul-de-sac e spinse i ragazzi verso la porta.
«Andate da lei. Correte!» Talley attese finché non vide i ragazzi correre verso le auto, quindi imboccò le scale. Al piano superiore l'aria era invasa da un fumo così denso che il raggio della torcia si ridusse a un debole alone di luce. Non si vedeva a più di un metro di distanza. Avanzò lungo la parete e trovò Rooney a terra, fuori dalla prima porta. Bolle rosse si affollavano sul petto e sulla bocca del ragazzo come funghi di vetro. Talley non avrebbe saputo dire se fosse vivo o morto, e non perse tempo a controllare. Allontanò la pistola di Rooney con un calcio, guardò dentro la prima stanza i pochi istanti necessari a capire che era quella di Jennifer. Proseguì lungo il corridoio. La seconda stanza era quella di Thomas. Talley trovò il computer per terra, ai piedi del letto. Un dischetto era posato sul pavimento, l'altro era inserito nel drive accanto alla tastiera. Talley vi puntò la torcia per leggere le etichette, con il cuore che batteva forte, e capì di averli trovati: "Disco Uno" e "Disco Due". L'unica merce di scambio per salvare la sua famiglia! «Talley!» Talley sussultò, e vide il capitano Martin ferma sulla soglia. Indossava il casco allacciato stretto e aveva la pistola nella fondina sul fianco. «Li ha trovati?» Talley le si avvicinò. Ora il fumo si era fatto più denso. Talley vide le fiamme in fondo al corridoio. «Dov'è Jones?» le chiese. «Stanno buttando all'aria lo studio. Ma non hanno trovato nulla.» «Il ragazzo li aveva in camera sua» disse Talley, mostrandole i dischetti. Voleva uscire senza incontrare Jones e si avviò verso le scale. Il capitano lo afferrò per il braccio, sollevando la pistola. «Me li dia.» Talley rimase scioccato dal suo tono. Osservò l'arma, e poi vide che la donna lo guardava con occhi nervosi. «Di cosa sta parlando?» «Mi dia quei dischetti.» Talley guardò di nuovo la pistola e capì, senza ombra di dubbio, che la donna era sul libro paga di Benza. Scosse la testa. «Quando sono arrivati a lei?» Il capitano tolse la sicura. «Mi dia quei dischetti, Talley e riavrà la sua famiglia.» Lui sapeva che non era così. Sapeva che quando Sonny Benza si fosse sentito al sicuro, chiunque era a conoscenza del suo rapporto con Smith sa-
rebbe morto. Talley arretrò, tenendo i dischetti lungo il fianco. Una volta che lei li avesse avuti, lo avrebbe ucciso. Sarebbe stato più facile, così. «Dov'è Jones?» «È di sotto. Lui non sa nulla.» «Cosa intende fare, capitano? Raccontare che sono stato colpito nella confusione? Intende dare la colpa a Krupchek e Rooney?» «Se necessario.» «Quanto la pagano?» «Più di quanto lei possa immaginare.» La donna sollevò ancora di più la pistola. «Ora mi dia quei dischetti.» Le fiamme salirono lungo le scale, in fondo al corridoio. Talley vide le lingue rossastre danzare nel fumo, e in quel bagliore qualcosa si mosse. «Me li dia, Talley. È l'unico modo per uscire vivo da qui.» Un'ombra si sollevò da terra. «Rooney è vivo.» Lei lanciò un'occhiata veloce di lato, ma tornò subito a voltarsi verso di lui. Non gli credeva. «Mi dia i dischetti!» Dennis Rooney avanzò barcollando verso di loro, lo sguardo vitreo, grondante sangue. Aveva trovato la pistola. «Martin!» Lei si voltò, ma non abbastanza in fretta. Rooney sparò prima che lei potesse puntargli contro la pistola. Qualcosa di duro colpì Talley al petto. Il proiettile seguente colpì Laura Martin alla coscia, il terzo alla guancia, sotto l'occhio destro. Mentre la donna ruotava lentamente su se stessa nel fumo, accasciandosi al suolo, Talley estrasse la pistola e fece fuoco. 25 Sabato, 02.41 TALLEY Il potente proiettile della .45 di Talley scaraventò Dennis Rooney contro la parete, imbrattandola di sangue. Talley gli saltò addosso, piantandogli
un ginocchio in mezzo al petto e gettando lontano la sua pistola, ma questa volta Rooney era davvero morto. Talley cercò di capire se la squadra di Jones stesse salendo le scale, ma non si riusciva a distinguere alcun rumore oltre il crepitio delle fiamme. Chiamò Mikkelson via radio. «Hai i ragazzi?» «Abbiamo sentito degli spari!» «Hai i ragazzi?» «Sì, signore. Sono al sicuro.» «Gli agenti dell'Fbi hanno portato fuori un uomo ferito. Sono tutti e tre sul furgone.» «Ricevuto. L'abbiamo visto.» La mente di Talley andava a mille. Aveva lanciato l'offensiva e ora doveva portare a termine l'attacco. Era una lotta contro il tempo. Doveva togliere l'iniziativa all'Uomo con l'orologio e sfruttare il vantaggio. «Chiama Jorgenson e Cooper. Se Larry è tornato, chiama anche lui. Arrestateli. Toglietegli radio e cellulari, ammanettateli e non permettetegli di comunicare con nessuno.» «Cioè... dobbiamo arrestare gli agenti dell'Fbi?...» «Non sono dell'Fbi. Arrestateli, Mikki. Sono armati e pericolosi. State molto attenti. Falli portare dentro, ma non devono parlare con nessuno. Ripeto: niente telefonate, niente giornalisti, avvocati, niente di niente. Non dite a nessuno di questo. Hai capito bene?» «Ehm... certo, capo.» «Resta in contatto.» Ora era solo una questione di velocità. L'Uomo con l'orologio poteva anche venire a sapere che i suoi uomini erano stati arrestati, ma le sue informazioni sarebbero state frammentarie e incomplete. Non poteva sapere cosa fosse successo o perché, quindi non poteva fare nulla contro Jane e Amanda finché non avesse appurato tutti i dettagli. Talley contava su questo. Era in gioco la vita della sua famiglia. Se esisteva anche una sola speranza di salvarla, doveva sbrigarsi, prima che l'Uomo con l'orologio venisse a sapere quello che stava succedendo. Talley si infilò i dischetti sotto il giubbotto e corse verso le scale. Il fuoco nell'ingresso si era propagato su per le scale e sulle pareti. Il fumo era una foschia arancione in movimento. Talley scese le scale tenendo d'occhio lo studio, e arrivò alla porta proprio mentre usciva uno degli uomini di Jones. Talley gli puntò la pistola alla faccia, portandosi un dito alle lab-
bra per fargli segno di restare zitto, poi gli tolse la pistola e l'MPS. Quindi lo ammanettò e lo spinse dentro. Jones stava perlustrando il pavimento intorno alla scrivania, il fascio della torcia quasi azzerato dal fumo. Tutti i cassetti erano aperti, il contenuto sparpagliato a terra. Un secondo uomo stava tirando giù i libri dagli scaffali. Entrambi alzarono lo sguardo quando Talley spinse il loro compagno a terra. Talley puntò la pistola contro di loro. Non avvertiva più il calore del fuoco: era così carico di adrenalina e di paura da curarsi solo dei due uomini che aveva davanti. «Mani sopra la testa e dita intrecciate. Voltatevi con la schiena verso di me.» «Che cazzo sta facendo?» chiese Jones. Il secondo uomo spostò l'MPS, ma Talley lo centrò con un colpo: il pesante proiettile gli trapassò il giubbotto. Durante ogni anno trascorso nella Swat, Talley aveva sparato diecimila colpi nel poligono di addestramento del Dipartimento di polizia di Los Angeles. Non ebbe la minima esitazione. Poi puntò la pistola contro Jones. «Mani sopra la testa. Ora!» Sempre continuando a tenere Jones sotto tiro, Talley tolse le armi all'uomo a terra, poi gli controllò il battito tastandogli il collo, quindi andò da Jones. Gli prese la pistola e l'MPS, li gettò insieme agli altri, poi strappò il cavo di alimentazione del computer di Smith. Costrinse Jones a sdraiarsi a pancia in giù e gli tirò le braccia dietro la schiena, puntandogli la pistola contro il collo. «Se ti muovi ti ammazzo.» Talley gli piazzò un ginocchio alla base della schiena e gli legò i polsi. Voleva portarlo fuori dalla casa, ma non voleva che venisse ripreso dalla televisione. Attivò la ricetrasmittente. «Mikki?» «Capo, sta bene? Abbiamo sentito altri spari.» «Fa' avvicinare i tiratori scelti, poi porta la tua auto sul retro della casa, in Flanders Road. Aspettami lì.» Talley sapeva che le troupe televisive si sarebbero concentrate sui cecchini. Voleva che l'attenzione di tutti fosse puntata sul davanti della casa, non sul retro. Non voleva che l'Uomo con l'orologio potesse vedere qualcosa in televisione.
«Cosa sta succedendo?» «Tu fallo e basta!» Talley spinse Jones e l'altro superstite sul retro della casa. L'incendio stava divorando l'edificio: la carta da parati si staccava dalle pareti e dai soffitti cadevano pezzi di intonaco. Quando arrivarono alle porte finestre, Talley sintonizzò la ricetrasmittente sulla frequenza operativa dello sceriffo e ordinò agli uomini sul retro di spegnere i riflettori. Il giardino precipitò nell'oscurità. Talley spinse fuori i due uomini e li costrinse ad andare subito verso il muro. Quando il supervisore della squadra dello sceriffo vide che Talley aveva legato i due agenti dell'Fbi, chiese: «Che cazzo sta succedendo?». «Mi aiuti a portare di là questi tizi.» Talley saltò a terra nell'attimo in cui Mikkelson e Dreyer scendevano dall'auto. Gli agenti della Swat fissavano Jones e l'altro uomo, i giubbotti con sopra la scritta "Fbi" grande come una casa, ammanettati e trascinati di peso oltre il muro. Il sergente chiese di nuovo a Talley cosa stesse succedendo, ma questi lo ignorò. «Il capitano Martin è dentro. Di sopra. È stata colpita.» Talley ottenne ciò che voleva. I poliziotti della Swat scavalcarono il muro e corsero verso la casa. «Sei finito, Talley» disse Jones. «Non sono io quello con le mani legate.» «Tu sai cosa farà, vero? Lo capisci?» «Io ho i dischetti, figlio di troia. Ora vedremo quanto li desidera il tuo capo.» Quando Mikkelson vide i due agenti dell'Fbi, la sua espressione si fece confusa. «Accidenti. Mi sono persa un passaggio?» «Questa gente non è dell'Fbi.» Talley costrinse il primo uomo a salire sul sedile posteriore dell'auto, poi spinse Jones contro il parafango. «Dove si trovano?» «Non lo so. Io non c'entro con quella storia.» «E lui dov'è?» «Non lo so.» «Come si chiama?» «Non funziona così, Talley. È solo una voce al telefono.»
Talley frugò nelle tasche di Jones e trovò il cellulare. Digitò asterisco-69, ma non accadde nulla. «Merda!» Premette il cellulare contro la faccia di Jones. «Qual è il numero?» «Io ne so quanto te.» Talley gli diede una ginocchiata nello stomaco. «Oh, merda!» esclamò Dreyer. Talley sbatté Jones contro l'auto. «Tu lo sai benissimo, il numero!» «Voglio un avvocato.» Talley gli diede un'altra ginocchiata, facendolo piegare in due. Mikkelson e Dreyer cominciarono ad agitarsi, a disagio. «Capo...» «Questi bastardi hanno rapito la mia famiglia.» Talley alzò il cane della .45 e puntò l'arma contro la guancia di Jones. «Stiamo parlando di mia moglie e di mia figlia, brutto figlio di puttana. Credi davvero che non ti ammazzerei?» Talley non era più sulla Flanders Road. Era entrato nel Limbo, un luogo immerso nel rumore bianco, in cui regnavano le emozioni e la ragione scarseggiava. La rabbia e il furore erano biglietti di sola andata, il panico un treno senza fermate. Ci aveva messo tutto il giorno per arrivarci, ma ora eccolo lì. I ragazzi della Swat ne parlavano spesso. Se entravi nel Limbo perdevi la lucidità, ti giocavi la carriera. Finivi con il farti ammazzare o, peggio ancora, con il far ammazzare qualcun altro. Talley fece piegare Jones all'indietro contro il cofano dell'auto. Doveva arrivare all'Uomo con l'orologio e Jones sapeva come fare. Non aveva tempo per aspettare che chiamasse lui. Doveva coglierlo in contropiede. Era una lotta contro il tempo. «È lui a chiamare. Proprio come fa con te.» Talley aveva la testa che pulsava. Si disse che era venuto il momento di piantare una pallottola nella spalla di quel figlio di puttana e di farlo gridare. La voce di Mikkelson gli giunse come da lontano. «Capo?» Il rumore bianco svanì e Talley uscì dal Limbo. Abbassò la pistola. Lui non era come loro. Jones distolse lo sguardo. ATalley sembrò quasi imbarazzato. «Non sono io a chiamarlo. È lui che chiama me. In questo modo loro re-
stano al sicuro. Tieni il telefono. Lui chiamerà.» Talley fissò il cellulare di Jones, poi lo gettò per terra e lo calpestò, mandandolo in frantumi. Aveva il Nokia, ma se avesse squillato lui non avrebbe risposto. Quando l'Uomo con l'orologio lo chiamava, si aspettava che lui rispondesse. Talley non voleva fare quello che l'Uomo con l'orologio si aspettava da lui. «Mettilo in una cella insieme agli altri.» Pareva che tutto stesse finendo prima ancora di essere cominciato. Ora non poteva più fermarsi. Una volta che davi inizio all'assalto, dovevi andare avanti fino alla fine. Se ti fermavi, eri morto. Smith doveva saperlo. Si fidavano di lui al punto da affidargli i loro segreti più riservati. Tutto riconduceva di nuovo a Smith. «Dove sono i ragazzi?» «Con Cooper e i paramedici. Stanno bene. Finalmente siamo riusciti a rintracciare la madre. Sta tornando a casa.» «Di' a Cooper di venire all'ospedale e di portare i ragazzi.» Talley si voltò a guardare la casa, passandosi una mano sugli occhi. Le fiamme stavano divorando il tetto. Lingue di fuoco lambivano il cornicione nonostante i getti d'acqua simili ad arcobaleni d'argento. Talley si sentiva l'odore del fuoco sugli abiti e sulla pelle. Puzzava come una pira funeraria. KEN SEYMORE Seymore stava scambiando anfetamine per qualche snack cinese con un tizio di una stazione televisiva di Los Angeles quando dalla casa provenne una serie di colpi attutiti. Il responsabile della troupe di Los Angeles, un ragazzo pelle e ossa con una barbetta a punta e nessuna esperienza di vita, interruppe la sua concione sulla scelta delle notizie come strumento politico. «Cos'è stato?» Ken Seymore riconobbe subito quel rumore: erano spari. Sapeva che Howell non aveva ancora dato l'ordine di fare irruzione, altrimenti lui sarebbe stato avvertito. Andò al furgone più vicino per scoprire cosa stava succedendo. Il tecnico teneva sotto controllo uno scanner di quelli usati dalla polizia, sintonizzato sulla frequenza operativa della squadra tattica dello sceriffo. «Avete scoperto qualcosa?»
Il tecnico gli fece segno con la mano di tacere. Ascoltava con un auricolare perché il responsabile della troupe non voleva che qualcun altro potesse sentire. «Hanno chiamato i pompieri. C'è un incendio nella casa.» «E gli spari?» «Erano spari, quelli?» «Be', sì.» Il tecnico gli fece di nuovo segno di star zitto e si sintonizzò, passando da una frequenza all'altra. «La squadra Swat è entrata. Oh, merda. Ci sono delle vittime. Pare che abbiano preso i ragazzi. Sì, i ragazzi stanno uscendo.» Il tecnico si strappò l'auricolare dall'orecchio e chiamò il suo responsabile. Una colonna di fumo si levò nella luce proiettata dagli elicotteri, poi un'altra serie di spari echeggiò tra le case. Seymore tirò fuori il cellulare. GLEN HOWELL Viste le novità, le stazioni locali ripresero a trasmettere in diretta. Le fiamme si levavano dalle finestre sul lato sinistro della casa, ma l'incendio era sul retro, dalla parte della piscina, ed era parecchio esteso. I pompieri gettavano acqua sul tetto e alcune ombre correvano intorno al perimetro, ma la veduta aerea era così offuscata che Howell non avrebbe saputo dire chi si muoveva, né cosa stesse succedendo. Capiva solo che stava andato tutto a puttane. «Sei sicuro che siano stati colpiti gli uomini di Jones?» «Hanno detto che era l'Fbi, quindi deve trattarsi degli uomini di Jones. L'abbiamo sentito con lo scanner.» «Hanno preso i dischetti?» «Non lo so. Sta succedendo tutto in questo momento. Nessuno ci dice nulla.» «Perché cazzo sono entrati?» «Pensavo che avesse dato lei l'okay.» «Non sono stato io.» «Un momento. C'è del traffico sullo scanner. Sì, stanno dicendo che due agenti dell'Fbi sono usciti, e anche i ragazzi. Sì, i ragazzi sono fuori.» Howell cercò di mantenersi calmo.
«Chi c'è in quella cazzo di casa?» «Non lo so.» «Jones è ancora dentro?» «Non lo so.» «Dov'è Talley?» «Non lo so.» «Tu sei pagato per sapere, maledizione. Per questo sei lì.» Howell interruppe la comunicazione, poi compose il numero di Jones. Dopo un solo squillo una voce registrata gli disse che l'utente non era al momento raggiungibile o poteva avere il cellulare spento. Allora Howell chiamò Martin. Lasciò squillare quindici volte, e alla fine riattaccò. «Vaffanculo!» Compose il numero di Talley e ascoltò il Nokia che squillava. Lo lasciò suonare venti volte, poi richiuse il cellulare con tanta forza che temette di averlo rotto. TALLEY Talley corse all'ospedale a sirene spiegate. Batté Cooper sul tempo, arrivando poco dopo le tre del mattino. Il parcheggio era quasi deserto. Gli ultimi giornalisti rimasti erano accampati vicino all'ingresso del pronto soccorso. Parcheggiò sull'altro lato dell'edificio per evitarli, ma scese dall'auto perché non riusciva a stare seduto. Si appoggiò alla portiera a braccia conserte, osservando la strada, e in quel momento si rese conto che indossava ancora il giubbotto antiproiettile con la ricetrasmittente attaccata. Se li tolse e li gettò sul sedile di dietro. Trovò il Nokia e lo lanciò sul sedile anteriore. Il Nokia si mise a squillare. Talley esitò, pensando che l'Uomo con l'orologio doveva essere venuto a sapere di quanto era successo. Rimase a fissare il cellulare come se volesse nascondersi, come se ogni suo movimento potesse attirare l'attenzione dell'Uomo e questi potesse scoprire che lui si trovava là. Voleva che l'Uomo con l'orologio restasse nel dubbio. Talley provò una stretta al petto e si rese conto che aveva smesso di respirare. Il cellulare si zittì proprio mentre Cooper entrava nel parcheggio. Talley fece un respiro profondo e alzò una mano, ma Cooper stava già venendo verso di lui. Talley osservò Thomas e Jennifer scendere dall'auto. Avevano un'aria
pallida e tirata, lo sguardo ansioso. Talley sapeva che adesso sembravano stare bene, nell'iniziale euforia del rilascio, ma dopo sarebbero cominciati gli incubi, i flashback, e gli altri sintomi dello stress post-traumatico. Ancora una volta Jennifer lo fece pensare ad Amanda. Talley si sentì travolgere da una tempesta di sentimenti: avrebbe voluto piangere e abbracciarli, ma si concesse solo un sorriso. «Ci portate da nostro padre?» chiese Jennifer. «Sì. L'agente Cooper vi ha detto di vostra madre? L'abbiamo rintracciata in Florida. È già in volo.» Sorrisero, felici. Jennifer si lasciò sfuggire un'esclamazione di trionfo. Talley le porse la mano. «Non ci siamo presentati. Mi chiamo Jeff Talley.» «Jennifer Smith. Grazie per tutto quello che ha fatto.» La ragazza gli strinse la mano con forza e con un sorriso smagliante. Thomas, invece, gliela strinse come se stessero concludendo una trattativa d'affari. I due ragazzi si tenevano così vicini che le loro braccia si sfioravano, ed entrambi si stringevano a lui. Sapeva che era normale: lui era l'uomo che aveva salvato loro la vita. «È un piacere conoscerti, finalmente, Thomas. Mi sei stato di grande aiuto. Sei davvero molto coraggioso. Tutti e due lo siete.» «Grazie, capo. Sa che è proprio sporco?» Jennifer alzò gli occhi al cielo e Cooper scoppiò a ridere. Talley si guardò le mani. Erano striate di fuliggine e di sudore, come il viso. «Già. Non ho avuto tempo di darmi una ripulita.» «A volte è proprio maleducato» disse Jennifer. «Ma ti sei visto, Thomas? Hai il naso tutto sporco di cenere.» Thomas se lo sfregò, senza mai distogliere lo sguardo da Talley. «Nostro padre sta bene?» «Sta meglio. Andiamo da lui.» Talley li condusse all'interno passando da un ingresso secondario, tenendoli per mano. Li lasciò solo per mostrare il distintivo a un inserviente che li accompagnò attraverso l'ospedale fino al pronto soccorso. Tutti quelli che incontravano si voltavano a guardarli. Talley sapeva che era solo questione di tempo prima che la stampa venisse a sapere che il capo della polizia aveva accompagnato i due ragazzi presi in ostaggio dal loro padre. E quando l'avesse saputo la stampa lo avrebbe saputo anche l'Uomo con l'orologio.
Talley si rifiutò di passare attraverso l'accettazione del pronto soccorso. Allora l'inserviente li portò oltre il laboratorio lungo un corridoio usato dal personale per portare i campioni da analizzare. Klaus e la dottoressa Reese non c'erano più, ma un'infermiera che lo aveva già visto prima lo fermò. «Lei è il capo della polizia, vero? Posso aiutarla?» «Sto portando i figli di Smith a vedere il loro padre.» «Sarà meglio che vada a chiamare la dottoressa Reese.» «Bene. Noi intanto andiamo.» Talley cercò la stanza di Smith senza attendere. Pensava che stesse dormendo, e invece lo trovarono sveglio, che fissava il soffitto. Era ancora collegato ai monitor. «Papà?» disse Jennifer. Smith sollevò appena il capo, e sul suo volto comparve un'espressione sorpresa ed euforica. I ragazzi corsero verso di lui, entrambi dalla parte del letto libera dai cavi, e lo abbracciarono. Talley attese sulla soglia, dando loro qualche momento, poi entrò e rimase ai piedi del letto. Jennifer piangeva, la faccia premuta contro il petto del padre. Il ragazzino si asciugò gli occhi e si informò se la ferita gli faceva male. Talley li osservava. Smith li teneva stretti a sé. Poi alzò la testa, incontrando lo sguardo di Talley, e li strinse ancora più forte. «Grazie al cielo state bene. State bene, vero? È tutto a posto?» «La mamma sta tornando a casa.» Talley si avvicinò a Jennifer. «Abbiamo rintracciato sua moglie. In questo momento è in volo.» Smith guardò Talley negli occhi, poi distolse lo sguardo. «La sua famiglia è salva» disse Talley. Smith annuì. «Cosa è successo ai tre uomini?» «Sono morti.» Thomas tirò il padre per il braccio. «Papà, la nostra casa sta bruciando. Per poco non bruciavamo anche noi.» Thomas diede un altro strattone al braccio del padre e poi si lasciò sfuggire un gran singhiozzo, nascondendo il volto sul suo petto. Stava venendo tutto a galla, la tensione e la paura. Smith gli accarezzò i capelli. «Va bene così. Sei salvo. Solo questo conta.» Talley attese che il ragazzo si fosse calmato, poi strinse appena la spalla
di Jennifer, dicendole: «Potreste aspettare un secondo in corridoio? Ho bisogno di parlare con vostro padre». Smith indicò il corridoio con un cenno del capo. Jennifer prese Thomas per mano e lo condusse fuori. Smith fece un respiro profondo e guardò verso Talley. «Grazie.» Talley tirò fuori i due dischetti. Smith li fissò, poi distolse lo sguardo. «Lo ha detto ai ragazzi?» «No. Ma le faranno delle domande. Thomas mi ha aiutato a recuperarli. Li ha aperti sul suo computer.» «Non significano nulla, per lui.» «Si farà delle domande. Prima o poi vorrà sapere.» Smith fece un altro sospiro. «Merda.» «Sono davvero dei bravi ragazzi. Thomas, poi, è speciale.» Smith chiuse gli occhi. Talley lo osservò, chiedendosi cosa avrebbe potuto dire per convincere quell'uomo ad aiutarlo. Aveva trattato con centinaia di soggetti, e la strategia era sempre la stessa: scoprire cosa avevano bisogno di sentirsi dire e dirlo. Trovare il tasto giusto e premerlo. Ora sembrava tutto così lontano. Non sapeva come comportarsi. Si voltò a guardare Jennifer e Thomas fuori in corridoio, e provò un dolore così assoluto e profondo che pensò di essere annientato. Se solo fosse riuscito a ritrovare Jane e Amanda non le avrebbe più lasciate andare. Diede un colpetto sul braccio di Smith. «Non so da dove venga lei, né cosa abbia fatto nella sua vita, ma farà meglio a comportarsi onestamente con quei ragazzi. Lei ha riavuto la sua famiglia, Smith. Sono tutti salvi. Mi aiuti a riprendermi la mia.» Smith sbatté le palpebre, fissando il soffitto. Scosse la testa e strinse gli occhi. Fece un altro respiro profondo, poi guardò verso i figli. «Merda.» «Già. Merda.» Smith lo guardò. Aveva gli occhi lucidi. «Se ha i dischetti ha tutto. Può sbatterli dentro per sempre.» «Chi ha preso la mia famiglia?» «Dev'essere Glen Howell. Doveva venire da me proprio oggi. È l'uomo di Benza qui in zona.»
Talley si toccò il polso. «Rolex d'oro? Molto abbronzato?» Smith annuì. Talley si stava animando. Ora aveva qualcosa in mano. Era arrivato vicino alla porta e si sentiva pronto a fare irruzione. «Okay, Smith. Glen Howell. Lui mi ha chiamato spesso, ma ora ho bisogno di chiamarlo io. Dove lo trovo?» Smith gli diede il numero di telefono di Howell. 26 Sabato, 03.09 TALLEY Talley raddoppiò la sorveglianza intorno a Smith e ai suoi figli, poi tornò di corsa verso la sua macchina. Chiuse gli occhi e cercò di mettere a fuoco gli avvenimenti. Lui era un negoziatore; Howell era un soggetto; Amanda e Jane erano gli ostaggi. Lo aveva già fatto altre volte e poteva farlo ancora. C'erano solo lui e il telefono. Lo ammazzo, questo cane! I lampioni dipingevano il mondo di viola. Talley guardò in alto verso il cielo, ma oltre le luci abbaglianti riuscì a vedere solo un paio di stelle. Un paio di stelle bastava: Jane e Amanda erano sotto quelle stesse stelle. E anche Howell. Quando il suo respiro tornò a farsi regolare e le spalle si rilassarono, Talley salì in macchina. Il suo compito era quello di sembrare fiducioso e controllato. Il suo compito era quello di prendere il controllo. Talley digitò il numero di Howell sul Nokia. Cominciò a tremare per l'agitazione, ma cercò di tranquillizzarsi. Chiuse di nuovo gli occhi e respirò a fondo. L'Uomo con l'orologio rispose al secondo squillo; il suo tono era brusco e irritato. «Cosa c'è?» «Indovina» disse Talley con voce morbida. Howell lo aveva riconosciuto. Talley lo capì dal suo silenzio ancora prima che rispondesse. «Come hai avuto questo numero?»
«Ho due parole per te: Glen Howell.» «Fottiti.» «Penso che sarà Sonny Benza a fottere te. Ho la sua documentazione finanziaria. Ho la tua squadra Swat. Ho il capitano Martin. Ho te. E ho Walter Smith.» Howell alzò la voce. «E io ho la tua famiglia del cazzo. Non te lo dimenticare.» Talley mantenne un tono di voce pacato. Sapeva che, se restava calmo, Howell si sarebbe spaventato di più. Avrebbe sospettato che Talley stesse mettendo in atto qualche piano e avrebbe finito per credere che fosse proprio così. Ora, la sua unica via d'uscita era attraverso di lui. E Talley doveva far sì che se ne convincesse. «Sai qual è stato il tuo errore? Se te ne fossi stato buono e calmo ad aspettare che questa vicenda si concludesse da sola, se non mi avessi tirato in mezzo o non avessi fatto intervenire quegli animali dei tuoi uomini, non mi sarei mai accorto di nulla. Avreste recuperato i dischetti e Benza sarebbe al sicuro. Ora, invece, devi fare i conti con me.» «Stai andando a fondo, Talley. Sei solo un fottuto poliziotto che non ha una cazzo di prova. Stai uccidendo la tua famiglia. Ti stai suicidando.» «Ti do cinque minuti. Chiama Benza. Chiedigli se vuole passare il resto della vita in prigione.» «Gli chiederò quante volte vuole che mi fotta tua figlia.» «Chiedigli anche se mi posso tenere i soldi.» Talley sentì solo il sibilo del collegamento cellulare. «Ho qualcos'altro che vi appartiene. Ho trovato un bel po' di soldi in quella casa. Dovrebbero essere all'incirca un milione di dollari.» Dopo centinaia di trattative, Talley aveva imparato che qualunque bugiardo pensa che tutti mentano, un ladro che tutti rubino, un disonesto che tutti siano come lui. Quel silenzio teso significava che Howell stava cercando di capire le intenzioni di Talley proprio come Talley cercava di capire le sue. Poteva essere spaventato e sospettoso, ma sarebbe anche stato disposto a credergli. Era essenziale che se ne convincesse. «Cosa vuoi, Talley?» chiese Howell lentamente. «Quanti soldi ho trovato?» «Un milione e due.» «Ti vendo un lasciapassare. Mia moglie, mia figlia e i soldi in cambio dei dischetti. Se fai loro del male, questi finiscono dritti all'Fbi e io mi tengo comunque i soldi.»
Talley sapeva che Howell non avrebbe mai preso in considerazione uno scambio diretto, la sua famiglia in cambio dei dischetti, perché non c'era motivo che lui mantenesse la parola. Ma i soldi cambiavano le cose. Howell avrebbe compreso la cupidigia. Avrebbe visto se stesso in Talley e avrebbe creduto che un poliziotto potesse pensare di passarla liscia. Talley non aspettò che Howell rispondesse. «Ti dico io come fare. Porterò i dischetti all'ingresso nord del centro commerciale, quello vicino allo svincolo dell'autostrada. Tu porti la mia famiglia. Se stanno bene, si fa lo scambio. Se non torno indietro stanotte, i miei uomini hanno sempre Smith e i tuoi finti agenti.» «Se torni indietro li lascerai andare?» «Li lascerò andare.» «Okay, Talley, penso che si possa fare.» «Lo penso anch'io.» «Ma non al centro commerciale. Lo faremo dove voglio io.» «Basta che non sia in un posto deserto.» «Il Comfort Inn, a ovest di Bristo.» «Lo conosco.» «Trovati lì entro dieci minuti. Ci sarà qualcuno ad aspettarti nel parcheggio. Un minuto di ritardo, e non troverai più nessuno.» Talley interruppe la comunicazione. Appoggiò con attenzione il Nokia sul sedile, poi chiuse gli occhi. Il Comfort Inn era a circa un chilometro da lì. Scese dall'auto, si tolse la felpa e infilò il giubbotto antiproiettile. Vi indossò sopra la felpa. Controllò la pistola; un colpo in canna, sicura inserita. Lasciò la radio accesa, ma regolò il volume dell'altoparlante al minimo. Risalì in macchina. Aveva ancora tante cose da fare. GLEN HOWELL Quando chiuse il cellulare, Howell tremava. Talley l'aveva sorpreso con la guardia abbassata e costretto a fare un accordo che poteva anche essere una trappola, ma lui non vedeva altra possibilità. Il suo compito era quello di recuperare i dischetti. Howell alzò il telefono della stanza. Duane Manelli era in una camera poco distante insieme a LJ Ruiz. «Ho bisogno che tu e LJ andiate fuori. Talley sta venendo qui.» «Cazzo!»
«Non so se è da solo. Muovete il culo e uscite a sorvegliare la zona.» «Cosa è successo a Jones?» «L'hanno beccato.» Howell riattaccò. Guardò l'orologio. Non avrebbe voluto fare la telefonata successiva, ma anche in quel caso non aveva altra scelta. Fare quella telefonata lo spaventava più che attendere l'arrivo di Talley. Compose il numero di Sonny Benza. Palms Springs, California SONNY BENZA «Sonny? Sonny, svegliati.» Benza aprì gli occhi, e vide Phil Tuzee. Charles Salvetti camminava avanti e indietro vicino alla scrivania con aria inquieta. Benza era allungato sul divano, ancora nel suo ufficio alle quattro del mattino insieme agli altri due. La schiena gli faceva un male dell'accidente. Un'altra seduta dal chiropratico. «Cosa c'è?» «Glen Howell è al telefono. È successo un gran casino. Guarda.» Benza si alzò a sedere e diede un'occhiata alla televisione, strizzando gli occhi. La casa di Smith era in fiamme. «Oh, Cristo. Cos'è successo?» «È un massacro. La squadra di Howell è entrata, ed è andato tutto a puttane. Stanno portando fuori i corpi.» «Abbiamo recuperato i dischetti?» A Benza bastò l'espressione di Tuzee per capire. Sentì una vampata d'acido salirgli in gola. «No, capo. Li ha Talley.» Salvetti li chiamò dalla scrivania. «Venite. C'è Howell sul vivavoce. Dice che non ha molto tempo.» Benza andò al telefono, cercando di controllare la sua rabbia. «Che cazzo stai facendo, laggiù?» Howell si schiarì la voce e questo portò Benza a concludere che era sconvolto. Brutto segno. Glen Howell non era il tipo da sconvolgersi facilmente. «Le cose non stanno andando secondo i nostri piani.» «Puoi dirlo forte.»
Howell gli spiegò la situazione. Non solo Talley aveva i dischetti; aveva catturato Smith, Jones e tutta la sua squadra. Benza si vide nell'atto di uccidere Glen Howell. Si vide caricarlo in macchina, portarlo nel deserto e ridurlo uno spezzatino a colpi di machete. «Sonny?» La collera di Benza si stemperò. Salvetti e Tuzee lo guardavano. Howell stava ancora parlando. Sonny Benza non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua. Lo interruppe. «Ascoltami, Glen.» Cercò di parlare a voce bassa e ferma. Salvetti e Tuzee continuavano a fissarlo. «Voglio dirti una cosa, prima che tu vada avanti. Mi sono fidato di te per risolvere questo problema, e tu hai fatto un gran casino. Mi hai deluso, Glen.» «Sonny, Talley ha i dischetti, ma possiamo ancora sistemare le cose.» La voce di Howell tremava. «Mi fa piacere che tu abbia un piano.» «Lui vuole i soldi che Smith conservava per noi, il milione e due. Se gli diamo la sua famiglia e i soldi, dice che ci darà i dischetti e lascerà andare i nostri uomini.» «Un momento» intervenne Salvetti. «Stai dicendo che quello stronzo ci sta ricattando?» «Un milione e due sono un sacco di soldi.» Tuzee scosse la testa, guardando Benza, ma parlando a Howell. «È una trappola. Ti sta lanciando un'esca per riavere sua moglie.» «Non abbiamo altra scelta.» Benza rispose, sempre con voce pacata, senza aspettare l'opinione di Tuzee o di Salvetti. «Tu non hai altra scelta.» Per parecchi secondi Howell non rispose. «Capisco.» «Resta in linea.» Benza chiuse il vivavoce. Si stirò la schiena, cercando di alleviare il dolore, ma riuscì solo a peggiorare le cose. Tentò di capire da che parte stare; o Talley stava davvero cercando di accaparrarsi i soldi, o era tutta una finta. Se Talley stava preparando una trappola per Howell, le prossime ore sarebbero state un diluvio di merda. Era possibile che i federali avessero già analizzato i dischetti e chiesto i mandati. Benza sapeva che avrebbe dovuto
avvertire New York, ma al solo pensiero si sentiva annodare le budella. «Phil, chiama l'aeroporto e fai preparare il jet. Non si sa mai.» Tuzee andò all'altro telefono. Benza riaprì il vivavoce. Non voleva accettare la sconfitta; poteva ancora esserci una via d'uscita. «Okay, Glen, ascolta: non me ne frega niente dei soldi. Se proprio devo perderli per guadagnare un po' di tempo, pazienza.» «È quello che pensavo anch'io.» «E se Talley ti sta tendendo una trappola, siamo comunque fottuti.» «Ti avvertirò in tempo.» «Vaffanculo tu e il tuo avvertimento. Recupera i dischetti e sbarazzati di lui. Se non li recuperi, avrai qualche problema, Glen. Questo lo capisci, vero?» «I nostri resteranno sotto chiave. Non li lascerà andare prima di aver riavuto la sua famiglia.» Benza lanciò un'occhiata a Tuzee. Non gli piaceva l'idea di eliminare i suoi uomini, ma l'aveva già fatto in altre occasioni. Doveva sbarazzarsi di Smith, Talley, Jones e il suo gruppo, e di chiunque altro si venisse a trovare in una posizione vulnerabile dopo gli avvenimenti di quella notte. Era l'unico modo per essere al sicuro. «Dopo che Talley sarà morto ci occuperemo di Smith e di Jones con i suoi. Questo è il modo migliore. Devono morire tutti.» «Capisco.» Benza schiacciò il pulsante per porre fine alla telefonata, poi tornò al divano. Salvetti andò a sedersi accanto a lui. «La situazione sta precipitando, Sonny. Dobbiamo fare qualcosa. Dovremmo avvertire New York. Se gli diciamo quello che sta succedendo, forse il vecchio Castellano potrebbe dimostrarsi clemente.» Benza considerò la cosa, poi scosse la testa. «Al diavolo New York. Non sono così impaziente di morire.» «Sei sicuro di questo, Sonny? Abbiamo ancora qualche minuto di tempo.» «Se non riusciamo a recuperare quei dischetti, l'ultima cosa che voglio è una conversazione con il vecchio. Al confronto anche la prigione è meglio.» Salvetti aggrottò la fronte. «Il vecchio ha gli artigli lunghi. Ci raggiungerà anche in prigione.»
Benza lo guardò. «Cristo, Sally, tu hai sempre una parola di incoraggiamento!» Tuzee incrociò le braccia e si strinse nelle spalle. «Ma che cazzo, recupereremo i dischetti, lo metteremo nel culo ai federali e Castellano non verrà mai a sapere cosa è successo. Le cose possono ancora aggiustarsi.» Benza decise di fare i bagagli. Nel caso non si aggiustassero. 27 Sabato, 03.37 Santa Clarita, California TALLEY Talley guidava a luci spente, buttandosi sul limite estremo della carreggiata tutte le volte che incrociava un veicolo. Parcheggiò lungo la strada a un centinaio di metri dal motel, lasciando l'auto in mezzo ai cespugli e ringraziando il cielo per la decisione di indossare una felpa nera. Legò un rotolo di nastro adesivo da imballaggi a un passante della cintura, poi infilò in tasca una manciata di fascette serrafilo di plastica. Si sfregò del terriccio su faccia e mani per smorzare il chiarore della pelle, estrasse la pistola e si avviò a passo svelto verso il motel. La luna, alta e lucente come una perla, gli illuminava la strada. Talley pensava che Howell avrebbe schierato delle sentinelle per essere avvertito nel caso si fosse avvicinata la polizia. Arrivò ai confini della proprietà e si fermò, immobile, vicino a un cespuglio di manzanita dalle foglie pungenti, perlustrando l'oscurità ai limiti della zona illuminata alla ricerca di qualche minimo movimento o di un'ombra sospetta. Quando era con la Swat, Talley si era avvicinato a centinaia di case occupate da criminali armati, e questa volta non era diversa dalle altre. Il motel era un lungo edificio rettangolare a due piani circondato da un'area di parcheggio. Poche auto sostavano davanti alle stanze del pianterreno. Due enormi motrici di autoarticolato erano ferme sul retro, mentre una terza era parcheggiata vicino alla strada. Talley fece il giro della proprietà muovendosi al di fuori della zona illuminata e fermandosi ogni due passi per guardarsi in giro e ascoltare. Individuò un uomo di guardia sul lato orientale del parcheggio, seduto
tra le ruote di un lungo autoarticolato. Pochi minuti dopo scoprì un secondo uomo accovacciato sotto una pianta di pepe dall'altra parte della strada, sul lato ovest. Talley si guardò intorno attentamente alla ricerca di altri, ma non ne vide. DUANE MANELLI Manelli era sdraiato a pancia in giù sul terreno compatto alla base di una pianta di pepe, e osservava LJ Ruiz che si muoveva tra le ruote di un lungo autoarticolato. Si tenevano in contatto con il cellulare. Se uno dei due avesse avvistato un veicolo che si avvicinava, o qualcosa di sospetto, poteva avvertire subito l'altro e poi Glen Howell. A Manelli non piaceva vedere tutto quel movimento. Voleva dire che LJ era annoiato, e le persone annoiate fanno degli errori. «LJ, sei al tuo posto?» sussurrò nel cellulare. «Sì, sono qui.» «Allora, sistemati e smettila di agitarti.» «Vaffanculo. Io non mi sto agitando.» Manelli non rispose: LJ aveva smesso di muoversi, e lui decise di lasciar perdere. Aveva passato abbastanza tempo in esercitazioni di ricognizione notturna quando era nell'esercito per sapere quando rispettare il silenzio radio. Tornò a sdraiarsi per terra. Ruiz disse qualcosa, ma Manelli non capì. «Ripeti.» Ruiz non rispose. «Non ti ho sentito, LJ. Cos'hai detto?» Niente. «LJ?» Manelli udì uno scricchiolio di ghiaia alle sue spalle, poi la testa gli esplose con i colori dell'arcobaleno. TALLEY Talley legò i polsi a Manelli, bloccandoglieli dietro la schiena con le fascette e tirando bene le estremità libere. Allo stesso modo gli legò le caviglie, poi lo fece rotolare sulla schiena. Lo schiaffeggiò in pieno volto.
«Svegliati.» Lo colpì più forte. «Svegliati, maledizione! Sei in arresto.» Manelli sbatté le palpebre. Talley attese finché non gli sembrò che riuscisse a mettere a fuoco le immagini, poi gli premette la pistola contro il collo. «Tu sai chi sono?» «Talley.» «In quale stanza si trovano?» «Non sono più qui. Howell le ha fatte portare via.» Talley imprecò sottovoce. Non si aspettava che Howell le avrebbe tenute con sé, ma lo aveva sperato. «Va bene. Dove sono?» «Non lo so. Le ha prese Clewes.» Talley non aveva mai sentito prima quel nome, Clewes, ma non importava. Non aveva mai sentito nominare nessuno di loro. «Dove le ha portate questo Clewes?» «Non lo so. In macchina. Howell lo deve chiamare. Non so che intenzioni hanno. È una cosa tra loro due.» Talley lanciò un'occhiata verso il motel, cercando di controllare il panico. I secondi che passavano gli pesavano sulle spalle come sacchi di sabbia. Stava sprecando tempo prezioso, e aveva bisogno di un piano. Si impose di pensare, ripetendosi il mantra della Swat: "Il panico uccide". Se Jane e Amanda erano da qualche altra parte, avrebbe dovuto costringere Howell a riportarle indietro. Si voltò nuovamente verso Manelli. «Quanti uomini ha, Howell?» «Cinque qui al motel, più Clewes.» «Tolti tu e quello stronzo al camion, ne restano tre all'interno?» «Esatto, più Clewes. Lui ha dell'altra gente, ma non so dove sono. Potrebbero arrivare qui da un momento all'altro.» Talley rifletté. Tre nella stanza. Tre conto uno, con altra gente in arrivo. Non importava. Non aveva altra scelta. «Che stanza è?» Manelli esitò. Talley gli spinse la .45 nella bocca. Sudore e polvere gli scendevano dal viso, gocciolando su Manelli come una pioggia di fango. «Che stanza è?»
Manelli sospirò. «Centoventiquattro. Ti posso chiedere una cosa, Talley?» Talley esitò. Non aveva tempo per le domande. «Cosa?» «Tu non sei un poliziotto di campagna, vero?» «No. No, non lo sono.» Talley coprì la bocca di Manelli con il nastro adesivo, poi attraversò veloce la strada e tornò al parcheggio, cercando la stanza centoventiquattro. Trovò la Mustang verde nella parte più distante del motel, parcheggiata nel posto adiacente a quello davanti alla camera centoventiquattro. Un uomo con una maglietta blu era in piedi accanto alla macchina: stava fumando. Questo significava due uomini all'interno. Talley vide un orologio color argento al braccio sinistro dell'uomo. Non era Glen Howell. Talley si avvicinò il più possibile alla Mustang. L'uomo finì la sigaretta e si appoggiò all'auto. Si trovava a meno di quindici metri. Non era poi così distante, rifletté Talley. La porta della centoventiquattro si aprì e ne uscì un uomo molto abbronzato. «Tieni gli occhi aperti. Dovrebbe essere già qui.» Talley vide un Rolex d'oro al polso dell'uomo, e riconobbe la voce. Howell. Tolse la sicura della pistola e si preparò ad agire. L'uomo della Mustang prese a lamentarsi con Howell. «È una cazzata. Quel vigliacco di merda non si farà vedere. Dovremmo andarcene da questo buco finché siamo ancora in tempo.» «Verrà. Non ha scelta.» Howell rientrò nella stanza, chiudendo la porta. L'uomo della Mustang si accese un'altra sigaretta. Quando si voltò, dandogli la schiena, Talley si lanciò in avanti. L'uomo trasalì sentendo rumore, ma era troppo tardi. Talley lo colpì violentemente alla tempia, usando la .45 come una mazza. L'uomo barcollò di lato. Talley lo afferrò da dietro serrandogli il collo in una presa di strangolamento e lo spinse in aranti verso la porta. Non voleva che perdesse conoscenza, ne aveva bisogno come scudo. Talley si mosse velocemente: sferrò un calcio alla porta vicino al pomello, fracassando lo stipite, e spinse l'uomo oltre la soglia urlando: «Polizia! Siete in arresto!». Talley non pensava che gli avrebbero sparato fintanto che aveva lui i di-
schetti. Contava su questo. Glen Howell estrasse una pistola acquattandosi, e lanciò un urlo a un uomo dalla testa grossa, seduto vicino alla finestra. Quest'ultimo rotolò a terra e si rialzò in ginocchio, impugnando una pistola con due mani. «Non sparargli! Non sparare!» urlò Howell. Talley teneva sotto mira ora l'uno ora l'altro, cercando di ripararsi il più possibile dietro l'uomo della Mustang. Insetti avidi di luce entravano volteggiando lenti. «Dov'è la mia famiglia?» urlò Talley. I loro respiri affannosi ricordavano il rumore dei grossi diesel che sfrecciavano sulla strada. Nessuno sparava, ma se qualcuno lo avesse fatto, tutti avrebbero aperto il fuoco. Ognuno aveva qualcosa che l'altro voleva. Talley lo sapeva. Anche Howell lo sapeva. Era l'unica cosa che li tratteneva. All'improvviso Howell mollò la pistola, lasciandola ciondolare appesa al dito. «Stiamo calmi. Calmi. Siamo qui per concludere un affare.» «Loro dove sono?» «Hai i dischetti?» Talley puntò la pistola contro l'uomo dalla testa grossa. Gli parve di essere tornato in quell'asilo nido, tenuto in ostaggio da uomini armati. «Sai bene che li ho, figlio di puttana. Dov'è la mia famiglia?» Howell si alzò lentamente, tenendo le braccia larghe e lasciando penzolare la pistola. «Stai calmo. Loro stanno bene. Posso prendere il telefono dalla tasca?» «Avrebbero dovuto essere qui.» «Lasciami prendere il telefono. Potrai parlare con loro e sentire che stanno bene.» Talley puntò la pistola su Howell e poi di nuovo sull'uomo con la testa grossa. Howell prese dalla tasca un cellulare e digitò un numero. Dall'altra parte qualcuno rispose, e Howell gli disse di far venire la donna al telefono. Protese in avanti il cellulare. «Tieni. Parlale. Sta bene.» Talley premette con forza la pistola contro la guancia dell'uomo della Mustang, intimandogli di non muoversi. Howell gli porse il telefono, tenendolo con due dita come una tazzina di tè. Talley lo prese con la mano libera e Howell indietreggiò. «Jane?» «Jeff! Noi...»
La comunicazione si interruppe. «MERDA!» Howell si strinse nelle spalle. «Hai visto? Sono vive. Il fatto che continuino a esserlo dipende da te.» Talley lanciò il telefono a Howell, poi tirò fuori un solo dischetto. Quello era il momento in cui tutto poteva finire male. Il momento in cui correva il rischio più grosso e si giocava il tutto per tutto. «Un dischetto. L'altro lo avrai quando io avrò le mie ragazze. Non al telefono, ma qui in carne e ossa. Se non ti va, pazienza. Se mi ammazzi, finiscono tutti in galera.» Lanciò il dischetto sul letto. Capì che Howell non era soddisfatto di averne uno solo, ma contava proprio su quello. Voleva che fosse disorientato, preoccupato. Era una trattativa. Talley sapeva che Howell avrebbe soppesato le alternative, proprio come stava facendo lui; si sarebbe chiesto se Talley avesse con sé anche il secondo dischetto, pensando che in questo caso poteva semplicemente sparargli e fine della storia. Ma Howell non poteva esserne certo. Se lo avesse ucciso e lui non avesse avuto con sé entrambi i dischetti, per Howell sarebbe stata la fine. Per questo non gli avrebbe sparato. Non ancora. Questo dava a Talley la possibilità di costringerlo a liberare Amanda e Jane. La tensione era evidente sul volto di Howell. Talley non disse nulla. Howell raccolse il dischetto. «Devo controllare che sia autentico.» «È autentico.» «Devo esserne sicuro.» Un ThinkPad IBM collegato a un drive per zip era posato sul comodino. Howell sedette sul bordo del letto mentre leggeva il dischetto, poi grugnì, una volta verificato il contenuto. «Va bene. Questo è uno. Dov'è l'altro?» «Prima le mie ragazze. Quando vedo le mie ragazze, tu ti prendi l'altro dischetto. È così che funziona.» Il sudore colava dai capelli di Talley, scendendogli lungo il collo. Pareva ricoperto da un esercito di formiche. Howell poteva decidere se correre il rischio. Nessuno dei due aveva altra scelta. Bisognava vedere chi sarebbe crollato per primo. Era una rimessa in gioco. La partita poteva ricominciare. Talley aspettò che Howell valutasse le alternative. Talley sapeva già cosa avrebbe deciso. Non gli aveva lasciato scelta.
Howell prese il telefono. GLEN HOWELL Talley non agiva come un ex poliziotto logorato dal lavoro, scappato a nascondersi in provincia; si comportava come un perfetto superpoliziotto della Swat. Ma si capiva che era spaventato. Howell sapeva che doveva sfruttare quella paura: doveva far sì che Talley fosse così terrorizzato di perdere la sua famiglia da smettere di pensare. Era convinto che Talley avesse con sé il secondo dischetto, ma l'unico modo per scoprirlo era ucciderlo, e se Talley non aveva il dischetto, lui era fottuto. Il messaggio di Sonny Benza era chiaro: l'avrebbe ammazzato. Marion Clewes rispose al primo squillo. «Sì?» Howell parlò con voce chiara, senza mai togliere gli occhi di dosso a Talley. Voleva che capisse che lui aveva in mano la vita di sua moglie e della figlia. «Portale qui. Ferma l'auto davanti alla stanza, ma non scendere. Voglio fargli vedere che stanno bene.» «Ricevuto.» Howell guardava Talley attentamente, e notò che si era irrigidito quando lui aveva detto a Clewes di restare in macchina. A Talley la cosa non piaceva, ma cercava di non darlo a vedere. Howell si sentì incoraggiato, come se avesse giocato una carta vincente. «Non riattaccare. È importante che resti in linea. Voglio parlarti ancora.» «D'accordo.» Howell abbassò il telefono. Clewes era parcheggiato dietro una stazione di servizio della Mobil lungo la strada. Sarebbe arrivato in pochi secondi. «Okay, Talley, stanno arrivando.» «Non voglio solo vederle. Non ti darò il dischetto finché non saranno con me.» «Capisco.» Howell sentì l'auto prima di vederla. Clewes manovrò fino a fermarsi nello spazio vuoto a fianco della Mustang, il muso della macchina incorniciato nel vano della porta aperta. Jane era sul sedile del passeggero, la figlia sul sedile posteriore. Entrambe erano legate, la bocca chiusa con il nastro adesivo. Howell vide Talley muoversi impercettibilmente verso la porta, verso
sua moglie, e subito riprendere il controllo per voltarsi di nuovo verso di lui. «Digli di scendere dall'auto.» Howell alzò il telefono. «Marion?» Clewes alzò il cellulare. Si vedevano chiaramente attraverso la porta aperta. «Sì?» «Puntale la pistola alla testa.» MARION CLEWES Il mondo era confortevole all'interno dell'auto, che conservava ancora quel buon odore di nuovo; con i finestrini chiusi, il motore al minimo e l'aria condizionata ben regolata; Marion sentiva solo la voce nell'orecchio e il pianto sommesso delle due donne. Non traeva alcun piacere dalle loro lacrime. «Va bene.» Marion aveva ricevuto istruzioni precise. Così come il compito di Glen Howell era quello di recuperare i dischetti, lui sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare e quando. Era tutta una questione di come svolgevi il tuo lavoro, se avevi successo ti premiavano, se fallivi ti punivano. Successo e fallimento dipendevano dai dischetti. Marion sollevò la pistola, puntandola alla testa di Jane. Lei tremava, stringendo gli occhi. Dietro di lei, sul sedile posteriore, la figlia gemeva forte. Marion sorrise con calore, cercando di confortarle, sempre tenendo d'occhio l'azione nel motel. «Non preoccupatevi, signore. Andrà tutto bene.» La sua pistola restava fissa sul bersaglio. TALLEY Il mondo si ridusse a quell'automobile a pochi passi da lui. Talley vide tutto quello che accadeva all'interno dell'auto con uaa chiarezza tale da sembrare irreale: l'uomo al volante puntò una piccola pistola nera alla tempia di Jane. Lacrime luccicanti le scesero dagli occhi. Sul sedile posteriore, Amanda si dibatteva da una parte all'altra, piangendo anche lei.
«NO!» urlò Talley. Howell teneva il cellulare davanti alla bocca, parlando a Talley, ma anche all'uomo nella macchina. «Dammi il secondo dischetto o lui ucciderà tua moglie.» «NO!» Talley puntò improvvisamente la pistola contro l'uomo nella macchina, ma temeva che l'inclinazione del parabrezza potesse deviare il proiettile. Non era come quando Neal Craimont aveva ucciso l'uomo che gli teneva una pistola puntata contro la testa davanti all'asilo. L'uomo nell'auto era protetto dal vetro. Non si poteva essere sicuri di colpire con precisione. Talley spostò nuovamente la mira su Howell. All'improvviso stava andando tutto storto: il suo piano era fallito. Stava vincendo Howell. «Ti ammazzerò Howell! Non avrai mai quel dischetto!» «E lui ucciderà tua moglie, ma tua figlia sarà ancora viva. Mi stai ascoltando, Marion?» Talley vide l'uomo al volante annuire. Spostò nuovamente la mira, puntando di nuovo la pistola contro l'uomo nell'auto. «Ti ammazzo! Mi hai sentito, figlio di puttana?!» L'uomo nell'auto sorrise. «Io avrò ancora tua figlia» disse Howell con tono pacato. «Tua moglie sarà morta, ma tua figlia sarà ancora viva. La vedi là, sull'auto, Talley? Ma se tu mi spari, allora lui ucciderà anche tua figlia. Vuoi perderle tutt'e due?» Talley tornò a puntare la pistola contro l'uomo nell'auto. Ansimava così forte che la pistola tremava. Se sparava basso, il proiettile sarebbe stato deviato verso l'alto, ma non sapeva di quanto; un tiro poco meno che perfetto sarebbe costato la vita di Jane. Se avesse sparato all'uomo nell'auto, Howell o l'uomo dalla testa grossa avrebbero sparato a lui, e a quel punto sarebbero morti tutti. «La trattativa è finita, Talley. Ho vinto io» disse Howell. Talley lanciò un'occhiata verso di lui. Valutò i colpi: prima l'uomo sull'auto, poi Howell, per ultimo quello sul pavimento. Doveva riuscire a farli fuori tutti e tre per salvare la sua famiglia. Non pensava di poterci riuscire. «Butta la pistola e dammi il secondo dischetto» ordinò Howell. «Dammelo o il cervello di tua moglie finirà sul finestrino.» Gli occhi di Talley si riempirono di lacrime al pensiero che sarebbero morti tutti comunque. Ma gli restava ancora una possibilità. Una possibili-
tà piccola, perché Howell e Benza volevano i dischetti. Talley lasciò cadere la pistola. L'uomo della Mustang si gettò di lato. Howell e l'uomo dalla testa grossa si buttarono in avanti. Raccolsero la pistola di Talley e lo spinsero contro il muro, inchiodandolo come un insetto su una tavoletta. Howell lo perquisì anche se Talley gli disse dove teneva il secondo dischetto. «È nel taschino di sinistra.» Talley si sentiva intorpidito. Sconfitto. Fuori, l'uomo al volante era sceso dall'auto e aveva raggiunto la porta. Talley guardò Jane e Amanda nell'abitacolo. Lo sguardo di Jane incontrò i suoi occhi e in quel momento lui si sentì sorretto da un'ondata di amore che gli parve quasi potesse trascinarlo via. Howell inserì il dischetto nel ThinkPad. Talley lo osservò mentre ne verificava il contenuto e provò un sinistro piacere nel vedere il viso dell'uomo ottenebrarsi di una collera furibonda. «Figlio di puttana! Non è questo il dischetto. Questo non è il secondo dischetto! È vuoto!» Talley si sentiva stranamente distaccato da quella stanza e da quelle persone. Guardò nuovamente verso Jane. Le sorrise, lo stesso sorriso complice che spesso si erano scambiati la notte, quando erano da soli a letto, poi tornò a voltarsi verso Howell. «Non ho più il secondo dischetto. L'ho dato agli uomini dello sceriffo, e loro lo daranno all'Fbi. Benza è finito. Tu sei finito. Né tu né io possiamo più farci niente.» Talley vide l'incredulità affiorare sul volto di Howell come una gigantesca bolla. «Tu menti.» «Non mento. Non c'è più niente da fare, qui, Howell. Lasciaci andare. Lasciaci andare e ti risparmierai un'accusa di omicidio.» Howell si alzò in piedi, rigido come un automa. Girò intorno al letto con passo pesante, come se fosse in stato di choc, raccolse la pistola da terra e la puntò contro Talley. «Sei diventato matto?» «Io voglio solo riportare la mia famiglia a casa.» Howell scosse la testa come se non riuscisse ancora a credere a ciò che stava succedendo, poi, come intontito, guardò l'uomo sulla porta, quello che prima era al volante dell'auto. «Ammazzali tutti.»
MARION CLEWES Marion osservò Glen Howell che leggeva il secondo dischetto. Rimase deluso nel vedere che Talley aveva cercato di giocarli con un dischetto falso, ma se lo aspettava. Dopo tutto, Talley era un poliziotto; Marion non aveva mai pensato che si sarebbe lasciato scappare un uomo come Sonny Benza, neppure con la famiglia in ostaggio. In fondo, consegnare il dischetto alle autorità competenti era stata la cosa giusta da fare. «Ammazzali tutti.» Era tutta una questione di come facevi il tuo lavoro, se avevi successo ti premiavano, se fallivi ti punivano. Successo e fallimento dipendevano dai dischetti, e Glen Howell non aveva recuperato i dischetti. Marion era dispiaciuto: Glen Howell gli era sempre stato simpatico, anche se al signor Howell lui non era mai andato a genio. Marion aveva ricevuto istruzioni precise. Marion alzò la pistola. TALLEY L'uomo sulla porta, che Howell aveva chiamato Marion, alzò la pistola puntandogliela dritta in faccia. Marion era un uomo piccolo, dall'aspetto comune, il tipo di persona anonima che risulta invisibile in un centro commerciale e impossibile da descrivere per un testimone. Un signor Qualunque: altezza media, corporatura media, capelli castani, occhi castani. Talley fissò la bocca della pistola, aspettando il proiettile. «Mi dispiace Jane.» Marion spostò improvvisamente la pistola di lato e fece fuoco. Aggiustò la mira e sparò ancora, e ancora. Il primo proiettile prese Howell sopra l'occhio destro, il secondo centrò l'uomo della Mustang in pieno occhio sinistro, e il terzo colpì l'uomo dalla testa grossa alla tempia. Marion abbassò la pistola. Talley era in piedi contro la parete, immobile. Guardava Marion come un uccello guarda un serpente. Marion si strinse nelle spalle. «La vita non perdona.» Marion attraversò la stanza per prendere l'unico dischetto buono, se lo mise in tasca e andò verso la macchina. Aiutò Jane a scendere, poi aprì la
porta posteriore e fece lo stesso con Amanda. Girò intorno alla vettura, salì al posto di guida e partì senza dire una parola. Talley lo vide parlare al cellulare prima ancora di essere uscito dal parcheggio. Il motel era tranquillo. Un vento scuro aveva soffiato su Bristo Camino, qualcosa che andava oltre il controllo di Talley, oltre il suo dolore e il suo smarrimento, e adesso era cessato. Adesso restavano solo loro tre. «Jane?» Talley uscì barcollando dalla stanza e corse verso la moglie. L'abbracciò, stringendola disperato, poi attirò a sé la figlia e le strinse entrambe, mentre le lacrime gli rigavano il volto. Le tenne strette e capì che non le avrebbe lasciate mai più andare via, che le aveva perse una volta e per poco non le aveva perse una seconda, questa volta per sempre, e che avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere perché non accadesse di nuovo. Era finita. 28 Sabato, 04.36 Palm Springs, California SONNY BENZA Dopo la telefonata con Glen Howell, Sonny Benza non provò nemmeno a rimettersi a dormire. Si fece venti milligrammi di Adderall e due piste di coca per tirarsi su, poi tutti e tre si sedettero ad aspettare. Al primo squillo del telefono poco ci mancò che saltasse giù dal divano. Tuzee lo guardò, chiedendogli se voleva che rispondesse lui. Benza annuì. Tuzee alzò la cornetta. «È l'aeroporto. Vogliono sapere dove vuoi andare. Devono compilare un piano di volo.» «Digli Rio. Lo cambieremo in viaggio.» «Sapranno dove siamo diretti» disse Salvetti come Tuzee ebbe riattaccato. «Quei jet vanno così in alto che il controllo aereo li segue per tutto il volo.» «Non ti preoccupare, Sally. Ci penseremo.» «Facevo così per dire.»
«Non ti preoccupare.» La seconda volta che il telefono squillò, Tuzee rispose senza chiedere nulla. Dalla sua espressione, Benza capì che quella era la chiamata che aspettava. «Merda» disse Salvetti. Tuzee schiacciò il pulsante del vivavoce dicendo: «È Ken Seymore. Ken, Sonny e Charlie sono qui. Cosa sta succedendo, laggiù?». «È un casino. Sta andando tutto a puttane. Sono ancora qui nel complesso, ma...» L'urlo di Benza coprì la sua voce. La paura nella voce di Seymore lo mandò in bestia. «Non me ne frega un cazzo di dove sei. Abbiamo quei maledetti dischetti o no?» «No! Li hanno loro. Glen Howell e altri due dei nostri sono morti. Hanno preso Manelli, Ruiz e non so chi altri. È un gran casino, qui. Non so cosa sia successo.» «Chi ha ammazzato Howell? Talley?» «Non lo so! Sì, penso sia stato Talley. Non lo so. Cazzo, se ne sentono di tutti i colori.» Sonny Benza chiuse gli occhi. Tutto finito, tutto distrutto. Tre balordi qualunque fanno irruzione in una casa e tutto quello che lui aveva costruito in una vita stava per sparire. «Sei sicuro che abbiano i dischetti?» chiese Tuzee. «Talley li ha dati agli uomini dello sceriffo. Questo lo so di sicuro. Non so cosa sia successo dopo. Glen l'hanno fatto fuori al motel, c'è stata una gran sparatoria o qualcosa del genere, e ora sono arrivati quelli dell'Fbi, la vera Fbi. Cosa volete che faccia?» Benza scosse la testa: non c'era più nulla che Ken Seymore o altri potessero fare. «Sparisci» disse Tuzee. «Chiunque non sia stato preso deve sparire. Lì avete finito.» La linea restò muta. Ken Seymore non c'era più. Benza si alzò senza una parola e andò alla grande vetrata che dominava Palm Springs. Quella vista gli sarebbe mancata. Salvetti gli si avvicinò, fermandosi alle sue spalle. «Cosa vuoi fare, capo?» «Quanto pensi che abbiamo prima che arrivino i federali?» Aveva già un'idea, ma voleva sentirselo dire.
Salvetti e Tuzee si scambiarono un'alzata di spalle. Fu Tuzee a parlare. «Talley dirà loro cosa c'è sui dischetti; poi, probabilmente, parleranno con Smith. Non so se lui confermerà o meno.» «Parlerà, parlerà.» «Okay, diranno che ti trattengono come soggetto a rischio di fuga, e intanto avranno il tempo di formulare i veri capi d'accusa; poi chiederanno un mandato sulla base del nostro presunto coinvolgimento nei sequestri e negli omicidi di Bristo. Supponendo che ottengano un mandato per telefono e che si appoggino alla polizia di Stato attraverso il loro ufficio locale... diciamo due ore.» «Due ore.» «Sì, non penso che possano arrivare qui prima.» Benza sospirò. «Okay ragazzi. Voglio essere in volo tra un'ora.» «Va bene, Sonny.» «Lo dirai a New York?» chiese Salvetti. Benza non avrebbe detto nulla a New York. Aveva più paura della loro reazione che di affrontare i federali. «Si fottano. Andate a prendere le vostre famiglie. Non preoccupatevi dei bagagli, compreremo tutto a destinazione. Troviamoci all'aeroporto al più presto. Quarantacinque minuti al massimo.» I tre uomini rimasero in silenzio per un momento. Erano nella merda fino al collo e lo sapevano. Benza strinse loro la mano. Erano amici sinceri e fidati. Benza voleva bene a entrambi. «Siamo stati bene, qui, ragazzi.» Charlie Salvetti cominciò a piangere. Voltò le spalle e uscì dall'ufficio senza una parola. Tuzee rimase a fissare il pavimento finché Salvetti non se ne fu andato, poi allungò nuovamente la mano verso Benza, che la strinse. «Si sgonfierà tutto, Sonny. Vedrai. Chiariremo le cose con New York, e finirà tutto bene.» Benza sapeva che erano tutte stronzate, ma apprezzò il tentativo di Tuzee per tirarlo su di morale. Trovò anche la forza di sorridere. «Philly, dovremo guardarci le spalle per il resto della nostra vita. Be', fa parte del gioco.» Tuzee sorrise stancamente. «Sì, penso di sì. Ci vediamo all'aeroporto.» «Contaci.»
Tuzee si allontanò in fretta. Sonny Benza tornò a voltarsi verso la finestra. Restò ad ammirare le luci nel deserto sotto di lui, splendenti come sogni infranti, e ripensò a quanto era stato orgoglioso suo padre, a come si vantava: "Solo in America, Sonny, solo in America; a due passi dalla casa di Francis Albert!". Frank Sinatra era morto da anni. Benza andò a svegliare la moglie. Sabato, 07.49, ora della costa Est New York City VIC CASTELLANO Vic Castellano sedeva sulla terrazza che dominava l'Upper West Side di Manhattan. Era una mattina stupenda, limpida e gradevole, anche se sarebbe diventata più calda di un fottuto forno prima di mezzogiorno. Indossava ancora l'accappatoio di spugna con la scritta "Non scocciatemi" sulla schiena. Gli piaceva così tanto che probabilmente l'avrebbe indossato fino a che non si fosse ridotto a uno straccio. Posò il caffè. «Dalla tua espressione capisco che le cose non vanno bene.» Jamie Beldone era uscito in quel momento a parlargli. «Proprio così. La polizia ha i dischetti. Hanno preso il contabile di Benza e parecchi altri dei suoi. Non appena i federali avranno visionato il contenuto, avremo una bella grana per le mani.» «Ma sopravviveremo.» Jamie annuì. «Incasseremo qualche colpo, ma sopravviveremo. Per Benza, invece, è un altro discorso.» «Quel figlio di puttana non ha ancora avuto la decenza di chiamare. Ma ci pensi?» «Dimostra di non avere classe.» Castellano si appoggiò allo schienale, pensando a voce alta. Lui e Jamie avevano affrontato l'argomento più e più volte durante la nottata, ma non faceva mai male ripetere certe cose. «Sopravviveremo, ma a causa di questo rottinculo della costa Ovest saremo sottoposti a un sacco di pressioni da parte del procuratore federale. Questo significa che abbiamo diritto a un risarcimento.» «Le altre famiglie la vedranno in questo modo.»
«E dal momento che i federali stanno per mettere Benza fuori dal giro, nessuno protesterà se ce ne occupiamo noi al posto loro.» «Mi sembra giusto.» Castellano annuì. «In fondo, probabilmente è stato un bene per tutti che questo sia accaduto. Possiamo mandare qualcuno laggiù a rilevare quello che resta della parte di Benza, e ritagliarci una fetta più grossa della torta.» «L'aspetto positivo che tutti gradiranno. Cosa intende fare, capo?» Erano ore ormai che Castellano sapeva cosa avrebbe fatto. Non ne era entusiasta, ma aveva già organizzato tutto. «Telefona.» Beldone fece per rientrare in casa. «Jamie!» «Sì, capo?» «Voglio essere sicuro. Quel Clewes, Marion Clewes, è un po' strano. Non voglio avere solo la sua parola che la colpa è stata tutta di Benza. Voglio saperlo con sicurezza.» «Sono sicuro, Vic. Ho controllato. Ho appena messo giù con Phil Tuzee.» Castellano si sentì meglio. Sapeva che Phil Tuzee non gli avrebbe mai detto una cosa per un'altra. «Allora va bene. Fa' quella telefonata e finiamola qui.» Sabato, 04.53, ora della costa Ovest Palm Springs, California SONNY BENZA Sua moglie si muoveva così pigramente che gli venne voglia di infilarle un pungolo da vacche su per il sedere. I ragazzi erano ancora più lenti. «Vuoi sbrigarti, perdio? Dobbiamo andarcene da qui.» «Non posso lasciare le mie cose!» «Te ne comprerò di nuove!» «Non possiamo abbandonare le nostre foto! E il nostro album del matrimonio? Come fai a comperarmi un nuovo album del matrimonio?» «Cinque minuti, hai cinque minuti! Prendi i ragazzi e aspettami davanti a casa o ti lascio qui.» Benza attraversò la casa a passo svelto, diretto verso il garage. Portava
solo una sacca da ginnastica blu di nylon con dentro centomila dollari in contanti, le medicine per l'ipertensione e la .357. Qualunque altra cosa gli servisse, poteva comperarla una volta atterrati: Benza aveva oltre trenta milioni di dollari depositati su conti esteri. Schiacciò il pulsante per aprire la porta del garage. Buttò la sacca sul sedile posteriore della Mercedes, quindi si mise al volante. Accese il motore, inserì la retromarcia e accelerò con violenza, partendo all'indietro in un'ampia curva verso la porta d'ingresso della casa. Andava così forte che per poco non centrò in pieno l'anonima berlina che gli bloccava la strada. Lampi di luce esplosero intorno all'auto, mandando in frantumi il lunotto posteriore della Mercedes. I proiettili lo sbatterono contro il volante, e poi di lato sul sedile. Sonny Benza cercò di estrarre la .357 dalla borsa, ma non ne ebbe il tempo. Qualcuno spalancò la portiera dalla parte del guidatore e gli sparò in testa. Parte quinta IL CAMPO DI AVOCADO 29 Domenica, 14.16 Due settimane dopo TALLEY La fantasia era sempre la stessa. I giorni in cui Jeff Talley andava al campo di avocado, immaginava Brendan Malik che giocava tra gli alberi. Vedeva il bambino ridere, correre alzando la polvere e poi arrampicarsi tra i rami, da dove si lasciava penzolare a testa in giù tenendosi con le ginocchia. In questi sogni a occhi aperti Brendan era sempre felice e rideva, anche se la sua pelle mostrava i segni della morte e il sangue gli usciva a fiotti dal collo. Talley non era mai riuscito a immaginarlo diversamente. «A cosa stai pensando?» chiese Jane. Se ne stavano allungati sul sedile anteriore della sua auto di pattuglia, a guardare i falchi dalla coda rossa che volteggiavano sopra gli alberi. Amanda era rimasta a Los Angeles, ma Jane era venuta per il fine settimana. «A Brendan Malik. Ti ricordi? Quel bambino.» «Non me lo ricordo.»
Talley si rese conto di non averle mai raccontato nulla. Non aveva mai parlato di Brendan Malik a nessuno dopo quella sera, quando era uscito dalla casa del bambino, neppure allo psicologo della polizia. «Non credo di avertelo mai nominato.» «Chi era?» «La vittima durante una trattativa. Non ha più importanza.» Jane gli prese la mano. Si girò di fianco in modo da guardarlo dritto in volto. «È importante, invece, se tu ci stai pensando.» Talley ci meditò su. «Era un bambino di nove, dieci anni, qualcosa del genere. Più o meno dell'età di Thomas. Qualche volta penso a lui.» «Non me ne hai mai parlato.» «Penso di no.» Talley si ritrovò a raccontarle di quella sera con Brendan Malik, quando gli aveva tenuto la mano, e lo aveva guardato negli occhi mentre moriva, dell'opprimente senso di fallimento e vergogna. Mentre ascoltava, Jane si mise a piangere, e Talley con lei. «Proprio ora cercavo di rivedere il suo viso, ma non ci riesco. Non so se esserne felice o triste. Pensi che sia un brutto segno?» Jane gli strinse la mano. «Penso che sia un bene che ne stiamo parlando. È segno che stai guarendo.» Talley si strinse nelle spalle, poi le sorrise. «Era ora.» Jane gli rivolse uno di quei suoi sorrisi, allo stesso tempo incoraggianti e compiaciuti. «Hai saputo qualcosa di Thomas?» «Ho provato, ma non mi vogliono dire nulla. Suppongo sia meglio così.» Walter Smith e la sua famiglia erano entrati a far parte del programma di protezione testimoni degli us Marshal. Erano semplicemente svaniti nell'aria; un giorno erano qui, quello dopo non c'erano più, nascosti dalla rete. Talley sperava che prima o poi Thomas si sarebbe fatto vivo con lui, ma non lo riteneva probabile. Era più sicuro così. «Quanto tempo hai prima di dover rientrare?» «Quanto voglio. Sono io il capo.» Il sorriso di Jane si fece più incoraggiante. «Facciamo due passi.»
Passeggiarono tra sole e ombra, con le api che volavano indolenti intorno a loro, pigre nel caldo torrido delle ore centrali del giorno. Era bello camminare lì. Era tranquillo. Talley era stato lontano per lungo tempo, nascosto dentro se stesso, ma adesso era tornato. Stava tornando. Il campo, come sempre, era immobile e silenzioso come una chiesa. «Sono felice che tu sia qui, Jane.» Lei gli strinse la mano. In quel momento Talley comprese che le chiese sono il luogo dove si seppelliscono i morti, ma anche dove si celebra la vita. E la loro poteva cominciare un'altra volta. FINE