NEAL BARRETT JR. LUNGO I MARI DEL FATO (Aldair, Master Of Ships, 1977) DI NUOVO I «SEMIUMANI» Secondo appuntamento con N...
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NEAL BARRETT JR. LUNGO I MARI DEL FATO (Aldair, Master Of Ships, 1977) DI NUOVO I «SEMIUMANI» Secondo appuntamento con Neal Barrett ed il suo affascinante mondo popolato dai «semiumani». Ero certo che il primo volume del Ciclo di Aldair vi sarebbe piaciuto e, a riprova di quanto ho appena detto, ci sono le vostre lettere, pervenuteci in gran quantità e tutte assai positive. Avrete certamente notato come, nel proporvi romanzi ed autori, io cerchi sempre di trovare qualche argomento completamente nuovo o, al limite, trattato in maniera differente da quanto sia stato fatto in precedenza. Questo, stante la grande quantità di carta che viene stampata nell'ambito della narrativa di fantascienza, è sempre più difficile. Difficile, ma non impossibile. Basta infatti - come dice l'amico Riccardo Valla - aver voglia di leggere quanto viene pubblicato in America, e si può star certi che i testi interessanti saltano fuori: il guaio è che non siamo più in molti a tenerci aggiornati sulla produzione fantascientifica d'oltreoceano, e questo è anche uno dei motivi per i quali la narrativa di SF nel nostro Paese sta attraversando un momento non certo felice. Il lettore di fantascienza italiano è un lettore sofisticato, sofisticato nel senso positivo del termine s'intende. Non è quindi assolutamente possibile propinargli dei testi scadenti illustrandoglieli come dei capolavori o giù di lì. Ho sempre detto e scritto che nutro una grande stima sia per l'intelligenza che per la capacità di giudizio dei nostri lettori, per cui ho sempre rifuggito da presentazioni roboanti o da esaltazioni fuor di luogo. Penso che l'autonomia di giudizio sia una delle prerogative che vadano maggiormente rispettate, ed è proprio questo motivo a farmi desiderare che i lettori i quali si avvicinano ai libri che loro propongo, si formino un'idea del tutto personale e soprattutto scevra da influenze derivanti da più o meno forbite presentazioni. Questo LUNGO I MARI DEL FATO arriva sull'onda dell'accoglienza positiva che è stata riservata al primo volume del Ciclo, ed è appunto per questo che mi permetto delle lodi e degli apprezzamenti. Vi avevo detto nella presentazione ad ALDAIR IN ALBION come la caratteristica principale di questa saga sia quella di snodarsi in un continuo «crescendo». Infatti, contrariamente alla maggior parte dei cicli dove i volumi successivi
sono sempre di livello inferiore al primo, in questo di Barrett si verifica esattamente il contrario. Penso infatti di trovarvi d'accordo con me quando affermo che, arrivati alla fine di ogni singolo volume, desideriate immediatamente leggere quale sarà lo sviluppo delle avventure di Aldair su questa Terra del futuro cosi umanamente «disumana». E colgo qui l'occasione per rispondere a quanti di voi mi hanno affettuosamente sollecitato a pubblicare di seguito tutti e quattro i volumi del Ciclo, facendo loro presente che, in questa collana, i Cicli che sto portando avanti sono diversi, ed ognuno di essi ha diritto ad una regolare programmazione. Perciò, senza far torto a nessuno, ve li propongo in modo assolutamente paritetico senza avvantaggiare qualcuno a scapito di altri. Abbiate quindi un po’ di pazienza. D'altro canto, maggiore è l'attesa, maggiore è il piacere che proverete nel leggere le successive avventure di Aldair e dei suoi compagni. I quali, a questo punto, mi sembra opportuno vedere cosa stiano facendo. Li avevamo infatti lasciati sull'isola di Albion dove, all'amarezza che Aldair aveva provato nel venire a conoscenza del fatto di essere solo degli animali un tempo adattati dall'Uomo in forme «umanizzate», si era aggiunto il dolore per la perdita del suo amico stygiano, che gli era stato al fianco sin dall'inizio di questa allucinante avventura. E proprio per onorare la memoria di questo suo amico, dopo aver lasciato sull'isola di Albion alcuni studiosi ad esaminare i molti manufatti ivi lasciati dall'Uomo, Aldair torna tra i boschi dei Lauvectii per dare notizia della morte dello stygiano ai suoi feroci congeneri. Ed un altro stygiano della stessa stirpe prende il posto dell'amico scomparso, per cui Barrett non lascia vacante la figura del coprotagonista della narrazione, figura che era già dal primo volume quanto mai indovinata e ben delineata. Tornati per mare, dove sono stati costretti a fuggire dai Rhemiani che li inseguono per liberare una nobile fanciulla del loro sangue rapita e tenuta in ostaggio da Aldair, si trovano a dover attraversare nuovi mari, nuove terre, e soprattutto a dover fare la conoscenza di nuove genti del tutto sconosciute. Spinti da un'inestinguibile sete di sapere circa le motivazioni che hanno determinato gli Uomini a crearli, arrivano sino alla Grande Desolazione dove incontrano il popolo degli Avakhar, esseri stranissimi che sono convinti di sognare la vita che stanno vivendo. Dopo aver creduto per un momento di essere giunti alla risposta ai loro interrogativi, riprendono la via
che li riporta nell'Impero di Rhemia, dove hanno la sorpresa di trovare uno degli studiosi che erano rimasti in Albion il quale, dopo aver ucciso gli altri colleghi, domina in pratica incontrastato su tutto il territorio. Aldair ed i suoi vengono catturati, imprigionati, e pare proprio che non sussista per loro alcuna possibilità di scampo, quand'ecco... Un momento. Questa volta, senza accorgermene, stavo per dirvi la conclusione dell'avventura, e penso quindi che non vi avrei di certo reso un buon servigio. Girate quindi pagina, e scoprite da voi in qual modo - e a quale prezzo Aldair sia riuscito a salvare la sua vita e quella dei suoi amici... Gianni Pilo PROLOGO «È strano, ma mi sembra soltanto ieri, quando mi trovavo in vetta ai pinnacoli degli Avakhar e guardavo un Sole rosso sangue immergersi nei mari di Indrae. Eppure, da allora è passato molto tempo. Ho attraversato la Grande Desolazione e sono sopravvissuto per raccontare la mia impresa. Ho catturato la tremenda Sentinella dell'Uomo. Ho tradito la fiducia del mio Signore, l'Aghiir, Tharrin, e ho liberato una forza tragica e incontenibile sul mondo. Eppure, come sempre, nei grandi arazzi ci sono, intrecciati ai fili maestri, anche piccoli fili di poca importanza. Ho dato più volte spettacolo della mia insipienza. La creatura più grande del mondo ha avuto la sfrontatezza di orinare su di me. Ho vinto l'amore della dolce Corysia, e nel farlo ho perduto un orecchio splendido e perfettamente funzionante. Imprese grandi, e piccoli fatti. Ma ognuna ha il suo posto nello schema; questo, almeno, il profeta degli Avakhar pretendeva che credessimo. E forse è vero, anche se non posso prestar fede a tutto ciò che ho udito nelle torri di Indrae. È difficile infatti prestar fede a creature che si schiacciano i pidocchi con il becco, e sono convinte di non essere ancora nate. Tuttavia, anche nelle altre specie viventi, non ho trovato soverchie tracce di saggezza. Ho visto cose che nessuno sulla Terra avrebbe neppure sognato. Mi è stata elargita una sapienza che è più antica della storia stessa. Mi sono trovato a faccia a faccia con il mio spettro. Eppure, da tutte queste meraviglie, non ho cavato una sola goccia di saggezza. E posso affermare con tutta onestà di non avere coraggio bastevole per il compito pauroso che ancora mi aspetta...»
Aldair, già dei Venicii, a bordo del libero vascello Ahzir Al'Rhaz UNO Si sa che i Vikoniani non hanno paura di niente al mondo, fatta eccezione della pancia vuota. Io però so per certo che c'è almeno un'altra cosa in grado di instillare il terrore nei loro cuori. Fra le genti del Nord, è credenza di fede che un guerriero che perisca sulla terra asciutta sia dannata per migliaia di anni a patire nei sette inferni di Rhagnir. Laggiù, l'anima soffre indicibilmente di nostalgia per il mare lontano, mentre una brezza che porta il profumo delle onde misto a quello dei barili di birra, tormenta ulteriormente lo spirito sventurato. Non c'è da stupirsi che i Vikoniani siano usi vender carissima la loro pelle sulla terraferma, e siano maestri nell'arte del navigare. Per questo, anche se lo sguardo di Signar-Haldring appariva indecifrabile, io vi leggevo un'inesprimibile contrarietà, nel corso della nostra veglia notturna. Le troppe leghe di distanza che ci separavano dall'acqua salata lo rendevano insopportabilmente infelice. Ma non aveva paura. Neppure lì, così vicino alle foreste dei Lauvectii. Era, tuttavia, fortemente irritato con me. Perché era per opera mia che si trovava in un luogo come quello, e più volte mi aveva detto chiaramente che la sua stima per me sarebbe molto diminuita se al termine del nostro viaggio avremmo finito per incontrare la morte. «Vecchio amico», feci, dopo essere rimasto a lungo accovacciato accanto a lui nel gelo e nel silenzio, «i tuoi pensieri sono così tetri che farebbero morire di malinconia una vipera, se pure ce ne sono in un luogo desolato come questo. Quasi quasi preferirei sentire i brontolii del tuo ventre, piuttosto che indovinare ciò che ti passa dietro la fronte...» Quando si volse verso di me, vidi le stelle luccicare nei suoi occhi neri e lucidi come l'agata. Quella notte, il freddo morso dell'autunno era particolarmente profondo, e gocce di candida brina ornavano la punta delle sue orecchie, ed erano sparse sul suo folto pelo naturale. «Non hai torto, Aldair. In questo momento, i miei pensieri non inclinano verso la piacevolezza...» «Ti dirò che la cosa non mi sorprende.»
Vidi il suo naso torcersi per l'irritazione. «Che vuoi che ti risponda, allora?», fece. «Posso soltanto ripeterti ciò che ti ho già detto. Questo non è un buon posto né per viverci né per viaggiarci. Non mi piace il colore di questa terra. Detesto il suo odore. Puzza di carne putrida.» «Ci devono essere delle carcasse di lepri appese a un albero, da qualche parte,» dissi. «Come ben sai, gli Stygiani mangiano praticamente tutto ciò che gli capita sotto mano, e hanno sempre fame. Ma se c'è un po' di carne che può essere messa da parte, allora la appendono a un ramo, e ne fanno uso nei tempi di magra.» Il Vikoniano torse il muso. «Che abitudine disgustosa.» «Sono d'accordo,» feci. «Ma per gli Stygiani l'aroma della carne in decomposizione è molto appetitoso. Al mondo, i gusti cambiano secondo le genti. Rheif trovava rivoltante la mia passione per i vegetali crudi. Erbaccia e radici, diceva. E quando fummo entrambi schiavi dei Nicieani, lo stomaco ci si ribellò di fronte all'orrenda zuppa di scarafaggi, che invece loro trovano deliziosa.» «I tuoi discorsi sul cibo sono interessanti, grugnì Signar «ma noto che hai evitato di menzionare le creature che gli Stygiani trovano ancor più appetitose delle lepri...» «Stai tranquillo che lo ricordo bene,» risposi. «Sono nato negli Eubironi, e nessuno conosce meglio di me le abitudini alimentari degli Stygiani.» «Certe volte, mi chiedo se non te ne sei dimenticato.» Lo fissai negli occhi. «Bene,» feci. «Dimmi quello che hai in mente.» Dal profondo del petto dell'enorme guerriero sorse un cupo brontolio. «Nella mia mente non c'è nulla che tu già non sappia, Aldair. Non puoi pretendere che tutti gli Stygiani siano come era lui. Non ho dimenticato che Rheif è stato per noi più che un fratello. Ma le creature nascoste fra quei tronchi non sono miei fratelli. Né tuoi. Sono diversi da lui.» «Tutto è diverso da com'era prima, ormai,» risposi. Signar non replicò. Sapeva bene quanto me che avevo detto il vero. Davanti a noi, oltre la cima della nostra bassa collinetta, il terreno declinava dolcemente in una prateria d'erba tenera e corta, verso i Lauvectii. La foresta non era di quelle che cominciano con alberi radi che s'infoltiscono, o con chiazze di boscaglia sempre più fitta. Si alzava invece all'improvvi-
so, come una parete cupa e torreggiante di querce antichissime, così addossate le une alle altre che anche in pieno giorno pochissimi raggi di sole riescono a filtrare fino alla base. Molte leggende si narrano sul rifugio degli Stygiani. In massima parte si tratta di racconti privi di verità, perché ben poche creature fra quante si sono avventurate fra quei tronchi sono poi tornate indietro a raccontare ciò che avevano visto. Le Legioni Rhemiane, che avevano conquistato mezzo mondo, non volevano avere nulla a che fare con quei posti. Il soldato dell'Impero di Rhemia è un avversario insuperabile fino a quando il suo nemico si schiera nel modo previsto dalle strategie militari e combatte in modo civile; ma non vale gran che quando è costretto a strisciare in sottoboschi umidi e ostili, senza neppure riuscire a vedere chi deve combattere. Si dice che per gli Stygiani, dar la caccia ai legionari in assetto di guerra con armatura e scudo, sia uno sport fra i più divertenti; trovano ammirevole, in particolare, il fatto che un bel pezzo d'arrosto se ne vada in giro già rivestito della padella entro cui cuocerlo. Può darsi che una battuta del genere circoli davvero fra di loro, ma ne dubito: gli Stygiani non hanno un gran senso dell'umorismo, specie per ciò che riguarda la roba da mangiare. Personalmente, non mi pare che ci sia bisogno di creare apposta delle leggende paurose intorno a quelle creature. Sono già di per sé feroci e astute quanto basta per incutere il più folle terrore, e non potevo dar torto a Signar se si sentiva a disagio, trovandosi così vicino al loro territorio. Questo non significa che non avesse coraggio: tuttavia, una persona può abituarsi ad un certo tipo di pericolo, e sentirsi inquieta di fronte a un altro. Mentre osservavo, una chiazza color perla si manifestò fra le nubi all'orizzonte. Dopo pochi istanti, mentre il Sole si levava, divennero visibili le scure acque del fiume Rheinus che scorreva ai piedi della nostra collina e, al di là di esse, la terra di Gaullia, ancora avvolta nelle tenebre. Poche volte fui più felice di vedere un'alba, anche se il gelo mi mordeva le ossa. Il mio naso era ormai ghiacciato, e le orecchie non me le sentivo più. Avrei volentieri barattato la mia pelliccia naturale di peli corti e sottili con il vello folto e lungo di Signar. Almeno, fino a primavera. Spingendo lo sguardo nella valle, cercai di vedere dove fosse andata a piantarsi la freccia che avevo lanciato il giorno prima; ma il mattino avvolgeva ancora il paesaggio di una luce falsa. Soltanto gli Stygiani hanno occhi sufficientemente acuti da frugare tra le ombre, distinguendole l'una dall'altra.
«Fra poco ci sarà luce piena,» grugnì Signar vicino a me. «Ci vedranno certamente, Aldair, se restiamo fermi come sassi qui all'aperto.» Cercai di mascherare un sorriso. «Ci hanno già avvistati da un pezzo, amico mio,» gli risposi. «Probabilmente hanno seguito tutti i nostri movimenti da quando abbiamo attraversato il fiume.» Signar ringhiò, scoprendo i lunghi denti, aguzzi come pugnali. «Li hai visti anche tu, allora.» «Non ne ho bisogno per esser certo che loro hanno visto noi. È inevitabile. Sono Stygiani.» Signar arricciò il naso e fiutò l'aria, alzando al vento il muso peloso. «In tal caso,» fece, «siamo spacciati, a meno che non rinunciamo in fretta a questa follia, e torniamo al fiume.» «Ne abbiamo già parlato,» gli ricordai. «Dobbiamo proseguire fino in fondo.» Un brontolio sordo dal profondo del suo petto mi fece capire chiaramente la sua opinione al riguardo. Un momento prima non c'era nulla, a parte la scura cortina di tronchi e il fitto intrico di rami e cespugli. E poi all'improvviso, lui era lì, magro e grigio contro la foresta. Signar ringhiò dietro di me. «Va tutto bene,» dissi. «È venuto.» «Già,» rispose lui. «Ma dietro a quello che vediamo, quanti altri ce ne saranno nascosti?» Rimasi muto. Ritto in piedi, muovendomi lentamente in modo che la creatura potesse vedere bene quello che stavo facendo, mi slacciai la cintura della spada e la feci cadere al suolo. Poi presi il fagotto che avevo portato con me e cominciai a scendere lungo il fianco della collina. Come tante altre volte a partire dal giorno in cui la mia vita era divenuta non più soltanto mia, sapevo di vivere un momento verso il quale ero stato condotto da un destino ineluttabile. Anche Signar lo sapeva, perché conosceva i posti in cui ero stato, e le cose che avevo visto. Ma sapere una cosa non ha per tutti lo stesso significato. Gli Stygiani non cambiano mai. Sono le più orgogliose di tutte le creature, e sono ostinati come macigni. Disprezzano tutto ciò che avviene nel mondo al di là dei Lauvectii, eppure, in fondo, sono curiosi come fanciulli. La creatura che mi stava aspettando si appoggiava pigramente ad un tronco, con lo sguardo rivolto a nord, come se non avesse la minima idea della
mia presenza. Però, io sapevo bene che i suoi scuri occhi rossi erano puntati su di me, e non feci l'errore di avvicinarmi troppo. «R'tai. Mahr a shinn, Stygiaar.» Ponderò le mie parole, studiandomi al di sopra del muso lungo e appuntito. Era snello e muscoloso. Una pelliccia grigia come l'ombra copriva un fascio di muscoli duri e frementi, che si avvolgevano come un mantello attorno a ogni centimetro della sua figura. Se il fatto che io parlassi la sua lingua lo aveva sorpreso, era deciso a non mostrarlo. «Sono Aldair, del Clan dei Venicii,» dissi. «Interessante,» fece lo Stygiano. Aprì la bocca in una specie di sorriso di scherno, mostrando denti aguzzi e lingua rossa. «Non sapevo che il char'desh avesse nomi.» Conoscevo la parola, che significava carne da fare arrosto. «Perché no, Stygiano?» gli risposi. «Se hanno nomi gli stivali, possono averne anche arrosti e contorni.» Il sorriso svanì, e vidi guizzare i muscoli delle sue spalle. Non gli era certo sfuggito che le mie calzature erano fatte con la pelle di un suo simile. «Strane parole,» fece «per una creatura che viene disarmata nelle foreste dei Lauvectii. Sei stanco di stare a questo mondo, piccolo guerriero?» «Se qui è in pericolo la mia vita, lo è anche l'onore degli Stygiani.» Si mise a ridere, emettendo quel suono strano, simile a colpi di tosse, che fra di loro passa come risata. «Hai detto una stupidaggine, char'desh. Fra di loro gli Stygiani sono certo gelosi dell'onore, ma una parola del genere non ha senso fra il nostro popolo e le creature di un'altra razza. Non sarebbe una cosa decente.» «Lo sarebbe, se riguardasse l'onore di un fratello guerriero caduto in terre lontane, senza alcuno della sua gente accanto a lui per raccogliere le sue preghiere.» Il viso dello Stygiano si contrasse per l'ira. «Che ne sai tu di queste cose? Mi disonori, parlandomi così!» Lo fissai negli occhi, senza tremare. «Stygiano, possiamo dimenticare per un attimo questa follia? Ho piantato una freccia nell'albero a cui ti appoggi, prima che il Sole morisse, e ho atteso per tutta la notte in cima alla collina, come sai bene. La freccia ora è scomparsa, e così l'anello che avevo infilato in essa. Lo stesso anello che ora vedo al tuo dito. Se tu non fossi della famiglia di Rheif non avresti diritto di portarlo, e non lo porteresti. Riportandotelo, ti ho reso onore. Rheif è morto. Io stesso l'ho seppellito secondo le vostre usanze, con la spada in
pugno e gli occhi aperti verso i suoi nemici. Se avessi potuto, avrei riportato anche gli anelli di Khairi e Whoris, i suoi fratelli; ma loro sono morti molto tempo prima di lui, ed ora riposano in fondo al mare.» Lo Stygiano scosse la testa. «Adesso sono certo che stai mentendo. Nessun Signore dei Lauvectii sarebbe così sciocco da attraversare l'acqua.» «Fu necessario. Non lo fecero di loro volontà.» «Dì pure che non lo fecero affatto. Rheif e i suoi fratelli vennero catturati dai Legionari Rhemiani. È un fatto che ben conosciamo.» «Solo Rheif venne catturato. I fratelli riuscirono a liberarlo. Per una serie di eventi che non ti racconterò, mi trovai con loro, tutti insieme inseguiti dai soldati di Rhemia. I fratelli di Rheif vennero uccisi, ma io e lui ci avventurammo verso terre lontane, e soffrimmo molto. Diventammo amici, e fratelli. Io gli devo la vita, perché lui ha dato la sua per me.» Lo Stygiano rizzò la sua figura, e cominciò a leccarsi le labbra con aria meditabonda. «È vero che hai riportato l'anello,» ammise infine con voce cupa. «Non ne so il motivo, e non credo a nulla di ciò che mi hai detto. Anzi, sono convinto che le tue parole facciano parte di un piano per portare la morte ad altri guerrieri.» «Non trovo innaturale che uno Stygiano pensi al tradimento prima che all'onore,» gli risposi. «Quanto al fatto che tu mi creda o no, non posso farci nulla. Ho restituito l'anello del tuo parente a colui che ne aveva diritto. Lo vedo al tuo dito: e questo è un fatto la cui evidenza non può essere negata neppure da uno Stygiano. Puoi rimanere in piedi tutto il giorno sotto un albero, a chiederti perché le pietre non volano, come ho visto fare molte volte ai guerrieri della tua gente. Puoi prenderti gioco di me fingendo che non esisto, o fingendo di non sapere che la gente degli Eubironi ha un nome e porta armi. Puoi fare tutto quello che vuoi, o non fare nulla: ma la verità non potrai cambiarla.» Se avessi avuto la minima speranza che una fuga veloce mi avrebbe potuto salvare la pelle, forse a questo punto non avrei resistito e me la sarei data a gambe. I lineamenti degli stygiani non sono rivelatori, ma spesso i movimenti della coda tradiscono le loro intenzioni. E la coda della creatura che mi stava davanti si agitava in un modo tale da farmi rizzare ogni singolo pelo su tutto il corpo. La gente degli Eubironi non è priva di coraggio. Abbiamo spesso vinto gli Stygiani in battaglia, e comunque da tempo immemorabile li teniamo lontani dalle nostre terre. Ma nessuno di noi avrebbe la minima possibilità
in un combattimento a corpo a corpo contro uno di quei mostri. Gli Stygiani non sono né alti né massicci come i Vikoniani, ma anche l'esemplare più alto della mia gente non arriverebbe a metà del petto di uno qualunque di loro. Noi siamo bassi e con le gambe tozze, poco adatti alla corsa. Combattiamo meglio quando siamo in gruppi di tre e più, con spade lunghe e affilate. O, meglio ancora, con arco e frecce: in tutta la Gaullia non ci sono arcieri migliori di noi. Comunque, in quel momento ero solo, e non avevo né spada né arco. Avevo soltanto una lingua abbastanza abile, che tuttavia di fronte a quel truce guerriero cominciava a trovarsi a disagio. Lo Stygiano si grattò il petto e mi fissò con aria interrogativa. «È il discorso più lungo che io abbia mai udito,» fece. «È finito?» «C'è ancora una cosa.» «Hai ragione. C'è la tua partenza, finché sei in grado. Perché ho deciso che è ancora troppo presto, stamattina, per uccidere.» Cercai di ignorare l'osservazione. «Come hai notato,» proseguii, «ho qualcosa con me. Era un regalo che avevo destinato a Rheif, ma lui morì prima che potessi darglielo. Ora, è tuo.» Lo Stygiano mi fissò sbigottito. «Mi prendi per sciocco?» fece. «Nulla che tu possa portare fra i Lauvectii sarebbe degno di uno sguardo.» «Senza dubbio,» annuii. «Siccome tu non vuoi guardarlo, ti dirò io che cos'è. È una spada. Una spada quale tu non hai mai visto l'uguale. L'impugnatura è d'oro, ed è incrostata di gemme. Non c'è nulla di simile al mondo. Con un colpo, può tagliare a metà una giovane quercia, o la più robusta delle armature.» Quello fu uno dei pochi momenti in cui vidi uno Stygiano rimanere senza parole. «Non ho grande considerazione per quelli della tua razza,» fece alla fine. «Non sarebbe una cosa decente. Tuttavia, fino ad oggi non sapevo che la pazzia fosse così rigogliosa dalle parti degli Eubironi.» Sorrisi, mio malgrado. Era orgoglioso, e ostinato e incoercibile come tutti quelli della sua gente. Mi avrebbe ucciso in un attimo, senza pensarci su, se avesse pensato che la cosa sarebbe stata divertente. Oppure, con la stessa facilità, mi avrebbe girato le spalle lasciandomi, senza voltarsi indietro, se un'ape, volteggiando attorno a lui, gli avesse fatto venire voglia di seguirla. È così che sì comportano gli Stygiani. Tuttavia, nei suoi occhi po-
tevo vedere la stessa luce che c'era negli occhi di Rheif, e ricordai molte cose. «Senza dubbio c'è pazzia fra gli Eubironi, perché oggi la pazzia è su tutto il mondo,» risposi. «Siamo in un'epoca in cui giorno e notte si confondono, e il vero è falso. È anche un tempo in cui i nemici possono essere amici... pur se questo non sei ancora pronto per crederlo.» «Una cosa la credo: che ne ho avuto abbastanza di discorsi, per oggi.» Drizzò le spalle, e poggiò con noncuranza una mano sul pomo della spada. «Non voglio quella cosa. Attraversa il fiume, e riportala via con te. Il regalo che io ti faccio è la tua vita. È un regalo d'infimo valore, e facendotelo non perdo l'onore.» Non dissi nulla, mi girai e lo lasciai lì. Ma non presi con me la spada. Non mi aspettavo che avrebbe mostrato interesse per l'oggetto, fino a quando io fossi stato vicino. Ma presto sarebbe venuto a prenderla. È così che si comportano gli Stygiani. Tuttavia, avrei dato un pezzo d'argento per vedere la sua faccia, nel momento in cui, messa a nudo la lama, avrebbe visto com'era incisa la gemma incastonata sull'elsa di quell'arma meravigliosa. DUE Nella Gaullia è abbastanza facile individuare gli stranieri e capire da dove vengono e che cosa fanno. Noi non siamo come i nostri cugini Rhemiani, che sembrano provare un particolare piacere nel diventare tutti uguali. Ci hanno conquistato ormai da molto tempo, ma noi siamo riusciti a conservare i nostri costumi, per lo meno nelle cose che contano. Così, gli Aeduii conserveranno sempre l'aspetto dei carrettieri, quale che sia oggi la loro occupazione. E per me la gente di Danuvvium, continuerà ad emanare un chiaro sentore di pesce, anche se hanno dimenticato la loro attività tradizionale e il caratteristico grembiulone giallo indossato dai loro padri. Per quasi tutte le genti della Gaullia è così. I mercanti del sud continuano a radersi le setole dalle guance e tendono a ingrassare, mentre le femmine della regione non si sentono completamente vestite se non si sono cosparse i seni con polveri colorate, anche se nessuno a parte i mariti - presumibilmente - potrà ammirare tanta meraviglia. Abbiamo le nostre tradizioni e i nostri costumi, e ci opponiamo ai cambiamenti come ad una pestilenza. Questo in certi casi è un bene, ma in altri è un male. Dalla cultura di Rhemia, infatti, possono venire comodità e be-
nefici, se si è disposti a pagarne il prezzo relativo. A molti di noi, tuttavia, questo prezzo pare eccessivo. Chi capitasse nella città di Duroctium stenterebbe a credere che i conquistatori Rhemiani vi abbiano mai messo piede: circostanza, in effetti, verificatasi molto di rado. Duroctium si trova vicina al fiume, e le campagne circostanti sono una delle mete preferite per le scorrerie degli Stygiani. La gente non è né grassa né pigra, e non giudica favorevolmente chi viceversa è entrambe le cose. Signar aveva accolto con molto fastidio la mia decisione di visitare quel posto, anche perché si era rivelato stranamente pieno di soldati. Gli assicurai che nessuno mi avrebbe riconosciuto, e che se qualcuno mi stava cercando, memore dei miei burrascosi rapporti con le truppe imperiali, questo qualcuno era fornito della descrizione di un guerriero del clan dei Venicii, ed il mio presente aspetto era completamente diverso. Inoltre - aggiunsi - un presunto fuggiasco non sarebbe certo andato in giro con un gigante peloso al fianco per attirare l'attenzione. Il Vikoniano emise un ringhio alla mia osservazione. «Canaglia!», fece. «Vedrai come ti farà piacere la mia compagnia, quando una di quelle teste di pentola ti punterà una spada sul fondoschiena! Non mi piace la loro presenza qui così in forze, e non riesco a immaginare alcun motivo per frequentare un posto schifoso come questo, se non per cercare proprio noi due.» «Ciò che Rhemia sta cercando,» gli ricordai, «è una nave, la nostra nave. E si trova a cento leghe da qui.» «Forse. Ma forse no,» grugnì il gigante. Per un momento, le orecchie pelose gli spenzolarono lungo il cranio, ed alzò il muso per fiutare l'aria. Un gesto che faceva sempre quando pensava che ci fosse un pericolo imminente. Ma tutto ciò che si poteva vedere erano le massicce torri di Duroctium che si alzavano sopra la cima degli alberi, e le mura grigie, rese ancora più cupe dal cielo autunnale. «Non ho intenzione di fermarmi a lungo in città,» dissi. «Riprenderemo il viaggio per mezzogiorno, o poco dopo.» Signar ringhiò, e fece finta di badare ai nostri cavalli, che per la verità non avevano bisogno di nulla, contenti di brucare l'erba stenta che cresceva ai piedi degli alberi. Anche se non amo troppo la città, provai piacere nel percorrere nuovamente strade che mi erano familiari, un tempo. Duroctium non è lontana dalla mia regione: tanto i Bituraii che i Venicii sono Clan che popolano
l'ampia vallata degli Eubironi, ed hanno molte cose in comune. Il mio semplice mantello di lana e le brache pesanti erano identici agli indumenti indossati da tutti gli altri cittadini che affollavano le strade anguste. Avevo lasciato la mia spada a Signar, insieme con i miei soliti abiti, che portavano i colori e le insegne del mio Clan: entrambi avrebbero dato troppo nell'occhio. La giornata era gelida, ma in Gaullia il freddo non ha mai fatto chiudere i mercati. Contadini e commercianti esponevano le loro mercanzie in banchetti addossati ai due lati delle strade, tanto che al centro c'era appena il posto per far passare due persone a fianco a fianco. I mercati hanno ovunque lo stesso aspetto, persino fra i Nicieani, al di là del Mar Mediterraneo. Oltre al mercato c'è una strada chiamata Porta d'Ambra, chissà per quale motivo. Si snoda fra le mura della città da un lato, e i quartieri delle botteghe dall'altro. Sbuca in una piazzetta tradizionalmente dedicata alla compravendita degli schiavi Cygnani. Non c'è bisogno di insegne per indicare la via verso il mercato degli schiavi: anche il più insensibile dei nasi ne avvertirebbe il fetore a miglia di distanza. C'erano quattro bruti incatenati a pali di fronte ad una stalla fetida. Le loro pesanti pellicce invernali,non tosate, erano spelate e luride. Emettevano deboli belati e roteavano gli occhi. In mancanza di meglio da fare, defecavano per terra. I miei sentimenti nei confronti dei Cygnani - e della schiavitù in generale - erano mutati considerevolmente nel corso degli ultimi anni. Avevo portato anch'io la catena e il collare, e nulla più che un'esperienza del genere è in grado di procurare vistose aperture mentali in materia. Essere a totale disposizione di un'altra creatura, anche del più mite e benevolo dei padroni, è una cosa spaventosa. Così, attraversai la piazza accelerando il passo, senza fare caso a dove andavo, e mi trovai in una strada piena di soldati. Nessuno di loro badò a me, perché erano tutti intenti a maltrattare un altro poveraccio. Un mercante, senza dubbio, che aveva avuto la sfrontatezza di pretendere che i Rhemiani pagassero come tutti gli altri le mercanzie acquistate. I soldati erano una dozzina, tutti a cavallo e fasciati da corazze e tuniche, con sul capo elmi ornati di piume rosse. Poiché erano truppe di cavalleria, erano armati di lunghe spade e di lance, invece che del corto e tozzo gladio adottato dalla fanteria. Questo è tutto quello che mi ricordo di loro. Per la verità, se fra di essi ci fosse stato l'Imperatore in persona, non me ne sarei accorto, perché avevo
occhi soltanto per la ragazza. Era lei, certamente, la ragione di una così forte concentrazione di truppe a Duroctium. Anch'io, se fosse stata mia, l'avrei vigilata con altrettanta cura. Era una visione. Una pura delizia. Era Rhemiana, di alto rango, molto più snella della media della sua gente. Profondi occhi neri si aprivano su un musetto picchiettato di rosa. Il suo corpo era coperto da una finissima pelliccia ramata, ed era bene in vista perché, malgrado il freddo, aveva scostato indietro il mantello. La sua tunica di seta verde che le scendeva dalle spalle si gonfiava simmetricamente mentre scendeva verso il ventre, rivelando le curve perfette delle due morbide file di seni. All'improvviso, sentii su di me lo sguardo di quella creatura incredibile. Uno sguardo freddo, scostante, che mi fece rabbrividire ulteriormente malgrado il gelo del mattino, perché rivelava che lei, la visione, aveva capito esattamente ciò che stavo pensando. Arrossii e voltai le spalle, sentendomi profondamente sciocco. Tutte le donne sono dotate di potere analogo. Possono far diventare l'uomo duro come una roccia o morbido come gelatina. E provano un esecrabile piacere nell'esercitare entrambe queste arti. Il vecchio Galiun è sempre stato uno dei miei zii favoriti, forse perché gli piaceva dedicarsi alla pesca nei torrenti più solitari, mentre gli altri pensavano che l'occupazione migliore per giovani e adulti, nelle giornate di buon tempo, fosse quella di badare ai campi. Lo vidi più vecchio, ma non troppo. Quando aprì la porta e mi riconobbe, mi afferrò per un braccio, mi tirò dentro, e mi strinse in un abbraccio vigoroso. «Aldair, per gli occhi del Creatore, sei l'ultima persona al mondo che mi sarei aspettato di vedere!» «È passato molto tempo, zio.» Si scostò un poco, stringendo il mento nella mano e scuotendo la testa. «È proprio vero. Non sei più un ragazzo. Aldair, pensavamo che tu fossi morto. Tua madre...» «Le ho mandato una lettera, zio. Le è arrivata?» «Sì, è arrivata,» annuì mio zio. «Ma che razza di lettera...» Mi lanciò un'occhiata di disapprovazione. «Non era certo fatta per tranquillizzare una madre. Né il resto dei tuoi parenti.» Sapevo che aveva ragione. «Zio, non potevo fare altro. Dopo tutto quello che era successo, sarebbe stata una follia per me tornare a casa, e avrei causato guai a non finire al
Clan. Mia madre sa che non ho commesso i delitti di cui sono stato accusato. Nella lettera...» Galiun ringhiò e alzò una mano. «Aldair... neppure una dozzina di uomini, nell'arco di tutte le loro vite, avrebbero potuto perpetrare tutte le infamie che ti sono state attribuite!» «Sono venuti fin qui a cercarmi, allora. Da Silium.» «Sono venuti. Un Padre della Chiesa e due enormi legionari. Hanno chiesto a tutti dov'eri, che cosa stavi facendo, che tipo eri, e cose del genere. Nessuno gli ha detto nulla, naturalmente. E non l'avremmo fatto neppure se l'avessimo saputo. Aldair...» Mi lanciò un'occhiata penetrante, alla maniera di un buon parente. «Devi andare a trovare tua madre. Non si accontenterà del mio resoconto sul tuo aspetto e sulla tua salute, se è questo che intendi chiedermi.» Il cuore mi diede un tuffo. Aveva ragione, e anch'io non desideravo altro. La risposta che diedi mi costò molto. «Zio, non posso.» Ma perché? Sei a Duroctium. Per casa tua bastano due giorni di viaggio...» «Zio...» Mi scrutò con attenzione, stringendo gli occhi. Poi si alzò, prese del vino e due ciotole e le mise sul tavolo davanti a noi. «Se hai dei problemi,» fece, «ricordati che hai anche una famiglia, e molti amici.» «Non sono problemi del tipo che tu puoi immaginare, e che si possono risolvere facilmente. Ho un destino che devo affrontare da solo.» Galiun annuì, ma non disse nulla. Era un vecchio guerriero, conosceva la sofferenza, e aveva il senso dell'onore. Forse non approvava le mie parole, ma riusciva a capirle. Bevvi il vino in un sorso e mi alzai in piedi, afferrandogli le spalle. «Dille che le voglio bene, zio. Che sarei andato da lei se avessi potuto. Dille che mi sono accadute tante cose strane e terribili, che sono stato in terre lontane, e devo viaggiare più lontano ancora. E dille che, qualsiasi cosa le abbiano raccontato, io non ho mai fatto nulla che possa portare disonore ai Venicii.» Galiun scosse la testa. «Ragazzo mio, questo lei lo sa già. O pensi che crediamo ai Rhemiani, piuttosto che a uno della nostra gente?» Ci abbracciammo. Non dissi più nulla, e anche lui rimase muto. Fra noi non c'era bisogno di parole. E questo pensiero mi confortò. Che cosa avrei
potuto dirgli di più di quello che potevano comunicare uno sguardo profondo e una stretta vigorosa? In distanza, sentii risuonare le campane della chiesa. Erano i rintocchi di metà mattina, che simboleggiavano le preghiere dedicate ai morti di Albion. Avrei mai potuto raccontare a mio zio, ai miei parenti, quello che sapevo, quello che avevo visto? Raccontare che avevo calpestato le spiagge desolate di Albion, e non avevo incontrato alcun morto? Che laggiù non dimoravano le ombre dei trapassati, ma che vi si celavano segreti e misteri ben più terribili? L'Aghiir Tharrin aveva ragione: la verità è l'ultima cosa che gli uomini desiderino udire. Mi allontanai dalla casa di Galiun inoltrandomi fra le strade, in direzione del Ponte Basso. Cercavo di evitare l'affollamento del mercato e, soprattutto, la via in cui avevo incontrato i soldati Rhemiani. Avrei dato molto per gettare un altro sguardo su quella fanciulla, ma non era tempo per dedicarsi a piaceri del genere. Ero quasi arrivato alle porte, e stavo per uscire da Duroctium, quando un soldato mi fermò. «Ehi, tu!» Feci finta di non aver sentito, ma lui insistette. Mi voltai per fronteggiarlo, e vidi quattro militari armati fino ai denti, invece di uno solo. Erano tutti a cavallo. Il più vicino avanzò fino a quando la punta della sua lancia non fu a mezzo metro dal mio petto. «Cittadino, hai le orecchie tappate? Mi hai costretto a sgolarmi prima di fermarti.» «Signore, non mi ero accorto,» risposi. «È successo che da bambino sono caduto male, e dopo di allora non ho più avuto tutto il cervello a posto. Almeno,' così dicono.» Il soldato si chinò verso di me sulla sella, e stirò le labbra in un sorriso maligno. «Non faccio fatica a crederti,» disse. «Nessuno che abbia un cervello come si deve vivrebbe in uno schifo di paese come questo. E ora,» si raddrizzò, avvicinando la punta della lancia, «e ora, dimmi chi sei e dove stai andando così di buon passo.» «Cotus, mi chiamo. Vado a Visius. Abito lì.» Il soldato aggrottò le sopracciglia.
«Visius... Mai sentito nominare.» Lo gratificai della mia migliore versione di sorriso da idiota. «È un paese piccolissimo. Insignificante...» «Forse. O forse non esiste del tutto.» «Certi dicono che è come se non esistesse, tanto è piccolo.» «E che cosa fai in questo... come si chiama?... Visius?» Dietro di lui, i suoi tre commilitoni spronarono i cavalli per farsi più vicini e sentire anche loro. Il posto stava diventando un po' troppo affollato. «Bifolco!» La lancia mi punse nello stomaco. «Ti ho fatto una domanda!» «Sì, signore. Sono un contadino. Soltanto un contadino. E neppure tanto bravo. Se pianto grano, viene su erba medica. E se pianto erba medica, viene su gramigna. Ma non so fare altro, non ho mai imparato nulla.» Due dei soldati appena avvicinatisi stavano ridendo. Il terzo no. Era un veterano tozzo, muscoloso, che aveva combattuto molte battaglie nella sua vita, e si aspettava di combatterne altrettante. «Stumbaucius,» disse con voce cupa, «chiedi un po' a questo pacifico contadino se indossa stivali da guerriero anche quando semina i suoi imprevedibili vegetali. Mi piacerebbe sentire la sua risposta.» Era una domanda eccellente, e mi insegnò una volta per tutte a non sottovalutare i Rhemiani. Per la maggior parte, non si curano dei popoli conquistati, ma ce n'è sempre qualcuno che la sa più lunga degli altri. Mi ero preso cura di lasciare la spada e cambiare abito, ma mi ero dimenticato dei miei stivali di pelle di Stygiano. Una cosa rara, che dalle nostre parti indossa soltanto chi ha combattuto e ucciso uno di quei mostri. Avevo poco tempo per rammaricarmi. Dietro di me, si sentiva uno scalpitare di cavalli al passo: il resto del contingente, che sbucava dal fondo della strada, a poco più di un isolato di distanza. Ben presto avrei avuto come spettatori un bel manipolo di legionari, tutti ansiosi di ascoltarmi mentre raccontavo la mia storia. La lancia del soldato era ancora ferma contro il mio stomaco, e feci rapidamente un bilancio della situazione. Il veterano che aveva posto la domanda non mi avrebbe lasciato andar via "tanto facilmente. Non sarebbe certo vissuto così a lungo fra mille pericoli, se avesse avuto l'abitudine di lasciare le cose a metà, quando fiutava qualcosa di storto. Decisi di agire, prima che il soldato togliesse la lancia dalla mia portata;(era anche lui un veterano, e certamente non sarebbe rimasto a lungo fermo con l'arma offerta a un possibile nemico). Di scatto, mi spostai di la-
to di un mezzo passo, afferrai l'asta e diedi un vigoroso strattone. Il soldato cadde a terra, e rimase a fissare stupefatto la sua sella vuota. Gli altri si avvicinarono, ed io scagliai la lancia fra le gambe dei loro cavalli. Poi mi misi a correre. Non verso le mura, né verso i vicoli della città. Sarei sfiato un folle se avessi avuto la pretesa di battere in corsa la cavalleria rhemiana. Invece, puntai dritto verso il gruppo di cavalieri che stava venendo verso di noi, gridando e urlando e agitando le braccia, per far innervosire i cavalli. «Gli Stygiani!» urlai, schiaffeggiando con le mani quanti più cavalli possibile. «Gli Stygiani sono sulle mura! Che il Creatore ci salvi!» Il comandante della pattuglia rimase un attimo a fissarmi, poi il suo volto si fece grigio. Spronò il cavallo in avanti, seguito dagli altri armati. Due soldati rimasero in dietro, per porsi ai lati della donna che avevo già scorto prima. Ma non erano pronti alla manovra, e reagirono con lentezza. Io fui più lesto di loro. Con un balzo, saltai in sella dietro di lei, le tolsi di mano le redini, e spronai in avanti la bestia. Sia la donna che il cavallo manifestarono rumorosamente la loro protesta, ma io li ignorai, dirigendomi verso le porte di Duroctium il più rapidamente possibile. . TRE Signar-Haldring aveva affrontato molte battaglie nella sua vita, e non aveva bisogno di spiegazioni per capire al volo la situazione, quando il destino gliene preparava un'altra. La vista della gentildonna furibonda che scalciava e urlava, facendo di tutto per sottrarsi alla mia stretta e gettarsi giù da un cavallo che chiaramente non era mio, gli disse molto di più di quanto gli avrebbe comunicato un mio lungo discorso. Malgrado la sua mole, quando è necessario, il Vikoniano si muove rapidamente come il lampo. In un attimo fu in groppa al suo enorme destriero, tirandosi dietro per le briglie il cavallo che io gli avevo lasciato in custodia. Quando la donna lo vide, le sue grida raddoppiarono di intensità. Noi, al Nord, abbiamo familiarità con i Vikoniani, che abitano le terre gelate al nostro settentrione; ma per una fanciulla rhemiana la vista di uno di quei mostri pelosi deve essere quanto meno terrorizzante. Signar la fissò con palese irritazione. «Suppongo che tu abbia altri visitatori alle calcagna,» fece. «Capita, in genere, quando si rapiscono le donne.» «Una dozzina, più o meno,» risposi, facendo un cenno col mento al di
sopra della mia spalla, indicando la strada. «Saranno a un minuto da noi.» «Mi par di capire che non ti sei fatto troppi amici in città.» «Pare che sia un mio difetto.» «Sembra anche a me.» Il Vikoniano spronò il suo cavallo, percorse un tratto di strada fino ai margini del bosco, quindi corse indietro. «Sì, sono una dozzina. Sei sono davanti a noi, sotto la collina. Altri sei stanno prendendoci alla larga, attraversando la brughiera...» «... per tagliarci la strada,» finii. Senza altre parole, spronammo i cavalli, dirigendoci verso la foresta. Avevamo avuto lo stesso pensiero. La strada che da Duroctium portava verso est attraversava regioni pianeggianti e terreni scorrevoli: alla lunga, i Rhemiani avrebbero finito per raggiungerci, piombandoci addosso. Tagliando attraverso i boschi e allontanandoci alla città, forse avremmo potuto lasciarli indietro fino a raggiungere le colline e, superate queste, il mare. Ovviamente, la prigioniera non era d'accordo con noi. Dovevo faticare per reggermi in sella e contemporaneamente tenerla stretta mentre urlava, si agitava e scalciava. «Smettila,» le dissi a un certo punto. «Cavalcare attraverso la foresta è già abbastanza difficile, e dover tenere a bada una creatura urlante non agevola certo le cose.» «Creatura!» La parola provocò una nuova esplosione di rabbia. «Lurido bifolco, perché mai dovrei volerti aiutare? È la tua testa quello che voglio!» «Ma se io ti lasciassi andare, tu potresti intercedere per me...» «Sì, sì!» fece immediatamente, illuminandosi in volto. «Te lo prometto!» «Molto divertente. Mi scuserai, spero, se non ti credo. Ho già avuto alcune probanti esperienze che mi hanno chiarito il giusto valore da attribuire alle promesse dei Rhemiani.» Seguì una nuova serie di calci, pugni e graffi, e una lunga sequela di insulti, in un linguaggio certamente non appropriato per una fanciulla di tale giovane età e alto lignaggio. Mentre la avvinghiavo ancora più strettamente, uscimmo dalla macchia in un piccolo spazio aperto. In quel momento, una lancia si conficcò nel ventre del cavallo di Signar, facendo precipitare a terra il Vikoniano. Questa piccola vittoria non giovò troppo ai sei Rhemiani che ci avevano raggiunti. Si erano aspettati di trovarsi di fronte un singolo guerriero delle loro stesse dimensioni, essendo per di più loro a cavallo e lui a piedi. Si
trovarono invece al cospetto di un orrendo gigante peloso, che non sembrava curarsi minimamente di essere a cavallo, o a piedi, o arrampicato su un albero. Il suo ruggito esplose come un tuono, e sembrò scuotere i tronchi che circondavano la radura. Con un solo colpo della sua immensa ascia da guerra a due lame, aveva già messo fuori combattimento due cavalieri. I quattro rimanenti tentarono di circondarlo, spaventati quasi come le loro cavalcature che recalcitravano violentemente, non volendo avere nulla a che fare con quell'orrore irto di zanne e artigli. La ragazza urlò. La feci cadere a terra e mi gettai nella mischia. Il Rhemiano più vicino voltò il cavallo verso di me, stupito di vedermi. Alzò la spada, ma era già troppo tardi. Cadde con un breve grido, e rimase immobile sul terreno. Il suo cavallo si impennò, quindi cominciò a galoppare nel folto della foresta, in un turbinio di rami e di foglie. Intanto, Signar aveva ferito un altro soldato, mettendolo fuori combattimento. Gli altri due avevano imparato rapidamente il modo migliore di comportarsi con i Vikoniani, e badavano bene a tenersi al di fuori della portata della sua ascia. Stava giocando con loro, ormai. Fingeva attacchi rapidi e ritirate strategiche, si agitava a destra e sinistra, menava gran colpi con la sua ascia da guerra, come un bambino che cerca di schiacciare una mosca. «Venite, figlioli, giocate un po' con il vecchio Signar,» diceva in tono irridente. «Puntategli contro le vostre piccole lance, e io vedrò di accorciarvele un altro po'.» In quel momento udii dei rumori alla mia destra, e lanciai un richiamo. «Signar!» Il Vikoniano non mi udì, o non volle udirmi. Alle genti della sua razza accadono cose strane quando sono nel pieno della battaglia. Il furore guerriero fa loro uno strano effetto, e li porta a condizioni del tutto anormali. «Signar! A me!» ripetei. Il Vikoniano girò un occhio nella mia direzione. «Attento,» gridai. «Stanno arrivando gli altri!» E feci un cenno verso il folto degli alberi. «Vengano pure,» rispose il guerriero. «Il mio cavallo è morto, e non posso montare nessuno di questi altri, che sono più piccoli di me.» «Per un po', potrà sostenerti.» Signar mi lanciò uno sguardo fermo e gelido. «Non abbastanza,» mi rispose. «Lo sai bene anche tu.» Un brivido mi corse lungo la schiena.
«Signar! Non possiamo rimanere qui!» «Io posso.» «Ma io non posso lasciarti qui.» «Aldair. Tu devi, e lo sai. Hai una missione da compiere. Le volteresti le spalle, se ne andasse della tua vita, o della mia? Vai, ora. Sbrigati.» «Forse me ne andrei,» risposi con un ghigno, «se ci fosse un luogo dove andare. Ma, come puoi vedere, non ce ne sono più.» I legionari ci avevano raggiunto correndo attraverso i boschi, nelle zone dove i tronchi erano più radi, e avevano radunato rinforzi lungo il cammino. Non potevo contarli, ma non ce n'era bisogno: erano sicuramente molti di più di quanti ne avessimo bisogno. La vista di una prima linea della cavalleria rhemiana in formazione da combattimento è uno spettacolo strano e terribile. A una certa distanza, i soldati che la compongono non somigliano più ai tozzi e prepotenti meridionali, stolidi e cafoni, che spadroneggiano sulle nostre terre e nelle nostre città, dopo averle conquistate. Le loro armature, ben lustre e lucenti, scintillano anche sotto un cielo di piombo e, ad un segnale, le lance si abbassano ad un angolo preciso, uguale per tutti e ben studiato, fra la selva degli scudi accostati. In momenti come questi, si capisce come quei soldatacci brutali siano riusciti a impadronirsi di quasi tutto il mondo conosciuto. È uno spettacolo, come ho detto, meraviglioso. Ma ci sono certamente modi migliori di goderne. I Rhemiani ci erano ormai addosso, e potevamo fare ben poco per fermarli. Signar e io ci scambiammo uno sguardo, senza pronunciare parola. Non c'era più nulla da dire. Non fu quella, tuttavia, la fine delle nostre avventure. Ciò che accadde dopo, fu rapido e veloce. Fu un evento che di certo si è verificato raramente nella storia del mondo, e cercherò di descriverlo quanto meglio possibile. Dalla foresta si levò un ululato così cupo e profondo da far gelare il sangue nelle vene. Era l'incubo di ogni bimbo del nord che si manifestava. Prima ancora che le vibrazioni di quel suono orrendo si fossero spente nell'aria, un lampo grigio esplose inatteso tra le file dei Rhemiani. Un lampo armato di una lunga spada, che fiammeggiava rapida e mortale, lasciando dietro di sé larghi fiotti di sangue. Tre soldati caddero morti d'un colpo, e poi un altro: nessuno ebbe il tempo di vedere ciò che l'aveva colpito. I guerrieri a cavallo rimasero subito fuori gioco: le loro bestie erano allenate a sostenere le battaglie, ma non
l'odore degli Stygiani. Il Signore dei Lauvectii che aveva fatto la sua apparizione in mezzo a noi sapeva di emanare il tanfo della paura, e contava su quello. Prima che i cavalieri potessero calmare le bestie, squarciò il ventre a due o tre cavalli, e decapitò un soldato. Quando, alla fine, i Rhemiani si gettarono in gruppo su di lui, troppi anche per la sua forza, lo Stygiano spiccò un balzo prodigioso, che lo portò ben al di sopra delle loro lance. Mi accorsi che cingeva al fianco la grande spada di Albion: ma non l'aveva sguainata per quella battaglia. Senza una parola, Signar si scostò per accoglierlo fra me e lui. Non provava certo uno sviscerato amore per gli Stygiani: ma non era il momento di guardare per il sottile. I Rhemiani, sorpresi per l'inattesa piega degli eventi, si stavano tuttavia riorganizzando. Volsi uno sguardo in direzione dello Stygiano. «Sembra che, in un modo o nell'altro, tu finisca sempre per 'trovarti in una foresta che non ti appartiene,» mi fece il Signore dei Lauvectii. «Potrei dire la stessa cosa di te, Stygiaar,» risposi, «a meno che io mi trovi sulla sponda sbagliata del fiume Rheinus. Comunque, non posso affermare che mi dispiaccia vederti in questi paraggi.» Signar, da parte sua, emise un cupo brontolio, ma non disse nulla. Intanto, avevo contato i Rhemiani rimasti in sella. Erano una quindicina, compresi i due sopravvissuti della prima pattuglia di inseguitori. Ne avevamo abbattuti un buon numero, ma non abbastanza. «Una bella lotta, la tua,» feci allo Stygiano. «Ma temo che l'unico risultato ottenuto sia quello di procrastinare di poco una fine ineluttabile.» «Dal char'desh non potevo aspettarmi parole diverse,» fece lui di rimando, torcendo il naso. «Per quel che mi riguarda, non ho nessuna intenzione di morire in compagnia tua e di quella montagna pelosa. Non sarebbe decente.» Signar gli scoccò uno sguardo irritato. «Forse,» fece, «sarebbe decente riprendere questo piacevole dialogo in un momento e un luogo più opportuni, davanti a un boccale di birra. Mi sembra che i nostri amici stiano diventando irrequieti.» Mi stavo chiedendo come avremmo potuto combinare quella simpatica riunione conviviale, quando una macchia colorata mi attraversò la coda dell'occhio. Girai la testa, e vidi qualcosa che strisciava lungo il terreno, facendo agitare l'erba alta, in direzione degli alberi. Gridai, rinfoderai la spada, e mi gettai all'inseguimento. Mi vide venire, emise un lamento, e cercò di accelerare la sua marcia, condotta su ginocchia squisite e graffiate.
«Ferma, ragazza. Puoi ancora esserci utile!» Gridò e si alzò in piedi, affrontandomi, come al solito, a pugni e calci. Anche i Rhemiani la videro. Grida di rabbia sorsero dai loro ranghi, e fecero l'atto di precipitarsi verso di me. Ma si fermarono subito, quando videro che tenevo ben stretta la ragazza, con la lama della mia spada contro la sua gola. «Soldati,» gridai. «Quale prezzo siete disposti a pagare per la nostra cattura?» Uno di loro, a cavallo, si fece avanti di un poco. Era chiaramente il Capitano: un bravo soldato, che probabilmente non era mai stato così infelice. Mi guardò con occhi gelidi, ma non disse nulla. «Allora, che vogliamo fare?» gli chiesi. «Lasciala andare. Non vi torceremo un capello.» Risi. «Signore: non penserai che io abbia tanto cervello quanto una rapa? Io non so chi ho fra le mani. Ma tu lo sai bene.» Cercò di rimanere impassibile, ma i suoi occhi lo tradivano. «Se le fai del male...» «Se le farò del male, non mi servirà più a nulla. E adesso, tornate là dove siete venuti, e in fretta. Non sono così sciocco da non pensare che seguirete le nostre tracce: ma badate bene a non venire alla portata del mio sguardo.» Rimase immobile per un lungo tratto. Molti cupi pensieri ebbero modo di passare fra di noi. «Mi aspetto di incontrarti di nuovo,» disse infine. «Quel giorno, sono sicuro, mi procurerà grande piacere.» Dopo di che, mi gratificò di un rigido saluto, e voltò il cavallo. In quel momento, sicuramente, lui era certo quanto me che la sua promessa aveva ben poche possibilità di realizzarsi. In ogni caso, né io né lui avremmo mai potuto immaginare come quel famoso giorno avrebbe finito per sorgere all'orizzonte. QUATTRO Era da poco passata l'alba, ed il giorno si annunciava sereno, con un cielo terso e pochi fiocchi di nuvole verso il nord. Raggiunsi Signar in cima al promontorio che, come un dito di roccia, si allungava nel mare. Lui si accorse della mia presenza al suo fianco, ma non distolse gli occhi dalle ac-
que gelide e grigie. «Non li vedo,» mi fece. «Ma arriveranno. C'è ancora tempo prima della marea.» «Non ne dubito. Non c'è migliore nave della nostra, né migliore equipaggio. Non si fermerebbero neppure di fronte a tutta la flotta rhemiana.» Signar si volse verso di me, girando contro il vento le spalle possenti. «Aldair,» disse, «Sappiamo che probabilmente i Rhemiani sanno che stiamo aspettando in qualche punto della costa. Inoltre, sono a conoscenza della nostra nave, e tengono gli occhi aperti per avvistarla. Ti sembra il caso di dare loro un motivo di accanimento in più nei nostri confronti?» E dicendo così fece un cenno in direzione della ragazza, che era legata e distesa sotto un albero vicino a noi. «Lo so che tu la consideri come l'ultima possibilità di salvezza per noi, se i soldati ci raggiungeranno prima del nostro imbarco. Ma dai retta a me, amico mio: i Rhemiani faranno di tutto pur di impedirci di portarla a bordo della nostra nave. Non sono stupidi e sanno bene che, una volta sul mare, l'avranno definitivamente perduta.» Non risposi. Non avevamo visto neppure una traccia delle truppe imperiali durante tutta la traversata, durata molti giorni e molte notti, dalla Gaullia fino al mare. Sapevamo, tuttavia, che erano vicine. È terribile sapere che il tuo nemico si trova poco lontano dal tuo accampamento nella notte, e lungo la tua pista durante il giorno. È una cosa che rende i sonni inquieti e eccita il nervosismo. Tuttavia, le cose per noi avrebbero potuto assumere anche una piega peggiore. Per esempio, nessuno di noi era stato ferito, e inoltre eravamo riusciti a sopportarci a vicenda, il che in se stesso era una specie di miracolo. Signar si rifiutava di rivolgere la parola allo Stygiano, ed emetteva sordi brontolii dal petto ogni volta che l'altro si permetteva di fissarlo. Lo Stygiano, dal canto suo, trovava la cosa divertente, e l'ira di Signar si accendeva sempre di più. Non parlerò poi della ragazza, se non per dire che era insopportabile, e dedicava tutta se stessa a rendere la nostra esistenza ancor più miserabile di quanto già non fosse. Non voleva né mangiare né bere, e più volte mi toccò di nutrirla a forza. Non parlava, né dava segno di accorgersi della nostra presenza. In una sola occasione ottenni da lei una reazione di qualche tipo. Fu quando si rifiutò di camminare o di montare sul suo cavallo, affermando che se doveva essere rapita, avrei dovuto trascinarla di peso fino a dove era mia intenzione portarla. Le risposi che io non l'avrei fatto, ma che forse lo Stygiano avrebbe acconsentito a prenderla in braccio. Dopo di ciò, non mi diede altri problemi. Era terrorizzata da quella creatura,
ed era certa che al termine del viaggio fosse sua intenzione divorarla. Cosa che io stesso avevo motivo di sospettare. Tutto sommato, nel corso della mia breve vita, avevo trascorso periodi migliori. «C'è una cosa che vorrei chiederti,» fece Signar, facendo finta di scrutare l'oceano. «Posso indovinarla. Lo Stygiano?» Signar mormorò qualche parola indistinta. «Per rispondere alla domanda che non mi hai posto: io stesso non so che dire, Signar. So solo che, fino ad ora, è rimasto con noi e si è comportato tutto sommato bene.» «Ma non ha detto che si sarebbe imbarcato con noi, vero?», fece il Vikoniano, con un tale accento di speranza nella voce che fui costretto a sorridere mio malgrado. «Signar,» risposi, «noi due abbiamo visto molte cose insieme. Siamo più che compagni, perché dividiamo un segreto terribile, una cosa che lega la trama delle nostre vite.» Mi interruppi e allungai una mano per toccargli il braccio. «Poiché conosci il segreto, e sai ciò che significa, non ti meraviglierai se sono accadute, e continueranno ad accadere, cose che non possiamo comprendere appieno. Dello Stygiano, non so che dirti. Non so che cosa agiti la sua mente. So solo che io dovevo attraversare il fiume per riportargli la spada e l'anello. E l'ho fatto.» Il Vikoniano mi lanciò uno sguardo penetrante. «Nei boschi,» disse. «Nei boschi, quando i Rhemiani ci affrontarono: tu sapevi che anche lui era lì. Me ne sono accorto...» «No.» Scossi la testa. «Non lo sapevo. Non so spiegare bene le cose che conosco e quelle di cui sono all'oscuro. È un fatto, questo, che tu, caro amico, non sei mai riuscito a digerire. Io non sono né un profeta né un veggente: sono esattamente quello che tu vedi. Sono una scheggia di legno che galleggia sul mare, senza nessuna direzione. La direzione giusta esiste, ma di rado è chiaramente visibile. Se lo fosse,» ghignai, «andrei forse in giro così, cieco come una talpa, comportandomi ogni volta da quello sciocco che sono? Per il Creatore, agirei ben diversamente!» Signar scosse la testa e si passò una mano enorme sul muso peloso. «Non so,» fece stancamente. «È chiaro che valgo di più come comandante di navi che come pensatore, e sono lieto di lasciare a te il compito di cavare un senso dalle nostre peregrinazioni.»
«In tal caso, siamo in disperato bisogno di aiuto,» gli risposi in tono cupo. «Se sono io l'unico serbatoio di sapienza...» Trovai lo Stygiano al centro di una macchia di alberi. E anche se sapeva che era lì e potevo scorgere la sua figura snella e i suoi rossi occhi di uccisore, non era nulla più di un'ombra nell'ombra. «Li vedi?», domandai. «No. Ma ci sono. E negli ultimi giorni ne sono arrivati altri. Chissà come sono contenti del fatto che tu, con grande abilità strategica, ci hai portati di fronte all'acqua, senza alcun posto dove rifugiarci.» Gli Stygiani sono sempre gli stessi. Prestano orecchio soltanto a ciò che vogliono sentire, e ignorano tutto il resto. «Ti ho già spiegato perché siamo qui,» feci. «Abbiamo un posto in cui rifugiarci. Con la marea arriverà la nostra nave, e ci prenderà a bordo. È un vascello magnifico, e porta un nome che onora un membro della tua stirpe. Ahzir al'Rhaz significa Viaggiatore venuto dal Nord.» Aprì le mascelle e mi fissò. «E secondo te una cosa del genere è un rifugio?» Torse il naso in segno di disgusto. «Preferirei infilarmi sterco nelle orecchie.» «Ne deduco che non hai intenzione di seguirci.» «Che cosa? Certo che no! Uno Stygiano non attraversa grandi pezzi d'acqua. Non è una cosa sensata. E inoltre sarebbe molto poco decente.» «Rheif, della tua stirpe, ha attraversato molti pezzi d'acqua,» gli ricordai. «Questo lo dici tu. Ma io non l'ho visto, e ci credo poco. Vorrei farti notare, tuttavia, che Rheif e i suoi fratelli sono tutti morti. Il che mi pare giustifichi alquanto l'atteggiamento prudente degli Stygiani nei confronti dell'acqua.» «Dunque, tornerai nei Lauvectii?» «Certo. Mi rendo conto di aver fatto molto male a lasciarli.» «E allora, perché l'hai fatto?» Mi fissò. «Stai facendo un po' troppe domande, char'desh.» «Ci sono troppe cose ancora in attesa di una risposta. Per esempio, come mai ti trovavi a passare dalle parti di Duroctium, proprio mentre noi eravamo nei boschi alle prese con i Rhemiani?» «Questi sono fatti miei, non tuoi.» «Non eri alla mia ricerca, dunque.» «Cercare te?» Mi fissò con occhi esterrefatti. «E quella montagna di lardo? Certo che no!»
«Bene.» Alzai lo sguardo, e lo fissai nelle sue pupille. «Abbiamo avuto ben poco tempo per parlare di questo viaggio, Stygiaar. E poi, evidentemente, non abbiamo molto da dirci. Comunque, voglio ringraziarti per quello che hai fatto. Quale che ne sia stata la ragione.» «Non posso accettare i tuoi ringraziamenti. Non sarebbe decente, da parte mia.» «Però mi pare che sia stato decente accettare la spada che ti ho portato. Anche dopo avermi detto che era un dono indegno di un solo sguardo. Vedo anzi che, con tutti i tuoi discorsi sulla decenza, non ti vergogni di portarla al fianco.» Mi lanciò un'occhiata rossa e terrificante, ma non distolsi gli occhi dai suoi. Fu lui, invece, che girò la testa, staccò un ramoscello da un albero, e se ne ficcò un'estremità in bocca. «C'è una cosa che voglio dirti,» fece, sempre senza guardarmi. «Anche se non c'è motivo plausibile perché te la racconti. Forse ho smarrito parte del mio buon senso. Quando tu hai riattraversato il fiume, lasciando i Lauvectii, ho esaminato l'arma. Non perché me ne importasse, ma perché era mio dovere accertarmi che non fosse un qualche trucco dei char'desh progettato a danno degli Stygiaar. Vidi quella cosa sull'impugnatura. La testa di quella bestia, modellata in pietre preziose e in oro. L'ho guardata una sola volta, poi l'ho ricoperta, perché non mi è sembrata una cosa decente da mostrare.» Fece una lunga pausa. «Quella notte stessa, ebbi un sogno divino. Nel sogno, c'era Rheif. Si trovava in un luogo lontano, e la morte era su di lui. E qui ebbi una sensazione molto strana. Quel posto era lontano, ma, nello stesso tempo, non lo era.» «Hai ragione in entrambi i casi,» gli dissi a bassa voce. «Rheif è morto laggiù, proprio al di là di questo braccio di mare, sull'Isola di Albion. Da qui, nei giorni senza nebbia, se ne possono scorgere le spiagge candide. È vicino: tuttavia, in un certo senso, è il più remoto di tutti i posti.» Lo Stygiano si voltò, e per la prima e unica volta vidi nei suoi occhi un'ombra di paura. «Non può essere,» fece cupamente. «Conosco quel luogo. È l'isola dei tuoi morti. Se tu avessi seppellito Rheif laggiù, saresti uno spettro tu stesso. Se no, vuol dire che mi hai mentito!» «Sono più che vivo,» assicurai, «e non ti ho mentito, Stygiano. Ma non posso dirti nulla di più.»
Mi fissò negli occhi per un lungo momento. L'ira lo dominava ancora, ma non era più una semplice macchina per uccidere. «In questo sogno divino,» riprese a dire, «Rheif divenne un altro. Per un istante, non fu più uno Stygiano. Era la bestia la cui immagine adorna l'elsa di questa spada! Ed è per questo che ho lasciato le foreste dei Lauvectii. Quel sogno mi ha molto turbato, e mi turba ancora. Devo sapere che cosa significa. E adesso, per di più, tu hai fatto scendere quest'ombra di morte sulla mia mente, e i miei pensieri saranno ancora più cupi.» Per un istante, qualcosa mi toccò nel fondo dell'animo, e scomparve. Sei tu dunque, che cercavo, Stygiano. Conosco il tuo nome: ma dovrai essere tu stesso a ripetermelo. Perché sei tu, in verità, colui che doveva essere tratto dalle tenebre dei Lauvectii! La forza che si era impadronita di lui lo lasciò andare bruscamente. Le fiamme rosse si estinsero nei suoi occhi. «Pensavo,» disse, «che tutto sommato potrei provare a salire a bordo di quella tua barca di cui mi hai parlato. Giusto per vedere che cosa si prova. In fondo, porta il nome di uno della mia stirpe... anche se non credo proprio che una cosa che galleggia sull'acqua onori in qualche modo la memoria di uno Stygiano.» «Sarai il benvenuto,» risposi. «Ti renderai conto, ovviamente, che non ho intenzione di rimanere a lungo sopra quella cosa.» «Certo, ti capisco. Non sarebbe decente.» Quando il Sole al tramonto trasformò il mare in una distesa di oro liquido, e i venti veloci cominciarono a gonfiare le vele dell'Ahzir, lo vidi, ritto sulla spiaggia, nel punto in cui io e i miei compagni ci trovavamo pochi istanti prima. È difficile distinguere un Rhemiano dall'altro, a una certa distanza. Ma la sua figura rigida e severa, la sua fronte aggrottata, gli occhi tremendi non permettevano errori. C'erano molti soldati ai suoi ordini, ma nessuno cercò di fermarci. C'erano sicuramente molte navi pronte ad avvicinarsi ad un suo comando. Ma lui non le chiamò. Potevo leggere i suoi pensieri come se fossero i miei. Se avesse fatto qualcosa di avventato, lei sarebbe morta. Così, almeno, lui credeva. Se invece fosse rimasta in vita - a qualsiasi prezzo - allora, forse, avrebbe avuto ancora una possibilità di liberarla. Ancora una volta, mi chiesi che tipo di preda il destino mi avesse fatto
incontrare nelle strade di Duroctium. CINQUE Col vento favorevole, è breve il viaggio dalle coste settentrionali della Gaullia fino agli Stretti che portano nel Mar Meridionale. Un viaggio del genere non si misura però soltanto in giorni. È come la transizione fra due mondi completamente diversi. Quelli fra noi che vengono dai cieli cupi e le buie foreste del Nord, non sanno che cosa sia il Sole. Per noi, è un ospite sporadico e benvenuto. Il Sud, invece, è la sua terra di nascita. Ero felice quanto Signar-Haldring di trovarmi di nuovo sul mare; ma non tutti, a bordo, dividevano lo stesso sentimento. Il nostro amico Stygiano si lamentava continuamente che l'Ahzir era troppo piccola e troppo veloce, e benché non ne sapesse nulla di navigazione, aveva deciso che il nostro equipaggio era formato da incompetenti. «Se gli Stygiani costruissero navi,» disse una volta, «cosa che peraltro non hanno alcuna intenzione di fare, di certo le costruirebbero in modo da non farle oscillare su e giù nell'acqua. Non capisco perché voi non l'abbiate fatto.» Al che, Signar lo bandì immediatamente dal ponte, fra cori di approvazione. La mattina del nostro secondo giorno sul mare, il Vikoniano mi chiamò dicendo che doveva mostrarmi qualcosa. Era scuro in volto, e turbato. «Laggiù, vedi?», fece puntando il braccio, anche se non avevo bisogno di indicazioni. Stavamo passando al largo di una città portuale che, come sapevo, si chiamava Camelium. Era una bella città, con case dipinte in colori vivaci arrampicate sulle colline verdi che si alzavano sul mare. Era popolata di pescatori, ed era anche un importante centro commerciale; nel suo porto, tante barche colorate oscillavano come sugheri fra le onde. Non era questo spettacolo, tuttavia, che mi aveva attirato la vista. Davanti a noi erano schierate quattro enormi navi da guerra rhemiane, con i ponti irti di torrette corazzate, e tre file di remi. Le bandiere sventolavano alla brezza mattutina, e le vele color rosso-sangue erano già issate sugli alberi. «Come vedi, non ci hanno dimenticati,» fece Signar cupamente. «Né c'era da aspettarselo. È per via di quella femmina che abbiamo a bordo, natu-
ralmente.» Non risposi. Sapevamo entrambi quello che era successo. I Rhemiani avevano mandato staffette veloci, per via di terra, ad avvertire dell'accaduto le navi stazionate lungo la costa. C'era da prevederlo, dato che la ragazza rappresentava certamente qualcosa di molto prezioso per qualcuno molto importante. «Ci daranno la caccia fino alla morte, Aldair, o fino a quando avremo lei a bordo. È inevitabile.» «D'accordo. Ma, anche se la lasciassimo andare, che succederebbe, Signar? Pensi che si dimenticherebbero di noi? No: saranno alle nostre calcagna se la teniamo prigioniera, ma ci correranno ugualmente dietro fino a schiacciarci se non l'avremo.» «Forse,» fece il Vikoniano, cupo. Per un momento, fissò le onde che scivolavano lungo la chiglia, le grandi spalle curve, immerso nei suoi pensieri. «La decisione spetta a te, Aldair. Ma, per conto mio, la metterei in una bella barca e la lascerei in mare dietro di noi. Loro perderanno tempo per raccoglierla, e noi potremo scivolare via. Una volta fuori portata, non ci raggiungeranno mai con quelle loro immense bagnarole.» Si interruppe, e mi lanciò uno sguardo significativo. «È solo una possibilità, ma temo che sia l'unica che ci resta. O li vuoi eternamente nella nostra scia, con la missione che dobbiamo compiere?» Ovviamente non lo volevo, e glielo dissi. «Bene, allora...» «Dimentichi, però,» aggiunsi, «che in mare non c'è una sola squadra navale rhemiana. Gli Stretti sono sorvegliati dalle forze imperiali, e stavolta non avremo la flotta di Niciea a proteggerci, come la prima volta che li abbiamo attraversati.» Ammise che avevo ragione, e di malavoglia riconobbe che la ragazza, rimanendo a bordo, continuava a rappresentare un deterrente contro gli assalti dei nemici. Gli promisi che, una volta superata la rocca che vigilava sugli Stretti, e dopo essere entrati senza danni nel Mar Meridionale, avrei riconsiderato di nuovo tutta la faccenda. Ma sapevo che, anche allora, non avrei cambiato idea. Per dirla francamente: non volevo vederla andare via. A titolo di dissuasione nei confronti dei vascelli rhemiani, feci collocare la ragazza bene in vista sul ponte, fra guardie armate. Era visibile da lonta-
no, e chiaramente era viva. Alle sentinelle accanto a lei era stato raccomandato di fare la massima attenzione, perché la prigioniera era capace di infinite astuzie e colpi di testa. Non mi sarei meravigliato affatto se l'avessi vista cogliere un attimo di disattenzione dei suoi guardiani per tuffarsi in mare e dirigersi a nuoto verso i suoi amici. I Rhemiani stavano chiaramente aspettando la sua comparsa, perché non appena la videro sul ponte, una delle grandi navi si avvicinò per osservare meglio. Fu un momento di grande tensione. Lo scafo mostruoso torreggiava sopra il nostro ponte, spostando una massa d'acqua tale che sarebbe stata fatale a una nave di poco più piccola della nostra. I soldati celati nelle torrette avrebbero potuto sputare sulle nostre vele, e probabilmente l'hanno fatto. Signar ruggì e maledisse tutti, e agitò il pugno immenso in direzione del capitano della nave da guerra. Poi, mostrò a tutti perché i Vikoniani sono considerati i migliori marinai del mondo... Mentre eravamo ancora all'ombra della nave immensa, mise in moto il nostro equipaggio e, con una manovra dolcissima, portò l'Ahzir al'Rhaz ad affiancarsi al vascello rhemiano. Sentii lo scafo scricchiolare, mentre tutti ci afferravamo al sostegno più vicino. L'onda enorme dell'acqua spostata dal mostro ci venne addosso di fianco. Avevo già deciso che quella era l'ora della nostra fine, quando, con un balzo in avanti, agile come una lepre, il nostro scafo lungo e sottile colse in pieno il vento e si lasciò alle spalle la nave rhemiana. Potei udire il suono fragoroso della risata di Signar che soverchiava il battito delle vele. «Provate un po' a fare questo con la vostra bagnarola,» stava dicendo. E anche se nessuno, nella nave nemica, poteva raccogliere le sue parole, ero certo che il comandante rhemiano aveva ugualmente capito il messaggio. Non potei fare a meno di sorridere quando mi capitò sotto gli occhi l'espressione dello Stygiano. Aveva le orecchie basse, incollate al cranio, e ogni luce s'era spenta nei suoi occhi. Come tutti noi, era completamente inzuppato d'acqua salata. La sua bella pelliccia grigia sembrava uno straccio per lavare dopo il passaggio su molti pavimenti sudici. «Non ridere,» mi fece in tono feroce. «Non mi meraviglierei affatto se quel grosso barile di birra avesse fatto questo intenzionalmente. Il suo obiettivo era di affondarci tutti, e far fare a me la figura dello sciocco.» «Stygiaar,» risposi, «qualsiasi cosa tu possa pensare del Vikoniano, sappi di avere assistito a un prodigio d'arte navale, una manovra quale non se
ne erano mai viste. È una cosa che potrai raccontare ai tuoi nipoti, quando tornerai nei Lauvectii.» Mormorò qualche frase indistinta, e cominciò a strizzarsi l'acqua dalle orecchie. «Non c'è alcun bisogno che io raccolga narrazioni di questo viaggio,» fece, «perché ho già capito che non ritornerò mai al Nord. Mi sta bene. Non avrei dovuto farmi convincere da te, con l'inganno, a salire sulle tavole di questo maledetto affare galleggiante.» «Si dice ponte, non tavole,» lo corressi. «E neppure uno Stygiano, maestro di menzogne come tutti quelli della tua razza, potrà mai convincermi che tu non sei venuto a bordo di tua spontanea volontà. Per gli Occhi del Creatore: non penserai di imbambolarmi con le tue chiacchiere?» Lo Stygiano tirò su col naso e guardò altrove. «Non è decente per un Signore dei Lauvectii discutere con il char'desh. È una perdita di tempo.» «Su questo, convengo.» «Il fatto è che io annegherò sicuramente in questa specie di stagno senza riva. Nei Lauvectii certe cose si sanno in anticipo, anche se non è opportuno che ti spieghi come e perché. Per questa ragione, desidero che tu conosca il mio nome. Anche se tu non sei della mia gente, e non hai onore, potrai comunque annunciare la mia venuta agli dèi delle foreste. Sempre che essi ascoltino le voci che si levano dall'acqua, del che dubito. In ogni caso, quando il tempo sarà giunto, sappi che io sono Rhalgorn.» Al che, girò le spalle e cominciò solennemente a dirigersi verso il sottoponte, cercando di apparire un guerriero anziché una lepre accidentalmente scivolata fuori della pentola del salmi. Fu in tal guisa che appresi ufficialmente il nome del mio nuovo compagno: un nome che, in qualche modo, era già nella mia testa. E lui, a sua volta, poté soddisfare il suo orgoglio scegliendo quella bizzarra maniera per presentarsi. I Rhemiani non cercarono più di catturarci, ma si accontentarono di sorvegliarci a distanza. E anche questa era un'impresa al limite delle loro possibilità. Signar aveva ragione. In realtà, i Rhemiani odiano il mare, e lo navigano soltanto perché non ne possono fare a meno per affermare la loro potenza. Questo atteggiamento si riflette nella tecnica costruttiva delle loro navi, che sembrano palazzi galleggianti, piuttosto che navigli destinati a racco-
gliere il vento per volare sulle onde. Certamente, sono molto diversi dai sottili scafi verdi dei Nicieani, che sembrano nati dalla spuma, o dalle veloci navi vikoniane, con la prua alta e orgogliosa, che solcano i mari partendo dalla lontana Vhiborg per depredare i porti di Rhemia. L'Ahzir è un misto di entrambe queste scuole marinare, e di ciascuna accoglie il meglio. Non credo che oggi sulle onde ci sia nulla che possa starle alla pari. Anche i Rhemiani lo sapevano, e sapevano anche che sarebbero stati messi a dura prova per mantenersi in vista nel momento in cui avessimo deciso di filare via. Così, quando la mattina dopo doppiammo l'estremità della penisola dei Tarconii, non fui sorpreso nel constatare che le grandi navi che ci erano state dietro fino ad allora non si vedevano più, e che il loro posto era stato preso da un altro battello. Era una nave nicieana, caduta chissà come in mano dei Rhemiani. Era un bel naviglio, dalla linea elegante. Non sarebbe mai riuscito a superarci ma, da parte nostra, sarebbe stato difficile lasciarlo indietro in maniera definitiva. «Non molleranno mai la preda, sappilo. Sei un folle se pensi di potermi tenere ancora a lungo con te.» Mi voltai, sorpreso e compiaciuto nel vederla. Con un cenno, ordinai alle guardie che non la perdevano mai di vista di allontanarsi. «Hai fatto bene a mostrarti,» le risposi. «I tuoi amici saranno lieti di constatare che stai bene.» Scrollò le spalle, per farmi capire che dei suoi amici non le importava nulla, ed era salita per ragioni sue. Il suo bel vestito di seta era stato ridotto a brandelli dalla nostra fuga attraverso la Gaullia, ed ora indossava abiti da marinaio, ben poco adatti alla sua dolce figura. Con tutto ciò, mi sembrava sempre la cosa più bella che avessi mai visto. La sua sola presenza mi provocava conseguenze gravissime. Ed ero sicuro che lei lo aveva capito bene. «Malgrado io non abbia il minimo desiderio di parlare con te.,» mi fece, «tuttavia lo devo. Pretendo di sapere che cosa hai intenzione di fare di me.» Aggrottai le sopracciglia. «Pretendi, mia signora?» risposi. «Hai dimenticato una cosa. Gli artigli di Rhemia sono molto lontani. Da quella parte,» e con un gesto indicai l'oriente. Mi fissò per un lungo momento, col volto di pietra. «Che genere di persona sei?», disse infine. «Anche se veniamo da terre differenti, siamo della stessa razza. Eppure, tu navighi insieme con i Viko-
niani, che sono i più feroci fra i pirati. E, peggio ancora, hai rapporti innominabili con... gli Stygiani.» Le labbra le si torsero, come se il solo pronunciare quella parola le facesse ribrezzo. «Le più oscene fra le creature! I fratelli di quel mostro hanno depredato le tue città, fatto strage della tua gente. E tu... tu hai combattuto al suo fianco contro i soldati di Rhemia!» Rabbrividì, e girò il volto. «Non riesco a capire come una così orrenda stortura possa verificarsi. Ma che genere di individuo sei?» «Mia signora,» risposi, «sono un individuo che ha imparato una cosa fondamentale: la forma di una creatura non ha nulla a che fare con ciò che racchiude nel cuore. Tu parli della mia razza. Ebbene, proprio dalla mia razza io sono stato tradito... compresi i Buoni Padri della Chiesa e i civili cittadini di Rhemia. Ho trovato tanto amici che nemici fra i Nicieani, che sono verdi e coperti di scaglie, e ancor più diversi da noi degli Stygiani. Ho trovato il male e il bene in tutte le razze con cui sono venuto a contatto, e non ho avuto modo di notare una più alta percentuale di bari e di assassini in una razza piuttosto che in un'altra.» «E così, vi siete riuniti tutti insieme, voialtri gentiluomini,» mi interruppe con voce di scherno, «per rapire fanciulle rhemiane e portarle via chissà dove. È questo lo scopo principale della tua vita?» «No. È un altro.» «Davvero?», rise. «Mi piacerebbe conoscerlo.» «Io invece non credo che ti farebbe piacere saperlo.» Il sangue le defluì dal volto, e si toccò la gola con la punta delle dita. «Ti prego...» disse. «Non sarà quello che penso...» «Liberarsi di te sarà molto difficile, mia signora. E, d'altro canto, sarà difficile anche tenerti con noi. Quale che sia la scelta, ho paura che avremo del filo da torcere. Forse, però, sarebbe più semplice per me prendere la decisione giusta se sapessi chi è la fanciulla che ho rapito, e perché l'intera flotta rhemiana è alle mie calcagna per riaverla. Sei una creatura molto attraente, lo ammetto... ma credo che non sia il solo motivo...» La rabbia le imporporò il volto. «Può darsi che tu scopra chi sono prima di quanto pensi. E quel giorno non ti rallegrerai certo della tua scoperta!» Con queste parole enigmatiche mi voltò le spalle e ridiscese sotto coperta, lasciandomi come ricordo un ultimo lampo rosa del suo musetto. La nave nicieana rimase in vista fino al calar del Sole, quando la notte la ingoiò fra le ombre. Signar aveva ben tracciato la nostra rotta, prevedendo che avremmo attraversato gli Stretti col favore delle tenebre. Questo a-
vrebbe risolto uno dei nostri problemi, ma non quello di liberarci del nostro tenace inseguitore. Tuttavia, io ero certo che, in un modo o nell'altro, ce ne saremmo liberati. Il che avvenne: ma non nelle circostanze che avevo sperato... SEI In genere, prima che sul mare si scateni una tempesta, il marinaio esperto ne è avvertito da una serie di probanti indizi. Ci sono segnali portati dalle acque e dai venti che chi naviga sa leggere con la stessa facilità con cui lo. studioso legge i suoi libri. Infinite volte avevo visto Signar scrutare un cielo perfettamente terso e trasparente, e annunciare che andavano incontro al cattivo tempo. La tempesta che ci investì nel corso della prima ora della notte non aveva obbedito, invece, a nessuna delle regole del mare, perché il vento che l'alimentava proveniva dalla terra ferma. Era un vento scivolato giù dalle basse colline della penisola dei Tarconii, raccogliendo lungo il suo cammino banchi di nubi gonfie e gelide, e riversandosi in mare senza preavviso. Non riuscimmo a raggiungere la costa per cercare un riparo, né potemmo proseguire la rotta attraverso gli Stretti. Ci aggrappammo ad ogni possibile sostegno, ci legammo agli alberi e alle murate... il mare era oscuro e furibondo, e sembrava affamato di noi tutti. All'alba, il vasto oceano era di nuovo piatto e verde come uno stagno di campagna, e solo qualche lieve fermento ne agitava la superficie. Poco prima soffiavano i venti più impetuosi che avessi mai visto in vita mia, e ora spirava un dolcissimo zefiro, appena sufficiente a far vibrare le nostre vele. Signar emise un brontolio sordo, e fissò con la fronte aggrottata la nostra velatura che pendeva inerte dagli alberi. «Spero che non avrai nulla in contrario se ti proporrò qualche salutare esercizio ginnico,» mi fece. «Sarà bene che ci mettiamo ai remi, prima che al vento non salti in mente di farci qualche altra sorpresa.» «In ogni caso,» dissi, «se non altro abbiamo lasciato indietro i nostri inseguitori. Se non sono affondati loro, probabilmente pensano che siamo affondati noi.» Il ragionamento era logico, anche se nessuno sperava che i Rhemiani avrebbero accettato la cosa senza avere, per prova, almeno un pezzo dello
scafo dell'Ahzir. Sono gente cocciuta e pertinace. Si racconta che una volta metà dell'Impero andò perduto perché il Tiranno dell'epoca aveva disperso le sue Legioni per dare la caccia a un topo con gli occhi d'oro. Se la leggenda era vera, i nostri inseguitori non avrebbero lasciato scappar via tanto facilmente una preda ben più tangibile di un roditore mitico. Secondo Signar, eravamo stati sospinti molto a sud e a occidente, lungo la costa di Kenyarsha, che è il nome assegnato alla gran massa di terra che si stende sotto il Mar Meridionale. Un marinaio che aveva servito sotto un mercante rhemiano disse che da qualche parte sotto gli Stretti c'era un porto chiamato Bhazaar, che apparteneva anch'esso ai Rhemiani. Lui, però, non c'era mai stato. Non mi fidavo molto dell'affermazione, perché, malgrado avessimo a bordo le migliori carte nicieane disponibili, su di esse non c'era traccia di questa città. Per la verità, le mappe si interrompevano poco più a sud degli Stretti. Kenyarsha è certamente un'immensa regione, e di essa si sa ben poco. I Nicieani vivevano lungo le sue coste settentrionali, ma si erano spinti ben poco a fondo nell'entroterra, se non lungo le vie di commercio o per combattere le popolazioni del deserto. Tuttavia, nella situazione presente avevamo ben poco da scegliere, a meno che non volessimo dirigerci a sud verso acque che non conoscevamo, o a occidente, là dove si dice che il Mar delle Nebbie precipiti nel vuoto. Dato che la mia è una nave libera, e non aveva schiavi a bordo, ciascuno di noi prese il suo turno ai remi... persino Rhalgorn, sebbene gli Stygiani aborriscano il lavoro fisico di qualsiasi specie. A mezzogiorno si levò una brezza piacevole, e la nostra fatica fu alleggerita. Poco dopo, la fortuna cominciò a sorriderci. Una vedetta avvistò la terra: una lunga linea verde scuro all'orizzonte. La notizia fece levare grida di giubilo, anche se io, chissà perché, non mi sentivo in vena di partecipare ai rallegramenti. Le nostre ultime notizie di Niciea risalivano a due anni prima. Ci eravamo lasciati alle spalle un Impero in pezzi, il cui sovrano era in fuga. Se la blasfema alleanza fra il predone Fhazir e i sacerdoti di Aastar era ancora in atto, su quelle coste gli amici della Famiglia Reale non sarebbero stati i benvenuti. «Non è questo il problema più pressante,» mi fece Signar quando lo misi a parte dei miei timori. «Non ne ho parlato prima, perché c'erano altre questioni più urgenti: ma siamo obbligati a prender terra da qualche parte. La tempesta ha riversato acqua salata sulle nostre provviste di cibo e nella ri-
serva di acqua potabile. Ci resta ben poco da mangiare e da bere.» «Che splendido modo di cominciare una missione,» mi lamentai. «Non siamo neppure riusciti ad attraversare gli Stretti, perché il vento ci ha spostati a Sud. Quando torneremo nella zona, troveremo frotte di nostri amici Rhemiani ad aspettarci. Non mi piace questa situazione, Signar. Il mondo non deve conoscere ancora la nostra missione. Dobbiamo liberarci degli inseguitori, e subito!» Signar annuì senza parlare. Quando il Vikoniano rumina su qualche problema, si dondola su e giù in una specie di danza silenziosa, come al suono di una musica che lui soltanto può udire. In tali circostanze, parlargli serve a ben poco. Malgrado la possibilità di incontri pericolosi, il mio cuore si rallegrò quando avvistammo la piccola città bianca. Non poteva rivaleggiare con Chaarduz, ma era chiaramente una città nicieana, e la sua vista mi diede un senso di calore. In quella terra ero stato prima schiavo, poi alto dignitario, e amavo molto la sua gente. Un marinaio con gli occhi più acuti dei miei lanciò un grido e fece un gesto verso la spiaggia. Avevamo davvero fortuna, perché sull'edificio più alto della città sventolava la bandiera verde ornata di occhi d'oro! Mentre guardavamo, snelle forme verdi avvolte in tuniche bianche si allinearono sulla riva, facendo gesti nella nostra direzione. Chiaramente, conoscevano il nostro vascello, e in loro onore feci issare la bandiera nicieana e, sotto di essa, le insegne personali dell'Aghiir, il mio Signore Tharrin, fratello del Re. Questo gesto provocò un'esplosione di grida di gioia sulla spiaggia, tanto che temetti che gli spettatori stessero per gettarsi in mare e venirci incontro a nuoto, anche se i Nicieani rifuggono dall'acqua per quanto possibile. Invece, molte barche sottili presero il largo e si diressero alla nostra volta. Per primo si avvicinò un piccolo vascello con alla prua una creatura che si agitava come in preda alla follia. Gridava, saltava e gesticolava in modo del tutto improprio per un Nicieano. Quando la barca fu abbastanza prossima da permettermi di vedere meglio di chi si trattava, decisi che il Sole aveva seriamente danneggiato i miei occhi. I Nicieani si somigliano molto l'uno all'altro, ma quando si ha dimestichezza con loro si impara a distinguerli. I loro volti mancano di lineamenti: gli occhi sono piccole perle nere, il naso è ridotto a due fessure, la bocca a un taglio orizzontale. Ma, di quella creatura, io conoscevo ogni singola
scaglia: perché era Thareesh, ed era forse il più abile arciere del mondo (dopo di me, s'intende). Ed era estremamente improbabile che mi venisse incontro su una barca spazzata dai suoi furiosi colpi di coda, perché lo avevo lasciato per morto nel Grande Deserto a Sud di Chaarduz, più di tre anni prima! SETTE Senza dubbio, la nostra allegra riunione sarebbe apparsa grottesca agli occhi di molti. È dall'inizio del tempo che quelli della mia razza combattono contro i Nicieani conflitti all'ultimo sangue (così, almeno, sostengono i nostri preti). Malgrado ciò, ci siamo abbracciati come fratelli: perché tali, fra di noi, ci consideriamo. Ero assetato di notizie sul destino di Niciea, e Thareesh fu per me come una sorgente di acqua viva. In primo luogo, tuttavia, volli che per due volte di seguito mi raccontasse le sue avventure. E lui mi narrò di come i ribelli lo avessero raccolto nel deserto più morto che vivo, di come fosse diventato per qualche tempo uno di loro per salvarsi la pelle, e di come infine fosse riuscito a fuggire, attraversando tutta Niciea per giungere al porto dove io lo avevo ritrovato. Il Re, mi rivelò poi, era certamente morto, e in tale destino lo avevano seguito quasi tutti i membri della Famiglia Reale e molti suoi fedeli. Erano infiniti, ormai, i nomi cui levare le preghiere. Ma c'erano anche alcune buone notizie. Le promesse di Fhazir, il ribelle, e dei preti, si erano dissolte nel nulla. Nel popolo si erano levati rabbia e tumulti. La gente aveva già dimenticato le follie che avevo portato la sventura sul capo di tutti. «I giorni dei traditori sono ormai contati,» concluse cupo Thareesh. «Ci sono molte città come questa, in cui sono tornate a levarsi nel vento le antiche bandiere. E alla loro ombra non si radunano soltanto i ricchi che hanno perso tutto o la plebaglia che non ha guadagnato nulla. Ci sono anche soldati come me, che vengono da ogni parte dell'Impero.» «E chi seguono,» gli chiesi, «visto che il Re e suo fratello sono morti?» «Ma il giovane Dhar'jeem, ovviamente. Tu, Aldair, dovresti saperlo meglio di tutti.» I Nicieani non tradiscono mai i loro pensieri, a meno che non vogliano deliberatamente rivelarli. Non immaginavo che Thareesh sapesse che ero stato proprio io a portare al sicuro, nel lontano oriente, il giovane principe.
Mi aveva fatto capire, però, di essere al corrente della mia impresa. Per qual motivo lo avesse fatto, non m'importava. Niciea non aveva mai avuto un suddito più leale di lui. Anche senza alcuna richiesta esplicita da parte mia, Thareesh si mise immediatamente all'opera per rifornire l'Ahzir, saltando alla gola di mercanti e sensali per spuntare i prezzi migliori. Signar, ovviamente, ne fu deliziato. Quel pomeriggio, alla nostra ciurma si aggiunsero tre Nicieani, tutti marinai esperti. Furono i benvenuti a bordo. In qualche modo, sin dall'inizio avevo capito che anche Thareesh si sarebbe unito a noi. Così come avevo capito che Rhalgorn avrebbe preso il posto di Rheif, dal primo momento che l'avevo veduto. Vi lascio immaginare la mia gioia nell'accogliere fra i miei seguaci il Nicieano, che a sua volta era stato uno dei più coraggiosi e fedeli seguaci del mio stesso Signore e padrone, l'Aghiir Tharrin. Ovunque egli fosse in quel momento, in qualsiasi sconosciuto aldilà, di certo era felice per quell'evento. Mi sembrava, quella notte, che le stelle procedessero nel loro corso verso una meta comune. Era davvero - mi dissi - l'ora dei nuovi inizi. Sapevo che era così. Era un sentimento che di rado avevo provato prima. Sapevo bene di essere guidato, in qualche modo inconoscibile, anche se raramente riuscivo a discernere dove e quando. Non mi illudevo certamente che a difesa della mia pelle fossero schierate Potenze Immani: un colpo di spada mi avrebbe trapassato la pancia come a chiunque altro. Sapevo anche di essere stato infinite volte a un passo dalla morte. Ma chi sarebbe tanto sciocco da chiedersi quando si sarebbe ripresentato per lui il momento della fortuna? In ogni caso, sentivo che in quella sera si diffondeva un'aura di magia, e non potevo ignorare quella sensazione. Era nell'aria, e tutti l'avvertivano. La luce che pioveva dalle lampade di bronzo e d'argento tingevano di riflessi dorati i legni della nave, e nel groviglio delle ombre potevo immaginare che fosse l'Aghiir stesso a sedere di fronte a me, e non Thareesh. Rhalgorn, grigio e solenne, era identico al suo congiunto Rheif. E non c'era bisogno di immaginazione per trasfigurare Signar, immenso e peloso, con il grande pugno stretto attorno a un boccale di birra. Osservando i suoi occhi neri come l'agata, mi resi conto che persino lui era rapito dall'incantesimo di quell'ora. La magia era su di noi, e non veniva né dal presente né dal lontano passato, ma dalle caligini di un tempo intermedio, indimenticabile...
Signar ed io avevamo già informato Thareesh del fatto che la flotta rhemiana ci stava dando la caccia, e mi resi conto che il nicieano non avrebbe compreso tanto facilmente i motivi per cui la nostra dama prigioniera potesse causare tanto fermento, dato che nella sua cultura le donne hanno un ruolo ben diverso, e secondario. Tuttavia, l'arciere non mi pose alcuna domanda al riguardo. «Non credo che ti seguiranno fin qui,» mi disse. «Tuttavia, ciò non significa che non potrebbero farlo, se lo volessero.» Alzò verso il cielo gli occhi senza palpebre. «Un tempo, non avrebbero ardito avvicinarsi alle coste di Niciea. Ma ora...» «E che cosa mi dici del Mar Meridionale?», gli chiesi. «Una nave vi si potrebbe avventurare senza essere individuata?» «Non credo, Aldair. I Rhemiani sono lenti e goffi, ma sono anche fitti come uno sciame di mosche, e per di più non c'è ormai nulla al mondo in grado di contrastarli.» Signar bevve una lunga sorsata di birra e mi guardò attraverso la punta del suo muso. Hai visto? mi ammonivano i suoi occhi. Che ti avevo detto? «In ogni caso,» feci ad alta voce, «è lì che dobbiamo andare, Thareesh.» «Il Nicieano ti ha appena detto quello che ci succederà,» mi interruppe Signar. «Ma noi siamo più veloci di qualsiasi altra cosa che oggi attraversi il mare. Anche i pochi vascelli nicieani caduti in mano loro non potrebbero raggiungere l'Ahzir.» «È vero,» ringhiò il Vikoniano, battendo sul tavolo il pugno enorme. «Ma solo se non incontriamo vento cattivo, se non imbrogliamo le vele, se non incappiamo in una secca... e se non capiterà alcuna delle centinaia di avversità che conosce benissimo chiunque abbia mai avuto la disgrazia di comandare una nave. Come me, per esempio. Rischi del genere non significano che il disastro è ineluttabile, Aldair. Quando ci si mette in mare, è automatico attendersi qualche imprevisto. Ma quando, ai rischi di una traversata, si aggiunge tutta la flotta rhemiana dietro la nostra poppa...» Si interruppe, lanciò un'occhiata significativa a Rhalgorn e Thareesh, quindi mi fissò nelle pupille senza riprendere la frase lasciata a metà. «...ti rendi conto di quali siano le probabilità a nostro sfavore?», conclusi io per lui. «Fai bene a parlarne in questo momento, amico mio. Loro sono i nostri compagni. Sono qui per dividere i nostri pericoli, e devono sapere per intero a che cosa vanno incontro.» Thareesh rimase immobile come una pietra.
Rhalgorn staccò le mascelle da un cosciotto arrostito, e si leccò i denti. Entrambi mi fissarono. Io fronteggiai i loro sguardi, ma non dissi nulla, per un lungo istante. Poi, cominciai a parlare. Cominciai a parlare, e raccontai loro tutto, come meglio potei, cominciando dall'inizio. Raccontai della mia fuga dall'Università di Silium, accusato di crimini che non avevo commesso. Raccontai di come Rheif ed io ci fossimo trovati, entrambi fuggiaschi, a bordo di una piccola barca, e di come avessimo osservato le bianche scogliere di Albion attraverso la nebbia livida. Non dissi loro di ciò che avevo visto sull'Isola di Albion, perché né i Nicieani né gli Stygiani seguono le dottrine della Chiesa; ma conoscono ugualmente quel luogo tremendo, e ne hanno orrore. Per i Signori dei Lauvectii è un luogo d'incubi, in cui dimorano creature della tenebra. Per i Nicieani, che vivono nella luce e nel calore del Sole del Sud, è un inferno gelido e desolato. Per la mia gente, è l'Isola Oscura, nella quale vagano per l'eternità le anime dei morti. Io, però, avevo calcato le spiagge di Albion, e non avevo visto nessuna di quelle cose. C'è la morte, sicuro, laggiù, in un certo modo. Ma non è la morte del Mondo di Là. Esistono cose peggiori della morte. Ci sono la vergogna, il tormento e il disonore. E anche qualcosa di ancora più orribile. Raccontai di come il mare ci avesse spinti a Sud, dove venimmo catturati e fatti schiavi dall'Aghjir Tharrin. Fu lui che mi insegnò l'amore per i resti delle antiche città, e mi scelse come suo aiutante nella ricerca dei misteri nascosti tra le rovine sepolte nel paese dei Tarcornii. E fu lui che divise con me il segreto che un giorno lo avrebbe condotto a morte, facilitando il crollo dell'Impero di Niciea. Quando, al mio paese, ero un bravo figlio della Chiesa, credevo ciecamente in ciò che mi era stato insegnato: che la storia era cominciata tremila anni fa, con la Creazione del Mondo. Prima, c'era la Tenebra. L'Aghjir Tharrin mi mostrò la follia di quell'insegnamento. Esseri sconosciuti avevano camminato lungo le vie della città sepolta almeno cinquemila anni prima della Tenebra favoleggiata dai preti! E c'era di più. Molto di più, come appresi in seguito.
Tharrin non era la fonte di queste conoscenze, ma solo un anello di una lunga catena. Un Cygnano schiavo, che tuttavia non era uno schiavo, era stato un suo maestro in quelle nozioni. E, a sua volta, aveva un altro maestro... una creatura che viveva in una desolata distesa di sabbia nel Gran Deserto orientale; un veggente dalla pelliccia lieve come l'acqua o la seta, e occhi giallo-verdi con l'iride ornata al centro da fori simili a semi di melone. Fu quella creatura che mi assegnò come missione la ricerca che, alla fine, mi fece approdare sulle coste di Albion. Come ho detto, cercai di raccontare quegli eventi nel modo migliore possibile. Ma come si può parlare dell'Isola Oscura in maniera che chi ascolta capisca? Raccontai di grandi querce, spesse come colonne... dissi della selvaggina che vi abbonda, dopo secoli di proliferazione non mitigata da alcun cacciatore. Descrissi le bianche ossa dell'immensa città morta: pallide dita spettrali che cercano la luce al di sopra della chioma di alberi immensi. Infine, narrai della mia discesa nei sotterranei della città, e di come nelle gallerie dimenticate mi venne rivelato il segreto di Albion... ...Porte di metallo levigato, che si aprivano da sole con un sussurro... luci che ardevano fredde e immobili, come nessun'altra lampada al mondo... Migliaia di finestre grigie e spettrali, che raccoglievano movimenti, immagini e parole, legate a eventi del lontano passato. Finestre che sotto il mio sguardo tornarono in vita, di fronte a me immobile, e mi narrarono la vera storia delle vicende antiche. Vidi creature come me, che vivevano in capanne di fango presso il mare. Le capanne diventarono villaggi, i villaggi città, le città piccoli regni. Assistetti alla fondazione dell'Impero Rhemiano... ai primi passi dei Nicieani dei Vikoniani... alle migrazioni degli Stygiani dall'oriente... alla riduzione in schiavitù dei Cygnani... vidi creature che volano, e che vivono in grandi torri, e creature che vivono negli abissi del mare... Alcune finestre grigie non tornarono in vita, e nessuno saprà mai quali storie dovessero raccontare. Poi, in quella grande sala sotterranea, mi trovai per la prima volta di fronte a un'immagine delle creature senza pelliccia. Persino un Cygnano appena tosato per l'estate non apparirebbe così nudo e repellente. Non avevano muso, ma una piccola appendice cartilaginosa, con due fori, un taglio ornato di pelle rossa per bocca, e orecchie simili a quelle dei
topi appena nati. Erano quelle creature, appresi, che avevano eretto la città sotto la quale mi trovavo, e le altre città in rovina sparse per il mondo. Città i cui edifici si alzavano fino al cielo. Sovrane e possenti, quelle creature avevano camminato in quei luoghi meravigliosi, sciamando come api su tutta la terra. E un giorno, un giorno remoto di un'estate dimenticata, le vidi creare il mondo. Il mio mondo. Vidi creature simili a me fatte uscire da gabbie scintillanti e abbandonate nude su una collina. Le vidi stringersi le une alle altre, piangendo dalla paura. Vidi accadere la stessa cosa per i Nicieani, i Vikoniani, e tutte le altre razze. Ma i loro nomi erano quelli assegnati dalle creature senza pelliccia. Non erano i nomi veri. Quei nomi io li conosco, ma non li rivelerò: perché ho visto quali creature eravamo, tutti, prima del cambiamento, prima che venissimo esposti, nudi, ai terrori del nuovo mondo. Ho visto le gabbie di vetro, e le cose racchiuse all'interno, gelate nell'apparenza della vita:.. Un gigante peloso con quattro zampe, che artigliava un salmone in un torrente... una creatura magra e grigia che ululava alla luna... una creatura strisciante con la pelle di smeraldo, addormentata nel sole... una bestia lanosa col manto arricciato e gli occhi mansueti... E anche me stesso, ho veduto. Una creatura pingue con zampe collose e una piccola coda arricciata. Ero lì: mangiavo una pannocchia presso un recinto. Vicino, una femmina allattava i suoi piccoli... E questo era il tremendo segreto dell'Isola di Albion. Noi non siamo uomini appartenenti a razze diverse, come abbiamo sempre creduto. Anzi, non siamo uomini affatto. Siamo creature trasformate, bestie che hanno ricevuto in dono mani e piedi al posto di artigli e zoccoli. Esseri vitalizzati come buffi giocattoli, per il divertimento dei nostri creatori. Perché? Perché l'Uomo potesse sentirsi simile a un dio? O, diversamente, perché potesse mostrare a se stesso tutto il suo odio immenso e bruciante? Non c'era un suono nella cabina dell'Ahzir. Solo il debole scricchiolio
del legno e l'eco della risacca rompevano il silenzio. Né Thareesh né Rhalgorn avevano trovato parola. E, in verità, quali parole potrebbero soccorrere due creature cui era stato rivelato che non erano uomini, ma bestie cui altre creature avevano conferito il dono della parola? «Questo fu solo l'inizio dei peccati dell'Uomo,» dissi loro. «Non si accontentò di formarci, e di abbandonarci sulla terra per vivere le nostre vite. Ci rese simili a lui... una caricatura grottesca dell'Uomo, destinata a seguire i suoi passi.» Rhalgorn alzò lo sguardo. Era grigio come la cenere, ma i suoi occhi erano rossi di rabbia. «Aldair,» disse, «si può chiudere una lepre in gabbia, ma non la si può trasformare in un uccello.» «Ma è questo ciò che Aldair ha cercato di dirvi,» intervenne Signar. «Siamo uccelli in gabbia, che ci piaccia o no!» Rhalgorn si apprestava a parlare di nuovo, ma io lo interruppi. «E' proprio questo il peccato più grande, Stygiano,» feci. «Noi non possiamo vivere le nostre vite, come creature libere. In quel luogo sotto la città, io ho visto la storia dell'Uomo. Anzi, le sue molte storie. Non tutte, ovviamente, ma abbastanza per capire. Fra gli uomini, in tempi remoti, ci furono creature conte te, che vivevano tra le foreste del Nord, e depredavano il mio popolo. Ci fu un Impero come quello Rhemiano, che tentò di conquistare il mondo.» Guardai Signar e Thareesh. «E ci furono genti del settentrione, che navigavano su navi lunghe e snelle. E popoli del deserto, che governavano le coste del Mar Meridionale. Noi stiamo ripetendo la storia dell'Uomo, Rhalgorn. Siamo incatenati alle sue vittorie e alle sue sconfitte. L'Uomo ha marcato il suo destino nelle nostre anime!» Per la prima volta il Nicieano parlò. «Che Aastar maledica lui e i suoi figli!»., disse. «Sempre che ci sia un Creatore al di sopra dell'Uomo per mandare a effetto la maledizione,» aggiunse con una triste scrollata di spalle. «Non avrei mai immaginato di dover pronunciare una simile eresia. Ma ormai l'ho detta.» Rhalgorn spinse indietro la testa e rise. La sua risata ha un suono diverso da quella di tutte le altre razze, e il verso insolito ci riscosse. «Thareesh,» fece poi lo Stygiano, «io non so nulla dei tuoi dèi né dei loro poteri. Ma mi sembra che loro; o i miei, o quelli di qualcun altro abbiano già realizzato il tuo desiderio. Non c'è più l'Uomo fra noi, né ci sono i suoi figli.»
«In questo hai ragione,» feci io. «Lui non c'è più. Ma il suo peccato è ancora sopra di noi.» «Le colpe possono essere lavate,» fece Rhalgorn in tono solenne. «Le maledizioni si possono spezzare.» E dicendo questo strinse l'impugnatura della sua spada, per mostrarci la sostanza dei suoi metodi. «Io stesso l'ho fatto, qualche volta; e posso farlo un'altra.» Lo fissai, poi passai lo sguardo sugli altri. D'improvviso, sentii una tremenda corrente di forza fluire tra noi, e seppi che in essa c'era molto di più della somma delle nostre forze individuali. C'era qualcosa d'altro. Qualcosa che era venuto alla luce improvvisamente, ci aveva toccati, ed era scomparso. Ma aveva lasciato dietro di sé un sentimento più ricco, e più completo, di quanto non dimorasse prima nei nostri spiriti. Signar versò birra per tutti, con una misura extra per Rhalgorn e Thareesh: sapeva che ne avrebbero avuto bisogno per addormentarsi, quella notte. Volentieri avremmo cercato tutti l'oblio: ma il destino aveva deciso altrimenti. Avevamo appena portato il boccale alle labbra, quando la sentinella lanciò un grido d'allarme, e colpi concitati batterono alla nostra porta. OTTO «Che significa, scomparsa?» ruggì Signar, afferrando il marinaio terrorizzato per i vestiti e sollevandolo da terra. «Scomparsa dove, maledizione?» Dal ponte venivano grida di allarme e scalpiccii di passi in corsa. Spinsi da parte il vikoniano e emersi all'aria aperta. L'siir, uno degli amici di Thareesh che si erano aggiunti al nostro equipaggio, mi fermò vicino al parapetto. «Laggiù, Signore,» fece. «Nel mare...» Seguii con lo sguardo la direzione indicata dal suo dito verde e scaglioso, ma non vidi nulla. Dietro di me risuonò la voce di Rhalgorn. «Sarai contento, ora, di avere uno Stygiano a bordo, perché veda ciò che tu non puoi vedere. Se non ci fossi io, qui, Aldair...» «Per favore, smettila e limitati a dirmi quello che vedi.» «È la donna, precisamente. È a bordo di una di quelle scialuppe nicieane che abbiamo con noi. Quelle cose che sembrano tronchi appuntiti con un
lenzuolo attaccato a un palo.» Il Nicieano gli lanciò uno sguardo che avrebbe ucciso un toro. Dietro di noi, la voce di Signar rimbombò come un tuono. «Il peggio deve ancora venire, temo. In qualche modo quella femmina ha colpito in testa una guardia, quella stessa che, quando è rinvenuta, ha dato l'allarme.» Le sue orecchie pelose pendevano flosce lungo il cranio. «E la guardia mi ha detto che, poco prima di essere colpita, aveva appena sentito dare il cambio alle sentinelle.» Lo fissai per un istante, poi compresi. Sentii un brivido salirmi su per la nuca. «Sì,» fece Signar, guardandomi negli occhi. «È stata libera di vagare sul ponte per un'ora o più, sicuramente.» «Allora, ci ha sentiti. Ha sentito tutto quello che io ho raccontato. Questo taglia la testa al toro. Dobbiamo riprenderla. Le cose che ha udito non devono uscire dalle sue labbra.» Signar fece un gesto con la mano. «Il vento ci è favorevole,» disse. «Non arriverà lontano. L'unico pericolo è che la perdiamo di vista nella notte.» Gli artigliai il braccio. «Questo Non deve accadere!» «Chi mai avrebbe sospettato che quella femmina avesse nozioni di vela e navigazione,» fece Thareesh in tono meditabondo. Non mi ero accorto che l'arciere si era unito a noi; ma è difficile sentire l'avvicinarsi dei Nicieani, che sono silenziosi almeno quanto gli Stygiani. «È una cosa abituale dalle tue parti, Aldair? Io non l'avrei mai sospettato.» «Non può saperne troppo,» disse Signar. «Si sta dirigendo verso sud, con un robusto vento di poppa, che è proprio ciò che farebbe un dilettante al timone. Presto le saremo addosso, e da quella parte non arriverà mai a ricongiungersi ai suoi amici Rhemiani.» Ma Signar aveva parlato troppo presto. Le sue parole avevano appena finito di aleggiare nell'aria, che una vedetta lanciò un grido. I nostri sguardi si indirizzarono verso ovest-nord-ovest, subito sotto la linea dell'orizzonte. Quattro vele scure venivano verso di noi, gonfie del vento notturno. Tre appartenevano ad altrettanti tozzi e grevi bastimenti rhemiani, la quarta a uno snello scafo nicieano catturato, quello stesso che avevamo osservato qualche giorno prima. Quest'ultima imbarcazione era ben più avanti rispetto alle altre, e la sua prora tagliava le onde come una lama sottile.
Signar bestemmiò e lanciò una serie di ordini concitati. Le nostre vele si alzarono e si gonfiarono, e la nave saltò sulle onde come un capriolo. Pochi istanti più tardi, un marinaio gridò, e vedemmo una serie di proiettili, lanciati dalle navi rhemiane, solcare il cielo piegandosi nella nostra direzione. Erano almeno una dozzina, e da lontano sembravano piccole scintille infuocate. Avvicinandosi, tuttavia, si ingigantirono diventando simili a soli fiammeggianti, grandi come covoni di fieno. Parallelamente alla nostra fiancata, si levò una serie di spruzzi, misti di fiamme, acqua e vapore. Eravamo ancora fuori tiro. I Rhemiani lo sapevano bene, e non avevano lanciato con l'intento di colpirci, ma semplicemente per prendere le misure e aggiustare il tiro. Rhalgorn mi venne accanto e artigliò con le mani una fiancata. «Mi hai proprio tirato dentro a una splendida avventura, Aldair,» fece. «Prima mi fai rizzare i peli sul cranio con le tue storie di anime morte e di uomini che non sono uomini. Poi mi abbandoni sul mare, in balia di quei diavoli che sarebbero ben felici di arrotare le unghie su di noi. Il tuo comportamento, sappilo, non mi piace per nulla, e ti sarei molto grato se tu volessi riportarmi nelle foreste dei Lauvectii il più presto possibile.» «Ti assicuro che, ora come ora, persino io sarei felice di accompagnarti fino a casa tua,» risposi. «Il problema è che in questo momento non mi è perfettamente chiara la direzione da prendere.» I Rhemiani indirizzarono un'altra salva alla nostra volta, e poi una terza. Non arrivarono più vicino della prima. Ben presto aumentammo il nostro distacco, e non fummo più oggetto di attenzioni focose. Se uno di quei colpi ci avesse raggiunto, saremmo andati in fiamme come una torcia coperta di resina, e nessuno di noi si sarebbe salvato. Ma, ovviamente, una cosa del genere sarebbe potuta succedere soltanto se noi fossimo rimasti immobili in mezzo al mare come una zucca in un orto. Ciò non era precisamente conforme ai nostri desideri, per cui ci affrettammo a porre qualche altro miglio di mare fra noi e le tozze bagnarole che stavano alle nostre calcagna. La nostra nave era molto più veloce, e la manovra non presentò alcuna difficoltà. Il vascello nicieano poneva invece qualche problema. Era in grado di inseguirci a non troppa distanza, rimanendo in attesa di qualche evento che facesse girare la fortuna in senso a noi avverso. Il che appariva come un'eventualità tutt'altro che da scartare, come sa chiunque si avventuri su per gli oceani.
«Potremmo virare, passare sotto il loro naso e scomparire nel buio,» suggerì Signar con voce speranzosa. «Io, con questa nave, sono in grado di tagliare il vento senza difficoltà.» «Non ne dubito, amico mio,» risposi. «Il problema è che prima dobbiamo trovare lei.» «E per far questo, in primo luogo dovremmo avvistarla,» borbottò il Vikoniano, scomparendo nel buio. «Abbiamo occhi che sanno scrutare nella notte,» gli ricordai. «Ho forti dubbi che a bordo delle navi rhemiane ci siano Stygiani di vedetta. Questo è un punto a nostro favore.» «Lo so già. Quella creatura insopportabile me lo rammenta due volte al minuto,» rispose il Vikoniano. Poi indirizzò una bestemmia alla volta della nostra prora. «Per la barba del Creatore, Aldair... è una cosa da non credere. Quel mostro è praticamente identico a Rheif. Evidentemente, tutti gli Stygiani sono uguali.» «Non sarei così drastico. Rheif era un buon amico, anche se era propenso a qualche esagerazione. Rhalgorn, per molti versi, è differente.» Gli Stygiani finiscono per entrare in simbiosi con quanti stanno al loro fianco. Ma la loro presenza è qualcosa di analogo all'orticaria o alla forfora: si sopporta solo dopo averci fatto l'abitudine. Lo guardai. Aggrappato con tutte le sue forze, artigliava la prora del vascello lottando per non farsi strappar via dalle onde. Inzuppato fino all'osso, bianco di spuma, pareva un fantasma appena emerso dall'abisso. «Rhalgorn, hai un aspetto miserabile,» gli feci, avvicinandomi a lui il più possibile. «Questa tua osservazione è davvero poco decorosa,» rispose a labbra strette. Teneva le mascelle serrate, e i muscoli si flettevano lottando contro la forza delle onde. «In particolar modo se si considera che la mia vista è responsabile della sicurezza di tutte le persone che sono a bordo di questa barca.» «Nave. È una nave. E i tuoi servigi sono grandemente apprezzati.» «Ne dubito. Gli Stygiani non godono della stima che meriterebbero presso le altre razze. E il mondo non sa ciò che perde per questa dimostrazione di ignoranza.» Non mi parve il momento adatto per fare obiezioni. «Vedi qualcosa?» gli chiesi. «Non c'è nulla in mare?»
«È una domanda che mi fanno all'incirca una volta al secondo. La risposta, Aldair, è sì. Vedo qualcosa, anzi molte cose. Ma tutte quante hanno un nome solo: acqua.» Sentii il gelo artigliarmi lo stomaco. «Vuoi dire che l'abbiamo perduta?» «Non ho detto questo. Non riesco a distinguerla... voglio dire che non vedo la sua forma, quella di donna in una barca. È difficile da spiegare. È lì, davanti a noi, ma è soltanto un'ombra fra le tante altre che animano il buio.» Per uno Stygiano, era un'ammissione significativa. Rheif giurava che sarebbe stato capace di contare i pidocchi fra le penne di un falco che volava in cielo, quando io non riuscivo a vedere nemmeno il falco. «Fai del tuo meglio,» gli dissi. «Quella donna non deve raccontare ai Rhemiani ciò che ha udito.» «Perché?» chiese lo Stygiano. «Con tutta probabilità, non le crederebbero. Io stesso non sono per nulla sicuro di crederci.» Questo, ovviamente non era vero. Avevo ben visto la sua faccia, giù nella cabina. Un'ora dopo mezzanotte, Rhalgorn annunciò che, non per colpa sua, aveva perso di vista la donna nella barca. Aguzzò ancor a lungo gli occhi nelle tenebre, ma era chiaro che non si aspettava più di veder nulla. «Dove stava drizzando,» gli chiese Signar, «l'ultima volta che l'hai vista?» «Drizzando?» fece Rhalgorn. «Che cosa significa drizzare, montagna di pelo? Io non sono un marinaio, e non conosco i termini mistici della vostra arte.» Signar inghiottì rumorosamente la sua bile. «Andava ancora verso sud?» fece, con la voce più gentile possibile. «O aveva cambiato direzione, verso nord, o verso ovest?» «Verso est,» rispose Rhalgorn. «Un pochino spostata a sud, ma principalmente verso est.» Signar ed io ci guardammo negli occhi. «Verso terra?» «Non di sua volontà, credo,» disse dopo un istante il Vikoniano. «Il vento e la marea trascinano le piccole imbarcazioni, quando non le si sa governare bene. E non penso che questo sia il caso della nostra ex prigioniera.» Malgrado le proteste del Vikoniano, feci dirigere anche la nostra nave verso terra. Non potevo rimproverare al mio amico la sua prudenza: non sapevamo nulla della costa che si allargava davanti a noi, e non potevamo
sapere se ci attendevano scogli o secche. La sentinella, comunque, riferì che la nave nicieana inseguitrice aveva cambiato rotta insieme con noi, restando sempre in nostra vista. Era come se una corda invisibile unisse i due scafi. Eravamo abbastanza vicini alla terra da vedere la scura massa della costa. Una spiaggia sottile era rotta dall'urto delle lunghe onde bianche di spuma. Eravamo tutti in perfetto silenzio, mentre Signar, insieme con i suoi due più abili scandagliatori, immergevano lunghe funi nell'acqua per misurare la profondità del fondale. Solcavamo le acque tenebrose senz'altro rumore all'intorno che quello delle onde, e il grido lontano degli uccelli che volavano lungo la costa. Il cielo era senza stelle, e giudicai che fosse all'incirca la terza ora della notte, o poco più tardi. Fra poco il Sole sorgerà, e dobbiamo ancora trovarla, pensavo. Magari, in questo stesso momento, si è già riunita alla sua gente, e sta raccontando ciò che ha udito al capitano di una nave rhemiana. L'idea mi terrorizzava. Non condividevo l'opinione di Rhalgorn, secondo cui la storia sarebbe stata accolta dall'incredulità più totale. I preti di Niciea avevano appreso soltanto una piccola parte del segreto: sapevano solo che il mondo era molto più antico di quanto raccontavano le religioni. Ma questo semplice frammento di conoscenza era parso loro talmente minaccioso che non avevano esitato ad aizzare la gente contro di noi, e a provocare la fine di un Impero. Come diceva spesso il saggio Aghjir Tharrin, la verità è una lampada che talvolta brilla di luce troppo vivida perché la gente accetti di vederla. Non volevo neppure pensare a ciò che sarebbe successo quando i Buoni Padri della Chiesa di Rhemia avessero udito il racconto della ragazza. Erano enormemente gelosi del loro dominio. Se soltanto avessero pensato che stava per diffondersi un verbo che poteva mettere in dubbio i loro insegnamenti, avrebbero smosso le montagne pur di tacitarci. E, peggio ancora, c'erano potenti che, dopo essersi impadroniti della verità, avrebbero cercato di nasconderla per usarla a loro vantaggio. Se costoro avessero immaginato che, in un certo modo, si potevano aprire spiragli verso la storia futura, niente avrebbe potuto fermarli. Non avrebbero esitato a mettere un intero mondo in catene, pur di stringere nelle loro mani le estremità di quelle stesse catene. E c'era poi un'altra mia inquietudine, che non avevo diviso con i miei compagni. Non riuscivo a capire come l'Uomo avesse indirizzato sin
dall'inizio il corso della nostra storia, e come avesse potuto tracciarne la direzione. C'era forse, da qualche parte della nostra terra, una specie di gigantesco orologio che batteva gli istanti del nostro destino? Forse era proprio così. E se c'era qualcosa in grado di farci danzare come burattini appesi a un filo, che cosa avrebbe potuto fare a noi, povere figure di pezza, che con le nostre deboli forze tentavamo di ballare ad un ritmo differente da quello che risuonava dall'inizio dei secoli? Non potevo dire se, con un atto sciocco e inconsiderato, avrei potuto scatenare una serie di avvenimenti tali da mettere il mondo a ferro e fuoco. Magari, l'atto in questione poteva non dipendere neppure da me. Potevano bastare, forse, poche parole pronunciate da una ragazza rhemiana. Avevo già passato molte notti insonni, tormentato da pensieri simili a questo. Un sussurro interruppe le mie meditazioni. Corsi subito al fianco di Rhalgorn. «Là,» fece lo Stygiano. «Là c'è la barca, Aldair. C'è di sicuro, anche se dubito che tu possa vederla.» Mi voltai per cercare Signar, ma il vikoniano era già dietro di noi. «Non mi piace,» disse. «Siamo vicino alla foce di un fiume. Lo capisco dal rumore delle onde contro il nostro scafo, e dall'odore dell'acqua.» «Signar, dirigi a terra!» «Se i fondali...» Si interruppe e scosse la testa, andando di corsa verso il timoniere. In pochi secondi, virammo di bordo, cogliendo una corrente favorevole. Curvandomi a poppa, scrutai nelle tenebre dietro di noi, e quasi non credetti ai miei occhi. I nostri inseguitori ci passarono a fianco nelle tenebre, e ci superarono, scomparendo verso sud, mentre noi entravamo nella foce del fiume. NOVE Caso o fortuna ci furono favorevoli, quella notte. Non rimanemmo in secca né andammo a sfasciare lo scafo contro qualche scoglio sommerso. Invece, filammo rapidi e sicuri, vincendo una debole corrente. La barca che la nostra prigioniera aveva rubato ci mise di fronte a nuovi misteri. Galleggiava libera, con la prora impigliata nei rami delle piante che dalla sponda fluviale scendevano verso l'acqua. Non c'era segno che alla donna fosse capitato qualcosa di male, e dubitavo che fosse caduta in
acqua, dopo aver navigato senza problemi in mare aperto. All'alba, Signar inviò pattuglie ad esplorare la foce del fiume, ma non se ne vide traccia. «Dev'essere qui intorno,» osservò il Vikoniano. «Se avesse preso terra vicino al mare, non avremmo trovato qui la sua barca. Per risalire la corrente del fiume fino a qui, qualcuno deve avercela portata.» Le rive, su entrambi i lati, erano coperte di vegetazione che si spingeva fin dentro l'acqua. Evidentemente la donna aveva risalito la corrente fino ad un certo punto, e poi era scesa a terra, abbandonando la barca. L'unica cosa da fare era di inoltrarci anche noi lungo il fiume. Non fu impresa facile per l'Ahzir, che era stato costruito per il mare. Per avanzare, ammainammo le vele e cominciammo a manovrare i remi come pali, immergendoli nella melma del fondale: le rive erano troppo vicine per permetterci di remare nel modo tradizionale. Quando il Sole cominciò ad essere alto nel cielo, la calura crebbe e l'aria si fece incandescente. Il fiume era scuro e fangoso, e puzzava di marciume. Sotto il pelo dell'acqua si vedevano scivolare forme indistinte che - grazie al mio invincibile ottimismo - supposi fossero pesci. Sulle rive crescevano alberi immensi dai tronchi nerastri, che allargavano sul nostro capo le grandi chiome. Attraverso il fogliame penetravano soltanto brevi lame di luce, che disegnavano macchie indistinte sull'acqua e ci dipingevano (tutti tranne i Nicieani) di uno sgradevole colore verdastro. Dalla vegetazione piovevano liane larghe quanto un braccio, simili al sartiame di un vascello gigantesco. Più di una volta dovemmo impiegare degli uomini perché, aiutandosi con pali, spingessero di lato gli ostacoli pendenti che ci intralciavano la rotta. L'impressionante calore che rendeva quel posto simile a una fornace non piaceva a nessuno, ma chi soffriva più di tutti era il vikoniano, abituato ai ghiacci. Quanto a Rhalgorn, prese il clima infame del luogo come un insulto rivolto espressamente alla stirpe degli Stygiani. Pur nello sconforto, eravamo affascinati dall'aspetto terribile dell'ambiente. Era una regione del mondo sconosciuta e insolita. Persino i Nicieani, pur essendo grandi navigatori, non si erano mai spinti tanto lontano, verso sud. «Credo che queste terre finiscano con incontrare il Grande Deserto, detto anche Grande Desolazione,» fece Tharresh. «Da noi si raccontano molte storie intorno a quel luogo, e si dice che vi siano nascosti grandi tesori.» «I tesori si trovano sempre in luoghi dove nessuno avrebbe voglia di andare,» fece Rhalgorn gravemente, asciugandosi il sudore dal muso. «Devo
ancora sentir parlare di un tesoro che sia nascosto in una località amena e ridente... per esempio sotto una quercia maestosa nelle foreste dei Lauvectii.» Non potei fare a meno di ridere. «Nelle nostre favole,» dissi, «è proprio lì che gli stregoni malvagi nascondono i tesori.» «Peccato che non veniate a cercarli troppo spesso, specie all'ora di pranzo.» Non gli risposi, e mi misi ad ascoltare i suoni provenienti dall'universo verde che ci circondava. La bizzarria del luogo aveva l'effetto di inquietare e innervosire tutti coloro che si trovavano a bordo. A mezzogiorno, tra la ciurma scoppiò una rissa. Un fatto del genere non si era mai visto prima, e la contesa era nata praticamente dal nulla. In un'altra occasione, rivolsi la parola a Thareesh per fargli un'osservazione, e vidi il nicieano guardarmi con il fuoco negli occhi, e quindi voltarmi le spalle per allontanarsi senza rispondere. Che creatura ripugnante, mi sorpresi a pensare del mio amico. Con quel suo puzzo dolciastro di scarafaggi, e quell'orribile testa verde. A questo punto mi ripresi, troncando il flusso dei pensieri. Non avevo mai avuto opinioni del genere sui Nicieani! Che cosa mi stava succedendo? Cercai di soffocare quei pensieri insoliti, e concentrai la mia attenzione sul mondo circostante. Eravamo una ciurma immusonita e taciturna, quel giorno, con poca voglia di essere d'aiuto a noi stessi e agli altri. Nel tardo pomeriggio eravamo tutti troppo esausti per pensare a litigare. Il sentimento dominante era una torpida indifferenza. Io mi davo del pazzo per aver trascinato tutti in un viaggio così inutile e pericoloso. La ragazza era di sicuro annegata, o era stata divorata da qualche mostro (anche se l'idea mi faceva star male). E se pure era viva, dove mai avremmo potuto trovarla? Stavo quasi per ordinare a Signar di portarci via da quel posto orrendo e di far rotta verso il mare, quando la duplice cortina verde che si alzava dalle sponde del fiume si interruppe bruscamente, e ci ritrovammo sotto il cielo aperto, senza più rami sopra la testa. Galleggiavamo su un lago immobile come una lastra di bronzo, circondato da alberi alti e dritti. Le sponde si levavano a picco sull'acqua, circondandoci come i bordi di un'immensa tazza. «Conviene dare un'occhiata alla riva,» dissi a Signar. «Una breve oc-
chiata. In questo luogo c'è qualcosa che non va, e voglio averci a che fare il meno possibile.» Non portammo l'Ahzir a ridosso della riva. Grandi scogliere grigie spiccavano tra le onde, per cui ci accostammo ad esse con prudenza, a forza di remi, e quindi le usammo come passerelle. Erano abbastanza compatte da tenerci all'asciutto, e sarebbero state utili se per caso avessimo dovuto lasciare quel luogo in fretta. Lo Stygiano trovò modo di divertirsi, saltando con agilità da uno scoglio all'altro, e quindi fermandosi a guardare noialtri che gli arrancavamo faticosamente dietro. Thareesh ed io cercammo di ignorarlo; ma non era impresa facile. Avvicinandoci a terra, tuttavia, sentivamo crescere in noi un insopprimibile timore, un senso di panico che scorticava i nervi e accelerava i battiti del cuore. Rhalgorn non ne era immune, ma aveva deciso di dimostrarci che gli Stygiani non danno peso a cose di questo genere. Continuò i suoi esercizi acrobatici fino a quando non fummo prossimi alla sponda, poi si voltò ancora una volta verso di noi, per farci vedere quanto era stato bravo. Vidi il solito sogghigno dipingersi sul suo volto... e lo vidi scomparire all'improvviso. Sotto i suoi stivali, il macigno sul quale si trovava aveva cominciato a tremare e vibrare. Quindi si alzò in aria, facendolo andare a gambe levate. Una colonna d'acqua spruzzò verso il cielo, e ricadde sulla nostra testa. E allora quello che sembrava un masso si rivelò per ciò che era: non una pietra, ma una gigantesca, orrida creatura che torreggiava sulle nostre teste. Thareesh ed io incoccammo le frecce ai nostri archi. La cosa gridò, si scosse e agitò le braccia all'intorno. Era un mostro enorme, nero, grande tre volte un vikoniano, con un largo petto e braccia e gambe come alberi. La pelle era grigia, e appariva spaccata come l'argilla secca. Le sue dimensioni, da sole, erano terrificanti, ma non erano tutto. Sulle spalle si alzava una testa grande come un barile, con ai lati due immense orecchie piatte, piccoli occhi neri e un naso incredibile, che si agitava e si arrotolava sopra la sua bocca come un ripugnante tentacolo. Ai suoi lati, uscivano dalle mascelle due lunghi, appuntiti denti giallastri, due zanne mostruose che si incurvavano verso l'alto. Per un'intera eternità il mostro terreggiò sopra di noi, artigliando l'aria e oscurando il Sole con la sua mole. Poi, con un barrito che spaccò il cielo, si voltò tuffandosi nell'acqua, e cominciò a guadare faticosamente verso la riva, prendendo terra in un punto in cui era sufficientemente bassa. Lo ve-
demmo arrampicarsi sulla terraferma, ed allontanarsi verso l'interno. Fu facile seguire il suo cammino, perché non c'era vegetazione che restasse intatta dopo il suo passaggio. Guardai Thareesh. Il Nicieano era immobile come un pupazzo di neve, la freccia ancora incoccata all'arco, e puntata verso il nulla. «Perché non hai tirato?», gli chiesi. «Non avrai avuto paura di mancare il bersaglio, spero.» Il Nicieano si riscosse, e la sua lunga coda verde gli frustò le gambe. «Domanda interessante,» fece. «Stavo proprio per rivolgertela anch'io.» Lo fissai negli occhi, mentre lui mi dedicava la versione nicieana di un sogghigno perplesso. Nessuno dei due aveva una risposta coerente. Eravamo entrambi arcieri esperti; tuttavia, di fronte a quel mostro, non avevamo lanciato una sola freccia. Più tardi apprendemmo che anche a bordo nessuno dell'equipaggio era corso a prendere le armi, e pochi di quelli che già le stringevano, le avevano sollevate contro la creatura. «Sono lieto di essere sotto la protezione di così prodi guerrieri,» fece cupamente Rhalgorn, mentre si issava sopra il nostro scoglio. Ci fissò entrambi, mentre cercava di asciugarsi il pelo. «Proprio una splendida dimostrazione di coraggio, amici. Che cosa avreste fatto, se quell'accidente avesse deciso di afferrarmi e divorarmi sul posto? Gli avreste offerto uno stuzzicadenti?» Thareesh aprì la bocca per rispondere, perché i Nicieani sono combattenti fieri del loro coraggio. Ma non pronunciò una sola parola. Invece, tutti e tre sbarrammo gli occhi verso la riva. Gli alberi dritti che la circondavano era brulicanti di quelle creature. I mostri barrivano, si agitavano e pestavano la terra, facendo sollevare nubi di uccelli colorati che si allargarono sul lago. Era una vista incredibile, ma non tanto quanto quella che seguì. Fra la truppa dei mostri schierati, apparve all'improvviso la nostra fuggitiva, vide la nave immobile nel lago, e si precipitò verso di noi, come per incontrare amici ritrovati dopo tutta una vita. DIECI L'esperienza con i giganti l'aveva chiaramente snervata, perché mi si gettò urlante fra le braccia, mi strinse da togliermi il fiato, e cominciò a piangere sulla mia spalla.
Fu un felice interludio; tuttavia, ahimè, fuggevole. Tornò subito in sé, e riprese la sua vecchia pratica di battermi con i pugni, graffiarmi il muso e tirarmi calci negli stinchi, pronunciando atroci ingiurie. «Stavo quasi per preoccuparmi,» le dissi. «Avevo cominciato a temere che quei mostri ti avessero gettato un incantesimo. Credo di poter dire che non è vero.» «Lasciami,» gridò. «Lasciami! Non osare mettermi le mani addosso, tu, specie di bifolco! Poiché ero giovane e folle, mi sforzai di calmarla. Il che provocò una moltiplicazione dei suoi isterismi. Avevo già graffi profondi intorno al naso e agli occhi; ma quando cominciò a strapparmi il pelo dalle mascelle, la sollevai da terra, me la caricai in spalla e la portai di peso sulla nave, gettandola sul ponte. Come compenso per le mie fatiche, ebbi di scorcio la fuggevole vista di un codino rosa, e di altre delizie per le quali tuttavia in quel momento non provavo soverchio interesse. Avremmo potuto lasciare subito quel luogo, ma Signar giudicò imprudente avventurarsi nel fiume mentre calava la notte. Per cui, a forza di remi ci dirigemmo al centro del lago, e lì gettammo l'ancora. Disposi una tripla vigilanza armata fino all'alba. Come precauzione supplementare, accendemmo torce, le ponemmo in cima a lunghi pali, e le spingemmo oltre le fiancate, in modo da far luce quanto più possibile intorno a noi. Se i mostri avessero deciso di avvicinarsi, li avremmo scorti da lontano. Quando la prigioniera apprese che avremmo passato la notte lì, fu colta da un nuovo attacco isterico. «No, no, non fatelo!» cominciò a gridare, con gli occhi sbarrati e scuotendo la testa, in preda a un evidente terrore. «Dobbiamo andarcene da qui subito. Non... non sapete! Sono creature terribili, orrende!» «Pensi che ci assaliranno, allora?», chiese Signar. Lei emise una breve risata nervosa. «Vuoi dire assalire la nave? No che non lo faranno. Hanno paura di voi. Hanno paura di tutto!» «Non mi sembrano troppo spaventati,» fece solennemente Rhalgorn. Lei lo gratificò di un gesto di disprezzo col mento, e guardò da un'altra parte. Era ancora terrorizzata dallo stygiano, ma non voleva darlo a vedere. «Se uno di voi idioti volesse dedicarsi un momento a riflettere,» fece, «capireste quello che voglio dire. Tutti quei barriti, quel trapestio, quell'agitazione, non sono altro che manifestazioni di terrore. Io sono stata con
loro... lo so. Sono spaventati, come bambini. È più forte di loro!» «Sono piuttosto grandi per essere bambini,» ringhiò Signar. «E piuttosto pesanti,» aggiunse Rhalgorn. «Non mi piacerebbe affatto che uno di loro mi calpestasse, mentre fugge in preda al terrore.» «Un momento,» dissi io. Versai altro vino nelle coppe protese tutt'intorno, e porsi alla ragazza una scodella piena di zuppa e una fetta di pane. La paura, constatai, non le aveva fatto perdere l'appetito. «Hai detto che è più forte di loro. Che cosa volevi dire?» «Quello che ho detto. C'è qualcosa qui. Un'aura di terrore tutto intorno a loro. Una cosa terribile, orrenda. Non l'avete avvertita, anche da lontano? So, vedo che ve ne siete accorti. E non potete immaginare che cosa voglia dire essere vicini a quelle creature.» Ci raccontò di com'era fuggita, decisa a raggiungere le navi rhemiane, anche se non sapeva esattamente dove fossero, ed anzi non fosse neppure certa che ci avessero seguito, fino al momento in cui non aveva visto la prima salva di colpi scagliati verso di noi. Poi aveva scorto la terra, era entrata nella foce del fiume, aveva aspettato un po', e infine aveva deciso di scendere a riva e di attraversare la giungla fino a ritornare sulla costa. «Avresti potuto tornare indietro con la barca,» le dissi. «È stato sciocco toccar terra e addentrarti in una regione sconosciuta.» Mi guardò come se fossi un verme. «Tornando indietro in barca, mi avreste vista subito. Non sono poi così stupida, sai.» «No. Non lo sei.» «I mostri ti hanno catturata, dunque,» fece Signar. «Non appena messo piede a terra. Hanno dei passaggi nella foresta, simili a tunnel praticati nel verde. Guardando dal fiume, sembra che nulla possa passare attraverso quella barriera vegetale, ma non è così.» Si interruppe, torse un istante le mani, poi riprese a parlare, senza guardarci in volto. «Non potete capire come sia orribile trovarsi in mezzo a tante di quelle creature. In realtà, loro non mi hanno catturata, nel vero senso della parola. Sarei potuta fuggire, penso, se avessi avuto un posto dove andare. Ma avevo... paura di provarci. Si ha sempre paura quando si è vicino a quegli esseri.» Rise, con un suono un po' troppo squillante. «Si ha quasi tanta paura quanto loro ne hanno di noi!» «Evidentemente, ha ragione,» disse Thareesh, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. «C'è una qualche forza ignota in quelle creature, Aldair. Non è stata la nostra innata codardia a impedirci di scagliare le frecce.» E lanciò uno sguardo significativo in direzione dello Stygiano.
«Sarà con immenso piacere che lascerò questo luogo,» fece Signar. «E non credo che avrò molta difficoltà a far lavorare la ciurma.» In quel momento mi venne un pensiero, e non potei fare a meno di esprimerlo, con un adeguato sogghigno. «A quanto sembra,» dissi rivolto alla ragazza, «i tuoi nuovi carcerieri non sono stati poi migliori dei primi. Se proprio dovevi scappare, potevi scegliertene di più adatti al tuo rango...» La vidi impallidire dall'ira, e volgersi verso di me con tale impeto che temetti volesse scavalcare la tavola d'un balzo per saltarmi agli occhi. «Davvero?» gridò. «Proprio? Ebbene, comincio a pensare che sarei stata meglio con quei mostri piuttosto che con degli ... degli eretici!» «Dunque, hai ascoltato.» «Sì, ho sentito tutto!» Il suo mento si alzò in segno di sfida e sulla fronte si disegnarono le rughe del corruccio. Mi scrutò con uno sguardo misto di curiosità e disprezzo. «Siete matti, per caso? Credete davvero a quelle fantasie, e vi aspettate che gli altri ci credano?» «Non sono fantasie, purtroppo. Non sai quanto ardentemente vorrei che lo fossero.» «Per favore.» Chiuse gli occhi e scosse la testa. «Non sono la figlia di un contadino, che gode e si spaventa alle storie di fate. Ho studiato, sai?» Lanciò in giro uno sguardo divertito. «Ho studiato probabilmente più di quanto possiate dire tutti voi messi insieme.» «Non ne dubito,» feci, un po' seccato da questa osservazione. «E, talvolta, la cosa traspare.» Arrossì, e strinse i braccioli della sedia. «Vorrei andare nella mia stanza, ora, se non vi dispiace.» disse. «Non ho nient'altro da dire, e non c'è nulla che voglia ascoltare.» «Temo che dovrai sopportarci ancora un po',» risposi. «Il nostro destino riguarda anche te, ormai, che ti piaccia o no. Quello che hai appreso rimanendo a origliare dietro la porta, ti rende partecipe della nostra missione.» Si alzò a metà dalla sedia. «Non sai quello che dici!», gridò. «Ma lo sai chi sono, io?» «No. Chi sei?» Si sedette di nuovo, con il respiro pesante, senza parlare. «Quello che hai sentito,» feci, «non è eresia. È la verità. Per quanto spiacevole possa apparire, è la verità. Ed è anche la nostra preoccupazione principale.» Lanciai uno sguardo ai miei compagni, intorno alla cabina. «Non è male dedicare un momento al problema. La nostra ospite ci ha la-
sciati piuttosto in fretta, e la sua partenza ha interrotto la nostra conversazione. Ci sono altre cose che volevo dirvi. Cose che nessuno di voi, eccetto Signar, conosce.» Mi interruppi, mi diressi verso la porta, guardai fuori per un istante, quindi tornai a rivolgermi verso i miei compagni. «Devo dirvi che anche altri sono impegnati nella nostra stessa missione. L'Aghjir Tharrin era uno; il suo maestro, Nhidaaj il Cygnano, un altro. E ce n'è ancora uno di cui non posso parlare. Io sono soltanto un anello della catena, come tutti voi. Siamo ricercatori, avventurieri... Altri, però, cercano la verità in modi diversi, come gli studiosi che abbiamo condotto in Albion.» Vidi la ragazza impallidire. «Sì, è proprio così. Signar ed io abbiamo viaggiato per tutta la Gaullia e le Terre del Nord, persino in Rhemia stessa, alla ricerca di sapienti le cui intelligenze non fossero chiuse alla nostra rivelazione. In questo momento, ci sono quattro studiosi nelle sale sotterranee di Albion, intenti ad assimilare la sapienza che forse, un giorno, ci libererà dai legami impostici dall'Uomo.» Girai lo sguardo, fermandolo sulla grande figura del Vikoniano. «Finora», dissi, «soltanto il nostro Capitano conosceva il motivo del nostro viaggio oltre gli Stretti, nel Mar Meridionale, e perché è vitale che facciamo vela nuovamente verso il nord, anche avendo alle calcagna tutta la flotta rhemiana. In Albion sono nascosti segreti senza fine; per portarli alla luce non basterebbe una vita. Ma perché depositarli laggiù? Per quale motivo l'Uomo eresse quel tempio della sapienza? In esso sono racchiuse tutte le informazioni necessarie per chiarire le sue manipolazioni sulla storia: ma che altro? Fabrus Domitius, che guida il gruppo di studio che si trova laggiù, pensa che Albion sia soltanto una delle fortezze della sapienza disseminate dall'Uomo. È convinto che ce ne siano altre. Gran parte di quello che avremmo potuto apprendere in Albion è perduto per sempre, corroso dallo scorrere dei secoli. Ma un'altra fortezza simile a quella, ne sono certo, custodisce la chiave che rivelerà come l'Uomo ci abbia fatti incamminare lungo questo faticoso sentiero.» «Di che natura potrà mai essere questa chiave?», chiese Thareesh. «Lo sai?» «Non posso dirlo perché io stesso non lo so per certo,» risposi. «So soltanto che da qualche parte, in oriente, deve esistere un luogo come Albion. L'Uomo ci ha lasciato qualche traccia al riguardo. In una delle finestre grigie dei sotterranei di Albion, per esempio, lo si vede intento ad erigere grandi costruzioni, destinate a ospitare strane macchine. Ce ne sono molte,
ma una di esse si nota subito per l'ambiente caratteristico nel quale si trova. Ci sono deserti sabbiosi, tutto intorno, e il Sole arde come una sfera incandescente.» «Il Grande Deserto, vuoi dire?» «Lo penso, non posso esserne sicuro. È ciò che dobbiamo scoprire.» La ragazza si mise a ridere così rumorosamente che ci fece sobbalzare: «Non può esserne sicuro, perché non c'è niente di vero,» fece. «È tutta una sciocchezza, una follia! Per il Creatore, ma possibile che siate tutti matti come quelle povere bestie là fuori?» «E bestie siamo in realtà, mia cara, come già ti ho detto. Ma quanto alla follia, non può essercene in noi più di quanta ve ne è nel mondo di cui l'Uomo ci ha lasciato eredi.» Per un momento rimasi immobile, senza dir nulla. Poi, come colto da un pensiero improvviso, mi diressi verso il grande cassettone laccato che un tempo era appartenuto all'Aghjir Tharrin, mi sfilai la chiave dal collo, e aprii la perfetta serratura nicieana. Liberai l'oggetto dal panno di velluto che l'avvolgeva, mi girai e lo sollevai ponendolo nella piena luce della lampada al centro della cabina. Era davvero una meraviglia a vedersi, e sul volto di tutti i presenti si disegnarono paura e stupore. La pesante catena d'oro era lavorata in modo complicato e squisito, e tempestata di gemme. Ma era il suo pendaglio che catturava lo sguardo. Era plasmato nella forma di una bestia che non è mai esistita. Aveva il corpo scaglioso dei Nicieani, le ali di un uccello, e la testa di una creatura che mi ricordava l'essere che incontrai sotto le sabbie di Xandropolis. Le zampe anteriori avevano grandi artigli, quelle inferiori zoccoli divisi in due. Aveva corna sulla testa, ed emanava un respiro di rubini. Mentre la sorreggevo, vidi in quella bestia fantastica un fuoco che non vi era stato posto dai suoi creatori. Era un fuoco, pensai, che rispecchiava il disgusto invincibile negli occhi dei miei compagni. Perché quella era una cosa creata dall'Uomo, e su di essa c'era ancora il suo tocco velenoso. Da Albion non avevo portato via nient'altro, oltre alla spada di Rhalgorn, e nient'altro intendo averne. La presi in segno di sfida contro ciò che vi avevo scorto dentro. La prigioniera non ne sopportò la vista, e volse lo sguardo. Ma non abbastanza in fretta, pensai: l'incantesimo l'aveva già colpita.
UNDICI L'alba dipinse di grigio l'oblò sopra la mia testa. La calura stava già avvolgendo la mia cabina, e mi chiesi che cosa avrebbe portato il Sole di mezzogiorno. Un po' di allegria, magari, mi dissi cercando di consolarmi. I rumori che venivano dal ponte mi facevano capire che presto avremmo lasciato quel luogo tetro e saremmo tornati nel mare aperto. Mai troppo presto. Avevo la testa ancora piena di sogni così orrendi che non osavo nemmeno ricordarli. Mentre mi infilavo gli stivali, mi fermai di botto per ascoltare. I rumori dal ponte erano davvero troppo insistiti. C'era qualcosa di più, in ballo, oltre ai preparativi per affrontare il mare. Afferrai la mia spada e salii di corsa. Appena fuori, vidi Rhalgorn, con le labbra piegate in una smorfia di ironico divertimento. Era un'espressione che gli Stygiani amavano mostrare ogni volta possibile. «Pare che ci sia qualcuno che ti vuole,» disse, studiandosi la punta delle dita. «Un gentiluomo di notevole statura e dal naso imponente.» Guardai sulla sua spalla, e vidi di cosa si trattava. Uno dei mostri era sulla riva, issato sopra uno scoglio. Sembrava un monumento al nulla, secondo l'interpretazione di uno scultore folle, perché aveva lo stesso colore grigio della roccia sulla quale era ritto, e dell'alba livida che si diffondeva all'intorno. «Secondo te, che cosa vuole?» «Fare amicizia, è chiaro,» rispose Rhalgorn, che non riusciva a dissimulare il suo divertimento. «Si sente solo, e vuole scambiare quattro chiacchiere con qualcuno. Magari è un tuo lontano parente, Aldair. Il naso ricorda un po' quello del Clan dei Venicii.» Come al solito, gli sfoggi d'umorismo di Rhalgorn erano fuori luogo. Di tutto avevo voglia, in quel momento, fuor che di ridere. «Forse hai ragione,» risposi, «perché se è lo stesso gentiluomo che abbiamo incontrato ieri, mi par di ricordare che non abbia molta simpatia per i Signori dei Lauvectii, ed anzi ami farli andare a gambe all'aria.» Prima che Rhalgorn potesse studiare una risposta adatta, si fece avanti Signar. «Che cosa pensate che voglia quel tipo?» «Era appunto l'argomento della nostra conversazione.» Il Vikoniano si grattò il naso. «Beh, se qualcuno me lo chiedesse, direi che vuole parlare. Ma nessuno me lo ha chiesto.»
Rhalgorn rise. «Hai ragione. Nessuno te lo ha chiesto.» «Già. E allora, che devo fare?» «Avvicinati alla riva, ma non più del necessario. Non c'è alcun motivo di correre rischi che potremmo benissimo evitare.» Rhalgorn si fece immediatamente serio, quando intuì le mie intenzioni. «Aldair,» fece, «sarà meglio che ti accompagni.» «Sono certo,» risposi, «di esser capace da solo di incontrare questo mio lontano parente. Tu potrai restare a bordo, dove rimarrai al sicuro e all'asciutto.» Da vicino, non era meno spaventoso che da lontano. Un'ondata di terrore gelido, irrazionale, mi avvolse come un vento fetido. Era un terrore senza motivo. Esisteva, e basta. «Se puoi capirmi,» gridai a quella creatura, «rimani dove sei e non avvicinarti. Se hai qualcosa da dire, dilla.» Era ad almeno venti passi da me, e non aveva modo di nuocermi. Tuttavia, mentre parlavo, il panico mi stringeva il cuore come una mano d'acciaio. Ogni cosa in me gridava, corri, corri... torna sulla nave! Mi morsi la lingua, e rimasi fermo. «Noi vogliamo tu andare,» fece il gigante. «Non restare qui più!» Aveva una voce strana, tremula, come se nella sua bocca vibrassero piccole lamelle di stagno. Oppure, pensai, più semplicemente stava parlando attraverso quel suo ridicolo naso. «Non temere,» lo rassicurai. «Non abbiamo nessuna intenzione di rimanere qui.» La creatura parve allarmata, e il suo messaggio successivo lo confermò. «No, tu non capito. Dovete andare, ma non andare via!» «Che cosa vuoi dire con questo?» «Là c'è quello che vogliamo,» fece, indicando la riva opposta del lago. «Là starete bene, davvero. Là. Là vedremo bene la vostra bella casa che naviga.» Lo fissai. «Volete... guardarci?» «Che bello, che bello! Vuoi?» Accidenti, pensai. La ragazza aveva ragione. Queste miserabili creature hanno paura di tutto. Hanno paura che ce ne andiamo. Hanno paura che restiamo. Hanno paura di qualcosa, di qualsiasi cosa che potrebbe accadere
nel prossimo istante, procurando loro ancor più paura. Li ha chiamati bambini, e non aveva torto. Non avevo risposto alla domanda di quell'essere, ma dalle ondate di paura che stava indirizzando alla mia volta, compresi che si era già reso conto delle mie intenzioni. Osservai il mostro, che si stava dondolando da una zampa all'altra, e arrotolava il suo incredibile naso. Era una manovra disgustosa. Lo aveva ripiegato come un dito fra le zanne che si spingevano fuori dai lati delle mascelle, e ora se lo stava infilando in bocca. Che cosa posso dire a questa creatura? mi chiesi. Di certo abbiamo ben poco in comune. Non riuscivo a vedere su quale base avremmo potuto intavolare una conversazione ragionevole. Aguzzando gli occhi, vidi che portava qualcosa intorno al collo. Una specie di antico e ammaccatissimo gioiello, una collana d'argento con una piccola gemma rossa incastonata al centro. «Che cos'è che porti al collo?», gli chiesi. «Questo?», fece la creatura. «È il K'sei.» «Dove lo hai preso? È molto bello.» Vide che sorridevo, e quasi si mise a piangere. «È il K'sei. Tutti avere il K'sei!» «Ah, sì? Bene.» Questo chiudeva l'argomento. «Ha un nome, questo luogo? E il tuo popolo, come si chiama? Noi veniamo da molto lontano, e questa regione non ci è familiare.» «Noi essere Kenyarshii,» rispose la creatura. «Kenyarshii.» Avevano assunto il nome dell'intero continente, anche se dubito che lo sapessero. La mia domanda successiva confermò la mia opinione. Gli chiesi che cosa ci fosse al di là del loro territorio, e lui si limitò a fissarmi inebetito, come se la mia richiesta fosse priva di significato. Non c'era da meravigliarsi che fossero terrorizzati - e incuriositi - dagli stranieri. Non avevano mai visto altre razze se non la loro stessa! «Ora dobbiamo andarcene,» dissi. Il disco sanguigno del sole stava già occhieggiando sulla sponda del lago. «Abbiamo un lungo viaggio davanti a noi, e...» La tremenda ondata di paura quasi mi fece cadere in ginocchio. «Vuoi andare? No, non andare!» Le orecchie dell'essere si agitavano come chiome d'albero scosse dal vento, tutto il suo corpo immenso tremava. «Non poter andare. Restare. Restare!» Alzò la testa enorme, e cominciò a singhiozzare. I lamenti risuonarono
per tutto il lago e subito fecero loro eco quelli dei compagni. Fu allora che mi accorsi di loro: centinaia, tutti attorno alla riva, come una fitta foresta grigia. Si dondolavano a un ritmo che soltanto loro potevano udire, e barrivano lanciando verso il mondo i loro singhiozzi. Quell'enorme concentrato di terrore era quasi insostenibile. Corsi lungo le rocce, e prima ancora che i miei stivali toccassero il ponte, l'Ahzir era in movimento, con i remi che battevano ritmicamente l'acqua, in direzione del fiume. Chiaramente, quel giorno non c'erano dissensi d'opinione nell'equipaggio. Prima ancora che il verde tunnel della foresta si chiudesse sopra di noi, anche i marinai che non avevano un compito specifico corsero ad aiutare quanti azionavano i pali per l'avanzamento della nave lungo il corso del fiume. Presto ci furono più uomini che pali, e a qualcuno venne in mente di usare i remi al loro posto. Li tolsero dagli scalmi, e cominciarono ad affondarli nella melma del fiume. Un ruggito di Signar pose fine alla manovra, ma non prima che alcuni remi finissero spezzati in due, o perduti. Non me la sentii di condannare gli uomini. Un terrore sconosciuto e incommensurabile si addensava sulle loro teste come uno sciame d'api. Soltanto il Creatore avrebbe potuto farci andare via più in fretta da quel luogo. Per fortuna, pensai, eravamo quasi fuori. Ogni istante ci portava più lontano. Ancora un po', e la paura sarebbe scomparsa, abbandonata dietro di noi... All'improvviso, mi resi conto che non era affatto così. Anzi, mi accorsi che il terrore, anziché scomparire, diventava più forte che mai! Come poteva essere? I pensieri dei Kenyarshii si diffondevano forse per l'aria, allargandosi intorno come polvere nel vento? Sapevo che non era così, perché la notte scorsa, pur rimanendo immobili nel lago, vicino a loro, non eravamo stati disturbati in modo così intenso. «Lo sento anch'io,» mi disse Thareesh, che aveva indovinato i miei pensieri. Le sue parole crepitarono nelle mie orecchie come foglie secche schiacciate con le dita. «Il terrore è rimasto con noi,» aggiunse. Era perfettamente immobile, come succede talvolta ai Nicieani. Alla base della sua gola pulsava una piccola vena. «Qualcosa va male,» sibilò infine. «Molto male, Aldair!» Vicino a lui, un marinaio vikoniano si fermò e rimase immobile. Gli occhi neri come l'agata ruotavano verso il nulla. Nel suo petto, cominciò a
sorgere un sordo brontolio. All'improvviso, capii. Non si udiva più nulla. Intorno a noi non c'era neppure un suono. La giungla era piombata nel più assoluto silenzio. Tirai un respiro profondo, e lo trattenni. Accanto a me, Thareesh si mosse come un fulmine. Mi voltai, e vidi Rhalgorn immobile, il petto dritto, le labbra sollevate in un ghigno. Con una velocità eccessiva per il mio sguardo, afferrò una della lance poste lungo il ponte, e la scagliò verso la riva. Dalla giungla venne un alto grido di dolore. Il grido di battaglia di Rhalgorn lacerò l'aria. E poi il mondo esplose intorno a noi. Un colpo secco come un tuono, il crepitio del legno che si spacca, e un albero immenso rovinò nel fiume. Gli spruzzi d'acqua sommersero il ponte come pioggia, e la nostra prua colpì duro il tronco. Il contraccolpo ci fece cadere a terra, risucchiandoci l'aria dai polmoni. Altri alberi cominciarono a piegarsi. Udii il ruggito di Signar, ma le sue parole si perdevano tra i bramiti altissimi dei Kenyarshii. Dalla nave partì una salva di frecce e lance, ma poche arrivarono a bersaglio. I mostri si nascondevano dietro una fitta cortina verde. Qualcosa di enorme cominciò a piegarsi nella giungla. Guardai in alto, e vidi la chioma immensa di un albero altissimo curvarsi verso di noi in un arco lento e inesorabile, e infine precipitare sul ponte. Maledizione! pensai. Ci stiamo spaccando in due! I mostri avevano scelto con cura il luogo dell'agguato. In quel punto le rive si restringevano, e il nostro spazio di manovra era ridotto. Signar urlò un ordine. I Vikoniani della ciurma afferrarono le loro asce e cominciarono a menar colpi all'albero caduto sul ponte, cercando di liberarci. Gli arcieri, intanto, vigilavano su di loro, inviando sciami di frecce nella giungla. E allora, all'improvviso come era cominciato, tutto finì. Altre creature ci avrebbero intrappolati lì, uccidendoci ad uno ad uno. Ma non i Kenyarshii. I Kenyarshii non erano guerrieri: la paura, e non la sete di sangue, governava le loro vite. Non avevano cuore sufficiente per sostenere una battaglia, e quando le nostre frecce cominciarono a sibilare più fitte fra di loro, fuggirono lungo i loro verdi tunnel, fino a quando non riuscimmo più a sentire le loro grida. Quando, alla fine, fummo in vista del mare, Signar mi riferì che soltanto la fortuna ci aveva fatti rimanere tutti d'un pezzo.
«Lo scafo ha qualche tavola spezzata, ma per fortuna non andavamo troppo veloci quando abbiamo urtato il tronco, e posso riparare i danni mentre viaggiamo. Non avremo problemi, finché il tempo rimarrà sereno.» E alzò gli occhi al cielo, sperando che qualche dio del nord lo avesse udito. Il ponte era in rovina, ma anche questo poteva essere riparato. La fortuna principale era stata che i tronchi non avessero danneggiato né gli alberi della nave né i pennoni. Ripararli sarebbe stato un lavoro immenso, e inoltre in quella foresta difficilmente avremmo trovato il legno adatto. Fare un buon albero di nave è più difficile che rizzare un obelisco. Un uomo della ciurma aveva avuto una gamba spezzata. Un altro si era rotto la testa, ma se la sarebbe cavata. Su tutto il ponte c'era un intreccio inestricabile di rami e di foglie, e mentre uscivamo dalla foce del fiume per entrare in mare aperto, stavamo ancora lavorando per liberarci dei detriti. Fu nel corso di questa attività che Signar urlò il mio nome, facendomi cenno di guardare verso prua. Non disse nulla, ma ringhiò, e torse le labbra per il disgusto. Sotto un groviglio di foglie, liane e rami spezzati, era emerso il corpo di un Kenyarshii, steso sul ponte come un enorme sacco di immondizia, e la testa segnata da un bernoccolo grande quanto un melone. DODICI Gli avventurieri non hanno mai pace. Chi cerca l'acqua in un pozzo diverso dal suo - si dice fra gli Eubironi non deve lamentarsi se trova qualche sorsata amara. Non posso fare a meno di riconoscere la saggezza di queste parole. Usciti dal fiume, pensavamo che non avremmo mai più avuto a che fare con i Kenyarshii. Invece ci trovavamo con una di quelle immonde creature piazzata proprio al centro del nostro ponte. Avremmo dovuto essere contenti di riguadagnare il mare; e invece scrutavamo l'orizzonte in ansia, sapendo che i nostri amici Rhemiani non ci avevano certo dimenticati. «Potremmo avvistare le loro vele in qualsiasi momento,» disse Signar con voce tetra. «E non mi sorprenderei affatto. I Rhemiani sono per molti versi creature ignoranti, ma non del tutto prive di cervello. Ormai sono certi che non ci troviamo a sud, e che ci stiamo dirigendo di nuovo verso gli Stretti. Ci seguiranno fino alla morte, Aldair! Quello che ha detto il nicieano è vero. Ormai, il mare è loro.»
Guardai al di sopra della sua spalla, cercando risposte in una cresta di spuma. Per un momento, sognai di essere lontano dai vascelli rhemiani... che Signar aveva torto, e il mare era libero da nemici. «Che cosa vorresti che facessi?», gli chiesi. «La nostra via è chiara. Dobbiamo superare gli Stretti e dirigerci verso oriente!» «Aldair...» Thareesh strinse le sue magre dita attorno al mio braccio e mi portò al suo fianco. Estratta la spada, tracciò con essa delle linee sulle tavole di un boccaporto, poi mi fissò. «Abbiamo combattuto l'uno al fianco dell'altro nel deserto. Fra di noi c'è molto sangue sparso reciprocamente, e sono pronto ad ammettere che sei un arciere bravo quasi quanto me.» Un lieve sorriso torse i lembi del taglio che, per lui, faceva l'ufficio della bocca. «Conosco bene l'importanza di questa missione. Ma, come Signar, davanti a noi non vedo altro che rovina, se continueremo sulla stessa rotta.» «Se?» Mi ritrassi da lui di scatto. «Non ci possono essere dei se in questa faccenda, amico mio.» «Un momento. Lasciami finire di spiegarmi. Ecco...» Fece un gesto verso le linee che aveva tracciato. «Questo è il Mar Meridionale, questa è Niciea e questa, a forma di stivale, è Rhemia. Qui cominciano i territori di Kenyarsha. Da una parte ci sono gli Stretti. Dall'altra, forse...» E mandò la punta della spada in semicerchio, attorno alla costa orientale del Mar Meridionale. Lo fissai negli occhi. «Navigare intorno a Kenyarsha, Thareesh?» dissi. «Ma non ci sono mappe, non ci sono informazioni. Non sappiamo neppure quanto è grande. Potremmo metterci settimane, mesi. Magari, potremmo non arrivare neppure in oriente!» «D'altra parte, Kenyarsha potrebbe essere più piccola di quanto pensiamo,» brontolò Signar in tono di speranza. «O potrebbe essere più grande!», lo interruppi irritato. «No, non possiamo fidarci di un'idea del genere. Se stessimo facendo una crociera di piacere, si potrebbe correre il rischio. Ma ci sono troppe cose in gioco...» «Saggia decisione, davvero,» fece secco il Vikoniano. «Scambiamo dei mari ignoti e un incerto destino per la morte sicura.» «Non puoi esserne certo!» Mi guardarono, e non dissero nulla. Erano compagni coraggiosi e fedeli. Ma in quel momento, non potevo fissarli negli occhi, e non mi importava. Ma fu un attimo. Di certo, mi dissi, quando una persona si rivolge con ira ai propri amici, deve fermarsi a considerare se stesso, e riflettere bene.
«Dovete capire che io... io non posso mettere da parte questa missione. I miei sentimenti danno forse alle mie parole un tono che io stesso non desidero. Ed anche i miei modi...» Signar tirò su col naso. «All'inferno i modi, Aldair. Quello che conta è il buon senso, e nient'altro. Forse abbiamo torto noi, in questa faccenda. Ma puoi avere torto anche tu. Il guaio è che, qualsiasi decisione prendiamo, dovrà essere per forza quella giusta, o peggio per tutti.» «Signar, Thareesh... Aspettate un po'. C'è una cosa che dobbiamo sapere, prima di decidere. E non c'è momento migliore di questa per saperla.» Mi aprì la porta della cabina con il consueto disprezzo. Era l'unica arma che possedesse contro di noi, e la usava senza risparmio. «Mia signora,» dissi, «arriverò subito al punto, visto che so che non sei interessata alle conversazioni. Devo sapere chi sei. Ora. Senza divagazioni o menzogne. Non ho tempo di giocare, né voglia di pregarti.» Gettò indietro la testa e rise. «Che succede, eretico? Cominci a preoccuparti della giustizia rhemiana, vero? E hai ragione, perché fra poco non mancherai di assaggiarla!» Era una delle cose più graziose che avessi mai visto, ma anche la femmina più irritante della terra. Perché mai attribuiamo tanto valore a esseri creati apposta per farci diventare tutti imbecilli? Per la verità, suppongo che ci tocchi esattamente ciò che ci meritiamo. Abbiamo posto le donne così in basso, che esse non possono non tentare di tutto per trascinarci giù con loro. E il bello è che il più delle volte siamo felicissimi di fare il viaggio. «L'ho capito dalla prima volta che ti ho vista,» dissi. «Sei il tipo che non sente ragioni.» «Da te non sentirò né ragioni né nulla!» «Bene, come vuoi.» Mi voltai, aprii la porta della cabina e mostrai Rhalgorn fermo davanti alla soglia. Lo Stygiano si produsse nel più orrido dei suoi sogghigni, mostrando tutti i denti e leccandosi le labbra. La donna impallidì visibilmente. «Non... non vorrai farlo entrare...» «Lo ammetto, è una cosa terribile da fare a un amico. Ma è una colpa che dovrò sopportare. Col tempo, spero che mi perdonerà. E ora,» dissi, muovendomi verso la porta, «e ora è tempo che vi lasci soli. Quando vor-
rai rispondere alla mia domanda, basterà che mi chiami.» Le risposte vennero giù come grandine. Non una: infinite. Parlava così rapidamente, e di tante cose, che ricordo a mala pena la metà di tutto ciò che disse. Fermo sul ponte, respiravo a pieni polmoni l'aria salmastra, solo e in disparte. Come direbbe Rhalgorn, non è decoroso per un comandante farsi vedere dalla ciurma mentre sta male. «Posso fare qualcosa per te, Aldair?», fece Signar, avvicinandosi. «Non credo,» gli dissi. «Sarai contento di sapere che avevi pienamente ragione riguardo ai Rhemiani. Sicuramente ci daranno la caccia fino ai confini della terra. Sarà meglio che dirigi verso sud, e cominci a pregare che ci sia modo di navigare attorno a Kenyarsha. Sembra che io abbia rapito Corysia, nipote dell'Imperatore Titus Augustus. Ma perché, Signar, ho un così colossale talento nel provocare disastri?» TREDICI I Kenyarshii non sono soltanto le più grandi creature del mondo. Sono anche le più puzzolenti. È difficile puzzare più di un branco di Vikoniani riuniti in una taverna affollata, dopo mesi di mare. O di un guerriero Stygiano, nel pieno della battaglia. Ma queste sono offese all'olfatto di diversa natura, e col tempo si arriva a tollerarle. Il tanfo del Kenyarshii è di tipo diverso. Nasce dalla paura, e non esiste veleno più potente per la degenerazione del corpo. La paura di un topo non provoca disagi particolari. Ma quando si ha a che fare con una creatura grande come una montagna, il problema si fa grave, persino sul ponte spazzato dal vento di una nave in mare aperto. Non è facile parlare con quegli esseri: la loro mente sembra lavorare con procedure diverse da quelle delle altre creature ragionanti. Questo fatto, aggiunto all'odore soverchiante, e alle continue emanazioni di paura, rende la conversazione quasi impossibile. «Devi smetterla di battere i piedi,» dissi alla cosa, standone lontano il più possibile e sgolandomi per farmi udire. «Stai dissestando la nave, e non posso certo consentirtelo!» «Non piace qui,» gemette la creatura. «Io non vuole restare!» «Devi aver pazienza. Se non avessimo un grave problema di tempo, a-
vremmo sistemato questa faccenda in un minuto.» «No, io vuole andare subito!» Ricominciò ad emettere quello strano suono dal naso; quel rumore di tromba che irritava i nervi come una grattugia. Un flusso di paura mi sommerse, sulla cresta di un'ondata d'odore nauseante. Stringendomi la testa fra le mani, barcollai e arretrai di un passo. «Smettila! Maledizione a te, non hai motivo di avere paura. Ma non capisci proprio nulla?» Qualcosa evidentemente capiva, perché le pulsazioni dolorose nel mio cranio diminuirono un poco. «Juumb'ar può tornare a casa?», chiese in tono di speranza. «È così che ti chiami! Juumb'ar?» «Se ti piace. Se no, va bene un altro nome.» «Se mi piace? Perché mai dovrebbe importarmene un fico secco di come ti chiami?» Il Kenyarshii raddrizzò le spalle, mi studiò con i piccoli occhi neri, e si ficcò il naso in un angolo della bocca. «Ti piaccio un poco di più, ora, vero?», chiese alla fine. «Di più? Perché di più?» «Più di prima. Quando parlavamo.» «Che vuoi dire?», chiesi. Poi mi resi conto. «Ah, ho capito. Eri tu quello sulla roccia, nel lago? Se è così, allora mi piaci di meno. È stato uno sporco trucco, il vostro, Juumb'ar. Noi non avevamo intenzione di farvi alcun male, e voi ci avete attaccato senza che vi avessimo provocati.» «Kenyarshii non attaccato,» gemette la creatura. «Soltanto aiutato a non andare. Voi dovevate restare. Non andare!» Dopo di che, cominciò ad agitare gambe e braccia in una specie di danza selvaggia, emettendo dal naso barriti sempre più forti. «Maledizione,» urlai, «smettila subito!» Per tutta risposta, quell'immensa montagna di carne cominciò a tremare in modo incontrollabile, rotolandosi sul ponte. Poi si fermò, e un getto di liquido caldo mi colse in pieno petto, facendomi quasi cadere a terra. Rimasi immobile, intontito, mentre un odore orrendo si faceva lentamente strada fino alle mie narici. Ci volle qualche istante prima che comprendessi l'inqualificabile oltraggio del quale quell'immenso idiota mi aveva fatto oggetto. Mai, in tutta la mia vita, avevo pensato che una cosa del genere potesse accadermi.
Era vitale percorrere quanta più strada possibile nel minor tempo, ora che avevamo deciso la rotta da prendere. Né Signar né io pensavamo che i Rhemiani ci avrebbero inseguiti anche tanto a sud, per acque sconosciute. Tuttavia non potevamo esserne sicuri, specialmente ora che avevamo appreso il rango della nostra ospite. I Rhemiani sono un popolo cocciuto. In ogni caso, avevamo il mare aperto davanti a noi, ed alle spalle un vento robusto. Per la prima volta, pensai che la nostra missione aveva preso seriamente l'avvio. Non avremmo tollerato altri ostacoli. Se c'era un modo per navigare attorno a Kenyarsha, l'avremmo trovato. C'era ancora un bastone, però, fra le nostre ruote. Quello che avevo detto a Juumb'ar era vero: se ne avessimo avuto il tempo, e non ci fossero stati rischi, l'avremmo sbarcato volentieri al sicuro sulla costa della sua terra. Purtroppo, la costa era scoscesa e irta di scogli, e ci mancava il tempo per trovare una rotta sicura, né potevamo mettere in pericolo il nostro scafo ancora indebolito. Dopo il terzo giorno di navigazione, tuttavia, Signar sarebbe stato disposto anche a scalare le montagne con l'Ahzir, se necessario. «Liberiamoci di quella creatura, Aldair. In un modo o nell'altro. Abbiamo una ciurma piena di coraggio, a bordo: ma non si può chiedere a delle persone decenti di combattere il mare e quella cosa, insieme. Hanno i nervi a fior di pelle, devo sedare due o tre risse ogni giorno. E andrebbe ancor peggio se metà della gente non fosse a terra per via delle febbri o di qualche altro miasma.» «I litigi non possono essere attribuiti a colpa del nostro amico sovradimensionato,» feci. «E quanto alle febbri, sono dovute all'aria malsana che abbiamo respirato lungo il fiume. Le abbiamo avute tutti.» Signar ringhiò e scrollò le spalle. «Non è solo questione di litigi e di febbri,» fece. «C'è tutto il resto...» «Il resto? Quale resto?» «Beh, gli incubi e le altre cose..,» «Degli incubi so qualcosa anch'io. Effettivamente, sono colpa del Kenyarshii. Ma quali sono le altre cose?» Il Vikoniano aggrottò la fronte e cominciò a grattarsi il petto. «Qualcuno della ciurma sta cominciando ad avere... avere visioni.» «Visioni? Che visioni?» Signar esitò. «Strane cose. Creature orrende che di notte passeggiano sul ponte. Cose piene di occhi e di... braccia, che vengono dal mare.» Lo fissai esterrefatto, senza dire nulla.
«Aldair,» mi fece, dopo un lungo silenzio, «Le ho viste anch'io.» La sua voce era cupa. «Non lo ammetterei di fronte a nessun'altra persona al mondo, ma a te devo dire la verità. Ho visto una cosa come quelle, subito prima dell'alba. Era seduta sulla prora e mi scherniva, chiamandomi in qualche lingua sconosciuta.» Si passò una mano sugli occhi. «Non pretendo che tu mi capisca. Ti racconto solo ciò che ho visto con le mie stesse pupille. Quel mostro deve avere attirato su di noi la maledizione di qualche dio terribile, e contro una cosa simile siamo del tutto impotenti.» Scossi la testa. «Quello che hai visto non era reale, Signar. Juumb'ar proietta su di noi le sue paure, come sappiamo bene. Evidentemente, è in grado di proiettare anche false immagini provocate da queste paure. Non sono cose che vengono dagli dèi, ma solo dalla sua povera mente terrorizzata.» «E allora?» ribatté il Vikoniano con la fronte corrucciata. «Che differenza fa, da dove vengano quelle visioni? Un altro paio di notti con mostri a spasso per il ponte, e avremo a che fare con una ciurma impazzita... e un capitano degno di lei, a mio modesto parere!» «La costa è ancora troppo scoscesa?» «Sempre di più.» La decisione era dura, ma inevitabile. «Falla tenere d'occhio continuamente. Se prima di domattina non avremo trovato un punto adatto per sbarcare, butteremo in acqua il Kenyarshii.» «Non c'è altro da fare, Aldair.» «Lo so anch'io. E se si deve fare, lo farò.» Anche i miei sonni erano stati agitati e turbati da incubi, ma non avevo avuto alcuna visione spettrale. Se Rhalgorn aveva visto fantasmi saltellare all'intorno, il suo orgoglio stygiano non glielo avrebbe mai fatto ammettere. Thareesh ammise che forse aveva visto qualcosa, ma non volle dire di più. Quanto a Corysia, naturalmente non aveva nulla da dirmi, né su questo argomento né su alcun altro. Quella notte bevemmo birra e cenammo con patate e zuppa di pane e lenticchie. Thareesh aveva stoccato con cura le nostre provviste alimentari, e avevamo ancora a bordo un po' di carne fresca, quella di certi animali simili a stambecchi che vivono sulle coste rocciose del Mar Meridionale. Il Nicieano ne fece arrostire un po'. Io non sono un grande mangiatore di carne, ma Signar e Rhalgorn fecero salti dalla gioia.
La pancia piena mise di buon umore lo Stygiano. Raccontò bugie grosse come montagne, e fece un'imitazione di un nicieano che dà la caccia agli scarafaggi con la lingua, così esilarante da divertire persino Thareesh. Le nostre risate, però, non erano dovute forse alla sola birra e ai piacevoli conversari. Erano una forma di reazione contro ciò che ci stava intorno. C'era un'atmosfera strana, quella notte: come la quiete che trasforma il mare in una lastra di vetro prima dello scatenarsi di una tempesta. Quando sentimmo il Kenyarshii che si agitava e lamentava sul ponte, ci alzammo tutti di scatto, senza parlare, come consapevoli che qualcosa doveva succedere: la prima scintilla di luce del lampo che avrebbe spezzato l'incantesimo. La creatura tremava e si torceva sulle tavole del ponte. Dalla bocca e dal naso colava un liquido nero. Nell'aria si spandeva un fetore orrendo, e vibrava qualcosa di più delle normali pulsazioni di paura. Il Kenyarshii si era liberato il ventre, e si rotolava nei propri escrementi. Rhalgorn disse qualcosa fra i denti. Signar si preparava a rispondere, ma nessun suono uscì dalla sua bocca. Un marinaio gridò, puntando un dito tremante oltre il parapetto. E la vedemmo tutti, senza possibilità di errore. Una nave tenebrosa, spettrale, che scivolava silenziosa sulla nostra scia, a non più di una lunghezza di distanza. Era snella e sottile, con la prua foggiata a forma di delfino, e le vele tese. Sul ponte si scorgevano creature: cose cupe e terribili che sembravano non avere ossa. Erano rivestite di armature bianche e gelide; armi d'argento vivo scintillavano ai loro fianchi. Occhiaie vuote scrutavano da elmi immobili, rilucendo dei raggi pallidi e mortali che avvolgevano la stessa nave, e ne accendevano le vele cineree. Non avevamo bisogno di leggere il nome scritto sulla prua per riconoscere il vascello, perché si trattava chiaramente dell'Ahzir al'Rhaz. E se quella nave era lo spettro della nostra, il suo equipaggio era formato dai nostri fantasmi. Accanto a me, un vecchio marinaio rhemiano divenne bianco come neve. Ira e terrore gli torcevano la bocca, e nella sua mano scintillò una spada. «Uccidiamolo,» gridò. «Uccidiamo quel mostro maledetto!» Altri raccolsero l'appello, e alzarono le spade contro il Kenyarshii. Cercai di urlare un comando, ma non riuscii a emettere alcun suono. Vedevo gli eventi accadermi intorno, e non potevo far nulla per intervenire. Mi sentivo come se vivessi di un attimo o due in anticipo sul mondo; come
se le cose che vedevo fossero già accadute un istante prima. Così, vidi la ciurma avanzare, le armi in pugno, e vidi una cosa sorgere dal nulla nel mezzo dei marinai. La vidi torcersi come il fumo di un falò d'autunno: e dove sfiorava un uomo, il suo cuore si gelava. Attraverso la sua forma lattiginosa, udii il grido di battaglia di un grande vikoniano; vidi un marinaio balzare avanti, scavalcare il parapetto e precipitarsi fra le onde. Vidi gli amici scagliarsi contro gli amici, e fare scempio delle carni nude. Il terrore era padrone del ponte, e non potevamo far nulla per contrastarlo. La cosa orrenda scivolava fra noi come un serpente, e guardandola, ciascuno vedeva sorgere dal nulla le sue paure più riposte. Torri spaventose, con le finestre cieche e vuote... animali mai visti prima... creature disgustose che strisciavano sul ponte cercando di spingerci in mare. Signar alzò la sua grande scure da battaglia contro il Kenyarshii... poi qualcosa che soltanto lui poteva vedere gli trasse un ruggito dalle labbra, e lo portò a dibattersi sul ponte come un bambino. Juumb'ar gemeva dal dolore e si lamentava, agitandosi all'intorno. Guardandolo, vidi il gioiello che portava al collo illuminato da una luce spettrale. La gemma rosso-sangue sembrava pulsare come un piccolo occhio malvagio. La fissai per la frazione di un attimo, e vidi una cosa che non avrei mai voluto vedere. Mi mossi senza pensare, tenendo chiusa la mia mente a tutto ciò che accadeva all'intorno. Tentavo di concentrarmi sui ricordi di giovinezza, sui pigri pomeriggi in riva al fiume Bundus, quando pesci grandi e grossi saltellavano presso la riva, in attesa solo di qualcuno che li prendesse... pensavo alle gelide mattine d'inverno, coronate di neve. E quando fui vicino al Kenyarshii, allungai una mano senza guardare, e gli strappai dal collo la cosa maledetta. Bruciava, come una gelida fiamma. Cercai di scagliarla lontano da me, ma non ci riuscii. C'erano cose tremende da vedere nel gioiello... cose stupende e terribili, sogni che nessuna creatura aveva mai sognato prima. Mille vite più tardi, Rhalgorn me la strappò dal pugno e la scagliò in mare. Il suo grido di battaglia la seguì nelle onde, mentre precipitava negli abissi. E poi... nulla. Persino l'ombra della paura era scomparsa. A bordo non c'erano più mostri, e nella nostra scia non si vedeva alcun vascello fantasma. Nel buio della notte c'erano soltanto le stelle.
QUATTORDICI L'alba sorse luminosa, ma ci volle del tempo prima che la luce del Sole scacciasse tutte le ombre dai nostri cuori. La notte ci aveva lasciato più poveri. Un marinaio aveva cercato rifugio dagli spettri fra le onde, e vi aveva trovato la morte. Altri due erano gravemente feriti, e la loro fine era certa. Un altro era ancora in preda al terrore folle, e disperavamo che potesse recuperare il senno. Juumb'ar era disteso sul ponte, immobile come un cadavere; rimase così per due interi giorni. Avevamo capito, ormai, che non era sua la responsabilità delle nostre paure e delle disgrazie che ne erano seguite. Ma quando si vedono morire dei buoni compagni, è facile attribuire colpe anche a chi non c'entra. Va a merito della ciurma - e della presenza di Signar - il fatto che nessuno aggiunse a quella strana creatura una nuova bocca, con un taglio di spada, sotto quella che la natura già le aveva assegnato. Ci maledicemmo a lungo per non aver compreso in tempo l'origine dei nostri guai. Ma come avremmo potuto pensare che la colpa di tutto stava nell'amuleto di Juumb'ar? Quando il rompicapo è composto, sembra facile capire dove vanno situati tutti i pezzi. Ora, potevamo immaginare ciò che era probabilmente successo: il terrore della creatura nel trovarsi strappato alla sua gente, solo fra estranei in mezzo al mare, aveva intensificato in modo tale la sua angoscia da sommergerci tutti. Juumb'ar non poté confermare questi ragionamenti perché, quando riprese i sensi, aveva dimenticato tutto. Passò una settimana prima che si azzardasse a parlare con qualcuno, e l'unico che riusciva a estrargli qualche parola era Thareesh. La calma e i modi misurati del Nicieano compensavano, agli occhi del Kenyarshii, il suo aspetto bizzarro. «Tutto ciò che sa è che la sua gente ha sempre portato quelle cose. Alla nascita, a ciascuno viene messo al collo un amuleto, e lo porta per tutta la vita. Come potete immaginare, pensano che si tratti di un dono degli dèi.» «In questo caso, mi sembra che sarebbe meglio non avere dèi,» commentò cupo Rhalgorn. «Sono d'accordo,» fece Thareesh, «ma soltanto i più saggi o i più sciocchi si scelgono dèi a loro misura. Quelle povere creature non soltanto hanno affidato la loro vita a quelle cose, ma fanno anche in modo che nessuno di loro ne resti privo.» E procedette a spiegarci, con nostro orrore, che la
popolazione totale dei Kenyarshii è sempre mantenuta uguale al numero degli amuleti disponibili. «Se un amuleto smette di funzionare - cosa che è già accaduta numerose volte - un membro della tribù viene eliminato. I simili di Juumb'ar sono ormai ridotti a poco più di un centinaio, anche se sospetto che per questo ci sia un'altra ragione, oltre alla scarsità di amuleti. Con gli anni, si sono accoppiati sempre di meno, e soltanto poche femmine ormai partoriscono.» Ci fissò per un istante, facendo guizzare la lingua, come fanno spesso i Nicieani. «Non potranno più esistere come popolo, se al più presto non metteranno fine alla loro schiavitù. Ma non sembra un evento probabile. Quel povero essere abbandonato sul nostro ponte sta cercando una sola cosa: la possibilità di riavere intorno al collo quella dannata cosa. Ci credereste? Ha vissuto talmente a lungo in preda alle sue allucinazioni che non può più fronteggiare il mondo senza il conforto della paura!» Signar scosse la testa imponente. «Per la mia vita,» disse, «non riesco a capire come un intero popolo si sia cacciato da solo in un pasticcio del genere. A meno che qualcuno non li abbia costretti.» «Un po' come imporre il collare di ferro della schiavitù,» fece Thareesh. «Sì. Solo che questo è peggiore.» «Penso che Signar abbia intuito la verità,» dissi io. «Io sono convinto che i Kenyarshii abbiano ricevuto l'amuleto da qualcun altro. Qualcuno che noi conosciamo bene.» Per un momento, mi rivolsero sguardi interrogativi. Poi capirono di chi stessi parlando. «Ne avrei discusso prima, ma volevo udire le parole di quella creatura. Come vi ho detto, quando fissai quel piccolo occhio rosso, il mio sguardo fu catturato, e non riuscivo a staccarlo. Nell'amuleto c'era la promessa di terrori grandi e atroci; eppure, non riuscivo a liberarmene. Volevo quelle cose. Volevo essere spaventato! Sono più che sicuro di queste sensazioni. E da chi mai può esser nato un tale orrore? Chi se non l'Uomo può averlo pensato e realizzato?» Thareesh scosse la testa. «Bisognerebbe risalire a un passato troppo lontano, Aldair. Non può essere. Nulla...» «Nulla?» lo interruppi, spingendo indietro la sedia e andando verso un oblò per respirare a pieni polmoni l'aria marina. «Nulla davvero, nel mondo che conosciamo, potrebbe rifulgere come un occhio rosso e liberare un
oceano di paura in chi lo fissa. Nulla... a meno che non venga dall'Uomo. Albion è antica centinaia di secoli, se non di più: ed è piena di meraviglie come quella, tutte perfettamente funzionanti. E poi, non dimentichiamoci che l'Uomo ha lasciato un'altra cosa dietro di sé, che rimane ancora: voi, me e tutte le altre creature della terra, condannate a vivere una vita subalterna, che imita quella del loro originatore. Siamo noi la prova necessaria. Comunque, non credo che i Kenyarshii abbiano indossato l'amuleto sin dal momento in cui vennero trasformati da bestie in creature senzienti, e posti nel loro territorio. Thareesh ci ha spiegato che l'esistenza degli amuleti prescinde da quella dei Kenyarshii. Come li abbiano trovati, e dove, probabilmente non lo sapremo mai. È un mistero sepolto nel passato.» Il pugno possente di Signar fece vibrare la tavola. «Chiunque li abbia indossati prima, i Kenyarshii o qualcun altro, si capisce bene la ragione per la quale sono stati fatti. Sono decisamente lo strumento più adatto per tenere in riga qualche povera bestia, quando non vuoi che si agiti troppo o si allontani da un certo posto. Molto meglio di gabbie, recinti e steccati!» Era un concetto interessarne. Sono sicuro che i miei compagni ebbero, come me, vivide immaginazioni di se stessi prigionieri in un simile campo di concentramento senza sbarre. Erano passate ormai due settimane dalla nostra sfortunata spedizione lungo il fiume. Ogni giorno ci aspettavamo di vedere curvarsi la costa di enyarsha, per risalire verso nord. Ma l'attesa si faceva lunga: era chiaro che il continente era più grande di quanto sospettassimo. La linea verdeggiante della terra sembrava procedere all'infinito. «Spero che questo viaggio non ci porterà fino ai limiti del nulla,» disse cupo Signar. «Se i miei calcoli sono esatti, abbiamo già percorso più leghe di quante ve ne sono tra Vikonea e gli Stretti.» «Il che significa che la nostra destinazione si allontanerà ancora, prima di riavvicinarsi,» gli feci. Non so se l'osservazione sia stata per lui di qualche conforto. Per me, no di sicuro. I nostri rifornimenti erano ancora abbondanti, ma non avevamo più nulla di fresco. Questo è uri aspetto della vita di mare che per me non è stato mai gradevole. Si mangiano subito e per prime le cose che più mi piacciono, come le verdure crude, e poi rimane soltanto quello che mi piace di meno, come la carne affumicata e salata. Un mattino, scorgemmo una piccola baia azzurra, attorno alle cui rive si
scorgevano benissimo alberi carichi di frutti maturi. Sfortunatamente, qualche altra creatura molto grande e irrequieta aveva trovato rifugio nello stesso posto, e non gradiva la nostra intrusione. Non riuscimmo a vederla chiaramente ma, mentre ci avvicinavamo, potemmo scorgerla mentre si agitava tra gli alberi, a guardia del suo paradiso. Decidemmo di non correre rischi, e non sbarcammo. Il giorno dopo trovammo un'altra baia simile, le cui coste dal mare sembravano prive di inquilini ingombranti. La frutta non era altrettanto abbondante, ma raccogliemmo tutta quella che potemmo trovare, e riempimmo le cisterne di acqua fresca. Mentre eravamo ancorati, accadde una cosa strana. La riferisco così come avvenne, pur senza capirla. La notte era fresca e piena di stelle, e mi trovavo sul ponte, vicino al parapetto intento a respirare l'aria dolce, priva dell'arsore del sale, che veniva dalla terra. Avevo passato diverse, ore chiuso nella mia cabina, intento ad aggiornarne la cronaca delle nostre vicende, compito nella cui esecuzione sono molto scrupoloso. Era molto tardi, e sul ponte non c'era alcuno, tranne le sentinelle. Rimasi sorpreso, perciò, quando avvertii una presenza alle mie spalle, e mi voltai per trovarmi di fronte a... me stesso. Dire che rimasi stupefatto, è dir poco. Ma stranamente, a parte il primo momento, non ebbi paura. Era un'apparizione scura, nebulosa, circondata da un alone azzurro. L'altro Aldair stava ritto davanti a me, quindi poggiò le mani sul parapetto e guardò la costa. Indossava abiti strani; certamente diversi da qualsiasi cosa io abbia mai posseduto. Non parlò né emise alcun suono, ma rimase con gli occhi fissi sulla costa, come se stesse cercando qualcosa. Infine, si voltò a guardarmi, e per un istante mi parve che mi volesse parlare. Invece, svanì nel nulla, come se non fosse mai apparso. Era già l'alba quando mi addormentai, e feci sogni molto dettagliati. Quando mi destai, feci in modo che la ciurma realizzasse il sogno, così come l'avevo visto. Presi il gioiello con l'immagine della bestia, che avevo trovato in Albion, lo disegnai nel modo più realistico possibile, e mostrai il disegno ai marinai, comandando di dipingere l'immagine sulla vela maestra, e sui loro scudi. Non so perché lo feci, ma quando vidi il lavoro terminato me ne sentii molto compiaciuto. L'equipaggio reagì con orgoglio di fronte a quell'emblema, e lo accettò immediatamente come insegna dell'Ahzir. Non so spiegare questi eventi. Non so perché e come sia venuto a me
l'altro Aldair, e che cosa mi abbia spinto ad alzare quell'immagine al cospetto del mondo. Forse, il primo evento in realtà non era mai accaduto. O forse l'apparizione si era manifestata proprio per spingermi ad alzare quell'insegna, come feci. Quale sia la verità, non posso saperlo. In quel periodo, parlai una sola volta con Juumb'ar, e per necessità. La creatura era forse un po' più piacevole di quanto non fosse prima: ma il progresso era minimo. Forse, col tempo, dopo aver dimenticato tutte le sue paure e aver visto il mondo com'è, sarebbe cambiato. C'era solo da attendere e vedere. Secondo Rhalgorn, tuttavia, l'attesa era inutile: il Kenyarshii era intrinsecamente repellente, e sarebbe sempre rimasto tale. E questo sottolineava - era il parere di un esperto. Tanto Signar che lo Stygiano insistevano perché lo abbandonassi sulla spiaggia, ma io non volevo farlo contro la sua volontà. Era innocuo, ormai, ed era una creatura del tutto disarmata. Tempo prima, ero stato pronto a farlo precipitare fuori dal bordo se la sua presenza si fosse rivelata un rischio per tutti noi. Ma ora non avevo il coraggio di mandarlo verso la morte certa abbandonandolo fra i pericoli di Kenyarsha. «Volere tornare a casa, Aldair,» mi disse un giorno. «Cosa migliore è girare la casa galleggiante e tornare indietro.» «Juumb'ar, vogliamo tutti tornare a casa. Un giorno o l'altro lo faremo.» «Ma non ora?» «No, non ora.» «Dove andare noi, Aldair?» «Da quella parte.» «Juumb'ar non volere andare da quella parte. Voler tornare a casa!» «Thareesh te ne ha già parlato, non ti ricordi? Ti ha detto che, se vuoi, puoi andare a riva e tornare a casa per conto tuo. Non sei obbligato a restare con noi.» Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Cattivo e crudele Thareesh per dire questo. Juumb'ar non potere camminare fino a casa solo in posti spaventosi. A Juumb'ar non piacere questo!» «E allora dovrai rassegnarti ad un po' di navigazione in nostra compagnia.» «Navigare mi fa star male, Aldair. Questa è cattiva casa galleggiante!» «Cattiva o no, è la nostra casa galleggiante, e tutti quanti dobbiamo viverci su. E questo mi porta all'argomento del quale volevo parlarti. Thare-
esh ti ha già accennato alla cosa, ma tu evidentemente non vuoi ascoltare. Dato che siamo in tanti e lo spazio è poco, devi smetterla di defecare sul ponte. Non è costume praticato sulle navi a vela, e il motivo mi sembra ovvio. Tanto più che tu sei una creatura dalla mole alquanto fuori misura. Se proprio tu non segui questa regola fondamentale, il problema relativo si moltiplica per quattro, se non di più.» «Non piace andare vicino a parapetto, Aldair. Posto brutto, pericoloso!» «Stai attento, Juumb'ar: se avvicinarti al parapetto ti piace poco, scavalcarlo ti piacerà ancora meno. Decidi tu.» Lo lasciai che esprimeva la sua angoscia con singhiozzanti colpi di tromba. Questo breve esempio valga a dimostrare il perché non incoraggiavo la conversazione fra noi due. QUINDICI Un giorno prima che si compisse la terza settimana di navigazione sotto costa, la vedetta ci fece salire tutti di corsa in coperta, annunciando a gran voce che eravamo in vista del mare aperto. Lo spettacolo era tremendo. Il capo con il quale terminava la punta del continente era squassato da venti paurosi, che spingevano a riva frangenti colossali. Intorno a noi il mare ribolliva come l'acqua di una caldaia, e tutti pensammo di essere davvero giunti fino al limite del mondo. Che cosa avremmo trovato, spingendoci più a sud? pensai. Il confine della Terra, là dove il mare si precipita nel nulla? Oppure il mondo continua all'infinito, e nuove terre emerse si susseguono le une alle altre? Da tempo avevamo lasciato alle nostre spalle le stelle che ci erano familiari. Tanto la Scure che lo Schiavo Impiccato, che brillano nei freddi cieli del Nord, erano scomparsi dalle nostre notti. Soltanto la testa dello Schiavo faceva capolino sull'orlo dell'orizzonte. Nei cieli si mostravano nuovi misteri, grappoli brillanti di ghiaccio e di fuoco che per noi non avevano nome. Se non avessimo posseduto l'ago magico, conosciuto soltanto dai Nicieani, in quelle acque ci saremmo persi. Ma era un conforto vederlo puntare sempre e senza esitazioni verso il Nord, anche in quei luoghi prossimi alla fine del mondo. Al largo della nave incrociavano delfini e grandi balene. Le loro evoluzioni erano uno dei pochi diversivi in grado di portare un sorriso sulle labbra di Corysia. La nostra prigioniera si era fatta vedere di più negli ultimi tempi: un
lungo viaggio per mare rende insopportabile la noia, se si passa il tempo da soli. Così, talvolta venne persino a impreziosire la nostra tavola, anche se il suo principale contributo si limitava in genere a un robusto appetito. «Come sono belli i delfini,» mi disse un giorno. «Sono così vivi, e liberi!» La brezza marina le modellava l'abito al corpo e premeva le morbide orecchie ai lati della testa. Era bellissima. Quando rideva, riusciva a increspare la pelle del muso in un modo così grazioso che, ogni volta che questo succedeva, sentivo qualcosa in me che si rimescolava. Noi siamo quelli che siamo - riflettevo - e non c'è nulla da fare. Io non potevo fare a meno di desiderarla, e lei non poteva non odiare lo stesso terreno che io calpestavo. «La libertà è qualcosa che tutte le creature agognano,» dissi avvicinandomi a lei. «È un dono più prezioso della vita stessa.» Si voltò, alzando un sopracciglio per simulare la sorpresa di vedermi. «Suppongo che questa osservazione debba essere intesa come un insulto rivolto a me e alla mia gente, maestro Aldair?» «No di certo, mia signora. Non devi essere troppo suscettibile circa la tua cittadinanza rhemiana. Sei nata così, e non puoi farci nulla. Come io non posso farci nulla per essere un sequestratore di fanciulle, un traditore, un eretico, un pirata, un barbaro... ho dimenticato qualcosa?» Corysia arrossì, poi sospirò in tono di rassegnazione e tornò a guardare i delfini. «Mi dispiace, mia signora,» le feci. «Siamo sempre l'uno contro l'altra, come due bambini.» Mi guardò con un sorriso esitante, quasi malinconico. «Come potrebbe essere altrimenti?» rispose. «I nostri mondi sono enormemente lontani. Comunque, se può confortarti,» aggiunse con aria enigmatica, «non ti faccio più una colpa d'essere tutte le cose che hai detto. A proposito, la parola che avevi dimenticato è villano.» «Ah, già. Grazie per avermela ricordata.» «Di nulla.» Ridemmo entrambi, ma quel raro momento di rilassamento terminò bruscamente. Dalla sua espressione, vidi che si era resa conto, all'improvviso, che la sua parte migliore stava per prendere il sopravvento. «Capiscimi,» dissi, «parlando di libertà non mi riferivo a Rhemia. Volevo parlare della nostra ricerca, di questo viaggio.» «L'unica cosa che mi interessa, di questo viaggio, è la sua fine.»
«E secondo te la nostra ricerca, ovviamente, è una menzogna.» «Quasi certamente.» «Molto interessante.» «Perché dici così?» «Anch'io ho ricevuto una certa istruzione, mia signora. Niente di raffinato come le Sette Scuole di Rhemia; ma anche a Silium c'erano dei buoni insegnanti. Quanto meno, ci hanno convinti che la testa ha qualche funzione di più, oltre a quella di decorare le spalle.» «Stai cercando di dirmi qualcosa,» mi interruppe lei in tono freddo. «Cerca di venire al punto.» «Il punto, mia signora, è che anche se non credi al mio racconto sull'isola di Albion, non potrai tuttavia ignorare quello che è successo qui, su questa nave. Come pensi che siano accadute, queste cose? Per magia? Il mio buon maestro Levitinus, che la sua anima riposi in pace, diceva che anche i misteri di questo mondo che sembrano uscire direttamente dagli abissi delle potenze oscure, in realtà sono semplicemente il frutto di leggi naturali che ci sono sconosciute. Quei fenomeni originati dall'amuleto, sono successi davvero o no, mia signora? La ragione ci dice di sì.» Corysia mi fissò freddamente. «È vero,» disse, «in questo mondo ci sono cose che non comprendiamo. Questo te lo concedo. Ma spesso capita che un uomo cerchi di avvolgere la propria follia con il manto della ragione, nel tentativo di renderla rispettabile.» «Tu ne sai molto della rispettabilità, certamente. È una parola che presso i Rhemiani copre un'infinità di delitti.» La sua mano si alzò come un lampo dal parapetto. Mi colpì una volta, e l'avrebbe fatto di nuovo, se non le avessi afferrato entrambi i polsi, serrandoglieli contro i fianchi. «Sei davvero un uomo,» rise in tono di scherno. «Guarda come sei bravo a immobilizzare una donna piccola e indifesa, senza farti aiutare da nessuno!» «Mia signora, è la seconda volta, oggi, che mi hai chiamato uomo. Non è una parola che mi piaccia. E se avessi tanto cervello quanto può essercene in una rapa, capiresti perché!» Con uno strattone, lei si svincolò e corse a chiudersi nella sua cabina. Così finì un'altra delle nostre conversazioni. Al solito modo. Il terzo giorno dopo aver doppiato il capo estremo di Kenyarsha, ci tro-
vammo a viaggiare verso nord con un mare sempre più tempestoso. La nostra prua scattava in alto fra spruzzi incredibili di spuma, poi si rituffava nel cavo dell'onda con una velocità che ci faceva salire il cuore in gola, gelandoci fin nelle ossa. Signar mi informò che stavamo attraversando la coda di una tempesta che il giorno prima si era spostata nell'entroterra. Ringraziai il cielo per non averne veduto il resto. Quando finalmente i venti si calmarono, eravamo in mare aperto, non più in vista della costa, e largamente fuori rotta. La costa doveva trovarsi ad occidente rispetto a noi, ed alzammo le vele per tornare a vederla. Tuttavia, non avevamo fatto i conti con la perversità del tempo. Il vento cadde completamente. Non si sentiva neppure la più lieve brezza, e le vele pendevano immobili come biancheria appesa ad asciugare. Di conseguenza, dovemmo metterci ai remi e vogare in direzione della terra, sperando che al più presto si alzasse un po' di vento. Era una dura fatica, sotto il Sole cocente e senza un filo d'aria fresca. La ciurma bestemmiava, sudava e giurava che il mare si era trasformato in melassa. Dopo un'ora di tormento, Signar diede l'alt e mi chiamò sul ponte. «Se ti sembra che l'equipaggio fatichi più del normale,» mi fece, «ebbene, hai ragione. Guarda un po'.» E dicendo questo gettò in mare una scheggia di legno. Poi un'altra. I nostri remi erano alzati e l'aria era immobile. Tuttavia, le schegge di legno sfilarono rapidamente lungo lo scafo e ci sorpassarono, dirette verso nord-est. «Qui l'unica cosa che si muove è l'acqua,» spiegò Signar, «e non ha senso remare in direzione diversa. Siamo incappati in una qualche corrente, ed anche molto veloce.» «Che suggerisci di fare?» «Non suggerisco nulla,» fece in tono secco. «Io sono il comandante, ma al momento non ho nulla da comandare. Possiamo remare fino a farci scoppiare il cuore, e non arriveremmo in alcun luogo. Dobbiamo aspettare. Non c'è altro da fare.» «Quale è stato il periodo più lungo che ti sia mai capitato di passare in una situazione simile?», gli chiesi. «Oh, quattordici o quindici giorni. Ma è molto insolito.» «Lieto di sentirlo.» «Ovviamente, non so nulla di questi mari. Da queste parti, periodi anche più lunghi potrebbero essere una cosa comune.»
«Sono sicuro di no,» feci. «Anch'io non so nulla di queste acque, ma non credo che ciò che è insolito in una zona, possa essere comune in un'altra.» In seguito, non ne fui più così certo. Per quattro interi giorni, non era venuto neppure il più esile soffio d'aria a increspare le acque. Dall'alba fino a ben oltre il tramonto, rimanevamo ad arrostire come scarafaggi su una roccia, muovendoci solo quando era indispensabile. Le notti non erano migliori. Alcuni marinai avevano cercato di trovare un po' di refrigerio nuotando intorno alla nave, ma il sollievo venne a rapida fine quando una delle vedette avvistò un branco di squali di grandezza mai vista che giravano intorno alla nave, a poca distanza dai nuotatori. I Nicieani erano quelli fra noi che sopportavano meglio il Sole, ma non amavano mostrarsi nel pieno riverbero del giorno. La loro ora favorita era quella che precedeva immediatamente l'alba, quando si impegnavano in un gioco consistente nel rincorrersi fra antenne e sartie, salendo su e giù per gli alberi e saltando nel cavo delle vele. Era una meraviglia vederli, perché al mondo non ci sono arrampicatori più agili. Il quinto giorno, apparve verso sud una fila di nubi basse. Mentre si avvicinavano, un vento caldo e umido cominciò ad agitare debolmente le nostre vele, senza tuttavia gonfiarle. Poi le nubi svanirono lasciando un cielo color del rame. «Mi meraviglio che marinai esperti come voi non facciano nulla per provvedere,» si lamentò Rhalgorn. «Non è decente restare qui immobili ad arrostirci.» Signar lo gratificò di un ringhio. «Bene,» fece, «tu che suggeriresti? Che cosa si fa quando si viene colti dalla bonaccia nelle foreste dei Lauvectii?» Rhalgorn gli mostrò i denti. «Nei Lauvectii, siamo abbastanza cresciuti per non giocare più con le barche. Di conseguenza, non succede mai nulla del genere.» «Navi,» corresse Signar. «Come?» «Siamo su una nave, come ti ho già detto più volte, non su una barca.» «Su qualsiasi cosa siamo,» fece Rhalgorn tirando su col naso, «non sta andando da nessuna parte. Anche una persona usa a viaggiare per terra se ne accorgerebbe.»
All'alba del settimo giorno senza vento, la vedetta ci chiamò tutti sul ponte con un grido. Ogni nuovo venuto aggiungeva il suo urlo personale, sforzando la gola disseccata, quando avvistava i banchi di nuvoloni candidi che si ammassavano verso sud. «Di certo sono nubi raccolte da un vento robusto,» fece Thareesh. Signar ruggì, abbrancando lo stupefatto Nicieano nelle sue braccia enormi e scuotendolo come un fuscello. «Sì, amico mio, c'è un bel vento robusto! Robusto abbastanza da farci veleggiare fino alla fine del mondo!» «Lo abbiamo già fatto,» gli ricordò Rhalgorn: «Stavolta, sarebbe sufficiente che ci riportasse indietro dall'altra parte. Ormai siamo...» Si interruppe all'improvviso, fissando gli occhi in un punto del cielo. «Guardate lì,» fece, puntando il braccio. «Verso sud-est.» Facendo ombra agli occhi con la mano, aguzzai la vista. C'erano minuscoli punti scuri contro le nubi. «Non vedo nulla,» dissi, «a parte uno stormo di uccelli.» Rhalgorn emise un suono indistinto. «Per te, forse. Ma per gli occhi di uno Stygiano sono qualcosa di più che uccelli. Volano, ma sono grandi almeno quanto me, Aldair.» «Ha ragione,» intervenne Thareesh. «Certo che ho ragione. Come al solito, no?» In breve anche chi possedeva occhi meno acuti poté rendersi conto della cosa. Signar gridò un ordine, e subito gli arcieri andarono a mettersi ai posti di combattimento. Altri marinai afferrarono scudi e lance e si tennero pronti. Almeno venti di quelle creature cominciarono a circolare lentamente sulla nave, in gruppi di due o tre. Non c'era dubbio che fossero qualcosa di più che uccelli. Capimmo subito che c'era un metodo nel loro volo, e uno scopo nelle loro azioni. Sembravano molto interessati a capire chi eravamo e dove stavamo andando, ma non si avvicinavano. «Rhalgorn,» feci, «sono armati? Riesci a vedere se portano armi di qualche tipo?» «Non hanno nulla che possa nuocerci,» rispose lo Stygiano. «Alcuni hanno dei sacchetti attorno al collo, ma nulla di più.» Diedi ordine all'equipaggio di deporre le armi, ma di tenersi pronti a riprenderle in caso di necessità. Le creature volanti capirono immediatamente. Si radunarono tutte insieme, come uno sciame d'api, e una di esse cominciò a scendere verso di
noi, librandosi in lenti circoli. Per due volte passò il ponte, guardandoci bene, ad un'altezza non superiore a quella dell'albero maestro. Poi, all'improvviso, si lasciò cadere verso di noi. Per un istante pensammo che sarebbe precipitato come una pietra sfracellandosi sulle tavole; ma poi si spalancarono le ali possenti e cominciarono ad agitarsi nell'aria, rallentando la caduta e trasformandola in un atterraggio agile e leggero. Stupefatto, mi resi conto di aver già visto creature come quella. Le avevo scorte per un istante in una delle finestre grigie che si aprivano nel sottosuolo di Albion. Di fronte a noi, dunque, avevamo un'altra delle atrocità perpetrate dall'Uomo. Il nostro visitatore era davvero uno strano essere, ma sono sicuro che noi, a lui, apparivamo ancor più strani: goffi, pesanti e legati alla terra, mentre lui poteva alzarsi nei cieli. Era alto, ma magro in modo spettrale; braccia e gambe apparivano così delicate e sottili che ero certo di poterle spezzare come un fuscello con il minimo tocco. Tutta la sua forza sembrava racchiusa nelle ali ampie e robuste. Sul suolo sembrava perso, come lo saremmo stati noi nell'aria. Aspettava, perfettamente immobile. Mi avvicinai per dargli il benvenuto, muovendomi lentamente per non spaventarlo. Mi fissò con tristi occhi dorati. Sul suo cranio si alzava un ciuffo di piume rosse, il cui colore impallidiva verso il rosa mentre scendevano verso un becco duro e affilato. Quel ciuffo era la sua unica nota di colore. Il resto del corpo era ricoperto da un manto di uniformi piume grigie. «Mi chiamo Aldair,» dissi. «Stai pur tranquillo, straniero. Nessuno, a bordo, ti farà del male.» Gli occhi dorati batterono una volta. «Io sono Rhaiz, e non pensavo che voleste farmi del male. È detto che venite in pace.» «Detto?» feci, fissandolo. «Qualcuno... vi aveva avvertiti del nostro arrivo?» Rhaiz scosse la testa. «Non era necessario che alcuno ce lo dicesse. Era scritto che sareste venuti.» Allargò le braccia sottili. «E ora siete qui.» SEDICI Rhaiz ci spiegò che veniva da una terra situata a nordest, chiamata In-
drae. Era a poca distanza in linea d'aria. Signar, la cui esperienza di marinaio gli permetteva di giudicare con sicurezza distanze e velocità, valutò che, sotto un buon vento, avremmo potuto navigare a circa tre quarti della velocità dei nostri amici alati. «È a meno di un giorno di distanza,» fece, «se i miei calcoli sono esatti. Non sarebbe una cattiva idea, Aldair, andare a dare un'occhiata.» Quell'espressione - ormai lo sapevo bene - era per Signar soltanto un modo discreto per esprimere la nostra estrema necessità di cibo, acqua fresca e riposo. A occhio e croce, eravamo ad almeno sei giorni dalla rotta stabilita, e tutte le nostre riserve ormai erano scarse; di conseguenza, le nostre decisioni erano obbligate. Se avessimo avuto un'altra possibilità, non avrei esitato ad abbracciarla, perché tutto il seguito di circostanze che ci avevano portato al punto in cui eravamo mi dava una strana sensazione di disagio. Prima la bonaccia, poi i venti, poi la corrente che ci aveva portato lontani da Kenyarsha, fino a condurci all'appuntamento fortuito con le creature volanti. Sembrava quasi un disegno preordinato: sospetto che avrei anche potuto metterlo da parte, se non avessi udito con le mie orecchie le parole di Rhaiz: «Era scritto che sareste venuti. E ora siete qui.» Non ho particolare passione per le profezie. So che sono possibili, ma non mi interessa molto udirle; in particolare quando riguardano me. So anche che in qualche modo io sono guidato lungo il mio cammino: ma anche a questo preferisco non pensare. Nel corso della mia esistenza travagliata, ho appreso che non serve a nulla chiedersi in anticipo quando e dove una mano soccorritrice ti sta aspettando. Rhaiz mi informò che il nome della sua gente era Avakhar, e la loro città si chiamava Avak. È quasi impossibile descriverla, perché non esiste al mondo nulla che le somigli. Appena la avvistammo mi resi conto che si trattava di un luogo molto antico, e mi crebbe il desiderio di visitarla. Avak è costruita sulla foce di un grande fiume, le cui acque hanno da tempo ingoiato le sue strade e le sue piazze. Ora, è un insieme di guglie altissime che spuntano dal fiume come tronchi d'albero scarnificati dall'inverno. È un posto ideale per gli Avakhar, che abitano in quelle altezze vertiginose e non hanno bisogno né di strade, né di piazze né di negozi. Mentre navigavamo all'ombra di quelle torri, mi accorsi che erano tutte collegate fra di loro da una rete di passaggi: ponti altissimi e sottili fatti di cordami e canne, tesi fra una guglia e l'altra come Mane tra gli alberi tropi-
cali. Sembravano quasi la rete costruita da un ragno immenso e disordinato. Gli Avakhar preferivano dunque camminare, talvolta, invece di volare? No, rispose secco Rhaiz alla mia domanda. Quei passaggi non erano stati costruiti per la Vera Gente? Gli Avakhar non avevano bisogno di ponti. E detto questo il suo becco rimase chiuso, né ci fu verso di farlo ritornare sull'argomento. Non avremmo alloggiato nelle torri - ci venne spiegato - perché non erano adatte al modo di vivere delle creature terrestri. Invece, saremmo stati condotti sulla riva del fiume, dove erano state erette case adatte a noi. Chiaramente, dei messaggeri ci avevano preceduti a grande velocità, perché quando l'Ahzir arrivò, trovammo tutto già pronto. Non posso negare che gli Avakhar siano stati straordinariamente generosi nel loro benvenuto. La nave era stata appena tratta a riva, che l'aria venne lacerata da un rumore di tuono, e il cielo divenne in un attimo nero di creature volanti. L'equipaggio aveva già messo mano alle armi, quando ci rendemmo conto che si trattava di un gesto d'amicizia. Centinaia di Avakhar cominciarono a volare in circolo intorno alla nave, urlando, schiamazzando e facendo vibrare l'aria con le ali. Alcuni suonavano flauti e altri strumenti musicali, aggiungendo frastuono al frastuono. Altri portavano grandi cesti, che rovesciarono in aria, ricoprendo il ponte di frutti di ogni genere, e di fiori multicolori. La cerimonia sarebbe stata piacevole e toccante, se non fosse stato per un piccolo particolare. Poiché eravamo ospiti, era giocoforza accogliere col sorriso sulle labbra tutto ciò che cadeva dal cielo, rendendoci conto che ogni popolazione al mondo ha le sue usanze, e bisogna rispettarle. Il fatto è che dal cielo, insieme ai fiori e ai frutti, pioveva su di noi un'abbondante quantità di escrementi, che oltre a lordare il ponte, si depositarono in larga misura sull'equipaggio schierato per ricevere il benvenuto. Fra gli insigniti da tale omaggio ci fu anche Rhalgorn, che inoltre per sua sventura si trovò a guardare in alto nel momento sbagliato. Più tardi apprendemmo che gli Avakhar hanno l'uso di liberarsi gli intestini ogni volta che se ne presenta la necessità, e senza badare alle conseguenze: non eravamo perciò stati fatti segno a particolari favori, ma potevamo considerarci vittime del caso. Rhalgorn tuttavia non ne fu mai del tutto convinto. Quando volle parlarci di nuovo, ci esternò tutta la sua gratitudine per averlo ammesso a partecipare a un'avventura grazie alla quale aveva potuto scoprire due nuove
creature che, pur essendo tanto diverse, condividevano il medesimo gentile costume circa le procedure defecatone. Signar fece del suo meglio per non mettersi a ridere, quindi comunicò solennemente allo Stygiano che poteva considerarsi fortunato per lo scampato pericolo, dato che i Kenyarshii, fino a prova contraria, non volano. Dopo il benvenuto, il ponte era coperto con uno strato di frutta spiaccicata, escrementi e petali di fiori alto fino al ginocchio. L'aspetto e l'odore erano quelli di uno scarico di immondizie. Se c'è una cosa che ho appreso nei miei viaggi, è che la gloria e la fama spesso vengono consegnate in involucri singolari. Malgrado l'apparente cordialità di quelle creature, lasciammo una piccola guarnigione sulla nostra nave. Rhaiz ci chiese perché, e gli risposi che a bordo c'erano le reliquie dei nostri dèi, cui si dovevano costanti tributi religiosi. Poiché gli Avakhar sono un popolo molto devoto, il nostro amico parve soddisfatto della spiegazione. «Possiamo fare quante ipotesi vogliamo sul loro atteggiamento nei nostri confronti,» fece Signar più tardi, dopo un banchetto a base di frutta, pane e noci, «ma se, dopo esserci fidati di loro, queste creature ci avessero accolto questo pomeriggio con le armi invece che con fiori, frutta e il resto, a quest'ora saremmo tutti morti.» Aveva ragione, ovviamente, ma eravamo troppo stanchi per metterci a discutere su ciò che poteva essere, e non era stato. Comunque, disponemmo turni di guardia, e rimanemmo all'erta. Dormimmo senza essere disturbati, a parte qualche occasionale scaramuccia con i pidocchi particolarmente feroci lasciati sul posto dai nostri ospiti, come ultimo grazioso dono. La mattina, per colazione, trovammo altra frutta, con disgusto di Rhalgorn. Lo Stygiano mostrò i denti e propose come alternativa di far colazione con un bell'uccello arrosto, che a suo dire sarebbe stato delizioso. Rhaiz comparve per mostrarci la sua città, e tutti lo accompagnammo: anche Corysia, con mia grande sorpresa. Signar disse che doveva pensare alle provviste, e quando Rhaiz gli comunicò che alla cosa avrebbe provveduto la sua gente, il Vikoniano impallidì e tornò di corsa alla nave. Una piccola barca dal fondo piatto ci portò dalla riva alla più vicina delle torri. La creatura che, spingendola con un palo, guidava l'imbarcazione, era più grassa degli altri Avakhar che finora avevamo visto, ed aveva le spalle così curve da sembrare vittima della gobba. La sua cresta era quasi scomparsa, e le piume sembravano umide e appiccicose. Quando la fissai, si
voltò e nascose la faccia. Rhaiz sembrava non notare nemmeno la sua presenza. «Dovrete solo arrampicarvi un po' sulla parete della torre,» spiegò, «fino a quando non avremo imboccato il primo ponte. Da lì, si può raggiungere facilmente qualsiasi altro punto della città.» Come turisti disciplinati, seguimmo le sue istruzioni, salendo non senza fatica una fila di rozzi gradini di pietra che spuntavano dal muro, sino alla base del ponte. Accanto a me, Corysia impallidì fino a diventare grigia. Il «ponte» era un filarne di cordame e canne intrecciate, che si perdeva nella distanza fino ad una torre lontana, diventando ai nostri occhi sottile come un filo. «Va bene per voi, Aldair?», chiese Rhaiz. «Oh, certo,» risposi, «va benissimo.» Corysia mi lanciò un'occhiata tagliente come un rasoio. «Che cosa avresti voluto che gli dicessi?», le feci a voce bassa, in modo da non farmi sentire dall'Avakhar. «Che siamo creature timide e delicate, e abbiamo paura di avventurarci nel vuoto sospesi a corde sottili?» «Perché no? È vero.» «Sì, ma non sarebbe decente.» «Spero solo di sopravvivere a questa avventura,» mi rispose in tono cupo. «Nulla mi farebbe più piacere che presentarti a mio zio.» «Sono certo che l'Imperatore Augustus è una persona deliziosa, visto che è un tuo stretto parente.» «Non so se rimarresti dello stesso parere, dopo averlo conosciuto.» Gli Avakhar volavano all'intorno, poggiandosi da un cornicione all'altro, intenti alle occupazioni tipiche delle creature alate, quali che esse siano. Per la verità, era difficile intuire quali fossero queste occupazioni. Dovunque andassimo, eravamo accolti con grande calore e salutati come amici persi di vista da tempo immemorabile: ma non c'era segno che i nostri ospiti perseguissero attività alcuna, a parte il volare. Si raccoglievano sui pinnacoli più alti e chiacchieravano fra loro, oppure entravano e uscivano dalle migliaia di aperture praticate nelle pietre delle torri. Apprendemmo chi erano i membri della popolazione più grassi e curvi, e ci rendemmo conto della funzione dei ponti fra torre e torre. Si trattava di Avakhar incapaci di volare, trattati come schiavi. Trasportavano lungo il fiume i frutti, le noci e altro cibo raccolto nella foresta, e lo distribuivano fra le torri passando lungo i ponti. In un certo senso, suppongo che in tutto il mondo non ci sia schiavo più miserabile di loro. La loro condizione era
resa ancor più patetica dal fatto che, un tempo, avevano conosciuto l'emozione del volo. Fu il Nicieano a capire il motivo della loro presente condizione. A ciascuna di quelle creature era stato reciso un tendine proprio dietro le spalle, dove le grandi ali si uniscono al corpo. «Non dobbiamo fidarci troppo del loro atteggiamento remissivo e amichevole,» ci sussurrò. «Esseri capaci di fare una cosa simile a individui della loro stessa razza...» Rhalgorn lo interruppe. «Da quanto ho visto, non sono né migliori né peggiori di qualsiasi altra razza. Fatta eccezione per gli Stygiani, naturalmente.» Thareesh lo fissò ed emise un sibilo fra i denti. Rhalgorn rispose con una risata. Ma non c'era nulla che, tanto Thareesh quanto io, potessimo ribattere, perché lo Stygiano aveva ragione. I Signori dei Lauvectii sono un popolo crudele e feroce, certamente: ma sono anche le uniche creature di mia conoscenza che non volgono mai la mano sui propri simili. In cima alla terza torre, Rhaiz si fermò all'improvviso e mi fissò con i suoi occhi dorati. «Qui, Aldair, dovremo lasciarti per qualche tempo. Un altro farà in modo che in seguito tu ci raggiunga più in basso.» «Che cosa significa questo?», fece Rhalgorn, venendosi a mettere al mio fianco. Rhaiz rise e scosse la testa. «Vi prego,» fece. «Rassicuratevi. Nessuno vi farà del male, fra gli Avakhar.» Poi si rivolse a me. «I tuoi compagni non devono aver paura.» «I suoi compagni non hanno affatto paura, amico,» disse Rhalgorn con voce cupa. «Ma questo non significa che siano degli sciocchi.» Dietro di lui, Thareesh piegò il capo in segno di assenso. «Un momento,» feci io. «Che cos'è questa storia, Rhaiz?» «È Rhamil, Aldair. Vuole parlarti.» «E chi è Rhamil? Il vostro capo?» «Rhamil è... Rhamil.» «Il che, come chiarificazione, non è gran cosa.» Rhaiz sbatté le palpebre. «Allora,» fece «aggiungerò che è quello di cui ti ho parlato a bordo del vostro vascello. Quello che da tempo attende la vostra venuta.»
DICIASSETTE Come dissi più tardi a Rhalgorn e Thareesh, se gli Avakhar avessero avuto intenzione di farci fuori, non avrebbero dovuto usare trucchi particolari. «Inutile separare uno di' noi dagli altri, quando avrebbero potuto facilmente fare il servizio a tutti insieme, senza troppa fatica. Bastava che, mentre attraversavamo uno di quei ponti sospesi, avessero tagliato una delle estremità.» La mascella di Rhalgorn cadde fino a terra. «Ti confesso,» fece, «che non avevo pensato a questa possibilità.» «Neppure io,» aggiunse Thareesh. «Per essere perfettamente onesto,» dissi, «non ci avevo pensato neppure io. Mi è venuto in mente in questo momento. Tuttavia, di sicuro ce ne ricorderemo tutti, la prossima volta che attraverseremo uno di quei ponti.» Pur essendo molto curioso, ormai, di incontrare questo Rhamil, ci mancò poco che la mia avventura finisse ancor prima di cominciare. Fare un passo nel suo covo era impresa da far morire di disgusto anche uno Stygiano. All'interno, aleggiava un fetore indescrivibile, nato da una mescolanza di escrementi, frutti marci, alito cattivo e chissà cos'altro. Dominante su tutti questi afrori, c'era il potente e inconfondibile tanfo della pelle non lavata. «Ah, Aldair, entra, entra!» Una torcia lottava con alterna fortuna contro le tenebre. Dall'altra parte della stanza c'era qualcosa che mi parve fosse un Avakhar. Rhamil non possedeva alcuna delle caratteristiche che conferiscono grazia e bellezza al suo popolo. L'oro degli occhi si era trasformato in una specie di giallo sporco, la cresta un tempo orgogliosa era un'informe escrescenza dal colore indefinibile. Sul corpo erano rimaste ormai poche penne, e molte di esse sembravano staccarsi dalla pelle sotto i miei stessi occhi, mostrando un'epidermide corrosa e macchiata, tesa su ossa fragili. «Accomodati,» mormorò, spingendo in avanti la testa. «Lì... no, lì, mi pare. Quel dannato sgabello deve essere da qualche parte.» Ovunque si posassero le sue dita, si sollevava una nube di polvere grigiastra, che mi serrava la gola e mi faceva tossire. La stanza di Rhamil era bizzarra quanto il suo occupante. Mucchi infor-
mi di rottami d'ogni sorta si sollevavano fino al soffitto. Infiniti barattoli, orci, giare erano appoggiati su scaffali, scatole, casse, barili, sedie. Con gli anni, molti di questi contenitori si erano rotti, ed i loro frammenti erano ancora lì, insieme con i resti, caratterizzati dagli odori più diversi, di ciò che avevano custodito. C'erano ovunque rimasugli e frammenti di foglie, pietre, semi, penne e vetro. Sgocciolii, untume, incrostazioni, immondizie. Tuttavia, un gelo familiare mi sfiorò la nuca, perché in mezzo a tutto quel letame maleodorante potevo vedere qualche traccia delle mura originali: e si trattava della caratteristica finta-pietra liscia e grigia adoperata dall'Uomo. Rhamil parve intuire il significato del mio sguardo. «Ah,» fece, «tu sei davvero il Dha'ir Tayamanda, colui che doveva venire.» I suoi vecchissimi occhi lampeggiavano. «Lo vedo chiaramente!» «Non capisco quello che intendi dire,» risposi. «Ti sarei grato se tu mi spiegassi il significato delle tue parole.» «Ah, ma tu lo sai già. È nei tuoi occhi.» «Tuttavia, vorrei saperlo da te, perché io non ho mai sentito parlare questo "colui che deve venire", o comunque si chiami.» Rhamil alzò un dito. «Aldair, non devi prenderti gioco di me.» «Ti assicuro che non ne ho alcuna intenzione.» «Possiamo fidarci l'uno dell'altro.» «Ne sono certo. Però...» «Senti,» fece secco Rhamil, «tu sei il Dha'ir Tayamanda. Non cercare di negarlo. L'ho visto bene, ed è così!» Mormorò qualche parola fra sé, mentre frugava tra il pattume che aveva intorno; ogni tanto mi lanciava un'occhiata sospettosa. «Ecco,» fece alla fine, spingendo verso di me un lurido sacchetto di cuoio. «Scegli una pietruzza... una qualsiasi. Mischiale, prima. Prendine una e non farmela vedere.» «A che serve?» «Accidenti a te, non potresti limitarti a fare quello che ti si chiede, senza domande?» Eseguii. «Sulla pietra che hai scelto c'è il segno del Sole, non è vero?» «No.» «Aspetta... Una falce di Luna?» «No.» «E allora, che cosa c'è?»
«Vuoi che te lo dica?» «Sì, sì. Altrimenti, perché te lo avrei chiesto?» «C'è una stella.» «Ah, naturalmente.» «Perché, naturalmente?» «Una stella ti sta guidando. Quella è la pietra del marinaio. I tuoi colori favoriti sono il blu e il rosso, e tu sei nato nel secondo mese. Il tuo numero fortunato è il nove. Ti sei avventurato lontano, imbarcandoti per un lungo viaggio. Non è vero?» «È vero che sono un marinaio, e mi sembra ovvio che, per venire fino a qui, io mi sia imbarcato per un lungo viaggio. I colori del mio Clan sono il rosso e il blu, come puoi vedere dalla tunica che indosso. Sono nato nell'ottavo mese e non nel secondo, e non ho la più pallida idea di quanta fortuna mi porti il numero nove.» Rhamil mi dedicò un sorriso obliquo. «Però,» fece, «non puoi affermare che non ti porti fortuna...» «No, non posso,» risposi, mentre la mia pazienza si stava rapidamente esaurendo. «Ma sono sicuro che neppure tu puoi affermarlo con certezza, se mi perdoni l'ardire.» Rhamil scrollò le spalle, agitando le sue piume sparse. Anche nella luce fioca potevo vedere che la sua pelle brulicava di insetti. Mentre guardavo, ne prese uno fra le dita, lo schiacciò col becco, con aria assente, e se lo mangiò. Trattenni a stento il vomito. «Bene,» dissi. «Penso che ormai sia ora che me ne vada.» Mi alzai in piedi. «Grazie per avermi concesso il tuo tempo prezioso.» «Certo,» mormorò Rhamil, «come desideri, Aldair. Incidentalmente, chi è questo ghir thairn? È molto presente nei tuoi pensieri, a quel che mi pare.» «Che cosa?» feci, sedendomi di nuovo. «L'Aghjir Tharrin... che ne sai tu dell'Aghjir Tharrin?» Rhamil si produsse nell'imitazione di un ghigno. «Sei molto poco cortese, Aldair. Non me lo sarei mai aspettato da parte del Dha'ir Tayamanda. Ma non si può alterare il corso del destino.» «Senti, tu hai parlato dell'Aghjir Tharrin...» «Davvero?» «Certamente.» «Oh. E allora? Vuoi conoscere il suo numero fortunato? È il quattro.» Tirai un respiro profondo.
«Per qualche motivo, non riesco a credere che l'Aghjir Tharrin abbia un numero fortunato.» «Certo che ce l'ha. Ce l'hanno tutti.» «E che cos'altro sai, su di lui?» Rhamil chiuse gli occhi. «Sta pensando a te, e ti manda i suoi saluti. Dice che...» «Non credo che l'Aghjir Tharrin possa più dirmi nulla.» Rhamil parve deluso. «Non credi?» «No.» «Beh, forse hai ragione. Non si può mai essere certi di queste cose. Tuttavia, è sicuro che l'avrebbero molto interessato le torri degli Avakhar, perché porta un grande amore per le cose antiche.» Cercai di non guardarlo, ma Rhamil era espertissimo nel cogliere i più piccoli mutamenti di espressione. I suoi occhi cisposi brillarono di contentezza. «Questo, almeno, ha un significato, per te,» fece. «Lo vedo bene.» «Sì... è vero,» ammisi. Piegandomi in avanti, studiai con cura l'essere davanti a me. «Rhamil, che cosa sai di questo posto? Chi ha costruito le strutture in cui abitano gli Avakhar, e quando!» Rhamil si appoggiò all'indietro, strofinandosi le dita le une sulle altre. «Io sapevo che tu sei il Dha'ir Tayamanda. Non te l'ho forse detto? Certo che conosco l'età delle torri, Aldair. E so chi le ha costruite. Io sono un Profeta degli Avakhar, e il mio mestiere consiste nel sapere le cose.» «E allora, dimmelo!» «Dirti che cosa?» «Chi ha costruito le torri!» Rhamil sbatté gli occhi. «Ma come? Non lo sai già, Aldair?» «Sì, io lo so. Ma tu, lo sai?» «Certamente.» «E allora, dimmelo.» «Dimmelo tu, prima.» Oh, senti...» «Per favore...» Rhamil sollevò una mano scheletrica, e se la premette sugli occhi. «Profetare e compiere meraviglie come le mie è molto stancante, Aldair. Ti rivelerò altri segreti domani. Ora, devo riposare.» «Tu mi rivelerai...» Mi alzai, facendo tintinnare orci e barattoli. «Ma di
quali meraviglie parli, Rhamil? Mi hai detto una sola cosa che aveva un'ombra di verità. Per il resto, erano tutte insensatezze!» Rhamil aprì gli occhi e catturò un altro insetto dal cavo dell'ala. «Avevo intenzione di rivelarti un altro numero fortunato,» fece, tirando su col naso. «Ora, forse, non lo saprai mai.» DICIOTTO L'autentico dono della profezia è estremamente raro al mondo d'oggi. In compenso, c'è una straordinaria abbondanza di imbroglioni e ciarlatani. Gran parte di questi individui non ha più saggezza o interiorità di una rapa, e molti non sono in grado neppure di predire dove dormiranno la sera, o quando mangeranno il loro prossimo pasto. Tuttavia, ve ne sono altri che posseggono poteri autentici, ma non sanno più distinguerli dalla loro stessa malafede e dai loro trucchi. Sono certo che Rhamil apparteneva a quest'ultima categoria. Nessuno di noi aveva mai menzionato l'Aghjir Tharrin o la sua profonda conoscenza dell'antichità. Eppure, Rhamil aveva visto con chiarezza entrambe le cose, estraendole chissà come dal mucchio informe delle date di nascita sbagliate e dei numeri fortunati. «Non riesce a distinguere la verità quando vi inciampa sopra,» dissi durante la cena, «ma non si può negare che possegga un talento di qualche tipo.» Gli altri annuirono, perché sembra che non esista alcuna terra che sia priva di veggenti, veri o falsi che siano. In gran parte sono innocui, e aggiungono un tocco di colore ai mercati e alle fiere di paese. È soltanto quando raggiungono posizioni di preminenza religiosa che diventano seccanti e pericolosi. Rhalgorn e Thareesh erano ansiosi di riferire le loro avventure. «È davvero un posto molto strano,» fece il Nicieano. «Di fronte a qualsiasi buco passassimo, chiedevamo sempre a Rhaiz quale fosse l'occupazione dei suoi abitanti. Ci siamo resi conto presto che la nostra guida non aveva la più pallida idea di quello che gli domandavamo. Parole come mercante, artigiano o guerriero per lui non significavano nulla. Aldair, questa gente non ha occupazioni. Non costruiscono cose né commerciano fra di loro. Non hanno monete di scambio, non posseggono oro o gemme. Il poco lavoro che si fa, è compito degli schiavi.»
«Nella stanza di Rhamil ho visto dei mobili.» «Forse. Ma non sono stati certo gli Avakhar a costruirli. Li hanno trovati da qualche parte o se li sono procurati in chissà che modo.» «Dovranno pur far qualcosa,» dissi, «oltre a volare.» «La fanno,» intervenne Rhalgorn. «Mostragli la tua collezione, Thareesh.» Il Nicieano estrasse alcuni oggetti dalla sua borsa e li depose sulla stuoia davanti a noi. Mi parvero nulla più che corti bastoncini, larghi quanto un dito. Ce ne erano una dozzina, e ciascuno sembrava tarlato o intaccato dalle mandibole di qualche insetto. «Non sono stati gli insetti,» mi corresse Thareesh. «Sono stati gli Avakhar stessi. Abbiamo visto molti di loro intenti a masticare questi bastoncini, e Rhaiz ci ha spiegato che la sua gente non scrive con le mani (anzi, si è meravigliato nell'apprendere che sia questo l'uso comune nelle altre parti della Terra). Invece, incidono una qualche sorta di carattere su questi stecchi, usando il becco.» «È un costume davvero insolito,» feci al Nicieano. «Ma non prova che gli Avakhar non abbiano alcun'altra occupazione. È inconcepibile, secondo me, che la masticazione di pezzi di legno possa costituire l'unico impegno di un intero popolo.» Thareesh rivolse verso di me gli occhi senza palpebre. «Io non sono in grado di leggere questa specie di scrittura, Aldair, se vogliamo chiamarla così. Però mi sono fatto dettare il contenuto di alcuni di questi bastoni, e l'ho trascritto su un foglio di carta.» Nuovamente, infilò la mano nella sua borsa, e ne trasse un pezzo di pergamena su cui erano vergati i minuti caratteri della scrittura nicieana: «Ho calcolato che occorrerebbero 47 giorni per volare fino alla Luna. Ma potrei sbagliarmi.» «Una persona che soffra di bruciore ai piedi può trovar sollievo con una mistura di due parti di chiodi di garofano in una ciotola di fango di fiume.» «Saluto ogni nuovo giorno con un sorriso, ma mi rendo conto molto presto di non far altro che ripetere uno ieri già passato. Un giorno o l'altro smetterò di sorridere, per vedere se succede qualcosa.» «Quante formiche insieme dovrebbero emettere un peto perché qualcuno se ne accorgesse?» «A chi parla troppo si secca la bocca, e non può sputare con altrettanta
facilità di chi sta zitto.» «Una volta ho contato 427 semi in un frutto di rhapayee. Il giorno dopo, ne ho trovato uno senza neppure un seme.» «Mi sono sempre chiesto se i pidocchi russano quando dormono.» Thareesh alzò gli occhi e mise da parte il suo foglio di carta. «Capito?», disse. «Abbiamo a che fare con una razza di filosofi dilettanti.» «Dilettanti è la parola giusta,» assentii. «Non mi pare di aver udito nulla di cui il mondo non possa tranquillamente fare a meno.» Rhalgorn si grattò il naso. «Quella sulle formiche mi è piaciuta. Non ci avevo mai pensato neppure io.» Più tardi, nel pomeriggio, sedevo sulla riva del fiume, con accanto Thareesh, e vedevo il Sole impallidire dietro nubi color del fuoco. La nostra nave beccheggiava lentamente vicino alla spiaggia. Signar aveva lavorato sodo per provvedere alle riparazioni e ai rifornimenti, ed entro due giorni saremmo stati pronti a ripartire. Aveva poca simpatia per gli Avakhar, anche se il sentimento era in gran parte dovuto all'accoglienza non precisamente profumata che ci avevano dedicata. Per una volta, lui e Rhalgorn avevano la stessa opinione. Mi era parso di vedere Corysia sul ponte, ma non potevo esserne sicuro. Dopo il nostro giro mozzafiato sulle torri, era tornata sulla nave e aveva giurato che non avrebbe mai più messo piede a terra. Sulla spiaggia il clima era più fresco e, ovviamente, il fatto che lei fosse costretta a privarsi di quel minimo comfort, era colpa mia. Che creatura insopportabile e meravigliosa, mi lamentai fra me e me. «I tuoi pensieri sono molto lontani,» fece Thareesh. «Più vicini di quel che tu pensi, amico mio,» risposi. Si accontentò di questa osservazione, e gliene fui grato. Osservammo l'oscurità addensarsi sulle alte torri degli Avakhar, e seguivamo i larghi voli di quelle creature, che si dirigevano ai loro buchi di pietra per passarvi la notte. «Mi comprenderai,» disse, «se trovo difficile immaginare che una razza capace di solcare i cieli non riesca a pensare a nulla di più significativo dei peti delle formiche. È davvero una cosa indecente, direbbe Rhalgorn.» «È anche gente che schiaccia i propri pidocchi col becco per mangiarli,»
aggiunse il Nicieano, «e assegna numeri fortunati.» «E lancia frutta marcia ed escrementi sui naviganti in visita.» Ridemmo entrambi a queste follie, e scuotemmo la testa. «Accidenti,» dissi, dando un calcio a una pietra. «Dovrebbero aver raggiunto un livello superiore a quello che ve diamo, Thareesh. Non credi?» «E perché mai? Perché abitano in cima alle rovine dell'Uomo? Un folle può vivere in perfetta ignoranza, circondato da tutti i tesori del mondo, Aldair.» Risi. «Forse le tue parole si adattano anche a me, oltre che agli Avakhar, amico mio.» Thareesh mi rivolse uno sguardo interrogativo. «Ci sono momenti in cui mi trovo del tutto inadeguato al mio compito. Io sono un guerriero, non uno studioso. Per un'impresa come la nostra, avremmo avuto bisogno di una persona come Flavius Domitius. Io non riesco a interpretare bene neppure quello che vedo chiaramente con i miei occhi. Peggio ancora, potrebbero passarmi cose importantissime sotto lo sguardo, senza che io me ne accorga. Immagina che in questo stesso posto ci sia qualcosa di molto interessante. La riconoscerei?» Thareesh sorrise. «Anche senza essere studiosi, Aldair, tutti noi riconosceremo sicuramente la Sede dell'Uomo, nel momento in cui la incontreremo.» «Forse,» risposi. «Seppure riusciremo mai ad incontrarla.» «Tu ne sei veramente convinto?» Il Nicieano mi toccò un braccio. «Io sì. Non credo che il veggente che ti ha indirizzato su questa strada ti abbia fatto fare tanto cammino per nulla. Non mi sembra possibile.» In quel momento, le sue parole avevano per me poco significato, perché nutrivo dubbi su tutto ciò che riguardava i profeti, le visioni e le grandi ricerche dietro il nulla. «Thareesh,» dissi, «più di una volta durante il viaggio mi ha colto una sorta di disperazione sull'esito del nostro compito. Certe volte, ho dubitato di essere davvero sotto la guida di un certo qualcuno. Altre volte, ho pensato di essere troppo cieco per poter seguire la strada giusta. Altre volte ancora ho immaginato di aver sognato tutto, e che nel mondo non vi sia alcun mistero tenebroso e nascosto.» «E che Albion era un sogno, allora?», chiese il Nicieano. Non risposi. Invece, alzai ancora una volta lo sguardo verso le alte torri degli Avakhar, che l'oscurità aveva ormai quasi del tutto ingoiato. Prima di volgere le spalle alla spiaggia, captai con la coda dell'occhio un
movimento presso la prua dell'Ahzir. Osservando più attentamente, vidi l'immensa mole di Juumb'ar che si rotolava nelle basse acque del fiume. Mentre guardavo, lo vidi immergere il suo lungo naso simile a un tentacolo, riempirlo d'acqua, e spruzzarsela sulla schiena. Lo vidi ripetere quel gesto più e più volte, quindi raggiunsi Thareesh nei nostri padiglioni. Ancora una volta, fui preso di pena per il grande e strano dolore che pativa quella creatura. Come lo schiavo che ha infine spezzato il suo collare di ferro, il Kenyarshii non sapeva che cosa fare della sua libertà. Non sapeva andare avanti, né indietro. Era perduto in qualche terrificante e ignoto territorio di mezzo. E se, per un momento, avevo dubitato della mia missione, o della concreta e orrenda eredità dell'Uomo, la vista di Juumb'ar era sufficiente a ricondurmi alla realtà delle cose. DICIANNOVE «Ah, Aldair, eccoti. Le pietre mi avevano previsto la tua venuta.» Sedeva lì dove lo avevo lasciato, tra il fetore e la lordura del suo covo. Senza dubbio, pretendeva che io credessi che era rimasto immobile in quella posizione dal giorno prima, come se non l'avessi visto spiare il mio arrivo mentre avanzavo con cautela lungo il ponte sospeso. «È bene che tu sia venuto,» aggiunse, fissando il soffitto scuro. «I segni del cielo annunciano grande fortuna per i nati nel secondo mese.» «Io sono nato nell'ottavo. E non mi sono arrampicato fin qui per conoscere i tuoi numeri fortunati, Rhamil. Ieri, tu hai pronunciato il nome di una persona che mi è stata molto cara. Inoltre, l'Aghjir Tharrin ha avuto gran parte in eventi che sono della massima importanza per me e per i miei compagni. Se nelle tue pietre tu potessi scorgere altri di questi eventi, io...» Rhamil fece un gesto vago e scosse la testa. «Sei un individuo rozzo e impertinente, Aldair,» disse. «Non sono sicuro che tu sia pronto a ricevere i grandi segreti.» Mi fissò con occhi fieri al di sopra del suo becco. «E non pensare che io non sappia ciò che stai cercando.» «La mia non era impertinenza,» gli assicurai. «Impazienza, forse...» «Gioventù e stupidaggine, ecco che cos'è!», fece brusco l'Avakhar. All'improvviso, chiuse gli occhi e si toccò la fronte. «C'è una persona cara lontana. Una madre, forse... o una sorella...» «Rhamil. Ieri abbiamo parlato delle torri degli Avakhar. Tu mi hai detto
di sapere quanto sono antiche, e chi le ha costruite. Ciò fa parte delle conoscenze che io sto cercando.» «Lo so, Aldair. E fai bene a cercarle.» «Che cosa sai?» «La verità è che...», si schiarì la gola «... che le torri sono antiche d'anni senza numero. Sì, almeno. E io... temo di non essere autorizzato a rivelarti i loro costruttori.» «Tu non sei autorizzato perché non lo sai!» «Lo so, invece!», strillò la creatura. I suoi vecchi occhi erano in fiamme. «Non hai il diritto di parlarmi in questo modo. Io sono un Profeta degli Avakhar, che è una razza di profeti, nel caso che tu non ne sia a conoscenza! C'è ben poco su questa terra che io non sappia o che non possa sapere!» «Eccetto chi ha costruito le torri,» gli ricordai. Mi fissò, tremando così forte che le sue piume cominciarono a cadergli intorno come una nevicata nelle terre del Nord. «Tu non mi credi, vero? Bene, vieni con me, Mastro Aldair, e ti mostrerò chi ha costruito le torri, e le altre cose ancora!» Il cuore mi balzò in petto. Che se ne rendesse conto o no, quel vecchio imbroglione mi avrebbe guidato verso altre conoscenze del mondo dell'Uomo. Di certo, nuove meraviglie mi aspettavano. Lo seguii verso il retro della sua spelonca, fino ad uno stretto passaggio che prima non avevo notato. Mi portò giù per una larga ma infida scala a spirale, ingombra di polvere e sporcizia, trascinandosi dietro le ali. Alla luce della sua torcia fumosa potevo vedere da ogni lato grandi lastroni di pietra dell'Uomo, rigati da lunghe strisce di ruggine. Avevo già visto strutture analoghe altre volte, ma non mi era ugualmente facile non meravigliarmi per la facilità e l'abilità con la quale l'Uomo sapeva lavorare e modellare i metalli. Poteva essere disprezzato per la sua crudeltà, ma non se ne poteva negare la grandezza. Dal basso saliva una colonna d'aria fresca e umida, che portava l'odore inconfondibile degli Avakhar. Quanto più scendevamo, tanto più forte si faceva il puzzo, finché fui certo che almeno un quarto di tutta la razza si trovava lì sotto. Ora si potevano vedere altre torce, ed era chiaro che ci stavamo approssimando alla fine della discesa. All'improvviso, sotto di noi si aprì un enorme salone. Aguzzando gli occhi, potei vedere che all'interno qualcuno o qualcosa - si stava muovendo.
Rhamil si volse verso di me, con gli occhi ardenti. «Aldair,» fece, «sento che tu hai un fratello. Il suo nome è Reep, non è vero?» «Rheif,» risposi, meravigliato per questo nuovo pezzettino di verità che il «profeta» aveva cavato dall'etere. «Ed è, o meglio era, un fratello in ogni modo, anche se... Per il Creatore, che diavolo è questo?» Rhamil ghignò felice, facendosi di lato perché potessi vedere meglio. «Ti avevo detto,» fece, «che ti avrei mostrato grandi meraviglie, non è vero? Ebbene, eccoti qui!» «Sì... ma... che cos'è?» Più guardavo la cosa, meno capivo. Era una grande ruota a raggi, distesa orizzontalmente rispetto al terreno, e connessa in qualche modo con il pavimento fatto di pietra dell'Uomo. Una dozzina di schiavi giravano la ruota con passo lento e uniforme, mentre guardie avakhar vigilavano. La meraviglia vera, tuttavia, era posta sulla ruota stessa. Dal suo mozzo si alzava una palo di legno, e da questo spuntavano centinaia di corte e acuminate punte d'osso. Vicino a ciascuna punta c'era una cosa che riconobbi a prima vista: uno degli strani bastoncini di legno sui quali gli Avakhar usano incidere la loro saggezza, esemplificata da riflessioni come il numero dei semi di un frutto o le abitudini notturne dei pidocchi. «Bene,» fece Rhamil, «che cosa ne pensi?» «Temo,» risposi francamente, «che quel che vedo superi le mie capacità di comprensione.» «Senza dubbio. Chi non possiede la vera conoscenza ha l'abitudine di non attribuire la giusta grandezza a chi è migliore di lui, Aldair. Tu parli, ma non dici nulla. Guardi, ma non vedi.» Con un gesto del braccio, indicò tutta la scena davanti a me. «Qui, signore degli scettici, c'è la risposta a tutte le tue domande. Chi ha costruito le torri degli Avakhar? Il Creatore stesso, naturalmente. E quanto sono antiche? La domanda non ha senso, perché esistono da sempre.» «Che cosa?» «Naturalmente!» «Ma... Rhamil, che cos'è quell'affare? A che serve!» Rhamil mi rivolse uno sguardo carico di pena per la mia palese ignoranza. «Aldair,» fece, «serve a creare, perché questa sala è la sede della creazione. I pensieri degli Avakhar vengono condotti lungo quel palo, dove il loro significato viene assorbito dal Fluido Universale. I pensieri cambiano
ogni giorno, perché ogni giorno ne vengono aggiunti di nuovi. In un certo giorno nel futuro, nessuno sa quando, tutti i pensieri possibili saranno stati posti a contatto con il palo, e assorbiti. Allora, il mondo sarà creato e nasceranno tutte le creature.» «Nasceranno?» «Lo so,» fece sorridendo con aria paziente, «che tante verità comunicate tutte in una volta ti hanno scosso considerevolmente. Vedi, ascoltando te e i tuoi compagni abbiamo scoperto che siete vittime dell'illusione di essere vivi. Ovviamente, questo non è vero. Tutti noi siamo ancora non nati. Ci limitiamo a sognare quella che ci sembra la realtà. Ovviamente, non può esserci vera vita fino a quando tutto il pensiero non sia stato assorbito dal Fluido Universale, perché i pensieri sono i mattoni con i quali è edificato l'universo.» Così, mentre cercavo i segreti dell'Uomo, avevo finito per imbattermi invece nelle chiavi dell'universo, che sono i piccoli bastoncini masticati dagli Avakhar. Non sono certo degno di criticare il Creatore. Se qualcuno me lo chiedesse, tuttavia, metterei in luce il fatto che l'unica cosa che Egli avrebbe potuto agevolmente lasciar fuori dal mondo da Lui creato è la religione. Da quel che ho visto, fa più bene che male, ed ha ben poco a che vedere con il Creatore stesso. Quando si è visto tutto, rimane ben poco d'altro da vedere. Ripercorsi con Rhamil all'indietro la medesima strada nelle viscere della torre, su per la scala a spirale piena di spazzatura. Stavolta portavo io la torcia, e riuscii a vedere meglio i detriti dell'Uomo sparsi lungo i gradini. Pezzi di vetro e di ceramica, incrostati dall'antichità. Piccoli spezzoni di filo, verdi e corrosi. Altri frammenti dei quali non riuscii neppure a individuare il materiale di cui erano fatti. L'Aghjir Tharrin avrebbe dato un braccio per poter studiare quel luogo! Tutto ciò che conosceva dell'antichità erano le piatte e sterili rovine dei Tarconii. Ed io, che non avevo neppure un'ombra della sua sapienza, ero salito sulle torri degli Avakhar e avevo percorso le sale di Albion. Uno di noi due aveva visto poco. L'altro, troppo. Alla luce della torcia scintillò qualcosa. Mi fermai, chinandomi a terra per frugare fra i detriti, e sollevai l'oggetto. Era una piccola sfera, non più grande di un uovo. Liscia come vetro, ma di una sostanza diversa. Inumidii un dito, e ripulii parte della polvere secolare, studiando meglio la cosa.
Anche se parte dell'oggetto era corroso e danneggiata, potevo ancora seguirne con il dito i disegni tracciati sulla sua superficie. Linee, che la percorrevano come cerchi sempre più piccoli. Altre linee, trasversali rispetto alle prime. L'improvvisa comprensione di ciò che avevo in mano quasi mi fece liquefare le gambe. Lì, era tracciata la costa della Gaullia, con sopra l'isola di Albion. Sotto, lo stivale inconfondibile di Rhemia, il territorio dei Tarconii, il Mar Meridionale. Al di là di questo, le terre desertiche di Niciea, e l'intero grande continente di Kenyarsha. Doveva essere quello, anche se nessuna creatura vivente ne aveva mai tracciato le coste. Sentivo il cuore martellarmi nel petto. Perché mai la razza dell'Uomo avrebbe dovuto avvolgere le sue carte geografiche attorno ad una sfera se questa non fosse stata la vera forma del mondo? Poteva mai essere una cosa simile? Ma, allora, una nave che procedesse avanti all'infinito, non sarebbe mai caduta nel Grande Vuoto, ma avrebbe continuato a navigare, fino a tornare al punto di partenza... Quel piccolo oggetto tremava nella mia mano. Oltre Albion, oltre il Mare delle Nebbie, due grandi continenti si allungavano da nord a sud, uniti da una sottile striscia di terra. E oltre quelli... Alte grida irate mi trassero rapidamente dai miei pensieri. Torce ruppero il buio, e mi vidi circondato da Avakhar, che percorrevano i gradini con tutta la rapidità consentita dalle loro tozze gambe. Forse la loro era una società senza guerrieri, come pensava Thareesh; ma quelli che venivano verso di me avevano trovato alcune aste dalle punte minacciose, che agitavano nella mia direzione. VENTI In circostanze del genere, non è saggio fermarsi a porre domande. Le creature che impugnano armi di rado sono nelle condizioni mentali più adatte a spiegare le loro ragioni. Così, contrapposi azione ad azione, sguainai la spada, mi misi a gridare più forte di loro, e agitai la lama all'intorno in cerchi rapidi e mortali. Come avevo immaginato, gli Avakhar avevano un certo talento per urlare e saltellare, ma scarsa vocazione al combattimento. Quando videro dividersi in due la prima asta colpita dalla mia spada, corsero a nascondersi, sollevando un insopportabile polverone con le ali. Corsi in alto anch'io, e a un
certo punto della salita sorpassai Rhamil, ma non mi fermai per chiacchierare. Al di fuori, mi fermai, facendomi schermo con la mano contro il sole. Mi accorsi subito che la mia strategia non era la più idonea quando si ha a che fare con creature volanti. Un immane frullo d'ali vibrò sulla mia testa, e il cielo parve oscurato da un'ombra gigantesca. Mi abbassai in cerca di riparo, ma un avakhar mi fece cadere lungo disteso. Erano a centinaia, in volo attorno alla torre. Non capivo che cosa potesse avere innescato tutta quell'attività, ma non era il momento migliore per chiederselo. L'aria è l'elemento naturale degli Avakhar, come la terra è il mio. Senza guardare né su né giù, mi lanciai di corsa attraverso il ponte, pregando che a nessuna di quelle creature venisse in mente di tagliarlo, con me nel mezzo. Gli Avakhar mi lasciarono stare, accontentandosi di svolazzare all'intorno facendo oscillare paurosamente il ponte. Raggiunta la seconda torre, mi diressi verso la terza. Rhalgorn mi raggiunse, agitando la spada, ringhiando agli Avakhar e sfidandoli ad avvicinarsi di una sola piuma. «Pare che ci sia qualche problema,» gli feci. «Direi anch'io. Ma è meglio che per prima cosa scendiamo giù da questo luogo. Non è un posto decente per parlare.» In basso, ci aspettava una scena caotica. Una dozzina di marinai erano addossati alla base della torre, con le armi in pugno. Thareesh era alla loro testa, con l'arco nicieano pronto a scoccare. Intorno al gruppetto c'erano più Avakhar di quanti potessi contarne. Si agitavano come api impazzite, inviando al cielo le loro grida furiose. «È qualcosa che ha a che fare con quel dannato Kenyarshii,» mi gridò Rhalgorn al di sopra del frastuono. «È tutto quello che sono riuscito a capire. Lo tengono lì, vicino alla riva!» Guardai nella direzione indicata, ma non riuscii a vedere altro che un nugolo di Avakhar. Più lontano, le creature alate si affollavano intorno alla nave, agitandosi e urlando a più non posso. Signar, ovviamente, aveva tenuto a bordo il resto della ciurma. Se avessimo avuto bisogno di soccorsi, era pronto a mandare i rinforzi. Vidi Rhaiz poco distante, e mi feci largo verso di lui. «Se riuscirai a far stare quieta la tua gente,» gridai, «forse riuscirò a capire quello che è successo. Tutta questa gazzarra non porterà a nulla!» Mi fissò, con gli occhi dorati ribollenti d'ira. Tuttavia alzò una mano e impose la calma al suo popolo. C'era ancora chi strideva e batteva il becco,
ma nel complesso si riusciva a parlare e ad essere uditi. «Tutto ciò che hai da dire, dillo in fretta,» mi fece. «Gli Avakhar sono irati, e non potrò tenerli fermi in eterno.» «Sarà meglio che tu li tenga al posto loro il più a lungo possibile,» lo ammonii, «perché, se sarà necessario, il mio equipaggio farà uso delle armi. Anzi, date le circostanze, direi che il loro autocontrollo finora è stato ammirevole. Sarà meglio che tu mi dica con parole semplici quello che è successo.» «Quello...» Rhaiz trasse un profondo respiro e ingoiò la sua rabbia. «Quello che è successo, Aldair, è per colpa di quella montagna di carne che hai portato con te. Non so come si chiama, e non me ne importa. Ha profanato il suolo sacro, un'offesa che per gli Avakhar è intollerabile.» «Che ha fatto? Che cosa ha profanato?» «Il Chela per essere esatti. Il lungo delle sepolture degli Avakhar.» Dopo aver detto questo, rabbrividì per un istante. «Non è piacevole parlarne, ma suppongo di doverlo fare.» «Penso che sia una buona idea, altrimenti non verremo mai a capo della faccenda. Dunque... che cosa ha fatto Juumb'ar sul vostro suolo sacro?» «Ha liberato le sue viscere,» scattò Rhaiz. «Ecco quello che ha fatto!» «Davvero?» «Davvero.» Ironia del destino. L'unica caratteristica che il Kenyarshii e gli Avakhar avevano in comune - l'abitudine di defecare su qualsiasi cosa fosse in vista - si era trasformata in un atto di profanazione da lavare col sangue. D'altra parte, dopo la mia visita alla sede della creazione, non c'era più nulla, di quel popolo, che fosse in grado di sorprendermi. «Sono profondamente dispiaciuto per quello che è successo,» gli dissi, «ma sono certo che quella povera creatura non aveva la minima idea di ciò che stava facendo. Ben poche volte sa ciò che fa.» «Le sue intenzioni hanno poca importanza. Quello che è fatto è fatto.» «...e non lo si può disfare,» completai la frase per lui, mentre sentivo crescere dentro di me un profondo fastidio per i problemi spirituali degli Avakhar. «Per quanto riguarda la natura della profanazione, tuttavia, Rhaiz, mi viene in mente che sarebbe difficile dissacrare un luogo delle sepolture degli Avakhar. Se tutte le creature della Terra devono ancora nascere, non c'è ancora nessuno vivo che possa morire. Mi sembra perciò difficile che si possano profanare tombe inesistenti.» Rhaiz mi rivolse un'occhiata incandescente.
«Quel che dici non mi sorprende, dato che tu non sei un Avakhar, e quindi ignori i piani del Creatore. Io non ho detto che quanti sono sepolti nel Chela sono morti. Questa parola è tua, non nostra. Anche i bambini sanno che viene un momento in cui si smette di respirare. Non sappiamo perché ciò avvenga, ma succede a tutti. Il fenomeno non ha certamente nulla a che vedere con la morte, la quale, come hai sottolineato tu, non potrà manifestarsi prima dell'inizio del mondo. Comunque, le creature che smettono di respirare diventano immobili, rigide e cominciano a puzzare in modo insopportabile. Di conseguenza, è necessario confinarle nel Chela.» Eventuali commenti mi parvero superflui. Mi limitai a ringraziare educatamente, aggiungendo che apprezzavo la sua spiegazione. «Di nuovo, Rhaiz, mi scuso nei confronti degli Avakhar. Sono profondamente desolato per quanto è successo.» «Inutile dire che le tue scuse non sono accettabili,» rispose rigido Rhaiz. «Sarà meglio che tu e il tuo popolo lasciate il suolo di Indrae il più presto possibile. Per gli Avakhar non siete più i benvenuti.» «Procurerò che ciò sia fatto immediatamente,» assicurai, e mi volsi verso Rhalgorn. «Il profanatore, ovviamente, deve rimanere qui.» «Come?», mi voltai di scatto. «Aspetta un momento...» Rhaiz mi interruppe. «Aldair, devi ascoltare quello che sto per dirti. Questa offesa non può rimanere impunita. È accaduta, e le parole non bastano a cancellarla. So che tu hai intenzione di sfidarci. So anche che gli Avakhar non hanno armi in grado di contrastarti. Non siamo un popolo guerriero. Ma combatteremo per proteggere le nostre credenze. Tu potrai farci un gran danno: ma la mia gente è molto più numerosa della tua. Alla fine, molte creature giaceranno immobili sul terreno, senza respiro né movimento. E alcune di esse non saranno Avakhar.» Nella sua voce non c'era più rabbia, ma soltanto fredda determinazione. Quegli immobili occhi d'oro mi dicevano chiaramente che era deciso a condurre quella follia fino all'estremo limite. «Rhaiz,» feci, «non posso permettere che tu faccia del male a quell'essere. Non si è neppure reso conto di quello che ha fatto.» Rhaiz mi fissò con espressione di sorpresa. «Ma non ho detto che gli avremmo fatto del male, Aldair. Ho detto che sarebbe stato punito.» «C'è differenza?»
«Certo. La punizione non è compito che spetti ai non nati. È una delle prerogative del Creatore. Quell'essere sarà scacciato da qui e inviato in quella direzione,» e indicò il nord, «verso la Grande Desolazione.» «E laggiù che cosa gli accadrà?» «Nulla. È un luogo sterile, e privo d'ogni cosa. Lì non c'è nulla che possa fargli del male.» Risi a piena gola. «Né che possa aiutarlo, immagino,» feci. «Hai uno strano modo di usare le parole, Rhaiz. Non gli verrà fatto del male. Morirà, e basta.» «Ti sbagli,» fece Rhaiz solennemente. «Non può morire chi non è ancora nato.» Non potevo permettere che a Juumb'ar accadesse una cosa simile. Qualsiasi cosa fosse, era un essere vivente, e meritava un destino migliore di quello che gli si prospettava. «In tal caso,» dissi, «lo accompagnerò in quel posto. È troppo stupido per viaggiare da solo.» «Aldair,» fece Rhalgorn spalancando gli occhi. «Hai forse perduto il senno?» Rhaiz mi fissò per un lungo istante, annuì, e voltò le spalle, allontanandosi. «Questa è pura follia,» ringhiò lo Stygiano. «Quel grosso barile di lardo non vale certo una vita, Aldair. Ci ha appestato dall'inizio di questa avventura, e se il dio degli Avakhar vuol godere della sua compagnia, io per primo sarei felice di mandarlo a fargli visita.» «Rhalgorn,» risposi, «sono profondamente e piacevolmente meravigliato per questo tuo improvviso risveglio spirituale.» «È meglio che morire. Condizione, come sai, che è più che realizzabile tanto per il mio popolo che per il tuo.» «Non ho nessuna intenzione di fare esperimenti al riguardo,» spiegai. «Se la cosa servirà a soddisfare gli Avakhar e ad evitare una battaglia, accompagnerò Juumb'ar fino a questa Desolazione, o qualsiasi cosa sia. Avverti Signar di seguire la costa verso nord. Taglierò verso occidente non appena saremo fuori vista degli Avakhar, e vi raggiungerò.» Rhalgorn sembrava a disagio. «Sembra facile, a dirsi. È così per tutte le cose, ho notato, finché non si comincia a farle.» Non sapeva lui stesso quanto giuste fossero le sue parole. Lo scoprii presto a mie spese.
VENTUNO Mentre guardavo i miei compagni alzare le vele e allontanarsi dalle coste di Indrae, pensavo che probabilmente ero stato uno sciocco a fidarmi della parola degli Avakhar. Quegli esseri potevano essere colpiti da un momento all'altro da una nuova illuminazione spirituale, e concepire una forma di punizione del tutto diversa per Juumb'ar; qualcosa, per esempio, che implicava l'immersione nel fiume per un periodo sufficiente a far cessare le funzioni respiratorie. Tutto è possibile per una razza che pone nelle sue tombe gli esseri ancora non nati. Comunque, malgrado i miei timori mantennero la loro parola. Anche perché - sospetto - già sapevano che non esistono torture maggiori di quelle che è in grado di infliggere la Grande Desolazione. Senza troppe cerimonie, venimmo portati alcune leghe a nord lungo il fiume, attraverso una foresta densa come quella dei Kenyarshii. Ad un certo punto, però, la fitta cortina di alberi si interruppe bruscamente, e ci trovammo in una pianura arida e desolata, arrostita da un sole di rame. Alla vista, il cuore mi fece un tuffo nel petto. Dietro di me, Juumb'ar emise un gemito pietoso, e rotolò gli occhi dalla paura. Io ho conosciuto il Grande Deserto a sud di Chaarduz, dove insieme con Thareesh per poco non persi la vita combattendo contro le orde ribelli di Fhazir. È certamente un luogo pauroso. In quel momento, tuttavia, lo ricordai quasi con affetto. Lì, in quella che gli Avakhar chiamavano giustamente la Grande Desolazione, la terra stessa sembrava essere in fiamme, come la superficie del Sole che splendeva impietoso e rovente. Il suolo sotto i nostri piedi era scabro e rosso, coperto di sottili schegge di pietra che scricchiolavano sotto i nostri passi e bruciavano attraverso il cuoio degli stivali. L'aria era immobile e arida, densa come uno sciroppo. Fu lì che gli Avakhar ci abbandonarono. Rhaiz si limitò a fare un gesto verso nord, indicando il nulla, e scomparve dietro gli alberi con i suoi compagni. Ero sicuro, tuttavia, che erano rimasti di vedetta dietro i tronchi per osservare le nostre mosse. «Meglio cominciare a incamminarci,» dissi a Juumb'ar. «Di fronte a noi abbiamo una passeggiata non breve né comoda.» Il Kenyarshii tremava come gelatina. «Noi non andare lì lontano,» piagnucolò. «Non trovare da bere né da
mangiare lì, Aldair!» «Avremo cibo e acqua quando saremo di nuovo sulla nave. Non ci metteremo molto. Per il momento, faremo senza.» La creatura si ficcò il naso in bocca e cominciò a piangere, rifiutando di muoversi. Però, quando gli voltai le spalle e cominciai a camminare per conto mio, ritrovò d'incanto le forze e si mise sulle mie peste, ansando e lacrimando dietro di me. In un deserto si può morire in fretta. Senza gli abiti adatti, come quelli che indossano i carovanieri di Niciea, il Sole a picco ti arroventa la pelle e ti frigge il cervello. Senz'acqua, in poche ore il corpo si dissecca come una roccia. Osservando quella terra nuda e terribile, le parole che avevo detto a Rhalgorn mi sembravano frutto di un attacco di idiozia. Era stato facile dire «Taglierò verso occidente e vi raggiungerò.» È vero, la nave si trovava a non più di un giorno di cammino: ma un giorno calcolato sulle facili strade della Gaullia, non sull'inferno che stavamo attraversando. Smisi presto di contare le volte che Juumb'ar crollò a terra, sdraiandosi in attesa della morte. D'altra parte, se il nostro viaggio non fosse cominciato nel tardo pomeriggio, quindi con il Sole non troppo alto, di certo sarebbe morto dopo non molto tempo. C'è per la verità da considerare anche il diverso atteggiamento nei confronti della vita, fra me e i Kenyarshii. Non voglio certo dire che io mi sia divertito, durante la nostra marcia: ma Juumb'ar sin dall'inizio era convinto che sarebbe morto, e lui stesso non perdeva occasione per fare il primo passo verso tale ineluttabile conseguenza. Quando il Sole finalmente scomparve immergendosi in un lago di fuoco, ci sdraiammo grati sul terreno, anche se quest'ultimo era ancora così caldo da far venire le vesciche. «Possiamo riposarci solo per un momento,» dissi. «Non di più.» Juumb'ar non rispose. Rimase immobile a fissarmi con occhi vuoti. La pelle grigia e incartapecorita gli pendeva in grandi pieghe disseccate sul corpo enorme. «Non andare in nessun posto, Aldair,» disse finalmente. «Juumb'ar volere acqua!» «È proprio per questo che non possiamo fermarci,» spiegai. «Dobbiamo camminare durante la notte, Juumb'ar. Il mare non può essere lontano, ormai. Possiamo raggiungerlo prima del mattino.»
«Ma quelle cose volanti verranno a farci del male! Verranno, Aldair!», si lamentò. «Non preoccuparti per loro.» «Io paura. Paura di loro. Io volere acqua, Aldair.» Di certo, pensai, il Creatore deve avere un fine imperscrutabile per avermi imposto la compagnia di quella specie di gigante infantile. Perché mai proprio io dovevo trovarmi in quel posto, ad arrostirmi il muso fino all'osso? Sarebbe mai andato qualcosa nel verso giusto, in questa avventura? Col crepuscolo, il suolo terribile si ammorbidì un poco. Juumb'ar sedeva come un immenso mucchio di stracci, silenzioso e senza fiato. Se lo lasciassi qui - mi dissi - da solo probabilmente potrei farcela a raggiungere il mare. Con lui dietro a rallentarmi il cammino, il prossimo tramonto vedrà invece due viandanti morti nella Grande Desolazione. Girandomi sul terreno ancora caldo, sentii sotto il mio corpo qualcosa di duro, come una pietra. Allungando la mano per levarmela di sotto, mi accorsi che non si trovava sul suolo, ma nella mia tasca. Quando la sollevai nella debole luce della prima sera, la piccola sfera lattiginosa brillò fiocamente. Stanco com'ero, sentii ugualmente un brivido di eccitazione lungo la schiena. Come potevo pensare alla resa, quanto il mondo intero, con tutte le sue terre sconosciute, era lì, nel palmo della mia mano? Non avevo grande interesse a morire nella Desolazione, e lo avrei evitato, finché possibile. Per quanto riguarda Juumb'ar, avrei fatto del mio meglio per aiutarlo. Ma anche lui doveva fare la sua parte. Tutto mi faceva male. Anche quei pochi momenti di riposo mi avevano irrigidito. Poggiai le mani al suolo, per sollevarmi. Prima una gamba, poi l'altra. Alla fine ero ritto, con entrambi i piedi ben piantati per terra. Saldo come una roccia. Sì, però... All'improvviso, il mio stomaco si rivoltò, e vidi il paesaggio oscillare e liquefarsi intorno a me. Sentii le ginocchia che mi si piegavano, e le tenebre che stavano per ingoiarmi. No, mi dissi fermamente. Non puoi permetterti di svenire, Aldair. Se svieni, la notte scivolerà via, e domani il Sole alto ti porterà la morte sicura.... VENTIDUE
La cosa mi stringeva nel suo artiglio corneo, e rideva. Tossivo con la faccia nel fango in fondo ad un mare scuro e fetido, e questo sembrava divertire immensamente la creatura. Emise strani versi d'esultanza, e mi spinse ancora più profondamente nella melma. Ansimai cercando di respirare; sentivo che i miei polmoni erano sul punto di scoppiare. La cosa lesse la mia paura come se fosse incisa a parole gigantesche sulla roccia, e rise, rise, rise.... Le mie stesse grida mi destarono dall'incubo. Mettendomi a sedere di scatto, mi guardai attorno nella notte. La vista delle tenebre che mi circondavano spazzò via subito le false paure, e mi riempì di un terrore reale e concreto. Per quanto a lungo avevo dormito? Quante delle preziose ore senza Sole avevo lasciato dietro di me? Per lo meno, all'orizzonte non si vedevano le pallide strisce che annunciano l'aurora. C'era ancora qualche tempo prima che il Sole assassino sorgesse a reclamarci. «Juumb'ar, dobbiamo subito... Juumb'ar?» Alzandomi in piedi, scrutai all'intorno. «Juumb'ar?» Era scomparso. Chiamai di nuovo, ma dalla notte non venne alcuna risposta. Sarebbe nobile e bello poter dire che camminai in lungo e in largo alla ricerca del Kenyarshii, perdendo preziosi minuti di frescura. In verità, invece, non feci nulla del genere. Se avessi pensato che c'era una possibilità su mille di trovarlo e di trascinarlo con me fino al mare, avrei tentato la sorte. Ma ero arrivato ormai a un punto in cui non potevo andare più avanti, senza rischiare la mia vita per nulla. Se mi fossi messo subito in cammino, forse sarei riuscito a raggiungere il mare. Altrimenti, sarei morto. Anche una sola ora sotto il Sole rovente sarebbe stata più che sufficiente a uccidermi. A occidente, dunque, in cerca dell'Ahzir. Conoscevo bene i miei compagni, e sapevo che erano già sulla riva ad aspettarmi. Forse avevano anche disseminato segnali lungo la riva, per orientarmi, in modo che... Mi fermai, e un pensiero mi gelò fino alle ossa. Occidente? Ma, per il Creatore, dov'era l'occidente? Il cielo nero come l'inchiostro si apriva su di me, punteggiato da milioni di stelle. Nessuna di esse mi era familiare. In quella notte non c'era nulla
che io conoscessi, nessuna costellazione che potesse guidarmi. Disperatamente, frugai nell'immensità, cercando di riconoscere almeno una delle figure che Signar mi aveva insegnato. Dov'era il Manto del Mugnaio, che avrebbe dovuto pendere sull'orizzonte? Se l'avessi trovato, mi avrebbe indicato il nord, e avrei capito dov'era l'occidente. Ma se non l'avessi trovato... Risi a voce alta. Con l'alba, avrei di certo trovato la strada. Anche le rape sanno che il Sole sorge a oriente! All'improvviso, un suono tagliò le tenebre e mi fece rizzare i capelli. Pochi istanti dopo, si udì di nuovo. «Juumb'ar!» gridai. «Sono qui!» Quel lamento pietoso mi era fin troppo familiare. Voltandomi mi incamminai nella sua direzione, alla massima velocità consentita dalle mie stanche gambe. Si faceva sempre più vicino. «Juumb'ar!» Davanti a me, il terreno cominciò a sollevarsi, curvandosi fino a delineare una collinetta arida e bassa. Scivolai con gli stivali sulla superficie disseccata, lanciando terriccio tutt'intorno. «Juumb'ar!» Finalmente, raggiunsi la cresta e la superai... ... e caddi nel vuoto, dall'altra parte, artigliando l'aria con le mani. Le mie dita scavarono solchi nella parete a picco che formava il lato opposto della collinetta. Precipitai. Fu una caduta lunga, terribile, che mi parve durare per milioni di anni polverosi. La creatura del mio incubo, che non ero riuscito a vedere, mi balzò addosso. Potevo sentirne il tanfo, avvertivo la sua fame oscena mentre mi afferrava, e dilaniava, e lacerava nella sua mente... Poi tutto si fermò. Avevo la bocca piena di terra, sentivo il gelo della pietra contro la mia guancia. Allungai la mano, e sentii ancora pietra. Aprii gli occhi, e vidi contro che cosa mi ero fermato. Era un alto dito di pietra, che si levava sopra di me nel cielo notturno. Ce n'erano altri, tutt'intorno. Scure colonne massicce, alcune alte sul suolo, altre corte e tozze come dita troncate. Toccai quella contro cui mi trovavo per esserne sicuro, ma non ne avevo bisogno: a prima vista, mi ero reso conto che erano fatte con la pietra dell'Uomo. In che posto ero mai capitato? mi chiesi. Non ero stupito del fatto che si trattasse di un luogo dell'Uomo, perché tutto sommato eravamo ancora abbastanza vicini alle torri degli Avakhar. Senza dubbio, dovevano esserci numerosi luoghi come quello, tutto intorno alla città oggi abitata dalle creature-uccello. Solo che quel posto aveva intorno a sé un'aria speciale. Un
tremendo senso di desolazione. Come se qualcosa vi fosse cominciato, e poi fosse finito bruscamente. C'era di certo una ragione logica per questo, decisi. Qualcosa che aveva poco a che fare con il luogo in sé stesso. Perché ormai avevo capito bene la fonte delle sensazioni che mi avevano travolto presso quella collina. Juumb'ar aveva trovato un altro dei suoi maledetti amuleti. Non poteva trattarsi d'altro. Il Kenyarshii era evidentemente capace di fiutare quelle cose da lontano, come un cavallo fiuta l'acqua. Per il momento, le colonne che mi separavano dalla cosa rendevano meno intenso il suo potere. Ma c'era. Potevo sentirne gli effetti come una morsa gelida alla base della nuca. E questo, ovviamente, faceva nascere un altro problema. Se Juumb'ar aveva trovato un altro di quegli oggetti, come avrei potuto convincerlo ad abbandonarlo, e a mettersi in cammino prima che il Sole sorgesse, arrostendoci? Io non sapevo dov'era, e quanto a lui... Mi guardai intorno. Colonne. Tenebre. Nulla. Poi, qualcosa... un'ombra nera, squadrata. Grande, con attorno ombre più piccole. Cautamente, mi avvicinai, badando bene a mantenere sempre una colonna fra me e il posto dove pensavo che si trovasse Juumb'ar. Con le dita toccai una superficie di metallo, piatta ma resa ruvida e corrosa dall'età. Spingendo più oltre la mano, vidi che non si trattava di un solo oggetto, ma di qualcosa di composito, come un insieme di scatole o quadrati metallici. Ogni scatola era larga circa mezzo metro, e le ombre più piccole che avevo visto erano singole scatole cadute dall'alto della pila. In qualsiasi altra occasione, avrei avuto grandissimo interesse per i manufatti dell'Uomo, quali che fossero. Ma in quel momento avevo un solo pensiero: strappare Juumb'ar al suo orrendo giocattolo e correre come una lepre verso il mare, sempre che fossi riuscito a trovarlo. Forse la mia mente era troppo concentrata su questo problema, per cui abbassai la vigilanza. Fatto sta, che feci una cosa molto stupida. Mentre scivolavo nel buio fra le scatole cadute, arrivai alla fine della pila... e continuai ad avanzare. La paura che mi aveva colto a bordo dell'Ahzir e, nuovamente, pochi istanti prima, non era nulla più che il morso di una zanzara. Non sono in grado di descrivere la cosa che mi toccò all'improvviso. Non voglio nemmeno provarci. Sono certo, però, che fu il suo stesso enorme potere a salvarmi la vita, perché irruppe su di me con tale violenza da avere un concreto e reale effetto fisico, facendomi barcollare all'indietro e ricadere fra la
pila di scatole. All'istante, scomparve. Ma ciò che avevo visto lì, non lo dimenticherò mai. Se gli dèi volevano prendersi gioco di me, quello era il momento buono. Mi ero allontanato dal mio obiettivo, avevo attraversato mari sconosciuti e mi ero perso su una terra strana. Ero stato perseguitato dalle tempeste, dai Rhemiani e dagli Avakhar. Ero stato innaffiato di urina, seppellito dagli escrementi e fatto oggetto del ludibrio di una vergine reale. Eppure, nessuna di queste cose era stata per me tanto pestilenziale quanto Juumb'ar dei Kenyarshii. Una volta, a Silium, vidi dei ragazzacci legare un pesce marcio alla gamba di un folle. Il poveretto non aveva alcuna idea di dove venisse il fetore, e se lo portava con sé ovunque andasse. La mia maledizione era molto più grande di un pesce, e anche più puzzolente. Non posso fare a meno di pensare che ci sia stata una intenzione ironica deliberata dal destino, nella piega presa dagli eventi: infatti, era stato proprio quell'ammasso di carne stolida e fetida a portarmi nel luogo che avevo cercato alzando le vele fino ai confini del mondo. Nei pochi istanti in cui l'avevo intravisto, mi ero reso conto che ciò che stringeva il Kenyarshii non era un semplice amuleto. Intorno a lui c'erano scatole, una pila simile a quella presso la quale io mi trovavo. Solo che, da quella parte, era scivolata una grande forza, e vi si annidava come un topo nel formaggio. Le scatole, o ciò che ne era rimasto, giacevano tutto intorno, come un cumulo di detriti. Erano spente, annerite. Ma qualsiasi cosa le avesse distrutte, ne aveva lasciata una intatta, o quasi. Una delle scatole conservava ancora il suo potere. Solo che sulla sua superficie c'era una crepa, sottile come un capello. E attraverso quella crepa, un debole scintillio rosso si diffondeva nella notte. Che forza immensa e terribile era chiusa in quella scatola! L'occhio dell'amuleto di Juumb'ar ci aveva quasi distrutti, eppure il potere racchiuso in ciascuna di quelle scatole era centinaia di migliaia di volte più grande. Non potevo sapere perché l'Uomo avesse cominciato ad erigere quelle colonne nel deserto, lasciando poi la sua opera a metà. Né che cosa avesse portato la rovina fra le strutture di metallo. Ma ormai avevo capito che il posto intravisto nelle finestre sotto Albion non si trovava, come avevo creduto, nel deserto sotto Niciea, ma lì, nella Grande Desolazione. Era quello il luogo in cui erano custoditi gli oggetti
orribili che avevano chiuso le porte della storia, riducendo tutte le creature in schiavitù. Le stelle ruotavano nel cielo. Era la mia immaginazione, o all'orizzonte spuntava già una lieve ombra grigia? «Juumb'ar, ascoltami! Sono io, Aldair!» Nessuna risposta. Intanto, il cielo si era fatto più chiaro. Anche se ci fossimo messi in cammino in quello stesso momento... «Juumb'ar, rispondimi!» Un gemito appena impercettibile. «Juumb'ar, devi venire fuori di lì, subito!» «Non più venire,» mi rispose una voce piagnucolosa. «Juumb'ar restare qui, Aldair.» «Non puoi restare lì. Se resti, morirai. Lo capisci questo, Juumb'ar?» «Juumb'ar non morire!» «Sì che morirai, stupido!» Mi venne in mente un'idea. Mi allontanai di qualche passo dalla pila. «Juumb'ar,» feci, «io me ne vado. Me ne vado ora. E ti lascio lì. Senza cibo né acqua. Mi hai inteso?» Certo che mi aveva inteso. Ma la povera creatura era ormai perseguitata da una fame più intensa, e più orribile. «D'accordo,» gridai. «Rimani pure lì, se vuoi! E sai una cosa? Le creature volanti stanno arrivando. Sono vicinissime. E stanno cercando proprio te, Juumb'ar!» Un lamento altissimo e disperato lacerò la notte. Era un suono che sembrava racchiudere tutto il terrore e la solitudine del mondo. E corse di gran carriera attraverso le pile di scatole nere, scuotendo la terra sotto i suoi passi. I suoi occhi erano dilatati per la paura; il naso emetteva rumori spaventosi, le orecchie enormi si agitavano come foglie nella tempesta. Mi venne incontro con tutta la velocità consentita dalle sue gambe corte e tozze, e quando fu abbastanza vicino, vidi che teneva ben stretta fra le braccia, premuta contro il petto, la scatola mortale. VENTITRÉ Se il Mondo di Là è così, decisi, merita certamente una visita. Niente più soli ardenti che arrostivano le carni, ma il fresco refrigerio di una dolce
brezza che accarezza la pelle. Non più raggi accecanti, ma una rosea penombra che avvolge tutte le cose, immergendole in un profumo di gelsomino. «Aldair?» Qualcosa si mosse nell'ombra. Uno spirito amico che si avvicinava per darmi il benvenuto. «Aldair... mio caro Aldair, parlami, ti prego!» Dita morbide mi accarezzarono. Labbra fresche si poggiarono sulle mie, e vi rimasero a lungo. Se prima dubitavo, adesso ero sicuro: mi trovavo in Paradiso. Non avrei mai pensato di meritarmelo. Per di più, in aggiunta a tutti gli altri comfort tipici del luogo, il Creatore benevolo mi aveva fornito anche di una femmina innamorata. Era identica a Corysia in tutto e per tutto, salvo che per una cosa: quella celeste creatura non graffiava, non tirava calci e non strillava come una gatta. Anzi, praticava tutte le piacevoli arti che ci si augura di trovare in un mondo migliore. Al mio successivo risveglio, non vidi più né il Mondo di Là, né la gemella di Corysia. Su di me torreggiava l'immensa e pelosa figura di Signar-Haldring. «E così, sei di nuovo fra gli esseri viventi. Come va?» Sul muso gli si stampò un ghigno di compiacimento. «Signar... Dove mi trovo?» Uno sbuffo familiare venne da dietro le spalle del vikoniano. «Là dove sono anch'io, per la verità,» fece Rhalgorn. «Spero, prima di lasciare questo mondo, di udire parole più originali.» «La cosa avverrà prima di quanto pensi,» ringhiò Signar, «se non tieni a freno la tua linguaccia da stygiano. Aldair, per un po' ci hai fatto stare davvero in pena. In quel posto, il Sole ti ha quasi mangiato vivo. Sono già tre giorni che ti abbiamo riportato a bordo. All'inizio...» «Riportato...» Mi alzai di scatto, mentre i ricordi si affollavano nella mia mente. Fitte di dolore mi trafissero da più parti. Ricaddi giù, boccheggiando in cerca di respiro. «Per il Creatore!» fece Signar. «Non devi muoverti così. Sei cotto come un arrosto!» «Signar, Rhalgorn... Io devo sapere quello che è successo laggiù. Mi ricordo solo di Juumb'ar che correva verso di me, con quell'oggetto
dell'Uomo fra le braccia!» Rhalgorn e Signar si scambiarono occhiate interrogative. «Se parli di quella strana scatola,» disse lo Stygiano, «non devi preoccuparti, Aldair. È sul ponte, proprio ora. Juumb'ar stesso l'ha portata a bordo per te.» Sbarrai gli occhi, e cercai di alzarmi lottando contro il dolore e contro braccia amichevoli che cercavano di farmi stare giù. Alla fine, non sentii più alcun male, e sprofondai grato in un mare denso e grigio. Mentre le forze e la ragione mi ritornavano, misi insieme le sparse fila degli eventi capitati senza di me. I miei amici non si erano limitati ad aspettare che li raggiungessi attraverso la Grande Desolazione, ma si erano rapidamente messi in cammino per cercarmi. Ci avevano trovati, chiaramente appena in tempo. Juumb'ar era ancora in piedi, lamentandosi in direzione del Sole, e camminando nel senso sbagliato. Cosa sorprendente, portava me sulle spalle. Per quale motivo si fosse preoccupato di caricarsi del mio peso, non posso immaginarlo. Per quella creatura, un atto del genere è del tutto innaturale. Mai, in nessuna circostanza, lo avevo visto mostrare compassione per qualsiasi altro essere vivente. Non riuscimmo a capire che cosa gli fosse passato per la mente in quelle ore, perché dopo il suo ritorno a bordo dell'Ahzir non volle pronunciare una sola parola. Qualcosa gli era accaduto, nella Desolazione. Il tremendo potere della cosa fabbricata dall'Uomo gli aveva risucchiata ogni oncia di volontà, lasciandolo privo di una mente sua propria. Non voleva né mangiare né bere, ed era del tutto inconsapevole della nostra presenza. Non c'era nulla che potessimo fare per lui, e alla fine, cinque giorni dopo il nostro ritorno dalla Grande Desolazione, Juumb'ar dei Kenyarshii morì in silenzio. È difficile dire quali sentimenti ci ispirasse quella creatura. Ci aveva procurati infiniti fastidi. Non aveva alcuna qualità positiva che valesse la pena di prendere in considerazione, e a bordo dell'Ahzir non si era fatto alcun amico. Come potrei affermare, senza menzogna, che venne compianto o rimpianto? Thareesh il nicieano si espresse al riguardo nel modo migliore: «Quella creatura non poteva essere né amata né disprezzata, Aldair, perché al di dentro non aveva che il nulla. Tuttavia, non era colpa sua, ed io non lo disonorerò con la mia pietà.» Se Juumb'ar aveva lasciato qualcosa a bordo dell'Ahzir, questo era un
nuovo e terribile odio per gli esseri morti da tempo che gli avevano rubato l'anima. Provammo a risolvere il mistero della scatola nera. Quando tutte le soluzioni logiche vengono meno, si deve per forza cercare più in là. L'oggetto dell'Uomo era chiaramente con noi, e la sua presenza sembrava proiettare sul ponte ombre sinistre. Poiché c'era, ma non ci aveva distrutti, ciò che era accaduto appariva chiaro. Quando lo avevo spaventato minacciando l'arrivo degli Avakhar, Juumb'ar non aveva preso con sé il cubo che liberava le emanazioni mortali, ma un altro. Oppure, il cubo era in qualche modo connesso alla struttura metallica, e distaccandolo non funzionava più. Una risposta valeva l'altra. Comunque, in bene o in male, avevamo a bordo una di quelle cose. Quando raccontai ai miei compagni quello che mi era successo nel deserto, e riferii i miei pensieri a proposito di ciò che avevo scoperto, tanto Signar che Rhalgorn consigliarono di gettare in mare la cosa. Io dissi che non ero d'accordo, e loro mi fissarono come se fossi diventato pazzo. «Sembra che tu abbia già dimenticato quello che ci è successo sull'altro lato di Kanyarsha,» ruggì Signar. «E tu stesso hai detto che quell'amuleto non era nulla al confronto di questa cosa!» «Non l'ho dimenticato,» risposi, «ma non ho dimenticato nemmeno il motivo per cui siamo arrivati fin qui, rischiando la vita contro i Rhemiani, il mare, e cento altri pericoli. Noi siamo partiti proprio per cercare questa cosa. E ora l'abbiamo trovata. Non voglio neppure pormi delle domande sulla successione di eventi che mi ha condotto in quel luogo nel deserto, né sul come uno degli oggetti custoditi nel luogo dell'Uomo mi ha seguito fin qui. C'è molto di misterioso in tutto questo. Ma il fatto è che ora l'abbiamo con noi, e dobbiamo tenercelo.» Mi fermai per un istante, e li fissai negli occhi. Era il primo pomeriggio, e dal nord soffiava un venticello fresco e piacevole. Da entrambe le nostre fiancate, ora, si vedeva terra. La costa di Kenyarsha a occidente, e a oriente quella di chissà quale altra regione. Molto tempo prima, Thareesh mi aveva detto che si può raggiungere l'oriente navigando attorno a Kenyarsha. Io stesso avevo stretto fra le dita un modello piccolo ma perfetto del nostro mondo, e avevo visto il punto in cui le acque in cui navigavamo incontrano quelle del Mar Meridionale. Oggi sono certo, poi, di averle viste io stesso, quando insieme con Nhidaaj il Cygnano galoppavo verso Xandropolis con il piccolo principe dei Nicie-
ani. Là, prima del mio incontro nel deserto con il veggente dagli occhi gialli, Nhidaaj mi mostrò la cima di grandi piramidi che sorgevano da acque tenebrose, e mi disse che erano le cose più antiche che vi fossero al mondo. A quell'epoca non sapevo che era stato l'Uomo, il grande nemico, a costruirle. Mi dispiace dire che il piccolo globo che avevo trovato fra gli Avakhar non è più in mie mani. Si trova molto lontano da noi, sulle pietre ardenti della Grande Desolazione, dove senza avvedermene lo persi. Mi dispiace molto, perché vorrei rivederlo di nuovo. «Nessuno di noi vuole negare l'importanza della nostra ricerca,» stava dicendo Signar. «Nessuna creatura che abbia appreso il vero segreto di Albion non darebbe la vita per fare ciò che deve essere fatto. Ma non faremo certo un favore al mondo propalando la follia.» «Signar,» risposi, «io non credo che questa cosa ci porterà alla follia. Di qualsiasi cosa sia fatta, la sua struttura ha resistito per centinaia di secoli o più. La ragione mi dice che fino a quando la scatola di metallo rimarrà intatta, non ne soffriremo alcun male.» «Già, la ragione,» fece Rhalgorn sbuffando e scrollando le magre spalle. «Quello che dice Aldair è vero,» sibilò Thareesh. «Io ho esaminato quella cosa, e penso che sia relativamente semplice aprirla...» «Come?» La coppa scivolò dalle dita di Rhalgorn. «Per favore...» Thareesh alzò una mano verdastra. «Non ho detto che l'ho aperta. Solo che si può fare facilmente. Ci sono due semplici chiusure su due lati.» «E la cosa potrebbe accadere... accidentalmente?», chiesi, allarmato quanto Rhalgorn a questa informazione. «Non sarebbe facile, ma penso che possa accadere, se la scatola viene colpita con violenza. Mi sorprende,» aggiunse lanciando a Rhalgorn uno sguardo maligno, «che tu non abbia scoperto la cosa da solo, considerata la grande curiosità degli Stygiani per tutto ciò che è chiuso e serrato.» Rhalgorn ringhiò, ma non disse nulla. «In ogni caso, fate in modo che ci sia sempre un marinaio di guardia attorno a quella cosa,» dissi. «E penso che sarebbe bene legarla con delle funi.» Signar mi lanciò uno sguardo grave. «Il che significa,» osservò, «che è destinata a rimanere a bordo.» «Certo.»
«Una volta misi una vipera sotto un secchio,» fece Rhalgorn. «Rimase al sicuro fino a quando non riuscì a scivolare fuori e a infilarsi nel letto di un mio cugino. Fortunatamente, eravamo solo lontani parenti, e non lo conoscevo molto bene.» «Non abbiamo a che fare con vipere,» gli feci notare. «Lo so, Aldair. E anche se a quanto pare tu giudichi la mia storia sciocca e priva di importanza, ti avverto che in essa è racchiusa una certa saggezza. Se dobbiamo tenere quella cosa sotto un secchio, per dir così, suppongo che abbiamo una ragione molto seria per farlo.» Annuii, e allungai la mano per riempire la mia coppa. «Mi pare che in quell'oggetto ci sia la chiave di due grandi segreti,» risposi. «In primo luogo, quei cubi racchiudono una forza ignota che ha il potere di indurre terrore, visioni spaventose e, al limite, la follia. In un certo senso, sono amuleti giganteschi. E poi, sono simili alle cose che hanno isolato Albion per secoli, circondandola di paura e conservando i segreti dell'Uomo. In secondo luogo, possono essere qualcosa di ancora più importante. Quelle stesse cose, o cose molto simili, hanno guidato la storia da quando siamo stati abbandonati nel mondo e ci è stata data la ragione. Hanno funzionato tanto da sentinella quanto da scudiscio nelle mani dell'Uomo. Sappiamo che dovevano esistere, ma nulla di più. Ora sappiamo che questo tremendo potere può essere confinato. Ovunque siano nascoste sulla Terra queste cose, col tempo potranno essere trovate, e fermate. Sul nostro ponte di sicuro c'è la morte. Ma possiamo imparare a vincerla.» «Forse,» fece cupo Rhalgorn. «Nei Lauvectii abbiamo un detto, che suona così: È difficile studiare una vipera sotto un secchio, ma è stupido studiarla in qualsiasi altro posto.» «Non credo proprio che esista un detto simile fra i Lauvectii,» risposi, non nascondendo la mia irritazione. «No, non esiste,» ammise Rhalgorn. «Ma ci sarà, se mai un giorno riuscirò a tornare a casa.» VENTIQUATTRO Quella notte, il sonno non voleva venire. Più di una volta chiusi gli occhi, per trovarmi in una terra d'incubo, e risvegliarmi subito. Una volta, sognai che una grande vipera strisciava fuori della cosa sul ponte e scendeva fino alla mia cabina, cercandomi con occhi
verdi e lucenti. Un'altra volta sognai di Rhamil, in cima alla sua torre. «Tutti i pensieri del cosmo sono stati assorbiti,» annunciava. «È tempo che il mondo cominci, Aldair.» Mentre parlava, la creazione ebbe luogo con un triste e lamentoso gemito. Nacqui da un uovo piccolo e macchiettato, e quando vidi il mio nuovo aspetto... Alla fine, decisi che tanto valeva alzarmi e salire sul ponte a godermi un po' del vento fresco della notte, dopo essermi lavata la faccia. Su di me brillavano nuovamente le familiari stelle dei cieli del nord. L'Azhir solcava le onde, lasciando dietro di sé una lunga scia candida. Mi riempii i polmoni di aria salmastra e mi misi ad ascoltare la notte. Forse fu l'effetto dell'aria fredda sulla mia pelle ancora ustionata, o forse un residuo degli incubi di poco prima. Fatto sta che per un momento fui sopraffatto da un terribile senso di solitudine e di pena. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, e desiderai ardentemente di trovarmi lontano da lì, nelle ampie vallate degli Eubironi. Ricordai gli odori del mercato, e i colori dell'autunno. Rividi i volti dei miei familiari e dei miei amici, come se fossero davanti a me. Anche gente che conoscevo appena mi sembrava ora infinitamente cara al mio cuore. Il duro lavoro della mia giovinezza era un ricordo felice, e i lunghi, noiosi giorni dietro l'aratro nei campi erano la cosa più piacevole che avessi mai provato. All'alba gran parte di quelle sensazioni erano svanite, e mi sentivo né meglio né peggio di prima. Dopo un buon boccale di birra raggiunsi gli altri sul ponte e annunciai che avremmo attraversato il Mar Meridionale Rhemiani o non Rhemiani - e avremmo fatto vela verso Albion. Lì, avremmo consegnato il nostro «secchio di vipere» a Fabius Domitius e agli altri studiosi che erano al lavoro nelle sale sotterranee. Nessuno parve sorpreso per questa decisione. Più tardi, nel pomeriggio, le coste ai nostri due lati si avvicinarono considerevolmente. Comparvero ciuffi di palme e stormi di uccelli bianchi. Signar decise saggiamente che era meglio non navigare di notte in acque come quelle. Aveva appena dato ordine di gettare l'ancora quando una vedetta annunciò che avevamo compagnia: una dozzina di cavalieri che galoppavano sulla spiaggia. In pochi secondi, l'equipaggio era pronto a combattere, con le armi in pugno. Se davvero eravamo dove pensavo, cioè nei pressi di Xandropolis, quei visitatori potevano essere di qualsiasi razza: Rhemiani, predoni del
deserto, o, peggio ancora, ribelli seguaci di Fhazir. Si fermarono, prudentemente al di là del nostro raggio di tiro. Era chiaro, ora, che si trattava di Nicieani: cavalieri sottili su snelle cavalcature, con i volti nascosti sotto i cappucci dei lunghi barracani. «Che ne pensi?», chiesi a Thareesh. «Di questi tempi, chi può essere sicuro di niente? Non è più tanto facile distinguere gli amici dai nemici, a Niciea. Chiunque siano, diamo loro qualche cosa su cui meditare.» Annuii, e, come avevamo già fatto sull'altro lato di Kenyarsha, alzammo sull'albero maestro il vessillo reale dell'Impero Niceano. La vista della bandiera verde trapunta di occhi d'oro fece levare grida di giubilo dal gruppo dei cavalieri. Sul ponte, eravamo felici come bambini, perché era passato molto, molto tempo dall'ultima volta che l'Ahzir al'Rhaz aveva gettato l'ancora fra amici. Il capo gruppo si chiamava Sha'desh. Era stato Capitano della Cavalleria Imperiale, aveva combattuto all'assedio di Chaarduz, ed era un suddito fedele dell'Impero. Quando apprese che io ero lo straniero divenuto rhadaz'meh dell'Aghjir Tharrin, fratello del Re, dai suoi occhi senza palpebre affiorarono lacrime irrefrenabili. «Allora,» disse, «non ho bisogno di annunciarti, perché nessuno lo sa meglio di te, che il giovane principe vive. Niciea sanguina copiosamente dalle sue ferite, ma il tempo ci farà tornare di nuovo forti.» Sha'desh sapeva certamente che è una cosa fuori del comune vedere un vascello che fa vela verso nord diretto al Mar Meridionale. Tuttavia era un guerriero, e anche se era curioso, sapeva nascondere i suoi sentimenti. Invece, ci diede consigli su ciò che potevamo aspettarci proseguendo sulla nostra rotta. «Il Mar Meridionale è a non più di un giorno di navigazione da qui. Se intendete entrarvi, vi avverto che la costa è in mano dei Rhemiani. Ci sono molti vascelli da guerra al largo, e nell'entroterra le truppe si spingono fino a Xandropolis.» Si interruppe e sputò con disgusto sulla sabbia. «Quella città non è più un libero punto di incontro per tutti i popoli, come una volta. Gli unici mercanti che entrano nelle sue mura sono Rhemiani, o la marmaglia di Fhazir. Sembra che vadano d'accordo meravigliosamente, il che non è affatto straordinario.» Meditai un attimo sulle sue parole. «Non credo che sorveglino troppo attentamente l'ingresso del Mare Me-
ridionale, da questa parte,» dissi. «No,» rispose Sha'desh. «Direi proprio di no. Non si aspettano certo nessuno, da quella direzione.» «Quindi, un vascello veloce avrebbe buone possibilità di scivolare nella notte e guadagnare il mare aperto senza troppi pericoli.» «Ottime possibilità, direi, Aldair,» risposte Sha'desh ghignando. «Soprattutto se, nel frattempo, accadessero eventi tali nell'entroterra da attirare tutta l'attenzione dei Rhemiani.» «Una cosa del genere sarebbe grandemente apprezzata.» Il Capitano annuì. «Non siamo molti, forse. Ma se ci mettiamo d'impegno, sappiamo fare un mucchio di chiasso.» La cena, quella sera, fu molto piacevole. Sha'desh e due suoi ufficiali si unirono a noi a bordo dell'Ahzir. Si versò molto vino, molta birra, e i Nicieani portarono un grosso orcio di d'sheiashhii, la dolce, pastosa zuppa fatta con diverse varietà di insetti che è il piatto nazionale del loro paese. Thareesh naturalmente, ne fu deliziato, e Rhalgorn si ricordò delle buone maniere, non facendo alcun commento a proposito dei «mangia-scarafaggi». Forse ciò si deve al fatto che Signar lo aveva minacciato, in caso contrario, di impiccarlo all'albero maestro. Ma io preferivo pensare che lo Stygiano avesse cominciato ad apprezzare il valore guerriero di quella gente. Ci sono poche cose che i Signori dei Lauvectii tengano per sacre; ma rispettano l'onore dei guerrieri, tanto degli amici che dei nemici. Di certo, quei Nicieani che combattevano contro tutto il mondo per amore della loro nazione lacerata, meritava tutto il nostro rispetto e tutta la nostra ammirazione. Chi può mai comprendere le vie di una donna? Dall'epoca della mia avventura nella Grande Desolazione, Corysia aveva fatto di tutto per evitarmi, ed era chiaro che non voleva ricordare ciò che c'era stato fra noi. Forse pensava che la mia febbre fosse troppo alta perché potessi ricordarmi di quel suo momento di tenerezza... o forse sperava che me ne ricordassi, ma non voleva chiedermelo. In ogni caso, quella sera impreziosì la nostra tavola con la sua presenza, e fu graziosa ed educata con tutti: compito non facile, per chi, per nascita e ambiente, è abituato a tutt'altri modi. Come sempre, aveva posto molta cura nel suo aspetto, anche se era ben lontana dalle tinture, i cosmetici e le ancelle cui senza dubbio era abituata. Intorno al muso c'era un tocco di co-
lore, e altrettanto sulla pianta delle orecchie rosa. La luce morbida delle nostre lampade accendeva di riflessi il suo sottile abito di satin, e i capelli attorno alle guance erano accuratamente modellati in piccoli ricci. Essendo una donna che seguiva i dettami della moda, si era strappata con cura le setole: un'abitudine che ho trovato sempre molto eccitante. Guardare, ovviamente, non è la stessa cosa che toccare. E senza la seconda cosa, la prima risulta di solito molto infelicitante. In ogni caso, decisi, un sentimento che si manifesta soltanto in condizioni di semiincoscienza, non è destinato a diventare gran che. Prima dell'alba eravamo già tutti in piedi, perché ormai i nostri piani erano tracciati, e c'era molto da fare prima del calar del Sole. Non c'era necessità di attendere a lungo in quello stretto braccio di mare. Se Sha'desh e i suoi cavalieri avevano potuto avvistarci, altrettanto potevano fare le truppe rhemiane. Avremmo perciò aspettato il tramonto, e avremmo remato per gran parte della notte, fino a giungere in vista del Mar Meridionale. Sha'desh e i suoi cavalieri ci avrebbero accompagnato, sulla terra, per gran parte del nostro viaggio, separandosi soltanto nei pressi di Xandropolis. Il niceiano mi assicurò che quella notte molte delle strutture del porto avrebbero «incidentalmente» preso fuoco. Non appena avessimo visto le fiamme all'orizzonte, avremmo dovuto inoltrarci nel mare aperto. Questo era il nostro piano, e si svolse più o meno come previsto. Il cielo al di sopra della costa in mano rhemiana si illuminò, quella notte, come se stesse per sorgere nuovamente il Sole, dandoci per la verità più luce di quanta ne sarebbe stato desiderabile. Tuttavia non avvistammo alcuna nave rhemiana e, chissà per quale miracolo, nessuno avvistò noi. Cogliemmo un buon vento, e facemmo vela verso occidente in direzione degli Stretti, e, al di là di essi, per Albion. L'esperienza del passato avrebbe dovuto insegnarmi che ogni volta che facciamo rotta verso una destinazione lontana, finiamo sempre da qualche altra parte. Ho già avuto modo di ricordare che è una grande fortuna per noi l'essere ciechi per quanto riguarda il nostro futuro. VENTICINQUE Per tutto il resto della notte, il cielo alle nostre spalle rimase colorato da una sottile striscia arancione: il segno della coraggiosa «azione diversiva» messa in atto dai Nicieani. Verso sud-est, una serie di punti di luce segui-
vano la nostra rotta, procedendo subito dopo l'Ahzir. Signar emise un profondo sospiro di soddisfazione nel vederli. «Il nostro amico ha fatto proprio un buon lavoro, questa notte,» disse. «Non so come, ma ha fatto una bella retata di navi rhemiane nei porti, e le ha incendiate tutte!» Contammo più di sei vascelli che andavano alla deriva in fiamme, ma soltanto uno rimase visibile fino all'alba. Era ad una lega da noi: uno scafo annerito dal fumo, con gli alberi ridotti a mozziconi carbonizzati. A giudicare da quello che ne restava, era un vascello per la vigilanza costiera, più sottile e più veloce della maggioranza delle navi rhemiane. Nel calore della battaglia, l'urlo della ciurma vittoriosa si leva in genere possente sulle grida dei nemici. Gente che grida di giubilo e gente che urla di terrore prima di morire affogata, mentre gli insulti dei vincitori continuano a lungo anche dopo che la nave sconfitta è scomparsa sotto le onde. Quella volta, tuttavia, a bordo dell'Ahzir ci fu silenzio, perché quella vista non invogliava a festeggiare la vittoria. Il Sole fece capolino a oriente, dipingendo d'oro le acque grigie e illuminando la tragedia che si era consumata vicino a noi. Sul mare galleggiavano tronchi anneriti e detriti di ogni genere. Una cassa mezzo bruciata spuntò per un attimo dalle onde, e poi scomparse di nuovo. «Odio quella gente,» fece Signar, «ma questo, per un marinaio, è il modo peggiore di morire, a qualsiasi razza appartenga.» Il grande vikoniano scosse la testa e girò la schiena, gridando ordini per accelerare la nostra rotta verso occidente. Fummo lieti di lasciare alle nostre spalle quella vista, e ogni persona a bordo trovò presto qualcosa da fare. La nave incendiata era quasi scomparsa, quando la vedetta lanciò un grido, e ci tirò tutti sul ponte. Potevo a mala pena credere ai miei occhi, ma era lì: un vecchio marinaio, del quale si vedevano solo la testa e le spalle: dietro la nostra poppa. Ecco una persona alla quale gli dèi hanno sorriso, mi dissi, perché soltanto una grande fortuna poteva averlo tratto vivo da quell'inferno. Fortuna, tuttavia, era la parola sbagliata, perché quando portammo a bordo quel poveraccio, vedemmo che era gravemente ustionato, e soffriva in modo indicibile. C'era poco che potessimo fare per lui, e cercammo almeno di metterlo comodo. I guerrieri hanno una sensibilità particolare nei confronti della morte e dei morenti, perché sono sempre al loro fianco. «Non durerà a lungo,» fece Thareesh.
«Per sua fortuna,» aggiunse lo Stygiano. «Leverò una preghiera agli dèi dei boschi dei Lauvectii; se riusciranno a sentirmi al di là di questo grande corpo d'acqua, forse gli doneranno una morte rapida e facile. Altrimenti,» aggiunse toccando l'elsa della sua spada, «io che non sono troppo sensibile per queste cose, potrei decidere di compiere di persona il lavoro.» A queste parole, gli occhi del vecchio marinaio si dilatarono, e il poveretto artigliò con le mani i legni del ponte, cercando di fare un pietoso tentativo di ributtarsi in mare. Feci allontanare Rhalgorn e mi inginocchiai vicino al morente, offrendogli dell'acqua. «Non hai nulla da temere,» gli assicurai. «Sei fra amici, e da noi non ti verrà alcun male.» Ingoiò l'acqua avidamente, ma era troppo terrorizzato per parlare. Date le circostanze, la cosa era comprensibile. Anche senza la minaccia di Rhalgorn, la vista di tante creature di specie diversa doveva averlo quanto meno confuso. Nel mondo normale, la gente è abituata a vedere le genti di razze diverse dalla propria soltanto in catene, o morte, o armate e in atto di uccidere. In ogni caso, dopo aver bevuto l'acqua, si distese sulle tavole del ponte. Sono sicuro che sarebbe morto lì senza più muoversi, se in quel momento non fosse comparsa Corysia. Non appena la vide, balzò a sedere con un grido. Un gesto che gli tolse quasi del tutto le poche forze che gli rimanevano. Corysia impallidì, cadde in ginocchio vicino a lui e gli pose la testa nel grembo. Lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance, e il vecchio marinaio, pur attraverso il suo dolore, riuscì a sorridere. «Aldair...» Corysia sollevò verso di me gli occhi supplicanti. «Non puoi fare qualcosa? È ferito... soffre...» «Non c'è nulla che io possa fare,» risposi. «Sta morendo, Corysia.» L'ira le alterò i lineamenti, ma il Rhemiano la fermò. «Ha ragione, mia Signora,» disse. «E non c'è nulla che io possa desiderare, ormai, se non vederti. Per il Creatore, è una vista grazie alla quale muoio felice, perché ora so che sei viva e stai bene. Ti avevamo data per dispersa, per morta...» Si interruppe, ricordandosi di dov'era, e alzò lo sguardo per cercarmi gli occhi. «Non temere, vecchio amico,» lo rassicurò lei. «Sono al sicuro, con questa gente. È una lunga storia, la mia, Proctorius. Sarò felice di raccontartela, quando starai meglio.» Cercò di sorridere. «Quanti racconti ho ascoltato sulle tue ginocchia, da bambina. È tempo che sia io a narrartene uno... an-
che se difficilmente ci crederai.» «Oh, io ti crederei, mia Signora,» mormorò stancamente il vecchio. «Se soltanto avessi tempo...» «Ma tu non stai per morire,» fece lei, fermamente. «Io... io non lo permetterò. Mi hai sentito?» «Sì, mia Signora, e vorrei poterti obbedire, come sempre...» «Lo farai, se lo desideri.» «Mia Signora...» «Ora, però devi riposare. Abbiamo molto da dirci, ma più tardi. Un giorno saremo di nuovo a Rhemia, insieme. Sederemo nel nostro posto favorito, nei giardini, e tu mi racconterai che cosa stava facendo un vecchio soldato come te sul mare, e io ti racconterò le mie avventure. E poi... Proctorius!» Corysia soffocò i singhiozzi col dorso della mano. Mi inginocchiai vicino a lei e le posi le mani sulle spalle. «Corysia», dissi, «mi dispiace. Sta morendo.» «No!» Al grido, il vecchio Rhemiano riaprì gli occhi. Si stava spegnendo, ma aveva ancora una scintilla di vita. «Mia Signora...» «No, non parlare.» «Io... devo. Ascolta, mia Signora... non... tornare... a... Rhemia. Non devi... no!» «Che cosa? Proctorius.» Scosse la testa debolmente per farla tacere. «C'è il male, laggiù, mia Signora. Un orrore spaventoso... si è scatenato... si sparge rapido come la peste... Non devi...» Vidi il momento stesso in cui la Morte venne e soffiò sopra i suoi occhi. Anche Corysia vide, si coprì il volto e pianse. Rimase immobile, stringendo a sé il vecchio soldato, finché con gentilezza non la separammo da lui e portammo via il corpo. Che cosa avesse voluto dire, non potevo saperlo, perché a Rhemia c'è sempre qualcosa di torbido. È così per tutti gli Imperi, per quello rhemiano come per quello nicieano e qualsiasi altro. Le intenzioni di chi regge il potere hanno poca importanza. I Nicieani desideravano solo il meglio per il proprio popolo, ma questo non impedì la rovina della casa reale. È vero, forse, che nessun grande potere può resistere in eterno, e ciascuno porta in sé i semi della propria rovina Dopotutto, anche l'Impero dell'Uomo, che ha
modellato il mondo, è morto e scomparso. Rharlgorn interruppe i miei pensieri, porgendomi un plico. «Era indosso al Rhemiano,» disse, «legato attorno alla sua cintola, sotto gli abiti.» Il plico recava il sigillo imperiale, ed era confezionato con cura. Malgrado ciò, il mare aveva fatto il suo lavoro, e soltanto parti del messaggio erano ancora leggibili: Per Marcus Quintus Comandante della Guarnigione di Xandropolis Hai l'ordine di ritirare tutte le tr da Xandropolis e di rit imm a Rhemia. Chi ti reca questo essaggio, Proc s è f leale. Egli ti rif a voc se che non è pru mettere per iscr Imper ive ma la ebe rivolta, perciò fai att tradimento è ovunq e da ogni parte vi son gli agen dell'eretico Fabius Domitius che spiano e uc Magius Cal e n Cons l di Rh ia Dem ii 8 4 0 Br i e o Il mondo si mise a girare intorno a me come impazzito. Allungai la mano in cerca di un appoggio qualsiasi, e trovai lo Stygiano. Lui mi fissò, stupefatto, e subito al suo fianco corsero Signar e Thareesh. Non riuscivo a trovare parole. Che cosa potevo dire? Che tutto ciò che avevamo creduto di conquistare era perduto? Che non potevamo più far vela per Albion, perché Albion era discesa su Rhemia? Non avevo parole per un'enormità come quella. «Neanch'io riesco a crederci,» fece il vikoniano. «Quello studioso così tranquillo e gentile.» Scosse la testa e immerse il naso nel boccale. «Quello studioso così tranquillo e gentile ci ha traditi tutti,» dissi, «ed è inutile fantasticare di un altro che porta lo stesso nome, o illudersi che ci sia un errore.» Picchiai con forza il pugno sul tavolo. «Credetemi, è lo stesso Fabius Domitius che abbiamo lasciato in Albion. Il tranquillo studioso Fabius è l'eretico. Fabius che si è trasferito a Rhemia. E solo il Creatore sa quali orrori ha portato con sé!»
Nessuno parlò, ma sapevo quello che tutti stavano pensando. «Non possiamo essere sicuri di quanto è successo,» disse infine Signar. Si grattò il petto e aggrottò la fronte. «Il messaggio di quel vecchio soldato diceva ben poco.» Gli altri mi guardarono, aspettando, perché avevano tutti in mente la stessa cosa. «È vero,» feci, «ma ci ha detto abbastanza. Non abbiamo bisogno di sapere di più, per renderci conto che siamo in pericolo. Sappiamo che è tornato da Albion, e questo è abbastanza.» «Aldair ha ragione,» intervenne Rhalgorn. «Sembra che da quel luogo non venga mai nulla di buono.» Mi alzai, fissandoli tutti. «Sentite. Se pensate che io abbia lavorato troppo di fantasia, ditemelo senza timore. Siamo vecchi compagni, e le vostre opinioni sono le benvenute. Rhalgorn? Thareesh? E tu, Signar... è vero che sarebbe stato meglio se il vecchio avesse detto qualcosa di più. Ma, dannazione, che cosa poteva dire di più di questo!» E cavai di tasca il messaggio sbiadito, agitandolo sotto le loro facce. «Pensate che l'Impero richiamerebbe a Rhemia le proprie Legioni, se non ci fosse nulla di preoccupante?» Thareesh guardò in alto con gli occhi senza palpebre. «Nessuno sa che cosa Fabius abbia appreso in Albion, o quale forza l'abbia invasato per spingerlo a rivoltarsi contro di noi,» fece. «Ma Aldair dice la verità. Non dobbiamo chiederci che genere di orrore abbia portato da Rhemia. Per capirlo, basta guardare non più lontano del ponte dell'Ahzir.» Signar spalancò gli occhi. «Ma non può aver liberato un orrore come quello!» «Per farlo, avrebbe dovuto essere folle quanto l'Uomo, non di più,» rispose Thareesh. Guardai in fondo al mio boccale, scrutando tra la feccia del vino. «È inutile continuare a far congetture. Dobbiamo sapere. Non c'è altro da fare.» Per un lungo momento, nessuno parlò. Infine, Signar ruppe il silenzio. «Sei stato chiaro, Aldair, e senza dubbio hai ragione.» «Verso Rhemia, dunque,» fece Rhalgorn. «Non c'è altra via, non credete? Come potremo fare, non so dirlo, perché in questo momento non c'è posto più pericoloso per noi sulla faccia della Terra.» «Io so come si potrà fare, Aldair, anche se tu non lo sai.» Mi girai sulla sedia e vidi Corysia, immobile nel vano della porta. Chissà
da quanto tempo era lì. «È una cosa che posso fare,» aggiunse con calma. «Dimmi dove vuoi andare, ed io ti ci condurrò. Perché sembra che sia la mia terra, che ora vogliono distruggere.» VENTISEI Dire che Corysia operò miracoli per farci entrare a Rhemia non è un'esagerazione. Tutt'intorno c'erano cose che le ricordavano la giovinezza, ed ogni nuovo ricordo fu di aiuto per noi. Guidò l'Ahzir in una piccola baia nascosta a nord della città. Perfino Signar rimase stupefatto, perché era un posto nel quale nessuno avrebbe mai immaginato che potesse esservi una baia agibile. Tuttavia, c'era. Un marinaio straniero in quelle acque vi sarebbe passato davanti senza accorgersene. Corysia, invece, vi aveva giocato da piccola. Poi, c'erano sentieri nei boschi e strade che passavano attorno ai piccoli villaggi, che potemmo percorrere senza rischi. Infine, nella città di Rhemia stessa, c'erano vicoli e cortili così oscuri che anche i più disperati fra i ladri ne sarebbero stati alla larga. «Per una fanciulla di lignaggio reale,» dissi annusando l'aria mefitica all'intorno, «hai una conoscenza davvero rimarchevole delle peggiori suburre.» «E tu sei fortunato, Aldair, che talvolta le fanciulle non abbiano la vocazione delle cosiddette vere signore,» mi rispose con uno sconcertante lampo negli occhi. Non indagai più a fondo, perché mi sembrava dell'umore adatto per farmi le confessioni più intime sulla sua giovinezza, ed io non ero troppo sicuro di volerle ascoltare. «Che orrore, le città,» sibilò Rhalgorn torcendo il muso grigio. «Ciascuna è più disgustosa dell'altra. Come fa un guerriero a sapere se ci sono nemici in giro, quando l'unico odore che sente è la puzza di spazzatura?» «Se tu fossi nato in una città,» spiegò Thareesh, «non avresti problemi. Ne avresti imparato gli odori, come hai fatto con quelli della foresta.» Rhalgorn, ovviamente, si rifiutò di credere a quell'assurdità. «È un luogo davvero poco corretto e decente, per uno Stygiano,» commentò. Nella nostra prima notte a terra, Corysia ci portò velocemente attraverso il paese, fin quasi ai limiti della città. Ci riparammo in un cascinale abbandonato, dove rimanemmo nascosti fino al calare della notte seguente,
quando lei andò in avanscoperta per cercar di raccogliere qualche notizia. Non avevamo la più pallida idea di quello che poteva aspettarci. L'Imperatore Titus Augustus era ancora sul trono? Qual era il potere che era riuscito ad ottenere Fabius Domitius? Speravo che Corysia potesse rispondere a queste domande. Quando le tradussi in parole, Signar mi rese noto quello che pensava lui della faccenda. «Intanto, bisognerà vedere se tornerà,» fece in tono cupo, anche se conosceva i miei sentimenti al riguardo. Thareesh gli lanciò un'occhiata di rimprovero ma l'effetto sul Vikoniano fu nullo. Quanto a me, non dissi nulla. Sapevo bene di aver posto la vita di tutti noi nelle mani della stessa fanciulla rhemiana che avevo rapito nelle strade della lontana Duroctium. La possibilità che lei potesse tradirci mi era passata per la mente più di una volta. Per qualche motivo, tuttavia, ero sicuro che non l'avrebbe fatto. Corysia non aveva molte ragioni per allearsi con noi, però amava la sua terra di nascita... l'amava almeno quanto ciascuno di noi se ne sentiva invece nemico. Era quasi l'alba quando tornò. Dapprima non la riconoscemmo: circostanza comprensibile, dato che era rivestita dell'armatura d'ordinanza dei soldati rhemiani. Per di più dietro di lei venivano due cavalli, carichi di provviste e condotti da un vero legionario di Rhemia. Thareesh stava già per trafiggere tutta la compagnia con le sue frecce, quando lo fermai. «Bene,» fece freddamente Corysia quando glielo dissi «Se voi quattro eroi non mi avete riconosciuta sotto il travestimento, e probabile che non ci riuscirà nessun altro.» L'uomo che accompagnava Corysia si chiamava Gaius Le era talmente fedele, pronto ad eseguire qualsiasi suo ordine, ma era chiaro che la nostra vista non gli piaceva affatto Faceva forza su se stesso e scambiava qualche parola con me, se necessario, ma non si avvicinava neppure ai miei compagni. Dopo una buona razione di birra e salsicce, Corysia ci raccontò la sua storia. Avevo già intuito che non ci portava buone notizie. «È ancora peggio di quanto si potesse immaginare,» fece «L'eretico e i suoi complici controllano ormai il cuore della città. Molti nobili sono stati imprigionati o uccisi La Chiesa e in rovina perché, astutamente, è stato lì che Fabius ha vibrato i suoi primi colpi. Sembra che abbia assassinato molti dei Buoni Padri che ricoprivano le cariche più alte ed abbia lasciato
in vita il Santo Padre stesso soltanto per ricattare coloro che ancora si rifiutano di obbedirgli.» La voce di Corysia si fece gelida. «In realtà, sembra che non abbia bisogno di grandi minacce nei confronti dei cittadini di Rhemia. Molta gente del popolo e persino molti ecclesiastici hanno abbracciato spontaneamente la sua causa perché, a quanto sembra, compie miracoli spettacolari. Aldair,» aggiunse amaramente, «già lo chiamano Figlio del Creatore!» Balzai in piedi a queste parole. «Miracoli? Che genere di miracoli, Corysia?» Fu Gaius a rispondere. «Ho assistito a queste cose io stesso, anche se naturalmente...» e lanciò un rapido sguardo a Corysia, «...non credo che siano veri miracoli.» «Raccontami, per favore. Descrivimi esattamente quello che hai visto.» «Quando Fabius Domitius si mostra in pubblico, cosa che per la verità non avviene spesso, ha sempre in mano un cilindro di metallo lucente. Di notte, quella cosa proietta a grande distanza un fascio di luce azzurra. Nessuno aveva mai visto prima una cosa simile! Nessuna candela e nessuna lampada potrebbe fare niente del genere. E si dice,» prosegui Gaius arrossendo e girando gli occhi, «anzi, gli eretici e i loro seguaci sostengono che si tratta della stessa luce azzurra che un tempo apparve sopra...» «...Albion,» terminai per lui, perché il legionario sembrava incapace di pronunciare la parola. Per una persona che non crede ai miracoli, Gaius metteva una bella dose di emozione nelle sue parole. Il Rhemiano raccontò di altre meraviglie che Fabius Domitius usava per incutere rispetto ai suoi seguaci... anche se lui, naturalmente, non ci credeva. C'era un bastone che emetteva un rumore di tuono e uccideva tutti coloro contro i quali veniva puntato. C'erano mantelli e stivali che sembravano fatti d'oro e argento vivo. C'era un sedile posto sopra due ruote che trasportava a velocità straordinaria una persona che vi si metteva a cavallo. Quest'ultimo - commentò Rhalgorn - non sembrava un modo decente di viaggiare per un Figlio del Creatore. Nessuno di questi «miracoli» mi meravigliava, perché Fabius Domitius aveva avuto molto tempo a disposizione per frugare nei depositi dell'Uomo nascosti sotto Albion. Io stesso avevo visto all'opera in quel luogo le luci straordinarie. Sono davvero cose stupefacenti, anche se sono convinto che nel mondo dell'Uomo fossero il mezzo normale di illuminazione. Ma come
si poteva sperare che il comune cittadino di Rhemia capisse una cosa simile? A quel che sembrava, Fabius Domitius aveva avuto bisogno di portare con sé solo pochi oggetti per scuotere le fondamenta di un impero. Sapevo, tuttavia, che doveva avere con sé altre armi, ben più potenti, e tremavo al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere se l'Imperatore avesse deciso di impiegare le Legioni che aveva richiamato nella capitale per contrastarlo. Con la voce che le tremava per la vergogna, Corysia mi disse che persino alcuni Nobili della corte avevano deciso di allearsi con Fabius Domitius. Suo padre, si affrettò ad aggiungere, non era naturalmente così sciocco da farsi coinvolgere in questa follia. Gaius riferì che si nascondeva fuori città, mentre l'Imperatore stava chiamando a raccolta i reparti ancora fedeli del suo esercito. Purtroppo, anche fra i militari molti avevano ceduto alle seduzioni dell'eretico. Non fece commenti al riguardo, ma non ne fui sorpreso. Il soldato rhemiano soggiace spesso all'inquietante tentazione di mutar signore, Imperatore compreso, per motivi anche meno gravi di quelli che coinvolgono le convinzioni religiose. Per la verità le legioni di Rhemia, sembrano particolarmente influenzabili dalle persone dotate di una bella voce, e con le tasche ben fornite di argento. Mentre ascoltavo questi racconti, venni colpito violentemente dalla consapevolezza di avere già vissuto qualcosa di molto simile. Ricordavo ancor con dolore le vicende di Chaarduz, la grande capitale di Niciea. Rivedevo i suoi palazzi in fiamme, mentre i Nobili abbandonavano le loro sedi e si chiedevano se ci si potesse fidare dell'esercito. Gran parte dei militari rimase fedele: ma, alla fine, la cosa fece ben poca differenza. Il Gran Sacerdote Bhurzal gonfiò il popolo di terrore, e quindi aprì le porte della città al ribelle Fhazir. Le circostanze, ovviamente, non erano le stesse. Ma non erano neppure troppo differenti. Corysia aveva pensato molto al modo di farci entrare senza pericoli in città. Io, lei e Gaius indossammo divise da soldati, mentre Rhalgorn, Signar e Thareesh ci seguirono in catene come schiavi esotici. In questo modo, navigammo senza troppe difficoltà attraverso i vicoli stretti e le piazze fetide di Rhemia, fino alla casa di Gaius il legionario. E forse val la pena di notare, con una sfumatura di ammirazione per
l'Impero e per i suoi cittadini, che anche nel mezzo dell'anarchia e della ribellione il nostro passaggio venne appena notato, ed anzi passò fra la generale indifferenza. D'altra parte, la schiavitù era cosa comune, e la vendita di un essere umano ad un altro era cosa normale sotto tutti i cieli. VENTISETTE La casa di Gaius era nel quartiere settentrionale, dove abitano soprattutto soldati e mercanti. Lì, gli edifici erano talmente addossati gli uni agli altri che era praticamente impossibile capire dove cominciasse l'uno e finisse l'altro. Alla bellezza della zona donava un prezioso tocco il fetore orrendo e stagnante del fiume vicino, che trasportava al mare gli escrementi di un quarto di milione di persone. Rhalgorn e Signar avevano feroci commenti da fare al riguardo. Agli occhi di Rhemia, gli Stygiani e i Vikoniani sono barbari rozzi e selvaggi, che mancano della cultura e della saggezza tipiche dei cittadini dell'Impero. In verità, tuttavia, va detto che nessuna di queste due razze ha l'abitudine di costruire città sopra i cumuli delle stesse immondizie. È difficile arrivare a una precisa definizione del "barbaro", perché le opinioni al riguardo cambiano con i paesi. Tuttavia, a giudicare dalla mia esperienza, possono definirsi "barbare" quelle popolazioni che vivono il più possibile lontano dal puzzo dei propri simili. L'oscurità cadde poco dopo il nostro arrivo, e dal terrazzo della casa di Gaius potemmo osservare la città angustiata lottare contro se stessa. Attraverso la notte, giungevano grida di allarme. Soldati in armatura correvano lungo i vicoli pavimentati da ciottoli, e sullo sfondo di tutto ciò si udiva il suono inconfondibile del ferro che cozzava contro il ferro. Più di una volta, in direzione del sud, vedemmo levarsi il bagliore di un incendio, che aggiungeva grandi fiori vermigli al fuoco delle stelle, e si riverberava nel milione di piccoli occhi aperti nella notte di Rhemia. Quando il vento soffiava nella nostra direzione, venivamo raggiunti dal fumo di questi incendi, e dall'odore potevamo distinguere ciò che stava bruciando. Una volta, tra sentori meno piacevoli, venimmo avvolti da un profumo di spezie e di miele. «Quando tanta gente è ammassata in un solo posto, disse Signar, «non c'è da meravigliarsi se sorgono guai.» Non c'è dubbio che avesse ragione.
Negli Eubironi si dice che Madre Giorno mette a letto la Paura. A Rhemia non era così. La paura era bene sveglia anche di giorno, in agguato in ogni strada e in ogni piazza. La città tratteneva il respiro, aspettando dietro le imposte sbarrate ciò che poteva accadere minuto dopo minuto. «Lo so che tu conosci bene la città,» stavo dicendo a Corysia che, come al solito, aveva manifestato idee diverse dalle mie. «Il fatto è che la Rhemia che tu conosci non è più quella in cui ci troviamo. Quella di oggi è un luogo pieno di pericoli e di tradimento, e sarebbe idiota avventurarsi nelle sue strade.» «Aldair, Rhemia è sempre stata piena di tradimento, nonché di pericoli.» Con un movimento della splendida testa, sottolineò le sue parole. La leggerezza con la quale affrontava l'argomento mi mandava in bestia, e lei lo sapeva. «D'accordo,» ammise alla fine, «non sono i tempi migliori. Ma sarò prudente, e Gaius mi accompagnerà. Conosco la città, Aldair, e ci sono ancora troppe cose che dobbiamo imparare su questo Fabius Domitius. Tu stesso hai detto che sarebbe difficile avvicinarsi a lui, anche se avessimo degli alleati fra la sua gente.» Quello che diceva era vero, ma non valeva certo a mitigare le mie preoccupazioni. «Sarebbe bene che venissi anch'io con te,» feci. Corysia sorrise. «A dire il vero, non credo, Aldair.» «Perché no? Non penserai che voglia mostrarmi vestito come sono, con gli abiti del Clan dei Venicii. Indosserò una divisa da soldato.» «L'ho capito.» «E allora?» «Non è solo questione di... abiti.» «E di che?» «Aldair...» Si morse un labbro e fece girare gli occhi nel vuoto. «Non vorrei offenderti... ma il fatto è che tu non sembri un Rhemiano.» Io sono lento di comprendonio, a volte, ma alla fine capisco. «Vedo che non hai appreso gran che dai tuoi viaggi,» dissi freddamente. «Sei ancora una dama dell'aristocrazia.» Corysia sospirò. «Non fare l'arrabbiato, ora,» disse. «Non intendevo dire nulla che ti sminuisse.» «Bene. Allora non ti sorprenderà sapere che non me ne è mai importato
un fico secco di somigliare o no a un Rhemiano. Anzi, là da dove vengo, la cosa non viene considerata per nulla desiderabile.» La conversazione durò ancora per un po', ma non vedo la necessità di riportarne altri passaggi. Quando avevamo deciso di fare rotta per Rhemia, io avevo immaginato - e sperato - di vedere l'inizio di una differente e più sopportabile Corysia. Evidentemente mi ero sbagliato: il modello originale era ancora con noi. Alla fine uscì, portandosi dietro Gaius e un gelido silenzio. Noialtri barbari venimmo lasciati soli a badare a noi stessi. Non fu impresa facile, per noi quattro rinchiudersi in quell'appartamento piccolo e puzzolente, senza aver null'altro da fare che attendere e godere dei piaceri della vita in città. Avevamo vino da bere, ma era della qualità peggiore, quella che gli osti tengono in serbo per la soldataglia, che si accontenta di tutto. In aggiunta, però, avevamo una bella razione di mosche per tenerci compagnia. Su Rhemia c'è da dire questo: anche i cittadini più poveri hanno tutte le mosche che potrebbero desiderare, e anche di più. «Non avrei mai creduto di dover un giorno dire questo,» brontolò Rhalgorn, mentre rovesciava sul pavimento la feccia rimasta in fondo alla sua tazza, «ma rimpiango quella dannata barca. Non è decente viaggiare attraverso grandi distese d'acqua, ma almeno lì l'aria è respirabile.» «È una nave,» fece Signar in tono rassegnato. «Una nave, Stygiano, non una barca.» Rhalgorn lo ignorò. «Naturalmente, se potessi esprimere un desiderio, vorrei trovarmi tra le foreste dei Lauvectii, a caccia di lepri in un bel giorno d'estate.» I suoi occhi rossi si infiammarono, e la coda tremò. «Ti dirò una cosa che neppure io avrei mai creduto,» feci. «Preferirei andare con te a caccia di lepri, piuttosto che trovarmi rinchiuso in questa fogna al centro di Rhemia.» Rhalgorn ghignò, mostrando i denti. L'idea di un guerriero dei Venicii che seguiva le tracce di una lepre insieme con uno Stygiano, evidentemente lo divertiva molto. Da guanto tempo se ne era andata Corysia? mi chiesi. Sembrava da più di mezza giornata, ma poteva anche essere da meno di un'ora. Il pessimo vino e l'aria fetida avevano fatto pagare un caro prezzo al mio cervello. Signar giaceva addormentato in un angolo della stanza, perché nella casa non c'erano giacigli grandi abbastanza per accogliere la sua mole. Rhal-
gorn ciondolava davanti alla porta che si apriva sul cortile, con gli occhi semi-chiusi e le orecchie grigie pendenti lungo il cranio. Un nugolo di mosche ronzava attorno al suo naso. Thareesh aveva salito la stretta scalinata che portava sul tetto, e faceva la guardia lassù. Ed io? Avevo cercato di fare qualcosa, ma non ricordavo neppure che cosa, e non lo ricordo ancora. Anche oggi, di tutta la scena che seguì, ricordo solo pochi frammenti indistinti. Udii qualcosa. Ricordo che cercai di aprire un occhio, poi un altro, e pensai che non era un comportamento abituale, per Thareesh, scendere giù per le scale urlando e agitandosi come un contadino ubriaco. All'improvviso, mi risvegliai. Thareesh era avvinghiato come una corda attorno alla corazza di un Rhemiano, con la spada rossa di sangue. Rhalgorn era un grigio lampo di morte. I Rhemiani erano numerosi come le mosche, nella stanza, mentre io cercavo di raggiungere una spada che non riuscivo a trovare. L'urlo di Signar lacerò l'aria, mentre il suo enorme pugno nero calava come un maglio schiacciando un elmo crestato, insieme con la testa che conteneva. Poi, un soldato grasso e puzzolente mi schiacciò a terra con lo scudo, soffiandomi in faccia il suo respiro carico d'aglio, mentre io pensavo a come ero stato sciocco a lasciare la mia spada dall'altra parte della stanza, dove non poteva servire a nessuno. VENTOTTO Ben poche persone hanno mai avuto la possibilità di risvegliarsi in posizione verticale. È una sensazione spaventosa e sgradevole. I miei piedi pendevano liberi, sospesi a un palmo dal pavimento. Non riuscivo né a vedere né a sentire le mie braccia. Immaginavo che fossero da qualche parte al di sopra della mia testa, invisibili. Nelle spalle sentivo un dolore atroce e pulsante, mentre la mia nuca era tormentata da quello che sembrava un chiodo arroventato. Sentivo in bocca un sapore di rame, tossii, e sputai sangue. «Bene, Aldair, vedo che sei di nuovo con noi». Non fui sorpreso nel vedere Fabius Domitius ritto davanti a me. Al contrario, mi sarei sorpreso se avessi visto qualcun altro. Era cambiato molto poco da quando l'avevo lasciato in Albion. Malgrado la sua nuova condizione di preminenza, era ancora un individuo basso e pingue, con il muso allungato e folte setole sulle guance. Magari, mi aspettavo di vederlo in vesti di seta e gioielli, ora che aveva saccheggiato i tesori di Rhemia. Inve-
ce, era ancora Fabius lo studioso, vestito di tunica e mantello. Forse, l'immagine di povertà accompagnata all'aura terribile del potere gli sembrava meglio adatta per il Figlio del Creatore. L'unica aggiunta all'abito da studioso, era tuttavia tale da amplificare di molto il suo status: da una catena d'oro che portava alla cintura, pendeva una delle famose «luci di Dio» che avevano tanto impressionato Gaius. «Vorrei dire di esser contento di vederti, Fabius, ma non posso,» feci. «Che cosa ne hai fatto dei miei compagni? Per il tuo bene, spero che siano ancora vivi e illesi. Hai già molti debiti da pagare, uomo di scienza. Meglio per te se non aggiungerai altre voci al conto!» Fabius non sembrava neppure ascoltarmi. Era ritto con le mani dietro la schiena, la fronte corrugata, come se fosse immerso in gravi pensieri. «È interessante, quello che dici,» mi rispose infine, fissandomi negli occhi. «Debiti, dunque. E con chi sarei indebitato? È questo il nodo della questione. Con il Creatore? Non credo più alla sua esistenza, Aldair. E se pure esistesse, non sarebbe certo il nostro Creatore, non è vero? Noi sappiamo chi sono i nostri creatori: me li hai mostrati tu stesso, in Albion. È a loro, dunque, che io dovrò rispondere?» Scosse la testa. «No, non credo che dobbiamo loro nulla per la sciagura di averci creati. Chi si presenterà allora a riscuotere quei debiti? Le bestie mie simili? Impossibile: come avrei potuto fare dei torti a creature che non hanno né un'anima né un destino loro proprio? In pratica, resto soltanto io per la resa dei conti.» Sorrise. «E io ho imparato a sopportare con pazienza Fabius Domitius.» «Splendida giustificazione, degna di uno studioso come te,» dissi. «Ma io non sono uno dei tuoi allievi, Fabius. Hai ragionato così, quando hai deciso di uccidere Quintus, e Ambiir, e gli altri?» Avevo tirato a indovinare, dicendo questo, ma avevo colto nel segno, perché vidi i suoi occhi ridursi per un attimo a fessure, prima che riprendesse il controllo di sé. D'altra parte, vedendo ciò che era diventato, non era difficile immaginare quello che aveva fatto ai suoi colleghi studiosi, in Albion. Il pensiero mi fece ugualmente gelare il sangue. Se aveva ucciso i suoi stessi amici, come potevo sperare che avesse risparmiato Rhalgorn e gli altri? Mi fissava, e per un istante mi parve di cogliere nei suoi occhi un lampo di preoccupazione. «Sembri deciso ad irritarmi, Aldair. Invece, non dovrebbero esserci conflitti, fra noi due.» Malgrado tutto, mi misi a ridere.
«Splendida relazione, la nostra», dissi. «Io appeso come una lepre al mercato, e tu in veste di macellaio!» «Non c'è nessun bisogno che tu resti lì a pendere. Ti farò mettere più comodo se mi darai la tua parola che...» «Avrai molto più della mia parola,» lo interruppi. «Anzi, hai sin d'ora il mio solenne giuramento, Fabius, che non appena mi farai scendere da qui, io ti taglierò la gola con gioia e soddisfazione.» Fabius sospirò e scosse la testa. «Mi dispiace, Aldair. Speravo davvero che potessimo discutere un po’. Ti avrei anche offerto del vino. Ci sono ottimi vini, qui in città, se si sa dove cercarli. Anche se nessuno di quelli prodotti qui intorno vale gran che.» Detto ciò, mi volse le spalle, allontanandosi con il tipico passo frettoloso degli studiosi, che camminano sempre come se si stessero affrettando verso nuove straordinarie fonti di sapere. Si fermò davanti a una stretta finestra, e guardò fuori. Dalla luce che entrava nella stanza, dedussi che era quasi il crepuscolo. L'ambiente nel quale mi trovavo era lungo e stretto, con alti soffitti e le pareti rivestite di marmo dalle venature scure. C'era una sola finestra, e sul mio capo le volte scomparivano nell'ombra. Non c'erano mobili, a parte un semplice sgabello di legno che supponevo Fabius avesse portato con sé. Quello sgabello mi parlava come se fosse un libro, perché era uno specchio di Fabius stesso. Quasi speravo che l'uomo davanti mi fissasse con gli occhi ardenti del fanatico, o si rivolgesse a me con l'arroganza del folle che vuole vedere tutto il mondo ai propri piedi. Una cosa del genere l'avrei potuta capire: C'è sempre abbondanza di tiranni, in giro, e con loro alla fine si riesce a individuare un certo modulo di comportamento, come si fa quando si tratta con i mercanti, o i contadini. Ma quel Fabius sfuggiva a qualsiasi regola. Era un piccolo essere triste e solitario, che sembrava più adatto a frugare fra i suoi libri che a schiacciare un Impero. E proprio in questo stava il suo pericolo. I tiranni sono avidi di potere. Ma Fabius Domitius, che cosa mai voleva dal mondo? Non riuscivo a immaginarlo. Potevo solo chiedermi quali giocattoli mortali avesse portato con sé da Albion, e che cosa avesse intenzione di farne. Inoltre, non potevo dimenticare che ero stato proprio io a condurlo laggiù. Si staccò dalla finestra, mi tornò vicino, si accomodò sullo sgabello, incrociò le dita in grembo, e mi fissò. «Anche se non hai desiderio di parlare, Aldair, temo che dovrai. Ci sono delle cose che voglio ascoltare da te.»
Bene, sta venendo al punto, mi dissi. «Non riesco a immaginare nulla che possa interessarti sapere, Fabius.» «Questo lascialo giudicare a me. È passato molto tempo da quando ci siamo visti l'ultima volta. Vorrei sapere quello che ti è successo.» «Non è una storia piacevole,» risposi, «ma puoi conoscerla, se lo desideri. Siamo partiti per individuare la Sede dell'Uomo che doveva trovarsi in Oriente. Questo lo sai, perché abbiamo progettato il viaggio insieme. Sfortunatamente, il destino aveva in serbo per noi un'amara sorpresa. Una tempesta ci ha colti presso la terra dei Tarconii, e non siamo mai riusciti ad attraversare gli Stretti. L'Ahzir è affondata con gran parte dell'equipaggio. Quelli che non sono morti si sono dispersi ai quattro venti, e hanno perduto ogni interesse per il mare. Ed io per primo.» Fabius fece un'aria delusa. «Aldair, la tua storia è incredibile!» «Mi dispiace. Se avessi saputo che ci saremmo incontrati di nuovo in Rhemia, avrei conservato per prova un pezzetto della vela maestra.» Si alzò e si passò una mano sul volto. «Tutto questo è inutile, Aldair,» disse. «È solo una stupida perdita di tempo.» «Posso fare una domanda?» «Che vuoi sapere?» «Perché hai fatto tutto questo, Fabius? Onestamente, vorrei saperlo. Io ho fatto, ormai è chiaro, lo sbaglio più grosso della mia vita portandoti ad Albion, ma vorrei capire quello che ti è successo laggiù.» Fabius sedette di nuovo, sorridendo fra sé. «Aldair, tu sai pensare, ma non con la necessaria chiarezza. Tu sai quello che siamo, eppure insisti nell'attribuirci una statura che non è la nostra. Mi hai portato in Albion per imparare. L'ho fatto. Ho imparato che siamo bestie, puramente e semplicemente. Né migliori né peggiori dei nostri creatori.» «Non siamo migliori, certo,» lo interruppi, «ma potremmo diventarlo.» Mi tacitò con un cenno della mano. «Sono stanco di questo sogno... dell'illusione che lavorando insieme potremo rovesciare la marea della storia. La ragione e la logica non bastano a muovere il mondo. Ho camminato a lungo lungo la strada dello studioso, e non ci ho trovato nulla.» Alzò gli occhi al soffitto. «Per rispondere alla tua domanda, ho fatto quello che ho fatto perché ero stanco di essere quello che ero.» Allargò le braccia. «Non c'è altro motivo, anche se non mi aspet-
to che tu mi creda. Ho visto la trama del mio destino. Ho visto che tutto ciò che avrei potuto fare io - o chiunque altro - non avrebbe avuto alcuna importanza. Non ho alcun particolare desiderio di diventare Imperatore, se è questo che sospetti. Per essere onesti, è un incarico rognoso. Tuttavia, se mi trovo su questa strada, vuol dire che questa è la strada che era mio destino imboccare, dato che nulla di ciò che avviene in questo mondo può essere mutato.» «Sei tu stesso il primo a non crederci,» risposi. «Hai deformato la verità per adattarla alle tue esigenze, Fabius. Che io sia dannato se non sei migliore come Tiranno che come dialettico!» Fabius mi guardò divertito. «Aldair, come fai a sapere che quella che stiamo vivendo non è precisamente la storia delineata per noi? Come fai a sapere che giù in Albion non c'è un nastro di quelli che si vedono attraverso quelle straordinarie finestre... un nastro che non mostri me e te, proprio come siamo in questo momento? Tu appeso al soffitto, ed io ritto davanti a te? Non sarebbe uno scherzo perfetto, degno dell'Uomo, quello di far credere alle proprie miserabili creature di essere riuscite a conquistarsi la libertà, mentre sono più schiave di prima?» Fabius aveva colto nel segno. Molte volte, nei momenti di disperazione, quel pensiero aveva tormentato anche la mia coscienza. Mi agitò un dito davanti agli occhi. «Bene, bene, Aldair. Vedo nel tuo sguardo che anche tu sei agitato da questi dubbi.» «Quello che dici è una pura stupidaggine.» «Davvero? Come fai a sapere che io stesso non ho visto le immagini di cui ti ho parlato?» «Perché non esistono.» Fabius rimase immobile. Sospirò profondamente, si torse le mani, poi le lasciò pendere lungo i fianchi. «Ah, Aldair, questo è uno dei principali vantaggi di cui godono gli ignoranti. Sono sempre sicuri di tutto.» Si chinò e raccolse il suo sgabello. Dietro di me, da qualche parte, si aprì una porta. Stivali calpestarono il pavimento, una lama tagliò la corda alla quale era sospeso, e caddi a terra. Non volevo gridare, quando il sangue tornò a fluire nelle mie braccia, ma non riuscii a impedirmelo. Due soldati, uno per lato, mi alzarono rudemente in piedi e cominciarono a trascinarmi attraverso la stanza. Quando
passammo davanti alla finestra, Fabius fece loro cenno di fermarsi. Guardai giù. C'era un cortile, delimitato da un alto muro. Sul muro, un Sole morente stava tingendo di rosa i tetti della città. I marinai dell'Ahzir erano nel cortile, incatenati gli uni agli altri. Davanti a loro, c'era la scatola nera. Dentro di me, morì qualcosa. «Non giocheremo più l'uno con l'altro,» disse Fabius. «Ho già appreso come sei venuto in possesso di quella cosa, e so quello che può fare. E penso di sapere anche che cos'è.» «Fabius... sarò felice di dirti tutto quello che ne so, perché devi capire quello che è. Tu pensi di saperne già abbastanza, ma non è vero.» Fabius guardò nel cortile, poi tornò a fissarmi. «Ti sbagli, Aldair. Ne so più di quanto tu creda.» Cercai di parlare con la maggior calma possibile. Non c'era nulla di più importante che farmi capire, e farmi credere. «Non è vero, Fabius. Mi rendo conto di quello che pensi. Ma quella cosa non può essere usata per controllare gli altri. Non può esserlo, perché è impossibile controllare lei stessa. Non ti devi avvicinare a quella scatola, né devi cercare di aprirla. Ti prego, ascoltami almeno in questo!» «Ti ho ascoltato,» fece lui, «ed ora ne ho abbastanza, Aldair. Io e te non abbiamo più nulla da dirci.» VENTINOVE Non mi sarei sorpreso se mi avessero impiccato senza tante cerimonie, o mi avessero infilato una spada tra le costole, gettando il mio corpo nella strada. Invece, i legionari che mi tenevano mi spinsero lungo una stretta scalinata e mi chiusero in una segreta. Una porta scattò alle mie spalle, con un rumore cupo e definitivo; una serratura girò pesantemente, facendo ruotare antichi ingranaggi. Il pavimento umido era coperto di paglia, abitata da legioni di insetti. Fuori della cella, una torcia bruciava debolmente, ed alcuni raggi di luce si facevano strada a fatica attraverso la grata dello spioncino. Il posto puzzava come se il letame di tutte le stalle del mondo vi fosse stato ammucchiato dall'inizio dei secoli. Se dovevo morire lì, mi augurai che ciò avvenisse presto, e che il primo ad andarsene fosse il mio naso. «Aldair?» Quasi balzai fuori dalla mia pelle. «Per gli Occhi del Creatore, chi ha parlato?»
«Tutti, suppongo, quando abbiamo visto chi era.» Le parole vennero seguite da quel rumore particolare, simile a un cupo colpo di tosse, che per gli Stygiani riveste il senso di una risata. «Rhalgorn! Sei tu! Sei vivo!» «Ci sono anch'io, e Thareesh,» risuonò la voce solenne di Signar, il Vikoniano. «Non pensavamo più di poterti rivedere. Né te né gli altri.» «Per la verità, riuscire a vederlo con questo buio è impresa ardua,» gli fece eco lo Stygiano, «anche per occhi superbi come i miei. Sono certo che c'è, tuttavia, perché un buon numero delle mie pulci mi ha lasciato per dare il benvenuto al nuovo arrivato.» «Thareesh?» «Sono qui, da qualche parte. O meglio, c'è quello che resta di me. Vorrai scusarmi se non mi alzo.» «Thareesh, sei ferito...» «Sì, è ferito,» rispose per lui Signar. «Ma sopravviverà, come tutti noi, anche se non so se ciò possa considerarsi una fortuna. Nessuno di noi è in forma splendida, a tutti manca un po' di carne e di muscoli, e abbiamo una bella dose di graffi per il corpo. Però c'è anche un bel numero di soldati rhemiani che stanno peggio di noi, visto che sono morti stecchiti.» «E tu,» mi chiese il Nicieano, «sei sempre tutto d'un pezzo?» «Sono intero,» risposi, «anche se ho idea che le mie braccia si siano allungate di un bel po'.» Raccontai quello che mi era successo, e riferii della mia conversazione con Fabius. La cosa che mi costò di più fu rivelare che i nostri compagni erano tutti prigionieri, e che la scatola nera era in mano al traditore. Quando terminai, per un lungo momento nessuno parlò. «L'equipaggio, la nave... tutto?», chiese infine Signar. «Tutto, a quanto pare, amico mio.» Il Vikoniano emise un rumore dal profondo della gola. «È stata la femmina, Aldair. Mi spiace dirlo, ma non c'è altra risposta. Ci ha traditi.» «Non puoi esserne certo,» sibilò il Nicieano. «Sei chiuso in una stalla sotto terra, e non puoi sapere quello che sta succedendo nei posti in cui non sei.» Dal momento in cui mi ero risvegliato, e mi ero trovato nelle mani di Fabius Domitius, avevo lottato per scacciare dalla mia mente quel pensiero. Tuttavia, non c'era motivo per cui dovessi illudermi più a lungo. «Se stai cercando di non ferire i miei sentimenti, Thareesh,» dissi, «ti
sono grato. Ma è più che possibile che Signar abbia ragione. Se è così, spero di non averne mai la conferma.» «Bene, accidenti,» ringhiò lo Stygiano, «quando voi tre avrete finito di lamentarvi del vostro destino e di discutere di chi sia la colpa, sarà meglio cominciare a pensare a come trasportare noi stessi fuori da questo buco schifoso. Non posso parlare per voialtri, ma per un Signore dei Lauvectii la presente atmosfera non è punto decente.» «Un Signore dei Lauvectii, eh?», ruggì il Vikoniano. La sua mole immensa si agitò nel buio. «Mi auguro che Sua Grazia abbia in mente un piano astuto e imprevedibile, perché sono oltremodo ansioso di udirlo.» «Sto pensando,» rispose Rhalgorn. «Incredibile. Non ti succede spesso.» «Sii paziente, montagna di pelo. Prima o poi troverò qualcosa.» «In tal caso, spero che tu trovi un bel cosciotto di cervo del Nord, e un barile o due di birra. Dopo la fuga dalle prigioni rhemiane, sono le cose che desidero di più.» Nella stanza c'era dell'acqua, ammesso che potesse essere definita tale. Ma non c'era cibo, e da quando eravamo stati rinchiusi li sotto, nessuno ne aveva portato. «Se per caso non riusciremo a fuggire... è soltanto un'ipotesi, capitemi...» fece Signar, «... che cosa pensi che abbia in serbo per noi quel simpatico e tranquillo studioso, Aldair?» «Meglio non fare congetture, Signar. Un tempo, ero sicuro di conoscere bene Fabius Domitius, e come vedi mi sbagliavo di grosso. La prossima volta, fammi il favore di ricordarmi che non ci si deve mai fidare delle persone di una certa cultura.» «Non possiamo permetterci di rimanere fermi ad aspettare,» fece Thareesh. «Se ti ha già appeso al soffitto, potrebbe venirgli il desiderio di farlo di nuovo, Aldair, con tutti noi a tenerti compagnia.» «No,» risposi scuotendo la testa, «non lo credo, Thareesh. Come ho già detto, è un folle di tipo tutto particolare; uno studioso trasformatosi in Tiranno. In genere, re e conquistatori sono tanto crudeli quanto ignoranti. Fabius non è né l'una cosa né l'altra. I cortigiani avranno tempi difficili nel suo nuovo Impero, perché non è persona disposta ad ascoltare altri che se stesso. Mi ha già comunicato che non ha più nulla da dirmi. Dubito che vorrà metterci alla tortura per il puro piacere di farlo.» «Che pensiero confortante,» commentò Signar, che aveva ascoltato con attenzione.
«D'altra parte,» aggiunsi, «è gelido come il Mare del Nord, e non esiterebbe un attimo a dare ordine di ucciderci, se decidesse che siamo un pericolo per lui, o semplicemente che siamo del tutto inutili.» «Questo, invece non è confortante,» ringhiò Signar. «Pensa con tutte le tue forze, Stygiano.» Ci mettemmo tutti a pensare. A nessuno di noi sfuggiva che la cosa più saggia da farsi era di tirarci via da quel luogo prima che la decisione finale nei nostri confronti venisse presa al di fuori del nostro controllo. Ma che cosa potevamo fare? Anche nei frangenti più disperati, il corpo è pronto a tradirci. Nessuno di noi aveva intenzione di dormire, ma finimmo per addormentarci tutti. Né gli insetti, né il fetore, né le buone intenzioni riuscirono a impedirlo. Mi svegliai, una volta, al suono degli stivali delle guardie rhemiane che camminavano dietro la porta. Poi fu Rhalgorn, che nel sonno si agitava e ringhiava, a svegliarmi una seconda volta. Che ora era? Ero stato portato lì al tramonto. Era notte, fuori, o era già spuntato un nuovo giorno? Senza né una luce né un rumore per mettere a fuoco i nostri sensi, un'ora o un minuto erano la stessa cosa. Quando mi svegliai di nuovo poteva essere passata la metà di un'altra notte. Qualcosa, o qualcuno... La mano enorme di Signar calò su di me, imponendomi il silenzio. Di nuovo, un rumore dietro la porta. Una chiave girò piano nella serratura. Poi... più nulla. «Aldair, se tu o Rhalgorn o qualcuno degli altri è lì dentro... Sono io. Quando aprirò questa cosa, non voglio che un'orda di pirati puzzolenti mi si precipiti addosso, capito?» «Corysia!» Per poco non urlai il suo nome. La porta si aprì e, profilata nella luce fioca, apparve Corysia, seminascosta sotto mantello e cappuccio. Corsi a stringerla a me, dimenticando ogni altra cosa. Rhalgorn, scattò fuori della porta, scrutando nel buio all'intorno con occhi da Stygiano. «Corysia...». La fissai pieno di meraviglia. I suoi lineamenti delicati sembravano splendere di luce propria davanti ai miei occhi. «Corysia, noi... noi...» «Zitto,» fece lei, ponendomi un dito sulle labbra. «Lo so che avete molte domande da fare, e non sono affatto sicura di avere le risposte per tutte. Però, adesso c'è poco tempo per questo.» Si fermò, tirò un respiro, e fece
correre gli occhi su ciascuno di noi. «Sono felice di vedervi tutti vivi. Davvero. Ero sicura che ve la sareste cavata, ma...» Si interruppe, sorridendo. «Sì, sono felice anche per te, Rhalgorn.» Allungò una mano per toccarlo. Gli occhi dello Stygiano si dilatarono come scodelle. Per una volta, era rimasto senza parole. «Ho imparato a conoscerti, ormai,» gli fece a bassa voce. «Ed ora che ti conosco, non ho più paura di te.» Signar rise, calando sulle spalle di Rhalgorn una pacca che avrebbe ucciso un bue. «Ma nessuno ha mai avuto paura di Sua Grazia, qui presente,» fece. «Glielo facevamo credere, per non avvilirlo.» «Huh!», ringhiò lo Stygiano. «Mia signora,» continuò Signar, con qualche difficoltà a guardare Corysia negli occhi. «Lo dirò io, perché devo farlo. Fra tutti sono stato il solo che ha pensato... che ha...» Corysia provò a guardarlo con occhi severi, ma non riuscì a non sorridere. «Lo so quello che hai pensato, Signar. Non hai bisogno di dirmelo.» Scosse la testa. «Io stessa, non so chi abbia tradito. Gaius è stato catturato quasi subito: eravamo appena usciti dalla sua casa. Io sono riuscita a fuggire, a stento. Non so se ci stavano aspettando di proposito, o se si sono imbattuti in noi per pura sfortuna da parte nostra. Da quello che ho visto, Aldair, il Tiranno non ha bisogno di traditori tra le fila dei suoi avversari. I suoi occhi e le sue orecchie sono ovunque, e ormai tutti lottano per disputarsi i suoi favori.» Tremò, e la strinsi più forte. Davvero, Corysia aveva appreso molte cose in un tempo brevissimo. Aveva raggiunto suo padre fuori città, e anche se lui non era riuscito a capire per quale motivo la figlia avesse abbracciato la causa dei suoi rapitori, tuttavia il vederla viva era stato motivo sufficiente per credere alle parole di lei. Sono sicuro che Corysia era stata chiara nel sottolineare come in gioco ci fosse molto di più che le vite di tutti noi. D'altra parte, la facilità con la quale Fabius si era impadronito di Rhemia, parlava per lei. Suo padre le aveva promesso di raggiungere l'Imperatore e di informarlo, anche se l'impresa era difficile, dato il momento, sia pure per chi ne aveva sposato la sorella. «Qualsiasi cosa accada,» concluse Corysia, «tornerà con quante forze avrà potuto raccogliere. Ma ho paura che non avremo alcuna possibilità di vincere Fabius Domitius, se l'Imperatore non impegnerà nella lotta tutte le sue Legioni.»
Aveva ragione, naturalmente. Mi chiesi quante speranze avessimo che l'Imperatore Titus Augustus si fosse reso realmente conto della situazione. Era comprensibile che esitasse, prima di prendere una decisione sanguinosa. Di certo, voleva essere sicuro della piega che avrebbero preso gli eventi. D'altra parte, noi che gli offrivamo il nostro aiuto eravamo nemici giurati dell'Impero, e ai suoi occhi non eravamo cèrto migliori di Fabius Domitius. Rhalgorn ci avvertì che qualcuno stava venendo verso di noi lungo il corridoio. «Sono dei nostri,» lo rassicurò Corysia. «Per il momento, almeno.» Torse la bocca. «Sono stati ingaggiati e pagati con denaro sonante, e ci scorteranno fino a fuori di qui. Dopo di che, non potremo più fidarci di loro. Una volta usciti, ciascuno dovrà badare a se stesso.» Signar, Thareesh e Rhalgorn cominciarono a parlare fra di loro, ed io e Corysia avemmo un momento da dedicare a noi due. «Non so che cosa mai potrà venir fuori da tutto questo,» le dissi, «ma di una cosa sono sicuro...» «So quello che vuoi dire, Aldair,» mi rispose lei dolcemente, «perché è anche nei miei pensieri. Avremo molte cose da dirci, fra noi, quando potremo.» La guardai negli occhi, e vidi che era proprio così, perché vi scorsi una luce che non vi avevo mai visto prima. «Arriveremo fino in fondo, Corysia,» le dissi, «perché i tuoi pensieri voglio conoscerli bene. Tutti, nessuno escluso.» TRENTA Il gelido vento di mezzanotte ci parve il benvenuto, uscendo dalla fetida atmosfera della cella. Fortunatamente, la città era immersa nel buio, fatta eccezione per alcuni fuochi molto al di là della corona di tetti che ci circondavano. I nostri complici temporanei si dileguarono rapidamente, con la maggiore velocità possibile. Avevano l'argento in tasca, e con noi non volevano avere più nulla a che fare. Rhalgorn e Thareesh erano favorevoli a drastiche misure, tali da assicurarci che non sarebbero andati da Fabius per cercare un altro guadagno, ma Corysia si oppose decisamente. Aspettammo, all'ombra di un muro altissimo. A mano a mano che i miei occhi si abituavano all'oscurità, mi rendevo conto che si trattava dello stesso muro che avevo visto, da diversa posizione, dalla finestra della sala nel-
la quale avevo parlato con Fabius. Alzando lo sguardo, vidi quella stessa finestra, che dal buio mi fissava come un'occhiaia vuota. Dopo un'eternità, il cortile si animò di ombre, e gli amici di Corysia si avvicinarono a noi. Lei corse loro incontro, e in seguito a un cenno senza parole, Signar si allontanò con mezza dozzina di soldati per andare a liberare il nostro equipaggio, tenuto prigioniero in un'altra ala dell'edificio. Corysia mi venne incontro, seguita da un Rhemiano dall'aspetto imponente. «Voi due vi siete già incontrati, credo, in circostanze diverse dall'attuale,» mi disse. Nella sua voce avvertii un'insolita indecisione. Ne compresi il motivo, quando potei scorgere il volto del nuovo venuto. Aveva ragione. Ci eravamo già conosciuti, anche se non bene. Si chiamava Marcus Sabinus, e quando l'avevo visto l'ultima volta era fermo, livido di rabbia, su una punta rocciosa della costa, mentre alzavamo le vele per allontanarci dalla Gaullia. Prima di allora, avevo combattuto contro di lui nelle foreste di Duroctium dopo avergli strappato Corysia dalle mani. «Avevi detto che ci saremmo incontrati ancora,» gli ricordai, «ed è successo. Sono sicuro che il modo non fa piacere a te quanto non lo fa a me. Tuttavia, ti sono grato per l'aiuto che ci dai.» «Puoi ringraziare la mia Signora per questo,» mi rispose, rigido e duro come una roccia. «Se fosse stato per me, avrei preferito incontrarti in un modo ben diverso.» «Marcus...» Il soldato si volse verso di lei. «Mia Signora, tu sai che ti sono fedele, e obbedirò senza discutere ai tuoi comandi e a quelli di tuo padre. Ma non puoi chiedermi più di questo.» Corysia tacque. Parlai con lui senza timore dei nostri piani. Gli spiegai quanto fosse importante riuscire a catturare Fabius se possibile, anche se altre azioni sembravano avere la precedenza. Quando gli menzionai la scatola di metallo nero che Fabius aveva rubato, il suo volto si irrigidì. Si alzò per conferire brevemente con i suoi ufficiali, quindi tornò presso di noi. «Corre voce che ci sia un tesoro che l'eretico custodisce con la massima cura. Forse, però, non è lo stesso oggetto di cui tu parli.» Mi fissò con occhi gelidi. «È realmente di grande valore? Te lo chiedo perché, se decidessimo effettivamente di conquistarlo, metteremmo in gioco molte vite, e
molti uomini valorosi morirebbero.» «Non è un tesoro,» gli spiegai. «È una cosa che permetterebbe a Fabius Domitius di distruggere la tua patria e tutta la tua gente, se decidesse di farlo. Non posso spiegarti il modo, ma sii certo che dico la verità.» Marcus rivolse un'occhiata a Corysia, quindi mi fece un breve cenno di assenso. «È lì,» disse, puntando il dito, «in quella torre. C'è una forte guarnigione. Anche uccidendo le sentinelle esterne, quelle che vigilano all'interno dell'edificio se ne accorgerebbero, e darebbero l'allarme. E poi, anche così non avremo ottenuto nulla, perché è impossibile penetrare nell'edificio senza macchine da assedio. È troppo ben costruito per essere conquistato da un pugno di soldati, privi di equipaggiamento.» «Tuttavia, dobbiamo trovare il modo,» gli dissi. Mi fissò, e nei suoi occhi mi sembrò di cogliere un'ombra di rispetto. «In tal caso,» rispose, «lo troveremo.» Liberato l'equipaggio, il nostro numero crebbe, ma avevamo poche armi. Solo i soldati di Marcus ne erano forniti. «Rimedieremo,» disse Signar. «Presto ci saranno guerrieri che non avranno più bisogno delle loro spade.» Dal buio, gli occhi di Rhalgorn scintillarono in risposta. Marcus Sabinus aveva parlato con cognizione di causa. La torre nella quale era custodita la Sentinella dell'Uomo appariva davvero inespugnabile. Tuttavia, i suoi costruttori non avevano tenuto conto dell'agilità dei Nicieani, capaci di arrampicarsi come ragni su qualsiasi struttura costruita da qualsiasi razza. Sotto i nostri occhi Thareesh si inerpicò, insieme con due compagni, lungo la torre, sfuggendo alla vista delle sentinelle, e scomparve nel buio. Anche se non potevamo più scorgerli, sapevamo che erano lì, forme sottili schiacciate contro la pietra, pronte a usare ogni minimo appoggio, anche là dove per nessuna altra creatura al mondo ci sarebbe stato un appoggio sufficiente. Marcus osservava in silenzio, e avrei dato molto per conoscere i suoi pensieri. Corysia mi stava accanto, con le mani chiuse sul mio braccio. La cosa non passò inosservata, e chiaramente non era gradita al Rhemiano. Non so dire se Corysia si era resa conto dei sentimenti di quest'ultimo, ma certo essi travalicavano il semplice senso del dovere.
Dalla torre non veniva alcun suono. I Nicieani non fanno mai molto rumore; soprattutto, poi, quando la loro intenzione è di spargere sangue. Quando la porta pesante si spalancò davanti a noi, eravamo pronti. Le sentinelle non aspettavano certo di essere affrontate da verdi forme scagliose scaturite dal buio, e riuscimmo a sopraffarle senza fatica, affrontandole da due lati, noi da una parte e i Nicieani dall'altra. Mentre il grosso conquistava la torre, Marcus Sabinus inviò una pattuglia verso le stalle, che risultarono poco vigilate. Ben presto avevamo otto cavalli e un carro, che utilizzammo per trasportare la pesante scatola di metallo. Anche se non potevamo certo essere definiti una forza imponente, né rappresentavamo un ostacolo serio per qualsiasi contingente militare ben organizzato, tuttavia ormai eravamo tutti armati, e il nostro morale era alle stelle. E in nostre mani c'era la Sentinella dell'Uomo. La realtà, tuttavia, non tardò a manifestarsi. Un grido dalle nostre sentinelle ci mise in allarme. Una compagnia di soldati fedeli a Fabius stava facendo a pezzi una delle nostre pattuglie presso la torre. Quando arrivammo, il combattimento era in pratica finito. «Mi sembrava strano che tutto procedesse così bene,» ringhiò Signar. Alzò una pesante ascia da guerra, e si preparò a lanciarsi, insieme con Rhalgorn, attraverso la corte. Gridai loro di fermarsi. «Non andiamo a cacciarci in combattimenti, a meno che non sia indispensabile,» dissi. «Non possiamo permettere ai soldati di Fabius di tenerci impegnati. Per prima cosa, dobbiamo pensare a mettere al sicuro la scatola nera.» Rhalgorn annuì, riluttante. La sua spada era già coperta di sangue. «Il nostro piccolo guerriero ha ragione, Vikoniano,» disse. «D'altra parte, senza rinforzi non resisteremmo a lungo in questa posizione.» Marcus Sabinus ci raggiunse al galoppo. I ferri del suo cavallo traevano scintille dai ciottoli della strada. Era un legionario esperto, e aveva capito bene la situazione delle forze in gioco. «Prenderemo posizione laggiù,» disse in tono cupo. «Raduna in fretta la tua gente. Ancora un minuto, e resteremo presi come topi in trappola.» Scomparve, lasciandosi alle spalle in clangore di ferro. I soldati di Fabius erano ormai tutti all'erta. Sciamarono nella corte bramosi di sangue, trovando ampie occasioni per spillarlo. Con un secco comando e un gesto con la spada, Marcus ci guidò fuori delle porte, attraverso le strade. I soldati a piedi andavano avanti, seguiti dal carro, mentre i
pochi a cavallo cercavano di fare il possibile per rallentare i nemici. Ma poterono fare ben poco, e presto ci trovammo in piena ritirata attraverso le strade di Rhemia. Un legionario cadde vicino a me, la gola trafitta da una freccia. Voltai il mio cavallo per aiutare un grosso Vikoniano dell'equipaggio, ma i soldati mi respinsero indietro. L'ultima cosa che vidi del poveretto, fu una schiena enorme, tutta rossa di sangue. Dalle grida che sentivo, fui certo che in molti l'avevano accompagnato nel Lungo Viaggio. «Il ponte!» mi gridò Marcus nelle orecchie. «Se arriveranno rinforzi, non potranno venire che da lì!» Spronò il cavallo, facendo volare all'intorno pezzi di armatura e membra tagliate. Guardai nella direzione che mi aveva indicato, ma non vidi nulla. La tenebra gravava su tutto. Combattevamo nel buio, in una carneficina sanguinosa e terribile, senza alcuna certezza di poter distinguere i nemici dagli amici. Qualcuno mi afferrò un braccio. Mi voltai, e per poco non divisi in due Rhalgorn con un fendente. La sua faccia era lacera e insanguinata, ma era vivo, e a cavallo. Dietro di lui si stringeva Corysia, con gli occhi dilatati dalla paura. Cercò di dirmi qualcosa, ma le sue parole si persero nel frastuono della battaglia. Puntò con il braccio, e guardai verso il punto che mi stava accennando. Il ponte! Un grande arco di pietra si stendeva su un settore della città, e dall'altra parte... nulla. Mi resi conto, allora, che era inutile attendere aiuti da quella direzione, perché non sarebbero venuti. Forse l'Imperatore aveva fermato il padre di Corysia. O forse Fabius era riuscito a intercettarne in qualche modo le truppe. Forse, i suoi soldati stavano lottando per la vita a poche strade di distanza, e noi non riuscivamo neppure a sentirne le grida. Qualcuno incendiò la strada dietro di noi. Il fuoco si alzò a lambire il cielo. Le truppe del Tiranno gridarono di giubilo, e avanzarono verso di noi. Le fiamme splendevano sui loro elmi e danzavano sulle loro spade. Guardai davanti a me e vidi Corysia. Rhalgorn l'aveva posta sul carro, al centro del ponte. Era viva, e la Cosa fabbricata dall'Uomo era ancora nelle nostre mani. Ma a che cosa ci sarebbe servita, se fossimo tutti morti davanti ad essa? Non c'era tempo per pensare. Un soldato mi venne addosso, poi un altro. Il mio ferro si scontrò con altro ferro, e la violenza del colpo quasi mi paralizzò il braccio fino alla spalla. Colpii l'uomo sull'elmo, e approfittai del
suo stordimento per infilargli la spada fra le costole. Cadde senza un grido. Un dolore improvviso mi trafisse una gamba, e mi fece vacillare. Gridai, fermai il cavallo, e mi tolsi dalla gamba una lama che una mano non vista vi aveva conficcata. Un colpo alle spalle, e mi trovai a terra, con gli occhi fissi al cielo. Il cavallo era sopra di me, con il ventre squarciato, lanciando l'ultimo nitrito della sua vita. Vidi Rhalgorn che seminava morte, veloce come il lampo, tanto che occhi normali non riuscivano a scorgerlo. Signar si levava, nero e terribile, contro le tenebre, mentre i Rhemiani lo stringevano ai fianchi come sanguisughe. Se li scuoteva di dosso agitando come una furia l'ascia d'acciaio lorda di sangue, che si apriva la, strada attraverso barriere compatte di carne; ma sempre i legionari di Fabius gli erano addosso. Un soldato basso e robusto mi venne incontro correndo come una furia. Mi alzai barcollando, caddi, mi alzai di nuovo, e lui fu sopra di me. Il suo volto si curvò sul mio, e mi trovai a fissare un singolo occhio nero, incastrato in un muso sfigurato da una cicatrice orrenda. Lo vidi iniettato di sangue e nero di morte. Cercai di tenerlo a distanza, con il braccio che si faceva sempre più pesante, tanto da non riuscire neppure a sollevare la spada, Mi sembrava di menar colpi a un albero con un sacco vuoto. Il mio avversario non era solo. Altri suoi compagni avevano fiutato l'odore del sangue, ed erano venuti a dargli man forte. Da qualche parte, Marcus Sabinus lanciò un gran grido attraverso la notte; disse qualcosa, ma non seppi mai che cosa. Il mio avversario e i suoi compagni mi stringevano da presso. Un'ombra rossa mi velava gli occhi, e scossi la testa, facendo spruzzare carne e sangue. Se mi avesse raggiunto un altro colpo - pensai - per me sarebbe stata finita. Ero a terra, e i miei nemici erano sopra di me, le facce ghignanti, le spade levate. «Rheif!» No, ricordai: Rheif era morto, dormiva in pace fra le colline di Albion. «Rhalgorn! Signar, a me!» La mia bocca formulava le parole, ma non usciva alcun suono. I tronchi assassini ghignavano, sollevavano le spade per il corpo fatale. I ghigni si spensero. L'occhio singolo e nero si dilatò, un grido emerse dalla gola del suo proprietario. I suoi compagni indietreggiarono, con lo sguardo fisso. Uno di essi lasciò cadere la spada, poi un altro. Soldati vicini, che non avevano
preso parte al nostro combattimento, impallidirono, gettarono le spade e si diedero alla fuga. Infine, vidi anch'io la fonte di quel terrore. Una cosa che torreggiava sopra di me, pallida, scintillante, come uno sciame di lucciole in una notte estiva. Ancora una volta, come avevo già fatto in precedenza, aprii la bocca per parlare, ma non udii alcuna parola. Era me... e non era me. Oscillò, si fece più luminosa, impallidì di nuovo, e mosse un passo esitante, come se i suoi piedi calcassero un terreno non di questo mondo. In quel frangente non mi fermai a chiedermi per quale motivo quell'Aldair-fantasma si trovasse lì. C'era e, per il momento, la sua presenza mi aveva liberato dai miei nemici. Stringendo la spada, mi feci forza, mossi qualche passo, poi cominciai a correre. Rhalgorn mi raggiunse sul ponte. «Dov'è Corysia?», chiesi. «E Thareesh? E Signar, e gli altri?» «Non lo so,» mi rispose, «Morti, vivi... Aldair, qui c'è qualcosa che...» Barcollò, poi si riprese e mi strinse il braccio, spingendomi attraverso il ponte. «No!», gridai, liberandomi dalla sua stretta. «Non possiamo lasciarli qui!» Chi?» fece Rhalgorn, fissandomi con occhi di fiamma. «Lasciare chi, Aldair? Sono morti tutti... tutti!» Ma già non lo ascoltavo più. Ero lontano, mi ero lanciato di nuovo nel cuore della battaglia, urlando il nome di Corysia. Ma non riuscivo ad avanzare, bloccato da un muro di carne e di sangue. «Corysia!» Un grido terribile si levò dietro di me. Un'onda di soldati di Fabius aveva rotto le nostre linee e stava avanzando verso di me. I difensori cercarono di chiudere loro la strada, ma c'era poco da fare. Non avevano speranze, e lo sapevano. Mi feci forza, mi rizzai su me stesso, alzai la spada, e attesi. «Aldair!» La voce di Corysia mi raggiunse, levandosi al di sopra di ogni altro suono. Mi volsi e la vidi: era davanti a me, sul ponte. Sentii il sangue che mi si gelava nelle vene. Mi mossi, ma sapevo che non sarei mai riuscito a raggiungerla. Sapevo che sarebbe accaduto qualcosa di tremendo, e che non avrei potuto fare nulla per impedirlo. Il guidatore del nostro carro era morto, e il cavallo era quasi impazzito per la paura. Faceva oscillare il carro paurosamente, urtando prima un lato del ponte, poi l'altro. Corysia cercò di afferrare le redini; la bestia si im-
pennò e la fece cadere al suolo. Poi, con un ultimo, terribile nitrito di paura, si liberò dei finimenti e corse via nella notte. Una ruota del carro si inclinò, e scivolò fuori del mozzo. Il carro si inclinò verso il suolo, rimase sospeso per un secondo sul nulla, poi precipitò nelle tenebre, con il suo carico. Rimasi ritto al centro del caos, senza far nulla. Perché non c'era nulla che potessi fare, se non attendere la fine del mondo... EPILOGO L'alba vide un Sole color del limone toccare un mare grigio come il ferro. A Nord, una striscia di color fuliggine tingeva l'orizzonte, e seppi che stavamo passando al largo della costa di Rhemia. Ben poche navi ormai viaggiano per queste acque, e quelle che lo fanno badano a tenersi il più possibile lontane dalla terra. Perché ormai la città è morta: un deserto di strade vuote e di finestre che si aprono sul nulla. Si raccontano molte storie su quella che fu la grande capitale dei Rhemiani, e alcune di esse sono vere. Un mercante mi ha detto che, pur tenendosi ben distanti dall'anello della paura, quando si guarda la città si possono vedere creature orrende che strisciano fra le sue torri. Credo che mi abbia detto il vero. Tutti i mostri che si annidano nel cuore di tutte le creature, sono radunati in quel luogo, perché l'occhio rosso dell'Uomo è aperto nelle strade di Rhemia. Ho appreso che i frammenti distaccati dell'Impero si stanno nuovamente ricongiungendo, e che il potere centrale ha ora sede al Nord della penisola, presso la Gaullia. Dubito tuttavia che il nuovo edificio possa dimostrarsi solido. Rhemia, nel suo passato, si è fatta troppi nemici. Tutti, hanno atteso a lungo per assaporare questo momento. Quanto a me, mi rendo conto di aver giocato un ruolo non secondario nella caduta di due grandi civiltà. Forse, quanto è successo sarebbe successo ugualmente, anche senza di me, ma non posso esserne certo. Le vicende alle quali ho assistito - mi chiedo - si sarebbero svolte allo stesso modo, se non fossi fuggito dall'Università di Silium, e non fossi caduto nelle mani dei Nicieani? Se non fossi entrato a Duroctium, e non avessi mai visto Corysia? Ma è inutile perdersi dietro congetture vane. Come si dice negli Eubironi, non si può orinare giovedì prossimo. Certe cose vanno affrontate subi-
to. Comunque sia, so per certo che le cose non sono andate secondo i piani dell'Uomo. Fabius Domitius aveva torto. La nostra ribellione non era prevista nelle finestre magiche di Albion. Se non ne fossi profondamente convinto, non avrei alcun motivo di vivere la mia vita, in un mondo come questo. Per due volte ho incontrato il mio stesso fantasma. È una cosa che non comprendo, ma che è accaduta. Ho meditato a lungo su questo, ed è stato Rhalgorn a fornirmi le parole migliori per tradurre i miei pensieri. La cosa non deve sorprendere, perché gli Stygiani sono vicini agli dèi della terra, e conoscono cose di cui raramente parlano. «Ci sono mondi e tempi che si mescolano con il nostro,» mi ha detto un giorno. Forse è così. E forse c'è un tempo e un mondo in cui sono quell'altro me stesso che mi è apparso due volte. Che ne sarà, in quel tempo, dell'Aldair che io sono ora? Rhalgorn non ha risposte per questa domanda, e io neppure. Lo Stygiano è stato ben poco cambiato dalle nostre avventure. Ha cicatrici sulla testa e sul petto, il suo lungo muso sembra un po' asimmetrico. Ma è ben difficile cambiare uno Stygiano, finché è vivo. Thareesh ha subito una dolorosa ferita ad una coscia, e ha perso un pezzo di coda... anche se, a sentir lui, l'ha persa tutta. Quanto a Signar, sulla sua mole ci sono larghe chiazze nelle quali la pelliccia non ricrescerà mai più, e il suo braccio destro non funziona più come prima. La sua forza, tuttavia, è rimasta intatta, ed è in grado di maneggiare la scure, impugnandola con la sinistra, meglio di cinque guerrieri messi insieme. Anche Corysia ha avuto le sue ferite, come tutti noi, pur non avendo levato armi in Rhemia. Sono piccole cicatrici, e ai miei occhi non ne offuscano certo la straordinaria bellezza. Né la offuscano agli occhi di Rhalgorn, che le vuole un bene immenso, anche se a modo suo. Non ammetterebbe una cosa del genere neppure sotto tortura, ma io non vorrei trovarmi al posto di una qualsiasi creatura che facesse un torto a Corysia in sua presenza. Per conto mio, ho perso un orecchio, anche se non so dire quando è successo. I miei compagni mi hanno offerto molti suggerimenti per rimediare, in gran parte centrati sull'opportunità di tagliarmi anche l'altro per ripristinare l'equilibrio. È un miracolo che siamo riusciti a uscire vivi da Rhemia; gran parte dell'equipaggio dell'Azhir è rimasto laggiù, nella città maledetta, ucciso du-
rante la battaglia presso il ponte o nel corso della tempesta di paura seguita all'aprirsi della scatola nera. Quando emergemmo dal cerchio di terrore, eravamo ormai quasi alla follia; ci vorrà molto tempo prima che si cancelli in noi il ricordo di quella notte. Non so che cosa sia successo ai nostri nemici, o al coraggioso Marcus Sabinus e ai suoi soldati. Qualcuno è riuscito a scappare, sicuramente, come noi. Ma poche persone, dolorosamente poche, sono riuscite a uscire dalla città. Da quella notte, Corysia non ha più menzionato suo padre, né l'ho fatto io. Vorrei poter dire di essere diventato più saggio grazie alle mie avventure. Di possedere una comprensione più profonda delle astuzie dell'Uomo. Ma nelle mie mani ogni trionfo sembra tramutarsi in tragedia, e alla fine mi sembra di non aver guadagnato nulla. Può darsi che, alla conclusione di tutto, questi dolori si rivelino nel loro complesso un bene. Ma oggi è difficile poterlo affermare. Una sola luce rischiara il mio cure, mentre facciamo vela per gli Stretti e per il mare aperto. Da tempo non sentivo più intorno a me la presenza del veggente; l'altra notte, invece, in un sogno, ho avuto la vivida sensazione che mi fosse vicino. Mi sono visto in un luogo che non avevo mai visitato prima. Era in una regione grande, vastissima, molto ad Ovest di Albion, al di là del Mare delle Nebbie. So che quel luogo esiste: ne ho visto i contorni segnati sulla sfera che trovai fra gli Avakhar e persi nella Grande Desolazione. Sono certo che quell'oggetto mostrava la vera forma del mondo, e che una nave, dopo aver attraversato il Mare delle Nebbie non precipiterebbe nel vuoto, ma approderebbe a quella nuova terra. Signar è d'accordo con me, mentre Rhalgorn non ne è troppo sicuro. Per ora, le nostre vele sono tese da una brezza robusta, e dietro di noi c'è una lunga scia di spuma. Abbiamo tempo da dedicare alla birra, ai buoni compagni, e ad altre piacevoli diversioni. È difficile immaginare che sulla terra ci sono creature che non trovano gioia in cose del genere. Eppure, molti le trascurano in favore di cose che valgono di meno, altri le dimenticano per dare la caccia a cose che - secondo loro - valgono di più. In verità, credo che sia proprio impossibile soddisfare tutti... FINE FRANCO FORTE
LA SPADA DEGLI DEI (1985) FRANCO FORTE E IL CICLO DI OROS È ora la volta di Franco Forte e del suo Ciclo del Mondo di Oros. Infatti, proseguendo nella proposta che sto portando avanti circa gli autori italiani di fantasia eroica, eccomi qui a presentarvi un altro giovanissimo autore che spazia in modo assai riuscito in questa particolare tematica per la verità assai prodiga di scrittori quanto mai interessanti. Franco Forte - prendendo a prestito una definizione dell'amico Renato d'Aquino - non è uno dei Bronzi di Riace, sebbene una delle costruzioni che ancora sgocciolano d'intonaco fresco. È infatti giovanissimo (frequenta il primo anno della Facoltà d'Ingegneria a Milano), ma questa sua giovane età non gli ha certo impedito di esprimersi in maniera assai felice sia nel campo della fantascienza che in quello della fantasy. Per quanto attiene la fantascienza ha pubblicato diversi racconti su fanzines ed uno, Mefistofele, di recente apparso sulla Rivista SF.. ere, gli ha valso molti consensi da parte degli appassionati per il garbato tono di humour che vi ha saputo infondere. Ma se la riuscita in campo fantascientifico è stata positiva, a mio avviso il settore che gli è sicuramente più congeniale è quello della fantasy e, in particolare, quello della heroic fantasy. Ha composto infatti per questo particolare genere di narrativa una serie di racconti tutti ambientati nel Mondo di Oros, che hanno il pregio di una esposizione piana ed accattivante che avvince il lettore dalla prima all'ultima pagina. Il tratteggio dei vari personaggi è portato con competenza ed acume tali che, se non vi avessi rivelato la giovane età del nostro autore, sareste sicuramente portati dopo la lettura ad attribuirli ad uno scrittore avanti con gli anni e con l'esperienza di vita. Dopo questo racconto (che è il primo in ordine cronologico del Ciclo) ve ne presenterò un altro nel secondo volume dell'Enciclopedia della Fantascienza dedicato alla Heroic Fantasy Italiana, MAGIE E STREGONI, che vedrà la luce entro il primo semestre di quest'anno. Un altro poi lo pubblicherò sulla Rivista SF.. ere per cui spero, entro un lasso di tempo relativamente breve, di farvi conoscere un po' più approfonditamente sia l'autore che questa sua Saga. Perché, ne sono certo, non mancherà di piacervi.
Gianni Pilo PROLOGO Come vi furono ere remote e splendenti civiltà ormai dimenticate, così la mutevolezza dell'Universo ha saputo creare luoghi e situazioni in cui l'insolito ha usurpato il trono al quotidiano, l'impossibile ha potuto pienamente esprimere il suo fascino represso, le fantasie si sono solidificate in realtà dalle loro auree immaginarie. Ogni possibilità è contemplata, ogni teoria è trasformata in legge nelle sconfinate distese dell'infinito. Da qualche parte come punto invisibile coi suoi parametri d'esistenza, prospera Oros, un pianeta su cui il Caos ha saputo estendere parte della sua morbosa influenza; un mondo ove gli Dei hanno sconfinato dalla fantasia degli uomini, per lottare contro il Male a salvaguardia dell'Ordine. Questa è la storia di Fherd e Whitesnake, i due più grandi campioni che lottarono al servizio del Bene supremo. 1 Il sole sorgeva a Levante, immenso in una coltre di tinte cupe. Sottili nubi grigie ne esasperavano i colori scarlatti, proiettando un morbido alone ombroso fin sulle bianche cime delle alte montagne. Fherd ammirava affascinato il rinascere della vita, dopo l'oblio della notte. Era giunto in terre di cui non supponeva nemmeno l'esistenza. Vagabondava da più di un anno attraverso deserti, valli verdeggianti, catene montuose dall'apparenza impenetrabile. Talvolta tornava con la mente alla sua città natale, alle fiorenti terre che aveva abbandonato. Allora le lacrime tornavano a scorrergli sulle guance, mentre i pugni si stringevano e i muscoli si contraevano, al ricordo di un'ira che superava il dolore. Dopo più di un anno, ancora non aveva dimenticato la sua follia, l'assurda ambizione che lo aveva spinto a sacrificare la vita dei suoi compagni, della sua famiglia, in nome di un vanitoso progetto di libertà a cui i Signori di Thur non avevano concesso la loro benevolenza. Non aveva mai compreso quale fosse il reale valore dell'amicizia, dell'amore, sino al giorno in cui vide crollare il suo mondo coi propri occhi.
Ora scontava i suoi errori, viaggiando solo in terre ignote, con la sola compagnia di un ricordo straziante. Strinse la vecchia lancia ormai logora che lo aveva accompagnato in mille delle sue inutili battaglie contro il potere e la bramosia di esso, in difesa di quella minoranza di persone oneste che avevano persino paura a lamentarsi per il dolore sofferto. Aveva abbandonato la Stilita perché le sue lotte avevano contribuito a sterminare con maggior celerità quegli afflitti che si affidavano alle sue parole, quei disgraziati che la disperazione costringeva a seguirlo nelle sue crociate, a fidarsi ciecamente della forza che il suo fisico possente ispirava. Ma è la storia stessa ad insegnarci che un uomo solo non basta ad arginare la sete di potere dei potenti, e fu così che le sue parole di protesta causarono più morti tra gli innocenti di quanti se ne videro nel passato, seppur doloroso. Fherd rabbrividì al pensiero, e il suo grande corpo muscoloso tremò come una foglia in balia del vento. Con un urlo di rabbia spezzò in due il legno nodoso della sua lancia, e con essa il passato. Quando il volto gli si fu asciugato delle lacrime, riprese il cammino e si diresse a passo sicuro verso la valle in cui cadeva il sole. Pigre spirali di fumo si levavano verso il cielo, obliquamente, tardando a dissolversi nella totale mancanza di vento. Fherd s'immobilizzò, pervaso fin nel profondo dell'anima da un crescente senso d'apprensione. Le spirali di fumo rivelavano la sicura presenza dell'uomo tra quelle montagne. Aveva pensato spesso a quel momento; a quando sarebbe tornato ad immergersi tra i suoi simili. Non poteva evitarlo, la sua mente non avrebbe sopportato a lungo l'eremitaggio. Eppure la consapevolezza dalle sue debolezze, della forza delle sue illusioni, lo tratteneva. La sua città e la sua gente avevano pagato il prezzo dei suoi sogni; non voleva procreare altra infelicità. D'altronde, Fherd non sarebbe riuscito a sopravvivere in una forma di segregazione autoimposta. Il suo spirito era come quello di un ocras dalle quattro ali: doveva essere libero; libero di muoversi negli ampi spazi della vita come il grande rapace bianco volava indisturbato nei cieli di tutta Argat, e in ugual misura sentiva di aver bisogno della compagnia dei suoi simili, perché in fondo era per essi che aveva combattuto e sofferto. Con improvvisa decisione cessò definitivamente di imporsi quello sfre-
nato volontarismo che lo aveva portato tanto lontano dal mondo che lo aveva allevato, e si diresse con rinnovato vigore verso il luogo che dava i suoi natali alle spirali di fumo. Camminò due giorni interi, prima di riuscire a raggiungere la strana costruzione: grossi blocchi di roccia intagliati e posti l'uno contro l'altro in quadrato sorgevano accanto ad una capanna di fango e bambù, tanto semplice quanto robusta all'apparenza. Uno dei grossi blocchi possedeva un'apertura nel mezzo, attraverso cui si scorgeva lo splendore di giocose fiammate. Una colonna di fumo si alzava verso il cielo azzurro da una bocca scavata nella roccia posta sulla sommità della costruzione. Un vecchio sedeva innanzi alla riverberante apertura, ed ogni tanto, con apparente regolarità, vi immergeva un po' di legna che raccoglieva da una ordinata catasta che aveva accanto. «Salve vecchio.» L'uomo anziano non si mosse. Con voce bassa e pacata si limitò a dire: «Ti ho sentito arrivare, straniero. Ti accolga il mio benvenuto.» Posò la mano su un grosso ceppo «Siedi accanto a me.» Fherd si sistemò vicino al vecchio, assaporando il tepore che usciva dalla grande costruzione. «Perché alimenti il fuoco in questa grande cella?» chiese «Al rame non occorre tutto questo calore per potersi uniformare ai tuoi desideri.» Il vecchio si voltò finalmente a guardarlo. Il volto rugoso segnato dalle cariche di una lunga vita intensa era celato quasi interamente dai lunghi capelli e dalla folta barba bianca che gli scendeva fin sulle ginocchia. I suoi occhi grigi scrutarono profondamente il volto segaligno di Fherd. «Non è il rame il materiale che io modello. L'eremitaggio tra queste montagne mi ha donato la possibilità di compiere studi accurati e di superare questo stadio inattivo. Credimi, straniero, sono andato ben oltre.» Con un veloce movimento della mano destra alzò una manica della pesante tunica grigia che indossava. Il braccio era orribilmente deturpato da una rugosa cicatrice. La pelle aveva assunto un colore bruno, e la sua apparenza accartocciata dava l'idea che dovesse sfaldarsi da un momento all'altro. «Ho dovuto subire le conseguenze della mia sfida all'ignoto. Questo braccio non riesco a sollevarlo per più di una spanna. Eppure non mi sono mai arreso. Ho sacrificato la mia vita nello studio del fuoco e della fantastica arte del modellare i metalli, ed ora ne sono pienamente consapevole.» Tornò a fissare le fiamme che lambivano voraci la legna nel forno e il
suo volto assunse un'espressione malinconica. «Quando ero poco più di un ragazzo, un maldestro predatore che cercava la ricchezza nell'aridità di questa montagna, ricordo che mi trovai a passare per un caso del destino in questa valle spoglia, in cui l'acqua sgorga a fatica dai rari pozzi che qualcuno si è preso l'inutile briga di scavare. In uno di questi mi stupii di scorgere un olio nero, al posto dell'acqua, denso e dal sapore orribile. Quella stessa notte gli dei vollero che i miei occhi di fanciullo assistessero a un grande prodigio. Mi ero coricato da poco, quando una grande fiamma scese dal cielo con un boato assordante e sfolgorò in quel pozzo, continuando ad ardere come per magia. Quando compresi il potere di quell'olio, ebbi tra le mani il sacro potere del fuoco, poiché capii di poterlo alimentare a mio piacimento per il tempo di intere generazioni.» Il vecchio si alzò e andò a raccogliere un otre che porse a Fherd. «Ecco l'olio di cui ti ho parlato.» Fherd esaminò affascinato lo strano liquido. «È con questo che mantieni sempre vivo il tuo fuoco?» «Arde come la legna ma più della legna. Viene con me, ti farò vedere cosa sono in grado di creare col suo ausilio.» 2 La piccola capanna tratteneva a stento gli umori mutevoli del tempo. Il susseguirsi delle stagioni aveva lisciato il legno delle pareti ed indurito il fango che ne saldava le intercapedini. L'arredamento era modesto, conforme alle abitudini del padrone di casa. Un tavolo sgangherato, un paio di sedie fatte a mano senza l'evidente ausilio di utensili, una lunga panca ed un giaciglio con sponde di legno scuro. Un enorme baule di legno attirava l'attenzione di chiunque mettesse piede per la prima volta nella capanna. Bolish porse a Fherd una tazza di terracotta. «Bevi questo liquore. L'ho preparato io stesso estraendolo da erbe che raccolgo sul monte Bara. È molto forte.» Mentre Fherd era intento ad assaporare il verde infuso d'erbe, Bolish estrasse un fagotto di stracci dal capiente baule di legno. Depose l'involto ai piedi di Fherd. «Sei il primo uomo che non fugge la mia presenza da quando il Dio della Fiamma si è manifestato in questa valle. Tu hai finalmente portato nel mio cuore un po’ di felicità. Voglio contraccambiare la compagnia delle tue parole donandoti la cosa che più mi è cara ma che ormai non può essere più utile ad un vecchio come me.» Svol-
se il fagotto, rivelando un largo fodero di cuoio nero raffinatamente intarsiato. «Le mie braccia non sono più in grado di sostenere il peso di questa spada. Voglio che Belator sia tua.» Fherd fissò meravigliato la lunga spada. Possedeva una strana forma, o forse era simile a tutte le altre spade che lui aveva visto ma con qualche particolare indefinibile che rendeva stonato l'insieme dei contorni e quindi la sua figura. La sommità dell'impugnatura esibiva un pomo a disco, schiacciato quasi insensibilmente, troncato in basso all'inizio dell'impugnatura. Il disco era inciso nel suo centro, dove spiccava una elaborata «B». Il vecchio prese a descrivere la spada e le sue straordinarie caratteristiche: «Avrai notato certamente la brevità dei bracci dell'elsa in confronto a quelli della maggior parte delle spade, almeno quando i bracci sono diritti come questi.» Certamente i bracci lunghi sembrano a tutta prima consentire una migliore difesa del braccio; di fatto però, i colpi che scivolano lungo la lama trovano l'elsa anche se essa ha i bracci brevi, mentre questi consentono di scansare qualche fendente che potrebbe colpire un elsa più lunga. Inoltre prova ad estrarla: vedrai che la lunga lama di Belator è abbastanza larga da consentire potenti colpi di taglio, ma nel contempo possiede una costola robusta che consente di colpire meglio di punta. Comunque, la differenza essenziale sta soprattutto nel materiale della lama. Forza, prova a sollevarla. «» Fherd esitò un attimo, poi allungò le mani deciso e affascinato. Il suo viso assunse un'espressione di stupore quando fu costretto a contrarre con forza i muscoli per sollevare la spada. Quando l'ebbe estratta dal fodero, spalancò la bocca e restò a fissarla attonito. Bolish sorrise compiaciuto. «È la prima volta che vedi un materiale così lucente, vero? L'ho scoperto io stesso su queste montagne. È un materiale fortissimo, indistruttibile, che non può essere messo a confronto neppure col rame più resistente.» Il vecchio si alzò e accompagnò Fherd con la spada fuori della capanna. Allungò il braccio destro, quello sano, seppur deturpato dai segni della vecchiaia, ad indicare una grossa formazione rocciosa. «Provala contro quel masso.» Fherd si avvicinò allo spuntone di roccia che sembrava emergere dal terreno come un fungo ai piedi di un albero. Sollevò la spada sopra la testa, impugnandola con entrambe le mani e, dopo un attimo d'incertezza, lo calò con tutte le sue forze.
Si era aspettato che la lama si sfracellasse inevitabilmente in una miriade di frammenti, data la forza con cui era avvenuto l'impatto, ma quella sorte capitò alla protuberanza rocciosa. Il contraccolpo inaspettato gli strappò l'arma dalle mani col rischio di spezzargli i polsi. Il vecchio Bolish si rammaricò con sé stesso: «Avrei dovuto avvertirti di essere più cauto. Non potevi immaginare che la spada potesse resistere ad un simile urto. Adesso comprendi quale sia la sua formidabile potenza?» Raccolse Belator con apparente disinvoltura e mostrò a Fherd il corretto modo in cui s'impugnava. «Dovrò insegnarti a combattere con quest'arma... se lo vorrai, naturalmente.» Fherd si illuminò in volto. «Certo che lo voglio.» Affermò, e strinse Belator con la forza della passione. Il fluire armonico del tempo ebbe una contrazione in quell'ultimo trascorrere di stagioni tra i freddi monti di Kermon, quasi volesse concedere a Fherd ogni secondo della sua vita perché l'apprendistato che stava seguendo fosse il più completo possibile. I colpi di spada inferti al vento e il clangore del metallo adamantino sul granito della montagna, si diffondevano con lunghi echi per i crepacci insondabili del monte Baru, sino a raggiungere i preoccupati machen dei ghiacciai, il cui ringhio sommesso sorgeva in tono di sfida alle urla di battaglia lanciate da Fherd. Il vecchio Bolish scrutava soddisfatto l'accrescersi della muscolatura del suo discepolo, e con essa la sempre più fluida disinvoltura con cui il giovane maneggiava la pesante spada. Sempre più spesso, quasi volesse raggiungere l'apice prima dell'arrivo dell'estate, Bolish impugnava robusti bastoni e impegnava Fherd in stressanti duelli, dimostrando una resistenza fisica del tutto inusitata per la scadente qualità delle sue membra intorpidite dagli anni. O almeno questo era quello che credeva Fherd, il quale ben presto si accorse di quanto fossero sufficienti al vecchio la sua estrema abilità nel maneggiare la finta spada di legno e la conoscenza profonda di sottili trucchi, per compensare egregiamente la sua mancanza di pura forza fisica. Ben presto, Fherd prese coscienza di quanto le astuzie del cervello possano rivelarsi più efficaci dell'ira e della brutalità, anche se all'apparenza meno evidenti. E quando i primi raggi di sole presero a brillare fastidiosi sulle distese ghiacciate del monte Bara, egli aveva imparato a correlare ogni movimento del suo corpo con gli impulsi meditati suggeriti dal suo
cervello, e Belator si era fusa come in un tutt'uno col suo corpo, quasi fosse un terzo arto che egli aveva imparato a maneggiare con la stessa disinvoltura con cui si reggeva in piedi. Fu allora, dopo che una nuova notte ebbe chiuso dietro a Fherd l'ultimo giorno della breve primavera di Argat, che gli dei decisero di rivelarsi all'uomo. La capanna scomparve in un batter di ciglia durante il sonno di Fherd, e la figura sottile di Bolish irruppe tra le donne dai seni prosperosi che popolavano i suoi sogni comunicandogli queste parole: «La mia vita, come quella di ogni altro essere vivente, era stata predestinata per questo evento. Ho vissuto in questa piccola valle tra i monti aspettando il tuo arrivo come ultimo atto della mia esistenza, ed ora tornerò nella Valle Sacra dell'Hyperion a prendermi cura degli dei che mi donarono la vita, e che forse vorranno concedermi una nuova esistenza, in futuro, da qualche parte su Oros. Sono felice di aver reso un fedele servizio ai miei padri; e tu ne sei il magnifico risultato. Ora debbo lasciarti, ma prima ascolta le parole che ti comunico per bocca dei Signori di tutta Argat. Essi desiderano che tu parta per le terre dell'Ovest, in cerca del villaggio di Mosul. Laggiù si unirà a te un altro tassello di quel mistico mosaico che è stato composto per il tuo destino, perché gli dei ti hanno scelto per una missione, un fato che si addice solo a te, e che forse è il più grande tra quelli che sono stati concessi ad un mortale. Ma non è questo il momento e il luogo perché tu ne acquisti piena coscienza. Ora il tuo unico dovere è quello di raggiungere il villaggio di Mosul, oltre la Contrada del Sole, ai margini inferiori del Deserto Occidentale. Non è soltanto un ordine degli dei che ti sono padri, ma anche un consiglio che voglio darti di persona, perché ho fiducia in te e in tutto quello che ti ho insegnato.» Cessate che furono quelle parole, la voce di Bolish si fece sempre più confusa, indistinta, e l'intera figura del vecchio si restrinse, sfumò, diventò evanescente, finché comparve Belator fulgida come un astro nella notte, e quello che restava di Bolish venne assorbito dal bagliore della sua lama lucente. Quando Fherd si riscosse dal sonno, una frase riecheggiava ancora nella sua mente, appena distinta: «Io non ti lascerò, Fherd. La mia essenza sopravviverà in Belator, e se tu non l'abbandonerai mai, con essa potrai avermi sempre presente». Fherd spalancò gli occhi d'improvviso, turbato da quel ricordo che sfumava nell'irrealtà del sogno, e il cielo stellato che poco prima incombeva
sul suo capo gli fornì la risposta a tutte le sue domande. Non era rimasto nulla di Bolish e di quello che il vecchio aveva costruito in una vita intera. La sola Belator, profondamente infissa a terra accanto al suo giaciglio, restava a testimone della sua piena sanità mentale. Sempre procedendo verso Ponente, Fherd raggiunse una vasta e calda pianura, ricca di palme da datteri e di loirash dalle polpose foglie verdi. Ricordò che Bolish gli aveva parlato di quella pianura, la Contrada del Sole, malsicura a causa di certi predoni detti Cauranas. Il vecchio gli aveva spiegato che gli abitanti della valle allevavano strani buoi, grandi e bianchi come la neve, con corna corte e gobba tra le spalle, assai belli a vedersi e forniti di una forza spaventosa. I Cauranas miravano puntualmente a quelle prede, attaccando i borghi durante le tempeste di sabbia provocate dal Simun del Sud, quando nugoli di sabbia producevano spesso un'oscurità che si prolungava anche per sette giorni di seguito. Fherd rimase qualche attimo ad ammirare la" verde distesa di dolci colline e regolari campi coltivati a rettangoli di qualche chilometro, poi voltò le spalle alla tentazione trascinando con sé i due robusti pelagi da soma che aveva catturato ai piedi del monte Baru, quasi che la sua fortuna fosse stata oggetto della benevolenza degli dei. Gli animali maculati portavano sul dorso capienti bisacce che contenevano alcune botti di olio nero e una scorta del prezioso metallo che aveva raccolto sotto la guida del vecchio Bolish. Fherd aveva intenzione di aggirare la Contrada del Sole, per poi proseguire in direzione del Deserto Occidentale. Se il sole discendente non lo ingannava, il villaggio di Mosul avrebbe dovuto trovarsi sul suo cammino, ad una ventina di giorni di marcia sulla pista di Ponente. 3 Mosul prosperava nelle faide tipiche dei villaggi di frontiera, create da uomini rozzi, forti, dediti ad una vita selvaggia di conquista, le cui speranze e illusioni infrangevano qualsiasi ostacolo eretto dalla natura. Innumerevoli costruzioni di legno e fango si reggevano a stento sulle poderose radici della grande montagna che qualche chilometro più a Nord sormontava il villaggio. Fherd s'incamminò guardingo sull'improvvisato acciottolato della strada maestra, scrutando coi suoi occhi castani ogni zona d'ombra e ogni pertu-
gio nascosto dal buio. Conosceva i rischi e i pericoli cui andava incontro l'eventuale viaggiatore che giungeva in villaggi come quello, in cui ognuno badava a sé stesso con le sole proprie energie, senza potere contare sull'aiuto di alcuno. Delinquenti ed approfittatori di ogni fatta frequentavano i villaggi di frontiera in maniera assidua, sicuri di non trovare alcuna opposizione alle loro scelleratezze. La sopravvivenza era destinata all'abilità personale del singolo individuo. Fherd localizzò immediatamente la bottega del maniscalco e vi si diresse con passo spedito. I suoi pelagi avevano bisogno di riposo e di abbondante foraggio, dopo il massacrante viaggio al quale li aveva sottoposti. Il maniscalco, un uomo grasso dall'espressione ambigua, lo accolse senza una parola. Raccolse le brighe dei due animali e li condusse nella stalla, sul retro della bottega. Fherd restò in piedi ad osservare il forcone del maniscalco che lanciava mucchi di biada sotto i musi spenti dei due animali. Terminata quell'operazione, l'uomo parlò. «Fanno due piastre di rame per notte. Quando tornerai a prenderli, pagherai.» Fherd annuì col capo senza aggiungere alcun commento, e uscì dalla stalla. Bighellonò per qualche minuto sotto il sole implacabile, poi decise di entrare in una delle numerose locande in cui la gente si affollava per discutere dei propri affanni, o per ripararsi dal caldo e dalla polvere sollevata nell'afoso pomeriggio. Si fece largo coi gomiti tra la ressa di ubriachi e andò ad occupare un tavolo che sembrava vuoto. Quando fu sulla scomoda sedia di legno, pensò che qualcosa non andava come avrebbe dovuto, in quel locale. Improvvisamente avvertì la stonatura: si trattava del tavolo a cui si era seduto. C'era un mucchio di gente, ancora col bicchiere in mano, che restava ih piedi pigiata nel mezzo della sala ignorando deliberatamente i quattro posti liberi. Sembrava quasi che tutti evitassero anche solo di avvicinarsi a quel tavolo. Fherd si riscosse da quei pensieri quando si accorse che il silenzio era calato nella locanda e che una cinquantina d'occhi lo fissavano sgomenti. Il locandiere arrivò di corsa, trafelato, sfregando nervosamente le mani in un sudicio grembiule. «Tabriz... Tabriz, il tavolo è occupato.» piagnucolò con voce preoccupa-
ta «Non può sedersi qui. La prego...» «Come sarebbe a dire?» chiese Fherd che non comprendeva una simile assurdità. «Non ho trovato nessuno a reclamare i diritti per queste sedie.» «Questo tavolo è riservato a Lane della lontana Seth.» la folla emise all'unisono un brusio di disagio all'udire quel nome. «Potrebbe essere qui da un momento all'altro.» «A quanto pare» rispose Fherd con un sorriso beffardo tra le labbra «questo Lane è molto temuto nella Contrada del Sole. Io non lo conosco, ma non credo sia così grosso da riuscire ad occupare quattro posti tutto da solo. Se vorrà, potrà sedere con me a questo tavolo.» Un'agghiacciante risata si ripercosse a commento per tutta la taverna, agendo come uno spartiacque nella folla impaurita. Un uomo comparve davanti alla porta. «Ora mi conosci, straniero.» tuonò. «Sta a te giudicare se quel tavolo è abbastanza grande per poterci ospitare entrambi.» Il visitatore non aveva un aspetto rassicurante. Con un corpo grande e grosso più del doppio di quello di Fherd, se ne stava in piedi a gambe larghe, con i pugni chiusi poggiati spavaldamente sui fianchi enormi. Un'aurea quasi palpabile di forza animalesca si levava dalla sua figura. Un'espressione crudele traspariva da un paio di occhi grigi sormontati da due cespugliose sopracciglia nere. I capelli, sudici e tagliati approssimativamente con l'evidente lama di un coltello o di una spada, erano soffocati da un grosso elmo di cuoio nero da cui spuntavano due sinuose corna d'avorio bianco. La sagoma poteva essere quella di un gigante coperto da un paio di calzoncini di pelle di machen e dall'enorme petto glabro gonfiato in avanti come lo sperone roccioso di una montagna. Una larga spada di rame era assicurata nel suo fodero dietro la schiena da una robusta cinghia di cuoio. L'elsa era facilmente raggiungibile con un veloce movimento circolare del braccio, e una volta estratta era già pronta per calare in un terribile fendente sul capo dell'avversario. Fherd fissò senza disagio quello sguardo duro e boriosamente sicuro di sé. «Hai proprio ragione, amico mio.» disse «Sei troppo grosso perché si possa sedere entrambi attorno a questo tavolo...» il gigante sfornò un ghigno di compiacimento «... ma è anche vero che non ho alcuna intenzione di cederti il mio posto. Per cui mi vedo costretto a ritirare la mia offerta e ad augurarti di trovare in qualche altra locanda sedie abbastanza robuste da
potere sopportare il tuo peso.» Il gigante impallidì e il sorriso gli si deformò in faccia come la smorfia di un bambino crudele. Gonfiò il petto come un rospo in amore, mentre le guance gli si imporporarono dal furore. La sua mano corse veloce alla spada, sfoderandola, mentre il suo sguardo feroce indicava chiaramente che era in procinto di compiere una strage. Emise una specie di orrido grugnito, poi le parole gli uscirono dalla bocca come fossero dardi avvelenati. «Sporco bifolco delle paludi, ti farò a pezzi e darò la tua carne in pasto ai losesh del deserto. Alzati in piedi se un po' di sangue ti scorre nelle vene.» L'ultima frase fu un grido strozzato, più che una corretta susseguenza di parole. Gli avventori della locanda si pigiarono più che poterono contro le pareti, creando spazio, terrorizzati, ma nel contempo ansiosi di seguire lo svolgersi del diverbio. Fherd sfoggiava un bonario sorriso e la più completa indifferenza alle minacce del gigante. Lane si imbestialì oltre i limiti della sopportazione e partì alla carica, sbuffando come un pelago da corsa. Levò la spada sopra la testa e l'abbatté con forza terribile sul tavolo che lo separava da Fherd. Il mobile si spaccò in due, quasi senza opporre resistenza al colpo subito. Fherd si alzò in piedi e fronteggiò faccia a faccia il suo sfidante. Sfilò lentamente Belator dalla custodia, enfatizzando al massimo quel gesto e provocando una totale apnea nella locanda. Il gigante, pur sconvolto dall'ira, notò il metallo lucente e compatto da cui trapelava una forza arcana e minacciosa. Fherd impugnò l'elsa a due mani e puntò la spada contro il suo nemico, roteandola lentamente così che tutti ricevessero in viso il bagliore dei raggi solari riflessi dalla lama. Un brivido di forza, di spavalda potenza, passò dalla pesante spada ai muscoli tesi delle braccia di Fherd, correndo alfine per tutto il suo corpo, contribuendo ad inebriarlo di ardore. Lane parve accorgersi di quell'effetto, e tutta la sua figura parve sgonfiarsi. «Allora, bestione, quella spada pesa troppo per il tuo braccio? Son muscoli, quelli che mostri con tanta benevolenza, o fasce di grasso?» Quelle poche parole bastarono ad incitare il colosso che si lanciò contro Fherd con rinnovato furore. Alzò la spada e la calò sull'elmo di cuoio indossato da quest'ultimo. La spada lucente si frappose alla pericolosa traiettoria all'ultimo istante, bloccando il micidiale fendente.
Il gigante fece un passo indietro, poi tornò alla carica con un secondo fendente diretto all'anca. Fherd intuì il colpo e con un veloce spostamento laterale portò la sua lama a cozzare trasversalmente con quella di rame del suo avversario. I presenti emisero all'unisono un unico boato di meraviglia quando la spada di Fherd tranciò in due l'arma del gigante come fosse stata di burro. Il colosso si immobilizzò con ancora le braccia tese, atterrito e nel contempo profondamente sconvolto dallo stupore. Fherd non attese un secondo di più: la punta della sua spada puntò in avanti con uno scatto improvviso e s'infilzò nello stomaco del gigante senza incontrare resistenza. Quando ritrasse Belator, un fiotto di sangue scuro si riversò a terra, preparando la pozza in cui poco dopo andò a riversarsi il corpo inanimato di Lane. Una voce si levò improvvisa nella sala, quando ormai lo stupore per la vittoria conseguita da Fherd era superato: «Perché lo hai ucciso, Tabriz? Ormai era sconfitto.» Solo allora Fherd ripensò al suo gèsto. Aveva agito seguendo il suo solito istinto, accantonando ancora una volta la ragione e infrangendo quel giuramento di moderazione che aveva stipulato con se stesso tempo addietro. Rinfoderò la spada macchiata di sangue e voltò lo sguardo verso l'uomo che aveva parlato. «Era un prepotente.» cercò di giustificarsi. «Se non l'avessi ucciso, prima o poi avrebbe cercato di farlo lui.» Quel ben magro discorso servì a convincere i presenti, che cominciarono a bisbigliare tra di loro commentando il duello a cui avevano assistito, ma lasciò a Fherd un poco di ghiaccio nel cuore. Dalle altre locande prese a giungere un numero sempre maggiore di persone, a cui era giunta la notizia dello scontro e che ora volevano conoscere di persona l'uomo che aveva ucciso Lane di Seth. La birra cominciò a scorrere a fiumi, mentre gruppi di persone ripetevano agli assenti i movimenti che avevano portato Fherd ad avere ragione del suo terribile avversario, naturalmente con l'aggiunta di numerose teatrali modifiche. Fherd si sedette ad un tavolo liberato apposta per lui col viso contratto circondato da un nugolo di persone che gli si addensava intorno come api sul miele. Abbozzò un debole sorriso di ringraziamento e, dopo aver ripromesso a
se stesso per l'ennesima volta che mai più avrebbe agito in quel modo irresponsabile, si abbandonò alla piccola festicciola che era nata in suo onore. 4 La Fama è messaggera tenace di verità che lentamente trasmuta in mezze verità, per poi fissarsi in una formula compiuta, esatta, di sordida esagerazione. I fatti importanti, gli avvenimenti che colpiscono, non tardano a diffondersi. Le gesta di eroi, o di uomini innalzati a tale grado, passando di bocca in bocca si ingrandiscono, acquistano sempre nuovi e maggiori particolari che, ripetuti e intesi da più parti, diventano conferma di se stessi. Così spesso si forma la cosiddetta «Opinione Pubblica». Le situazioni, i «fatti», dapprima sono solo sussurri, poi pian piano prendono vigore, si rafforzano, si riaffermano, creando miti, eroi, leggende. Così, dunque, l'Uomo dalla Spada Lucente per le bocche degli uomini ovunque si conobbe. Sacra spada forgiata dagli dei, invincibile arma creata dal cielo. Il villaggio di Mosul acclamava il suo eroe; da ogni dove accorreva gente. In breve, il piccolo villaggio di frontiera divenne città di ritrovo, meta obbligata per ogni viandante che attraversasse i confini di Kentrat. Fherd non badava a tutto quel trambusto; si era ritirato in una delle stanze della locanda che il gestore gli aveva messo a disposizione gratuitamente, certo di potersi rifare abbondantemente con la moltitudine di gente che il suo ospite richiamava da ogni parte. Fherd abbacava costantemente verso il suo passato; non più quello remoto, che ormai aveva imparato a tenere lontano, ma il più recente. Il più scottante. Fissava con gli occhi abbacinati la spada adamantina, ricordando inevitabilmente l'uomo che l'aveva creata e che aveva avuto abbastanza fiducia in lui da volergliela donare. La sua mente ripercorreva allora i giorni felici del suo addestramento, quando il suo cuore era tornato a battere per la vita, nella vita. Regolarmente il rimorso tornava, sempre più forte, per la sua mancanza. Si era lasciato trascinare dall'ira, dalla sua peccaminosa accidia per le promesse.
Sedeva triste sul bordo del letto, con le orecchie chiuse al fragore della città, alle voci che lo acclamavano. Il sole albiccio fondeva le pietre, ed il suo calore esasperava l'animo adugiato di Fherd lo Stilita. Il Deserto Occidentale confinava col villaggio di Mosul là dove la montagna si ritirava verso Nord: dal terreno adusto si levavano correnti d'aria calda che rendevano tremolanti e confuse le figure di chiunque vi s'incamminasse. Una di queste, in sella al suo aggraziato pelago, si stava avvicinando lentamente, con le sue lunghe vesti che la coprivano da capo a piedi. Il robusto pezzato sollevò la testa e nitrì, quando le sue narici frementi colsero l'odore dell'acqua e della fresca erba dei pascoli montani. Una raffica di vento sollevò un mulinello di sabbia bianca che s'infranse sul viaggiatore. Mosul distava ancora un centinaio di leghe; la figura ammantata di nero calcolò di poterci arrivare nel pomeriggio del giorno seguente. I suoi calcoli si dimostrarono errati, dato che riuscì ad individuare le case del villaggio grazie alla pallida luce irradiata dalla luna vermiglia che risaltava nella notte. Gli zoccoli del pelago risuonarono bizzarramente, quando l'animale si avviò lungo la strada principale del paese, lastricata di recente. Il viaggiatore guardò senza riconoscerlo un villaggio che aveva già visitato in passato. La fresca brezza delle montagne asciugò il sudore sui fianchi del pelago. Un uomo uscì da una piccola taverna barcollando e in breve finì a spolverare il selciato con l'enorme naso arrossato dal vino. Quando si rialzò, scorse con la coda dell'occhio la figura in nero che si allontanava lentamente verso il centro di Mosul. Pur con gli occhi gonfi e la mente annebbiata dall'alcool, riconobbe la silenziosa figura e gli sgargianti finimenti che bardavano il pezzato. Si buttò incespicando verso la locanda, tentando di avvertire il mondo intero con urla spaventose dell'avvento della fine del mondo. La città si era svegliata di soprassalto, dapprima svogliatamente, poi con crescente apprensione. Dalla strada giungevano grida incomprensibili ad una mente ancora confusa dal sonno. Fherd si versò una brocca d'acqua fresca sulla testa, poi si sporse dalla finestra. Una moltitudine di persone si muoveva disordinatamente, come un esercito di formiche indaffarate. I volti esprimevano meraviglia, paura, talora angoscia, tutti sinonimi di una sola visione. Un coro di voci ripeteva
incessantemente una stessa frase, terribile nella sua angosciosa monotonia: «È giunta Whitesnake! Whitesnake è qui.» L'avvento della luce del sole non quietò gli animi. Un sordo trambusto scuoteva continuamente il suolo di Mosul. Un bussare irrequieto svegliò Fherd di soprassalto. Lo Stilita si alzò grugnendo, si vestì con movimenti maldestri, quindi finalmente andò ad aprire la porta. La spada che l'istinto gli aveva fatto impugnare tornò a riposare nel suo morbido fodero, quando Fherd riconobbe il locandiere. L'uomo aveva il viso contratto e i suoi denti abradevano furiosamente tra di loro senza posa. Parlò improvvisamente, emettendo una fiumana di parole senza neppure spalancare totalmente la stretta porta di legno scuro: «Dovete fuggire, mio Tabriz. Non avete molto tempo a disposizione. Vi ho fatto preparare una scorta di cibo e il miglior pelago della città. Partite immediatamente e non vi fermate prima di domani notte. Whitesnake è qui ed è venuta per voi. Vi prego...» Fherd interruppe la frenesia dell'oste con un gesto della mano. «Cercate di calmarvi, mio buon amico. Perché dite che dovrei fuggire da Mosul come un meschino delinquente? E chi è questo Whitesnake di cui sento risuonare il nome ovunque?» L'oste strabuzzò gli occhi. «Non avete mai sentito parlare di Whitesnake, Tabriz?» «Proprio così,» rispose Fherd. «Ora entrate e spiegatemi tutto.» «Whitesnake è un nome sacro.» Intonò l'oste con accento enfatico. «La donna che lo ostenta appartiene al popolo dei Cavalieri di Tangri, un Ordine di spietati Cavalieri che errano per Argat in cerca di gloria. Il nome Whitesnake corrisponde ad un privilegio unico, conquistabile solamente da chi ha più volte dimostrato un valore ed un'intelligenza non comuni rispetto agli altri appartenenti all'Ordine. Questi Cavalieri attraversano il mondo sui pelagi addestrati, in cerca di degni avversari contro cui potersi impegnare in combattimento. L'unico scopo della vita è combattere ed accrescere il proprio prestigio. Ieri sera è giunta in città Seila Whitesnake, la più temibile guerriera dell'Ordine dei Cavalieri di Tangri. È certamente venuta qui a Mosul per sfidare te, il mio potente Tabriz. La fama della tua spada è volata ovunque come il vento.» Fherd stette qualche attimo a fissare il pavimento della stanza. Aveva sentito parlare di questi Cavalieri di Tangri, opportunisti, ma inscindibilmente devoti alle principali regole della cavalleria, anche se non ne aveva
mai incontrato uno. Quella era una buona occasione per porre rimedio ad una simile mancanza, tanto più se il famoso cavaliere era una donna. Guardò l'oste dritto negli occhi, ostentando la massima calma e fiducia in se stesso, e ordinò: «Conducimi da questa Whitesnake. Se è venuta per me non ho alcuna intenzione di trasgredire le più elementari regole dell'ospitalità.» Il locandiere tentò di abbozzare una timida resistenza, ma quando Fherd legò ad armacollo la fiammeggiante Belator, acconsentì rassegnato. 5 La guerriera di Tangri non poteva essere altro che il parto di una fantasia troppo sofisticata per essere vera. Fherd entrò nella taverna che la donna aveva prescelto, tenendo il viso nascosto nell'ombra creata dal largo bàtolo del mantello che indossava. Si intrufolò inosservato tra la folla di persone che, immobili come statue scolpite nella pietra, fissavano abbacinati la bionda guerriera. La donna sedeva impassibile ad un tavolo posto contro la parete frontale rispetto all'adito della taverna. In questo modo aveva la schiena protetta e possedeva una completa panoramica della locanda. L'Armida indossava uno body aderentissimo di pelle nera sorretto sopra il seno da una cintura da cui pendeva lateralmente, sotto l'ascella, un sottilissimo stiletto di rame. Le spalle erano nude e candide, come se il sole non le avesse mai toccate. Il body possedeva un'apertura ovale che metteva in luce l'ombelico e lo stomaco della donna. Due strisce di cuoio per gamba le scendevano dall'inguine, fissate dov'erano al body, e si attorcigliavano ad elica attorno a due gambe da capogiro. Un paio di stivali morbidi le coprivano le tibie fin sotto il ginocchio, lasciando scoperti posteriormente i due torniti polpacci. Quella specie di uniforme era completata da due bracciali di rame dalla forma di serpenti che si attorcigliavano sugli avambracci. I lunghi capelli biondi le cascavano sulle spalle morbidi, da sotto un caschetto di cuoio che possedeva uno spuntone superiore. Fherd si disse che per una donna simile valeva la pena di farsi riconoscere. Si staccò dal gruppo e si avvicinò con passi sicuri alla guerriera, che ora lo guardava con fare interessato. Le si piazzò di fronte e si tolse il mantello. Whitesnake sorrise legger-
mente con gli angoli della bocca. Le sue mani flessuose impugnavano il fodero della corta spada di rame che le pendeva dal fianco. Due occhi più azzurri del cielo estivo scrutarono Fherd fin nel profondo dell'anima. «Onore a te, uomo dalla Spada Lucente. La strabiliante fama delle tue imprese si è sparsa ovunque per il mondo. Si dice che tu possegga una spada forgiata dagli dei stessi in grado di sconfiggere qualunque nemico si opponga al tuo cammino. Io, Whitesnake Seila, Cavaliere dei Maestri di Tangri, vengo a portarti la mia sfida. Dimostrerò al mondo che si possono sconfiggere gli eletti degli dèi.» Fherd sorrise bonariamente. «Questo si chiama parlar chiaro. Devi essere molto sicura di te, dolcezza.» La guerriera non si scompose. «Dimostreremo la nostra forza domani, in combattimento, non ora con stupide parole. Come sfidante ho diritto alla scelta dell'arma. Ti farò comunicare la mia decisione.» Detto questo, la donna si alzò maestosamente ed uscì dalla locanda con incedere regale. I suoi movimenti suscitarono in Fherd pensieri voluttuosi. Il ragazzino infilò il naso nel pertugio. Fherd lo guardò con un sorriso e lo invitò a entrare. Il bambino scosse la testa e, sempre restando nascosto dietro l'uscio, comunicò il messaggio tutto d'un fiato: «Il combattimento si farà su pelago con lancia e scudo. Chi viene sbalzato di sella ha perso. La posta del vincitore sarà decisa prima di iniziare il duello.» In un attimo si dileguò. Fherd si morse nervosamente il labbro inferiore. Un duello su pelago! Si era fatto fregare come uno stupido. Aveva accettato il duello convinto di poter usare Belator, contro la quale la donna avrebbe potuto ottenere ben poco. Non era novizio a combattimenti su pelagi, ma ricordava di essere già stato vittima di numerose sconfitte, anche da parte di cavalieri meno quotati della guerriera di Tangri. Doveva escogitare qualcosa o si sarebbe trovato seriamente nei guai. Fu in quell'attimo che ciò che gli era sembrato frutto di semplici sogni si concretizzò in insolita realtà. Belator aveva preso a fulgere, quasi volesse confessare di essere lei la fonte misteriosa da cui prendevano consistenza tutte le stelle del cielo. Un alone brillante e palpitante di vita propria si estese dalla spada sospesa a mezz'aria e, in breve tempo, venne a formare una sfera che avvolse Fherd con la stessa delicatezza di una carezza. Lo Stilita era impietrito per lo stu-
pore, ma nulla in lui aveva alcunché di simile alla paura. Anzi, quando l'immagine del volto di Bolish si compose davanti ai suoi occhi, circondata da una foschia densa e turbinante, non provò altro che gioia, in un impeto che quasi non riuscì a controllare. Estese il braccio, incantato, nel tentativo di appurare se quel volto era reale o un crudele parto della sua fantasia. Le dita protese incontrarono solo aria, ma la bocca di Bolish si spalancò, come resuscitata alla vita da quel contatto, e la voce del vecchio raggiunse i timpani di Fherd con la sua caratteristica cadenza. «Come ti avevo detto, figliolo, Belator mi consente di esserti vicino.» Fherd cercò di esprimere a parole lo stupore e i dubbi che lo assalivano, ma Bolish lo prevenne: «Il mio destino è legato al tuo indissolubilmente, così come la ragione della tua esistenza altro non è che un evento programmato, perché gli dei hanno bisogno del nostro operato per non farsi sopraffare dalle orde del Caos. Accetta queste manifestazioni del loro volere come un dono ineguagliabile, poiché sei forse il solo a cui è concesso di conoscere in anticipo le future svolte della propria vita.» Fherd ricusò i suoi interrogativi e fece un gesto d'assenso col capo. L'immagine tremula di Bolish riprese a parlare: «Oggi hai conosciuto colei che ti accompagnerà nella lotta contro il Regno delle Ombre: Whitesnake. Gli dei hanno voluto che la sua intelligenza e la sua abilità vengano posti al tuo servizio, e di questo ancora devi ringraziarli. Ma ricorda, ella non si unirà a te spontaneamente. Devi conquistarla in due tempi: prima con la spada, poi col cuore. Nel duello di domani avrai alle spalle l'appoggio divino, ma la tua intelligenza dovrà partecipare attivamente al perseguimento della vittoria. Bada che la guerriera Whitesnake non ha eguali, nel duello su pelago. La mano degli dei farà in modo di porre le tue capacità su un suo stesso piano d'abilità, ma la mossa risolutiva non deve spettare ad altri che a te. Sappi sfruttare l'intelligenza che mai hai disdegnato d'ostentare, in passato.» L'immagine tremolò vivacemente, e ben presto sfumò in nebbia. Prima che la sua immagine scomparisse del tutto, la proiezione di Bolish diede l'ultimo consiglio al suo discepolo: «Ricorda l'arte che ti ho insegnato, Fherd. Ingegnati coi segreti che hai appreso.» E in un lampo fu tutto quiete, come se nulla fosse accaduto. Fherd non provava alcunché di particolare, dentro di sé, forse perché le rivelazioni che gli erano state fatte erano troppo al di fuori della portata
delle sue emozioni. Lui credeva in quello che aveva visto e udito, e aveva fede in quello che gli rivelava la sfera del vecchio Bolish. Doveva pensare al duello, ora, a qualche astuzia che lo avrebbe reso superiore a Whitesnake per quel poco che bastava a dargli la vittoria. Ritornò con la mente alle parole del ragazzino: «...su pelago con lancia e scudo.» Un sorriso arguto gli si dipinse sul volto. Raccolse la sua borsa con gli strumenti, si fissò in spalla un orcio di terracotta traboccante di olio nero e con la mano libera sollevò una delle tante bisacce che contenevano il prezioso minerale diamantino. Uscì dalla locanda in tutta fretta e si diresse con passo eccitato alla bottega del maniscalco. Laggiù doveva senz'altro esserci una piccola fucina. 6 Fherd non aveva certo la presunzione di definirsi un fabbro medio, ma gli insegnamenti del vecchio Bolish si dimostrarono in quell'occasione estremamente efficaci. La bottega del maniscalco era più apprezzata di quanto si fosse immaginato. Dopo aver forzato un paio di porte di legno si diresse in una grande stanza in cui si ergeva un solido forno a camino, costruito su uno scheletro ligneo rivestito d'argilla. Accertatosi dell'assenza del maniscalco dalla bottega, Fherd mescolò nel forno carbone di legna e il suo minerale; quindi, mediante una quantità di calore esattamente calcolata, ottenne che il materiale adamantino assimilasse tanto carbone quanto bisognava, ottenendo una massa spugnosa da lavorare col martello. Svolse il lavoro seguente nella fucina, lavorando coperto dietro una pietra semicircolare e con un buco aereatore attraverso il condotto. Nell'attrezzatissima fucina trovò numerose tenaglie e diversi tipi di martelli, possenti incudini di pietra e vasche con l'acqua, oltre al camino col mantice che soffiava l'aria attraverso un becco di creta sul carbone di legna, il quale forniva poi il calore necessario a fondere il materiale spugnoso. Il liquido incandescente fluì lentamente in una forma circolare concava usata solitamente per fabbricare scudi di rame. Con un gran numero di
martellate e di imprecazioni, il metallo informe semiraffreddato venne laboriosamente modellato e foggiato in un rozzo scudo. Non restava altro che temprare il metallo. Fherd riscaldò di nuovo lo scudo poi lo immerse bruscamente in una vasca d'acqua gelida. Il risultato fu leggermente sgradevole dal punto di vista estetico, ma già a prima vista estremamente efficace da quello pratico. Fherd ricoprì lo scudo con strisce di cuoio, poi stette a rimirare soddisfatto il risultato del suo lavoro. Nessun'arma di rame avrebbe potuto trapassare quello scudo, tanto meno la punta della lancia di Whitesnake. Si sfregò le mani compiaciuto e subito tornò al lavoro con rinnovato impegno, per allestire la seconda sorpresa che aveva ideato per la sua indomita e affascinante avversaria. Da piccolo villaggio di frontiera qual era, Mosul si era trasformato ben presto in un'autentica cittadina pregna di benessere. Quel giorno in particolare tutto il paese era in subbuglio: la birra scorreva a fiumi dentro e fuori dalle taverne, la gente correva in lungo e in largo eccitata, ridente, facendo festa insomma. La strada principale era stata preparata per il duello: quattro paletti di legno erano stati conficcati nell'acciottolato, al centro della via, ad una distanza di cento ulne l'uno dall'altro, ed una striscia di cuoio li collegava delimitando le due corsie in cui avrebbero galoppato i pelagi dei cavalieri. La folla attendeva con fervore impaziente l'arrivo dei due contendenti. Centinaia di piastre di rame circolavano per le mani degli scommettitori come nuovo fluido vitale per la loro professione, che da tempo vedevano soffocata. Un boato improvviso accolse il sopraggiungere dei due sfidanti. Cavalcavano entrambi pelagi protetti da spesse mantelline di cuoio e fastosamente bardati, soprattutto quello della guerriera. I due si fronteggiarono senza dar sfoggio di alcuna particolare emozione. «Veniamo subito al dunque.» intonò senza preamboli la donna. «Se riuscirò a batterti, la famosa Spada degli Dei diverrà di mia proprietà.» Fherd se l'era aspettato. Non riusciva ad immaginare nient'altro che potesse attirare con tanta determinazione la voracità di un Cavaliere di Tangri. Sorrise ed espose le sue pretese, che la donna ormai non avrebbe potuto evitare, a meno di incombere nella vergogna e nel disonore abbandonando un duello da lei stessa voluto. «Quello che chiederò in cambio di una mia eventuale vittoria, bionda Whitesnake, sarà qualcosa di inconsueto. Ma prima voglio che tutto il pae-
se ascolti da testimone le mie condizioni, affinché questo duello s'abbia da fare.» La folla si fece particolarmente attenta, mentre gli scommettitori trovarono altro pane per i loro denti. Fherd tornò a guardare la guerriera negli occhi intensi. «Voglio te, Seila Whitesnake. Il tuo corpo e la tua mente per una notte.» La bella donna strabuzzò gli occhi e strinse i denti soffocando la propria ira, mentre decine di uomini lanciavano in aria mille cose, entusiasti della scelta perpetrata dal loro eroe. Fherd abbozzò un innocente sorriso a risposta delle vampate di fuoco che gli giungevano dagli occhi irosi della guerriera. «Se devo rischiare la pelle in uno stupido duello,» si giustificò, «lascia almeno che lo faccia per qualcosa per cui ve ne valga la pena,» La guerriera alzò il naso stizzita, diede un violento strattone alle briglie del suo pelago e galoppò verso la sua postazione. Fherd armò il braccio con lo scudo e si fece portare la lancia che aveva tenuta nascosta fino all'ultimo momento. La folla crepitò rumorosamente, quando vide l'arma. La guerriera divenne ancora più rossa dall'ira: quell'uomo voleva umiliarla davanti a tutti. Fherd imbracciava compiaciuto il prodotto della sua tattica notturna: una lunga lancia senza punta, al cui posto faceva mostra di sé una grossa palla argentea dalle dimensioni di una noce di cocco. Il giudice di gara fece tacere la folla ed alzò il braccio che avrebbe dato il via, abbassandosi, alla contesa. I due cavalieri si portarono in posizione, studiando attentamente l'avversario. Il braccio si abbassò di scatto. I pelagi nitrirono eccitati e si lanciarono al galoppo, spronati dai loro cavalieri. Fherd vide che la donna teneva la lancia abbassata per non sforzare troppo il braccio prima di sferrare il colpo decisivo. Lui la imitò. Quando furono ad una decina di ulne l'uno dall'altro, si preparò ad ammortizzare il colpo che avrebbe inevitabilmente ricevuto. Il suo piano era semplice e funzionale: le regole stabilivano che per l'assegnazione della vittoria non occorreva altro che sbalzare di sella il proprio avversario; non occorreva uccidere nessuno. Per cui Fherd aveva pensato ad eliminare la punta della sua lancia che, oltre a diminuire la superficie di contatto e quindi la forza del colpo, si sarebbe potuta spezzare nell'urto contro lo scudo di Whitesnake.
La palla che aveva fissato all'estremità avrebbe avuto doppia efficacia: non si sarebbe spezzata e avrebbe permesso di poter trasferire integralmente sullo scudo della guerriera la forza da lui applicata. Inoltre, cosa non meno trascurabile, Fherd non voleva danneggiare in alcun modo la donna che il destino gli aveva assegnato come compagna. I due contendenti erano ormai l'uno di fronte all'altra. La prima a colpire fu Whitesnake che, con un veloce scatto di reni, si tuffò in avanti sul dorso del pelago e affondò un terribile colpo. Qualcosa agì automaticamente in Fherd, costringendolo a buttare indietro la schiena nel tentativo ben riuscito di assorbire quanto più possibile la forza dell'impatto. Come aveva sperato e calcolato, la punta di rame dell'asta della guerriera si spezzò nell'impatto, e la lancia così menomata scivolò sullo scudo di Fherd senza arrecare danni. Fherd non ebbe modo di sferrare il suo colpo. I due cavalieri arrestarono i pelagi lanciati, li fecero voltare e ripresero a spronarli in direzione opposta. La donna ebbe un singulto di stupore quando di accorse di avere la lancia menomata ma non si arrese. Incitò il suo pelago a pieni polmoni e si lanciò spavaldamente alla carica. Era inconcepibile che lei, una Whitesnake, si ritirasse da un duello. Questa volta lo scontro fu decisivo. Fherd fece una finta in avanti col corpo, poi aspettò che la donna replicasse al suo tentativo. Quando vide il delizioso corpo della guerriera piegarsi, approfittando della maggiore lunghezza della sua lancia allungò il braccio colpendo con tutta la sua forza. La folla trattenne il fiato, quando la palla argentea colpì in pieno lo stemma dipinto sullo scudo della guerriera, che s'incrinò sotto la forza dell'urto. La donna venne sbalzata di sella mentre le si dipingeva in volto una smorfia di amara sorpresa. Con uno sforzo disperato tentò di aggrapparsi alle briglie per non cadere a terra, ma lo scudo contorto le ingombrò i movimenti e lei dovette subire l'umiliazione della sconfitta. La folla esultò all'unisono con un potente boato. Fherd arrestò il suo animale trafelato e si diresse con passo tranquillo verso il punto in cui un vulcano era sul punto di esplodere. 7
Un odore acre e pungente s'innalzava da un fumoso braciere. La stanza era buia e silenziosa, mentre Fherd fissava il soffitto. Lo Stilita era sdraiato sul letto della miglior camera di Mosul, supino, con le dita intrecciate poggiate sotto la testa. Ascoltava attentamente i suoni leggeri e soffocati che provenivano dal piccolo bagno attiguo. Cercava di immaginare con una buona dose di fantasia le fattezze del corpo della donna, o almeno di quelle parti nascoste dall'esiguo costume che indossava. Whitesnake uscì lentamente dal bagno. Fherd si sollevò sui gomiti e fissò estasiato l'immobile figura. Seila Whitesnake era avvolta in un bianco lenzuolo che aveva legato sopra il seno con un grosso nodo. I capelli dorati erano raccolti sulla nuca in una graziosa spirale, mostrando un lungo collo dalla pelle vellutata. Fherd non poté fare a meno di emettere un gemito di stupore: quell'esile figura che gli stava davanti a piedi nudi non poteva assolutamente essere la rude donna-guerriero che lo aveva sfidato il giorno prima. Se non fosse stato per l'impassibile espressione del viso, Fherd avrebbe giurato di avere innanzi un'altra persona. Ringraziò gli dei per aver accomunato il destino di una simile creatura al suo e parlò a Seila Whitesnake, con dolcezza, quasi volesse accarezzarla con quelle parole: «È un'inconsueta visione quella che mi appare innanzi. Sconfiggo un guerriero ma rinasce un fiore.» Lei rispose con voce atona: «Un Cavaliere di Tangri accetta la sconfitta da chiunque venga e paga i suoi pegni. Passerò la notte con te.» Nel pronunciare l'ultima frase, il tono severo della sua voce si era vistosamente incrinato. Quasi per distogliere l'attenzione di Fherd da quel suo momento di debolezza, la donna slacciò il nodo che sosteneva il lenzuolo e fece un passo avanti, rivelando tutto il proprio splendore. Fherd rimase immobile sulla sponda del letto, con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa per lo stupore. Seila Whitesnake aggrottò la bianca fronte. «Perché mi guardi così?» chiese «Forse non ti piaccio? Ne sarei immensamente felice.» Ma Fherd scosse violentemente il capo. «Mi spiace molto deluderti, ma devo ammettere di non aver mai visto prima nulla di tanto meraviglioso. Sei bellissima, Seila.» La guerriera non riuscì a reprimere un lieve rossore sulle guance. Fece una veloce corsa imbarazzata e s'infilò sotto le lenzuola con movimenti flessuosi. Fherd si coricò accanto alla donna. Il suo corpo percepì il calore emesso dal corpo pieno di Whitesnake. Lui si strinse di più a Seila, che rimaneva
immobile, rannicchiata su se stessa. Quando le toccò una spalla con la mano, Fherd avvertì un leggero tremito propagarsi per tutto il corpo della donna. «Stai tremando.» Le disse in un orecchio, quasi in un sussurro. Fu allora che lei non riuscì più a trattenersi e, all'improvviso, scoppiò in pianto, abbandonando ogni atteggiamento d'orgoglio. «È la prima volta.» Confessò tra i singhiozzi. «Non ero mai stata con un uomo, prima.» Fherd le accarezzò i biondi capelli. «Stai tranquilla.» La rassicurò. «Io non voglio abusare di questa occasione. Tu mi piaci, Seila, ma non ti toccherò nemmeno, se tu non lo vorrai. «» Grossi goccioloni scivolarono tra le dita delle mani che Whitesnake aveva portato a coprire il volto, e qualcosa si rilassò in lei. Fherd si alzò e andò a prendere una tazza di terracotta contenente il forte liquore d'erbe che il vecchio Bolish le aveva insegnato a preparare. Si sedette accanto a Seila sulla sponda del letto e le aprì le mani con estrema dolcezza. Usò un lembo del lenzuolo per asciugare le lacrime che le rigavano le guance. «Bevi questo,» disse. «Ti farà bene.» La ragazza scosse la testa, ma poi acconsentì a bere il liquore. «Non ho mai pensato di voler approfittare della mia vittoria.» Le confidò Fherd. «Ti confesserò che la sfida è stata molto imparziale. Mi ero costruito delle armi particolari, contro cui non avresti mai potuto ottenere nulla. Inoltre, qualcuno ha voluto aiutarmi.» Seila gli parlò tra gli ultimi singhiozzi. «Se quello che dici è vero, qual è il tuo scopo?» Fherd sorrise. «Innanzi tutto distruggere la corazza che imprigionava la donna, ma soprattutto poter scrutare nel tuo animo. Volevo scoprire quanto di Seila poteva emergere, a discapito della Whitesnake crudele e dissoluta. Ora che conosci le mie intenzioni, se vuoi, sei padrona di alzarti e di andartene anche subito. Non solleverò alcuna pretesa. Sappi, però, che ti vorrei qui con me, lontano dalle armi e dalla vita che ti sono state imposte sin dalla nascita.» Un silenzio imbarazzato scese nella stanza. Seila studiò la sincerità sul viso di Fherd, poi allungò una mano verso la bocca dell'uomo. Le morbide dita risalirono delicate le guance di Fherd e si persero tra i suoi folti capelli.
«Un Cavaliere di Tangri non nasce spietato,» disse, «e non ha colpa per quello che gli viene insegnato. Io non ho mai conosciuto l'amore.» Fherd prese la mano e le baciò il morbido palmo. «Vorrei poterti esprimere il mio.» Le disse. Seila sorrise, lo abbracciò dietro il collo e lo attirò verso di sé. FINE