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GREG ILES L'UOMO CHE RUBAVA LA MORTE (Dead Sleep, 2001) In memoria di Silous Marty Kemp CAPITOLO PRIMO Ho smesso di prendere di mira le persone sei mesi fa, dopo aver vinto il Pulitzer. Non è facile ammetterlo, ma il Pulitzer per me aveva un significato diverso da quello che ha per la maggior parte dei fotografi. Mio padre lo vinse due volte: la prima nel 1966, per una serie a McComb, nel Mississippi; la seconda nel 1972, per uno scatto al confine con la Cambogia. Il secondo non lo ritirò mai. La pellicola fu tolta dalla sua macchina da un marine che si trovava sul lato sbagliato del Mekong. La macchina fotografica fu tutto ciò che trovarono di lui. Le venti inquadrature del Tri-X chiarirono la sequenza degli eventi. Con la sua Nikon F2 motorizzata a cinque fotogrammi al secondo, mio padre riprese l'esecuzione di una donna da parte di un soldato khmer, poi immortalò l'espressione di quest'ultimo mentre si girava verso di lui per puntargli contro la pistola. Io avevo dodici anni, ero a sedicimila chilometri di distanza, ma quel proiettile mi trapassò il cuore. Jonathan Glass era già un mito prima di allora, ma la fama non è di alcun conforto in un'infanzia solitaria. Da bambina ho visto poco mio padre. Seguire le sue orme è stato un modo per conoscerlo. La sua Nikon ammaccata è sempre nella mia borsa. Per gli standard attuali è un pezzo da museo, ma con lei ho vinto il Pulitzer. Mio padre mi avrebbe detto: "Niente male per una ragazza". Per la maggior parte dei fotografi il Pulitzer rappresenta il trionfo, il riconoscimento, l'inizio importante, il momento in cui il telefono comincia a squillare con offerte di lavoro strabilianti. Per me invece è stato un punto d'arresto. Avevo già vinto due volte il premio Capa, il riconoscimento che conta nell'ambiente. Nel 1936 Robert Capa immortalò un soldato spagnolo mentre veniva colpito da un proiettile, e divenne il simbolo del coraggio durante le azioni di guerra. In seguito Capa, Cartier-Bresson e due amici fondarono la Magnum Photos. Tre anni dopo, nel 1954, Capa saltò in aria su una mina in quella che allora era l'Indocina francese, anticipando la tra-
gica fine a cui mio padre, Sean Flynn e una trentina di fotografi americani sarebbero stati destinati nei decenni di conflitti, noti al pubblico americano come guerra del Vietnam. Il pubblico però non conosce o non si cura del premio Capa; conosce solo il Pulitzer, che lancia il vincitore sul mercato. Dopo la vittoria piovvero nuovi incarichi. Avevo trentanove anni, non ero sposata e cinque anni prima del Pulitzer avevo superato una fase di "esaurimento professionale". Il motivo era semplice. Il mio lavoro, in parole povere, è sempre stato quello di documentare il macabro passaggio della morte. I fotografi di guerra, come altri "professionisti della morte": poliziotti, soldati, medici, preti, invecchiano più rapidamente degli altri. Sono poche le donne che fanno il mio lavoro. Indovinarne il motivo non è difficile. Ma non è stato niente di tutto questo a fermarmi. Si può attraversare un campo di battaglia disseminato di cadaveri e imbattersi in un bimbo sdraiato sul corpo della madre morta e non sentire neppure la minima parte di ciò che si prova quando si perde una persona cara. Odio la morte. Quando mio padre puntò l'obiettivo contro il soldato khmer, deve avere saputo che stava mettendo in gioco la sua vita. Scattò la foto comunque. Lui non riuscì a lasciare la Cambogia, ma la sua foto sì, contribuendo a fare cambiare idea agli americani sulla guerra. Per tutta la mia vita ho seguito il suo esempio. Nessuno fu più sconvolto di me quando la morte colpì ancora una volta la mia famiglia. Andai a pezzi. Con grande fatica continuai a lavorare per altri sette mesi, ebbi un guizzo di creatività che mi fece vincere il Pulitzer, poi crollai, in un aeroporto. Fui ricoverata per sei giorni in un ospedale. I medici dissero che si trattava di sindrome post-traumatica da stress. Gli amici più cari, e il mio agente, mi consigliarono di lasciar perdere il lavoro per un po' e di partire per una vacanza. Accettai il consiglio che presto si rivelò un totale fallimento. Anche sulle spiagge riposanti di Tahiti la mia mente non poteva fare a meno di selezionare, scrutare, cercare. A volte penso di essermi trasformata in una macchina fotografica, in uno strumento per registrare la realtà. Per me non esiste vacanza; quando i miei occhi sono aperti, io sono al lavoro. Per fortuna si presentò una soluzione. Da anni alcuni editori di New York mi chiedevano di realizzare un libro; tutti volevano la stessa cosa: le mie foto di guerra. Messa alle corde dall'esaurimento nervoso, strinsi un patto. In cambio del permesso accordato a
un curatore della Viking per realizzare una raccolta antologica delle mie opere, avrei ricevuto un acconto per lavorare al libro dei miei sogni. Lì non c'è anima viva. Almeno non ci sono volti, né occhi increduli o disperati. Il titolo provvisorio dell'opera è Fenomeni atmosferici. Ecco cosa mi ha portato questa settimana a Hong Kong. Ci ero già stata qualche mese fa per riprendere il monsone che infuriava su una delle città più densamente abitate del pianeta. Avevo fotografato il Victoria Harbor dalla collina più alta della città, il Peak, e il Peak da Central. Questa volta Hong Kong non era che una tappa verso la Cina, anche se avevo programmato una sosta di due giorni per aggiornare la mia cartella sulla città. Ma il secondo giorno il progetto del mio libro si è ridotto in frantumi. Un amico della Reuters mi aveva convinta ad andare al Museum of Art di Hong Kong a vedere alcuni acquerelli cinesi. Io, che non conosco l'arte, avevo pensato che valesse la pena dare un'occhiata. Nel tardo pomeriggio salii sullo Star Ferry, attraversai il porto, arrivai a Kowloon e mi diressi al museo. Venti minuti dopo essere entrata, la pittura antica era l'ultimo pensiero nella mia mente. Il primo segnale lo ricevetti dal custode all'ingresso. Appena mi vide spalancò la bocca e mi lanciò un'occhiata talmente penetrante che erroneamente scambiai per attrazione. Poi ci fu la minuscola donna cinese che mentre mi consegnava il walkman, le cuffie e la versione inglese del giro guidato del museo, mi fissava con l'aria incredula di chi ha appena visto un fantasma. Mi sentivo come se qualcuno fosse passato sulla mia tomba. Cercai di non farci caso, presi il walkman e mi diressi verso la mostra, accompagnata da una voce simile a quella di Jeremy Irons, che mi parlava in perfetto inglese dalle cuffie. L'amico della Reuters aveva ragione. Gli acquerelli ebbero un effetto benefico sul mio sistema nervoso. Alcuni avevano un migliaio di anni, ed erano leggermente sbiaditi dal tempo. Mentre mi muovevo tra i dipinti quel peso che mi gravava sull'anima iniziò ad alleviarsi. Ma il sollievo fu di breve durata. Mentre stavo osservando con particolare attenzione un'opera, dove si vedeva un uomo spingere con il bastone lungo il fiume una barca che sembrava una piroga cajun, notai una cinese alla mia sinistra. Pensando che volesse guardare il dipinto, mi spostai a destra. Lei non si mosse. Con la coda dell'occhio vidi che non era una visitatrice, ma una donna delle pulizie con in mano un piumino per la polvere. E non era impietrita davanti al dipinto, ma davanti a me. Quando mi voltai
verso di lei, scomparve nella sala adiacente. Passai all'acquerello successivo, chiedendomi come mai avessi colpito la donna in quel modo. Quella mattina non ero particolarmente curata, ma controllando il mio riflesso sul vetro di una teca, non vidi nulla che potesse giustificare tutta quella curiosità. Nella sala successiva mi accadde la stessa cosa. Sentii su di me lo sguardo insistente di un altro custode del museo. Quindici anni fa davo per scontato questo tipo di attenzioni. Nell'Europa orientale e nell'ex Unione Sovietica era normale essere oggetto di occhiate furtive e di approcci strani. Ma adesso mi trovavo nell'ex colonia di Hong Kong, nel XXI secolo. Scossa, attraversai le sale rimanenti quasi senza guardare i dipinti. Con un po' di fortuna avrei trovato un taxi per il traghetto che mi avrebbe riportata a Happy Valley, in tempo per scattare le ultime foto del tramonto prima di salire sull'aereo per Pechino. Sperando di trovare una scorciatoia per l'uscita infilai un breve corridoio, ma mi ritrovai dinanzi a una sala affollata. Esitai prima di entrare, chiedendomi che cosa avesse attratto tutta quella gente. I visitatori stavano in silenzio e studiavano i quadri con grande concentrazione. Sulla soglia una placca bilingue in cinese e inglese diceva: NUDI DI DONNE IN RIPOSO Artista sconosciuto Quando guardai nuovamente la sala mi accorsi che non era piena di "gente", ma era piena di uomini. Chissà perché? Erano tutti cinesi in giacca e cravatta. Sembrava che ognuno di loro fosse stato spinto a lasciare l'ufficio, saltare in macchina e precipitarsi al museo per guardare quei quadri. Cercai sul nastro la descrizione della sala che avevo di fronte. «Nudi di donne in riposo» annunciava la voce nella cuffia. «Questa mostra espone sette tele di un artista sconosciuto che ha prodotto il gruppo di dipinti comunemente noto come la serie definita "Donne Addormentate". Nel mondo dell'arte contemporanea questa serie di tele rappresenta un vero e proprio mistero. Si tratta di diciannove dipinti, tutti oli su tela, il primo dei quali giunse sul mercato nel 1999. Nelle diciannove opere si può discernere un progressivo passaggio da un vago impressionismo a uno stupefacente realismo; gli ultimi lavori hanno una chiarezza di dettagli quasi fotografica. Sebbene in un primo tempo si pensasse che tutte le tele
ritraessero nudi di donne addormentate, ora questa teoria è messa in dubbio. Le caratteristiche astratte delle prime tele non permettono di pronunciarsi con certezza, ma le opere più tarde hanno creato un certo scalpore tra i collezionisti asiatici, i quali ritengono che esse non ritraggano donne dormienti, ma donne morte. Per questa ragione il curatore ha intitolato la mostra "Nudi di donne in riposo" anziché "Donne Addormentate". Le quattro tele arrivate sul mercato nei mesi scorsi hanno raggiunto quotazioni record. L'ultima, intitolata semplicemente Numero diciannove, è stata venduta all'uomo d'affari giapponese Hodai Takagi per 1,2 milioni di sterline. Il museo desidera ringraziare il Sig. Takagi per avere messo a disposizione della mostra tre tele. L'identità dell'artista è tuttora ignota. L'esclusiva delle sue opere spetta al mercante d'arte Christopher Wingate, di New York, Usa.» Sulla soglia di quella sala piena di silenziosi asiatici simili a statue, che contemplavano delle immagini che non riuscivo a vedere, ero nervosa. Donne nude addormentate, forse morte. Io ho visto più donne morte di un medico legale. Molte erano nude, gli abiti distrutti dai colpi di mortaio, bruciati dal fuoco o strappati dai soldati. Ho scattato centinaia di foto dei loro corpi, creando con metodo le mie rappresentazioni della morte; eppure l'idea dei dipinti nella stanza attigua mi disturbava. Feci un respiro profondo ed entrai. Al mio arrivo gli uomini si agitarono come un branco di animali presi in trappola. Una donna, soprattutto una donna occidentale, li metteva a disagio. Sembravano imbarazzati di trovarsi nella stanza. Impassibile, mi avvicinai al quadro meno affollato. Dopo i sereni acquerelli cinesi, il dipinto fu uno choc. Si trattava di un'opera tipicamente occidentale, il ritratto di una donna in una vasca da bagno. Una donna occidentale come me, ma di dieci anni più giovane. Forse una trentenne. La sua posa, con un braccio appoggiato languidamente sul bordo della vasca, ricordava la Morte di Marat. Il soggetto era ritratto dall'alto e si vedevano i seni e il pube. Gli occhi chiusi comunicavano una grande pace, ma non avrei saputo dire se fosse la pace del sonno o della morte. La carnagione era di un pallore innaturale, ed ebbi un brivido pensando che se avessi potuto voltare quel corpo avrei scoperto un rivolo di sangue sulla schiena. Sentivo gli uomini dietro di me farsi sempre più vicini, così mi diressi al dipinto successivo: una donna stesa su un letto di paglia. Gli occhi spalan-
cati avevano lo stesso luccichio che avevo visto in troppe camere mortuarie improvvisate e in tombe scavate con troppa fretta. Non c'era alcun dubbio, questa doveva sembrare morta. Forse non era morta, ma chi l'aveva ritratta conosceva la morte da vicino. Qualcuno aveva pagato due milioni di dollari per un quadro di quel genere. L'acquirente era ovviamente un uomo. Una donna lo avrebbe comprato solo per distruggerlo. Chiusi gli occhi e pregai per la donna del quadro, nel caso si fosse trattato di una persona in carne e ossa. Poi proseguii. Il quadro successivo era appeso sopra una piccola panca contro la parete. Era rettangolare e più piccolo degli altri. Vicino c'erano due uomini, ma non stavano osservando il dipinto. Mentre mi avvicinavo li vidi boccheggiare come due pesci fuor d'acqua, e pensai che se avessi guardato sotto i loro colletti inamidati avrei trovato le branchie. Erano all'incirca della mia statura, si allontanarono liberando la visuale. Mentre mi giravo verso il quadro, sentii un'ondata di calore che si diffondeva per tutto il corpo e il passato riaffiorare con prepotenza. Anche questa donna era nuda. Sedeva accanto alla finestra, il capo e una spalla appoggiati ai battenti, la carnagione illuminata dalla luce purpurea di un'alba o di un tramonto. Gli occhi socchiusi assomigliavano più a quelli di una bambola che a quelli di un essere umano. Il corpo era asciutto, le mani posate sul grembo, e i capelli ricadevano sulle spalle come un velo scuro. Sebbene il volto fosse sempre stato rivolto verso il mio dal momento in cui lo avevo guardato, d'improvviso ebbi la terribile sensazione che la donna si fosse girata verso di me e mi avesse parlato. Sentivo distintamente il battito del mio cuore che cresceva a dismisura. Non ero davanti a un quadro, ma davanti a uno specchio. Il viso che mi guardava era il mio. Anche il corpo era il mio: piedi, fianchi, seno, spalle, collo. Ma a colpirmi maggiormente furono gli occhi. Occhi inespressivi, privi di vita, che mi fecero ripiombare nell'incubo dal quale stavo fuggendo. Sentii dei suoni in cinese, ma per me non avevano alcun significato. La gola si serrò, non riuscivo a respirare né a urlare. CAPITOLO SECONDO Tredici mesi fa, a New Orleans, in una calda giornata d'estate, Jane, la mia sorella gemella uscì di casa per la solita corsa intorno al Garden District. A casa, insieme alla cameriera, due figli piccoli aspettavano il ritorno della mamma. Il marito Marc, ignaro di tutto, lavorava tranquillo nel
suo studio in centro. Dopo novanta minuti la cameriera, preoccupata per il ritardo della signora, gli telefonò. Marc Lacour, sapendo che bastava allontanarsi di un solo isolato dal Garden District per trovarsi in una zona pericolosa, lasciò subito l'ufficio e corse a ispezionare le strade del quartiere alla ricerca della moglie. Percorse metodicamente tutta la zona compresa tra Jackson Avenue e Louisiana, prima in auto e poi a piedi. Uscì dal Garden District e fece domande a tutti quelli che incontrò nelle strade vicine: alle persone sedute sotto il portico di casa, ai senza tetto, ai passanti, e perfino agli spacciatori di crack. Di Jane nessuna traccia. Marc, avvocato famoso, contattò la polizia e usò tutta la sua influenza perché venisse organizzata una massiccia ricerca della moglie scomparsa. Ma Jane sembrava essersi dissolta nel nulla. Quando Jane scomparve, mi trovavo a Sarajevo per un reportage fotografico sulla guerra. Per andare a New Orleans impiegai settantadue ore. Nel frattempo la polizia locale era stata sostituita dall'FBI, che considerava la sparizione di mia sorella come l'ultimo episodio di una serie di rapimenti chiamata in gergo NOKIDS, ovvero sequestri di persona a New Orleans. Venne fuori che Jane era la quinta donna sparita in città e dintorni. Poiché non era stato ritrovato alcun corpo, le persone scomparse erano ritenute vittime dello stesso rapitore. Si fecero un'infinità di ipotesi, ma senza una scena del crimine e quindi senza uno straccio di prova, testimoni o cadaveri su cui lavorare, anche la prestigiosa Unità di Supporto Investigativo dell'FBI brancolava nel buio. Da quando mio padre sparì in Cambogia, non ho mai pensato che fosse morto veramente. Non l'ho creduto neppure dopo avere visto la sua ultima foto, quella che ritraeva il soldato che gli puntava contro la pistola. Negli ultimi venti anni ho speso migliaia di dollari nella vaga speranza di trovare un indizio che potesse ricondurmi a lui. Con Jane è diverso. Quando la mia agenzia, grazie a un telefono satellitare della CNN, mi rintracciò a Sarajevo, sapevo già che qualcosa di irreparabile era successo. Era stata una sensazione oscura e profonda che mi aveva assalito mentre stavo attraversando una strada. All'improvviso, la mia energia si era spenta e la strada era svanita. Avevo continuato a correre alla cieca lungo un tunnel buio. Pochi istanti dopo, la strada era riapparsa, ma io mi sentivo ormai come se un proiettile mi avesse trapassata portandosi via qualcosa che nessun medico avrebbe mai potuto rimettere a posto. Fu in quel momento che seppi che la mia gemella era morta. Dodici ore
dopo ricevetti la telefonata. Due ore fa, a tredici mesi di distanza, nel museo di Hong Kong ho visto il suo ritratto: era nuda e priva di vita. Non ricordo che cosa è successo in seguito. La terra non ha smesso di girare. Gli atomi al cesio dell'orologio di Boulder non hanno smesso di vibrare. Ma il tempo soggettivo, il mio tempo, si è fermato. Sono diventata come un buco nell'universo. Adesso mi ritrovo in un posto di prima classe sul volo 747 della Cathay Pacific per New York; dal finestrino arriva la luce di uno splendido tramonto sul Pacifico; i motori sono in azione, e le loro vibrazioni fanno oscillare il whisky nel mio bicchiere. Ne ho bevuti altri due, e mancano ancora diciannove ore all'arrivo. I miei occhi sono asciutti e bruciano. Non ho più lacrime. I miei pensieri tornano al museo. C'è qualcosa che mi disturba. Un'ombra. So bene che non serve sforzare la memoria. Ma ora, nell'ambiente familiare dell'aereo, scaldata dal mio terzo whisky, i fatti riaffiorano. Prima brevi flash, poi sequenze spezzate, come un video di pessima qualità. Sono di fronte a un ritratto di donna che ha il mio stesso viso; i miei piedi sono fissi al suolo come in un incubo. La folla di uomini alle mie spalle è convinta che io sia la modella ritratta nel quadro. Parlano incessantemente correndo qua e là come formiche sul nido cosparso di benzina. Sono stupiti di vedermi viva e arrabbiati al pensiero che la loro fantasia sulle "Donne in riposo" sia un inganno. Ma io so cose che loro non sanno. Vedo mia sorella uscire in St. Charles Avenue, l'umidità condensarsi sulla sua pelle prima ancora che lei inizi a correre. Vorrebbe correre i soliti cinque chilometri, ma da qualche parte, in quella giungla del Garden District, mette un piede in fallo e finisce nella stessa trappola in cui cadde mio padre nel 1972. Adesso, nel museo, lei mi fissa con gli occhi vitrei da una tela profonda come una finestra sull'inferno. Dopo avere accettato la sua morte, dopo averla compianta e averle dato sepoltura nella mia mente, quest'improvvisa resurrezione scatena una tempesta di emozioni. Ma da qualche parte, nel caos del mio cervello, la mia razionalità continua a lavorare. Chiunque abbia dipinto questa tela ha visto mia sorella dopo la sparizione. Egli sa ciò che nessun altro può sapere: quello che accadde nelle ultime ore, negli ultimi minuti, negli ultimi istanti. Lui ha sentito le sue ultime parole. Lui, lui...? Sto dando per scontato che sia un uomo. Ne sono certa e le statistiche non mentono. Violenza carnale, assassinio di sconosciuti, e omicidi in serie, sono crimini commessi da uomini. Dare
la caccia, programmare, sfogare una rabbia ossessivamente coltivata con una violenza che segue rituali complessi è una patologia esclusivamente maschile. Dietro queste strane tele, come uno spettro, si aggira un uomo che sa ciò che io voglio sapere. Solo lui può darmi le risposte che cerco. Mentre guardo mia sorella negli occhi, sorge in me una folle speranza. Nel quadro Jane sembra morta. Ma forse, malgrado la mia premonizione a Sarajevo, quando il quadro fu dipinto Jane era solo priva di conoscenza, forse sotto l'effetto di un sedativo. Quanto ci vuole per dipingere una tela come questa? Qualche ora? Un giorno? Una settimana? Il vociare aumenta, e io mi ritrovo con le guance rigate di lacrime mentre una mano mi afferra la spalla. È la mano di uno di quei porci venuti a posare i loro occhi su quei corpi immobili. Ho l'impulso di staccare i quadri dalle pareti. Invece mi metto a correre. Corro senza fermarmi, finché non trovo una camera buia, piena di documenti esposti in bacheche: poemi cinesi dipinti su carta fragile come le ali di una farfalla. L'unica luce arriva dalle vetrinette. Le mani mi tremano nel buio, e quando mi stringo le braccia intorno al corpo, tremo tutta. Nell'oscurità rivedo mia madre, a Oxford nel Mississippi, uccidersi a furia di bere. Rivedo il marito e i figli di Jane a New Orleans, che trascinano a stento la loro esistenza. Rivedo gli agenti dell'FBI e la loro sconfitta. Agli inizi della carriera avevo scattato centinaia di foto di scene del crimine, ma non avevo mai capito l'importanza del cadavere per l'indagine. È il punto di partenza, senza il quale gli investigatori si trovano davanti al nulla. Il ritratto alla mostra non è il corpo di Jane, ma è un inizio. Ci sono altri dipinti simili al suo, diciannove secondo la guida audio. Diciannove donne nude ritratte nel sonno o nella morte. Per quanto ne so, a New Orleans sono scomparse solo undici donne. Chi sono le altre otto? Sono forse undici in tutto, ritratte più di una volta? E cosa diavolo ci fanno a Hong Kong, dall'altra parte del pianeta? La guida audio informava che i quadri sono messi sul mercato da un mercante d'arte di New York, Christopher vattelappesca. Windham? Winwood? Wingate. Per non correre rischi stacco il walkman dalla cintura e lo infilo nel marsupio. Muovendomi faccio accendere la luce di una bacheca, gli occhi mi fanno male a causa della rapida contrazione delle pupille. Mentre mi rifugio nell'oscurità mi rendo conto di una cosa: se Christopher Wingate è a New York, là, non in questo museo, si trovano le risposte alle mie domande. Nell'ufficio del curatore non troverei che curiosità e sospetto. Per questo non ho bisogno della polizia, soprattutto quella cinese. Mi
serve l'FBI. In particolare l'Unità di Supporto Investigativo, che però si trova a migliaia di chilometri di distanza. Che cosa cercherebbero i geni delle scienze comportamentali in un posto come questo? I quadri, è ovvio. Non li posso certo portare appresso, ma c'è una possibilità. Nel marsupio ho una piccola macchina fotografica automatica. Strumento indispensabile. Il giorno in cui non te la porti dietro, una tragedia da prima pagina ti scoppia davanti agli occhi. Ritrovare la mostra è facile; basta seguire i brandelli di conversazione che riecheggiano nelle sale vuote. Gli uomini indugiano ancora nei locali, senza dubbio parlano di me, della Donna Addormentata che non è né dormiente né morta. Non ho paura ad avvicinarmi. Sono tornata a essere la fotografa di guerra che ha percorso i quattro continenti, la figlia di mio padre. Alla mia apparizione improvvisa i cinesi si raccolgono pieni di eccitazione in gruppetti. Un custode del museo ne sta interrogando due per capire cosa sia successo. Gli passo vicino imperturbabile e scatto due foto della donna nella vasca da bagno. Il flash della piccola Canon infuria i cinesi. Attraverso in fretta la sala e fotografo altri due quadri prima che il custode mi afferri il braccio. Mi giro verso di lui e annuisco come per dire che ho capito, poi mi libero e vado verso il ritratto di Jane. Riesco a fare una foto prima che lui usi il fischietto per chiamare aiuto e mi afferri nuovamente il braccio, questa volta con entrambe le mani. A volte si esce da situazioni come questa raccontando balle, ma non stavolta. Se fossi ancora qui all'arrivo di un responsabile, non riuscirei mai a lasciare il museo con la mia pellicola. Sferro al custode un calcio da farlo piegare in due e per la seconda volta mi metto a correre come una matta. Sento ancora il fischio, ma ora è più fievole. Fermandomi scivolo sul pavimento incerato, torno indietro fino all'uscita di sicurezza, la apro ed esco lasciandomi alle spalle la sirena dell'allarme. Per la prima volta nella vita sono felice di immergermi nella confusione della folla di Hong Kong; persino un'occidentale riesce a sparire in meno di un minuto. A trecento metri dal museo fermo un taxi e mi faccio riportare in albergo. Alloggio al Peninsula, un hotel ben al di sopra delle mie possibilità, ma che ha per me un enorme valore affettivo. Da piccola ricevetti diverse lettere da mio padre scritte sulla carta intestata di quest'albergo. Entrata nella stanza butto le mie cose in valigia, metto le macchine fotografiche nella custodia da viaggio di alluminio e prendo un altro taxi per l'aeroporto. Voglio essere fuori dallo spazio aereo cinese prima che a qualche zelante po-
liziotto venga in mente che, pur non avendo le mie generalità, hanno a disposizione un mio ritratto nel museo. In meno di un'ora potrebbero esserci i volantini distribuiti negli alberghi e all'aeroporto. Non so perché dovrebbero farlo, non ho commesso alcun crimine, a parte il furto del walkman, ma sono già stata arrestata per molto meno, e nel mondo paranoico dei cinesi di Hong Kong, il mio comportamento di fronte a dei dipinti del valore di molti milioni di dollari potrebbe trasformarmi nella candidata ideale per la "custodia temporanea". L'aeroporto internazionale di Hong Kong è una babele di lingue asiatiche e viaggiatori frettolosi. Sono prenotata sul volo per Pechino della Air China che parte fra tre ore. Sul tabellone partenze vedo che c'è un volo per New York della Cathay Pacific in partenza tra trentacinque minuti, con una sosta di due ore all'aeroporto di Narita, a Tokyo. Consegno il passaporto al banco della Cathay e mi lascio spennare dall'impiegato che mi vende un posto in prima classe a tariffa piena. Pago quanto avrei speso negli Stati Uniti per un'automobile di seconda mano, ma dopo ciò che è capitato al museo non ce la faccio a sedere fianco a fianco con qualche rappresentante di computer per venti ore. Questa prospettiva mi fa venire in mente un'altra possibilità, e chiedo all'impiegata se può darmi un posto vicino a una donna. Oggi non sono certo in grado di sopportare le proposte galanti, e venti ore lasciano a qualunque tizio un sacco di tempo a disposizione per provarci. Avevo conosciuto così il mio fidanzato nove anni prima, nel cargo di un DC-3 da qualche parte sui cieli della Namibia. Tre giorni dopo lui fu catturato da guerriglieri SWAPO e picchiato a morte, e io entrai nel club delle Vedove non ufficiali. Adesso, a quarant'anni, sono sempre nubile e sempre parte del club. L'impiegata della Cathay Pacific mi sorride con complicità ed esaudisce la mia richiesta. Tre whisky dopo torna la memoria ed eccomi al presente. Grazie all'alcol riesco a placare il dolore che mi agita. Ma venti ore sono un po' troppe per fuggire a se stessi. Nel marsupio ho un rifornimento di sonniferi per affrontare le notti in cui il pensiero di mia sorella prende il sopravvento e non riesco a dormire. Anche se non è buio, butto gip tre pastiglie con un sorso di whisky e prendo in mano l'Airfone. In aereo posso fare una sola cosa utile, quindi con l'aiuto della mia Visa e dell'elenco abbonati chiamo l'Accademia dell'FBI a Quantico, in Virginia, che mi mette in comunicazione con l'USI, l'Unità di Supporto Investigativo. L'USI ha una sede molto più imponente di una volta, ma Daniel
Baxter, il responsabile dell'unità, preferisce l'atmosfera da bunker dei vecchi tempi, prima che Hollywood trasformasse la sua unità in un mito che attira migliaia di giovani laureati. Adesso lui deve essere sui cinquanta. Un cinquantenne asciutto e impaziente con lo sguardo da soldato. I suoi successi sono leggendari, ma le sconfitte devastanti, come nel caso di mia sorella e delle sue dieci compagne di sventura. Qui Baxter e il suo gruppo hanno fatto cilecca. Ma la realtà nuda e cruda è che, quando si è nella merda fino al collo, non rimane nessun altro da chiamare. «Pronto, Baxter» mi risponde una voce baritonale. «Sono Jordan Glass» gli dico cercando di nascondere, senza troppo successo, la mia voce impastata. «Si ricorda di me?» «Una persona come lei non si dimentica facilmente.» Ingoio rapidamente un sorso di whisky. «Poco più di un'ora fa ho visto mia sorella a Hong Kong.» Dopo un attimo di silenzio: «Signora Glass ha bevuto?». «Sì, ma so di cosa sto parlando.» «Lei ha visto sua sorella?» «A Hong Kong. Adesso sono su un 747 per New York.» «Mi sta dicendo di aver visto sua sorella viva?» «No.» «Non capisco.» Fornisco a Baxter un riassunto il più lucido possibile dei fatti, e attendo la sua reazione. Mi aspetto delle manifestazioni di stupore, qualcosa, invece niente; c'era da aspettarselo. «Ha riconosciuto qualche altra vittima di New Orleans?» mi chiede. «No, ma ho visto solo le foto delle prime sei.» «Lei è assolutamente sicura che si trattasse di sua sorella?» «Vuole scherzare? Baxter, era la mia faccia. Il mio corpo, nudo, sotto lo sguardo di tutti.» «Va bene... le credo.» «Lei aveva mai sentito parlare di quei dipinti?» «No. Ne parlerò immediatamente alla squadra belle arti di Washington D C. Passeremo al setaccio la vita di questo Christopher Wingate. Quando arriva a New York?» «Tra diciannove ore. Circa alle 17 ora locale.» «Adesso cerchi di dormire. Io intanto le prenoto un posto sul volo dell'American Airlines dal JFK. È un biglietto elettronico, basta che lei presenti un documento d'identità al banco. Noi due ci incontreremo a Washin-
gton, nella Hoover Building. Ci sarei andato comunque domani, e per lei è più comodo trovarsi lì che a Quantico. Un agente la preleverà all'aeroporto Reagan. Ha qualche obiezione?» «Sì, penso che non avrebbero dovuto cambiargli nome; Washington National andava benissimo.» «Signora Glass, va tutto bene?» «Benissimo.» «Mi sembra sconvolta.» «Niente che non si possa sistemare con qualche pastiglia e un po' di scotch.» Mi scappa una risata isterica. «Devo rilassarmi un po'. È stata una giornata pesante.» «Capisco. Ma non esageri. Ho bisogno che lei sia lucida.» «Mi fa piacere poter essere di aiuto.» Interrompo la comunicazione e poso il ricevitore. "Tredici mesi fa non avevi bisogno di me" penso. Ma questo valeva allora. Adesso le cose sono cambiate. Adesso mi vogliono con loro per capire il significato dei dipinti, poi mi taglieranno fuori di nuovo. Essere esclusi è la cosa peggiore che possa capitare a un giornalista, ed è un inferno per i familiari della vittima. Meglio non pensarci. Meglio dormire. Non appena la vista si offusca per effetto dei medicinali, ho un'improvvisa intuizione e riprendo in mano il telefono. Ron Epstein lavora alla cronaca mondana del «New York Post» e in città conosce tutto di tutti. Anche lui, come Daniel Baxter, è un lavoratore accanito, quindi, sebbene a New York sia mattino presto, deve essere in redazione. Quando il centralinista del «Post» mi passa il suo interno, risponde subito. «Ron? Sono Jordan Glass.» «Jordan! Dove sei?» «In volo per New York.» Sento un risolino. «Pensavo fossi in posti strani a caccia di nuvole e simili.» «Non più.» «Devi avere bisogno di qualcosa. Tu non telefoni mai solo per fare quattro chiacchiere.» «Si tratta di Christopher Wingate. Ne hai sentito parlare?» «Naturellement. Un tipo molto chic, che fa tendenza. Grazie a lui la Quindicesima fa invidia a SoHo. Adesso i vecchi mercanti d'arte gli leccano il culo, e più lo fanno più lui li prende a calci nelle palle. Tutti vogliono
essere rappresentati da Wingate, ma lui fa il difficile.» «Cosa sai delle "Donne Addormentate"?» Un grido di ammirazione. «Tu sì che sei proprio del giro. Pochi collezionisti americani ne hanno sentito parlare.» «Voglio incontrarlo. Wingate, intendo.» «Per fotografarlo?» «No, per parlargli.» «C'è la fila, ma può darsi che sia abbastanza incuriosito da riceverti.» «Mi puoi dare il suo numero di telefono?» «Sono l'unico a poterlo fare. Ma ci vorrà un po'. Non è nell'elenco. Vive sopra la sua galleria, ma credo che anche quella sia fuori elenco. Roba per pochi. È un tipo capace di non andare a una vendita solo perché non gli va a genio il compratore. Dove ti posso richiamare?» «Non puoi. Ti chiamo io domani, va bene? Adesso vado a dormire.» «Domani sarà pronto.» «Grazie Ron. Ti devo una cena.» «Se posso scegliere il posto, siamo d'accordo. Spero che tu non dorma sola. Nessuno ha più bisogno d'amore di te.» Mi guardo intorno, la cabina di prima classe è piena di uomini d'affari con abiti spiegazzati. «No, non sono sola.» «Bene. A domani allora.» La nebbia mi scende sulla testa così in fretta che riesco a mala pena a posare il ricevitore. Dio sia lodato per le pastiglie. Non potrei sopportare di rimanere sveglia. Quando riaprirò gli occhi il museo non sarà stato che un brutto sogno. In realtà è stato una porta. Una porta aperta su un mondo da cui non posso stare fuori. Ne sarò capace? «Certo» rispondo ad alta voce. «Lo sono dalla nascita.» Ma sotto sotto, dietro questo fare spavaldo, so che non è vero. CAPITOLO TERZO L'effetto dei sonniferi svanisce due ore prima dell'arrivo a New York; a fatica raggiungo la toilette, torno e mi faccio dare una salvietta bollente. Poi telefono a Ron Epstein e ho il numero telefonico di Christopher Wingate. Dopo un'ora di tentativi riesco finalmente a trovarlo. Mi preoccupa l'idea di dovere tirare in ballo le "Donne Addormentate" per potere avere la sua attenzione, ma Epstein aveva visto giusto: non c'è bisogno di alcuna spiegazione, basta la mia modesta fama a incuriosirlo e a
farmi ottenere un appuntamento nella sua galleria dopo l'orario di chiusura. La sua voce mi dice ben poco: ha un accento che non riesco a collocare. Accenna al mio libro in fase di realizzazione, magari spera che io sia alla ricerca di un intermediario per piazzare le mie foto sul mercato dell'arte. Incontrarlo da sola può essere rischioso, ma correre dei rischi fa parte del mio lavoro. Fare fotografie di guerra è come pescare al largo dell'Alaska: ogni volta che si parte non si sa se si tornerà. Potrebbe essere lo stesso con Christopher Wingate. Sarà già venuto a sapere cos'è successo al museo. Saprà che quella che ha causato un pandemonio a Hong Kong era la copia sputata di una delle donne ritratte. Chissà se è al corrente che una delle "Donne Addormentate" assomiglia alla fotografa Jordan Glass? Mi conosce di fama, ma con ogni probabilità non mi ha mai vista in foto. Non vivo a New York da dodici anni, e prima di allora il mio lavoro non era molto conosciuto. Il rischio dipende dal coinvolgimento di Wingate con l'autore delle tele. Che cosa sa? Finché non gli parlo non posso saperlo. Ma una cosa è certa: se vado direttamente a Washington dall'FBI, non riuscirò mai ad avvicinarlo. Qualsiasi informazione che mi verrà data sarà di seconda mano, proprio come capitò dopo la scomparsa di Jane. Passata la dogana, porto i bagagli all'uscita dell'American Airlines, raccolgo il mio biglietto elettronico e faccio il check-in dei bagagli. Poi esco dall'aeroporto e salgo su un taxi. Mi dispiace di avere mandato a Washington le mie macchine fotografiche, ma così Daniel Baxter si berrà più facilmente la storia che ho perso l'aereo a causa di un malore. Prima di andare nella zona sud di Manhattan, mi fermo a comprare una bomboletta di spray urticante al peperoncino, da tenere in tasca. Avrei preferito una pistola, ma è meglio non correre rischi inutili. La polizia di New York non ha la mano leggera con chi va in giro senza porto d'armi. Quando il taxi si ferma davanti alla galleria di Wingate sulla Quindicesima, un semplice edificio a tre piani in arenaria, come ce ne sono migliaia in città, tra un bar e un videonoleggio, il sole sta tramontando. Dopo avere pagato l'autista perché resti ad aspettarmi, scendo dal taxi e scruto l'ingresso dal marciapiede. Vicino al portone c'è un citofono; sembra normale, ma probabilmente nasconde dispositivi di sicurezza di ogni tipo. Mentre mi avvicino indosso gli occhiali da sole: non si sa mai, potrebbe esserci una videocamera. Infatti ho ragione. Suono il campanello e aspetto. «Chi è?» chiede la voce senza inflessioni che avevo sentito al telefono. «Jordan Glass.»
«Un momento.» Il citofono fa clic, la serratura scatta e io apro la porta. Il piano terra della galleria è illuminato a metà da una luce fluorescente che filtra dalla scala di ferro che porta al piano superiore. Non riesco a vedere bene a causa degli occhiali da sole, ma l'arredamento sembra sobrio per una galleria d'arte alla moda di New York. Il pavimento è di legno chiaro, le pareti bianche. I quadri sono perlopiù moderni, o almeno coincidono con la mia nozione del termine. «Le piace Lucian Freud?» mi chiede la voce del citofono. Sul pianerottolo appare un uomo immerso in un fascio di luce, che sembra essersi materializzato sul posto. È un tipo atletico, con un inizio di calvizie compensato da una barba molto corta e curata. I jeans neri, la maglietta e la giacca di pelle mi fanno venire in mente i mafiosi russi incontrati a Mosca qualche anno fa. «Non molto» rispondo dando una rapida occhiata alle tele più vicine. «Dovrebbe?» «Il dovere non c'entra per niente. Ma forse potrebbe farsene un'idea più precisa senza quegli occhiali da sole.» «Non credo che potrei apprezzarlo meglio. Non sono qui per questo.» «Che cosa cerca?» «Cerco Christopher Wingate, è lei?» Mi fa segno di seguirlo, poi si gira e sale le scale. «Lei porta sempre gli occhiali di sera?» mi chiede girando la testa verso di me. «È un problema?» «Fa tanto Julia Roberts.» «È l'unica cosa che abbiamo in comune.» Wingate sogghigna. È a piedi nudi, e i talloni sembrano sospesi sugli scalini. Superato il primo piano, che ospita le sculture, si dirige verso il secondo, dove abita. L'ambiente è essenziale, tutto linee austere e legno svedese, ed è impregnato dell'aroma di caffè appena fatto. Nel centro della stanza si trova una grande cassa di legno, con un'estremità aperta da cui fuoriesce del materiale da imballaggio. Sulla cassa sono posati un martello a coda di rondine e una manciata di chiodi. Passandoci vicino Wingate accarezza il legno. «Cosa c'è lì dentro?» «Un quadro. Prego, si accomodi.» Indicando la cassa chiedo: «Lei lavora qui? Nel suo appartamento?».
«È un quadro speciale, che forse vedo per l'ultima volta. Fin che posso voglio godermelo. Gradisce un espresso, o preferisce un cappuccino? Stavo per farmene uno.» «Un cappuccino, grazie.» «Bene» dice dirigendosi verso una macchina da caffè che si trova sul bancone alle sue spalle, e inizia a riempire una tazza. Mentre lui è girato vado verso la cassa aperta. Dentro c'è una cornice dorata, non riesco a distinguere bene, ma ciò che vedo mi basta: il busto e la testa di un nudo femminile; gli occhi aperti hanno uno sguardo fisso e stranamente tranquillo. Torno al mio posto e aspetto. «Allora, a cosa devo il piacere?» chiede senza voltarsi. «Ho sentito molto parlare di lei. Si dice che sia un commerciante d'arte molto selettivo.» «Non vendo ai cretini» dice mentre versa il latte caldo con un ampio gesto e aggiunge: «A meno che non siano consapevoli di esserlo. Il che fa una bella differenza. Se qualcuno viene da me dicendomi "Mio caro, non capisco niente d'arte, ma voglio diventare un collezionista, mi può consigliare?" Allora tutto cambia». Versa ancora del latte bollente. «Ma questi milionari wasp pieni di pretese, che hanno studiato un po' d'arte a Yale, cosa vogliono da me se sanno tutto? Ci vengono solo per il nome, no? E allora che vadano a farsi fottere. Il mio nome non è in vendita.» «Non a loro.» Si gira verso di me offrendomi una tazza fumante. «Lei ha un bell'accento. È del Sud Carolina?» «Acqua» rispondo, avanzando per prendere la tazza. «Ma è del sud. Quale stato?» «La patria delle magnolie.» Mi guarda perplesso. «Louisiana?» «Quello è il paradiso degli sportivi. Sono conterranea di William Faulkner e di Elvis Presley.» «Georgia?» Sono proprio a New York. «Mississippi, signor Wingate.» «Se ne impara sempre una nuova. Se vuole, mi chiami pure Christopher.» «Va bene.» Dopo ciò che mi ha detto Ron Epstein non mi stupirei se si mettesse a fare delle battute sul Mississippi. «Io sono Jordan.» «Io sono un suo grande ammiratore» aggiunge con apparente sincerità.
«Lei ha un occhio che non risparmia niente e nessuno.» «È un complimento?» «Certo. Lei coglie l'orrore senza rinunciare al sentimento. Ecco perché il suo lavoro piace. Penso che ci sarebbe una discreta richiesta se decidesse di metterlo sul mercato dell'arte. Non c'è molto spazio per la fotografia, ma la sua... non ho dubbi.» «Lei non è all'altezza della sua fama. Ho sentito dire che è un uomo senza scrupoli.» Sogghigna di nuovo e sorseggia il cappuccino. I suoi occhi sono di un nero stupefacente. «È vero, ma con gli artisti che mi piacciono sono un adulatore.» Vorrei chiedergli del quadro nella cassa, ma qualcosa mi dice che è meglio aspettare. «C'è chi sostiene che una fotografia possa essere giornalismo o arte, ma non entrambe le cose.» «Stronzate. Chi ha talento viola sempre le regole. Guardi il libro di Martin Parr. Con L'ultima spiaggia ha sovvertito il concetto di fotogiornalismo. O la roba di Nachtwey. Quella è arte, non c'è dubbio. E lei è come loro, per certi aspetti è anche migliore.» Adesso so che mi sta raccontando veramente delle balle. James Nachtwey è un fotogiornalista famoso che lavora alla Magnum; ha vinto il Capa ben cinque volte. «In che senso?» «Dal punto di vista commerciale.» Un lampo di malizia gli brilla negli occhi. «Jordan, lei è una star.» «Io?» «La gente guarda le sue foto: dure, tremende, dirette e pensa, "Dietro l'obiettivo c'era una donna. Con una sensibilità da donna. Se una donna ha sopportato questo, devo farlo anch'io." Questo li stende. E fa cambiare il loro punto di vista. È quello che fa l'arte.» Non è la prima volta che sento queste cose, e anche se sono in gran parte vere, mi infastidiscono. «E poi c'è lei» aggiunge Wingate. «Si guardi. Quasi senza trucco e ancora bella a... quarant'anni?» «Quaranta.» «Lei ha un mercato. Se se la sente di affrontare qualche intervista e un'inaugurazione, io la posso trasformare in una star. Un'icona per il mondo femminile.» «Io non ho girato come una matta per il mondo per diventare una star.»
Un bagliore selvaggio tradisce un nuovo tipo di interesse. «Ci credo. Ma allora perché? Perché trascinarsi da un posto all'altro, inseguendo atrocità che avrebbero sconvolto Goya?» «Non si è ancora guadagnato la risposta alla domanda.» Batte le mani. «Ma io la so già! È per suo padre, vero? Il caro vecchio papà, Jonathan Glass, la leggenda del Vietnam. Il cacciatore di assassini.» «Forse lei è davvero un figlio di buona donna.» Il suo sorriso si allarga. «Non posso farne a meno, come disse lo scorpione alla rana; è la mia natura.» Alcuni dei più grandi bastardi che io abbia mai incontrato erano gente carismatica, e Wingate non fa eccezione. Fisso lo sguardo sulla cassa tra di noi. «E il modo in cui morì,» continua Wingate «scattando una pellicola da Pulitzer. Mitico. La figlia segue le orme del padre? È un fatto più che legittimo, non è il caso di fare tanto chiasso. Potremmo fare una doppia mostra. Pensi quanta pubblicità gratuita. Chi ha i diritti sui lavori di suo padre?» «Io non credo che sia morto in Cambogia» dico con voce piatta. Dall'espressione di Wingate sembra che io abbia appena detto che non credo che Neil Armstrong sia andato sulla luna. «Lei non crede?» «No.» «Okay... ancora meglio. Potremmo...» «Io non voglio sfruttare il lavoro di mio padre per soldi.» Scuote la testa e m'implora a mani giunte. «Lei sta considerando le cose dal lato sbagliato.» «Che razza di meraviglia c'è lì dentro, visto che ha deciso di tenerla così vicino a lei?» Lo interrompo indicando la cassa da imballaggio. Preso alla sprovvista risponde senza pensare: «È l'opera di un artista anonimo che mi affascina molto». «A lei piacciono i ritratti di donne morte?» Wingate si irrigidisce e mi fissa negli occhi. «Ha intenzione di rispondere alla mia domanda oppure no?» Scrolla le spalle. «Non sono qui per rispondere alle sue domande, ma stavolta lo faccio. Nessuno sa se i soggetti ritratti siano vivi o morti.» «Lei conosce l'identità dell'artista?» Wingate beve qualche sorso, poi appoggia la tazza sul bancone alle sue spalle. Io infilo la mano in tasca, tocco il metallo freddo della bomboletta e riprendo coraggio. «Me lo chiede in veste di giornalista o di collezionista?»
«Tutto quello che posso permettermi di collezionare sono esperienze e visti sul passaporto. Pensavo che l'avrebbe capito dalle mie scarpe.» «Al giorno d'oggi non si può sapere chi è veramente ricco.» «Voglio incontrare l'artista.» «Impossibile.» «Posso vedere il quadro?» Wingate serra le labbra. «Non vedo perché no, visto che l'ha già fatto.» Poi gira intorno alla cassa per raggiungere il lato aperto, punta i piedi contro il fondo e afferra la cornice. «Può darmi una mano?» Sono incerta, penso al martello, ma non sembra che abbia intenzione di uccidermi a mazzate sulla testa. Mi sono già trovata in situazioni dove qualcuno voleva farmi fare questa fine, quindi decido di fidarmi del mio istinto. «Tenga l'altra parte, mentre io faccio forza» dice. Poso la tazza sul pavimento, poi afferro l'altra estremità della cassa mentre Wingate tira fuori una cornice metallica imbottita che contiene quella dorata. «Ecco, adesso la può vedere.» Sono combattuta tra il desiderio di spostarmi e quello di rimanere dove sono. Ma devo guardare. Potrei riconoscere una delle vittime sparite prima di Jane. Non appena vedo il viso, capisco di trovarmi di fronte a un'estranea. Ma potrei benissimo averla conosciuta. È simile a migliaia di altre donne di New Orleans. Sangue francese con qualche goccia di sangue africano: una bellezza che si vede raramente in altre parti degli Stati Uniti. Ma questa donna non ha un aspetto normale. La carnagione dovrebbe avere il colore del caffelatte, non quello della porcellana cinese. Gli occhi sono spalancati e fissi. Certo, in ogni quadro gli occhi sono fissi, solo il talento dell'artista può renderli vivi. Questi invece sono spenti, senza un barlume di vita. «Donna Addormentata numero venti» dice Wingate. «Preferisce questo o i quadri al piano di sotto?» Solo adesso noto il resto del dipinto. L'artista ha messo il soggetto contro un muro, le ginocchia rannicchiate sul petto come se la donna fosse seduta. Ma non è così. È semplicemente appoggiata, la testa riversa sulle spalle marmoree, avvolta in un turbinio di colori. Tende stampate a forti tinte, un tappeto blu, un fascio di luce proveniente da una finestra in-
visibile. Anche il muro che la sostiene è formato da migliaia di pennellate di colore diverso. Solo la donna è dipinta con un realismo impressionante. «Non mi piace. Ma sento... sento che chi l'ha dipinta ha un grande talento.» «Grandissimo.» Gli occhi corvini di Wingate brillano d'eccitazione. «Lui riesce a cogliere ciò che nessun altro artista contemporaneo è nemmeno in grado di intuire. Tutti i giovani arroganti che vengono qui, che cercano il limite, che dipingono con il sangue o fanno sculture con pezzi di pistola... sono una presa per il culo. Il limite è qui, davanti a lei.» «È un artista importante?» «Lo sapremo solo tra cinquant'anni.» «Che stile ha?» Wingate sospirò pensieroso. «È difficile dire. Non è statico. Iniziò quasi come puro impressionista, uno stile morto e sepolto. Lo sanno fare tutti. Ma c'era qualcosa. Con la quinta e la sesta tela, iniziò a tirare fuori qualcosa di molto più affascinante. Conosce i Nabis?» «Che?» «Nabis. Vuole dire profeta. Bonnard, Denis, Vuillard?» «Quello che so sull'arte non riempirebbe nemmeno una cartolina.» «Non se la prenda. È il sistema scolastico americano. Non la insegnano. Bisogna mettersi in ginocchio e implorare. Neanche all'università.» «Non ho fatto l'università.» «Che sollievo. Perché mai avrebbe dovuto? Le istituzioni americane adorano la tecnologia. La tecnologia e il denaro.» «Lei è americano?» Sorrise divertito. «Che ne pensa?» «Non saprei. Da dove viene?» «Di solito, quando me lo chiedono, mento. Ma non ho intenzione di insultare la sua intelligenza, perciò lasciamo da parte le notizie biografiche.» «Ha qualcosa da nascondere?» «Qualche segreto mi rende interessante. I collezionisti preferiscono comprare da mercanti interessanti. Tutti pensano che io sia il lupo cattivo, che abbia legami con la mafia e che sia pieno di clienti criminali.» «È vero?» «Io sono un uomo d'affari, e, a New York, a chi fa affari questa reputazione non guasta.» «Ha delle stampe delle altre "Donne Addormentate" che io possa vedere?»
«Non ci sono stampe. È una garanzia per l'acquirente.» «E foto? Avrà di sicuro delle foto.» Scuote la testa. «Nessuna foto. Nessuna copia di alcun genere.» «Perché?» «La rarità è il bene più ricercato.» «Da quanto tempo ha questo quadro?» Wingate guarda la tela, poi mi fissa con la coda dell'occhio. «Non molto.» «Per quanto lo terrà ancora?» «Lo spedisco domani. Takagi ha un'offerta aperta su ogni opera dell'artista. Un milione e mezzo di sterline. Ma per questa ho altri piani.» Afferra la cornice di metallo e mi dice di tenere la cassa mentre lui rimette dentro il quadro. Lo aiuto per non farlo smettere di parlare. «Per una serie di otto dipinti,» continua Wingate «avrebbe potuto essere uno dei Nabis. Ma ha cambiato ancora. Le donne sono diventate sempre più reali, i loro corpi sempre più privi di vita, come lo sfondo. Adesso dipinge come uno dei vecchi maestri. Ha una tecnica incredibile.» «Davvero lei non sa se i soggetti sono vivi o morti?» «Per l'amor di Dio» sbotta, cercando di fare forza senza danneggiare la cornice. «Sono delle modelle. Se qualche giapponese sessualmente eccitato preferisce credere che siano morte e paga milioni per averle, benissimo. Non posso lamentarmi.» «Lo crede davvero?» Senza guardarmi mi dice: «Non importa ciò che credo; importa ciò che so per certo, ovvero niente». Se Wingate non sa che le donne dipinte sono vere, non resterà ignorante a lungo. Mentre lui si rialza e si asciuga la fronte, io gli vado davanti e mi tolgo gli occhiali. «Adesso cosa ne pensa?» Anche se non batte ciglio si capisce che è scosso. Le pupille si sono rimpicciolite. «Penso che lei sta cercando di giocarmi qualche scherzo.» «Perché mai?» «Perché io ho venduto un suo ritratto. Lei è una di loro. Una delle "Donne Addormentate".» Deve essere ancora all'oscuro di Hong Kong. «No,» rispondo piano, «quella era mia sorella.» «Ma... il viso è lo stesso.»
«Siamo gemelle, identiche.» Scuote la testa stupito. «Adesso capisce?» «Lei sa più di quanto non dice. Sua sorella sta bene?» Non so dire se sia sincero oppure no. «Non so. Ma credo di no. È sparita tredici mesi fa. Quando ha venduto il suo quadro?» «Più o meno un anno fa.» «A un industriale giapponese?» «Sì, a Takagi. La sua offerta è stata la più alta.» «C'erano altri compratori?» «Certo. Ce ne sono sempre. Ma non ho intenzione di dirle i nomi.» «Senta, cerchi di capire. Non mi importa un fico secco della polizia o della legge. Mi importa di mia sorella. Sono disposta a pagare per qualsiasi informazione che mi aiuti a ritrovarla.» «Io non so niente. Sua sorella manca da un anno, crede che sia ancora viva?» «No, penso che sia morta. Secondo me tutte le donne di quei quadri sono morte. E lei è della stessa opinione. Ma io non posso vivere senza sapere che cosa le è successo. È il minimo che possa fare per lei.» Wingate osserva la cassa. «Eh, io la capisco. Ma non posso aiutarla. Non so niente.» «Non è possibile. Lei ha l'esclusiva dell'artista.» «Sì, ma non l'ho mai incontrato.» «Almeno può dirmi se è un uomo?» «Non ne sono sicuro. Tutto è sbrigato via posta. Comunicazioni lasciate alla galleria, soldi negli armadietti delle stazioni, roba così.» «Io non credo che l'artista possa essere una donna, e lei?» Wingate alza un sopracciglio. «In questa città girano donne davvero strane. Ne avrei di storie da raccontarle. Lei non ha idea delle cose che ho visto.» «I quadri arrivano per posta?» «A volte. Altre volte li trovo direttamente alla galleria. È come nei romanzi di spionaggio; come si dice in gergo? Consegna in luogo convenuto?» «Perché dovrebbe fare una cosa del genere?» «Mah, io avevo pensato alla sindrome di Helga.» «Che?» «La sindrome di Helga. Conosce sicuramente Andrew Wyeth, no?»
«Certo.» «Wyeth, mentre tutti lo credevano capace di dipingere in modo realistico soltanto l'America rurale, stava segretamente dipingendo nudi di donna, una sua vicina di fattoria. Helga. Wyeth non parlò mai dei dipinti, di cui si seppe solo anni dopo. La prima "Donna Addormentata" fu semplicemente lasciata qui. Non era una delle prime opere, apparteneva al periodo Nabis. Quando la vidi, capii che era un'opera di talento. Pensai che fosse di un artista affermato che non voleva far sapere che stava sperimentando. Perlomeno finché non fosse arrivato il successo.» «Come lo paga? Non può certamente lasciare milioni negli armadietti delle stazioni. Manda un bonifico a qualche banca?» Wingate assume un'espressione stanca. «Senta. Io la capisco, ma non vedo proprio come questo la possa riguardare. Se quello che dice è vero, la polizia verrà presto a farmi le stesse domande. Forse lei farebbe meglio a parlare con loro, e io a parlare con il mio avvocato.» «Faccia finta di non avere sentito, okay? Io non voglio metterla nei guai. A me importa solo di mia sorella. Tutte le donne dei quadri sono scomparse da New Orleans. Nessuna è mai stata ritrovata, viva o morta. Adesso scopro questi dipinti a Hong Kong. Tutti danno per scontato che le donne siano morte. E se non fosse così? Io devo trovare chi ha dipinto questi quadri.» Lui si stringe nelle spalle. «Come ho già detto, non c'è che da aspettare il lavoro della polizia.» Un campanello d'allarme risuona nella mia mente. Christopher Wingate non sembra tipo da gradire l'attenzione della polizia. Eppure cerca di guadagnare tempo facendomi credere che aspetta il loro intervento. È ora di andarmene. «Chi conosce la storia?» mi chiede all'improvviso. «A chi l'ha detto?» Vorrei tanto avere le mani in tasca, strette intorno alla bomboletta, ma Wingate non mi toglie gli occhi di dosso, e ha il martello a portata di mano. «A un po' di gente.» «Per esempio?» «All'FBI.» Wingate si morde il labbro inferiore, poi fa un sorrisino. «Dovrei spaventarmi?» Afferra il martello e io faccio un salto indietro. Lui ride della mia suscettibilità, poi prende una manciata di chiodi, ne mette qualcuno in bocca e
comincia a chiudere il lato della cassa, deciso a usare tutte le precauzioni possibili per proteggere il suo tesoro. «Non tutto il male viene per nuocere, vero?» mi dice ancora con i chiodi tra le labbra. «L'FBI incomincia a occuparsi dei quadri, e la notizia fa il giro del mondo. Come il tizio in Spagna che uccideva le donne e le ritraeva in quadri alla Salvador Dalí. Sono soldi, cara signora.» «Lei è un bastardo.» «Non è mica un crimine. Con questo quadro farò molti più soldi di quanti non avessi immaginato. Forse raddoppierò la richiesta.» «Quanto prende di commissione?» gli chiedo mentre mi allontano dal tiro del martello e metto la mano in tasca. «Sono fatti miei.» «Quant'è la commissione standard?» «Il cinque per cento.» «Allora con questo quadro lei potrebbe fare un milione di dollari.» «Lei è svelta in matematica. Dovrebbe lavorare per me.» La cassa è quasi chiusa. Quando avrà finito, mi dirà di andarmene, poi si attaccherà al telefono e comincerà a pubblicizzare il suo tesoro. «Perché vende i quadri in Asia e non in America? Cerca di ritardare il più possibile la scoperta del legame tra le tele e le donne scomparse?» Ride di nuovo. «È stato un caso. Un francese dalle isole Cayman comprò i primi cinque, ma ho scoperto che il tipo aveva passato quasi tutta la vita in Vietnam. Poi arrivò un collezionista giapponese. Un malese. Anche un cinese. C'è qualcosa in questi quadri che fa leva sulla sensibilità orientale.» «Non è certo qualcosa di sottile, le pare? Nudi di donne occidentali morte.» Wingate si gira verso di me e piega le labbra. «Grossolano, e troppo riduttivo.» «Dove va il quadro nella cassa?» «A una casa d'aste di Tokyo.» «Perché complicare tanto le cose, Christopher? Perché non fare l'asta qui a New York? Da Sotheby's o da qualche altra parte?» Adesso c'è puro compiacimento. «È come Brian Epstein con i Beatles. Sei il numero uno in Inghilterra, ma a un certo punto li devi portare in America. Forse è arrivato il momento.» La sua arroganza fa scattare qualcosa in me, una riserva di indignazione che cerco di bloccare, ma che a volte prende il sopravvento nonostante le mie migliori intenzioni.
«Ho mentito a proposito dell'FBI» dico con freddezza. «A loro non ho ancora detto niente dei quadri. Prima volevo parlare con te. Ma dato che sei una tale testa di cazzo, e non mi hai detto niente di utile, ne parlerò con loro. E sai cosa capiterà? La cassa che coccoli tanto verrà confiscata come prova. E non ci caverai niente, perché non potrai venderla per un bel pezzo, caro Christopher. Come capita a tutti i beni confiscati in attesa di giudizio, ma ancora peggio.» Wingate si alza con il martello in mano e si mette davanti a me. In bocca ha ancora un paio di chiodi che mi piacerebbe tanto cacciargli in gola. «Cosa vuoi sapere?» mi chiede. «Il nome. Voglio sapere chi li dipinge.» Solleva il martello e lo lascia cadere nell'altra mano con un colpo secco. «Se non hai ancora parlato con l'FBI, non sei nella posizione migliore per poter fare una richiesta di questo genere.» «Basta una telefonata.» Adesso sorride. «Ma per telefonare bisogna avere un telefono a portata di mano. Pensi di riuscire ad arrivare a quello?» Con un gesto punta il martello verso il cordless sul bancone alle sue spalle. Potrei provare a spruzzargli in faccia lo spray e raggiungere la cornetta, ma il punto non è questo. Lui è disposto a colpirmi, forse anche a uccidermi, pur di difendere il suo monopolio, quindi sa molto più di quanto non abbia detto sull'origine delle "Donne Addormentate". «Allora?» aggiunge quasi divertito. Mentre indietreggio verso la scala di ferro, metto un dito sul pulsante dello spray. «Dove vai, Jordan?» mi chiede avanzando in fretta verso di me, brandendo il martello. Improvvisamente intravedo un'altra possibilità. E se il pittore non fosse l'assassino? Forse Wingate ha organizzato tutto quanto per guadagnare milioni in commissioni? Forse l'assassino è lui, e dopo averle ammazzate commissiona le tele a qualche artista disperato. Mentre si avvicina i suoi occhi corvini scintillano e mi mettono in allarme. In un attimo estraggo la bomboletta e inizio a spruzzare da due metri di distanza; il getto gli riempie occhi, naso e bocca con una quantità tale di irritanti chimici da bruciargli tutte le mucose. Si mette a piangere come un bambino, lascia cadere il martello e comincia a fregarsi gli occhi. Strilla da fare pena. Mentre mi giro verso la scala con il cuore che mi rimbomba nelle orecchie, mi pare d'essere afferrata da una mano gigantesca che mi scaraventa in mezzo alla stanza.
Quando apro gli occhi, vedo salire del fumo grigio e sento un uomo urlare. Wingate sta strillando così forte che non riesco a pensare. Soltanto nelle zone di guerra si sentono urla simili, quelle dei feriti, a terra, che hanno l'intestino o i genitali in una bacinella data loro da un soccorritore. Adesso Wingate corre per la stanza come un topo cieco; sarebbe anche capace di buttarsi dalla finestra. «C'è un'uscita di sicurezza?» grido, ma lui non mi sente. Sembra stia ancora cercando di cavarsi gli occhi. Alla mia sinistra vedo la debole luce azzurrastra di un lampione. Significa che c'è una finestra. La raggiungo carponi il più in fretta possibile e alzo la testa al di sopra del davanzale sperando di trovare un'uscita d'emergenza. Invece ho davanti un salto di nove metri. Indietreggio verso la scala, ma a metà strada mi fermo e aspetto che Wingate mi passi accanto. Arriva dopo pochi secondi e io mi metto alle sue calcagna. «Zitto!» gli grido. «Se non la smetti di urlare finirai per lasciarci la pelle!» «Gli occhi!» si lamenta. «Sono cieco!» «Non sei cieco! Fermati!» Avvolta dalla coltre di fumo sempre più densa, corro al lavandino, riempio d'acqua il bricco del caffè, poi ritorno da lui e gli sciacquo gli occhi. Urla ancora un po', ma sembra stare meglio. «Ancora» chiede tra un colpo di tosse e l'altro. «Non c'è tempo. Dobbiamo uscire. Dov'è l'uscita di sicurezza?» «Camera... da letto.» «Dov'è?» «Muro post... posteriore... porta.» «Alzati!» Non si muove finché non gli afferro il braccio con una stretta tale da spezzarglielo. Allora si mette carponi e incomincia a seguirmi. Mentre ci stiamo muovendo dalla scala sale un boato, sembra il grido di qualche creatura satanica. È la voce del fuoco. L'ho sentita molte altre volte e mi terrorizza. È uno dei motivi per cui la gente intrappolata dalle fiamme è disposta a lanciarsi sul cemento dal decimo piano. Per prima cosa entro in camera da letto. C'è meno fumo e una sola finestra. Mentre mi avvicino carponi, Wingate mi afferra la caviglia. «Aspetta!» rantola. «Il quadro!» «Vaffanculo il quadro!» «Non posso abbandonarlo! Gli estintori automatici sono fuori uso!»
La sua mano ha lasciato la presa. Quando mi volto, non lo vedo più. L'imbecille è disposto a morire per i soldi. Ho visto individui morire per ragioni ancora peggiori, ma sono stati pochi. «Lascia perdere quel quadro maledetto!» urlo. «Aiutami!» mi risponde. «Non posso spostare la cassa da solo!» «Lascia perdere!» Non c'è risposta. Dopo alcuni secondi sento il rumore del legno che si spezza. «È incastrato!» urla. Poi attraverso il crepitio del fuoco che avanza sento una serie di colpi di tosse disperati: «Mi serve un coltello per tagliare la tela dalla cornice!». Se Wingate vuole suicidarsi sono fatti suoi, ma d'improvviso capisco che il dipinto è molto più prezioso del denaro: ci sono delle vite in gioco. Mi inginocchio, respiro profondamente e ancora una volta a carponi vado nella direzione dei colpi di tosse. Poco dopo sbatto la testa contro qualcosa di morbido. È Wingate, che sta per vomitare. Le fiamme hanno già raggiunto la cima della scala e illuminano di riflessi arancioni il quadro, per metà fuori dalla cassa, ma incastrato contro il pannello laterale che Wingate aveva staccato solo in parte. Tiro fuori la Canon dal marsupio e scatto tre foto, poi la ripongo e afferro Wingate per le spalle. «Se non vieni sei morto!» Ha il viso grigio e gli occhi così gonfi da essere praticamente chiusi. Lo prendo per le gambe e cerco di trascinarlo in camera da letto, ma la testa inizia a girarmi per lo sforzo, e per un attimo tutto diventa nero. Sto per svenire, e se svengo qui addio. Lascio andare i suoi piedi e corro alla finestra, tolgo la sicura e la apro. L'aria esterna mi arriva sulla faccia come una secchiata di acqua gelida, mi riempie d'ossigeno i polmoni e mi snebbia la testa. Per un momento mi viene l'impulso di ritornare da Wingate, ma l'istinto di salvezza ha il sopravvento. In basso c'è la scala metallica dell'uscita di sicurezza. È la tipica scala di ferro di New York: la scala al piano inferiore sarà azionata dal peso del mio corpo, che la farà scendere fino al marciapiede. Ma quando raggiungo la piattaforma e alzo il saliscendi, la scala non si muove. Dalla finestra alle mie spalle esce una nuvola di fumo. Faccio forza su uno scalino, ma tutto resta fermo. Ho vissuto a New York abbastanza a lungo da sapere come funzionano
questi aggeggi, e questo è rotto. Tra me e il marciapiede sottostante c'è un salto di quattro metri e mezzo. Il punto migliore per atterrare è lo spazio tra i contenitori dell'immondizia e la grata del vapore. Da lontano sento arrivare il suono di una sirena dei pompieri, ma non credo proprio che comincino le operazioni di soccorso da questo vicolo. Devo scendere, non ho scelta. Dopo avere scavalcato a fatica la ringhiera, mi abbasso per quanto possibile fino a ritrovarmi appesa per le mani al bordo della piattaforma. Sono alta uno e sessantaquattro, quindi mi resta un salto di circa tre metri. Per un paracadutista sarebbe uno scherzo, ma per me la cosa è diversa. Al diavolo. Meglio rompersi una caviglia che finire come Wingate. Lascio andare le mani e cado nel vuoto. Tocco il marciapiede con i talloni, che poi mi vengono a mancare e l'impatto va a scaricarsi tutto sulla natica e sul polso di destra. Grido dal dolore, ma l'euforia di essere scampata mi anestetizza almeno in parte. Appoggiandomi sulla parte sinistra del corpo riesco a rialzarmi e mi volto indietro a guardare la piattaforma. La finestra da cui mi sono lanciata pochi istanti fa è in fiamme. Cristo santo. L'istinto mi spinge a guardare lungo il vicolo, e scorgo qualcosa che mi fa accapponare la pelle. All'estremità opposta c'è un uomo che mi fissa. Ne intravedo solo la sagoma, perché la luce gli arriva da dietro. È un tipo grosso, abbastanza grosso da conciarmi per le feste. Mentre lo osservo, lui si avvicina, prima con passo incerto, poi deciso. Non assomiglia a un pompiere. Porto la mano alla tasca, ma il Mace non è più lì. Devo averlo perso di sopra. Non mi resta altro che la macchina fotografica, un gingillo completamente inutile data la situazione. Mi volto e mi metto a correre verso l'altra estremità del vicolo, verso le sirene. CAPITOLO QUARTO Fuori dal vicolo mi trovo faccia a faccia con una scena che avevo incontrato dozzine di volte agli inizi della carriera. Autopompe con le sirene, i lampeggianti e gli idranti in funzione; auto della polizia e autoambulanze in arrivo; poliziotti urlanti; e la solita folla di curiosi, gente uscita dal bar e dai negozi vicini, tutti a occhi aperti, con le bevande e il cellulare in mano. La polizia cerca di spingere tutti all'esterno della zona delimitata per metterli al riparo dai mattoni e dai pezzi di vetro che cadono, ma la folla si muove adagio.
Passo vicino al poliziotto più grosso e punto l'obiettivo sul luogo dell'incendio. «Ehi, lei!» urla quello. «Torni dietro le transenne!» «Sono del "Post"» gli rispondo alzando la macchina fotografica. «Mi faccia vedere il tesserino.» «Non ce l'ho. Ero al bar con degli amici. Non ho altro che questa stupida automatica. Mi lasci lavorare per favore. Sono la prima qui, lo scoop è mio.» Mentre il poliziotto ci pensa su, mi giro verso il vicolo, a una cinquantina di metri di distanza, ma non vedo uscire anima viva. Per una frazione di secondo il muro d'angolo va fuori fuoco. È lui? Dall'edificio di Wingate giunge un rumore sordo, e dei pezzi di muratura cadono in strada. La gente, come da copione, sussulta. «Su, la prego, mi sto perdendo lo spettacolo!» Il poliziotto fa un cenno del capo in direzione del fabbricato, io gli passo davanti in un lampo e mi muovo lungo il limite della folla, continuando a scattare foto. Nessuno sembra notare che non sto fotografando l'incendio, ma la gente. Ogni tanto punto la macchina verso l'edificio in fiamme, però non voglio sprecare la pellicola, quindi non scatto. I volti hanno tutti la stessa espressione affascinata ed eccitata. Se non è stato il tizio nel vicolo ad appiccare l'incendio, significa che il colpevole probabilmente si trova tra la folla. I piromani amano guardare le fiamme, non possono quasi farne a meno. Ma quante probabilità ci sono che questo sia opera di un piromane? Ventiquattro ore dopo la mia scoperta del legame tra le "Donne Addormentate" e le vittime di New Orleans, l'unico anello di collegamento con l'artista muore in un incendio? La coincidenza è davvero perfetta. Il fuoco è stato appiccato per mettere a tacere Christopher Wingate, e il responsabile forse è qui, a pochi passi da me. Forse il suo volto è già impresso sulla mia pellicola. In base a tutto ciò che ho letto dopo il rapimento di Jane, i serial killer tornano sul luogo dei delitti, per godere del successo ottenuto, per rivivere l'azione commessa, addirittura per masturbarsi dove le vittime avevano implorato pietà. Uccidere Wingate non è stato certo come uccidere una delle donne ritratte nei quadri; è stato un crimine utilitaristico, un atto di sopravvivenza. Ma l'assassino potrebbe essere rimasto per accertarsi di avere raggiunto l'obiettivo. Chissà quali segreti c'erano tra i due? Cosa ave-
va detto Wingate? "Lei non ha idea delle cose che ho visto". Mentre volto le spalle all'edificio in fiamme, scorgo con la coda dell'occhio un movimento furtivo. Occhi spalancati che si nascondono dietro la folla, alla mia destra. Adesso al di là del nastro ci sono cinque file di persone, e non riesco più a vedere quegli occhi. Ma mentre guardo, vedo un berretto muoversi lungo il margine esterno degli spettatori e venire verso di me. Alzo la macchina fotografica e scatto al di sopra della gente. La testa scompare, poi riappare più vicina. Premo il pulsante, ma questo non si abbassa, poi percepisco le vibrazioni del riavvolgimento automatico. Ho finito la pellicola. Il proprietario del berretto avanza, facendosi largo tra la folla. Ho voglia di aspettare e vedere la sua faccia, ma potrebbe essere armato. La distanza sufficiente per vedere è anche sufficiente per sparare e io non voglio morire qui. «Jordan Glass, famosa fotografa di guerra, è stata uccisa da un colpo di pistola a Chelsea, sulla Quindicesima.» Dopo essermi guardata intorno corro dal capitano dei pompieri che, vicino a una delle autopompe, sta parlando con un poliziotto. «Capitano!» Mi guarda con aria infastidita. «Jane Adams del "Post". Stavo scattando delle foto laggiù quando è passato un tizio che puzzava di benzina. Gliel'ho fatto notare e ha cominciato a seguirmi. Aveva un berretto.» Il pompiere spalanca gli occhi. «Dove?» Mi giro e indico il punto in cui mi trovavo. Per un istante vedo sotto il berretto una faccia pallida e barbuta, degli occhi accesi. Poi sparisce così in fretta che io non sono più certa di averla vista davvero. «Laggiù, l'ha visto?» Il capitano dei pompieri corre verso il nastro, seguito dal poliziotto che gli stava vicino. «Cosa succede?» mi chiede un altro poliziotto appena arrivato. «Ho trovato un tipo che puzzava di benzina, laggiù. Gli altri sono andati a controllare.» «Niente presa per il culo? Complimenti. Sei con il "Times"?» «No, il "Post". Spero che lo prendano.» "E cosa cavolo gli racconto se ci riescono?". «Già. Questo è un bel casino. Potrebbe essere stato lui comunque.» Il poliziotto è un giovane di origine italiana con la barba incolta. «Cosa
vuole dire?» «Hanno appena trovato un tizio in macchina morto stecchito.» «Cosa?» chiedo, e poi mi giro cercando di vedere qualcosa, ma la folla mi copre la visuale. «Com'è morto?» «Qualcuno gli ha tagliato la gola. Roba da non credere! In giacca e cravatta. È morto da meno di un'ora. C'è qualcosa di strano.» «Chi era?» «Nessun documento. Un vero macello.» Il capitano dei pompieri sta ritornando verso di noi con il poliziotto al seguito. «Visto qualcosa?» chiede il poliziotto italiano. Il suo collega scuote la testa. «C'è troppa gente. Il tizio potrebbe essere a mezzo metro di distanza, non c'è modo di riconoscerlo se non sentiamo l'odore.» «Vado a dare un'occhiata» dice l'italiano, e con un gesto di saluto si congeda e cammina verso il nastro. E se il tipo fosse rimasto nei dintorni? L'odore di benzina non esiste, era una palla. Potrebbe uccidermi prima che io mi accorga che è arrivato. Devo andarmene. Ma come? Il mio taxi se n'è andato da un pezzo, e non posso certo mettermi a camminare o prendere la metropolitana. Mentre penso al da farsi un taxi accosta all'estremità dell'isolato e deposita un ragazzino con due macchine fotografiche al collo. La stampa ufficiale. Chiederà di sicuro la ricevuta. Mi metto a correre. «Taxi!» urlo. «Non lo lasci partire!» Per qualche motivo, forse perché ha visto la mia macchina, il fotografo trattiene il taxi. «Grazie!» gli rispondo buttandomi sul sedile posteriore. «Ehi, lavora per un giornale?» «No.» Dò un colpo al divisorio e dico: «All'aeroporto! Presto!». «Un momento, aspetti. Io la conosco.» «Vada!» urlo nelle orecchie del tassista. «Lei non è...» Con una sgommata il taxi parte verso il tunnel Queens-Midtown. Il mio volo atterra al Reagan alle 22.15; all'uscita mi aspetta un uomo in giacca e cravatta. Sembra un ragioniere tirato a lucido. «Sono Jordan Glass.» «Agente Speciale Sims» mi risponde imbronciato. «Lei è in ritardo. Mi
segua.» E si avvia a passo spedito lungo l'atrio, superando la scala mobile che scende ai bagagli e ai mezzi di trasporto. «Ho dei bagagli laggiù» gli urlo dietro. «Le mie macchine fotografiche. Sono arrivate su un volo precedente e devono essere in magazzino.» «Le abbiamo noi, signora Glass. La valigia è stata persa.» Fantastico. L'agente Sims mi fa passare attraverso una porta riservata al personale. Quando la varco, una raffica di aria fredda mi colpisce in pieno viso. È autunno, ma qui, a differenza di New York, l'umidità mi ricorda l'aria di casa, il Mississippi. Il cemento, bagnato dalla pioggia, è scivoloso e riflette le luci del terminale e della pista. Sims mi aiuta a salire su un carrello bagagli, poi fa un cenno all'autista in tuta che parte in direzione degli aerei. Le custodie di alluminio delle macchine fotografiche sono lì con noi. «Pensavo che saremmo andati in città,» urlo per farmi sentire al di sopra del rombo del motore «alla Hoover Building.» «Il capo è dovuto tornare a Quantico» grida Sims. «La riunione si farà là.» «Come ci andiamo?» «Su quello.» Mentre lui indica qualcosa nel buio, io vedo la sagoma affusolata di un elicottero Bell 260. Il carrello bagagli si ferma rumorosamente. L'agente Sims carica i contenitori sull'elicottero e torna a prendermi. È alto, e all'interno c'è poco spazio, ma non sembra soffrirne. Dopo pochi istanti ci alziamo nella notte buia della capitale, lasciandoci alle spalle il Pentagono, mentre ci dirigiamo a sud verso le luci di Alexandria. Dieci minuti più tardi scendiamo alla base di Quantico, posandoci sulla piazzola per elicotteri dell'Accademia dell'FBI. Ad attenderci c'è un agente che si occupa del mio bagaglio, ma Sims mi conduce direttamente nel labirinto dell'Accademia. Dopo una breve corsa in ascensore, attraversiamo una sala buia e arriviamo in una stanza vuota, immacolata, come la sala riunioni di qualche albergo. «Aspetti qui» mi dice Sims. Esce e chiude la porta dall'esterno. Se non arriva qualcuno nel giro di due minuti potrei mettermi a dormire sul tavolo. L'unica cosa che non voglio fare è mettermi a sedere; sul fondoschiena ho un livido enorme. Nonostante la stanchezza sono ancora nervosa per l'incendio e la morte di Wingate. Senza di lui l'indagine proseguirà a fatica. Una cosa però è certa: non finirà come l'anno scorso. Nessuno riuscirà a tenermi in disparte.
Scatta la serratura, la porta si apre ed entrano due uomini. Il primo è Daniel Baxter, tale quale com'era tredici mesi fa, quando lo incontrai per la prima volta. È scuro di capelli, robusto, muscoloso e alto circa un metro e cinquantacinque. Ha gli occhi scuri e fermi come quelli di un cecchino. L'uomo che lo segue è più alto, circa un metro e ottanta, e più vecchio di almeno dieci anni; ha i capelli argentati, un abito costoso e l'aria di chi ha studiato a Yale. Baxter non si avvicina per stringermi la mano, ma si siede e inizia subito a parlare. «Signora Glass, le presento il dottor Arthur Lenz, perito psichiatrico, consulente dell'FBI.» Lenz mi porge la mano, ma io rispondo con un cenno. Stringere la mano a un uomo mi mette a disagio, quindi non lo faccio. Gli uomini che conosco bene, li abbraccio; gli altri, devono accontentarsi. «Prego, si sieda» mi dice Baxter. «No, grazie.» «Penso che ci sia un motivo che le ha fatto perdere il volo che avevo prenotato per lei.» «Veramente...» «Prima che lei continui, lasci che le dica che l'FBI aveva messo sotto sorveglianza Christopher Wingate subito dopo la sua telefonata.» All'inizio dell'incontro non sapevo se avrei ammesso di essere stata sul luogo dell'incendio, ma ora non mi resta altra scelta. «Avevate qualcuno all'esterno della galleria d'arte?» Baxter annuisce, e il viso si colora dalla rabbia. «Abbiamo delle belle foto che la ritraggono all'ingresso dell'edificio circa quaranta minuti prima che prendesse fuoco.» Apre una cartellina etichettata «NOKIDS» e tira fuori una foto, che fa scivolare sul tavolo verso di me. Eccomi lì, in tutto lo splendore della tecnologia digitale a bassa risoluzione. «Sapevo che Wingate con tutta probabilità aveva delle informazioni su mia sorella.» «Davvero?» «Sì e no.» «Cosa cazzo sperava di ottenere laggiù?» «Io ho ottenuto qualcosa! Meno male che ci sono riuscita, perché prima che voi vi decideste a interrogarlo, il tizio sarebbe morto.» Questo li frena un po'. «Se avevate qualcuno all'esterno,» continuo «perché nessuno è entrato a salvarci?»
«Sul posto c'era un nostro agente, appostato in macchina. L'incendio è partito dal primo piano in seguito a un'esplosione. Un dispositivo incendiario realizzato con benzina e sapone liquido.» «Napalm fatto in casa.» «Sì. Prima di azionare il dispositivo sono stati disattivati il sistema di controllo degli spruzzatori e l'allarme antincendio. Abbiamo poi appurato che anche le scale di emergenza erano state bloccate. Non funzionava niente.» «Non mi dice niente di nuovo, sa? Per salvarmi ho dovuto buttarmi giù. Dato che era lì, il vostro uomo non poteva intervenire?» «Il nostro uomo ha fatto qualcosa. È morto là.» Un'ondata di calore mi sale fino al viso. Lo sguardo di Baxter è senza pietà. «L'agente speciale Fred Coates, ventotto anni, sposato e padre di tre figli. Quando la bomba è esplosa ha chiamato i pompieri. È sceso dalla macchina per scattare delle fotografie all'edificio e alle prime persone accorse sul posto, nel caso il colpevole fosse nei paraggi. Poi è risalito in auto e ha chiamato col cellulare l'ufficio di New York. Stava parlando con l'Agente Speciale Responsabile quando qualcuno lo ha aggredito dal finestrino e gli ha tagliato la gola. L'assassino ha rubato i suoi documenti di riconoscimento e la macchina fotografica, tranne una scheda di memoria della macchina fotografica, caduta tra il piano portaoggetti e il sedile. Ecco come ci è arrivata tra le mani la sua foto. Le altre, quelle scattate alla folla, sono andate perdute.» «Oddio. Mi spiace.» Baxter mi lancia un'occhiata accusatrice. «Crede che serva a qualcosa? Le avevo espressamente chiesto di venire subito qui.» «Non cerchi di rifilarmi la responsabilità di quanto è successo! L'agente sul posto non l'ho mandato io, chiaro? È stato lei. Chiunque l'abbia ucciso avrebbe appiccato il fuoco comunque, con o senza la mia presenza. Inoltre ho le foto della folla.» I due uomini si sporgono in avanti, a bocca aperta. «Dove sono?» chiede il dottor Lenz. «Ne parliamo tra un minuto. Prima voglio mettere subito in chiaro una cosa. Questa non sarà una conversazione a senso unico.» «Ha idea di quanto sia importante che lei non ci faccia perdere tempo» mi dice Baxter, «rifiutando di consegnarci la pellicola...» «Mia sorella è scomparsa da più di un anno, va bene? E penso che possa aspettare ancora qualche minuto.»
«Lei non conosce tutti i fatti.» «Ed è proprio questo che voglio.» Baxter è esasperato. «È possibile che qualcuno abbia ucciso Coates per prendergli il portafoglio e la macchina fotografica?» chiedo. «L'assassinio potrebbe non avere alcun collegamento con l'incendio?» «Perché avrebbe lasciato il telefonino?» incalza Baxter. «E l'auto? Le chiavi erano nell'accensione.» «Che probabilità ci sono che un comune piromane ammazzi chi sta guardando l'incendio?» «Una su un milione. Signora Glass, la bomba è stata sistemata per fare succedere proprio ciò che è successo: uccidere Wingate e distruggere i suoi dati. Lei è stata fortunata a non fare la stessa fine.» «Ma se è stato Wingate a cercare di uccidermi. Lui avrebbe potuto mettersi in salvo, ma ha voluto cercare di salvare quello stupido quadro, e io come una scema ho cercato di portarlo fuori.» «Che quadro?» mi chiede Lenz. «La Donna Addormentata numero venti. Era l'unico dipinto della serie nelle sue mani, e lui è morto cercando di salvarlo.» «Chissà perché!» esclama Lenz a voce bassa. «Sarà stato certamente assicurato.» «L'assicurazione non sarebbe bastata.» «Perché mai?» «Quando dissi a Wingate che mi sarei rivolta all'FBI e che le donne ritratte nei quadri erano quasi sicuramente le vittime di New Orleans, si esaltò. Mi spiegò allora che la nuova tela sarebbe stata venduta al doppio dell'offerta attuale: un milione e mezzo di sterline.» «Ha fatto il nome dell'offerente?» «Takagi.» «Com'era il quadro?» domanda Lenz. «Assomigliava a quelli che lei ha visto a Hong Kong?» «Sì e no. Io non mi intendo d'arte, ma questo era più realistico degli altri. Sembrava una fotografia.» «La donna sembrava morta?» «Senza dubbio.» Baxter prende in mano la cartella, ne toglie una foto e la fa scivolare sul tavolo verso di me. È la foto di una testa femminile appartenente a una donna giovane, dai
capelli scuri. Un'istantanea, con tutta probabilità scattata da un familiare. Forse un bambino, dato che non è ben centrata. Ma non è questo a farmi rabbrividire. «È lei, maledizione. Chi è?» «È l'ultima vittima conosciuta» replica Baxter. «Da quanto tempo è sparita?» «Quattro, cinque settimane.» «Quanto tempo è trascorso tra il suo rapimento e il precedente?» «Sei settimane.» «E prima?» «Cinquantacinque giorni. Sette settimane e mezzo.» «Allora lei crede che tornerà in azione tra poco.» I due si lanciano uno sguardo indecifrabile. Poi lo psichiatra fa un cenno e Baxter si gira verso di me. «Signora Glass, circa un'ora fa è scomparsa da un parcheggio vicino a un negozio di alimentari una giovane donna caucasica.» Chiudo gli occhi davanti alla terribile notizia. Nel buco nero della sua attuale esistenza Jane ha un'altra compagna. «Pensate che sia stato lui?» Lenz risponde per primo. «Ne siamo quasi certi.» «Da dove è stata rapita?» «Da un sobborgo della città di New Orleans, per la verità. Metairie.» «In che negozio?» «Dorignac, in Veterans Boulevard.» «Ci andavo a fare la spesa. È un negozio a conduzione familiare, come la vecchia catena di negozi Schwegmann.» Baxter prende nota. «La vittima lascia la propria abitazione pochi minuti prima della chiusura del negozio, le 20.50, ora locale, per comprare delle salsicce. Stava preparando una salsa per una festa di compleanno organizzata in ufficio per il giorno seguente. Lavorava come segretaria in uno studio dentistico. Alle 21.15 il marito inizia a preoccuparsi. Cerca di chiamare la moglie sul telefono dell'auto, ma non ottiene risposta. Sa che il negozio è già chiuso, quindi tira giù dal letto i bambini, li carica in macchina e va a vedere se la moglie è rimasta a piedi con l'auto.» «Ha trovato la macchina vuota e la portiera aperta?» Baxter annuisce. Proprio come era già successo a due vittime prima di Jane. «Sembra proprio lui.»
«Sì. Ma ci sono altre possibilità. Forse la donna aveva un altro. Lo incontra al negozio per parlargli di qualche cosa o per una sveltina nell'automobile. Poi d'improvviso decide di andarsene di casa.» «Lasciando i bambini?» «Può capitare.» La voce di Baxter porta il peso dell'esperienza. «Ma dopo avere parlato con l'investigatore, non sembra una situazione plausibile. Resta l'alternativa della violenza carnale. Un tipo a caccia di donne in un furgone con tutto il necessario, che aspetta gli si presenti l'opportunità per agire.» «C'è stato qualcuno del genere in zona nelle ultime settimane?» «Nessuno.» «Qualcuna delle altre vittime si serviva da Dorignac? Jane deve esserci andata ogni tanto.» «Alcune vittime lo facevano. Il negozio vende cibi regionali che non si trovano da altre parti. Gli investigatori di Jefferson Parish stanno interrogando i dipendenti, mentre il nostro agente di New Orleans passa al setaccio le loro vite. Stiamo usando anche i computer di Quantico. Tutti sono marcati a vista, ma se è come gli altri casi... non ne verrà fuori un bel niente.» Sto per aprire bocca quando resto senza fiato dallo choc. «Un momento! Ma allora in base a ciò che mi avete detto, l'uomo che ha rapito la donna da Dorignac non può avere ucciso Wingate.» Baxter annuisce lentamente. «Al 911, il pronto intervento, la segnalazione dell'incendio da Wingate è arrivata alle 19.51 ora locale. La vittima al Dorignac è sparita tra le 20.55 e le 21.15 ora centrale. Cioè l'intervallo massimo tra i due fatti è stato di due ore e ventiquattro minuti.» «Quindi non è possibile che siano stati commessi dalla stessa persona. Neanche con un jet a disposizione.» «Ci sarebbe un modo» spiega Baxter. «Il dispositivo incendiario usato alla galleria d'arte aveva un timer. Se fosse stato installato con sufficiente anticipo, la persona avrebbe potuto essere di ritorno a New Orleans in tempo per rapire la donna da Dorignac.» «Ma non è stato così,» penso a voce alta. «Lui non ha agito così.» «Come fa a saperlo?» «L'ho visto.» «Cosa?» Racconto in fretta dell'uomo nel vicolo, della mia foto scattata alla cieca sopra la folla, del pompiere e del poliziotto che gli ho sguinzagliato dietro.
«Dov'è la pellicola?» mi chiede Baxter eccitato. «Non ce l'ho con me, se è quello che pensate. Lei è sicuro che l'assassinio di Wingate sia correlato al caso di mia sorella?» «Praticamente sì» risponde Lenz. «Sta dicendo che nei rapimenti sono coinvolte più persone.» «Non sono io a dirlo, ma le prove raccolte. Ci sono due UNSUB, non uno.» UNSUB è l'acronimo usato dall'FBI per riferirsi a un Sospetto Non Identificato. «Due assassini che operano insieme?» «È già successo» interviene Baxter. «Tuttavia, le coppie di solito lavorano l'uno di fianco all'altro. Due ex carcerati in un furgone, che rapiscono e torturano donne, e roba del genere. L'ipotesi che ho in mente è qualcosa di più sofisticato.» «Ci sono mai stati casi di complici che collaboravano a distanza per realizzare omicidi in serie o rapimenti?» «Solo nel campo della pornografia infantile,» dice Baxter «ma è tutt'altra storia.» «Un caso del genere non è mai stato documentato prima» aggiunge il dottor Lenz. «Il che non vuole dire che sia da escludere. Nessuno aveva mai sentito parlare di un assassino che collezionava pelle di donne finché negli anni Cinquanta non venne pescato Ed Gein. Poi Tom Harris ha usato l'idea nel suo libro e adesso l'accaduto fa parte della coscienza nazionale. Nel nostro mestiere si parte da un presupposto molto semplice: tutto l'immaginabile è possibile, e forse sta capitando proprio mentre noi ne discutiamo.» «Come funzionerebbe?» chiedo. «Come pensate che sia organizzato?» «Ripartizione dei compiti» dice Lenz. «L'assassino è a New Orleans, il pittore a New York.» «Ma Wingate è stato ucciso a New York.» «Diverso movente però. È stata autodifesa.» «Quand'ero là ho pensato la stessa cosa. Allora il rapitore è il tizio di New Orleans. Come fa il pittore a realizzare i quadri? Usa delle fotografie? O vola a New Orleans per ritrarre i cadaveri?» «Se le cose stanno come lei dice,» commenta Baxter «spero che si sposti in aereo. Potremmo farci dare le liste dei passeggeri e stilare un elenco di potenziali sospetti.» «Sarebbe davvero così semplice?» «Può darsi. Questi diciotto mesi di indagini sono stati lunghi, signora
Glass. Nessuno lo sa quanto lei. Abbiamo tutti bisogno di una pausa.» Annuisco con aria speranzosa, ma dentro di me so come stanno le cose. «Se Wingate è stato ucciso perché non parlasse, come pensate che sia andata?» Baxter si allunga all'indietro e congiunge le mani. «Credo che sia stato lo stesso Wingate a informare l'UNSUB di New York sull'incidente di Hong Kong. Sul tabulato telefonico di Wingate compare una chiamata alla galleria, fatta un'ora prima degli avvenimenti dal curatore della mostra di Hong Kong.» «Wingate era a conoscenza dei fatti quando mi ha incontrata?» «Non c'è dubbio. Ma non penso che sapesse che la persona responsabile era lei.» «Se lo sapeva, allora era un attore davvero in gamba.» «Ha cercato di ottenere delle informazioni da lei?» «Non direi.» D'improvviso sono colta da un brivido. «E se fosse caduto nella sua stessa trappola preparata per consegnarmi all'assassino?» «Non è da escludere» conviene Baxter. «Se Wingate era a conoscenza che lei era a Hong Kong, allora sapeva anche che sua sorella era il soggetto ritratto in uno dei quadri. Forse sapeva tutto dei crimini. Telefona all'UNSUB e gli dice che lei sta per arrivare alla galleria, e che non vuole nessuna violenza in casa sua. Inoltre prima che lei muoia vuole sapere con chi ha parlato. Wingate crede che lei sarà uccisa dopo aver lasciato il posto, ma l'UNSUB ha un'idea migliore: farvi fuori entrambi.» «È andata così» mormoro. «Dio santo, Wingate ha firmato la propria condanna a morte.» «Quasi certamente» dice Lenz. «Wingate avrebbe potuto essere la chiave dell'intera vicenda. Accidenti.» «Non credo che sapesse molto.» «Lei crede alle sue parole?» «Fino a un certo punto. Non penso che conoscesse il nome dell'assassino. Non sapeva nemmeno se era un uomo o una donna.» «Cosa?» chiedono entrambi all'unisono. «Mi ha detto che non aveva mai incontrato di persona l'artista. Tutto avveniva tramite consegne in luoghi convenuti o roba simile.» «Ha detto proprio "consegna in luoghi convenuti"?» chiede Baxter. «Mi spiegò che l'aveva imparato dai film di spionaggio.» Espongo brevemente ciò che Wingate mi aveva detto a proposito del primo quadro e dei pagamenti successivi in contanti depositati negli armadietti della sta-
zione. «È più che plausibile» ammette Baxter. «Ma per quanto so di Wingate, non era certo un individuo sincero.» «Che cosa sa sul suo conto?» «Innanzitutto non si chiamava Christopher Wingate, ma Zjelko Krnich. Era nato a New York da immigrati iugoslavi, di origine serba.» «Incredibile.» «Il padre abbandonò moglie e figli quando Zjeko aveva sette anni. Il ragazzo crebbe in strada. Passò a spacciare droga, e poi alla prostituzione. A vent'anni saltò su una nave e raggiunse l'Europa, dove visse per qualche anno vendendo erba e cocaina. Girando i luoghi di villeggiatura e spacciando droga conobbe gente alla moda. Si innamorò di una parigina che trattava quadri, qualcuno autentico altri no, e imparò il mestiere. Fu lei a dargli un nome anglosassone. Dopo un paio d'anni litigarono per una questione di denaro. Improvvisamente Krnich ricompare a New York, assume legalmente il nome di Wingate e incomincia a lavorare in una piccola galleria di Manhattan. Vent'anni dopo è un gallerista brillante, uno dei mercanti più famosi al mondo.» «Per brillare, brillava. Anzi quando l'ho visto io ardeva a circa 200° C.» «Gli incendi domestici raggiungono circa 500° C, signora Glass.» Stanotte Baxter non è certo in grado di apprezzare un po' di umorismo, neanche quello macabro. I suoi occhi sono duri come l'acciaio; è impaziente. «Voglio la pellicola che ha scattato questa sera.» «Quando l'avrete, mi escluderete dall'indagine.» «Non è vero» sostiene Lenz. «Lei è la parente di una delle vittime.» «E per quanto ne so, non conto nulla. Lei non era nei paraggi l'anno scorso, dottore. Ma avere delle informazioni da Baxter era come cercare di cavargli un dente.» «Le posso assicurare che questa volta sarà diverso» aggiunge Lenz con tono persuasivo. Baxter inizia a parlare, ma lo psichiatra lo interrompe con un gesto. È ovvio che Arthur Lenz conta parecchio nell'USL «Signora Glass, le faccio una proposta che credo troverà interessante.» «L'ascolto.» «Il destino ci ha concesso un'opportunità unica. La sua comparsa a Hong Kong ha suscitato impressione, per la sua somiglianza con una delle donne ritratte.»
«Allora?» «Pensi che reazione potrebbe avere l'assassino se la vedesse di persona.» «Forse è quello che è successo questa sera, no?» Lenz scuote la testa. «Non sono affatto sicuro che l'uomo che ha tentato di aggredirla questa sera sia lo stesso individuo che dipinge i quadri.» «Continui.» «L'analisi delle opere d'arte in criminologia ha fatto passi da gigante negli ultimi vent'anni: raggi X, spettrografia, infrarossi e quant'altro. Potrebbero esserci delle impronte nella stessa pittura a olio. Potremmo trovare capelli o frammenti di epidermide. Adesso che conosciamo la loro esistenza, i quadri ci possono condurre in breve tempo a un indiziato, o a un gruppo. L'analisi stilistica potrebbe produrre una lista di candidati. E una volta ottenuta questa lista, lei è l'arma che vorrei usare contro di loro.» Lenz non mi stava prendendo in giro prima. Hanno davvero bisogno di me. Avevano architettato tutto ben prima del mio arrivo. «Che gliene pare?» chiede lo psichiatra. «Fingere di essere un agente speciale durante gli interrogatori dei sospettati? Entrare casualmente in una stanza mentre io e Daniel osserviamo i sospetti?» «Sarebbe disposta a tutto pur di poterlo fare» interviene Baxter. «La conosco abbastanza da poterlo dire.» Lenz gli lancia un'occhiataccia. «Signora Glass?» «Va bene.» «Cosa ti avevo detto?» commenta Baxter. «A una condizione» aggiungo subito. «Merda» borbotta Baxter. «Ecco che ci siamo.» «Che condizione?» mi chiede Lenz. «Io sarò parte della squadra da questo momento fino alla cattura del responsabile. Voglio avere accesso a tutto quanto.» Baxter alza gli occhi al cielo. «Che cosa significa "tutto quanto"?» «Tutto quello che sapete voi. Vi dò la mia parola che non rivelerò niente di ciò che mi direte. Ma non voglio essere esclusa come l'anno scorso.» Mi aspetto che Baxter faccia delle obiezioni, invece lui guarda il tavolo e dice: «D'accordo. Dov'è la pellicola?». «L'ho messa in una buca delle lettere al JFK.» «Una cassetta delle poste americane?» «Sì.» «Ricorda quale?» «Una vicino ai banchi dell'American Airlines. L'ho mandata alla mia a-
bitazione di San Francisco. Vi dò l'indirizzo. Ho comprato francobollo e busta a un distributore automatico presso un giornalaio, anche la buca era lì vicino.» «La troveremo. Possiamo sviluppare la pellicola qui, al nostro laboratorio.» «Sapevo che eravate esperti di furti postali.» Baxter si lascia sfuggire un'oscenità, poi prende il cellulare. «Ancora una cosa» aggiungo io. «Prima di scappare dall'edificio, ho scattato tre foto della Donna Addormentata numero venti. La luce era pessima, ma ho usato un'esposizione a forcella, dovrebbe venirne fuori qualcosa.» Con un'espressione di risentita ammirazione Baxter fa un numero e chiede a qualcuno di rintracciare il capo del servizio postale e di tirarlo giù dal letto. Quando finisce la telefonata, gli dico: «Voglio che spediate all'ufficio di New Orleans delle copie digitali tramite posta elettronica. Passerò a prenderle al mattino». «Ha deciso di andare a New Orleans?» mi chiede Lenz. «Sì.» «Ma è troppo tardi per prendere un volo questa notte.» «Alloro spero che riuscirete a trovarmi un aereo. Sono venuta qui solo perché me l'avete chiesto. Vorrei dire a mio cognato, e anche a mia madre, cos'è successo, e vorrei farlo di persona. Prima che lo vengano a sapere da altri.» «Non verranno a sapere proprio un bel niente» interviene Baxter. «Perché no?» «Perché, in fondo, cosa c'è da dire? Che lei ha infastidito qualche appassionato d'arte a Hong Kong. Ai giornali non interesserà di sicuro.» «E l'incendio a New York? L'agente ucciso?» «Correva voce che Wingate avesse dei legami oscuri con la mafia. Quindi la sorveglianza dell'FBI non stupirebbe nessuno. Un giornalista ha già avanzato l'ipotesi che Wingate sia morto dopo aver appiccato il fuoco per truffare l'assicurazione.» «Mi sta dicendo che intende mantenere il segreto sulle indagini?» «Per quanto possibile, sì.» «Ma non vuole radunare tutti i dipinti? Fare le analisi criminologiche? La notizia non trapelerà?» «Forse sì, forse no. Senta, Arthur va a New Orleans domani mattina per parlare con alcuni mercanti d'arte. Perché non va domani con lui?»
«Sarei felice di andarci stasera,» interviene Lenz, «se la signora Glass ha tutta questa premura. Si può preparare l'aereo?» Baxter ci pensa su. «Credo di sì. Signora Glass, la prego di essere discreta con suo cognato. E per quanto riguarda sua madre... forse dovrebbe aspettare.» «Perché?» «L'anno scorso abbiamo avuto qualche contatto con lei. Non è nelle condizioni migliori.» «Non lo è mai stata.» «Beve molto. Non credo che ci si possa fidare.» «Si tratta di sua figlia, agente Baxter. Ha il diritto di sapere cosa sta succedendo.» «Ma che cos'ha da dirle davvero? Nulla di incoraggiante. Non pensa che sarebbe meglio aspettare?» «È una decisione che spetta a me.» «Bene» risponde stancamente. «Ma sua madre e suo cognato devono essere gli unici con cui parla. So che anni fa lei lavorò per il "TimesPicayune" di New Orleans. Sono certo che ha degli amici laggiù. Lei parteciperà alle indagini solo se nessuno saprà che si trova in città. Quindi, niente bevute con i vecchi amici, nessun articolo sulla fotografa che ha vinto il Pulitzer. Saremo lieti di sistemarla in un albergo.» «Starò probabilmente da mio cognato. È da parecchio che non vedo i miei nipoti.» «Va bene. Ma siamo d'accordo sull'isolamento? Finché non abbiamo degli indiziati non deve parlare con nessuno che la conosca, e non deve farsi vedere.» «D'accordo. Ma sull'aereo voglio essere messa al corrente di tutto. Il patto è questo, giusto?» Baxter sospira, guarda Lenz come se quest'ultimo avesse scelto il veleno con cui morire. «Lo può fare Arthur.» Lenz è in piedi e si sfrega le mani; io noto ancora una volta quant'è alto. «Perché non prendiamo qualche focaccia e un po' di caffè?» propone. «Sul nostro aereo non servono da mangiare.» «Solo un minuto, Arthur» interviene Baxter. Mi fissa con i suoi occhi gelidi. «Signora Glass, voglio che mi ascolti con attenzione. Questo è un caso che si discosta da tutti i parametri conosciuti. Il nostro UNSUB di New Orleans non è un uomo delle pulizie con una scarsa stima di sé. Abbiamo a che fare con almeno una personalità altamente strutturata. Un uo-
mo che ha rapito e probabilmente ucciso dodici donne senza lasciare alcuna traccia. Un uomo che forse la sta tenendo d'occhio. Non lo sappiamo. Sappiamo però che lei sta per entrare nel suo territorio. Faccia molta attenzione, signora Glass. Non si distragga neanche per un momento. Altrimenti finirà per raggiungere sua sorella molto prima del dovuto.» Tono melodrammatico a parte, le parole di Baxter mi fanno riflettere: non è certo il tipo che grida sempre al lupo. «Pensa che io abbia bisogno di protezione?» «Direi di sì. Ma prenderò la decisione definitiva prima che lei atterri a New Orleans. Si ricordi: il silenzio è la migliore protezione.» «Ho sentito.» Si alza in piedi e mi fa un breve cenno. «Apprezzo molto la sua disponibilità.» «Per me è una questione personale.» Baxter prende la cartella NOKIDS e tira fuori la fotografia di un uomo dai capelli scuri, che non ha ancora trent'anni, il tipico ragazzo americano sorridente come a un colloquio di lavoro. Dev'essere senz'altro l'agente speciale Fred Coates. Non è facile pensare a lui con la gola tagliata, che sputa sangue su un telefono cellulare. «Anche per noi» risponde Baxter. Parla con tono calmo, ma nei suoi occhi arde una furia vulcanica. Daniel Baxter ha rintracciato e messo in galera alcuni dei peggiori criminali dei nostri giorni. Fino a questa sera l'uomo che rapì mia sorella era solo uno dei tanti ancora a spasso. Ma adesso l'agente Fred Coates è da qualche parte sul marmo di un tavolo anatomico. Un agente dell'FBI è stato ucciso. La situazione è decisamente cambiata. CAPITOLO QUINTO Alle tre del mattino, dopo una lunga attesa per controlli meccanici, rifornimento di carburante e nuovo equipaggio, il Learjet dell'FBI sfreccia nei cieli della Virginia. Avrei dovuto aspettare la mattinata, ma non potevo. Dopo la scomparsa di Jane avevo perso la pazienza, imparata in vent'anni di vita girovaga e migliaia di ore dietro la telecamera. Ora non ce la faccio più ad aspettare. L'interno del jet mi pare stranamente confortevole. Nella mia carriera ho lavorato parecchio per società private, per lo più scattando fotografie per fini promozionali. Alcuni miei colleghi hanno pesantemente criticato que-
sta mia scelta, ma a conti fatti loro fanno i salti mortali per tirare avanti, io invece no. Sono cresciuta in una famiglia povera, non posso permettermi il lusso di fare la snob. Quest'aereo è stato concepito per lavorare, e il dottor Lenz sceglie due sedili ai lati opposti di un tavolino ribaltabile. Nonostante la sua stazza, sembra abituato allo spazio angusto della cabina. Credo che viaggi da una scena del delitto all'altra proprio come io mi muovo da una guerra all'altra. Lenz ha l'aspetto di chi ha superato la sessantina: le guance appesantite e lo sguardo perennemente stanco di chi ha visto troppo. «Signora Glass,» dice «abbiamo a disposizione poco più di due ore e vorrei usarle nel modo più proficuo possibile.» «Certamente.» «Parlare con lei, la gemella della persona scomparsa, equivale quasi a un colloquio con sua sorella prima della sua sparizione. Vorrei perciò rivolgerle qualche domanda, anche di tipo personale.» «Risponderò a tutto ciò che mi parrà rilevante.» «Mi auguro che lei voglia rispondere a tutte. Nascondendo delle informazioni potrebbe privarmi di elementi utili alla cattura dell'assassino.» «Lei ha sempre usato la parola "assassino"; crede che tutte le vittime siano morte?» Senza batter ciglio risponde: «Sì. Daniel ha ancora qualche speranza, io no. La cosa la disturba?». «No, è quello che penso anch'io. Undici, forse dodici donne tenute prigioniere per diciotto mesi? Senza neanche una fuga? Non mi sembra possibile. E poi le donne negli ultimi quadri sembrano proprio morte.» «E lei la morte l'ha vista da vicino.» «Sì. Ho una domanda da farle. È al corrente della telefonata che ricevetti otto mesi fa?» «Quella arrivata nel cuore della notte? Che lei in un primo tempo attribuì a sua sorella?» «Sì. L'FBI scoprì che fu fatta da una stazione ferroviaria in Thailandia.» «Ne sono al corrente e penso che la sua ipotesi fosse giusta. Poteva essere qualcuno da lei incontrato durante le ricerche per trovare suo padre, qualcuno che gravita intorno al MIA, il gruppo che si occupa dei soldati scomparsi in azione.» «Sto solo pensando che... forse il fatto che io abbia trovato i quadri in Asia...»
«È una pista che stiamo seguendo. Stia tranquilla. Ma adesso vorrei andare avanti, se non le dispiace.» «Cosa vuole sapere?» «So che da adulte lei e sua sorella non eravate molto vicine, ma vorrei che lei mi dicesse come siete cresciute.» Questi sono i momenti in cui mi piacerebbe essere una fumatrice. «Bene. Lei sa chi era mio padre, vero?» «Jonathan Glass, il famoso fotografo di guerra.» «Ma in Mississippi c'era una sola guerra, quella per i diritti civili. Con quella vinse il primo Pulitzer. Poi partì alla ricerca di altri conflitti, di conseguenza non era quasi mai a casa.» «E la famiglia come reagì?» «Io la presi meglio di mia sorella e di mia madre.» «Da piccola lei voleva andare nelle zone di guerra?» «In quei posti papà faceva ogni genere di foto. Io non vidi mai reportage di guerra finché non fui abbastanza grande da andare alla biblioteca pubblica e leggere per conto mio "Look" o "Life". La mamma non avrebbe mai tenuto in casa quelle foto.» «Perché sua madre sposò un uomo che sarebbe sempre stato fuori casa?» «Quando lo sposò non lo sapeva. Lui era semplicemente un bel tipo, un anglo-scozzese, che sembrava in grado di affrontare qualunque cosa riservasse il futuro. E fu così. Papà sapeva sopravvivere nella giungla con un coltellino svizzero, ma non era capace di sopportare il tran-tran familiare, né un lavoro d'ufficio. Per lui quello era l'inferno. Cercò di trattarla bene, di portarla con sé quando la sua carriera iniziò a decollare. La portò persino a New York. Lei resistette finché non rimase incinta. Quando era di otto mesi lui andò in Kenya per lavoro, lei andò alla Grand Central Station con sei dollari nel borsellino, prese il treno fino a Memphis, poi l'autobus fino a Oxford. Se lei non fosse stata incinta, credo che papà non sarebbe mai tornato a casa. Invece lo fece. Non molto spesso, ma quando lo faceva io ero in paradiso. Abbiamo avuto delle estati splendide.» «E Jane?» «Non molto. Eravamo gemelle, ma fin da piccole siamo state molto diverse.» «Qual è la ragione?» «Quando avevamo quattro anni Jane fu gravemente ferita da un cane, che le dilaniò un braccio.» Chiudo gli occhi per scacciare le immagini che
mi tornano alla memoria; io vidi tutto da quaranta metri di distanza. Quando mia madre arrivò, il danno era già stato fatto. «Jane dovette sopportare di tutto e la paura non la lasciò più.» «Vostra madre vi vestiva allo stesso modo?» «Cercò di farlo. Ma mio padre quando era a casa si opponeva, e io facevo lo stesso. Lui voleva che noi fossimo individui. Ecco la filosofia del fotogiornalismo in poche parole: puro e semplice individualismo. Questa è una delle tante cose che mi ha insegnato.» «E la fotografia?» «Non molto. Mi insegnò a cacciare e a pescare. Mi parlava dei suoi viaggi, di posti lontani. Di strane abitudini, cose che non si leggono sul "National Geographic".» «A Jane insegnò le stesse cose?» «Ci provò, ma a lei non interessava. Assomigliava a mia madre.» «Lei era la sua preferita.» «Sì. La mamma invece preferiva Jane. Ma non era poi una cosa molto importante: papà era la personalità dominante, anche quando non c'era. Lui era una persona attiva, la mamma invece cercava semplicemente di tirare avanti, ma senza molto successo.» «Jane divenne sempre più ostile nei confronti del padre con il passare del tempo?» «Sì. Credo che fosse arrivata a odiarlo, prima ancora che lui scomparisse, per tutto quello che aveva fatto alla mamma, e perché in casa mancavano sempre i soldi.» «Vostro padre guadagnava poco?» «Non saprei. Alcuni dei più importanti giornalisti della guerra del Vietnam lavoravano quasi gratis. Ma non so se anche mio padre facesse così.» «Sua madre lavorava?» «Per qualche tempo sì: come cameriera, poi in una lavanderia. Tutti lavori manuali. Ma smise quando incominciò a bere.» «Perché suo padre la sposò?» «Se devo essere sincera, penso che lo fece per portarsela a letto.» Lenz sorride pensoso. «Ai miei tempi era comune. Sua madre era una bella donna?» «Sì, e fu proprio questo a minare il loro matrimonio: grazie alla sua origine alsaziana la mamma aveva un aspetto esotico, ma intimamente era una persona comune; sognava un marito che le desse una casa e che arrivasse dal lavoro tutti i giorni alle cinque e mezzo spaccate.»
«Anche Jane desiderava lo stesso?» «Certamente. Sia dal padre sia dal marito. Ciò che non ha avuto da papà lo ha ottenuto dal marito.» Lenz alza l'indice. «Poco fa, parlando di suo padre lei ha usato il termine "scomparso"; ma ufficialmente non è morto in Vietnam?» «Sì, in Cambogia per essere esatti. Ma io non l'ho mai accettato. Non ho mai avuto la sensazione che fosse morto, e negli anni scorsi alcuni ex colleghi l'hanno visto in Asia. Ho speso molto denaro cercando di ritrovarlo.» «Che idea si è fatta dell'accaduto? Se suo padre è vivo, forse c'è anche la possibilità che abbia scelto di non ritornare negli Stati Uniti, che abbia deciso di abbandonare lei, sua sorella e sua madre.» «È possibile.» «Crede che ne sarebbe stato capace?» Con un gesto passo la mano tra i capelli conficcandomi le unghie nella cute. «Non so. Ho sempre avuto il sospetto che laggiù avesse una donna. In Vietnam. Forse un'altra famiglia. È stato così per molti militari, perché i fotogiornalisti dovrebbero essere diversi?» Gli occhi blu di Lenz mandano un bagliore freddo. «Potrebbe perdonarglielo?» È la domanda chiave della mia vita. «Ho passato molto tempo in paesi lontani fotografando guerre, proprio come faceva lui. Conosco la solitudine che si prova. Sei tagliato fuori dal mondo. A volte sei l'unica persona che parla inglese nel raggio di centinaia di chilometri, ti trovi in un inferno che nessun altro mai vedrà.» «Ma in Vietnam non fu così, il posto pullulava di americani.» «Papà lavorò in molti altri posti.» «Lei ha detto che non ha mai percepito la morte di suo padre. E quella di Jane? Ha mai avuto la sensazione che fosse morta?» «L'ho avuta dodici ore prima che me lo dicessero al telefono.» «Quindi tra di voi c'era quel legame particolare di cui parlano molti gemelli?» «Si, nonostante le differenze.» «Jordan, lei è stata molto sincera con me e la ringrazio. Credo che potremmo risparmiare parecchio tempo se lei volesse parlarmi degli eventi più significativi della vostra vita di sorelle gemelle.» «Non ricordo alcun fatto particolare.» Gli occhi di Lenz sembrano dolci, ma racchiudono una durezza, quasi una crudeltà, perfettamente visibile ora. Forse è una caratteristica indispen-
sabile per il suo lavoro. «Jordan, questa non è psicoterapia. Non abbiamo settimane di tempo a disposizione per farci strada tra i suoi meccanismi di difesa. Sono sicuro che se ci pensa bene le verrà in mente qualcosa.» Non dico una parola. «Per esempio, ho visto nel suo dossier che lei non ha mai finito il liceo. Jane fu promossa con distinzione, partecipò a tutte le attività extra: cheerleader, retorica eccetera. Lei invece nulla.» «Voi dell'FBI siete proprio andati a ficcanasare dappertutto.» «So anche che lei ha superato il test di ammissione alla università con il punteggio più alto dell'istituto. Allora?» Congiunge le braccia e alza le sopracciglia. «Perché una studentessa così dotata dovrebbe lasciare la scuola?» Il jet mi sembra diventato improvvisamente angusto. «Senta, non vedo come queste domande sulla mia vita scolastica possano aiutarla a capire Jane.» «Ciò che capita a una capita anche all'altra. Pensi al passato. Avete dodici anni. Vostro padre è morto e vostra madre non ce la fa ad andare avanti, mancano i soldi anche per le prime necessità. Siete gemelle, avete gli stessi insegnanti, eppure prendete due strade opposte. Cos'è successo?» «Lo ha appena detto, dottore. Passiamo a qualcosa che possa servire a trovare l'assassino di mia sorella. È questo l'obiettivo, no?» Lenz mi guarda. «Lei è una fotografa: usa filtri per produrre certi effetti ottici, vero?» «Sì.» «Anche gli esseri umani lo fanno. Usano filtri emotivi. È d'accordo?» «Credo di sì.» «In questo caso Daniel e io intendiamo usarla in una fase critica, ma prima di metterla a contatto con i potenziali sospetti, devo capire come funziona il suo filtro.» Guardo dal finestrino alla mia sinistra. La luce della luna è troppo debole e non si vede alcuna nuvola. Potremmo trovarci a 1500 come a 10.000 metri. Ecco come mi sento rispetto al mio passato o al mio futuro: alla deriva, spinta tra cose che conosco troppo bene e altre che non conosco affatto. Lenz vuole conoscere i miei segreti. Perché? Gli psichiatri, come i fotografi, sono essenzialmente dei voyeur. Ma ci sono cose che riguardano soltanto me e la mia coscienza, e nessun altro. Eppure sento di dover collaborare. Qui l'esperto è Lenz, non io. E lui fa affidamento sul fatto che non mandi a
puttane l'indagine. Credo di dovergli un po' di fiducia. «Gli anni successivi alla scomparsa di mio padre furono molto duri. La verità è che Jane viveva come se lui fosse morto prima che il fatto si verificasse davvero. La sua strategia fu l'assimilazione, il conformismo: studiò molto, divenne cheerleader, poi capo cheerleader, e uscì con lo stesso ragazzo per tre anni. Riconosco che è stata brava: non è facile essere popolare quando si è poveri.» «I soldi sembrano un tema ricorrente per sua sorella.» «Non solo per lei. Prima della scomparsa di papà, io non avevo capito quanto fossimo poveri. Ma a tredici anni si comincia a farci caso. La mamma distrusse la nostra automobile, e non ne avemmo mai più un'altra. Lei beveva sempre di più. Era imbarazzante. Un giorno, curiosando in soffitta, scoprii tre armadietti pieni di vecchie apparecchiature fotografiche. La mamma mi disse che quando rimase incinta convinse papà ad aprire uno studio da fotografo, per cercare di dare maggiore stabilità alla loro vita. Non so perché lui si lasciò persuadere. Ovviamente la cosa non andò in porto, ma papà tenne l'apparecchiatura: una Mamiya grande formato, lampade, uno sfondo, l'attrezzatura per la camera oscura. Nei mesi seguenti imparai a usare quella roba, e un anno dopo avevo uno studio fotografico in casa e di tanto in tanto, quando avevo tempo, facevo qualche foto per l'"Oxford Eagle". Le cose andavano meglio, e riuscii a fare quello che volevo.» Lenz annuisce con fare incoraggiante. «E cosa voleva?» «Volevo la mia vita. Oxford è una cittadina universitaria e io la giravo tutta in bicicletta, osservando la gente, facendo fotografie. Quando ero al penultimo anno delle superiori, iniziai a vivere con il walkman nelle orecchie e la macchina fotografica al collo. Mentre Jane e i suoi amici ballavano alla musica dei Bee Gees, io ascoltavo le cassette su cui avevo registrato i dischi preferiti di mio padre: Joni Mitchell, Motown, Neil Young, i Beatles e gli Stones.» «Sembra un'infanzia idilliaca» osserva Lenz con un sorriso consapevole. «È stato davvero così?» «Non proprio. Quando le altre ragazze andavano al lago di Sardis a pomiciare sul sedile posteriore dell'automobile con i ragazzi della squadra di football, io facevo altro.» Lenz è immobile. Proprio come un sacerdote, ha ascoltato talmente tante confessioni che non c'è niente in grado di stupirlo. «La prima settimana dell'ultimo anno delle superiori morì il nostro insegnante di storia. Aveva quasi settant'anni. Il consiglio scolastico assunse
come sostituto un ex allievo che teneva i corsi serali all'Ole Mississippi, David Gresham. Gresham aveva ricevuto la cartolina nel 1970 e aveva fatto un turno in Vietnam. Ritornò a Oxford ferito, ma non in modo visibile, e così il consiglio scolastico non se ne accorse. Dopo qualche giorno di lezione però me ne accorsi io. Ogni tanto s'interrompeva. Sembrava lontano decine di migliaia di chilometri. La sua mente aveva cambiato binario, era passata dalla nostra aula a una realtà che nessuno dei miei compagni riusciva nemmeno a immaginare. Io però sì. Osservavo il signor Gresham molto attentamente perché lui era stato proprio nel luogo in cui era scomparso mio padre. Un giorno, dopo la scuola, mi fermai per chiedergli se conosceva la Cambogia. Ne sapeva parecchio, niente di bello, a parte lo splendore di Phnom Penh e dei templi di Angkor. Quando mi chiese perché fossi interessata all'argomento, gli dissi di mio padre. Inaspettatamente, come un fiume in piena che rompe gli argini, tutto il dolore e la sofferenza che avevo dentro dilagarono. Un mese dopo eravamo amanti.» «Quanti anni aveva lui?» chiede Lenz. «Ventisei. Io ne avevo diciassette e mezzo. Ero vergine. Sapevamo entrambi che era pericoloso, ma non si può certo dire che lui avesse sedotto una bimba innocente. È vero che nella mia vita c'era il vuoto lasciato da mio padre, che lui era un uomo più vecchio e comprensivo. Ma io sapevo esattamente ciò che stavo facendo. Lui mi insegnò molto del mondo.» «È sorprendente che vi siate trovati» commenta Lenz senza alcuna traccia di giudizio nello sguardo. «Ovviamente non finì bene.» «Riuscimmo a tenere nascosta la nostra relazione per gran parte dell'anno. Lui iniziò a parlare del Vietnam e da lui conobbi cose che mio padre non aveva descritto né nelle lettere né nelle fotografie. Ad aprile uno dei vicini di David ci sorprese a baciarci vicino al ruscello dietro casa, e decise di sottoporre la cosa all'attenzione del consiglio scolastico. Fu indetta una riunione speciale, e, in quella che fu definita una "sessione esecutiva", venne offerta a David la possibilità di dare le dimissioni e lasciare la città prima che fosse aperta un'inchiesta che avrebbe rovinato le nostre vite. Per proteggerlo negai ogni cosa, ma non servì a niente. Mi offrii di lasciare la città con lui, ma David si rifiutò. In fondo, mi spiegò, noi due eravamo incompatibili. Io avevo qualcosa che a lui mancava.» «Un futuro?» aggiunse Lenz.
«Proprio così. Due sere dopo andò al ruscello e si annegò. Il medico legale disse che era stato un incidente, ma David aveva così tanto scotch in corpo da addormentare un toro.» «Mi dispiace.» Guardai di nuovo il finestrino, un pozzo circolare nella notte. «Mi piace credere che fosse privo di conoscenza quando finì sott'acqua. Probabilmente pensava che la sua morte servisse a mettere a tacere lo scandalo, che invece crebbe ancora di più. Jane ebbe un esaurimento nervoso provocato dalla vergogna. Mia madre si mise a bere di più e noi rischiammo l'affidamento. Io tornai a scuola a testa alta, ma non per molto. Mi tolsero il premio Star Student. Tutti quanti mi ignoravano. Avevo già fotografato molti studenti dell'ultimo anno, ma nessuno venne a ritirare le foto. Diverse madri fecero sapere al consiglio scolastico che non volevano che le loro figlie venissero a contatto con me. Il fatto colpì anche Jane. A quel punto feci ciò che avrebbe dovuto fare David: ritirai due dei tremila dollari che avevo in banca, feci le valigie, macchine fotografiche comprese, e andai a New Orleans; dove trovai un giudice che mi dichiarò maggiorenne e mi trovai un lavoro stampando le pellicole per i fotografi del "Times-Picayune". Un anno dopo anch'io facevo parte dello staff fotografico del giornale.» «Continuò a mandare soldi in famiglia?» «Sì, ma le cose tra me e Jane andarono sempre peggiorando.» «Come mai?» «Jane era ossessionata dal volere essere una Chi-O.» «Una cosa?» «Una Chi-Omega. Il Chi-Omega è un club per studentesse, l'apogeo della femminilità del sud all'Ole Mississippi: bionde dagli occhi azzurri cresciute tra i privilegi.» «Ah.» «Molte sue amiche sarebbero diventate Chi-O, come le loro sorelle o le loro mamme. E così via.» «La tradizione» aggiunge Lenz. «Può darsi. Jane pensava davvero di averne la possibilità, e credeva che io fossi il solo ostacolo. In verità la cosa non era mai stata alla sua portata. Quelle carogne non gliel'avrebbero mai permesso. Si sentivano superiori solo escludendo ragazze come Jane, che morivano dalla voglia di farne parte, ma che avevano qualche pecca. E Jane ne aveva parecchie: non era ricca, quindi niente abiti, auto e altri aggeggi sofisticati; aveva avuto un padre famoso, ma non del tipo giusto; e poi c'ero io. Inoltre Jane era la più
carina di tutte. Molte donne temono la concorrenza.» «È interessante non crede?» Gli occhi di Lenz osservano il mio corpo, in modo strano, come se mi stesse apprezzando con distacco. «Sua sorella ebbe un esaurimento nervoso dopo lo scandalo tra lei e il professore?» prosegue. «Non usciva più di casa. Ma quando iniziarono a parlare di darci in affidamento, tornò a scuola, prese il diploma, ma non diventò mai una Chi-O. Entrò nel Delta Gamma, un club non disprezzabile, ma certamente di altro livello.» «Lei ha parlato dell'avvenenza di Jane, la sua gemella. Cosa ne pensa del suo aspetto?» «So di essere attraente. Ma, a differenza mia, Jane si curava del proprio aspetto. Per me l'aspetto esteriore è secondario, sebbene non nascondo che in alcuni casi mi è stato utile, soprattutto nel lavoro. La bellezza è un fatto genetico per cui io non ho alcun merito.» «È un po' disonesto, per non dire altro.» Mi viene da ridere. «Lei è un uomo; non può sapere quante volte ho sentito mia madre ripetere che con le mie "potenzialità", se solo avessi fatto qualcosa, se mi fossi sistemata un po' - implicitamente, se avessi seguito l'esempio di Jane - avrei trovato un bravo lavoratore che mi avrebbe sposata, mi avrebbe mantenuta e si sarebbe occupato di me per il resto della mia vita. Beh, svegliati mamma. Io non ho bisogno di uno che provveda a me, maledizione!» «Jordan, lei per chi lavora?» «Per me stessa.» «Capisco.» Lenz guarda l'ora, poi tamburella sulle ginocchia. «Jane sposò un ricco avvocato, vero?» «Sì.» «Passiamo alla sua sparizione. Lei non reagì bene. Il dossier dice che interferì con le indagini.» «Non mi piace essere tagliata fuori, che male c'è? Sono una giornalista. E poi si trattava di mia sorella. Inoltre l'FBI non stava facendo nessun progresso. Usai i miei vecchi contatti al "Times-Picayune". Ma non servì a niente.» «Cosa fece?» «Me ne andai e cercai di buttarmi a capofitto nel lavoro. Letteralmente. Andai in Sierra Leone. Corsi dei rischi pazzeschi, me la cavai per un pelo in un paio di occasio-
ni. La mia agenzia lo venne a sapere e mi chiese di prenderla con più calma, e io lo feci. Me la presi comoda a tal punto che non riuscivo più ad alzarmi dal letto. Dormivo sempre. Quando ne venni fuori non riuscivo più a dormire. Dovetti prendere delle pastiglie solo per poter chiudere gli occhi senza vedere Jane violentata, con mani e piedi legati, in qualche stanza buia.» «Jane aveva paura di essere violentata?» «Come ogni donna.» «E lei? Deve essersi trovata in situazioni molto pericolose. Le zone di guerra pullulano di uomini.» «Io so badare a me stessa. Jane era molto più debole.» Lenz annuisce adagio. «Se domani trovassimo sua sorella, viva, cosa le direbbe? In altre parole, cosa più rimpiange di non averle detto?» «Non è affar suo.» «Le ho spiegato che...» «Ci sono cose troppo personali, dottore. Non c'è altro da aggiungere.» Lenz si passa le mani sul viso, poi piega la testa verso di me. «Qualche anno fa lavorai a un caso di omicidio molto complesso. Durante le indagini persi mia moglie. Fu uccisa. Io mi sentii responsabile. Nel corso degli anni ci eravamo allontanati, ma ciò non ridusse il dolore. Tutti abbiamo fatto del male alle persone che amiamo, Jordan. Fa parte della natura umana. Se c'è stato qualcosa di simile tra lei e sua sorella, avrei bisogno di saperlo. Mi aiuterebbe a capire chi era veramente Jane.» Il dolore negli occhi di Lenz sembra autentico, ma lui non è certo un pivellino. Forse ha un intero archivio di storie simili che usa per strappare confidenze alla gente. «Non c'è niente del genere.» Inspira profondamente dal naso, e mi ricorda un chirurgo al lavoro per rimuovere un proiettile: tra le mani stringe il forcipe, prova prima da una parte, poi dall'altra, cercando una strada per raggiungere il cuore della ferita. «Ci sono persone che diventano gli obiettivi dei predatori,» spiega Lenz «come gli animali deboli o feriti diventano prede dei leopardi. Certi bambini tendono a essere molestati, per esempio quelli timidi, che non fanno parte del gruppo, che giocano ai margini, che per varie ragioni si allontanano dagli altri. Lo stesso vale per gli adulti. Sto creando il profilo di tutte le vittime di questo caso. Io devo scoprire...» «Dottore, io le ho detto tutto quello che so.»
«Lei non ha neanche iniziato a dirmi ciò che sa.» Si sposta nel sedile, il suo sguardo torna duro. «Perché non si è mai sposata, Jordan?» «Ero fidanzata. Lui fu ucciso. Fine della storia.» «Come fu ucciso?» «Era un giornalista dell'ITN. Il suo elicottero fu abbattuto nei cieli della Namibia, lui morì sotto tortura.» «Lei ha perso padre, fidanzato e sorella, tutti per morte violenta.» «Non c'è due senza tre, giusto?» «Lei ha quarant'anni. Ci dev'essere stato qualcosa di più di un fidanzamento nella sua vita sentimentale.» «Ho avuto delle storie. È contento adesso?» «E Jane?» «Un ragazzo al liceo, come le ho già detto, ma non ci andò mai a letto.» «Come fa a saperlo?» «Lo so e basta. Dopo quel ragazzo uscì con altri, ma niente di serio. Poi al college incontrò un tipo proveniente da una ricca famiglia di New Orleans. Lo sposò quando lui era all'ultimo anno di legge. Trovò l'uomo più bello e affidabile che poteva e lo sposò, ebbero due bambini e vissero felici e contenti. Le basta? Ora ho bisogno di bere qualcosa. Crede che qui abbiano quelle bottigliette che si trovano sempre sugli aerei?» «No. Jordan, io voglio che lei...» «Lasci perdere, va bene? Voleva la sua storia e l'ha avuta. Nel dibattito tra natura e ambiente, io e mia sorella costituiamo un punto a favore dell'ambiente: identiche come due gocce d'acqua in tutto, incluso il più piccolo mitocondrio, ma psicologicamente ai poli opposti. Jane si comportava come se mi disprezzasse, ma era divorata dalla gelosia. Era gelosa del mio nome: "Jordan" le pareva esotico, mentre Jane era banale. Quando ero arrabbiata la chiamavo proprio così: banale Jane. Lei odiava dipendere da me per il denaro, le divise e le altre cose da cheerleader. Voleva avere camicette firmate e io le facevo portare quella maledetta roba da supermercato! Se era debole e fragile? Sì. Ma la gente più debole non riesce a essere diversa. Io cercai di proteggerla, finché non ne volle più sapere. Jane diventò una bellezza del sud perché non seppe fare altre scelte. Doveva sentirsi sempre al sicuro.» «Noi tutti siamo definiti dalle scelte che facciamo per sopravvivere» sottolinea Lenz in tono paterno. «E ciò vale sia per i sognatori sia per i mostri.» Il commento paternalistico è la goccia che fa traboccare il vaso. «Dovrei
considerarla una perla di saggezza? Un assassino le ha portato via la moglie, è vero, ma credo che lei abbia vissuto la maggior parte degli eventi traumatici per interposta persona. Lei ha ascoltato pazienti e prigionieri. Ascoltare può essere duro, lo so per esperienza, ma vivere le situazioni non è da meno. È un inferno se proprio vuole saperlo. Ne ho viste di tutti i colori, e tutte le nostre parole non vogliono dire nulla. Jane è viva oppure no. In ogni caso io devo saperlo. I suoi giochetti ci fanno solo perdere tempo. Io non credo che esista alcun legame tra le vittime, eccetto il fatto che sono tutte donne.» «Jordan, non vuole...» «Io voglio quello che Baxter mi ha promesso: un resoconto dettagliato di ciò che l'FBI ha fatto finora. Voglio che sia chiaro e conciso, e lo voglio ora.» Le mani sul tavolino recano i segni dell'età. Lenz le distende e si appoggia all'indietro. «Adesso che si è sfogata si sente meglio?» «Inizi a raccontare, per la miseria!» «Non c'è molto da dire. Stiamo raccogliendo tutti i dipinti della serie delle "Donne Addormentate".» «Dove?» «Alla National Gallery di Washington.» «Quanti ne avete adesso?» «Nove. Altri quattro arriveranno in aereo domani, altri ancora il giorno successivo. Alcuni collezionisti si sono rifiutati di mandare i quadri, ma hanno dato il loro consenso a un'ispezione da parte della squadra degli esperti d'arte. Per prima cosa confronteremo le vittime di New Orleans con le persone ritratte nei quadri. Poi cercheremo di stabilire in che ordine sono state realizzate le tele. Intanto cercheremo impronte, capelli, frammenti di epidermide e altre tracce organiche. Analizzeremo anche la pittura e cercheremo di arrivare ai lotti di appartenenza. Forse troveremo traccia di fibre di pennelli. Gli esperti studieranno lo stile dell'artista e lo confronteranno con quello di noti pittori. E questo non è che l'inizio del processo a cui saranno sottoposti i dipinti.» «Chi è il responsabile dell'indagine all'FBI?» «La responsabilità generale è del direttore. In pratica l'indagine segue diverse piste: Daniel si occupa di quella di Washington e di tutti i profili psicologici, io gli farò da consulente; l'ASR di New Orleans segue invece
la pista locale.» «Chi è l'ASR? La stessa persona dell'anno scorso?» «No. Patrick Bowles. Un tipo competente.» Lenz sembra sul punto di continuare, ma poi si ferma. «Che c'è?» «A questo punto è possibile che un altro uomo a New Orleans giochi un ruolo importante nelle indagini. È una delle cose che devo definire.» «Chi è?» Lenz sospira. «Si chiama John Kaiser. Al momento fa un lavoro d'ufficio, ma un anno fa faceva parte dell'Unità di Supporto Investigativo.» «A Quantico? Con Baxter?» «Proprio così.» «Perché è a New Orleans?» «Aveva chiesto il trasferimento ad altro incarico. Daniel cercò di convincerlo a prendere l'aspettativa per poi rientrare, ma Kaiser rifiutò. Disse che se non avesse ottenuto un lavoro d'ufficio, si sarebbe dimesso dall'FBI.» «Perché?» «Sarà lui a dirglielo, se lo riterrà opportuno.» «Perché Kaiser dovrebbe avere un ruolo primario nell'indagine?» «Da un anno a questa parte l'atmosfera a New Orleans è sempre più tesa. È facile da capire: le donne spariscono, e la polizia brancola nel buio. Inoltre il tutto è reso ancora più difficile dalla natura multigiurisdizionale dell'indagine. New Orleans in realtà è un insieme di comunità...» «Lo so bene. Jefferson Parish, Slidell, Kenner, Harahan. Sceriffi e poliziotti tutti insieme.» «Già. E l'unico uomo sul posto a tempo pieno con una reale esperienza di casi del genere è John Kaiser. Da quanto ne so, al suo arrivo cercò di stare alla larga dal caso, ma con l'aumentare delle vittime iniziò a interessarsi all'indagine. Adesso ci si dedica anima e corpo.» «Ha fatto dei passi avanti?» «Nessuno ne aveva fatti finché lei non ha scoperto i quadri. Ma sono certo che John Kaiser conosce sia le vittime sia le aggressioni meglio di chiunque altro. Eccetto ovviamente l'assassino. E forse il pittore, dipende dal grado di collaborazione tra i due.» «Lei crede davvero che sia un lavoro di gruppo? Una cospirazione?» «Sì. Altrimenti non si spiegherebbe l'estrema professionalità dei rapimenti di New Orleans; l'assenza di testimoni e di cadaveri. Inizio a credere
che la mente dell'intera operazione sia l'artista di New York, che paga un professionista perché gli procuri le donne.» «Chi è, un rapitore professionista?» Lenz si stringe nelle spalle. «Forse il pittore è stato qualche tempo in prigione. Lì potrebbe avere conosciuto un prigioniero di New Orleans. Oppure lui stesso è originario della città. Potrebbe avere molti contatti sul posto. Si spiegherebbe così la località scelta.» La teoria dello psichiatra non fa una grinza, eppure sento che c'è qualcosa che non va. «Kaiser era un buon agente a Quantico?» Lenz guarda il finestrino. «Aveva una percentuale di successo molto alta.» «Ma a lei non piace.» «Siamo in disaccordo su importanti questioni metodologiche.» «Sono solo chiacchiere, dottore. Che piaccia o no, nel mio lavoro ho imparato una cosa.» «Quale?» «Che davanti ai fatti non c'è teoria che tenga.» Lenz continua a guardare dal finestrino. «Cosa pensa della teoria di Baxter? Arrivare a uno dei responsabili usando i dati delle aviolinee? Rintracciare i passeggeri diretti a New York?» «Non ci conto.» Mi appoggio allo schienale del sedile e mi sfrego gli occhi. «Quanto manca a New Orleans?» «Un'ora circa.» «È troppo tardi per telefonare a mio cognato. Prenderò una stanza all'albergo dell'aeroporto e lo chiamerò domani.» «Io sono al Windsor Court. Perché non viene anche lei?» Spero di avere frainteso il tono. «In camera con lei?» Fa una smorfia per sottolineare l'assurdità dell'idea. «Cristo santo! All'albergo.» «Se non ricordo male il Windsor Court costa cinquecento dollari a notte. Non voglio spendere una cifra simile, e so che l'FBI non lo farà al posto mio.» «No, ma posso provvedere io.» «Lei è ricco?» «L'assicurazione di mia moglie mi permette uno stile di vita diverso da quello che avevo un tempo.» «Grazie, ma mi fermo all'aeroporto.»
Nella debole luce della cabina, Lenz mi osserva con il distacco di un antropologo davanti a una nuova specie di primate. «Sa, una volta a chiunque intervistassi facevo tre domande.» «Quali?» «La prima: "Qual è la cosa peggiore che abbia mai fatto?"». «E la gente rispondeva?» «Un numero sorprendente di persone sì.» «E la seconda domanda?» «Quali sono le occasioni in cui è stato più orgoglioso di sé?» «E la terza?» «Qual è la cosa peggiore che le sia mai successa?» Mi sforzo di sorridere, ma le sue parole mi colpiscono. «Perché non mi ha fatto queste domande?» «Non le faccio più a nessuno.» «Come mai?» «Mi sono stancato di ascoltare le risposte, ma nel suo caso mi piacerebbe conoscerle.» «Alla sua età deve essere abituato alle delusioni.» Fa un gesto con la mano. «Qualcosa mi dice che prima della fine di questa storia, l'avrò scoperto.» Nella cabina si sente uno squillo. Lenz porta la mano alla giacca, prende il telefono cellulare e schiaccia un pulsante. «Sì?» Mentre ascolta sembra rimpicciolire sempre di più. «Quando?» chiede dopo parecchio tempo. «Sì... Sì... Va bene.» «Che c'è?» chiedo quando posa il cellulare. «Cos'è successo?» «Venti minuti fa due ragazzine hanno trovato il corpo della donna rapita al supermercato Dorignac.» «Il corpo?» Lenz ha un'espressione molto concentrata. «Disteso sulla riva di un canale di scolo, senza abiti. Le ragazzine erano salite su un muro per bere della birra e hanno sentito dei rumori provenire dall'acqua. Lei giaceva tra le erbacce. Una nutria, qualunque razza di bestia sia, la stava divorando. La polizia ha circoscritto la scena del delitto in attesa dell'FBI. Il marito ha identificato il corpo.» «È un grande ratto d'acqua.» «Cosa? Ah» risponde Lenz sovrappensiero. La notizia mi fa venire la nausea, ma non per la sua brutalità. «Non è stato lui» dico tranquilla. «Se hanno trovato il corpo, lui non c'entra.»
«Non è detto. Potrebbe essere comunque opera sua.» Lenz annuisce con una strana intensità. «Ci pensi su. Sono trascorse quattro settimane e mezzo dall'ultima vittima. Questa notte, forse dal pomeriggio, l'UNSUB di New Orleans era a caccia. Forse l'uomo sapeva cos'era successo a Hong Kong, ma non sapeva che il suo complice avrebbe cercato di uccidere lei e Wingate. Lui rapisce la donna dal parcheggio di Dorignac, la porta a casa sua. Quando arriva trova sulla segreteria un messaggio urgente del complice. Forse riceve la sua telefonata. La vittima è stata trovata,» Lenz guarda l'orologio «sette ore dopo la scomparsa? C'è tempo a sufficienza. Il complice di New York gli dice che Wingate non è più un problema e che Jordan Glass l'ha scampata. Le indagini stanno per ricevere nuovo impulso. Così, invece di fare il ritratto alla donna, lui la uccide e la getta nel canale. Il tutto nelle ultime sette ore.» Lenz si dà una pacca sul ginocchio. «Sette ore, Dio santo. Non mi stupirei che ci fosse un tentativo di depistaggio.» «Cosa vuol dire?» chiedo cercando nella memoria tracce dei manuali di criminologia che lessi subito dopo la scomparsa di Jane. Gli occhi di Lenz brillano. Come tutti gli uomini nella squadra di Baxter, anche lui nel profondo è un cacciatore. «È il tentativo di depistare gli investigatori alterando la scena del delitto o il cadavere. L'UNSUB può mutilare il corpo della vittima per dare l'impressione che si sia trattato di violenza carnale, rito satanico, o altre cose. No, non possiamo tralasciare questa vittima solo perché ne abbiamo trovato il cadavere.» Vorrei credergli, ma per qualche ragione non ci riesco. «Ma noi sappiamo che è capace di liberarsi del corpo senza lasciare traccia.» «Questo è il punto!» esclama Lenz. «Lui lascia che noi lo troviamo per confondere le indagini.» «Ma non è rischioso, visto che lui l'ha avuta tra le mani? Con tutte le analisi criminologiche a disposizione?» Lo psichiatra sorride, ed è la prima volta da parecchio tempo. «Sì. Possiamo cercare capelli e fibre. Forse c'è anche abbastanza liquido seminale per il DNA. E se siamo fortunati, possiamo trovare una corrispondenza tra i dati biologici ricavati dalle tele e quelli del corpo della vittima. È molto difficile se il pittore e il rapitore sono individui diversi, ma è possibile. Sarebbe un inizio grandioso. Che Dio mi perdoni, spero proprio che sia stato lui a rapirla.» Lenz chiude la mano a pugno. «Se fosse così, questo sarebbe il punto di svolta dell'indagine.» «Perché c'è un cadavere?»
«No. Perché non è più lui a condurre il gioco. Sta reagendo a noi.» «A me» ricordo a Lenz. «Al ritrovamento dei dipinti.» Le immagini delle tele viste a Hong Kong mi scorrono davanti con inquietante chiarezza. «Cosa spinge quest'individuo, dottore? Cerca di ricreare delle sue fantasie, non è così? Ma quali?» Una strana serenità appare sul volto di Lenz. «Se lo sapessi, l'avremmo già preso.» Lo psichiatra chiude gli occhi e appoggia le mani sui braccioli del sedile. «Per favore, eviti di parlare. Ho bisogno di riflettere.» Merda. Metto le mani sul marsupio, trovo la bottiglietta con le pastiglie e ne ingoiò tre. Quando arriverò all'albergo dell'aeroporto sarò uno zombie. L'ultima cosa che vorrei fare adesso sarebbe fermarmi a pensare. CAPITOLO SESTO Questa mattina ho dormito più del solito, e sono contenta d'averlo fatto. I miei muscoli, a parte quelli del fianco destro, sono rilassati. Dopo avere fatto colazione ho telefonato alla Budget e ho noleggiato una Mustang decappottabile. Proprio quello che ci voleva dopo i taxi scalcagnati, le biciclette e i risciò che ho usato nei mesi scorsi in Oriente. Siamo a fine ottobre, ma io viaggio con il tettuccio aperto. Gli alberi sono ancora coperti di foglie verdi, e il sole mattutino mi dice che all'ora di pranzo potremmo arrivare a 27 °C. Questa città è così: caldo e pioggia, pioggia e caldo. Quando l'inverno arriva davvero, fa freddo a causa dell'umidità, ma qui la brutta stagione dura poco. Arriverò in ritardo alla riunione con l'FBI, visto che nessuno s'è degnato di farmi sapere che l'ufficio non è più nella vecchia sede in centro, ma in un edificio nuovo di zecca sulla riva meridionale del lago Pontchartrain, tra l'aeroporto Lakefront e l'università di New Orleans. Ora si trova in una palazzina di tre piani che ricorda una struttura universitaria, ma più mi avvicino più vedo che assomiglia a una fortezza. L'edificio, lontano dalla strada principale, è circondato da una cancellata di ferro, ed è munito di un posto di blocco con barriere antiterrorismo piantate nel cemento. La guardia armata all'ingresso controlla la mia patente, telefona all'interno e poi alza la barriera e mi indica il parcheggio. Mentre chiudo l'auto e cammino verso l'ingresso ho l'impressione che ogni mio movimento venga osservato su monitor interni. Anche l'ingresso è monumentale, con bandiere e una lastra di marmo nero con il motto dell'FBI: «Fedeltà, Coraggio, Integrità».
Il metal detector alla porta mi indirizza verso un piccolo vestibolo, simile a un ambulatorio medico, dove, dietro un pannello di vetro, mi attende un'addetta alla reception. Quando le dico il mio nome, ricevo un foglio di carta da firmare, quindi mi informa che presto arriverà qualcuno a prendermi. Trenta secondi dopo si apre la porta ed entra un uomo alto che passa dalla porta vicino allo sportello. «Jordan Glass?» «Sono io. Scusi il ritardo, sono stata all'ufficio federale in centro.» «Allora la colpa è nostra. Io sono John Kaiser.» Questo tipo non assomiglia per niente agli agenti dell'FBI che ho conosciuto. È alto uno e novanta, allampanato, e in giacca e cravatta sembra tanto a suo agio come un cowboy in smoking. I capelli neri hanno superato la lunghezza regolamentare e l'aspetto è quanto di meno ufficiale io possa immaginare. Sembra uno studente di giurisprudenza dopo tre giorni di studio ininterrotto... Uno studente di quarantacinque anni. Come se mi avesse letto nel pensiero, tira fuori il portafoglio e mi mostra la sua tessera di riconoscimento dell'FBI. Le credenziali sono lì, nero su bianco: «Agente speciale John Kaiser». Anche se nella foto ha un aspetto molto più ordinato, si tratta senz'altro della stessa persona. Ripulito non è niente male. «Lei non sembra un agente dell'FBI.» Un sorriso obliquo. «Me lo dicono spesso.» «Perché hanno trasferito l'ufficio?» «Dopo la bomba di Oklahoma City, il governo ha reso obbligatoria una distanza di trenta metri dalla strada. Questa sede è il doppio della precedente e ha una vista migliore. Hanno traslocato a settembre, giusto un mese prima del mio arrivo.» «Andiamo di sopra?» Lui abbassa la voce: «A dire la verità, prima preferirei parlarle da solo. Le piace la cucina cinese? Non mangio da ieri sera, così ho ordinato qualcosa: due porzioni». «Sì, mi piace. Ma perché non mangiamo nel suo ufficio?» Gli occhi castani di Kaiser mi fissano. «Perché preferirei parlarle senza nessuna interferenza.» «Da parte di chi?» «Lei lo ha conosciuto ieri.»
«Il dottor Lenz?» Annuisce. «Allora l'antipatia è reciproca?» «Temo proprio di sì.» «E lei non può tenere Lenz fuori dal suo ufficio?» «Non ne sono sicuro. Di sicuro però posso tenerlo alla larga da un tavolo da picnic su Lakeshore Drive, soprattutto se non sa che ci sto andando.» «Ci vengo se prendiamo la mia macchina.» «Lei mi ha letto nel pensiero, signora Glass.» Kaiser raccoglie i suoi sacchetti e mi segue óltre l'ingresso principale. Cerca di stare al mio passo ma, vista la differenza di statura, la cosa non è facile. «Abbiamo ricevuto la pellicola che ha scattato sul luogo dell'incendio» mi dice. «Cosa si vede?» «Abbiamo buone fotografie della folla. Quelli di New York si stanno facendo il mazzo cercando di identificare tutte quelle facce. Non è un lavoro da poco. La buona notizia è che il videonoleggio ha un elenco dei soci, e il barista dice che quella sera molti avventori erano clienti regolari.» «Credevo di avere fotografato il tizio che ha appiccato l'incendio. Dovrebbe essere un'inquadratura verso il basso, con un'inclinazione di quarantacinque gradi in direzione del margine esterno della folla.» Kaiser mi lancia una strana occhiata. «Non crederà a ciò che sto per dirle.» «Cosa?» «Lei ha ripreso la sommità di alcune teste, e la mano di un individuo bianco che mostrava il dito.» «Mostrava...? Lei mi sta prendendo in giro.» «Quando sono impegnato in casi come questo perdo il senso dell'umorismo.» «Pensa che fosse lui? O è stato un ragazzino?» «Chi ha studiato la foto dice che la mano è quella di un adulto; probabilmente, ma non sicuramente, un maschio. Crede che l'UNSUB si sia accorto in tempo di ciò che lei stava facendo e le ha fatto vedere il dito mentre si abbassava?» «Certo che ha visto cosa facevo. Si muoveva al limite esterno della folla, mi seguiva. Credo che stesse cercando di avvicinarsi per uccidermi. Ecco perché ho mandato i pompieri a dargli la caccia.»
«Bella mossa.» «Porca miseria. Credevo di avere alzato la macchina fotografica abbastanza in fretta.» «È cosa passata» commenta. «Non può farci più niente, la dimentichi.» «A sentire lei sembra facile. Lei fa così quando manda in malora qualcosa?» «Segua le mie parole, non il mio esempio.» «Giusto.» Si ferma vicino alla Mustang rossa e fa un largo sorriso. «Bella macchinetta.» Faccio scattare il comando a distanza, entro in auto e tiro giù il tettuccio. Kaiser butta i sacchetti di cibo sul microscopico sedile posteriore e poi si infila di fianco a me. Pochi secondi dopo sfrecciamo lungo Lakeshore Drive, diretti alle verdi distese lungo le rive del lago Pontchartrain. Lui appoggia la testa all'indietro e guarda il cielo. «Cavolo, che bello.» «Cosa?» «Essere su una decappottabile con una bella ragazza. Era da molto che non mi succedeva.» Nonostante la situazione insolita, sono compiaciuta. Essere apprezzata da John Kaiser è ben diverso che parlare in modo obiettivo del mio aspetto fisico con il dottor Lenz. «È da parecchio che non le succedeva di essere su una decappottabile o in compagnia di una bella ragazza?» Lui ride. «Mi appello al quinto emendamento, ho la facoltà di non rispondere per non incriminarmi da solo». Kaiser sembra avere qualche anno più di me, ma è invecchiato bene. E sebbene mi secchi ammetterlo, mi ricorda un po' David Gresham, l'insegnante di storia di cui avevo parlato a Lenz. Mi chiedo che cosa Lenz gli abbia raccontato dell'intervista" della notte scorsa sull'aereo. Fermo la Mustang su una piazzola di sosta, vicino a una panchina sulla riva del lago. Mentre chiudo la cappotta dell'auto, Kaiser porta il cibo alla panchina, si mette a cavalcioni a una estremità e tira fuori contenitori e bevande. Al bordo dei calzoni si vede la fondina nera da cui emerge l'impugnatura di un'automatica. «C'è pollo alla pechinese e manzo piccante» spiega. «Riso fritto con scampi, involtini con uova e due tè ghiacciati senza zucchero. Prenda ciò che vuole.»
«Il pollo alla pechinese.» Mi siedo all'altra estremità della panchina e prendo una tazza. «Avanti» mi dice. Metto un po' di riso sul piattino e poi lo ricopro di pollo e zucchine e inizio a mangiare. «Comincia lei o comincio io?» chiede. «Io. Voglio che lei sappia che questa per me è una situazione insolita. Non ho reagito bene alla sparizione di Jane, ma in questo ultimo anno sono riuscita ad affrontare la situazione. Avevo anche in parte accettato che non avrei mai più rivisto mia sorella, che il caso non sarebbe mai stato risolto. Adesso quella certezza è scomparsa. Ne sono felice. Solo che... mi sento di nuovo vulnerabile.» «Capisco. Non è la prima volta che succede. Casi di persone scomparse che restano fermi per anni, poi improvvisamente figlio o marito ricompaiono. Le persone restano disorientate. Essere costretti ad abbandonare un adattamento, conquistato a fatica per continuare a vivere, provoca strane emozioni e molto risentimento.» «Io non provo risentimento.» Lui mi guarda e i suoi occhi sono pieni di gentilezza. «Non intendevo riferirmi a lei. L'ho semplicemente constatato in altri casi.» Bevo una lunga sorsata di tè. «Mi piacerebbe sapere a che punto del caso è arrivato. E quali sono secondo lei le probabilità di risolverlo.» Kaiser si è già mangiato un involtino con uova; adesso è passato alla carne. «Non amo parlare di probabilità. Sono stato smentito troppe volte.» «Crede che la morte di Wingate sia collegata al caso di mia sorella?» «Sì.» «Crede che ci siano più responsabili?» Kaiser piega la testa di lato: «Sì e no». «Cosa vuole dire? Lei non condivide la teoria di Lenz? Il rapitore a New Orleans e il pittore a New York?» «No.» «Perché?» «Questione d'istinto. La teoria è accattivante e spiega molte cose. Per esempio il fatto che non riusciamo a trovare alcun fattore comune tra le vittime. Lenz sostiene che il nostro UNSUB sia pagato per rapire le donne, e che le scelga a caso. Ma questo genere di cose non va mai così. È vero, i predatori scelgono gli obiettivi secondo l'opportunità, ma nella loro scelta c'è sempre un meccanismo sottostante. Magari puramente geografico.»
«Lei pensa che ci sia un legame tra le vittime?» «C'è sempre. Gli omicidi in serie sono delitti a sfondo sessuale; è un assioma. Anche se può sembrare vero il contrario, alla base c'è sempre un grave problema sessuale che in genere determina il criterio di selezione. Le vittime sono di New Orleans. Io sento che la scelta è fatta qui, e che non è casuale. Noi non abbiamo ancora capito in base a quale criterio.» «Si è fatto un'idea del responsabile? Oppure di che cosa lo spinga?» «Ci ho provato, ma non ho molto su cui basarmi. Le regole generali non valgono. Personalità organizzata o disorganizzata? Paragonare questo tipo a Ted Bundy - classificato come organizzato - sarebbe come paragonare Stephen Hawking a Mister Rogers. Nessun cadavere. Nessun testimone. Nessuna prova. Sembra che le vittime siano state risucchiate in un buco nero. È questo a spaventarmi più di tutto.» «Perché?» «Perché è molto difficile occultare un corpo, soprattutto in un ambiente urbano. I cadaveri puzzano. Cani e gatti alla fine li stanano. I senzatetto li trovano. E inoltre ci sono i vicini ficcanaso.» «Vicino a New Orleans ci sono molte paludi» faccio notare. «Sono il mio incubo. Immagino Jane incastrata da qualche parte tra i resti di un cipresso.» Kaiser scuote la testa. «Abbiamo dragato le paludi e il lago Pontchartrain per mesi senza alcun risultato. E poi le paludi non sono disabitate; ci sono cacciatori, pescatori, gente che estrae petrolio. Guardiacaccia, famiglie che vivono in baracche sull'acqua. Rifletta. Se un UNSUB buttasse una donna da una strada, il corpo galleggerebbe e qualcuno finirebbe per vederlo. Undici corpi? La cosa non sta in piedi. E se si spingesse all'interno della palude, trasportando il cadavere in barca, dovrebbe quasi certamente agire di notte. Se lo immagina un artista con il talento necessario per dipingere quei quadri mettersi in viaggio in una palude piena di serpenti e di alligatori nel cuore della notte? Io non ci riesco. Se sono morte, lui le ha seppellite. E il luogo più sicuro per farlo è sotto una casa. La sua casa. In cantina o tra il pavimento e il terreno.» «Ma le case di New Orleans non hanno cantine. La falda freatica è troppo alta, perciò seppelliscono i morti sopra il livello del suolo.» «In realtà è una scelta legata più alla consuetudine che a una vera necessità» interviene. «Inoltre la falda è scesa considerevolmente negli ultimi anni. Lui potrebbe seppellirli sotto una casa e non accadrebbe niente: resterebbero sepolti e all'asciutto. Buttandoci sopra un po' di calce ogni tanto,
non puzzerebbero nemmeno.» Dalla tasca di Kaiser si sente un bip. Lui tira fuori il cellulare e controlla il display. «È il dottor Lenz che mi cerca. Lasciamolo fare.» «Scusi... lei ha appena detto "se sono morte."» Kaiser risponde con cura. «Proprio così.» «Il dottor Lenz è certo che lo siano.» «Lui e io siamo in disaccordo su molte cose.» «Lei è il primo rappresentante delle forze dell'ordine a esprimere un dubbio. Baxter dice che continua a sperare finché non vede un cadavere, ma sono solo parole di cortesia.» «Baxter è una brava persona.» Kaiser mi guarda negli occhi. «Ma pensa che le vittime siano morte.» «E lei no?» «Non mi era mai capitato un caso come questo. Undici donne che svaniscono nel nulla? Non una parola dall'UNSUB? Di solito un tizio che ha rapito così tante donne e l'ha passata liscia si farebbe beffe di noi in qualche modo.» «Ma cosa le fa credere che possano essere vive? Dove potrebbero trovarsi?» «Il mondo è grande, signora Glass. Ma c'è qualcos'altro. L'autopsia sul corpo della vittima di Dorignac è stata quasi completata. Esternamente il corpo era pulito, ma abbiamo trovato delle tracce di epidermide sotto le unghie della vittima. Per il momento non abbiamo nulla con cui confrontarle, ma più avanti questo potrebbe diventare un elemento importante. Per gli esami tossicologici ci vuole ancora un po' di tempo.» «Fantastico. Ma per quale motivo ciò le fa credere che le vittime possano essere ancora vive?» «Non è questo. Abbiamo anche trovato una strana bruciatura sul collo della vittima, simile a quella prodotta da una pistola elettrica che stordisce.» Il cuore mi batte in fretta. «Cosa ne pensa?» «Si pensava che i rapimenti fossero attacchi repentini, ma la forza usata non dev'essere stata necessariamente mortale. Ciò significa che forse l'UNSUB non voleva correre il rischio di uccidere le proprie vittime.» «Gesù, fa' che sia vero.» «Non voglio dare false speranze, ma in base alla mia esperienza è un buon segno. Inoltre, tramite i mezzi d'informazione, stiamo diffondendo che il caso al Dorignac non è collegato agli altri. Ne parliamo come se si
trattasse di un assassinio in seguito a violenza carnale. L'abbandono del corpo avvalora questa tesi.» «Spero che questa storia non torni a perseguitarla.» Kaiser ingoia un altro boccone di carne piccante e mi scruta. «C'è un altro paio di cose che rende questo UNSUB molto interessante ai miei occhi.» «E sarebbe?» «Primo, l'autore di questi delitti in serie guadagna somme enormi dalla sua attività criminale. La maggior parte degli altri criminali dello stesso genere non guadagna denaro dalle sue imprese. I soldi a loro non interessano, ma al nostro criminale sì.» «È chiaro.» «Secondo, non cerca pubblicità. Per lo meno non del solito tipo. Se le vittime sono morte, lui non lascia i loro corpi dove possano essere ritrovati e provocare scalpore. E se non sono morte, lui non manda dita mozzate a familiari o a stazioni televisive. Quindi per lui le vittime fanno semplicemente parte del processo creativo. Le morti sono legate ai quadri.» «Ma i dipinti non sono essi stessi una specie di pubblicità?» «Sì, ma di un tipo molto speciale. Qui c'è un legame tra pubblicità e profitto. Se l'artista dipingesse quelle immagini solo per soddisfare un bisogno personale, non avrebbe la necessità di venderle. E non avremmo saputo niente di lui. Se non avesse venduto i quadri, oggi saremmo allo stesso punto in cui eravamo dopo il primo rapimento.» «Come sono collegate pubblicità e profitto?» «Lui vuole che il mondo dell'arte conosca ciò che sta facendo. Probabilmente vuole fare colpo sui critici o su altri artisti, non so. Forse i soldi non sono importanti di per sé. Non sarei affatto sorpreso di scoprire che non ha speso un centesimo. Lui forse sa che nella nostra società il valore attribuito all'arte dipende da ciò che la gente è disposta a pagare. Quindi affinché il mondo presti attenzione al suo lavoro, quest'ultimo deve essere molto caro. Ecco perché ha corso il rischio di rivolgersi a Christopher Wingate. O con chiunque ha ucciso Wingate al suo posto. Sono solo supposizioni ovviamente.» «Ma sono la cosa più sensata che io abbia sentito finora. Che messaggio vuole dare al suo pubblico? Perché dipinge donne morte? Perché ha iniziato con volti quasi astratti, per poi invece ritrarre donne che sembrano addormentate?» «È troppo presto per azzardare delle ipotesi.» Kaiser guarda l'orologio.
«Vorrei farle una domanda personale, se non le dispiace.» «Quale?» «La telefonata.» «Quale telefonata?» «Quella che ricevette dalla Thailandia.» «Oggi mi sono svegliata pensando proprio a questo. È stata l'esperienza più inquietante della mia vita.» «Non mi stupisce. So che ce la segnalò quando accadde, ma vorrei che mi raccontasse il fatto.» «Se crede che possa servire.» «Potrebbe.» «Successe cinque mesi dopo la scomparsa di Jane. Io attraversavo un brutto momento. Per riuscire a dormire dovevo ricorrere all'aiuto di tranquillanti. Non ricordo se ne parlai nella mia dichiarazione.» «Lei disse di essere esausta.» «Già. All'epoca non ero molto contenta dell'FBI. In ogni modo, il telefono squillò nel cuore della notte. Deve avere suonato parecchio prima di riuscire a svegliarmi. Quando finalmente risposi, la linea era molto disturbata.» «Qual è stata la prima cosa che ha sentito?» «Il pianto di una donna.» «Riconobbe la voce in quel momento preciso?» «No. Risvegliò la mia attenzione, ma non mi scosse le budella. Ha presente?» «Come no. E poi?» «La donna singhiozzò: "Jordan". Poi sentii delle interferenze. Quindi proseguì: "Ho bisogno del tuo aiuto. Non posso..." Poi altre interferenze. Infine aggiunse: "Papà è vivo ma non mi può aiutare. Ti prego" come se mi stesse implorando e non sapesse più che pesci pigliare. A quel punto pensai che fosse Jane, e stavo per chiederle dove fosse, quando in sottofondo una voce d'uomo disse qualcosa in francese che io non capii e che non ricordo.» Anche adesso quel ricordo mi fa venire i brividi. «Per una frazione di secondo...» «Cosa?» «Credetti che fosse la voce di mio padre.» Guardo Kaiser con aria di sfida, aspettando che mi dia della sciocca, ma lui non dice niente. Da un lato sono contenta, ma dall'altro mi chiedo se lo sciocco non sia lui.
«Continui» mi dice. «Poi l'uomo disse in inglese: "No, chérie, è solo un sogno". E il telefono ammutolì.» Mi è passato l'appetito. Sono fradicia, e sento le gocce di sudore scendermi lungo le costole. Premo la seta della camicetta contro la pelle, cercando di fermare il sudore. «Lei ricorda bene la voce di suo padre?» «Non proprio. Penso che si tratti di un'impressione. La voce al telefono mi sembrò la sua, perché papà a volte diceva cose in francese. Credo che l'avesse imparato in Vietnam. Ogni tanto mi chiamava chérie.» «Davvero? Cosa successe dopo?» «A dire la verità il mio cervello funzionava appena. Pensai che fosse stata un'allucinazione. Ma il giorno dopo ne parlai a Baxter e venni a sapere che avevano rintracciato la chiamata, partita da una stazione ferroviaria di Bangkok.» «Quando lo seppe, cosa sentì dentro?» «Sperai che fosse mia sorella. Ma più ci pensavo, più mi pareva impossibile. Dopo avere cercato mio padre così a lungo, conosco molte famiglie di militari scomparsi in azione. E se fosse stata la parente di un militare impegnata in qualche ricerca? I parenti vanno lì spesso. Che so, la moglie o la figlia di uno di loro, in qualche pasticcio e in cerca di aiuto? Forse, ubriaca e depressa, ha tirato fuori il mio biglietto da visita dalla borsa. La conversazione è plausibile, se si ricostruiscono le parti mancanti. "Jordan... ho bisogno di aiuto. Papà è vivo, ma lui" - riferito al proprio padre - "non mi può aiutare."» «Ma i parenti dei militari dispersi vanno laggiù per aiutarli, e non per farsi aiutare.» «È vero.» «Verificò con le famiglie dei dispersi che conosceva?» «Sì, e lo fece anche l'FBI. Nessuno ammise di avere fatto quella telefonata. Ma ci sono più di duemila militari dispersi. Il che vuol dire un sacco di famiglie. E alle riunioni tutti parlano con me perché io sono conosciuta e perché ho viaggiato così tanto in Oriente.» «Se fosse così, di chi poteva essere la voce maschile?» «Di un marito. Di un patrigno. Chi lo sa? Ma a me venne in mente un'altra possibilità. E se fosse stato un giochetto dell'assassino che si serviva di una conoscente per spaventarmi?» Kaiser scuote la testa. «Nessun altro parente delle vittime ha ricevuto
una telefonata simile. Ho controllato.» «E che idea si è fatto?» Lui giocherella con un pezzo di carne. «Che potrebbe essere stata sua sorella.» Faccio un respiro profondo e cerco di calmare i nervi. «Le sto dicendo questo,» spiega calmo «perché secondo Baxter lei è una tipa tosta.» «Non so se lo sono.» Lui aspetta che io abbia assorbito la notizia. «È per questo che non ha voluto che ci fosse Lenz?» «In parte.» «Quando gli chiesi cosa pensasse della telefonata, lui non volle parlarne.» Kaiser guarda per terra. «L'Unità di Supporto Investigativo ritiene che la chiamata misteriosa fosse opera del parente di un militare disperso, proprio come lei aveva ipotizzato. Lenz non le ha chiesto nulla perché ha visto la dichiarazione che lei fece all'epoca, e non crede che ciò che lei ricorda adesso sia una descrizione dei fatti più attendibile di quella fatta un tempo.» «Sembra una risposta ufficiale. Ma lei cosa ne pensa?» «Se sua sorella è viva, la teoria di Lenz - qualunque essa sia - non regge. Lenz non fa che parlare del fatto che tutto è possibile, che non ci sono regole, ma in fondo ha la tendenza a privilegiare gli scenari tragici. Io invece resto aperto ad altre possibilità. Ecco il nocciolo della questione.» «Lei è aperto ad altre possibilità?» Un sorriso affiora sulle labbra di Kaiser. «Perché so bene che il mondo non segue alcuna regola. L'ho imparato a mie spese.» Prende in mano l'involucro di plastica con il biscotto della fortuna, e lo apre. «Lenz con tutta probabilità le ha chiesto ogni genere di informazione sulla sua famiglia? Cose private?» «Sì.» «È il suo modo di procedere. A lui piace conoscere tutti i retroscena. E facendo così sconvolge molti familiari. Io non lo biasimo. All'inizio della carriera fece dei lavori fondamentali.» «È quasi la stessa cosa che lui dice di lei.» «Davvero? Beh, non ho intenzione di prenderla in giro; credo che lui non dovrebbe occuparsi di quest'indagine.» «Perché no?» «Non mi fido né del suo istinto né della sua capacità di giudizio. Qual-
che tempo fa si occupò di un caso che gli scoppiò tra le mani. E Baxter, dati i loro precedenti, gli dà troppo credito.» «Si riferisce al fatto che la moglie di Lenz fu uccisa mentre lui era impegnato in un'indagine? Me l'ha già detto lui stesso.» «Sì. Le ha detto anche perché?» «No, mi ha solo detto che fu una brutta storia.» «È vero. Successe perché Lenz fece qualcosa di estremamente stupido e arrogante. Arrivò sul posto cinque minuti dopo che la moglie era morta sul tavolo della cucina.» «Dio mio.» «Dopo il fatto si ritirò. Da allora ha fatto qualche volta da consulente per Baxter, ma non credo che abbia imparato la lezione. Ha ancora troppa fiducia nelle sue capacità.» «Cosa ne pensa del suo piano di usarmi per mettere in crisi i futuri indiziati?» «Potrebbe funzionare, ma non è né semplice né così sicuro come sembra. I risultati potrebbero essere inconcludenti, e la strategia potrebbe esporla all'assassino.» Il cellulare di Kaiser riprende a suonare. Lui lo pesca tra gli avanzi del pranzo e guarda il display. «È ancora Lenz.» «Che fa, risponde?» «No.» Dato che Kaiser ha portato la conversazione sul piano personale, mi sento autorizzata a fare lo stesso. «Lei ha messo in mostra i panni sporchi di Lenz. E i suoi? Perché ha lasciato Quantico?» «Che cosa le ha raccontato Lenz?» «Niente. Mi ha detto che spettava a lei parlarmene, se avesse voluto.» Kaiser posa lo sguardo su un gruppo di palme sotto al quale sono distesi, su una coperta, due innamorati. «La verità è semplice. Non ce la facevo più. Prima o poi capita a tutti in questo genere di lavoro. Io lo feci in modo più spettacolare del solito; tutto qui.» «Cosa accadde?» «Dopo quattro anni a Quantico ero più o meno il braccio destro di Baxter. Avevo un carico di lavoro troppo pesante; più di centoventi casi aperti: omicidi di minori, stupri in serie, dinamitardi, rapimenti, tutto quanto il panorama. In una situazione del genere è impossibile dare delle priorità. Dietro ogni caso, ogni fotografia, c'è una famiglia sconvolta: genitori, mariti, fratelli e sorelle distrutti; poliziotti frustrati che fremono dal desiderio
di aiutarli. Mi capitò la stessa cosa trascorrendo giorno e notte all'Accademia. Quando la mia vita personale andò a pezzi, quasi non me ne accorsi. Poi, un bel giorno, accadde l'inevitabile.» Il vago accenno alla sua vita privata mi incuriosisce e guardo la sua mano sinistra. Niente fede nuziale. «Cos'era l'inevitabile?» «Baxter e io eravamo alla prigione di stato del Montana per interrogare un prigioniero rinchiuso nel braccio della morte per aver violentato, seviziato e ucciso sette bambini. Avevo alle spalle dozzine di interrogatori di quel tipo, ma quell'individuo godeva davvero a raccontarci i particolari. Succede a molti, certamente, ma quella volta... non riuscii a prenderla in modo distaccato. Non riuscivo a smettere di pensare a quel bimbo di sei anni che urlava e chiamava la mamma mentre quell'individuo gli infilava degli apparecchi elettrici nel retto.» Kaiser deglutisce, come se avesse la bocca asciutta. «E persi il controllo.» «Che cosa fece?» «Scavalcai il tavolo e cercai di ucciderlo.» «Cosa gli fece?» «Gli ruppi la mandibola, il naso e altre ossa facciali. Gli danneggiai la laringe e gli cavai un occhio. Baxter non riusciva a farmi smettere. Alla fine mi colpì la nuca con una tazza. Rimasi stordito il tempo necessario perché potessero trascinarmi fuori. Il tizio si fece ventisei giorni di ospedale.» «Dio santo. Come riuscì a non perdere il lavoro?» Kaiser scuote lentamente la testa, come se stesse valutando fino a che punto dovesse parlare. «Baxter mi coprì. Disse al guardiano che il prigioniero mi aveva aggredito e che ero stato costretto ad agire per legittima difesa.» Lo sguardo di Kaiser torna ai due innamorati. «Immagino che adesso tirerà fuori la solita tiritera liberale, e mi ricorderà che ho violato i diritti civili del condannato.» «Beh, è ciò che ha fatto. Lo sa benissimo. Ma capisco il motivo. È qualcosa che conosco bene perché mi riguarda. Mi sembra di capire che lei abbia avuto una reazione a scoppio ritardato a causa di qualcos'altro.» Mi guarda con sorpresa. «È stato proprio così. Avevo perso una bambina la settimana precedente, lavorando a un caso di stupro e omicidio in Minnesota. Facevo da consulente alla sezione crimini violenti di Minneapolis, ed eravamo a un passo dalla cattura dell'UNSUB. Davvero a un passo. Ma prima della cattura riuscì a strangolare ancora una bambina. Se fossimo riusciti a prenderlo un giorno prima... forse.»
«Ciò che è stato è stato. Non sono le sue parole? Non c'è più niente da fare, lasci perdere.» «Stronzate.» La sua onestà mi fa sorridere. «Poco fa lei ha detto "scoppiare tra le mani". È stato in Vietnam?» «Già.» Annuisce con fare distratto. «Lei c'era?» «Sì.» «Sembra giovane per esserci stato.» «Solo alla fine. Nel Settantuno-Settantadue.» «La fine è stata nel Settantatré,» gli ricordo «anzi nel Settantacinque. Nel Settantuno c'erano ancora molti scontri diretti.» «È quello che volevo dire: la fine degli scontri.» «In quale arma?» «Esercito.» «Ricevette la cartolina?» «Vorrei poter dire di sì, ma partii volontario. I civili cercavano di non andare sotto le armi, i militari di uscire dal Vietnam, e io cercavo di entrarci. Cosa ne sapevo? Ero un ragazzino di campagna, dell'Idaho. Andai alla Ranger School, me la feci tutta.» «Cosa pensava dei giornalisti che lavoravano laggiù? E dei fotografi?» «Avevano un lavoro da svolgere, come me.» «Un lavoro diverso.» «Sì. Ne ho incontrati un paio che erano a posto. Ma altri se ne stavano negli alberghi e mandavano i vietnamiti a fare le foto al loro posto. Non mi importava granché di quelli.» «Succede ancora da certe parti.» «Ho visto il suo nome su alcune foto piuttosto crude. Lei assomiglia molto a suo padre?» «A dire la verità, non so. So solo quello che altri mi hanno detto di lui. Credo che professionalmente siamo diversi.» «Come mai?» «La guerra attira gente di tutti i tipi. Ci sono quelli che stanno negli alberghi come lei ha detto, ma non contano. Ci sono gli aspiranti Hemingway, lì per dimostrare qualcosa a se stessi. Poi ci sono quelli che inseguono il pericolo, che vivono per le emozioni forti. Ci sono i pazzi come Sean Flynn, a cavalcioni di una motocicletta, a rotta di collo sotto il fuoco, con la macchina fotografica in mano. Ci sono quelli che lo fanno perché
pensano che sia la cosa giusta. Conoscono i rischi, se la fanno sotto dalla paura, ma lo fanno comunque.» «Quello è il tipo di coraggio che veramente ammiro» commenta Kaiser. «Ho conosciuto dei soldati di questo genere.» Sul suo viso c'è un'espressione addolorata; mi chiedo se ne sia consapevole. «Qualcosa mi dice che lei è stato uno di quelli.» Lui tace. «È il coraggio di mio padre» aggiungo. «Lui non era un fotografo di talento, per dirla tutta. Non ha mai fatto delle inquadrature spettacolari. Ma andava talmente vicino all'elefante, che nemmeno i più pazzi si sarebbero spinti fino lì. E quando sei così vicino, l'inquadratura non conta. Conta lo scatto. È questo a rendere uniche le sue foto. Andò in Laos e in Cambogia. Passò dodici giorni sottoterra a Khe Sanh, durante il periodo peggiore dell'assedio. Ho una foto, fatta da un marine, di mio padre che piscia nel mezzo del sentiero di Ho Chi Min.» Kaiser mi fissa. «Chi glielo ha detto? Chi le ha parlato dell'elefante?» «Papà. Quando ero piccola gli chiesi perché facesse un lavoro così pericoloso, e lui cercò di convincermi che non era così. Mi disse che i soldati chiamano il combattimento "vedere l'elefante" e che assomiglia a un grande circo.» «Per molti aspetti era proprio così.» «Più tardi, quando provai anch'io, capii meglio.» «Se lei non gli somiglia, che tipo di fotografa è? Perché lo fa?» «Perché devo. Non ricordo di avere fatto una scelta cosciente.» «Cerca di cambiare il mondo?» Rido di nuovo. «All'inizio. Adesso non sono più così ingenua.» «Lei ha fatto molto più della maggior parte di noi. Lei cambia la mentalità della gente, fa vedere loro le cose da un nuovo punto di vista. Secondo me è la cosa più difficile.» «Mi vuole sposare?» Ride e mi dà un colpetto sulla spalla. «Ha davvero così bisogno di conferme?» «Quest'anno è andata proprio da schifo.» «Gli ultimi due anni sono stati proprio da schifo anche per me. Benvenuta nel club.» Il suo cellulare riprende a suonare. Lui lo ignora, ma questa volta il trillo non cessa, e lui finisce per prenderlo in mano e per guardare il display. «È Baxter da Quantico.» Preme "Invio".
«Pronto, Kaiser.» Mentre ascolta assume un'espressione sempre più rigida. «Va bene. Lo faccio.» Riaggancia e ripone gli avanzi nel sacchetto. «Cos'è successo?» «Baxter vuole che rientri in ufficio.» «Come mai?» «Non lo so, ma mi ha detto di portarla con me. Stanno preparando un collegamento video con Quantico, e vuole che ci sia anche lei.» Il cuore sobbalza. «Oddio. Pensa che abbiano trovato qualcosa su Jane?» «È inutile tirare a indovinare.» Butta i sacchetti nel vicino cestino della spazzatura. «Baxter sembrava nervoso. Deve essere saltato fuori qualcosa.» CAPITOLO SETTIMO L'ufficio dell'FBI si trova al terzo piano, ed è stato progettato in modo tale da fare vedere a chi entra solo corridoi e porte, a meno che non si varchi una soglia. Alcune porte sono aperte e sento che c'è gente che mi guarda. Davanti a una porta con il cartello «Patrick Bowles, Agente Speciale Responsabile», Kaiser mi rivolge un'occhiata d'incoraggiamento. «Non sia timida. Dica semplicemente ciò che pensa.» «È quello che faccio di solito.» Lui annuisce e mi conduce in una grande stanza a forma di L con un'ampia finestra che si affaccia sul Pontchartrain. Nell'angolo centrale c'è una scrivania, e dietro a essa siede un uomo dall'aspetto florido, brizzolato e con vivaci occhi verdi. Prima di arrivare qui, Kaiser mi ha spiegato che l'Agente Speciale Responsabile Bowles è il più importante rappresentante dell'FBI in Louisiana, alla guida di 150 agenti e 100 persone di supporto. Bowles, di formazione avvocato, ha lavorato in altri sei uffici ed è stato a capo di diverse indagini importanti. A giudicare dall'aspetto esteriore, l'ASR è l'antitesi di John Kaiser: indossa un abito con gilet che non si trova in un grande magazzino, gemelli d'argento ai polsini della camicia e una cravatta di seta. Quando si alza per salutarmi, vedo che le sue scarpe devono essere per lo meno di Johnston & Murphy. «La signora Glass?» mi dice porgendomi la mano. «Sono Patrick Bowles.» La voce ha un lieve accento irlandese. Mi fa pensare all'Irish Channel, che adesso è abitato da cubani e da gente di colore, e non da immigrati ir-
landesi. Per evitare situazioni spiacevoli gli stringo la mano e gli rivolgo un cauto sorriso. «Prego si accomodi» aggiunge, dirigendosi verso un gruppetto di poltrone. Guardando alla mia sinistra vedo Lenz su un divano. Il buon dottore non ha l'aria troppo felice, ma si alza e ci raggiunge. Lui e Kaiser non si salutano. Kaiser si siede su una sedia di fronte alla mia e Lenz sceglie il divano lungo la parete alla mia destra. Bowles ritorna alla scrivania. Sembra un tipo che non ama i preamboli, e la cosa mi sta bene. «Avete qualche notizia di mia sorella?» chiedo. L'ASR, ignorando la mia domanda, mi dice: «Conosce Daniel Baxter dell'Unità di Supporto Investigativo?». «Sì, come lei sa.» Lui guarda l'orologio. «Il signor Baxter desidera parlare con noi quattro. Fra trenta secondi saremo in videoconferenza con lui.» Bowles preme un pulsante sulla scrivania, e un pannello di novanta centimetri scorre sulla parete alle spalle di Lenz, rivelando uno schermo piatto a cristalli liquidi. «Proprio come James Bond» commento a bassa voce. Lenz si alza con un sospiro d'irritazione e si appoggia alla lunga finestra a destra della scrivania di Bowles. Io dò un'occhiata a Kaiser, che non lascia trasparire alcuna emozione. Dopo pochi istanti lo schermo diventa blu e sull'angolo inferiore destro compaiono dei numeri intermittenti. «Sopra lo schermo c'è una telecamera» spiega Bowles. «Baxter riesce a vederci tutti grazie al grandangolo.» D'un tratto il volto di Baxter riempie lo schermo e la sua voce si diffonde nella stanza attraverso altoparlanti nascosti. «Salve, Patrick. Salve signora Glass. John. Arthur.» L'immagine è ad alta risoluzione. Mentre parla, il capo dell'USI mi fissa, e io ho l'impressione che sia fisicamente presente nella stanza. «Signora Glass, dal momento in cui ho ricevuto la sua telefonata dall'aereo abbiamo usato tutto il peso del Dipartimento di Giustizia e del Dipartimento di Stato per radunare i dipinti delle "Donne Addormentate" e sottoporli ad analisi. Di solito ci vogliono settimane prima di raggiungere gli accordi necessari, ma vista la situazione di emergenza in cui ci troviamo abbiamo esercitato tutte le pressioni possibili. Al momento abbiamo sei
dipinti. Le analisi sono già cominciate, condotte sia dal nostro personale che da consulenti esterni. La brutta notizia è che non è stata rilevata alcuna impronta digitale.» «Porca miseria» inveisce Bowles. «Ovviamente sulle cornici ci sono centinaia di impronte, ma molto probabilmente sono tutte prive di significato. Abbiamo trovato tracce di talco nella pittura, il che farebbe supporre che l'artista abbia indossato dei guanti chirurgici mentre era all'opera. Anche il dipinto da noi identificato come primo della serie è risultato positivo al talco, quindi pensiamo che l'UNSUB abbia avuto l'intenzione di proteggere la propria identità fin dall'inizio. È uno che sa il fatto suo. Stiamo sottoponendo i dipinti ai raggi X alla ricerca di eventuali informazioni nascoste o fantasmi, ma noi...» «Che cos'è un fantasma?» chiede Bowles. «È un dipinto sotto un altro dipinto» spiega Lenz, intervenendo per la prima volta. «Con i raggi X si possono anche identificare le impronte sulla tela sotto la pittura» continua Baxter. «Forse il nostro UNSUB non è stato altrettanto cauto quando ha fatto gli schizzi, visto che il colore avrebbe presto coperto la superficie.» «Non ci conterei» interviene Kaiser. «Gli artisti conoscono l'analisi con i raggi X.» «Mi fa piacere essere informata su questi fatti» dico rivolta allo schermo. «Ma dove portano? Perché questa fretta?» «Un momento di pazienza» mi risponde Baxter. «Abbiamo concordato che ci vengano inviati a Washington otto dipinti. I proprietari di altri sei - tutti in Asia - hanno acconsentito a lasciare studiare i loro dipinti dalla scientifica sul posto. In questo preciso momento le squadre si trovano già in viaggio.» «Ne restano cinque» commenta Kaiser. «Il totale è diciannove, no?» Baxter annuisce. «Gli altri cinque appartengono a un certo Marcel de Becque.» «Un francese?» chiede Baxter. Qualcosa scatta nel mio cervello, qualcosa che mi aveva detto Christopher Wingate. «La cosa è leggermente più complessa» spiega Baxter. «De Becque è nato in Algeria nel 1930, ma è cresciuto in Vietnam. Il padre era un uomo d'affari francese che aveva investito i suoi capitali in piantagioni di tè.» «Adesso lui vive nelle Isole Cayman» concludo io.
«Come fa a saperlo?» mi chiede Baxter in tono seccato. «Me ne aveva parlato Wingate.» «De Becque non ha intenzione di mandarci i suoi dipinti?» chiede Kaiser. «Non solo. Non vuole nemmeno che i nostri esperti vadano nella sua proprietà alle Cayman per esaminarli.» Kaiser e Lenz si scambiano un'occhiata. «Che motivo ha addotto?» chiede lo psichiatra. «Che non era comodo.» «Francese figlio di puttana» ringhia Bowles. «Cosa fa alle Cayman? Probabilmente si nasconde da qualcosa.» «Proprio così» conferma Baxter. «Nel 1975, mentre noi stavamo portando via con gli elicotteri gli ultimi americani rimasti sul tetto dell'ambasciata di Saigon, de Becque se la filava su un aereo privato. Aveva venduto le sue piantagioni poco prima dell'offensiva del Tet, cosa sospetta già di per sé. Aveva legami con gente dei servizi segreti di entrambi gli schieramenti, e di sicuro aveva il suo tornaconto facendo il doppio gioco. Si dice che sia stato pesantemente coinvolto in attività economiche non ufficiali per tutta la durata del conflitto.» «Trafficava nel mercato nero» puntualizza Kaiser con evidente disgusto. «Quattro anni fa,» continua Baxter «Marcel de Becque fu implicato in una truffa alla borsa di Parigi, che aveva a che fare con una falsa scoperta di giacimenti di platino in Africa. Dovette darsela a gambe, ma l'affare gli fruttò quasi cinquanta milioni.» Bowles dalla scrivania emette un fischio. «I francesi non possono chiederne l'estradizione dalle Cayman perché lui a un certo punto si stabilì in Quebec e ottenne la cittadinanza canadese. Tra Canada e Isole Cayman non c'è trattato di estradizione. Noi possiamo farlo estradare dalle Cayman, ma lui non ha commesso alcun crimine in suolo statunitense. Non possiamo fare alcuna pressione su di lui.» «Per quanto ne sappiamo,» dice Bowles «se avessimo prove sufficienti per emettere un ordine di cattura per favoreggiamento, potremmo intervenire e portarlo qui usando le nuove disposizioni.» «Pat, non è possibile al momento» commenta Baxter. Kaiser inaspettatamente dà voce ai miei pensieri. «Cosa centra tutto questo con Jordan Glass?» Baxter si rivolge di nuovo a me. «Il signor de Becque ha fatto una proposta insolita. Mi ha detto di persona che permetterebbe alle sue "Donne
Addormentate" - le ha chiamate così - di essere fotografate, non esaminate dalla scientifica, solo se il lavoro fosse fatto da Jordan Glass.» Nella stanza scende il silenzio, e un brivido mi attraversa la schiena. «Perché dovrebbe volere proprio me?» «Speravo che potesse dirmelo lei» aggiunge Baxter. «Forse lui è l'assassino» commenta Bowles. «Ha ucciso Jane Glass; adesso ha scoperto che c'è un gemella, e vuole prendere anche lei. Vuole fare il paio.» Lenz commenta con voce carica di disprezzo: «Per favore, limiti le sue teorie a soggetti che le sono familiari, come le rapine in banca». «Arthur» ammonisce Baxter. Bowles è così paonazzo che sembra sul punto di farsi scoppiare un'arteria. «De Becque ha settant'anni» spiega Baxter. «Non rientra certo nel profilo del serial killer.» «Forse non si tratta di omicidi in serie» interviene Kaiser. «E de Becque potrebbe essere l'individuo dietro la scelta delle vittime. Dobbiamo scoprire se è venuto a New Orleans negli ultimi otto mesi e, se c'è stato, con quale frequenza.» «De Becque ha un jet personale» interviene Baxter. «Un Cessna Citation.» Kaiser solleva le sopracciglia. «Stiamo cercando di rintracciarne gli spostamenti.» Lenz si concentra su Kaiser. «Credi proprio che un assassino - o un rapitore - che fino a questo punto è stato così attento inviterebbe la sua prossima vittima nella sua tana tramite l'intervento dell'FBI?» «Perché no?» risponde Kaiser, «sarebbe uno scherzo. L'ultimo. Sta invecchiando. Sa che abbiamo scoperto il legame tra le sue vittime e i dipinti. Ha ucciso, o fatto uccidere Wingate, dunque non ha più uno sbocco sul mercato. In un modo o nell'altro, sa che non gli è rimasto molto tempo. Così decide di raggiungere la fama grazie alla morte. Assassinio-suicidio con una persona famosa.» Nonostante l'antipatia tra i due, lo psichiatra pare prendere in esame la teoria di Kaiser. «Se è un suicida, perché preoccuparsi di uccidere Wingate?» «Un riflesso automatico. Come chi uccide qualunque serpente gli capiti a tiro. Percepisce una minaccia e la neutralizza prima ancora di avere analizzato l'effetto che potrà avere su di lui.»
Lenz serra le labbra pensoso. «Il jet di de Becque è andato a New York ieri?» «No» risponde Baxter. «Nelle ultime ventiquattr'ore non ha lasciato l'isola di Grand Cayman. Ne siamo certi. Stiamo controllando i voli di linea.» «È inutile» borbotta Lenz. «De Becque dice che manderà il suo jet a prendere la signora Glass e la sua attrezzatura» dice Baxter. «La fregatura è che deve andare da sola.» Kaiser sembra incredulo. «Spero non stiate prendendo la cosa in considerazione.» «John, noi dobbiamo considerare...» Kaiser si rivolge a Lenz. «Da quanto tempo sei a conoscenza di de Becque?» «So quello che ci è stato detto ora, niente di più niente di meno. È la prima volta che ne sento parlare» risponde calmo Lenz. Ma non si tratta proprio di una negazione. «Ci sto» intervengo io. Nella stanza cala di nuovo il silenzio. «Se lei accetta,» dice Baxter «non sarà alle condizioni di de Becque.» «Non deve accettare in nessun caso» commenta Kaiser. «Laggiù non abbiamo alcun controllo.» «John, noi dobbiamo vedere quei dipinti.» «Se lei va con uno dei nostri aerei, potremmo trasportare la HRT, la squadra di recupero ostaggi. Lei va a casa di de Becque con i microfoni, e se le cose si mettono male, gli uomini possono intervenire e prelevare entrambi, sia Glass, sia de Becque.» «Se le cose si mettono male?» ripete Kaiser. «Vuoi dire se de Becque le spara un colpo in testa? Allora la HRT, che si trova all'aeroporto, si incammina verso la tenuta?» «Non sprecare fiato» ironizza Lenz. «Sta parlando di invadere un paese straniero.» «Ne parleremo prima con gli inglesi» spiega Bowles. «Le Cayman sono ancora una colonia britannica.» «Buon Dio» borbotta Lenz. Lo psichiatra deve avere dimenticato dove si trova, oppure crede di essere al sicuro grazie alla protezione di Baxter. «Vediamo se ho capito bene» dico rivolta a Kaiser. «Lei crede che un settantenne vada in giro per New Orleans rapendo ventenni e trentenni? Senza lasciar alcuna traccia? Mia sorella ogni giorno correva per cinque
chilometri e faceva pesi. Poteva fare sputare l'anima alla maggior parte dei settantenni, scusate il linguaggio esplicito.» «A settant'anni non si è così vecchi» commenta Lenz, che si sente punto sul vivo. «Ci sono uomini di settant'anni in condizioni fisiche eccellenti.» «E poi dimentica la ferita, trovata sulla vittima a Dorignac» aggiunge Kaiser. «Ma se c'è dietro de Becque, lo immagino nelle vesti di committente dei dipinti, che paga una o più persone perché rapiscano le donne per lui, e un artista perché le ritragga. Un tipo come quello? Un espatriato ricercato? Con tutta probabilità la sua proprietà pullula di guardie del corpo: soldati israeliani in pensione, ex paracadutisti o ex legionari, forse addirittura le forze speciali francesi.» «Uno scenario di classe» osserva Lenz. «Crede che de Becque sia il pittore?» chiede Bowles. «È un collezionista, non un artista» afferma Lenz in tono sentenzioso. «Ma se ha commissionato le opere, perché ne ha solo sei? Perché non tenerle tutte?» «Potrebbe venderle» dice Baxter. «Un tizio che vale cinquanta milioni?» chiede Bowles. «Uno schema complesso» ipotizza Kaiser. «Quello di capovolgere il mercato dell'arte. Per puro piacere. Per qualche fantasia distorta che ci sfugge.» Non riesco a capire che cosa ognuno di loro sostenga. Benché Lenz e Kaiser non si piacciano, ognuno di loro stima le opinioni dell'altro, e Baxter li rispetta entrambi, visto che non interrompe la discussione. Mentre battibeccano, mi viene in mente qualcosa. «Wingate mi disse che de Becque comprò le prime cinque "Donne Addormentate"» dico a Baxter. «Come ha fatto a cercare le tracce di talco nella prima opera?» «I quadri non sono stati venduti nell'ordine in cui furono dipinti» risponde lui. «Noi abbiamo esaminato il primo quadro realizzato; uno dei più astratti. I primi a essere venduti sono stati quelli più realistici, che hanno innescato il fenomeno.» «Il suo periodo Nabis» spiega Lenz. «I Nabis» gli faccio eco io. «Wingate li menzionò. Dal termine ebraico "i profeti".» «Proprio così.» «De Becque sa che collaboro con voi?» chiedo.
«Pare di sì» mi risponde Baxter. «Come diavolo fa a saperlo?» domanda Kaiser. «Non so, John.» Kaiser si gira verso Bowles. «Che livello di segretezza avete usato?» L'irlandese serra le labbra pensieroso. Dopo tutto lui è il capo di Kaiser. «Se c'è stata una fuga di notizie, non è partita dai nostri.» Né Kaiser né Lenz sembrano convinti. «Allora, cosa facciamo?» chiede l'ASR. «Io vado a Grand Cayman» dico loro. «In un modo o nell'altro.» Lenz fa un cenno di approvazione, ma Kaiser mi guarda con un'espressione dura. «Questo non è un viaggetto in Somalia con le credenziali della stampa in tasca.» Adesso ho il viso paonazzo. «Agente Kaiser, il suo desiderio di proteggermi mi lusinga, ma non credo che possa fare procedere l'indagine.» «Ha ragione» interviene Lenz. «Ecco cosa faremo,» dice Baxter in tono conclusivo «lasceremo la signora Glass libera di fare il suo lavoro. Sappiamo come la pensa. Non ci resta che decidere la migliore strategia da seguire.» «Lei ha bisogno di protezione» afferma Kaiser. «Noi non abbiamo alcuna idea di ciò che sta succedendo in questo caso, né abbiamo alcuna idea sul movente. Ci potrebbero essere degli uomini di de Becque a New Orleans, pronti a rapirla o ucciderla in qualsiasi momento.» «D'accordo» ammette Baxter. «Patrick, potresti assegnare uno dei tuoi agenti alla signora Glass finché non ci mettiamo in contatto con lei?» Bowles fa un cenno d'assenso. «Signora Glass,» riprende Baxter «io apprezzo la sua decisione di portare a termine quest'impresa e, se l'agente Kaiser la conoscesse bene come la conosco io, si renderebbe conto che è inutile discutere con lei.» Bowles guarda Kaiser. «John, portala fuori e trovale una guardia del corpo. Qualcuno di cui ti fidi.» Kaiser si alza e se ne va senza nemmeno guardarmi. Io mi alzo e dico: «Signori», con tutto l'aplomb che ho acquisito lavorando in un settore dominato dagli uomini, poi lo seguo fuori. Kaiser mi aspetta nell'ingresso con la mascella serrata. «Il suo lavoro le ha ottenebrato la capacità di valutare i rischi» dice. «Lei crede che, essendo stata su qualche campo di battaglia, le isole Cayman siano una passeggiata. Ma c'è una differenza. In zona di guerra il nemico
del giornalista è la sfortuna. Può ricevere una pallottola vagante o una scheggia di granata, ma nessuno cerca sul serio di farlo fuori. Invece potrebbe essere l'unico pensiero di de Becque. Se ne rende conto? Appena varcata la soglia lui le potrebbe piantare un coltello in gola e riderle in faccia.» «Ha finito?» «No, se lei non ha ancora cambiato idea. Possiamo avere le fotografie dei quadri in qualche altro modo. Non è affar suo correre rischi simili.» «Agente Kaiser, lei ha una sorella?» «No.» «Un fratello?» «Si.» «Allora perché sta a discutere?» Lui sospira e guarda il pavimento. Mentre lo supero afferra la mia spalla. «E la protezione?» «Mi trovi qualcuno che non sia un robot e la cosa è fatta.» Gli dò un colpetto sul gomito e gli dico. «Non sono mica stupida, sa?» «Che progetti ha per il pomeriggio?» «Comprare qualche regalo per i miei nipotini. Questa sera dovrei stare da loro. A casa di mio cognato.» «Dove sparì sua sorella. Nel Garden District.» «Il che dimostra che nessun quartiere è sicuro, vero? A meno che non ci si trasferisca sull'altra sponda del lago. Lei dove abita?» «Sull'altra sponda del lago, dove vive la maggior parte degli agenti.» «Che cosa ci dice sulla vostra capacità di combattere la criminalità?» Kaiser si dirige verso l'ascensore e io lo seguo. «Gli omicidi non sono di nostra competenza» dice lui. «Eccetto quelli molto speciali.» «Proprio così.» «Penso che lei non possa farmi da guardia questo pomeriggio?» Lui ride. «No, ma ho in mente qualcuno in gamba.» «Un tipo tosto?» «Perché dà per scontato che sia un uomo?» «Va bene, è una tosta?» «Il suo hobby sono le gare di tiro con la pistola. È un membro della SWAT.» «Cercherà di sedurmi?» Kaiser aggrotta le sopracciglia, ma lo sguardo è divertito. «Se lei fosse
nell'FBI, un'osservazione come questa le costerebbe una punizione.» «Ma io ne sono fuori.» «Lei intende dire che le donne in carriera possono essere lesbiche?» «Ne ho incontrata qualcuna.» Lui si ferma nel corridoio e mi scruta. «Lei stessa corrisponde piuttosto bene alla descrizione.» «È così, vero?» Adesso lui guarda la mia mano sinistra. Gli uomini impiegano più tempo a chiedersi lo stato civile di una donna. Vedendo che non porto nessun anello alza le sopracciglia. Non posso fare a meno di sorridere. «Non si preoccupi, agente Kaiser. Sono della parrocchia giusta. Adesso mi faccia conoscere la mia guardia del corpo.» Lui supera gli ascensori e prende le scale. Lo seguo al piano inferiore e ci troviamo in un vero e proprio alveare con tante cellette di vetro trasparente e un via vai di persone di ambo i sessi vestite con cura. Dopo pochi secondi noto ciò che sopra erano riusciti a nascondere: la sede dell'FBI di New Orleans è un edificio in stato d'assedio. Gli agenti hanno un'espressione tormentata, e da ogni gesto traspare la loro frustrazione. Da un anno e mezzo - due torride estati - questi uomini e queste donne hanno lavorato invano, mentre la sequenza di vittime si allungava provocando la paura e il panico in una città che all'inizio degli anni Novanta si era abituata ad avere il più alto tasso di omicidi della nazione. Al di fuori di questo edificio mia sorella non è che un vago ricordo. Ma qui, in questa cittadella di cubicoli, Jane non è stata dimenticata. Qui l'impotenza genera una vergogna che grava come un macigno su questi soldati in abiti civili che non hanno la più pallida idea di chi sia il nemico. Mentre attraverso la stanza a fianco di Kaiser, ricevo degli sguardi che vanno dalla sorpresa al risentimento. "Eccola qui" si dicono. "Quella che ha trovato i quadri. La fotografa. Quella a cui hanno preso la sorella. Quella che è stata tra le fiamme."... Nell'angolo dell'enorme stanza c'è un ufficio con vere e proprie pareti e una porta aperta. Insieme a Kaiser mi ritrovo di fronte a un uomo in maniche di camicia seduto alla scrivania e intento a fare una telefonata. L'ufficio è un quarto di quello dell'ASR al piano superiore, ma la voce di chi lo occupa è autorevole. Quando riaggancia strizza l'occhio a Kaiser. «Cosa bolle in pentola, John?» gli chiede, con lo sguardo di chi è pronto per qualsiasi cosa.
«Bill, ti presento Jordan Glass. Signora Glass, Bill Granger, capo della squadra investigativa dei reati violenti.» Granger si sporge in avanti e mi stringe la mano. «Mi dispiace per sua sorella, signora Glass. Stiamo facendo tutto il possibile.» «Grazie, capisco.» «L'ASR vuole assegnare alla signora Glass un agente per un paio di ore,» spiega Kaiser «forse anche per la notte. Non c'è una minaccia imminente, ma vorremmo che fosse armato. Avevo pensato a Wendy Travis. Puoi farne a meno per un po'?» Granger si morde il labbro inferiore, poi annuisce e prende il telefono. «Credo proprio di poterne fare a meno per qualche ora.» Tamburella le dita sul ginocchio e poi dice: «Potrei vederti un momento?... Grazie». Dopo avere riagganciato, dà uno sguardo d'intesa a Kaiser. «Ho sentito che su c'è uno strizzacervelli di Quantico, e che Baxter stesso potrebbe raggiungerci. Avete qualche piano?» «Ne stiamo organizzando uno.» «I miei possono fare qualcosa?» «Spero proprio di sì.» Si sente bussare alle nostre spalle, mi giro e vedo entrare una donna giovane, leggermente più bassa di me, ma molto più in forma. È un'attraente ragazza americana dall'aria pulita. «Signora Glass,» dice Granger «le presento l'agente speciale Wendy Travis. Agente Travis, la signora Glass. Vorrei che passasse la giornata con lei. È un incarico di protezione.» L'agente Wendy mi rivolge un sorriso vivace e mi porge la mano. La sua stretta è molto più ferma di quella della maggior parte delle donne in carriera. «Mi permetta di prendere la borsa» dice. «E sono pronta per andare.» Mi aspetto che lei esca, invece resta sulla soglia, gli occhi fissi su John Kaiser. Kaiser sorride e dice: «Grazie, Wendy. Sapevo che eri la persona adatta». Raggiante di gioia, l'agente Wendy annuisce e si avvia a passo deciso verso uno dei cubicoli. Quando mi giro verso la scrivania vedo Kaiser arrossire e Bill Granger sorridere in modo ironico e scuotere la testa. CAPITOLO OTTAVO
Sono in St. Charles Avenue sulla Mustang a noleggio e cerco di trovare il coraggio di bussare alla porta di mio cognato. La mia guardia del corpo si trova a trenta metri di distanza, sotto un'enorme quercia. L'agente Wendy si è rivelata una persona a posto, e io sento un senso di sicurezza che non provavo da anni. Non mi ha perso di vista neppure quando mi sono fermata a fare acquisti per i miei nipoti: Henry, otto anni, chiamato come il padre di mio cognato, Marc Lacour, e Lyn, sei anni, che porta il nome di mia madre. Da quando me ne sono andata da New Orleans undici mesi fa, li ho visti solo una volta. Mi ero ripromessa di andarli a trovare più spesso, ma si trattava di un proposito difficile da mantenere. Sono identica alla loro mamma scomparsa e ogni volta che mi vedono finiscono per piangere e sentirsi confusi. Wendy sta fissando la Mustang, augurandosi che io esca. Sa che sono nervosa. Un'ora fa l'ho convinta a portarmi in un piccolo bar alla moda in Magazine. Lei non ha preso niente, mentre io mi sono fatta due drink. Per distrarmi le ho chiesto notizie dell'ufficio di New Orleans. Lei ha cominciato con l'ASR Bowles. Ma la cosa interessante è stata il modo in cui Wendy ha parlato di John Kaiser. Pare che Kaiser sia il bello dell'ufficio. Tutte le assistenti e le segretarie smaniano per lui, che invece non ha mai chiesto a nessuna un appuntamento, non ha mai dato una pacca su un fondoschiena, né una strizzatura a una spalla, cosa che ha colpito moltissimo Wendy. Anche la biografia di Kaiser è interessante. Faceva lo sceriffo in Idaho, quando Daniel Baxter fu chiamato dal collega di una contea vicina per consultarsi su una serie di omicidi che avevano raggiunto anche la contea di Kaiser. Con l'aiuto di Baxter, Kaiser riuscì a catturare l'assassino, dimostrandosi particolarmente dotato nell'interrogare i sospetti e ottenere una confessione. Baxter incoraggiò il giovane sceriffo a presentare domanda per l'Accademia dell'FBI. Contrariamente alle aspettative, il campagnolo dell'Idaho venne ammesso. Dopo avere lavorato a Spokane, Detroit e Baltimora, Kaiser fu scelto da Baxter per l'Unità di Supporto Investigativo. Lì il suo stato di servizio è stato superlativo fino al crollo. Quando ho detto a Wendy che conoscevo già quella parte della storia, lei non è riuscita a nascondere la sua diffidenza. Come avevo fatto, si era chiesta, a venire a sapere in un giorno qualcosa che lei aveva impiegato settimane a scoprire?
«La moglie lo aveva lasciato» mi disse. «Lui glielo ha detto?» «No.» Un sorriso compiaciuto. «Non riusciva a sopportare i suoi orari. È un fatto piuttosto comune. Adesso sono sempre più frequenti i matrimoni all'interno del Bureau. Ma lui neanche allora smise di lavorare per risolvere la situazione. La lasciò andare e basta.» «Bambini?» Lei scosse la testa. «Mi ha detto di essere stato in Vietnam. Lei ne sa qualcosa?» «Non ne parla mai. Ma Bowles ha raccontato al mio comandante della SWAT di avere visto lo stato di servizio di John, che si è guadagnato un sacco di medaglie. Bowles pensava che noi dovessimo cercare di farlo entrare nella squadra. Il mio comandante lo ha avvicinato, ma John non era interessato. Cosa ne pensa?» «Non mi stupisce. Un uomo che ha partecipato a molte battaglie non si fa illusioni sulla possibilità di risolvere i problemi con l'uso delle armi.» Wendy si morse il labbro chiedendosi se non fosse stato un insulto. «Lei c'è stata?» mi chiese. «In battaglia, voglio dire. Fotografie e tutto il resto?» «Sì.» «È mai stata colpita?» «Sì.» Salii immediatamente di due livelli nella sua stima. «È stato doloroso?» «Non lo consiglio di sicuro. Una volta mi sono anche presa un colpo di granata nel fondoschiena. Quello fece molto più male del proiettile. Roba che scotta.» Wendy e io scoppiammo a ridere, e quando finimmo di parlare, sapevo che era cotta di Kaiser e che sebbene io le piacessi, mi considerava una guastafeste della peggior specie. Ora l'effetto del gin se ne è quasi andato, e se non scendo da questa macchina adesso, non lo farò mai più. Mentre esco con tutti i miei pacchetti e mi dirigo verso la casa di mio cognato, percepisco il sollievo di Wendy. In realtà il termine casa è impreciso. Jane e il marito scelsero una di quelle enormi abitazioni in St. Charles Avenue che altrove sono chiamate palazzi. In questa parte di St. Charles le cancellate in ferro battuto costano più di una casa nelle altre zone della città. Salgo i gradini che conducono al portico e scuoto il battacchio di ottone contro la porta di quercia. L'eco dà la misura della vastità dei locali che si trovano al di là della porta. Mi aspetto di veder comparire Annabelle, la
cameriera di casa Lacour, invece alla porta c'è proprio Marc. Si tende a credere che le persone siano dotate o di ricchezza o di bellezza, ma Marc Lacour smentisce questo pregiudizio: è un uomo dai capelli biondi, gli occhi azzurri, un volto delicato e un fisico muscoloso che lo fa sembrare di dieci anni più giovane della sua età, quarantadue anni. Quando mi vede sorride, poi mi attira a sé in un abbraccio che io ricambio. Profuma leggermente di colonia. «Jordan» mi dice distaccandosi. «Sono felice che tu sia qui.» Mi fa entrare nell'enorme ingresso, poi chiude la porta e mi conduce in soggiorno. È tutto perfettamente in ordine. Mi sento quasi in colpa a mettere i miei regali sul pavimento, come se turbassi qualche equilibrio. Jane non era così precisa. Credo che la vita domestica sia ritornata agli schemi dell'infanzia di Marc. Lui non conosce altro, ma la freddezza dell'ambiente mi fa stare male se penso ai bambini. «Henry e Lyn sono di sopra?» chiedo appollaiata su una poltrona a schienale alto che dovrebbe avere un cordone tra i braccioli come in un museo. «Sono dai miei genitori.» Marc si siede di fronte a me sul sofà. «Oh. E quando tornano?» «I miei hanno comprato una casa qui vicino, sulla stessa strada. Porteranno i bambini non appena telefono.» Okay. «Marc, cosa sta succedendo?» «Volevo parlarti prima che tu li incontrassi.» «C'è qualcosa che non va?» «No, ma c'è qualcosa che dovresti sapere.» «Cosa?» Fa una pausa da vero avvocato, poi parla con il tono di voce più profondo che riesce a trovare. «Jordan, i bambini sanno che Jane è morta.» «Cosa?» «Ho dovuto dirglielo. Non avevo altra scelta.» È davvero incredibile come riusciamo a illuderci. Da mesi ripeto a me stessa di avere pianto e di avere accettato la morte di mia sorella. Ma adesso, davanti a una decisione presa seguendo quella stessa premessa, ho voglia di urlare che non è vero. La voce che esce dalle mie labbra potrebbe essere quella di una bimba di quattro anni. «Ma... tu non sai se lei è morta.» Marc scuote la testa. «Quanto tempo impiegherai ad accettare la verità? Tuo padre è morto da quasi trent'anni e tu lo stai ancora cercando. Io devo
crescere i bambini, e loro non possono aspettare così a lungo.» «Non è giusto, Marc.» «Cos'è giusto? Credevano che Jane stesse soffrendo da qualche parte in balia di una "persona cattiva". Che non potesse scappare o ritornare a casa. Stavano per impazzire. Non facevano altro che stare seduti alla finestra, aspettando di vederla riapparire. A un certo punto ho detto loro che Dio ha fatto andare la mamma in cielo da lui. Che lei non era con una persona cattiva, ma con gli angeli.» «Come hai detto che è morta? Devono avertelo chiesto.» «Ho raccontato che si era addormentata senza più svegliarsi.» Non so cosa dire. Marc ha un'aria decisa. «È meglio così, Jordan, credimi. Non voglio che tu dica niente ai bambini di quello che sta succedendo: i quadri, l'indagine; niente di niente. Niente che possa dare loro la folle speranza che la mamma ritorni. Perché non sarà così. Quelle donne sono tutte morte.» Forse è perché non ho figli. Forse l'impegno quotidiano di allevare dei bambini non può essere svolto con una spada di Damocle sulla testa. «Voglio che tu faccia parte delle loro vite» dice Marc. «Ma devi capire le regole fondamentali. Per questa famiglia Jane è morta. Abbiamo anche fatto celebrare una messa di suffragio.» «Cosa? Non mi avete detto niente.» «Eri in Asia, nessuno sapeva dove.» «La mia agenzia avrebbe potuto rintracciarmi.» «Pensavo che per i bambini sarebbe stato meno traumatico se al funerale non fosse comparsa d'improvviso la copia esatta della loro mamma.» «Non ci posso credere.» Di colpo mi pento della decisione presa mesi fa. «Marc, c'è una cosa che non ti ho mai detto. Otto mesi fa ricevetti una telefonata dalla Thailandia. C'erano molte interferenze, quindi potrei essermi sbagliata, ma credetti che fosse Jane.» «Cosa?» «Lei disse che aveva bisogno d'aiuto, che papà non poteva fare niente. Poi venne un uomo al telefono che disse qualcosa in francese e aggiunse, in inglese: "È solo un sogno" e riattaccò.» «Perché non me l'hai mai detto prima?» «Non volevo farti stare male.» «Quando è arrivata? Di giorno o di notte?» «Perché?» «Perché otto mesi fa tu non ti alzavi dal letto: la tua piccola vacanza in
pillole, ricordi?» Mi arrabbio, ma cerco di non darlo a vedere. «Sì, ma chiesi all'FBI di controllare alla società dei telefoni. Ricevetti davvero una telefonata dalla Thailandia nel cuore della notte. Da una stazione ferroviaria.» Marc mi guarda ancora un po', poi si gira verso un ritratto dei genitori appeso alla parete. Sembrano ricchi e distanti. «Fai ciò che devi, Jordan. È quello che facciamo tutti. Ma non farmi sapere niente. A meno che tu non abbia delle prove concrete che Jane o una delle altre donne sia viva. Tutto il resto è solo sofferenza.» «Parli come un vero avvocato.» Le sue guance arrossiscono. «Credi che non mi manchi? Ho sofferto più...» Si interrompe, prende il cellulare dalla tasca e chiama un numero memorizzato. «Sono io... Ti vengo incontro alla porta.» Riattacca e si alza dal sofà. «Mi sorprende che tu mi permetta di vederli.» «Te l'ho detto: voglio che tu faccia parte di questa famiglia. Ecco perché ti ho chiesto di stare con noi. Sei una persona fantastica, e un grande esempio per Lyn.» «Lo credi davvero?» «Senti, lasciamo perdere il resto e pensiamo ai bambini.» Il "resto" sarebbe la moglie scomparsa. «Aspetto qui.» Marc sospira ed esce dalla stanza. La verità è che io non so molto sul rapporto tra Marc e Jane. A Jane piaceva dare un'immagine di perfezione. Si sposarono giovani, ma Marc volle diventare padre solo dopo essersi lasciato alle spalle gli anni in cui doveva lavorare quattrocento ore alla settimana per diventare socio dello studio. La cosa preoccupava Jane. Ma quando i figli finalmente arrivarono, lei si dimostrò una madre meravigliosa, e creò per loro l'ambiente caldo e sicuro che noi non avevamo mai conosciuto. Sento il rumore della porta che si apre, poi delle voci sommesse. E su tutte la cadenza di una signora della buona società che ha fumato troppe sigarette. «Non credo proprio che sia la cosa giusta da fare. Ne hanno già passate tante.» Il bisbiglio da avvocato di Marc dice alla madre che lui sa esattamente cosa sta facendo. Poi, Dio mi aiuti, sento lo scalpiccio delle scarpette sul pavimento di legno, seguito da quello delle scarpe di Marc. Sono più agitata di quando sto per incontrare dei capi di stato. Il rumore aumenta, poi cessa, ma la soglia resta deserta. «Avanti» dice Marc dall'ingresso. «Va tutto bene.»
Non succede niente. «Vi ha portato dei regali» aggiunge Marc con una voce allegra. Dallo stipite della porta si sporge un faccino, quello di Lyn, così simile al mio. Mentre lei apre la bocca, alle sue spalle vedo apparire i capelli biondi e gli occhi azzurri di Henry, che batte le palpebre e poi scompare. Faccio il sorriso più ampio possibile e spalanco le braccia. Lyn guarda dietro di sé, forse verso il padre, quindi esce allo scoperto e mi corre incontro. Faccio un enorme sforzo per non piangere, mentre lei mi butta le braccine al collo, come se stesse per affogare, e mi dice all'orecchio: «Mamma, mamma». Mi sciolgo dal suo abbraccio con dolcezza e la guardo negli occhi pieni di lacrime. «Io sono Jordan, cara. Io...» «Lo sa» dice Marc, con le mani sulle spalle di Henry spingendolo verso di me. «Ha detto "Mamma".» «Lyn, sai chi è questa signora?» Lei annuisce seria. «Sei la zia Jordan. Ho visto le tue foto nei libri.» «Ma tu mi hai chiamata "Mamma".» «Tu mi ricordi la mia mamma. Lei è andata in cielo per stare con Dio.» Porto la mano alla bocca per non perdere il controllo, e Marc mi dà una mano spingendo avanti Henry. «Questo giovanotto è Henry, zia Jordan.» «Lo so. Ciao, Henry.» «Ho vinto il primo premio a calcio» annuncia lui. «Davvero?» «Lo vuoi vedere?» «Certamente. Ma ti ho portato un regalo. Preferisci vederlo prima?» Guarda il padre per avere il permesso. «Vediamolo» dice Marc. Indico il pacchetto vicino alla porta. «Sei capace di aprirlo da solo?» «Certo!» Si butta sul pacco e in pochi secondi tira fuori una scatola. «Papà! È un lettore DVD. Guarda! È per la macchina!» «Non è un regalo un po' costoso?» commenta Marc inarcando un sopracciglio verso di me. «È un privilegio delle zie zitelle.» «Direi di sì.» Lyn se ne sta tranquilla vicino alle mie ginocchia e mi sta guardando.
Non chiede neanche se c'è qualcosa per lei. «E questo è per te» le dico, dandole la scatola più piccola che si trova ai piedi della sedia. «Cos'è?» «Aprila.» Lei toglie con cura il fiocco e lo mette da parte, e con questo piccolo gesto mi spezza di nuovo il cuore. È un'abitudine che ha preso da Jane, così come lei l'aveva presa da nostra madre. Finalmente appare la scatola, e Lyn la studia con attenzione. «Cos'è?» «Vediamo se riesci a indovinare. Sai leggere cosa c'è scritto sopra?» «Nick on? Nikon? Coolpix. Nove-nove-zero.» «Perfetto! Lascia che ti aiuti a tirarla fuori.» Apro la scatola, tolgo il polistirolo dall'interno e gliela restituisco. «Cosa pensi che sia?» Lei guarda i due pezzi, poi si sofferma sull'obiettivo più piccolo. «È una macchina fotografica?» «Sì.» Serra le labbra in un'espressione indecifrabile. «È per bambini o per grandi?» «Per grandi. È molto buona. Devi fare attenzione quando impari a usarla. Metti la cinghia al collo così la macchina non cade. Ma non stare troppo attenta. È solo uno strumento. La cosa importante sono i tuoi occhi e quello che vedi nella tua testa. La macchina fotografica ti aiuta solo a fare vedere agli altri quello che vedi tu. Capito?» Lyn annuisce adagio, i suoi occhi brillano. «Papà!» urla Henry. «Qui ci sono due DVD! Iron Giant ed Eldorado!» «Resti davvero qui con noi questa notte?» mi chiede Lyn. «Sì.» «Mi insegni a usarla?» «Certo. Le foto di questa macchina vanno in un computer prima di essere stampate. Scommetto che hai un computer.» «Papà ce l'ha.» «Allora lo prenderemo in prestito finché lui non te ne compera uno. Vero, papà?» Marc scuote la testa sorridendo. «Va bene. Chi è pronto per la cena?» «Hai cucinato tu?» «Vuoi scherzare? Annabelle!» Dopo circa trenta secondi si sente un rumore dei tacchi arrivare dal cor-
ridoio, seguito da una voce di donna, immagino sia un'anziana donna di colore. «Cosa vuole, signor Lacour?» «A che punto è la cena?» «È quasi pronta.» Annabelle appare sulla soglia; non è pesante e lenta come avevo immaginato, ma alta, magra ed efficiente. Non appena mi vede il sorriso benevolo svanisce dal suo viso per far posto a un miscuglio di stupore e di paura. «Annabelle, questa è Jordan» spiega Marc. «Gesù, lo vedo da me» risponde lei a bassa voce. «Bambina, tu sei il ritratto sputato di...» Dà un'occhiata ai bambini, e come se agisse contro la sua stessa volontà, attraversa la stanza e mi si pone dinanzi. Io le prendo la mano e la stringo forte tra le mie. «Dio ti benedica» mi dice. Poi va da Henry e da Lyn, si piega quasi in due, li abbraccia e si riavvia verso la porta. «Quando la cena è pronta puoi andare» le dice Marc. «Buona notte.» «Appena ho tolto le focaccine dal forno,» dice in tono di commiato «vado a casa.» Quando scompare, io commento: «Non pensavo che le facessero ancora». «Sei stata via dal Sud per troppo tempo» ribatte Marc. «Annabelle è la migliore. Non potremmo mai farcela senza di lei.» Quando arriviamo in sala da pranzo la tavola è già imbandita. Una lombata di maiale ricoperta con una salsa di zucchero scuro e miele, focaccine a forma di testa di gatto e insalata. Dopo mesi di cibo orientale, questi profumi dell'infanzia quasi mi stordiscono. Jane è ovunque. Noi due siamo cresciute senza conoscere la porcellana, per cui lei impiegò mesi per scegliere il bel servizio che ho di fronte. Lo stesso dicasi per i cristalli Waterford e gli argenti Reed & Barton. «Che meraviglia, vero?» dico a Henry. «Vieni qui, siediti vicino a me. Lyn, tu siedi da questa parte.» «Ma il tuo posto è a capo tavola» mi dice lei indicandomelo. «Preferisco sedere vicino a te.» Il sorriso di Lyn arriva fino alle orecchie. Lei e Henry si siedono al mio fianco, e incominciamo a mangiare. La nostra conversazione prende presto un ritmo normale, interrotto solo nei momenti di silenzio da un senso di imbarazzo. «È quasi ora di andare a letto» ricorda Marc. «No!» urlano i bambini all'unisono.
«Che ne dici di fare un'eccezione per questa sera?» Marc non sembra convinto, ma alla fine accetta. Torniamo in soggiorno e io dò a Lyn le prime istruzioni sulla macchina fotografica digitale, mentre Henry carica Eldorado sul suo lettore DVD portatile. Sono fiera dell'abilità di Lyn. Scarico sul portatile di Marc le fotografie che ha scattato. I risultati sono buoni, e Lyn non sta nella pelle dalla gioia. Marc cerca di convincere i bambini che è ora di andare a dormire, ma loro non ne vogliono sapere e salgono sulle mie ginocchia. Dopo poco Henry mi si addormenta in grembo. Marc è seduto dall'altra parte della stanza con le gambe appoggiate su un divano; guarda distrattamente un notiziario economico e non vede che Lyn mi fissa con il mento che trema. «Cosa c'è, tesoro?» sussurro. Lei chiude gli occhi, e si mette a piangere nascondendo il viso sul mio seno. «Mi manca la mamma.» Questa volta non riesco a trattenere le lacrime. Non ho mai provato un istinto protettivo così forte. «Lo so, piccola. Manca anche a me. Ma adesso ci sono io con te.» «Ti fermi con noi?» «Certo.» «Quanto?» I suoi occhi sembrano ancora più grandi. «Tutto il tempo che vuoi. Tutto il tempo che serve.» Marc ci guarda. «Cosa succede?» «Niente che non possa passare con qualche coccola» gli rispondo mentre cullo Lyn come meglio posso, visto il peso di Henry. Ma nella mia mente torna la voce sentita al telefono otto mesi fa. "Gesù, fa' che fosse Jane" prego in silenzio. Mezz'ora più tardi io e Marc li portiamo a letto. Da quando Jane è scomparsa, hanno chiesto di dormire insieme, nella camera vicina a quella di Marc. Quando torniamo in soggiorno, Marc apre un'altra bottiglia di vino, che beviamo mentre parliamo di Jane. Marc non scherzava quando diceva di sentirne la mancanza. Mentre scola gli ultimi resti della bottiglia i suoi occhi si riempiono di lacrime. «So che non sei d'accordo con quello che ho raccontato ai bambini circa la morte di Jane, ma cerco solo di rendere le cose più facili per loro.» Annuisco. «Adesso che li ho visti capisco perché l'hai fatto. Ma cosa farai se verrà fuori che ti sei sbagliato?»
Lui sbuffa. «Non crederai mica che quelle donne siano vive?» «In tutta sincerità non so. Mi ero convinta che Jane fosse morta. Ma adesso non ho più intenzione di crederci finché non vedrò il suo cadavere.» «Proprio come con tuo padre» borbotta. «Non ti arrendi mai.» «Vorrei che non lo facessi neanche tu. Almeno in cuor tuo.» «In cuor mio?» Avvicina il calice al petto, e un po' di vino cade sulla camicia. «Negli ultimi tredici mesi ho fatto una vita d'inferno. Se non fosse stato per i bambini, non so se sarei ancora qui.» «Marc...» «Lo so, lo so. Solo autocommiserazione.» «Non volevo dire quello.» Lui non mi ascolta più. Si copre gli occhi e comincia a piangere. Alcol e depressione fanno a pugni. Mi sento a disagio, ma mi alzo e mi avvicino. «So che è difficile. Anch'io ho attraversato momenti terribili.» Lui scuote la testa con decisione, come se volesse ricacciare le lacrime, poi si siede eretto e si asciuga gli occhi con le maniche della camicia. «Porca miseria! Mi dispiace di essermi ridotto così.» Io siedo sul divano e poso le mani sulle sue spalle. «Hai affrontato una delle situazioni peggiori che possa capitare a chiunque. Non puoi pretendere di più da te stesso.» I suoi occhi arrossati mi fissano. «Sembra che non riesca a mettere insieme i pezzi.» «Forse hai bisogno di una pausa. Sei mai stato in vacanza da quando è successo?» «No, il lavoro mi aiuta ad andare avanti.» «Forse ti aiuta a non andare avanti. Non ci hai mai pensato?» Ride come se non avesse bisogno di psicologia spicciola. «Sono contento che tu sia qui» dice. «Non riesco a credere a come hanno reagito alla tua presenza.» «Io non riesco a credere alla mia reazione di fronte a loro. Mi sembrava quasi che fossero figli miei.» «Lo so.» Il suo sorriso svanisce. «Solo... grazie per essere venuta.» Si sporge in avanti e mi abbraccia. La stretta fa bene anche a me, devo ammetterlo. Non ne ho avute molte negli ultimi mesi. D'un tratto sobbalzo, sento qualcosa di umido sul collo. Mi sta baciando il collo. E non è per niente un bacio fraterno. Mi irrigidisco all'istante. «Marc?»
Lui allontana le labbra, ma prima che io riesca a rendermene conto mi bacia sulle labbra. Mi sposto di scatto e gli afferro le braccia per fermarlo. Il suo sguardo implora in silenzio. «Tu non hai idea di cos'è stato senza di lei. Per te non è lo stesso. Io non riesco nemmeno a guardare un'altra donna. In tutte vedo lei. Ma questa sera a tavola, guardando te con i bambini... tu sei quasi lei.» «Io non sono Jane.» «Lo so, ma se lascio vagare un po' la mia mente, è come se tu lo fossi. Toccare te è come toccare lei.» Libera le mani e afferra le mie. «Le tue mani sono le stesse, i tuoi occhi, il tuo seno, tutto.» Mi fissa con sguardo estatico. «Sai cosa vorrebbe dire per me averti per una notte? Solo per una notte. Sarebbe come se Jane fosse ritornata. Sarebbe...» «Basta!» sibilo per paura che si sveglino i bambini. «Mi senti? Io non sono Jane, e non voglio fare finta di esserlo! Non per curare il tuo dolore. Non per i bambini, e soprattutto non nel tuo letto. Nel suo letto. Cristo.» Lui guarda prima il pavimento poi me. «Non sarebbe la prima volta che ti fai passare per lei, no?» È come se mi avesse versato idrogeno liquido nelle vene. Non riesco più a muovermi né a parlare. Solo quando lui mi stringe le mani per riflesso le tiro via. «Di cosa parli?» Lui sogghigna come un bambino che nasconde un segreto. «Lo sai.» Senza accorgermene mi ritrovo con le braccia incrociate sul petto a un metro da lui. «Me ne vado. Vado in albergo. Di' ai bambini che sarò qui di giorno.» Lui strizza gli occhi, poi sembra ritornare un poco in sé. «Non andare. Non volevo farti stare male. Ma sei così bella.» Mentre cerca di avvicinarsi inciampa nel divano. D'istinto andrei verso di lui per aiutarlo, ma non mi muovo. Non voglio peggiorare le cose. «Vado sopra a prendere i bagagli. Tu non muoverti.» «Non essere melodrammatica. Non hai motivo di preoccuparti.» «Marc, non sto scherzando.» Senza aspettare la sua risposta, corro di sopra, afferro la valigia e ringrazio Dio per non averla ancora disfatta. Quando scendo lui è ai piedi delle scale. «Cosa dico ai bambini?» mi chiede. «Non cercare di usarli contro di me. Di' che mi hanno chiamata per un servizio e che ritornerò da loro. Voglio solo dormire altrove.»
Adesso Marc ha l'aria afflitta, ma il tono che ha usato poco fa mi turba ancora. Prima che inizi con le scuse da ubriaco, lo spingo da parte e me ne vado senza aggiungere altro. Non appena tocco il marciapiede, si spalanca la portiera di un'auto lì vicino e una sagoma scura prende forma. «Jordan?» chiede una voce femminile. «Qualche problema?» «Sto bene, Wendy. Ho solo deciso di non fermarmi a dormire.» «Cos'è successo?» La battuta su Wendy che ci prova con me, fatta a Kaiser, mi torna subito in mente. Questa notte qualcuno ci ha provato davvero, ma non avrei mai immaginato che sarebbe stato mio cognato. «Problemi con gli uomini» rispondo a bassa voce. «Capito. Dove andiamo?» «Direi in un albergo.» Lei prende la valigia e si avvia verso la Mustang, poi si ferma. «Uhm, senti... non so che cosa ne pensi degli alberghi, ma da me c'è una stanza in più. E io devo comunque stare con te ovunque tu vada. A casa mia c'è tutto quello che ti può servire.» Ci sono state notti in cui avrei ucciso pur di avere una camera d'albergo. Ho dormito nei crateri scavati dalle bombe, contenta di avere almeno quello. Ma stanotte non voglio stare in un luogo asettico e anonimo. «È quello di cui ho bisogno! Andiamo.» Sto per mettere in moto l'automobile quando sento un suono ripetuto. «Che cos'è?» chiedo guardandomi intorno confusa. «Il cellulare» risponde lei. «Un Nokia. Riconosco il trillo. Li abbiamo in ufficio.» «Ah.» Afferro il marsupio dal sedile posteriore, lo apro e tiro fuori il telefono che Kaiser mi aveva dato negli uffici dell'FBI. «Pronto?» «Signora Glass? Parla Daniel Baxter.» «Che succede?» «Ho parlato con il signor de Becque delle isole Cayman.» «Allora?» «Dice che lei può andare là con il nostro aereo e che può portare con sé un assistente per le luci, eccetera.» «Benissimo. Quando si parte?» «Domani. Alcuni di noi hanno passato l'ultima mezz'ora discutendo sulla persona che dovrebbe farle da assistente. Io sono per un membro della squadra di recupero ostaggi. Se le cose dovessero mettersi male, lui avreb-
be maggiori probabilità di portarla fuori viva.» «C'è qualcuno che non è d'accordo?» «L'agente Kaiser ha un'altra opinione.» Sorrido dentro di me. «Lo sceriffo chi vuole mandare?» Baxter copre il microfono con la mano, ma ponostante gli sforzi lo sento dire: «Ti ha appena chiamato "lo sceriffo"». Dopo avere tolto la mano il capo dell'USI spiega: «Lo sceriffo non vuole mandare nessuno. Vuole venire lui». «Allora lei dovrebbe lasciarlo fare.» «È quello che lei desidera?» «Certo. Mi sento già al sicuro.» «Va bene. Probabilmente partirete domani pomeriggio. Le telefono in mattinata per darle i dettagli del viaggio.» «A domani allora. Wendy si sta occupando di me a meraviglia.» «Bene. Arrivederci a domani.» «Cosa sta succedendo?» mi chiede Wendy dopo che ho riattaccato. «Andrò alle isole Cayman.» «Oh.» Si agita nel sedile. «Cos'era a proposito di uno sceriffo?» «Una battuta. Mi riferivo a Kaiser.» Ci era arrivata anche lei. «L'accompagna lui?» «Pare di sì. Per ragioni di sicurezza.» Lei guarda fuori dal finestrino. «Beata lei» dice alla fine. L'eterno problema delle donne: un minuto fa eravamo buone amiche. Adesso vorrebbe rimangiarsi l'offerta di ospitalità, ma è troppo educata per farlo. Vorrei rassicurare Wendy, e dirle che non ha motivo di preoccuparsi, ma non voglio insultare la sua intelligenza. Metto in moto e vado verso St. Charles Avenue. «Mi dica dove andare.» «Diritto» mi risponde. «Le dirò dove girare.» Percorro un viale alberato e i fari della Mustang trasformano i binari del tram in nastri d'argento. Le foglie sugli alberi sembrano grigie, ma solo una piccola parte della mia mente nota queste cose; l'altra continua a ripetere le parole di Marc Lacour: "Non sarebbe la prima volta che ti fai passare per lei, no?". E poi d'improvviso la voce del dottor Lenz che chiede: "Qual è la cosa peggiore che ha mai fatto?". Se solo si potesse tacere davanti alla propria coscienza. CAPITOLO NONO
La maggior parte dei collegamenti aerei per le isole Cayman parte da Houston o da Miami, ma il jet dell'FBI ha reso tutto più semplice. Sull'aereo, oltre ai piloti seduti davanti, ci siamo io e Kaiser. Il volo verso la Gran Cayman, la più grande delle tre isole della colonia britannica, dura due ore. Siamo in volo da più di un'ora e Kaiser è insolitamente silenzioso. Non credo che ci sia molto da dire, o forse emano abbastanza ostilità da scoraggiare la conversazione. Sento ancora le labbra di mio cognato sul collo. La cosa più difficile da dimenticare è la frase che Marc mi ha detto quando l'ho respinto: "Non sarebbe la prima volta che ti fai passare per lei, no?". Avevo sperato che quel capitolo della mia vita fosse noto solo a mia sorella. Il fatto che Jane lo avesse raccontato al marito mi conferma che non ha mai creduto alla mia versione della storia. Il dottor Lenz un tempo chiedeva ai suoi pazienti: "Qual è la cosa peggiore che ha mai fatto?". Una domanda terrificante. E l'altra: "Qual è la cosa peggiore che le sia mai capitata?". Di cose brutte me ne sono capitate nella vita, e non ho certo voglia di pensarci adesso, ma nelle mie scelte non sono andata spesso contro la mia coscienza. La peggiore circostanza in cui l'ho fatto è stata a diciotto anni. È imbarazzante constatare che nei successivi ventidue anni dalla fine del liceo non ho avuto ragioni più gravi per vergognarmi della mia condotta. Gli anni di tensione tra me e mia sorella raggiunsero il culmine durante l'ultimo anno del liceo, poche settimane prima che la mia storia con David Gresham diventasse di dominio pubblico. Jane si dava un sacco di arie parlando in continuazione di come l'anno successivo sarebbe diventata una Chi-Omega e chiedendo perché non mi dessi una regolata, non mi "conciassi meglio", e non cercassi di sembrare "un po' normale". Quando non mi preoccupavo di come avrei fatto a pagarle l'università alla Ole Miss, facevo ritratti nel mio piccolo studio o raggiungevo di nascosto la casa del mio professore di storia. Se ci penso adesso, vivevo come un fantasma: in classe stavo zitta e dopo la scuola sparivo. Jane sospettava che io fossi lesbica e che me la svignassi nelle ore più strane per incontrare una donna. Durante una discussione piuttosto accesa mi accusò di rovinare le sue possibilità di diventare una Chi-O e di vivere una vita normale. Cercai di convincerla che non ero affatto quello che lei credeva e che sapevo degli uomini molto più di quanto non potesse immaginare. Rincarai la dose buttandole in faccia che se le circostanze fossero state un po' diver-
se, sarei stata io a uscire con Bobby Evans, il ragazzo per bene con cui stava da tre anni, mentre lei avrebbe dovuto lavorare per pagare i conti. Mi guardò incredula: «Tu e Bobby insieme? Hai voglia di scherzare». E scoppiò a ridere. Per qualche motivo la cosa mi ferì profondamente. «Perché no?» chiesi. «Perché sei strana» mi rispose. Due giorni dopo, al ritorno da scuola, trovai un messaggio per Jane sulla finestra; era di Bobby che le chiedeva di incontrarlo nel boschetto dietro lo stadio. Buttai via il foglietto, mi pettinai, misi un paio di orecchini di Jane e una delle sue preziose Lacoste e andai con la sua bici all'appuntamento. Bobby Evans era là con la sua giacca di pelle. Sembrava Robert Redford da giovane. Recitai alla perfezione. Perché lo feci? Forse a modo mio ero gelosa di lei. La strada che porta all'anticonformismo è una via solitaria, e io la stavo percorrendo da troppo tempo. Bobby Evans era uno dei premi per essere una "brava ragazza", il che voleva dire seguire ogni tradizione del Sud con la rigidità di una vergine vittoriana. Mentre parlavamo, Bobby camminava verso gli alberi e io capii che era una loro abitudine. Arrivati all'ombra mi baciò, prima dolcemente, poi con sempre più foga. Mi palpava i seni da sopra la maglia e premeva il suo bacino contro il mio. Un'esperienza molto diversa da quella che avevo con David Gresham. Quando gli lasciai infilare la mano sotto la maglia capii che non si erano mai spinti oltre. Lo capii dal modo in cui lui abbassò lentamente la mano verso la mia cintura. Lui si aspettava un "No", un "Non ancora" o un "Vorrei, ma non possiamo". Io lo lasciai fare. Ma dopo avermi toccata per qualche minuto, si fermò. Poi si sedette ai miei piedi, troppo imbarazzato per guardarmi negli occhi, fissando il terreno. Si stava facendo buio. Lui mi guardò e mi chiese: «Devi già andare a casa?». Io risposi che la sola persona che si sarebbe accorta del mio ritardo era Jordan, e chi ci faceva caso? Lui rise. Quando lui mi toccò ancora, io toccai lui. Non so bene perché lo feci. Avevo già realizzato la mia vendetta nei confronti di Jane. Credo che a quel punto fosse solo una faccenda ormonale. Avevo diciotto anni e non ero alla prima esperienza, lui aveva la mia età ed era bello, e le cose seguirono il loro corso. A quel punto volevo svelargli che ero Jordan, ma non riuscii a dirgli la verità. Non tolsi la camicetta per poter nascondere il braccio su cui Jane aveva le cicatrici, e tenni la mia bocca sulla sua per impedirgli di parlare.
Quando fu dentro di me, si comportò all'opposto di come mi aspettavo. Non chiuse gli occhi e non si agitò. Andò molto lentamente e mi guardò dritto negli occhi; sul suo viso c'era un'espressione beata, in parte dovuta al fatto che la ragazza che aveva messo sul piedistallo per tre anni si era finalmente concessa a lui. Volevo smettere e cercai di fare finire tutto al più presto. All'improvviso, con una strana luce negli occhi, mi chiese: «Tu non sei Jane, vero?». Lui sapeva. «No» risposi, terrorizzata all'idea che sarebbe saltato in piedi e avrebbe iniziato a urlare agli alberi che ero una puttana, ma inaspettatamente il suo ritmo non cambiò. Gli occhi si spalancarono maggiormente, ansimava felice e godeva ancora di più. Fu il più grande momento di orgoglio della sua giovane vita. Fui una stupida a credere che avrebbe tenuto il fatto per sé, perché spiattellò tutto a Jane. Mia sorella non mi rivolse quasi più la parola per i tre anni successivi. Cercai di spiegarle perché lo avevo fatto, ma non servì. Due mesi dopo, la mia relazione con David Gresham fu di dominio pubblico e partii per New Orleans. Il rancore si sopì lentamente. Bobby Evans diventò parte del passato insieme ad altri retaggi del liceo. Io continuai a mandare soldi a Jane fino al suo ultimo anno di università, quando trovò un'altra fonte di denaro. La rividi in occasione del suo matrimonio, anche se non mi aveva chiesto di farle da damigella d'onore. Ma nei vent'anni seguiti a quel fatto facemmo dei piccoli, costanti passi di riavvicinamento che colmarono l'abisso che ci separava. Negli anni precedenti la sua sparizione siamo state vicine come non mai, grazie agli sforzi di Jane più che ai miei, e finii per credere che il legame che ci univa fosse più forte del disaccordo su un qualsiasi uomo. Forse parlò di quel fatto a Marc nei primi anni di matrimonio. Se ora ripenso al passato, non mi è difficile vedere tutta la vita di Jane come una fuga dalla famiglia che il destino le aveva dato. Tutti i suoi sforzi per comunicare, per unirsi, per appartenere alle cheerleader, ai club scolastici, ai gruppi parrocchiali, al Chi-Omega, tutto era un disperato tentativo di riscatto. In quel contesto la mia avventura di una sera con Bobby Evans non fu solo un tradimento fisico; fu una pugnalata al cuore per le illusioni di progresso di Jane. E dato che le nostre illusioni sono il bene più prezioso, come avrebbe mai potuto perdonarmi?
«Dorme?» Sbatto le palpebre e guardo John Kaiser, seduto al di là dello stretto corridoio. «Ehi» mi dice. «È in trance?» «No, stavo pensando.» «A cosa?» «Non mi conosce a sufficienza per farmi questa domanda.» Sorride a denti stretti. «Ha ragione. Mi scusi.» Io mi raddrizzo nel sedile. «Lei probabilmente ha qualche piano grandioso per questo incontro, vero? Una strategia?» «No. Il dottor Lenz ne avrebbe una, ma io mi fido dell'istinto. Andremo a orecchio.» «Deve pur essersi fatto un'idea di cosa voglia de Becque da me.» «O lui è dietro questa storia dall'inizio, dietro a ogni rapimento, oppure la cosa per lui è uno svago. Un gioco per un uomo ricco. Se è un gioco, penso che sappia che lei è uguale a una delle "Donne Addormentate". Forse ha visto il ritratto di Jane quando Wingate lo mise in vendita. Quindi quando venne a sapere cosa successe a Hong Kong - compare la gemella di una delle "Donne Addormentate" - ha fatto due più due.» «Ma come? Se non lo sapeva prima, come ha fatto a collegare uno dei volti nei quadri di Hong Kong con me? Come ha fatto a sapere il mio nome?» «Lei è famosa. Se ha una riproduzione del ritratto di Jane, con uno scanner avrebbe potuto mandarla in giro via e-mail, chiedendo se qualcuno la conosceva.» «Non ci sono riproduzioni delle "Donne Addormentate". Me lo disse Wingate. Non ne esistono fotografie, non c'è niente.» «Allora qualcuno a Hong Kong l'ha riconosciuta; sapeva che lei si trovava in città.» «Non ero lì per lavoro. Sto preparando un libro. Vado dove mi pare e solo alcuni amici sanno dove trovarmi.» «Allora lo sapeva già. Se così fosse, ci andiamo a infilare in qualcosa di complicato.» «Tipo?» Kaiser si morde il labbro e guarda lo schienale che ha di fronte. «Che c'è?» «Non volevo parlargliene prima dell'incontro, ma forse quanto sto per dirle la può preparare a ciò che potremmo trovare.»
«Cosa?» «I legami con il Vietnam iniziano a preoccuparmi.» «Come mai?» «Suo padre scomparve in Vietnam nel 1972, vero?» «Al confine con la Cambogia.» «È la stessa cosa. E de Becque visse in Vietnam per anni.» «Allora?» «Le "Donne Addormentate" sono state vendute esclusivamente in Oriente. La sua telefonata misteriosa arrivava dalla Thailandia, che è di fatto accanto al Vietnam. Io stesso vi ho compiuto delle missioni di ricognizione nel 1970.» «Si prese qualche malattia imbarazzante?» «No, ma per pura fortuna.» «Che ruolo avrebbe il Vietnam in tutto questo?» «Non so. Ma le coincidenze iniziano ad aumentare. Lei credette di sentire la voce di suo padre in quella telefonata, no?» Una strana e inquietante idea si fa strada nella mia mente. «Cosa vuole dire, agente Kaiser?» «Sto semplicemente tirando le fila.» «Intende dire che mio padre potrebbe avere rapito Jane e le altre?» «Crede che lui sia ancora vivo, vero?» «Sono l'unica. Ma anche se così fosse, lui non avrebbe...» «Non avrebbe cosa? Continui, lo dica. Se fosse vivo non avrebbe preso Jane con sé. Giusto? Avrebbe scelto lei.» «È quello che stavo pensando. Che speravo. Ma come sarebbe mai possibile? Avrebbe dovuto trovarsi negli Stati Uniti.» «Dal Vietnam c'è un volo al giorno. Se è vivo, lei deve accettare due cose: primo, lui ha deciso di non mettersi in contatto con lei per più di trent'anni; secondo, lei non sa niente di lui, a parte ciò che può sapere una ragazzina di dodici anni sul proprio padre.» «Non riesco a credere alle sue parole. Mio padre era un fotogiornalista famoso. Che motivo avrebbe avuto di farsi coinvolgere in un affare così sordido?» Kaiser sospira e posa le mani sulle ginocchia. «Senta, sono solo delle ipotesi. Quasi certamente suo padre è morto.» «Lo so.» Anche se in questo momento provo una rabbia irrazionale nei confronti di Kaiser, non posso scartare le sue idee. «Ma sto cercando di ricordare se mio padre abbia mai dipinto qualcosa.»
Lui mi osserva brevemente. «Lo ha fatto?» «No, solo fotografie.» «Bene, perché gli esperti che hanno studiato le "Donne Addormentate" pensano che siano state dipinte da qualcuno di grande talento, che ha seguito gli studi tradizionali.» Dio sia lodato. «Che età aveva suo padre al momento della scomparsa?» «Trentasei anni.» «E non aveva mai dipinto niente. Direi che questo lo toglie dalla lista dei sospetti.» Io annuisco, ma le nuove paure non spariscono così facilmente. In effetti c'è un accumularsi di elementi sul Vietnam, e l'idea di una cospirazione non pare priva di fondamento. "Che cosa lega le 'Donne Addormentate' all'Asia?" È inutile che cerchi di risolvere il puzzle proprio adesso. Ma forse Marcel de Becque, il colono francese coltivatore di tè e trafficante al mercato nero, può aiutare a fare un po' di chiarezza. Gran Cayman si trova 240 chilometri a sud di Cuba. Quindici anni fa era un paradiso incontaminato. Adesso non è molto diversa da Cancun, cioè molto commerciale e americanizzata, anche se più esclusiva. Sull'isola ci sono delle aree non ancora prese di mira dallo sviluppo edilizio, ma per avere un'idea delle vecchie Cayman bisogna prendere un aereo da turismo e andare a est, sull'isola di Cayman Brac, più piccola e primitiva. Il pilota dell'FBI sorvola la North Bay per farci vedere la tenuta di de Becque, un'area recintata su un lembo di terra che sporge nel mare vicino al porto turistico. Evidentemente il francese non si pone il problema di passare inosservato, altrimenti avrebbe scelto Cayman Kai, vicino a Point Rum, una comunità più discreta. Guardando le acque verde smeraldo, le spiagge bianche e le abitazioni stupefacenti mi aspetto di sentire la voce di Robin Leach, il conduttore di La vita dei ricchi e famosi; invece sento quella del pilota, che ci invita ad allacciare la cintura di sicurezza prima dell'atterraggio all'aeroporto vicino a Georgetown. Sulla pista ci aspetta una Range Rover bianca; le pratiche doganali sono state espletate in anticipo dal Dipartimento di Giustizia. Il governatore inglese è a conoscenza della nostra presenza sull'isola, e se dovesse capitare qualcosa di deplorevole, saprebbe a chi attribuirne la responsabilità. Un autista bianco e il suo socio locale caricano la macchina fotografica e l'attrezzatura per le luci nel bagagliaio della Rover, poi lasciamo l'aeroporto e
ci dirigiamo verso nord. «Quanto ci vuole per arrivare alla tenuta di de Becque?» chiedo. «Pochi minuti» risponde l'autista, con accento francese. Kaiser è silenzioso. Alle isole Cayman, come in Gran Bretagna, si viaggia a sinistra. Ogni pochi secondi il nostro autista va nella corsia di destra per superare jeep colorate, furgoni, motociclette che procedono tutti ad andatura tranquilla. Tra i veicoli dei turisti si vede un discreto numero di Mercedes e di BMV. Le isole Cayman sono prospere fin dal tempo in cui re Giorgio III esentò gli abitanti dal pagamento delle tasse, come segno di gratitudine per il loro eroismo durante il famoso e tragico "naufragio dei dieci velieri". Questo status, unito alle rigorosissime leggi sul segreto bancario, hanno trasformato le Cayman in un paradiso fiscale e nel quinto centro finanziario del mondo. A differenza del resto dei Caraibi, dove i mendicanti possono essere una seccatura, i nativi delle Cayman sono più ricchi della maggior parte dei turisti. La tenuta di de Becque è circondata da un muro alto, ma quando il cancello automatico, attivato dal telecomando dell'autista, si spalanca, mi appare una casa colonica inglese che, come certe ambasciate, ricorda una fortezza. L'autista imbocca un viale e si ferma davanti agli ampi scalini di marmo. L'assistente scende, apre le portiere e ci guida verso la casa. L'enorme porta si apre prima che suoniamo il campanello e davanti a me compare una delle donne più belle che io abbia mai visto. Ha i capelli neri e sottili, la carnagione dorata, gli occhi a mandorla, e una rara combinazione di tratti asiatici ed europei che mi rende impossibile attribuirle un'età. Potrebbe avere trent'anni come cinquanta, e mostra una compostezza eccezionale. È assolutamente immobile e dà l'impressione di poter rimanere così per un'ora o per un giorno. Quando parla sono quasi sorpresa. «Bonjour, mademoiselle Glass.» «Salve.» «Mi chiamo Li. Prego, si accomodi.» Entro seguita da Kaiser, che insieme all'autista porta dentro le casse di alluminio con il mio materiale. Dopo che le hanno posate sul pavimento di marmo dell'atrio, Li dice: «Vi devo chiedere di lasciare le armi a questi signori». Parla con la stessa disinvoltura con cui un'altra padrona di casa chiede agli ospiti di consegnarle i cappotti. «Sono disarmato» spiega Kaiser.
«Anch'io.» «Vi prego di scusarmi.» L'assistente oriundo dell'autista arriva con il metal detector e lo passa prima lungo il corpo di Kaiser, poi lungo il mio, quindi annuisce a Li, che ci sorride. «Vi dispiace seguirmi, s'il vous piait? La vostra attrezzatura sarà portata nel locale appropriato.» Kaiser scrolla le spalle e segue l'apparizione dalla voce suadente. Il percorso attraverso il palazzo di de Becque è un viaggio educativo nell'eleganza minimalista: spazi e arredi hanno una essenzialità zen. L'illuminazione è indiretta e i pochi raggi di luce visibili si posano su quadri posti alla giusta distanza l'uno dall'altro. Non mi intendo d'arte abbastanza per poter riconoscere le opere esposte, ma ho la sensazione che se qui ci fosse qualcuno in grado di capire, ne resterebbe colpito. Arriviamo a una grande stanza dal soffitto alto, con una enorme parete che si affaccia sul porto, arredata con pezzi provenienti dall'Asia meridionale. Dietro la parete di vetro si vede un'immensa piscina, una di quelle cose color blu indaco, che sembrano perdersi nel mare retrostante. Più lontano, una dozzina di barche solcano l'acqua della North Bay, e mentre le guardo mi accorgo che all'estremità destra della parete di vetro c'è un uomo che mi osserva. Non l'ho notato subito perché ha la stessa fissità e lo stesso autocontrollo della donna che ci ha accolto all'ingresso. È un tipo di media statura, molto abbronzato, con penetranti occhi blu e i capelli corti e argentati. «Bonjour» dice con voce gentile. «Sono Marcel de Becque. Stavo pensando a giorni più felici. Com'è andato il viaggio? Spero che non sia stato troppo turbolento.» «È andato bene.» L'uomo viene verso di me, e prima che io abbia capito cosa stia succedendo prende la mia mano, si inchina e la bacia con grande eleganza. «Lei è molto più bella vista di persona, ma chérie. Grazie per essere venuta.» Malgrado la particolarità della situazione, sento le guance arrossire. «Le presento il mio assistente, John Kaiser.» Il sorriso di de Becque lascia intendere che starà al nostro gioco, ma che sa bene di cosa si tratta. Poi con un gesto della mano indica la parete alla mia destra su cui c'è una grande esibizione di fotografie in bianco e nero; la maggior parte risalenti a diverse fasi della guerra del Vietnam, ognuna chiaramente opera di un grande fotografo.
«Le piacciono?» mi chiede de Becque. «Sono eccezionali. Dove le ha trovate?» «Durante la guerra conoscevo molti giornalisti, e anche molti fotografi. Di tanto in tanto riuscivo a farmi dare qualche stampa.» Non tutte le fotografie hanno soggetti militari. Alcune sono degli studi di uomini, donne o bambini vietnamiti; altre mostrano templi e statue; altre ancora gruppi di uomini in abiti kaki e lo sguardo del corrispondente di guerra. Vedendoli da vicino riconosco diversi fotografi: Sean Flynn, Dixie Reese, Dana Stone, Larry Burrows. Il fior fiore. C'è anche Capa, il modello di tutti quanti, con il suo largo sorriso disinvolto che gli dava un'aria da ragazzino anche nell'età matura. Mentre vado alla fotografia seguente sento il sangue che mi si gela nelle vene. In piedi, da solo, vicino a un Buddha di pietra c'è mio padre. Jonathan Glass. CAPITOLO DECIMO Incapace di trovare un filo di voce, mi sporgo verso la fotografia appesa alla parete della casa dell'espatriato francese. Mio padre ha una Leica al collo e una Nikon F2 in mano, la stessa che ho io. Ciò significa che la foto fu scattata nel 1972, l'anno in cui quella macchina fotografica entrò sul mercato e in cui lui fu dato per morto. «Dove l'ha presa?» mormoro alla fine, indicando la stampa con mano tremante. «Fu scattata da Terry Reynolds nel Settantadue» spiega de Becque. «Prima della sua stessa scomparsa in Cambogia. Conoscevo bene suo padre, Jordan.» Pronuncia il mio nome con una dolce "J". Mi raddrizzo e cerco di mantenere una certa calma mentre parlo. «Davvero?» De Becque mi prende per il gomito e mi conduce a un tavolo sul quale si trovano una bottiglia di vino e tre bicchieri; mi versa del vino bianco, che io bevo in due sorsi, poi ne offre a Kaiser, che declina; quindi ne versa a se stesso e beve un piccolo sorso. «Solo con moderazione» commenta. «Il mio fegato si fa sentire.» «Monsieur...» Mi ferma alzando una mano. «Sono certo che lei ha un migliaio di domande. Perché non fotografa prima i miei quadri? Dopo può tornare qui e saziare la sua curiosità.» Sento di avere la faccia bollente e la gola serrata.
«La prego» aggiunge de Becque. «C'è tempo.» «Mi dica prima una cosa. Mia sorella è viva o morta?» Lui scuote la testa. «Je ne sais pas, ma chérie. Non lo so.» Fotografare i quadri di de Becque è, tecnicamente parlando, una cosa semplice. Prima di lasciare New Orleans avevo preparato l'elenco dell'attrezzatura necessaria, e Baxter aveva incaricato gli agenti dell'FBI di procurare il materiale richiesto. Il pezzo più importante è una Mamiya di medio formato per pellicole 5 X 5, che dà una qualità eccellente dell'immagine pur essendo maneggevole. La difficoltà è data dal fattore umano. Nel disporre le luci Kaiser fa del suo meglio per seguire i miei ordini, ma a Li, che de Becque ha mandato per evitare che ci avvicinassimo troppo ai quadri, è chiaro che il mio "assistente" non ha mai maneggiato una softbox o un alettone in vita sua. Anch'io non sono al meglio. L'idea di scandagliare la mente di de Becque per avere notizie di mio padre è così allettante da farmi quasi dimenticare Jane, e rende difficile anche l'operazione più semplice, come attaccare le lampade ai supporti. Kaiser è subito preso da altro. La parte più importante delle collezioni d'arte di de Becque è esposta in tre sale, simili a quelle di un museo, e le "Donne Addormentate" non sono che una delle collezioni. Le altre, secondo Kaiser, che negli ultimi due giorni deve avere fatto un corso accelerato di storia dell'arte, coprono vari periodi. La maggior parte spazia dal 1870 al presente, e include alcuni pezzi Nabis. Kaiser visita le sale metodicamente, memorizzando ciò che può, e ritornando da me una volta per informarmi che alcuni dei quadri esposti potrebbero essere delle opere d'arte rubate dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Chiede a Li se possiamo fotografare l'intera collezione, ma lei non è d'accordo, e spiega che de Becque ha specificamente limitato la nostra attività alle "Donne Addormentate". Fotografo i quadri con cura quasi maniacale, ma cerco di non osservarli con troppa attenzione. In un certo senso per me ognuna di queste donne è Jane. Eppure non c'è modo di negare la loro forza. A differenza del dipinto alla galleria d'arte di Wingate, le donne in queste tele non sono circondate da colore, ma ne sono sature: tonalità di blu brillante e di arancione rese più intense dal bianco e dal giallo. Due giacciono nella vasca da bagno, in una posa simile a quella della donna nel primo quadro che vidi a Hong Kong, ma i loro volti sono meno precisi, più indefiniti di quello. Se non sapessi che queste donne potrebbero essere morte, penserei che stessero
dormendo, tanto luminosa è la loro carnagione. Ma io so. L'uomo che ha dipinto queste immagini stava di fronte a degli esseri umani impietriti, e ha assorbito il caratteristico odore metallico che il sudore emana nelle situazioni di terrore. A meno che le donne non fossero già morte quando egli le stava dipingendo. In questo caso per quanto tempo ha potuto sopportare di condividere la stanza con dei cadaveri in via di putrefazione? Io ne ho fotografati moltissimi, e la stretta vicinanza con dei corpi morti non è facile da sopportare. Ma forse per qualcuno non è così. «Quanto tempo ci vorrebbe per dipingere questi?» chiedo a Kaiser sotto voce. «Secondo gli esperti dai due a sei giorni. Non so su cosa si siano basati per stabilirlo. Ieri sera ho letto su un libro che gli impressionisti pensavano che un quadro andasse completato in una seduta.» «Se le donne sono morte, crede che lui ricorra a qualche metodo di conservazione prima di dipingerle? Che le imbalsami per esempio?» «È possibile.» Faccio ancora due scatti all'ultimo dipinto. «Guardi questo quadro. Cosa vede? Una donna morta o viva?» Lui si avvicina alle tele e studia le donne. «Non lo so» dice alla fine. «Non c'è niente che le faccia sembrare morte. Hanno gli occhi chiusi, ma questo non prova niente.» Si gira verso di me, pensoso. «Voglio dire, dov'è la linea tra sonno e morte? Sono poi davvero così distanti l'uno dall'altra?» «Lo chieda ai morti.» «Non posso.» «Ecco la risposta.» Metto il tappo alle lenti della Mamiya e tolgo l'ultima pellicola usata. «Ho finito. Andiamo da de Becque.» Sotto l'arco alla mia sinistra appare silenziosamente Li, come una guida che conduce a un altro mondo. L'anziano francese sta aspettando nella stanza con la parete di vetro. È in piedi e ci volge le spalle; ha un bicchiere in mano e guarda una barca a vela che lascia la baia per il mare aperto. «Salve» dico. Si gira adagio, poi indica due sofà identici, posti l'uno di fronte all'altro, vicino alla grande finestra. Li ci versa del vino e sparisce senza fare il più piccolo rumore sul pavimento di granito. «Desidera che il suo "assistente"
ci faccia compagnia?» chiede de Becque inarcando un sopracciglio. Io mi giro verso Kaiser, che sospira e dice: «Sono l'agente speciale John Kaiser dell'FBI». De Becque gli va incontro per dargli una lieve stretta di mano. «Non è un sollievo? L'inganno è un'arte che consuma, e l'inganno senza senso lo è ancora di più. Prego si accomodi.» Kaiser e io scegliamo lo stesso sofà, de Becque quello di fronte. «Perché l'ho fatta venire fin qui?» mi chiede il francese. «È questa la prima domanda?» «È un buon inizio.» «Lei è qui perché desideravo incontrarla in carne e ossa, come si usa dire. Semplice. In Vietnam conoscevo suo padre. Quando ho saputo che lei era coinvolta in questo caso, ho fatto i passi necessari per poterla incontrare.» «Come ha saputo del coinvolgimento della signora Glass?» De Becque fa un gesto con la mano aperta, molto francese, che io interpreto come "Ci sono cose che dobbiamo accettare senza spiegazione". A Kaiser non piace, ma non può farci niente. «Come ha incontrato mio padre?» «Sono un collezionista d'arte, e per me la fotografia è arte. Avevo una piantagione di tè in una zona strategica del Vietnam. Era una buona base per i giornalisti che decidevo di ospitare. La mia tavola era famosa in tutto il paese, e ho sempre amato la buona conversazione.» «E l'accesso alle informazioni?» chiede Kaiser senza mezzi termini. De Becque si stringe nelle spalle. «Le informazioni sono un bene di consumo, agente Kaiser, come qualsiasi altro. E io sono un uomo d'affari.» «Cosa sa della morte di mio padre?» «Non sono affatto certo che morì dove e quando pensa la gente.» Ecco qua. Detto da un uomo che sa di cosa parla. «Come potrebbe essere sopravvissuto?» «Primo, lui sparì in un'area molto imbarazzante. Imbarazzante per il governo statunitense, intendo. Secondo, i khmer rossi di solito uccidevano i giornalisti senza pensarci su, ma non tutti i cambogiani si comportavano allo stesso modo. Penso che Jonathan fu ferito, questo sì. Ma potrebbe essere stato curato e guarito. E proprio com'è successo a lei, nel corso degli anni mi è giunta voce che sia stato visto in giro.» «Se è sopravvissuto,» chiede Kaiser «e se la riteneva un amico, perché non si è mai fatto vivo con lei?»
«Potrebbe averlo fatto, ma io avevo già venduto la piantagione quando lui scomparve. Se ritornò là a cercarmi, non poté certo trovarmi. Ma c'è una risposta più semplice. Verso la fine del 1972 il Vietnam non era il posto dove qualcuno poteva desiderare di tornare.» «Nemmeno la Cambogia» faccio notare. «Se non se ne andò prima dell'inizio del genocidio organizzato da Pol Pot, non può essere sopravvissuto.» Un'altra scrollata di spalle. «È un mistero. Ma ho sentito dire da fonti attendibili che Jonathan fu visto due volte in Thailandia.» «Lei crede che potrebbe essere ancora vivo?» «Credo che sia una speranza eccessiva.» «A quando risalgono gli avvistamenti di cui ci ha appena parlato?» «Il primo intorno al 1976; l'ultimo nel 1980.» Più di vent'anni fa. «Noi siamo qui per un altro motivo, ovviamente. Ma potrei telefonarle più avanti per conoscere i dettagli?» «Le farò avere il mio numero prima che lei parta.» Kaiser si sporge in avanti con il bicchiere di vino tra le ginocchia. «Vorrei rivolgerle alcune domande.» «Certamente. Ma potrei sorvolare su qualche risposta.» «Conosce l'identità dell'artista che ha dipinto le "Donne Addormentate"?» «No.» «Com'è venuto a conoscenza dei suoi quadri per la prima volta?» «Conoscevo Christopher Wingate, il mercante d'arte. Ho l'abitudine di comprare le opere di nuovi artisti che attirano la mia attenzione. È un rischio, ma la vita comporta dei rischi, no?» «È una semplice questione d'affari?» Gli occhi di de Becque brillano divertiti. «Gli affari non c'entrano affatto. Se volessi fare soldi userei dei mezzi più sicuri.» «Quindi Wingate le fece conoscere le "Donne Addormentate", e...» «Io gli dissi che avrei comprato tutte quelle che sarebbe riuscito a trovare.» «E lui gliene procurò cinque?» «Sì. Commisi l'errore di fare vedere i quadri ad alcuni conoscenti orientali. I prezzi salirono alle stelle improvvisamente. Dopo il quinto quadro Wingate mi tradì e incominciò a vendere al giapponese. Ma,» de Becque rovescia i palmi della mano «chi si aspetta che un serbo abbia il senso dell'onore?»
«Inizialmente cosa la colpì dei quadri?» Il francese si morde il labbro. «Difficile dire.» «Pensò che i soggetti ritratti fossero delle donne reali?» «Sì, naturalmente ritenni che fossero delle modelle.» «Pensò che potessero essere morte?» «Non subito. Ritenni, come chiunque altro, che fossero addormentate. Ma dopo aver visto la quarta, iniziai ad averne la sensazione. Poi capii la genialità di quei quadri: erano ritratti di morte, fatti in un modo che non era mai stato realizzato prima.» «Cosa vuole dire?» «In Occidente, l'atteggiamento verso la morte è la negazione. L'Occidente celebra la giovinezza e vive nel terrore della vecchiaia e della malattia. E più ancora nel terrore della morte. In Oriente è diverso. Lei lo sa. Lei c'è stato.» L'affermazione di de Becque fa perdere il passo a Kaiser. «Come fa a saperlo?» «Lei è un soldato. L'ho capito appena è entrato.» «È stato venticinque anni fa.» De Becque sorride e fa un cenno con la mano. «Lo vedo da come cammina, da come guarda. E dato che lei è americano, la sua età mi dice che deve trattarsi del Vietnam.» «Ci sono stato.» «Quindi sa com'è. In America se qualcuno è morsicato da un serpente a sonagli si fa di tutto per portarlo in ospedale. In Vietnam se un uomo viene morso da un crotalo, si siede e aspetta di morire. In Oriente la morte fa parte della vita. Per molti è una dolce liberazione. In parte è ciò che vedo nelle "Donne Addormentate". Soltanto che i soggetti non sono asiatici. Sono occidentali.» «Interessante» commenta Kaiser. «Nessuno aveva ancora avanzato quest'interpretazione.» «Giovanotto, tutti hanno gli occhi, ma non tutti possono vedere.» «Sa che almeno uno dei soggetti ritratti è scomparso, probabilmente morto?» «Sì, la sorella di questa povera ragazza.» «Che cosa prova?» «Non sono certo di avere capito la domanda.» «Moralmente, intendo dire. Cosa prova sapendo che per la realizzazione di questi quadri forse muoiono delle giovani donne?»
De Becque guarda Kaiser con disprezzo. «È una domanda seria, mon ami?» «Sì.» «È una domanda da americano. Lei ha combattuto in una guerra che è costata al suo paese cinquantottomila caduti. In aggiunta al milione di vittime provocato in Asia. Che cosa hanno portato quelle morti se non miseria?» «Questo è un altro discorso.» «Lei sbaglia. Se diciannove donne muoiono per produrre dell'arte eterna, allora dal punto di vista storico, il prezzo è stato basso. Addirittura risibile.» «A meno che lei non ami una di quelle donne» dico piano. «Proprio così» ammette de Becque. «Ciò cambia completamente le cose. Io faccio soltanto osservare a Monsieur Kaiser che molte imprese umane sono cominciate sapendo che sarebbero costate delle vite: ponti, tunnel, esperimenti farmaceutici, esplorazioni geografiche e, naturalmente, guerre. Nessuno di questi obiettivi si avvicina neanche lontanamente all'importanza dell'arte.» Il viso di Kaiser diventa rosso. «Se lei fosse certo che vengono uccise delle donne per creare questi dipinti, e conoscesse l'identità dell'assassino, avvertirebbe le autorità?» «Per fortuna non mi trovo in questa situazione.» Kaiser sospira e trangugia il suo vino. «Perché non ha mandato i dipinti a Washington per le analisi?» «Sono un fuggiasco. Non mi fido di nessun governo, specie quello americano. Ci ho avuto a che fare in Indocina e ne sono sempre stato deluso. Trovai gli ufficiali americani ingenui, sentimentali, ipocriti e stupidi.» «Non è da poco per un trafficante del mercato nero...» De Becque ride. «Lei mi odia, giovane soldato? Per il mercato nero? Allora può anche odiare la pioggia o gli scarafaggi.» «Non vado pazzo per i francesi di sicuro. Ho visto che cos'avete fatto in Vietnam. Siete stati peggio di noi.» «Eravamo brutali, è vero, ma in scala ridotta. L'esercito americano distribuiva cioccolato, mentre l'aviazione uccideva decine di migliaia di civili.» «La cosa non vi dispiaceva in Germania.» «Sono discorsi inutili» aggiungo io, lanciando un'occhiata a Kaiser. Dopo anni in giro per il mondo ho imparato a evitare conversazioni di
questo tipo. La maggior parte degli europei non capirà mai il punto di vista americano, e anche se lo fa, lo condannerà a gran voce. Pensavo che Kaiser lo sapesse. «Adesso mi ha vista in carne e ossa» dico a de Becque. «Cosa pensa?» I suoi occhi blu brillano come quelli di Maurice Chevalier. «Mi piacerebbe vederla au naturel, chérie. Lei è un'opera d'arte.» «Le basterebbe vedermi nuda o preferirebbe che fossi anche morta?» «Non sia ridicola. Sono un libertino. Celebro la vita, ma,» alza il bicchiere in un brindisi silenzioso «la morte ci accompagna sempre.» «È stato lei a commissionare il dipinto di mia sorella?» Il suo umorismo svanisce. «No.» «Ha cercato di comprarlo?» «Non ne ho mai avuto l'opportunità. Non l'ho mai visto.» «L'avrebbe riconosciuta?» «Avrei pensato che fosse lei.» Kaiser interviene: «Quando venne a conoscenza dell'esistenza della signora Glass?». «Quando vidi il suo nome su una fotografia pubblicata dall'"International Herald Tribune". Credo fosse agli inizi degli anni Ottanta.» De Becque ridacchia. «Mi venne quasi un colpo. Nei crediti fotografici era scritto "J. Glass", proprio come suo padre.» «Lo feci per rendergli tributo.» «E fu un bel tributo. Ma fu anche uno choc per tutti quelli che lo avevano conosciuto.» «Capitò a molti. Qualche anno dopo iniziai a usare il mio nome per intero.» Incapace di concentrarmi su quello che sta capitando, mi faccio forza e chiedo a de Becque ciò che più mi sta a cuore. «Che persona era mio padre?» «All'inizio? Un americano dagli occhi spalancati, come migliaia di altri. Ma i suoi occhi sapevano vedere. Non c'era bisogno di ripetergli una cosa due volte. Conosceva poco l'Asia, ma aveva una mente aperta. E i vietnamiti l'adoravano.» «Anche le donne, immagino.» Un altro gesto tipicamente francese che io interpreto come "Un uomo è un uomo". «C'era una donna in particolare?» «Non è sempre così? Ma nel caso di Jon non saprei.» «Monsieur de Becque, mio padre aveva una famiglia laggiù?»
«Come si sentirebbe se sapesse che ce l'aveva?» «Non so. Voglio solo sapere la verità.» «Ha visto Li?» «Sì.» «È una franco-vietnamita. Sono le donne più belle del mondo.» «Mio padre aveva una donna come lei?» «Di sicuro ne ha incontrate.» «Alla sua piantagione?» «Certo.» De Becque è un uomo che parla tra le righe. Di solito li capisco senza difficoltà, ma in questo caso mi sento persa. Se mio padre aveva una famiglia vietnamita, perché non me lo dice chiaramente? «Ci ha mai pensato?» chiede de Becque. «L'anno in cui suo padre sparì chiusero i battenti "Look" e "Life".» «Allora?» «Erano delle grandi riviste illustrate. Fu la fine di una epoca. Jonathan non dovette affrontare la contrazione del mercato, il predominio della televisione, la trasformazione umiliante dell'industria in cui si era fatto un nome.» «Mi sta dicendo che non aveva niente a cui tornare?» «Le faccio semplicemente notare che, dal punto di vista professionale, gli anni migliori del fotogiornalismo erano finiti. Jon aveva vinto tutto quello che c'era da vincere. Aveva vissuto sul filo del rasoio, con una banda di fratelli ribelli. Avevano fotografato gli orrori del secolo, poi erano passati a quello successivo prima che il loro spirito fosse distrutto. A loro modo erano gloriosi. Erano un incrocio tra il giovane Hemingway e le star del rock.» «Ma avevano fatto il loro tempo. Sta cercando di dirmi questo?» «Dopo il Vietnam il mondo è cambiato. Anche l'America è cambiata. E la Francia.» Kaiser posa il bicchiere e dice: «Vorrei ritornare alla sorella della signora Glass». «Lo vorrei anch'io» aggiunge de Becque guardandomi negli occhi. «Jordan, esattamente cosa spera di guadagnare facendo parte di quest'indagine? Ha delle velleità di giustizia?» «Non penso che la giustizia sia una velleità.» «In questo caso, la giustizia cosa sarebbe? Punire l'uomo che ha dipinto queste donne? L'uomo che le ha sottratte alle loro famiglie per immortalar-
le?» «È la stessa persona?» chiedo. «Il rapitore è anche pittore?» «Non ne ho idea. Ma lei cosa desidera? Punirlo?» «Preferirei fermarlo.» De Becque annuisce pensoso. «E sua sorella? Quali speranze ha in proposito?» «Non so.» «Pensa che potrebbe essere viva da qualche parte?» «Non lo credevo finché non ho visto i quadri a Hong Kong. Adesso... Non sono sicura.» Poiché de Becque non fa nessun commento chiedo: «Lei pensa che siano vive o morte?». Il francese sospira. «Morte, direi.» Per qualche ragione la sua opinione mi rattrista più di quella di un tipo come Lenz. «Ma,» aggiunge «non credo che tutte queste donne abbiano subito la stessa sorte.» «Perché no?» chiede Kaiser. «Capita qualcosa. Nessun piano è perfetto. Non credo sia un'assurdità sperare che una o più delle diciannove donne sia viva da qualche parte.» «Le donne sono diciannove?» si informa Kaiser. «Abbiamo cercato di identificare i quadri con le vittime, ma abbiamo avuto difficoltà. A New Orleans ci sono solo undici vittime. Se ogni quadro ritrae una donna diversa ci sono otto vittime di cui non sappiamo niente.» «Forse quelle sette sono semplici modelle» suggerisce de Becque. «Pagate molto tempo fa e dimenticate. Ci avete pensato?» «Vorrei che fosse così, certo. Ma la pittura astratta dei primi quadri rende impossibile l'identificazione con le vittime. Non siamo neanche riusciti a confrontarli con le undici vittime finora note.» «I primi quadri non sono astratti» spiega de Becque. «Sono stati fatti secondo lo stile impressionista e postimpressionista. Cioè usando piccole gocce di colori primari molto vicine le une alle altre per produrre certe sfumature, anziché mescolando i colori. Si ottiene un effetto molto più vicino al modo in cui l'occhio umano percepisce la luce. Probabilmente l'artista li ha dipinti velocemente, intendendo dare l'impressione dei loro volti piuttosto che ritrarli con precisione.» «Oppure voleva celare i loro visi» aggiunge Kaiser. «È possibile.»
«Se qualche donna è ancora viva,» chiedo «dove potrebbe essere? Perché non si è ancora fatta avanti?» «Il mondo è vasto, chérie. È pieno di gente con strani appetiti. Io sono più preoccupato per lei. Credo che questo sia un momento difficile per l'uomo che ha dipinto i quadri.» Gli occhi ardenti di de Becque guardano i miei. «Credo anche che il suo coinvolgimento con l'FBI possa esporla. Non vorrei mai che le capitasse qualcosa.» «La proteggeremo» spiega Kaiser. «Monsieur, non bastano le buone intenzioni. Lei dovrebbe prendere in considerazione l'idea di restare qui con me finché tutto non si è risolto.» «Cosa?» chiedo. «Ovviamente lei sarebbe libera di andare e venire come crede, ma qui io la posso proteggere. Non ho molta fiducia nell'FBI, se devo essere sincero.» «Monsieur, io apprezzo il suo interesse, ma voglio contribuire a fermare quest'uomo.» «Mi dia ascolto. Stia molto attenta. I quadri parlano di un artista alla ricerca di se stesso. Le prime opere sono incerte e di derivazione, importanti solo per ciò che ne è seguito. I quadri più recenti parlano di una visione particolare della morte. Ma nessuno sa dove quell'uomo stia andando. Non vorrei proprio vederla mettere all'asta.» «Se dovesse succedere, mi compri lei. Preferirei trovarmi appesa qui piuttosto che a Hong Kong.» Un sorriso radioso illumina il viso abbronzato del francese. «Raddoppierei qualunque offerta, chérie. Ha la mia parola.» De Becque si alza improvvisamente e guarda la baia dall'enorme finestra. Nella mia vita ho fotografato molti prigionieri, e qualcosa nell'atteggiamento del francese mi riporta a quelle circostanze. Qui, nella sua villa multimiliardaria, con una fortuna appesa alle pareti, questo espatriato ha qualcosa in comune con un condannato che cammina avanti e indietro nella sua cella ad Angola o a Parchman. «Penso che sia ora di andare» dico a Kaiser. Aspetto che de Becque si giri verso di me, ma lui non si muove. Mentre cammino verso la porta, dice con voce malinconica: «Nonostante quello che dice il suo amico, ricordi Jordan che i francesi conoscono il significato della parola lealtà.» «Lo ricorderò.» «Li vi accompagnerà.» «Merci.»
Finalmente de Becque si volta e alza una mano in segno di commiato. Nei suoi occhi vedo dell'affetto sincero, e capisco d'improvviso che ha conosciuto mio padre molto meglio di quanto non abbia detto. «I numeri di telefono!» urlo. «Non li ho.» «L'aspettano sull'aereo.» Certo, mi aspettano. Sento il ronzio del motore della Range Rover diretta all'aeroporto. La luce intensa si riflette sul cofano e sui segnali stradali, inseguendo un'iguana blu che si rifugia sotto un cespuglio lungo il ciglio della strada. Mentre il rettile scompare, le "Donne Addormentate" che ho visto nella galleria di de Becque tornano a sprazzi nella mia mente, e una piccola rivelazione mi fa venire i brividi. «Ho appena capito una cosa importante.» Prima che io possa continuare Kaiser mi stringe la coscia dietro il ginocchio con tale forza da bloccare la circolazione. Sto zitta finché non arriviamo all'aereo, dove le nostre scorte stanno caricando le casse di equipaggiamento per poi sparire senza una parola. «Cosa?» chiede Kaiser. «Cosa le è venuto in mente?» «I quadri. So dove sono stati fatti.» «Cosa?» «Non esattamente dove, ma come. Gliel'ho detto, non so niente d'arte, ma conosco la luce.» «La luce?» «Quelle donne sono state ritratte alla luce naturale. È così ovvio che non ci avevo fatto caso a Hong Kong. Nemmeno oggi, non subito. Ma un minuto fa me ne sono accorta.» «Perché? Come fa a dirlo?» «Venticinque anni di esperienza. La luce è molto importante per il colore, per l'aspetto naturale delle cose. Le lampade usate in fotografia sono corrette per assomigliare alla luce naturale. Scommetto che gli artisti sono ancora più difficili in proposito. Non so quale importanza possa avere per l'indagine, ma questo non le dice qualcosa?» «Se ha ragione sarebbe un enorme aiuto. La luce che passa da una finestra è luce naturale?» «Dipende dal vetro.» «Se dipinge le donne all'esterno, significa che il posto dev'essere davvero isolato. Ci sono molti boschi e paludi, ma andarci con un prigioniero o
con un corpo potrebbe essere complicato.» «Un cortile» gli dico. «A New Orleans ci cono moltissimi giardini e cortili interni. Credo che sia quello il posto che stiamo cercando.» Kaiser mi stringe il braccio. «Se la sarebbe cavata bene a Quantico. Saliamo a bordo.» Io non mi muovo. «Sa una cosa? Lei oggi non è stato di molto aiuto. Che cos'erano mai tutte quelle stronzate sulla Francia?» Stringe le spalle. «Quando c'è poco tempo non si viene a sapere granché su un uomo conversando educatamente. Bisogna fare un po' di pressione e vedere che cosa salta fuori.» «De Becque voleva solo ricordare i bei tempi andati.» «No, c'era dell'altro.» «Dica.» «Prima saliamo a bordo.» Mi spinge sull'aereo, poi va avanti per conferire con i piloti. Poco dopo ritorna al mio posto. «Devo chiamare Baxter. Può darsi che la cosa vada per le lunghe.» «Prima mi dica di de Becque.» «Stava cercando di prendere una decisione sul suo conto.» «Che tipo di decisione?» «Non so. Cercava di leggerle dentro, di capirla.» «So che conosce molte cose su mio padre.» «Sa molto più di quello. In questa faccenda c'è dentro fino al collo. Lo sento.» «Forse le donne non sono state uccise. Forse sono prigioniere da qualche parte in Asia.» «Portate là dal jet di de Becque?» «Forse. Avete rintracciato i movimenti dell'apparecchio nello scorso anno?» «Ci sono dei problemi. Ma Baxter ci sta lavorando. Per questo genere di cose è un mastino.» Kaiser va avanti, si siede vicino alla paratia, e dopo pochi istanti ha uno speciale telefono anti-intercettazione all'orecchio. Non riesco a capire cosa dice, ma mentre la conversazione procede vedo il collo e le braccia che si irrigidiscono. Il jet inizia a rollare e in breve siamo nuovamente sulla parte settentrionale di Cuba. Dopo circa dieci minuti Kaiser riaggancia e si sistema nel sedile di fronte al mio. Il suo sguardo non riesce a nascondere l'eccitazione.
«Cos'è successo? Qualcosa di buono, non è vero?» «Abbiamo fatto centro. Il laboratorio di Washington è riuscito a identificare i due peli di pennello recuperati dai quadri. Sono unici, il meglio sul mercato. Provengono da un tipo di zibellino kolinski raro, e sono fatti a mano in una piccola fabbrica in Manciuria. Per l'America c'è un solo importatore con sede a New York; compra due lotti all'anno, già venduti prima dell'arrivo. Ha dei clienti specifici. Clienti abituali. La maggior parte a New York, ma alcuni sparsi nel paese.» «Nessuno a New Orleans?» Kaiser sorride. «L'ordine più consistente dopo New York è stato fatto a New Orleans. Al dipartimento d'arte della Tulane University.» «Mio Dio.» «È il terzo ordine inviato là nell'ultimo anno e mezzo. In questo momento Baxter è in riunione con il rettore dell'università. Al nostro arrivo avrà ottenuto la lista di chiunque abbia avuto accesso a quei pennelli negli ultimi diciotto mesi.» «Una delle vittime non fu rapita nel campus universitario?» «Due. Un'altra al parco Audubon, nei pressi dello zoo, molto vicino a Tulane.» «Gesù.» «Ma sono solo tre su undici. L'analisi a griglia non ha evidenziato Tulane. Ma questo cambia le cose.» «Qual è la località più vicina a New Orleans che ha richiesto quei pennelli?» «Taos, in New Mexico; poi San Francisco.» Sento un buco nello stomaco. «Forse ci siamo davvero.» Kaiser annuisce. «Lenz aveva detto che i dipinti ci avrebbero portato a dei sospetti. Io ero scettico, ma quel figlio di puttana aveva ragione.» «Lei ha visto più giusto di lui. Proprio ieri mi ha detto che pensava che l'assassino o il rapitore avessero base a New Orleans. Che le scelte venivano compiute lì, e che il pittore e l'assassino potevano essere la stessa persona. Lenz credeva che l'artista fosse a New York.» Kaiser sospira. «Sa una cosa?» «Cosa?» «De Becque ci ha mentito.» «Come?» «Ci ha detto di non avere mai visto il quadro di Jane. Ma ha un jet privato per cui può andare in Asia quando gli pare. Ce l'ha a morte con Wingate
per avergli sottratto le ultime "Donne Addormentate" e averle vendute ai collezionisti asiatici. Anche se non ha visto quei quadri quando sono stati messi in vendita, lei crede che non sia andato a Hong Kong non appena sono state esposte?» «È difficile credere che non l'abbia fatto.» «Ha notato che non ci ha accompagnato a vederle, ma ha mandato Li?» «Certo. Lei pensava che avrebbe voluto fare bella mostra della sua collezione.» «E vedere la sua reazione. Prova qualcosa per quei quadri. E qualcosa per lei. De Becque è un tipo particolare. Scommetto che ha una vena di gentilezza insolita. Forse ha osservato le sue reazioni. Non ho visto nessuna telecamera di controllo, ma di questi tempi non vuole dire niente.» «Allora, cosa intende dire?» Kaiser guarda dal finestrino, il viso è blu per il riflesso della luce del sole filtrata. «Sembra di scavare un'enorme statua sepolta nella sabbia. Si scopre una spalla, poi un ginocchio. Credi di sapere cosa c'è sotto, ma non è vero. Non lo sai finché non è emersa completamente.» Mi lancia un'occhiata. «Sa che impressione ho? In termini di complotto, intendo. Cosa mi fa pensare?» «Cosa?» «Le schiave bianche. Donne rapite dalle loro città, mandate lontano e costrette a prostituirsi. Succede ancora in America. Ma in Asia, specialmente in Thailandia, è un giro d'affari enorme. Organizzazioni criminali prendono delle ragazzine dai villaggi sulle montagne e le portano in città. Le rinchiudono in stanze microscopiche, le fanno passare per vergini e le costringono ad avere dozzine di clienti al giorno.» Chiudo gli occhi e cerco di reprimere un'ondata di nausea. Sentire parlare di quest'orrore mi costringe ad ammettere che forse anche Jane potrebbe avere fatto questa fine. Ma anche se così non fosse le immagini evocate da Kaiser mi fanno tremare di rabbia e di paura. Posso attraversare un campo di battaglia pieno di cadaveri senza vomitare, ma il pensiero di una ragazzina terrorizzata, chiusa in un cubicolo infernale finché non si ammala di AIDS, è troppo. «Mi dispiace» dice Kaiser sfiorandomi il ginocchio. «La mia testa è piena di cose del genere, e a volte dimentico il tatto.» «Non c'è problema. È solo che di tutte le cose orribili, questa per me è la peggiore.» Anche se cerca di nasconderlo, i suoi occhi lasciano trapelare la doman-
da che lo assilla. «Non chieda niente. Okay?» «Va bene. Senta, pensi che siamo molto più vicini a identificarlo; più vicini a fermarlo.» «Okay.» «Posso prenderle qualcosa da bere?» «Sì... grazie.» Si alza e va avanti, io raccolgo dal sedile vicino una copia delle istruzioni per i casi di emergenza. Va bene qualunque cosa per distogliere la mente dai cupi pensieri che la occupano. «Qual è la cosa peggiore che le sia mai capitata?» Lenz chiede ai suoi pazienti. «Qual è la cosa peggiore...» CAPITOLO UNDICESIMO Nella sala riunioni principale della sede di New Orleans dell'FBI ha luogo un incontro per decidere la linea strategica dell'indagine NOKIDS. Io non partecipo; sono stata relegata nell'ufficio. Ancora una volta l'esclusione ribadisce la mia condizione di estranea. Alla riunione, presieduta da un vicedirettore dell'FBI, partecipano il procuratore federale e il capo della polizia di New Orleans, lo sceriffo di Jefferson Parish e molti altri pezzi grossi. È incredibile come escano all'aperto non appena c'è odore di successo nell'aria. Mentre aspetto, la mia mente torna a Marcel de Becque, ai suoi quadri, alla sua bellissima domestica vietnamita e alle foto di mio padre alla parete. Ma questi ricordi interferiscono solo parzialmente con il pensiero che, se il piano di Daniel Baxter non verrà archiviato, dovrò trovarmi faccia a faccia con dei sospetti, degli uomini che potrebbero avere ucciso mia sorella, nella speranza di indurli a confessare. Questa prospettiva mi fa stare meglio di qualsiasi cosa io abbia provato finora. L'agente Wendy, la mia guardia del corpo, è entrata già due volte per fare quattro chiacchiere, ma io non ero in grado di concentrarmi, e lei, capita l'antifona, se n'è andata. Questa volta, dalla porta dell'ufficio di Bowles, entra John Kaiser, con l'aria preoccupata. Mentre la porta si chiude alle sue spalle, intravedo Wendy che osserva dal corridoio. «È pronta?» chiede lui. «Che notizie ci sono?» «Un sacco di parole. I burocrati hanno dovuto intervenire. C'erano molti responsabili di questo o quel settore a cui leccare il culo. Il vicedirettore e
il procuratore federale se ne sono andati. Volevano incontrarla, ma ho detto loro che lei non ama molto il Dipartimento di Giustizia.» «Non tutti gli elementi sono uguali, qualcuno è meglio degli altri.» Kaiser sorride. «La novità è che abbiamo quattro sospetti, che erano tutti in città il giorno in cui Wingate morì a New York. Ascolteremo i dettagli in sala riunioni. Quando avremo finito, vorrei parlarle da solo. Non abbiamo cenato. Forse potremmo farlo più tardi, se le va.» «Certo. Viene anche Wendy?» Lui sbuffa. «Ci penso io. Andiamo.» La sala riunioni è vicina. Mi aspettavo un tavolo da tre metri e delle sedie da sala d'aspetto. Invece mi trovo in una stanza lunga dodici metri con una parete a vetri con vista panoramica sul lago Pontchartrain. Intorno al tavolo, lungo nove metri, ci sono enormi poltrone dirigenziali in velluto blu con l'emblema dell'FBI ricamato sulla stoffa. All'estremità più vicina del tavolo siedono i soliti: Daniel Baxter, Agente Speciale Responsabile Bowles, il dottor Lenz e Bill Granger, il capo della sezione crimini violenti. La superficie è coperta di pile di carta e di cartelle, tra tazze di caffè, bottiglie d'acqua piene a metà e un telefono vivavoce. Kaiser si va a sedere vicino a Granger, di fronte a Bowles e a Lenz, io mi siedo vicino a lui. A capo tavola Baxter ha l'aria stanca e determinata del comandante di una nave che ha passato giorni a lottare contro un uragano, ma che ora è in vista del porto. Quando parla ha la voce rauca. «Signora Glass, nelle ultime otto ore abbiamo fatto progressi enormi. I pennelli di zibellino ci hanno condotto al dipartimento d'arte della Tulane University. Grazie all'aiuto del rettore abbiamo scoperto che l'ordinativo in questione fu fatto da un certo Roger Wheaton, un artista che risiede al Newcomb College, anch'esso parte dell'università.» «Il nome non mi è nuovo.» «Wheaton è uno degli artisti più stimati in America. Ha cinquantotto anni, e arrivò a Tulane due anni fa.» «All'incirca all'epoca delle prime sparizioni» dice Bill Granger. «Wheaton crebbe nel Vermont,» continua Baxter «e con l'eccezione dei quattro anni passati nel corpo dei marines, ha vissuto tutta la vita tra il Vermont e New York. Negli ultimi dieci anni è stato subissato di offerte simili a quella che lo ha portato a Tulane, ma è una specie di orso che in precedenza aveva sempre rifiutato simili offerte. Due anni fa, però, ha cambiato idea e ha accettato un incarico a Tulane.» «Perché?»
«Ci arriviamo tra un minuto. Il punto principale è che Wheaton non fece l'ordine speciale di pennelli di zibellino solo per sé. Ha tre dottorandi che frequentano il suo studio come parte del programma di specializzazione, e che hanno studiato con lui fin dal suo arrivo: due uomini che lo hanno seguito da New York e una donna originaria della Louisiana.» «Uno dei sospetti è una donna?» «Una donna che ha accesso ai pennelli di zibellino; inoltre il taser usato per catturare la vittima di Dorignac fa sì che il responsabile possa essere un individuo di sesso femminile.» Nonostante ciò che ho appena udito mi sembri alquanto improbabile, passo direttamente alla domanda successiva: «Wheaton si portò con sé degli studenti?». «Tulane assunse Roger Wheaton in base alla sua reputazione. Averlo nel corpo docenti è un prestigio per l'università, che gli ha dato la possibilità di scegliere i partecipanti ai suoi corsi di dottorato. Wheaton tiene anche un corso regolare con cinquantuno studenti, e ognuno di loro avrebbe potuto certamente mettere le mani su quei pennelli. Ma non abbiamo intenzione di ricorrere a lei in questa fase delle indagini. Il nostro obiettivo è Wheaton e i suoi tre studenti di dottorato.» «Quando li sentiremo?» «Domani. Tutti quanti, non importa quanto ci vuole. Voglio ridurre al minimo la possibilità che si parlino prima di essere interrogati. Però prima di passare ai dettagli, dovrebbe capire la nostra posizione nell'attuale situazione. L'unità di supporto investigativo di solito lavora in qualità di consulente per le forze di polizia locali o statali. Noi forniamo la nostra esperienza in materia di crimini in serie, ma il lavoro d'indagine è svolto dalla polizia che fa gli interrogatori, gli arresti e si prende il merito dei risultati. Però in un caso come questo, protrattosi così a lungo, quando abbiamo la convinzione che verranno commessi altri crimini in futuro, veniamo pesantemente coinvolti in tutte le fasi dell'indagine.» «Capisco.» «La situazione qui a New Orleans è unica. L'estensione della città ha creato un groviglio di giurisdizioni. In queste sparizioni sono coinvolti sette diversi dipartimenti di polizia, e sebbene non tutti abbiano investigatori della omicidi, ci sono più di due dozzine di investigatori che si occupano del caso. Al momento noi siamo a capo della squadra che coordina le indagini, ma tutti i poliziotti coinvolti nel caso vorrebbero interrogare Wheaton e i suoi studenti. Però l'arma più potente a disposizione per un interro-
gatorio del genere è lei, signora Glass. E per dirla senza mezzi termini, lei fa parte della nostra squadra.» «Per il momento.» Baxter dà una breve occhiata a Kaiser, ma lui non reagisce. «Siamo anche riusciti a radunare molti quadri delle "Donne Addormentate" alla National Gallery di Washington, cosa che le forze di polizia locali non avrebbero mai potuto fare. Per questo, e per la rivalità tra le diverse giurisdizioni, noi saremo i primi a interrogare i sospetti, che si trovano sotto sorveglianza dal momento in cui sono stati identificati, ma che verranno avvicinati solo dopo la nostra entrata in azione. Le pressioni su quest'indagine sono enormi. Le vittime appartengono a famiglie abbienti. Una delle studentesse di Tulane era, meglio è, la figlia di un giudice federale di New York. Perciò mentre noi interrogheremo Roger Wheaton all'università, il dipartimento di polizia di New Orleans perquisirà la sua abitazione da cima a fondo. Stiamo già passando al setaccio la sua vita, per quanto ci permettono i dati a nostra disposizione. Lo stesso vale per i suoi tre studenti di dottorato, anche se per due casi non sono ottimista. Indagare sugli studenti d'arte è come indagare sui camerieri; i dati in archivio sono quasi inesistenti. Al momento nessuno dei quattro ha un alibi sicuro per la sparizione avvenuta al Dorignac. Tutti erano all'inaugurazione del New Orleans Museum of Arts fino alle diciannove e trenta. Il rettore ha controllato. Poi non sappiamo più niente.» Gli occhi scuri di Baxter mi trapassano da parte a parte. «Domani, signora Glass, siamo in grado di sferrare il colpo. Dobbiamo colpire il bersaglio. Se lo manchiamo, perdiamo la migliore occasione che abbiamo mai avuto di strappare una confessione al nostro sospetto.» «Ho capito. Passiamo ai dettagli.» Baxter sposta una pila di fogli. «Vi dò un breve cenno su ognuno di loro» continua Baxter. «Anche a beneficio di John.» L'ASR Bowles si alza e spegne la luce, e in fondo alla stanza si illumina un grande schermo appeso al soffitto. «Desidero che prima li vediate tutti e quattro» spiega Baxter. «Guardate se hanno un che di familiare; poi li analizzeremo individualmente. Queste immagini sono state trasmesse dal nostro centro operazioni di emergenza che è su questo stesso piano.» Baxter si sporge in avanti e si rivolge all'interfono sul tavolo. «Tom, dacci le immagini.» Sullo schermo appaiono simultaneamente quattro fotografie. Nessuna mi sembra familiare né come me l'ero immaginata. Le mie idee di artisti deri-
vano dai libri di scuola e dai film. Quando sento la parola "studenti" immagino dei ventenni. Tra queste persone, suppongo che il più anziano sia Roger Wheaton. Porta delle lenti bifocali, e mi ricorda l'attore Max von Sydow: aspetto severo, aria scandinava e capelli grigi che arrivano alle spalle. Vicino c'è la fotografia di un tipo sulla quarantina che sembra un ex detenuto: occhi scavati, barba sfatta, un duro, poi mi accorgo che indossa l'uniforme del carcere. «Quel tizio è un detenuto?» «È stato due volte a Sing Sing» dice Baxter. «Ne parleremo tra un momento. Abbiamo una bella accozzaglia di tipi strani, non sto scherzando.» «È una descrizione scientifica?» chiede Kaiser. Bowles ride di cuore. «Queste facce vi dicono qualcosa?» chiede Baxter fissando gli occhi su di me. «Per il momento no.» L'altro uomo è incredibilmente bello, e il mio sesto senso mi suggerisce che è gay. Anche la donna è attraente: ha dei lunghi capelli neri, la carnagione chiara e gli occhi neri. Ma nonostante il colore della pelle qualcosa mi dice che dev'essere di origine africana. «L'uomo più vecchio è Roger Wheaton» spiega Baxter. «Il carcerato è Leon Isaac Gaines, quarantadue anni, cresciuto nel Queens, a New York. Il terzo è Frank Smith, trentacinque anni, anche lui di New York. La donna è Thalia Laveau, di trentanove anni, nata qui in Louisiana, a Terrebonne Parish.» Ho capito. Thalia Laveau è una "sabina", un gruppo etnico di cui l'FBI probabilmente non ha mai sentito parlare. «Tutti e quattro i sospetti hanno vissuto a New York per un certo periodo,» aggiunge Baxter «dunque tutti potrebbero avere dei legami con la persona che uccise Wingate.» Si sporge verso l'interfono. «Fate vedere Wheaton da solo.» Le quattro foto svaniscono, sostituite da un'istantanea di Roger Wheaton. Dietro le lenti bifocali si vedono gli occhi infossati dell'artista e il suo viso lungo e deciso. Assomiglia più a un artigiano che a un pittore, un genio del metallo e del legno. «Prima di dedicarci alla sua biografia,» dice Baxter «affrontiamo il motivo che ha spinto Wheaton a New Orleans. Tre anni fa a quest'artista di fama internazionale venne diagnosticato una sclerodermia, malattia potenzialmente letale.» Baxter si rivolge al dottor Lenz. «Arthur?»
Lenz sospira e mentre parla volta la testa verso di me. «La sclerodermia è generalmente ritenuta una malattia tipicamente femminile, invece colpisce anche gli uomini e di solito in forma più grave. Negli uomini i sintomi esterni, quali l'ispessimento della cute del viso, non sono sempre ovvi o presenti, ma i danni interni sono rapidi. La sclerodermia è un disturbo di natura vascolare che provoca un blocco funzionale degli organi interni, polmoni inclusi. Nel caso di Wheaton si manifestò il cosiddetto fenomeno di Raynaud: uno spasmo e una costrizione dei vasi delle estremità, di solito le dita, ma anche il naso e il pene, a causa dell'esposizione al freddo. Gli attacchi interrompono completamente la circolazione delle dita, a volte per un tempo sufficiente a provocare dei danni tissutali irreversibili. Si può rendere necessaria anche l'amputazione. Le persone affette spesso indossano guanti per la maggior parte del tempo.» «Wheaton si è trasferito al Sud per evitare questi inconvenienti?» chiedo. «Parrebbe di sì, anche se non è un rimedio consigliato dai medici. In un certo senso è inutile. Al Sud si fa maggior uso dell'aria condizionata, inoltre un attacco può essere indotto semplicemente aprendo un frigorifero. Ma l'università ha fatto di tutto per andare incontro ai bisogni di Wheaton. Negli ultimi anni della sua vita Paul Klee soffrì della stessa malattia, che condizionò pesantemente la sua produzione artistica. Il contenuto dei suoi quadri divenne cupo, e i danni alle dita lo costrinsero a cambiare stile di pittura. Lui...» Baxter ha alzato la mano. «Arthur, dobbiamo concentrarci sui fatti principali. C'è ancora tanto da fare.» Lenz ama ascoltare la propria voce e non gradisce le interruzioni, ma Daniel Baxter non esita a troncare il suo discorso. «Roger Wheaton» dice Baxter con il tono di chi sta leggendo un cartellone per gli annunciatori televisivi. «Nato nel 1943 nelle campagne del Vermont. Era il più giovane di tre fratelli. I due maggiori si arruolarono appena preso il diploma di scuola superiore, uno nell'esercito, l'altro in marina. Da piccolo Wheaton non ricevette nessuna istruzione formale, ma nelle interviste, purtroppo poche, ha detto che sua madre amò molto l'arte classica. Fu lei a incoraggiarlo a imitare i vecchi maestri, copiando le illustrazioni a colori contenute in un libro che gli regalò. Lui mostrò un talento eccezionale, e a diciassette anni si trasferì a New York. Di quel periodo della sua vita non sappiamo molto, ma nelle interviste rilasciate ha detto di essersi mantenuto facendo lavori saltuari e ritratti per le strade. Come arti-
sta non ebbe successo e nel 1966 si arruolò nei marines. Servì per due turni in Vietnam, guadagnandosi la Bronze Star e il Purple Heart...» Guardo Kaiser che sotto il tavolo mi schiaccia il piede. «Wheaton istituì un'azione disciplinare ai danni di due membri del suo plotone che avevano violentato una bambina vietnamita di dodici anni. Lui portò il fatto davanti alla corte marziale, e i responsabili finirono nella prigione di Leavenworth. Cosa ne pensi, John?» Kaiser annuisce nella semioscurità. «Che nel suo plotone Wheaton deve essere stato amato come lo scorbuto. Questo ci dice qualcosa di lui come persona, ma non so bene cosa. O ha assistito a qualcosa di veramente tremendo verso cui sentiva l'obbligo morale di reagire, oppure ha qualche specie di compulsione per gli atti di eroismo.» L'osservazione mi offende. «C'è forse uno stupro che non sia tremendo da vedere?» chiedo cercando di mantenere la voce sotto controllo. «Perché Wheaton non può avere fatto la cosa giusta non lasciando correre?» Baxter risponde al posto di Kaiser. «Anch'io ho fatto il militare in Vietnam, signora Glass. Quasi tutti i soldati, davanti a una situazione analoga a quella che ho descritto, si sarebbero sentiti indignati, ma avrebbero fatto finta di niente. Pochissimi avrebbero portato la cosa all'attenzione dei comandi, causando un'azione disciplinare. In retrospettiva non è una bella cosa ma, all'epoca, nessuno consegnava per un'azione disciplinare le nostre truppe se non si trattava di qualcosa simile a un massacro. Dopo quell'episodio Wheaton lasciò la sua unità, e non è difficile capirne la ragione. Comunque aveva uno stato di servizio immacolato e con molte menzioni di merito da parte dei suoi comandanti.» «Dovremmo rintracciare i nomi dei suoi commilitoni» dice Kaiser. «Non solo quelli degli ufficiali.» «Ci stiamo lavorando» risponde Baxter. «C'è ancora da aggiungere che Wheaton perse un fratello in Vietnam, ucciso in un bar di Saigon durante un attacco terroristico. L'altro fratello morì d'infarto nel 1974.» Baxter sposta dei fogli. «Dopo il Vietnam ritornò a New York, si iscrisse a un corso all'università e iniziò lentamente a farsi un nome come ritrattista. Si mantenne così per anni, lavorando contemporaneamente alla sua passione segreta: i paesaggi. Negli ultimi vent'anni ha realizzato una serie di quadri aventi lo stesso soggetto: una radura nella foresta, e ogni dipinto è intitolato La Radura. Inizialmente dipingeva in modo realistico, ma nel corso degli anni il suo stile è diventato sempre più astratto. I quadri sono ancora intitolati La Radura, ma il contenuto non è più riconoscibile. I pri-
mi, quelli più realistici, mostravano una radura nella foresta simile a quelle del Vermont, oppure la vegetazione tipica del Vietnam. A volte una mescolanza dei due, quindi non si può dire con certezza quale sia l'origine dell'immagine o il suo significato. Quando gli fu chiesto nelle interviste, Wheaton rispose che i quadri parlano da soli.» «Un'evoluzione dal realismo all'astrattismo» commenta Kaiser. «Esattamente il contrario di ciò che capita nelle "Donne Addormentate".» «L'evoluzione di Wheaton è molto più marcata» interviene Lenz. «Adesso il suo stile è così particolare che ha dato vita, nell'ambiente artistico, a un genere o scuola, chiamato "impressionismo cupo". Non per il colore scuro dei dipinti, anche se gran parte della produzione recente è di quel tipo, ma per il contenuto. Usa delle tecniche impressioniste, ma i primi impressionisti tendevano a dipingere ciò che potremmo chiamare soggetti lieti, temi pastorali e tranquilli. Il lavoro di Wheaton è molto diverso.» «De Becque disse che l'artista che dipinge le "Donne Addormentate" usa delle tecniche impressioniste» dico a Lenz. «Per lo meno nel modo in cui applica il colore.» «È vero» continua Lenz. «Ma lui abbandonò lo stile puro molto presto. Wheaton ha successo perché ha aggiunto qualcosa di nuovo a quello stile. Però, per quanto riguarda l'ipotesi che sia l'autore delle "Donne Addormentate", due esperti ci hanno detto che queste non hanno alcun elemento in comune con i quadri di Wheaton.» «Un artista potrebbe dipingere usando due stili completamente diversi senza che gli esperti se ne accorgano?» chiede Baxter. «Se lo ha fatto per dimostrare qualcosa, è possibile.» «Per esempio per evitare la galera?» dice Baxter. «Probabilmente. Ma nel corso della produzione certe idiosincrasie diventano apparenti. Abbiamo rintracciato diversi ritratti dipinti da Wheaton anni fa per confrontare il suo modo di rappresentare pelle, occhi, capelli ecc., con quello dell'artista delle "Donne Addormentate". È un discorso molto tecnico, ma la risposta conclusiva è no. Non avrebbe potuto dissimulare fino a tal punto. Naturalmente analizzeremo i colori, le tele, e tutti gli altri materiali per esserne certi.» «Avete trovato peli provenienti da pennelli di zibellino kolinski nei dipinti di Wheaton?» «Sì. Ma li abbiamo anche trovati in quelli di Smith, Gaines e Laveau.» «A quando risalgono?» «A due anni fa, quando arrivarono a Tulane.»
«Wheaton aveva cominciato solo allora a usare quei pennelli speciali?» «Sembrerebbe di sì. Dovremo chiedergli il motivo. Continuiamo. Riuscirei a parlare ancora un'ora solo di Wheaton, ma nel gruppo ci sono alcuni sospetti molto più probabili.» Baxter parla nell'interfono: «Tom, metti Gaines». La fotografia di Wheaton è sostituita dalla foto segnaletica di un carcerato che, se me lo trovassi davanti, preferirei attraversare a piedi un'autostrada piena di traffico pur di stargli alla larga. Ha gli occhi folli, la pelle molto chiara e un aspetto malsano. «Leon Isaac Gaines» dice Baxter. «Se dovessi scommetterci adesso direi che è il nostro uomo a New Orleans. Il padre scontò una condanna a Sing Sing per rapporti sessuali con una minorenne, indicando la strada al figlio, credo.» «Un minorenne maschio o femmina?» chiede Kaiser. «Femmina.» «Età?» «Quattordici. Leon fu arrestato diverse volte quando era ancora minorenne: furto, aggressioni, voyeurismo e chi più ne ha più ne metta. Scontò una pena per avere appiccato degli incendi, ed entrò e uscì dal riformatorio fino ai vent'anni.» Kaiser grugnisce, e io so perché. Appiccare incendi da piccoli è uno dei tre indicatori che caratterizzano un potenziale serial killer nell'età giovanile. Enuresi, incendi dolosi e crudeltà verso gli animali, li ricordo tutti dalle letture che feci l'anno scorso. «Sevizia anche gli animali» aggiunge Baxter. «A dodici anni seppellì il gatto dei vicini fino al collo nella sabbia e gli passò sopra con un tagliaerba.» «Enuresi?» si informa Kaiser. «Non risulta. Entrambi i genitori sono morti, ma non erano il tipo di persone che si sarebbe rivolto al medico in un caso del genere. Stiamo comunque cercando di rintracciare i medici che all'epoca lavoravano in zona.» Altro spostamento di fogli nella semioscurità. «Gaines è stato preso due volte: una per percosse, l'altra per tentato stupro.» «Dio santo» mormora Bowles. «In carcere non entrò in nessuna banda, ma prese parte a scontri violenti a Sing Sing. Stiamo localizzando i suoi compagni di cella. Manderemo degli agenti a interrogarli. Gaines non prese in mano un pennello in vita sua finché non scontò la prima pena a Sing Sing, nel 1975. Si rivelò così pro-
mettente che il guardiano fece vedere la sua produzione ad alcuni mercanti d'arte di New York. Pare che questi lo tenessero d'occhio, perché, durante la sua seconda condanna, vendettero delle cose fatte da lui. Attirò l'attenzione della comunità di artisti di New York.» «Fu allora che Wheaton lo notò?» chiede Kaiser. «All'epoca nessuno associa Wheaton a Gaines. Wheaton ha sempre vissuto da recluso, senza contatti con altri artisti. Da quando gli è stata diagnosticata la malattia, ha rotto i contatti con tutti eccetto il suo agente e gli studenti. A New Orleans ha sempre declinato inviti a feste, cene e cose simili che i mecenati locali delle arti gli hanno rivolto. Il rettore non è affatto contento.» «Che cosa dipinge Gaines?» domanda Kaiser. «Iniziò con scene della prigione. Adesso invece non fa altro che ritrarre la sua ragazza del momento. Per quanto ne sappiamo, ha sempre abusato delle donne con cui è stato; cosa che per altro lui rappresenta nei suoi quadri. I recensori definiscono la sua arte, qui cito letteralmente, "violenta".» «Quanti aspiranti aveva a disposizione Wheaton quando scelse questo tizio?» «Più di seicento.» «Cristo. Perché lo ha preso?» «Glielo puoi chiedere domani.» Sento Kaiser irrigidirsi al mio fianco. «Lo interrogherò io?» «Ne parleremo non appena avremo finito con le biografie» dice rapidamente Baxter. La rivalità tra Kaiser e Lenz si farà sentire in questo caso. «Allora anche Gaines sta dipingendo una serie di quadri?» chiedo io. «Lo stesso soggetto a ripetizione, proprio come Wheaton e l'individuo a cui stiamo dando la caccia?» «Lo fanno anche gli altri in un certo qual modo» dice Lenz. «Pare che sia stato uno dei criteri selettivi di Wheaton. Ha affermato che solo lo studio approfondito di un particolare soggetto può portare a una nuova comprensione, e a livelli più profondi di verità.» «Con uno di quei capolavori e cinquanta centesimi puoi comprarti una tazza di caffè» scherza Bowles. «Sono d'accordo» aggiunge Baxter. «Ma lui guadagna un mucchio di soldi.» «Quanto?» chiede Kaiser. «Il suo ultimo quadro è stato venduto per quattrocentomila dollari.»
«Ma siamo ben lontani dalle quotazioni delle "Donne Addormentate ".» «È vero, ma Wheaton è molto più prolifico del nostro sospetto. Va ricordato che i vicini hanno mandato più volte la polizia di New Orleans all'appartamento di Leon Gaines, ma la ragazza non ha ancora sporto denuncia. Quando la polizia arriva sul posto, lui di solito è ubriaco.» «Credo che abbiamo capito di che tipo si tratta» dice Kaiser. «Non del tutto. Gaines ha un furgoncino Dodge con i vetri oscurati.» Scende il silenzio. «C'è qualcun altro che abbia lo stesso tipo di mezzo di trasporto?» chiede Kaiser a voce bassa. «No» risponde Lenz. «Dobbiamo entrare in quel furgone. Se troviamo delle tracce biologiche, le possiamo confrontare con i campioni della banca dati del DNA delle vittime.» «Come avete ottenuto il DNA delle vittime?» chiedo. «Non avete i corpi.» «Nel caso di quattro vittime abbiamo delle ciocche di capelli di quand'erano bambine» spiega Kaiser. «Due avevano avuto il cancro al seno e avevano delle cellule staminali del midollo osseo conservate in ospedale nel caso di futuri trapianti. Altre due avevano affidato degli ovuli a cliniche che curano la sterilità. Altre due ancora avevano del sangue proveniente dal cordone ombelicale dei loro neonati messo da parte al momento della nascita. Non c'è un'esatta corrispondenza con la madre, ma in caso di bisogno può sempre servire.» «Incredibile!» «È stato John a raccogliere questi dati» dice Baxter con orgoglio. «Tutto fa brodo.» «Come sorella gemella,» spiega Kaiser «lei potrebbe dare alla banca dati gli elementi riguardanti sua sorella. È una cosa che avevo già intenzione di chiederle.» «Quando crede.» «Domani, non appena sarà terminato l'interrogatorio di Gaines,» dice Baxter «la polizia di New Orleans confischerà il furgone.» «Cosa c'entra il furgone? È un buon mezzo di trasporto per spostare un corpo?» Kaiser si gira verso di me, il suo viso è un'ombra dagli occhi luccicanti. «I violentatori e i serial killer lo preferiscono di gran lunga. È il pezzo di equipaggiamento più importante, un mezzo per fare sparire rapidamente le vittime, anche da un luogo pubblico. Successivamente, diventa
spesso la scena finale del crimine.» Cerco inutilmente di allontanare le immagini di Jane, violentata e fatta a pezzi in un furgone buio e puzzolente. «Io punto su Leon Gaines» afferma Baxter. «Ma dobbiamo considerare tutti quanti. Tom, facci vedere Frank Smith.» Il viso di Gaines viene sostituito da quello quasi angelico che ho visto precedentemente. «Questo è un enigma» dice Baxter. «Frank Smith è nato in una famiglia benestante di Westchester County nel 1965. Si è dedicato all'arte sin dalla più tenera età, e ha preso un master in arti figurative alla Columbia. È un gay dichiarato, e dipinge temi omosessuali, di solito nudi maschili, fin dai tempi dell'università.» «Non nudi di uomini addormentati?» chiede Kaiser. «Magari» risponde Baxter. «A detta di tutti Smith ha un grande talento, e dipinge secondo lo stile dei vecchi maestri. Per me i suoi quadri assomigliano a dei Rembrandt. Davvero incredibile.» «In verità si avvicina di più a Tiziano» commenta Lenz, ricevendo un grugnito dall'ASR. «Frank Smith si prepara da sé tele e colori. Cosa ci faccia nel corso di Wheaton è un mistero. È già famoso di suo. Wheaton ha maggior prestigio, certo, ma non ho idea di cosa Smith possa imparare da lui.» «Glielo chiederò domani» commenta Kaiser. Lenz sospira e guarda Baxter, il quale, a sua volta, fissa con ostinazione il tavolo. La luce bluastra del proiettore accentua le rughe sul viso del capo dell'USL «I quadri di Smith si vendono adesso a più di trentamila dollari» aggiunge Lenz. «Ah, dimenticavo» dice Baxter. «Al momento, Wheaton sta lavorando a un quadro che occupa un'intera stanza del Woldenberg Art Center di Tulane.» «Intende dire un'intera parete?» chiede Kaiser. «No, un'intera stanza. Sono tele multiple disposte su intelaiature curve che formano un cerchio completo. Dipinge su tele curve da anni, per dare la sensazione che si stia entrando nella radura che lui dipinge. Anche Monet ci provò. Ma questa nuova cosa è un cerchio completo. Enorme. Che occupa metà di una galleria di 32 metri quadrati.» Conosco dei fotografi che hanno realizzato qualcosa di simile per delle mostre. Di solito si ottiene un effetto scadente e artefatto, come certi dio-
rami da poco. «Smith ha dei precedenti?» chiede Kaiser. «Quando aveva circa vent'anni fu fermato un paio di volte per atti osceni durante le retate nei parchi pubblici. Niente di serio. I suoi genitori intervennero facendo cadere le accuse di sodomia, ma lui ha parlato di quegli arresti in diverse interviste. Sembra andarne fiero. Mi sono fatto mandare da New York i vecchi atti di arresto per controllarli.» «Questa gente ha un alibi?» chiedo. «Per tutte le sparizioni? Qualcuno ha controllato?» «Circa duecento poliziotti» bofonchia Bowles. «Noi abbiamo fatto lo stesso. Ma è un lavoro che la polizia conosce bene. Però finché non hanno interrogato i sospetti, non possono fare molto. È tutta roba sulla carta: acquisti con la carta di credito e cose del genere. Al momento sembra che si trovassero tutti in città. Dopo gli interrogatori di domani non useremo più i guanti di velluto. Questa gente finirà sotto i riflettori. Allora si prenderà un avvocato e tutto diventerà un incubo.» «E la ragazza?» chiede Kaiser. «Qual è la sua storia?» «Una perdita di tempo» dice Lenz. «Non ci sono precedenti; nessuna donna ha mai commesso omicidi di questo genere.» «Non sappiamo se ci sono stati omicidi» interviene Kaiser trattenendo a stento la rabbia. «Finché non troviamo dei corpi, anche uno soltanto, non possiamo essere certi di niente. Io non escludo nessuno sulla semplice base dei profili criminali. Pensiamo a Roger Wheaton. Il tizio ha superato il limite d'età, ma in base a ciò che ho sentito, ho molte domande da fargli.» «Thalia Laveau,» dice Baxter, cercando di calmare gli animi «nata a Bayou Terrebonne nel 1961. Il padre metteva trappole, la madre era casalinga.» «Che cosa intrappolava?» «Qualunque cosa che non intrappolasse prima lui» rispondo io. Bowles ride di cuore un'altra volta. «Lei conosce queste persone?» mi chiede Baxter. «Abbiamo fatto un paio di servizi laggiù, quando lavoravo per il "TimesPicayune". Problemi dell'industria della pesca degli scampi. Laggiù è un altro mondo. Tutto puzza di scampi messi a essiccare; impossibile dimenticare.» «Intervenga con qualunque cosa di rilevante.» Baxter guarda la cartella. «Etnicamente Laveau è in parte francese, in parte afro-americana e in parte indiana d'America.»
«Una redbone?» chiede Bowles. «No, è un'altra cosa» gli dico. «Che cos'è una redbone?» domanda Kaiser. «Come Leon Redbone?» «I redbone sono in parte neri, in parte indiani» rispondo. «Si sono stanziati nella parte occidentale della Louisiana e in quella orientale del Texas. Thalia Laveau è una sabina, dal nome della popolazione sconfitta ai tempi dell'antica Roma. Non so perché, ma è così.» «La ragazza non mi sembrava affatto di colore» commenta Baxter. «Nemmeno indiana» dice Kaiser, che è cresciuto nell'Ovest. «Rimetti su la fotografia.» «Tom, metti ancora la Laveau» dice Baxter. Nella fotografia successiva, questa volta a colori, Thalia Laveau non è solo carina, è bella. Gli occhi e i capelli sono scuri e lucenti; la pelle invece è color miele. «L'esperta è lei» mi dice Baxter. «Perciò, ci parli di questa gente.» «I sabini sono cacciatori e pescatori» spiego, ripensando al passato. «Allevano scampi. Vivono in baracche lungo i bayou che portano al Golfo del Messico. Non sono cajun, ma Thalia, vista l'età, deve essere cresciuta parlando francese. I bambini imparavano l'inglese a scuola. Sono cattolici, ma hanno strane superstizioni. C'è del vudù, credo, e anche dei matrimoni tra consanguinei. Il colore della pelle va dal bianco, come in questo caso, al marrone molto scuro. I capelli possono essere crespi o lisci come i suoi. È gente tenace, che ama ballare e suonare. Sono astuti. Non amano rivolgersi alle autorità in caso di problemi. Negli anni Ottanta hanno avuto delle difficoltà con i rifugiati vietnamiti che entrarono in competizione con loro per gli scampi. Ci sono stati spari e scontri tra barche. La cosa fece molto scalpore.» «È più di quanto non abbia io qui» commenta Baxter. «Per quel che sappiamo, Thalia Laveau non ha ricevuto nessuna educazione artistica di tipo tradizionale. Un giorno incominciò a fare dei disegni e dimostrò di saperci fare. Poi passò alla pittura, in gran parte acquerelli dei bayou e del Golfo. Abbandonò la scuola alla prima superiore, e a diciassette anni era a New York.» «Proprio come Wheaton» dico piano. «Sì. E come lui non arrivò presto al successo. Si guadagnò da vivere in molti modi: facendo la cameriera, lavorando saltuariamente per delle gallerie d'arte. Laveau ha lavorato come modella per un corso di specializzazione in pittura all'università di Tulane, inclusi dei nudi. La notizia più inte-
ressante che abbiamo su di lei è il fatto che sia lesbica.» «Sono pettegolezzi o è vero?» chiedo. «Sono voci. In questa fase non abbiamo voluto interrogare gli studenti. Vorremmo che tutti gli indiziati si presentassero impreparati all'interrogatorio di domani.» «Che cosa dipinge la Laveau?» domanda Kaiser. «Donne nude?» «No. Va in casa di persone che non conosce, vive un po' con loro e poi inizia a dipingere le loro vite.» «Come i documentari fotografici degli anni Sessanta» penso ad alta voce. «Gordon Parks.» «Tutti i suoi quadri vengono completati in una sola e unica seduta.» Baxter continua. «La stampa ha parlato molto di lei, ma le sue opere non hanno raggiunto quotazioni alte. Non si avvicina nemmeno da lontano a quelle di Wheaton e di Frank Smith.» «Quanto?» chiede Kaiser. «Un migliaio di dollari a pezzo?» «Ah... la cifra più alta pagata finora è stata settecento.» «I quadri di Leon Gaines vendono bene?» chiedo. «C'è chi ha pagato cinquemila dollari per un'opera. Se non fosse così coperto di debiti riuscirebbe a viverci. Si è indebitato fino al collo con i prestiti per pagarsi gli studi, e ha debiti con degli allibratori. Un suo ex compagno di cella ha detto che in prigione è diventato eroinomane.» «Ho l'impressione che Laveau e Gaines se la passino male» dice Kaiser. «Dove sono i milioni ricavati dalla vendita delle "Donne Addormentate"?» «Bella domanda.» Il dottor Lenz spiega: «Al momento propendo per Wheaton o per Frank Smith. Sono già ricchi, e saprebbero quindi come nascondere il denaro o a chi rivolgersi per farlo. Gaines è un ribelle violento ed egocentrico, ma è troppo grezzo per i crimini di cui ci stiamo occupando. E Laveau... è una donna». «Io non escludo nessuno» precisa Kaiser. «Dopo essere stato alle Cayman, sono convinto che dietro potrebbe esserci Marcel de Becque, che avrebbe potuto facilmente commissionare i quadri a qualcuno pagandoli pochi spiccioli, in confronto al guadagno complessivo. Quindi Thalia Laveau o uno sfigato come Gaines restano inclusi.» «Se dietro c'è de Becque,» controbatte Lenz «perché mai avrebbe dovuto attirare l'attenzione su di sé chiedendoci di inviargli Glass in cambio del permesso di fotografare i suoi quadri?» «È un tipo con le palle, che non ha paura di noi.»
«Nemmeno un po'» confermo io. «E Thalia Laveau? Che motivo potrebbe avere? Credete davvero che una donna dipinga donne morte per guadagno?» «Non l'ho ancora ascoltata» risponde Kaiser. «Non so. Ma il tipo di gente che lei ha descritto, i sabini, tendono a vivere dove sono nati, no?» «È vero.» «Allora perché se ne è andata? Era una ragazzina dotata e ambiziosa o scappava da qualcosa?» Kaiser guarda Baxter senza aspettare la risposta. «Come li avviciniamo? Chi se ne occupa?» Baxter va alla parete e accende la luce. «John,» esordisce Baxter «so che fin dall'inizio sei stato l'uomo di punta dell'indagine, e contro la tua volontà, cosa che apprezzo molto.» «Merda» borbotta Kaiser. Baxter lo implora a mani giunte. «Ascolta, John. Considerando la statura artistica di Wheaton, e le sue condizioni fisiche, propendo per affidare l'incarico ad Arthur. Lui conosce bene l'arte e può fare le domande appropriate sulla sua malattia, valutare come l'affronta dal punto di vista psicologico e...» Kaiser siede in silenzio mentre Baxter continua a parlare. La decisione è stata presa, e le considerazioni mediche rendono inutile qualsiasi discussione. «Di solito andrei anch'io» conclude Baxter. «Ma poiché credo che tu, John, dovresti esserci, ti mando al mio posto. Se pensi che non sia stata esplorata qualche possibilità, occupatene. Ci sarai anche tu. Okay? Solo che Arthur guiderà l'interrogatorio.» «E tu dove sarai?» si informa Kaiser con tono deciso. «Sul furgone di sorveglianza all'esterno. Arthur porterà un microfono.» Kaiser spalanca la bocca. «È un'importante eccezione alla prassi dell'FBI,» commenta Baxter «ma abbiamo la personale approvazione del direttore. La polizia ha posto come condizione, per lasciarci condurre l'interrogatorio da soli, la trasmissione in tempo reale e la registrazione su nastro.» «E Glass?» aggiunge Kaiser senza guardarmi. «Sarà sul furgone accanto a me finché Arthur non le manda un segnale convenuto: "Mi scuso, il nostro fotografo avrebbe dovuto essere qui dieci minuti fa". È la versione per i sospetti: noi non confischiamo i vostri quadri, scattiamo solo alcune fotografie. Invece quando avremo finito interverrà il dipartimento di polizia di New Orleans, che confischerà tutto quanto.
Dopo di che i sospetti saranno completamente prevenuti nei loro confronti, e non ci potremo fare proprio niente. Abbiamo una sola chance con ognuno di loro. Con Wheaton useremo i guanti di velluto. Gaines è il secondo, e con lui ci andremo pesante. John, tu condurrai l'interrogatorio perché hai maggiore esperienza con i carcerati. Con Smith e Laveau andremo a istinto. Ma in ogni caso, quando arriva la signora Glass...» «La prego, mi chiami semplicemente Jordan» intervengo. «Signora suona vecchio.» Baxter annuisce con gratitudine. «Quando Jordan arriva, non guarderà direttamente il sospetto. Così chi rimarrà sconvolto dalla sua comparsa dovrà faticare maggiormente per avere conferma di ciò che ha sotto gli occhi. Le persone innocenti non la guarderanno una seconda volta, anche se credo che Gaines se la squadrerà un po', ma il colpevole dovrebbe reagire come chi ha appena visto un fantasma. Cosa vera, in un certo senso.» «O la colpevole» dice Kaiser. «O la colpevole» ammette Baxter. «Gaines mi squadrerà un po'» ripeto. «È il tipo che si alza, mi lecca il viso e mi sfida a prenderlo a sberle?» «Se lo fa,» interviene Bill Granger, il capo della sezione crimini violenti «gli molli un calcio ben assestato nelle palle.» Baxter aggrotta la fronte. «Se Gaines dovesse fare una cosa del genere, non reagisca in modo eccessivo. Non sappiamo che cosa potrebbe succedere quando lei fa la sua comparsa. Il pittore potrebbe essere l'assassino, se le donne sono state uccise, e potrebbe decidere che il gioco è finito nel momento stesso in cui la vede. Potrebbe fare qualcosa di folle. Perciò John sarà armato.» Baxter fissa a lungo il suo ex protetto. «Agisci come reputi necessario.» Questa parte del piano innervosisce chiaramente Lenz. Anch'io vedo l'immagine di Kaiser che salta sul tavolo della prigione, nella camera del braccio della morte, e cerca di strangolare il prigioniero di cui mi ha parlato. Ma Baxter mostra il suo sostegno nei confronti di Kaiser, e Lenz non si mette a discutere. «Se uno di voi due esce e dice che qualcuno è seriamente sospetto,» dice Baxter «li portiamo dentro per interrogarli prima che intervenga la polizia.» Si guarda intorno. «Bene. Ci vediamo qui domani mattina alle sette per un'altra riunione preparatoria. Alle otto arriveranno anche gli osservatori della polizia. C'è altro?» Lenz sospira e sorride ironicamente a Baxter. Cerco di incontrare lo
sguardo di Kaiser, ma non fa trapelare nulla. «Ho bisogno di mangiare qualcosa e di dormire» dico a tutti alzandomi dalla sedia. «Prenda con sé l'agente Travis» aggiunge Baxter, riferendosi a Wendy. «Senz'altro.» «Il Camellia Grill è ancora aperto» Kaiser dice in tono casuale. «Lo conosce?» «Quando ero più giovane ci sarò stata centinaia di volte.» «Che cosa ha nel marsupio?» mi chiede Lenz. «È il mio genio nella lampada. Lo strofino e compare tutto ciò di cui ho bisogno.» «Dev'essere molto pesante» aggiunge in tono secco l'ASR Bowles. «Sì. Ma non siete contenti che io avessi una macchina fotografica quando scoppiò l'incendio?» «Certo» dice Baxter. «Riposi un po', Jordan. Domani sarà una giornata campale.» «Ci vediamo alle sette.» Kaiser mi rivolge un cenno di saluto mentre me ne vado, ma il dottor Lenz si limita a guardare; ai suoi occhi non sfugge nulla. CAPITOLO DODICESIMO Il Camellia Grill si trova all'incrocio tra Carrollton e St. Charles, il fiume scorre lento al di là dell'argine. Come molte altre vere e proprie istituzioni di New Orleans, è un luogo modesto, con un'aria rétro, le pareti rosa, gli sgabelli al bar, e le cameriere con il grembiulino. L'agente Wendy e io abbiamo appena ricevuto il menu, quando John Kaiser entra nel locale e si guarda intorno. Viene direttamente verso di noi e guarda Wendy, che passa da un'espressione di sorpresa a una di sconforto. «Potrei parlarti a quattr'occhi per un minuto?» le chiede. Lei si alza senza fiatare e lo segue all'esterno. Dalla finestra vedo Kaiser che parla e Wendy che lo ascolta con attenzione. Quando tornano, lei va all'estremità opposta del bar e Kaiser si siede vicino a me. «Non mi è sembrato molto facile» commento. «Cosa le ha detto?» «Che dovevo parlarle senza che Lenz ascoltasse.» «Capisco. Wendy si è presa una bella cotta per lei.» «Non l'ho mai incoraggiata.»
«Crede che la cosa la faccia stare meglio?» Kaiser prende il menu. «È una brava ragazza, ed è in gamba. Se la caverà.» Alza lo sguardo, e vedo che i suoi occhi sono cerchiati per la stanchezza. «Okay» dico guardando il menu. «Cosa ci fa lei qui?» «È il nostro primo appuntamento, no?» Lo dice senza battere ciglio, e io, mio malgrado, scoppio a ridere. «Via, cosa c'è?» «Quello che ho detto a Wendy. Voglio parlarle senza avere Lenz o Baxter tra i piedi. Sono preoccupato, ho la sensazione che non stiamo guadagnando terreno, che chiunque stia conducendo la partita sia in vantaggio. Forse in netto vantaggio.» Percepisco l'irrequietezza che lo anima dal modo in cui si comporta. «Va bene, mi dica.» «Non posso spiegarlo. È una sensazione. Ma vorrei fare qualcosa.» «Cosa?» «Ci arriveremo. Adesso ordiniamo.» Kaiser fa un gesto al cameriere che arriva quasi subito. Chiediamo omelette e succo d'arancia, io anche un caffelatte. Guardando rapidamente alla mia sinistra vedo Wendy che ci osserva con la coda dell'occhio. «Cosa direbbe Baxter se sapesse che lei mi parla a quattr'occhi?» «Non credo che Wendy andrà a dirglielo. Per questa volta ci concede il beneficio del dubbio.» «Ma lui non sarebbe d'accordo, vero?» «Si fida di me, ma fino a un certo punto. E quello che sto per dire non gli piacerebbe.» «E sarebbe?» Kaiser appoggia i gomiti sul bancone e gira lo sgabello per guardarmi direttamente. «Ha mai usato una pistola?» «Sì.» «Un'automatica o un revolver?» «Tutt'e due.» «Se gliene dò una, la porterà con sé?» «Cosa ne direbbe Baxter?» «Non sarebbe d'accordo. E io probabilmente verrei licenziato.» «Allora perché me lo chiede?» «Perché credo che lei sia in serio pericolo. Se l'indiziato la vuole, riuscirebbe a colpire Wendy prima che una di voi sappia che lui è nei paraggi. A
quel punto lei rimarrebbe da sola con lui. Se fosse armata, potrebbe comunque riuscire a reagire in tempo.» «E ucciderlo?» «Ne sarebbe capace?» «Se uccidesse Wendy sotto i miei occhi? Certo che ci riuscirei!» «E se lui la mettesse solo fuori combattimento e cercasse di trascinare lei in una macchina, gli sparerebbe?» Mi assale un'ondata di disagio, degli sprazzi di memoria che cerco di cancellare. «Farei ciò che va fatto per mettermi in salvo.» Lo sguardo di Kaiser non mi lascia. «Ha mai sparato a qualcuno?» «Mi hanno sparato. Non vorrei aggiungere altro.» «Ho l'impressione che la sua vita sia stata movimentata anche per gli standard di un corrispondente di guerra.» «Diciamo che non è stata monotona.» «Le è costato molto?» Distolgo lo sguardo, posandolo sulla schiena dritta di Wendy. Più la guardo, più mi piace. Ha scelto una strada molto più difficile della mia, ma la persegue con la stessa passione con cui io seguivo la mia quando ero più giovane. «Sì.» «Perciò si è presa del tempo per realizzare il libro a cui stava lavorando?» «Sì.» Guardo di nuovo Kaiser, i suoi occhi castani che sembrano autenticamente curiosi. «Ma quando cominciai davvero non ero più sicura che mi avrebbe dato ciò che cercavo.» «E cosa cercava?» «Non so bene.» Arrivano le omelette e il succo d'arancia, ma nessuno di noi due inizia a mangiare. «Posso farle una domanda personale?» mi chiede. «Va bene.» «È mai stata sposata?» «No. La cosa la disturba?» «Mi sorprende. Non ci sono molte donne eterosessuali con il suo aspetto che arrivano ai quaranta senza essersi sposate almeno una volta.» «È un modo simpatico per chiedermi cosa c'è che non va in me?» Kaiser ride. «Affatto! È solo un modo simpatico per fare il curioso.» «Crede che sarei una buona preda, non è vero?» «Sì.»
«Sono in molti a crederlo. Quando mi vedono da lontano.» «Che c'è che non va da vicino?» «Non sono come la maggior parte delle donne.» «Come mai?» «Beh, succede così. Incontro un tipo di bell'aspetto, di successo, indipendente: un medico, un giornalista, un consulente finanziario, un attore. Lui non vede l'ora di uscire con me. Sono una donna carina che fa un lavoro affascinante. Ai primi appuntamenti, lui mi mostra agli amici. Ci piacciamo. Ci conosciamo meglio. Poi, una settimana o un mese dopo, ricevo un nuovo incarico: Afghanistan, Brasile, Bosnia, Egitto. Non un lavoretto veloce alla Dan Rather, ma un mese sul posto trascinandomi dietro le macchine fotografiche. Forse il tipo mi voleva con lui a una festa la settimana seguente. O forse ci sono gli Oscar. Ma accetto l'incarico. Non prendo neanche in considerazione l'idea di rifiutare, e quando sono di ritorno il tipo ha scoperto che forse il nostro rapporto non funziona.» «Perché secondo lei?» «Perché la maggior parte dei tizi ha il gene uno-sopra.» «Cosa?» «Il gene uno-sopra. Devono essere in posizione di superiorità. A loro piace l'idea di stare con me, ma la realtà non equivale alle loro aspettative. A certi non piace una donna che guadagna più di loro. Quelli che fanno più soldi di me non sono contenti quando gli amici danno più importanza al mio lavoro che al loro. Certi non sopportano il fatto di non essere al primo posto nella mia vita. Non mi sto lamentando, sto solo cercando di spiegarle.» «Io faccio sessantottomila dollari all'anno» spiega Kaiser. «So che lei guadagna molto di più.» «Come fa a saperlo?» «Ho visto la sua dichiarazione dei redditi.» «Cosa?» «Dovevamo eliminarla dalla lista dei sospetti. Ecco il motivo.» «Fantastico.» «Ma non credo che il suo lavoro sia più importante del mio.» Prende in mano la forchetta e assaggia l'omelette. «E lei?» «No.» «E so che non sono al primo posto nella sua vita.» «Verissimo.» «E la cosa non mi dà alcun fastidio.»
Lo osservo mentre mette la salsa piccante sull'omelette, ma non riesco a decifrare il suo sguardo. «Di cosa stiamo parlando?» «Credo che lei lo sappia.» «Beh, almeno siamo in sintonia.» Lui sorride, questa volta apertamente, e i suoi occhi brillano. «Non ero venuto con l'intenzione di parlartene, ma sono contento di averlo fatto. Mi sento a disagio per via di tua sorella.» «Questo non ha niente a che fare con lei. Ciò che è successo a Jane non fa altro che confermare una cosa che ho imparato molto tempo fa: se aspetti a fare quello che dovresti o che desideri, potresti essere morto prima che si ripresenti l'occasione.» «Anch'io ho imparato la stessa cosa. In Vietnam. Ma nel ritmo frenetico della vita quotidiana è facile scordarselo, farsi intrappolare da ciò che si sta facendo, dalla gente che conta su di te e finire con una prospettiva fissa. Sai che cosa voglio dire?» «Per un bel po' ho visto il mondo soltanto attraverso una lente.» «E adesso?» «Adesso sono sospesa. Almeno lo sono stata finché non ho trovato i quadri. Ma sotto sotto non sono realmente attaccata a niente.» «Ce la fai a sopportare un'altra domanda personale?» «Può darsi.» «Lenz mi ha detto che non eri molto legata a tua sorella. Eppure ti stai dando da fare più di qualunque altro parente coinvolto nel caso. Ritrovarla o riscoprire la verità è diventato il tuo scopo nella vita. Come mai?» Come mai? «Ci sono cose che Lenz non conosce. È vero, tra Jane e me ci sono stati dei problemi, che si sono trascinati fino all'età adulta. Ma tre anni fa, mi presi un bello spavento. Ero andata al pronto soccorso per dei dolori e mi ritrovai nel reparto di oncologia. Credevano avessi un cancro alle ovaie. Per fortuna ero a San Francisco e non chissà dove alle prese con un incarico. Ma i miei amici erano tutti via. Ero sola e spaventata da morire.» Mi fermo per deglutire, cercando di ricacciare il groppo che mi sale in gola. «A un certo punto, nel cuore della notte, mi sveglio e trovo Jane accanto al mio letto che mi tiene la mano. Pensai che fosse un sogno. Lei mi raccontò di essersi svegliata da un sonno profondo la notte precedente a causa di un forte dolore e di aver visto nella sua mente l'immagine del mio viso. Chiamò casa mia e trovò la segreteria telefonica. Poi chiamò la mia agenzia e venne a sapere che ero in ospedale. Lasciò i bambini con
il marito e prese il primo aereo per raggiungermi. Non si mosse dal mio letto per quattro giorni.» «Non eravate mai state così vicine prima?» «Mai. Non sto dicendo che le colpe passate scomparvero per magia. Ma mi confidò alcune cose. Mi disse che con il passare degli anni iniziava a capire i sacrifici che avevo fatto prendendomi cura di lei quando eravamo piccole. Aveva capito che avevo voluto solo il suo bene.» Sollevo la forchetta e disegno dei cerchi immaginari sulla superficie del bancone. «Quando si è giovani è facile sentirsi indipendenti, credere di non aver bisogno di nessuno. Ma con il trascorrere del tempo, la famiglia diventa importante. E con la madre che ci ritroviamo, io e Jane non avevamo che noi stesse.» «Hai usato il passato.» «Al momento non so cosa pensare. So solo che la devo ritrovare. Viva o morta, comunque sia. È sangue del mio sangue e le voglio bene. Tutto qui. Devo trovare mia sorella.» «Ci riuscirai, Jordan.» «Grazie.» «Hai mai desiderato farti una famiglia? Sistemarti, avere dei bambini eccetera?» «Ogni donna che ho conosciuto lo desidera in un modo o nell'altro.» «E tu?» «Sento che non mi resta più molto tempo. Ieri sera sono stata dai miei nipoti, e mi sono sentita sopraffare dai miei sentimenti per loro.» Kaiser fissa il bancone. «Wendy mi ha detto che devi avere avuto qualche problema da tuo cognato.» «Sai una cosa? Io riesco a sopportare voi altri soltanto fino a un certo punto. Ma c'è un limite che non dovete oltrepassare.» «Me lo ha riferito perché ha l'incarico di proteggerti.» «Non intendo rinunciare alla mia privacy per essere protetta.» Bevo un lungo sorso di caffè e cerco di controllarmi. «Si può sapere cosa sai di me? Conosci la mia cartella clinica? Sai anche la misura di reggiseno?» «Quella non la conosco» risponde serio. «Ti interessa? Vuoi saperla?» «Penso che fare luce in materia sia compito mio.» «Dedicandoci il tempo necessario, potresti.» «Naturalmente.» Beve del succo di frutta e si asciuga la bocca con il tovagliolo. «E quanto ci vorrebbe secondo te?»
«Almeno quattro ore senza interruzioni.» «Domani non abbiamo quattro ore.» «E stasera non se ne parla.» Lui guarda nuovamente Wendy, che ha deciso di ignorarci. «No. C'è una riunione della task force proprio adesso al Centro Operazioni di Emergenza. Devo tornare là e non so quando riuscirò a liberarmi.» «A proposito, hai detto a de Becque di avere dei problemi a riconoscere nei volti astratti dei quadri quelli delle vittime, non è così?» Kaiser annuisce. «Undici vittime, diciannove quadri. Due problemi principali. Devono esserci vittime di cui non siamo a conoscenza. Omicidi o sparizioni che non hanno esattamente le caratteristiche che cerchiamo. Forse prostitute o persone scappate da casa, e di cui nessuno ha denunciato la scomparsa. Forse i loro corpi sono stati ritrovati, ma non possiamo saperlo, dato che corrispondono ai quadri più astratti. Ma io e un poliziotto della Jefferson Parish abbiamo preso in esame tutti i casi di omicidi e di persone scomparse negli ultimi tre anni e abbiamo trovato solo alcune possibilità, nessuna delle quali sembra molto probabile.» «Quanti quadri sono stati ricondotti alle vittime già accertate?» «Su undici, sei certi e due molto probabili. Ma in alcuni quadri i visi sono cosi vaghi o distorti da rendere impossibile un'identificazione sicura.» «Chi se ne occupa?» «L'università dell'Arizona. In passato hanno fatto degli ottimi lavori per noi: elaborazione digitale di fotografie.» «Ma non stavolta.» «Non ancora.» «Perché in questo caso non si tratta di migliorare una fotografia. Le distorsioni che volete eliminare non dipendono dalla messa a fuoco o da una scarsa risoluzione. Sono delle distorsioni create dalla mente umana, forse da una mente umana malata, e possono avere pochissima o nessuna corrispondenza con la realtà.» Kaiser mi fissa senza battere ciglio. «Cosa consigli?» «Conosco dei fotografi che lavorano esclusivamente in campo digitale. Non ho intenzione di fare dei nomi, ma ricordo di avere sentito uno di loro parlare di un sistema, commissionato dal governo alla CIA, alla NASA o a qualcun altro, per l'interpretazione delle fotografie satellitari, allo scopo di cercare di ottenere una coerenza visiva dal caos. Lui non sapeva molto altro e io non ero particolarmente interessata, ma ricordo quello che ti ho detto.»
«Quanto tempo fa è successo?» «Due o tre anni fa.» «Il sistema aveva un nome?» «All'epoca era chiamato Argus. Hai presente la mitica bestia con centinaia di occhi?» «Dirò a Baxter di parlarne con le agenzie che hai citato e vedere cosa riesce a scoprire.» «Okay. Ecco il mio contributo: la colazione la paga l'FBI?» «Credo che possa permetterselo.» Senza una ragione particolare Kaiser allunga la mano per toccare la mia, e i brividi che salgono lungo il mio braccio fanno suonare il mio campanello d'allarme. «Senti,» mi dice, dando un'altra occhiata a Wendy «perché non...» Ritraggo la mano. «Cerchiamo di non correre. C'è qualcosa. Lo sappiamo. Stiamo a vedere cosa succede.» Lui annuisce lentamente. «Okay, la palla passa a te.» Finiamo di mangiare. Sono contenta che non senta la necessità di parlare tanto per parlare; è un buon segno. Dopo aver pagato il conto, mi accompagna da Wendy e la ringrazia per il tempo che ci ha concesso. Parla e si muove con tale distacco professionale che Wendy sembra riprendere speranza. Ciò non ha niente a che fare con la sua intelligenza. Tutti noi vediamo ciò che vogliamo vedere finché non siamo costretti a fare altrimenti. Fuori, tra un gruppo di studenti universitari, Kaiser ci saluta per tornare in ufficio. Sulla strada di casa Wendy non parla molto e io ne sono lieta. Per quanto lei mi piaccia, credo che domani sia il momento giusto per cercare un albergo. CAPITOLO TREDICESIMO Mi trovo in un affollato furgone dell'FBI piazzato nel campus dell'università di Tulane, patria dei Green Wave, l'onda verde, un nome davvero adatto per la squadra di un campus che anche in ottobre assomiglia a un giardino lussureggiante. Le querce sono ricoperte di foglie, le palme rigogliose, e i prati luccicano al sole come distese d'erba appena falciate. Il furgone è a sei o sette metri dal Woldenberg Art Center, un'imponente vecchio edificio in mattoni che ospita i dipartimenti di arte dell'università e la Newcomb Art Gallery. Trenta secondi fa, John Kaiser e Arthur Lenz hanno varcato i portoni
della galleria per incontrare Roger Wheaton, l'artista che vive all'università. Il dottor Lenz indossa un microfono e una trasmittente nascosti, che prova ripetutamente mentre si inoltra nell'edificio. «Arthur non si fida della tecnologia» commenta Baxter, seduto di fianco a me con il microfono a cuffia. «Tra l'altro, ho controllato il programma di cui lei ha parlato a John. Argus. Esiste. L'Ufficio Nazionale di Ricognizione lo usa per interpretare le foto satellitari. Da due ore macina le fotografie delle "Donne Addormentate" che non riusciamo a identificare.» «È venuto fuori qualcosa?» Baxter fa un sorriso d'incoraggiamento. «Mi dicono che sta sputando fuori facce che assomigliano a quelle di Picasso. Ma continueranno a fare girare il programma.» «Forse avremo un colpo di fortuna.» «Le ho anche trovato un albergo, il Doubletree, proprio sul lungo lago vicino all'ufficio. Credono che lei sia in viaggio per lavoro, quindi non faccia parola dell'FBI.» «Non c'è problema. Le sono veramente grata.» Già alle nove del mattino l'interno del furgone è spiacevolmente caldo. Attaccato a una borsa frigo, piena di ghiaccio secco per offrire un po' di sollievo, c'è un ventilatore a batteria, le cui pale rumorose riescono a malapena a tagliare la densa atmosfera. «Quando non c'erano ancora agenti di sesso femminile,» dice Baxter «qui dentro si stava in mutande.» «Non si faccia scrupoli per me. Mi spoglierei anch'io se dovessi restare qui ancora a lungo.» Baxter ride. Su sua richiesta indosso tailleur e scarpe con i tacchi per avere un aspetto più femminile di fronte ai sospetti. Questa mattina hanno mandato un agente donna, con le mie misure appuntate su un foglio da Dillard, il grande magazzino. Pare che l'ASR Bowles non abbia avuto nessun problema a fare aprire il negozio in anticipo, ma io, alle prese con la prova degli abiti ricevuti, ho perso gran parte della riunione strategica. «Con che preavviso Wheaton è stato informato dell'interrogatorio?» «Un'ora. Ci ha pensato il rettore dell'università. È in uno stato di completa agitazione. Se si scoprisse che dietro la scomparsa o la morte di una studentessa c'era un impiegato dell'università, i problemi legali sarebbero enormi. Ha detto a Wheaton di collaborare con noi, anche se l'idea che lui possa essere coinvolto in qualche attività criminale era chiaramente assurda. Non ha fatto parola dei pennelli di zibellino né delle "Donne Addor-
mentate", solo del fatto che avevamo delle prove che collegavano il dipartimento di arte di Tulane con un omicidio.» «Wheaton non ha problemi a essere interrogato?» «Nessuno, purché lui possa continuare a lavorare mentre parliamo. Sembra che sia ossessionato dalla sua tabella di marcia.» «Stiamo entrando» dice la voce di Lenz, accompagnata da una scarica. Baxter controlla gli indicatori dell'ADAT per essere certo che l'apparecchio stia registrando le parole dello psichiatra. Dal piccolo altoparlante sulla consolle di fronte a noi ci giunge il bussare alla porta, poi il rumore di questa che si apre. «Cosa diavolo è?» chiede Kaiser. «Il dipinto» dice Lenz. «Va' avanti. Là a destra...» Baxter dice: «Vogliamo che tu entri piuttosto in fretta, prima che Wheaton sia troppo a disagio». «Lei è Roger Wheaton?» chiede Kaiser. Dopo una pausa si sente una voce maschile, profonda e anziana che dice: «Sì. Lei è l'inviato dell'FBI?». «Sono l'agente speciale Kaiser. Lui è il dottor Arthur Lenz, il perito psichiatrico.» «Che strano. Buongiorno, signori. Che cosa posso fare per voi?» «Vorremmo rivolgerle alcune domande, signor Wheaton. Non dovrebbero portarle via molto tempo.» «Bene. Vorrei stendere il colore al più presto.» «Questo dipinto è... splendido» dice Lenz con voce piena di ammirazione. «Il suo capolavoro.» «Lo spero» risponde Wheaton. «Sarà l'ultimo.» «L'ultima Radura?» «Sì.» «Un monumento a tutta la sua produzione.» «Grazie.» «Ma perché intende smettere adesso?» Un'altra pausa, e quando Wheaton risponde la sua voce è carica di rimpianto. «La mia salute non è più quella di un tempo. Il rettore mi ha informato che avete delle domande da farmi. Sembrava molto misterioso.» «Signor Wheaton,» interviene Kaiser «lei è a conoscenza del fatto che in un anno sono scomparse, senza lasciare alcuna traccia, undici donne dalla zona di New Orleans.» «Come avrei potuto non esserlo? Ci sono delle riunioni dedicate alla si-
curezza personale delle studentesse due volte alla settimana. Le locandine sono ovunque.» «Bene. Noi ci troviamo qui proprio per questo. Alcune vittime sono, si fa per dire, riemerse dall'oscurità.» «Ho letto che è stata trovata la donna rapita dal negozio di alimentari. Ma il giornale diceva che l'FBI non credeva che fosse stata presa dallo stesso uomo.» La voce di Kaiser assume un tono confidenziale. «I mezzi di comunicazione hanno la loro utilità. Sono certo che lei comprende la situazione.» Dopo una pausa Wheaton aggiunge: «Certo. Bene. Ha appena detto che diverse vittime sono ricomparse. Avete ritrovato altri corpi?». «Non esattamente. Abbiamo scoperto una serie di quadri che le ritraggono.» «Quadri? Quadri delle donne scomparse?» «Proprio così. Le donne sono nude e sembrano addormentate. Probabilmente nel sonno della morte.» «Mio Dio. E voi siete venuti per farmi delle domande in proposito?» «Sì.» «Perché? I quadri sono stati scoperti qui vicino?» «No. Nel museo di Hong Kong.» «Hong Kong? Non capisco.» Tocco il braccio di Baxter. «Credevo che sarebbe stato Lenz a condurre l'interrogatorio.» «Arthur ha voluto così. Vuole che sia John a fare le domande che vanno fatte. Lui interverrà quando è il momento. Arthur è un uomo sottile.» «Signor Wheaton,» dice Kaiser «facendo delle analisi criminologiche di questi quadri sono stati ritrovati dei peli provenienti da un tipo particolare di pennelli: zibellini kolinski.» «State facendo delle indagini su ogni artista in America che usa pennelli di zibellino kolinski?» «No, sarebbe un compito troppo arduo, anche per noi. Ma i pennelli kolinski in questione non sono comuni. Sono di buona qualità, anzi della migliore, prodotti da una piccola fabbrica in Manciuria. Negli Stati Uniti c'è un unico importatore, che ne vende solo una quantità limitata a clienti particolari.» «E la Tulane University è una di questi. Adesso capisco. Certo. Ho fatto io l'ordine.» «Potrebbe dircene la ragione, per quanto ovvia possa sembrare?»
«Sono i migliori pennelli al mondo. Resistentissimi. Di solito vengono usati per gli acquerelli, ma si prestano a ogni materiale. Io li uso per le parti più delicate dei miei lavori a olio.» «Li usano anche i suoi studenti?» «Se non li avessi ordinati come materiale per questo corso, due dei miei studenti non avrebbero potuto permetterseli. Questo è uno dei benefici dell'ambiente accademico.» «Si tratta della signora Laveau e del signor Gaines?» Wheaton scoppia a ridere. «Sì. Frank potrebbe comperarsi un allevamento di zibellini se volesse.» «Si riferisce al signor Smith?» chiede Kaiser. «Sì, Frank Smith.» «Adesso lei sta usando un kolinski?» «No. Questo è di setola di maiale. Sembra grezzo, vero? Ma è un ottimo pennello comunque.» «Lei ha sempre usato rari pennelli kolinski?» «No.» Questa volta la pausa sembra interminabile. «Tre anni fa mi fu diagnosticata una malattia autoimmune che colpisce mani e dita. Per non alterare il mio stile, ho dovuto cambiare il modo di usare il pennello. Per un po' feci degli esperimenti, poi finalmente scoprii i kolinski speciali. Erano così buoni che incoraggiai i miei studenti a farne uso.» «Capisco. Quante persone hanno accesso ai pennelli?» «I miei studenti di dottorato, ovviamente.» «Nessun altro?» «Beh... questa non è un'area di massima sicurezza, come lei può vedere. Chiunque potrebbe entrare qui dentro e prendere un pennello se ne avesse l'intenzione. Gli studenti vengono spesso a vedere il mio lavoro. Per tenerli lontano abbiamo dovuto istituire un servizio di sorveglianza.» «Signor Wheaton,» domanda Kaiser con voce contrita «mi dispiace doverle rivolgere questa domanda, ma sarebbe in grado di fornirci un alibi per un certo numero di giorni negli ultimi diciotto mesi?» «Dovrei conoscere le date. Lei intende dire che sono sospettato di avere commesso quegli orrendi crimini?» «Chiunque abbia avuto accesso a quei pennelli è per definizione un sospetto. Sa dirci dove si trovava tre sere fa, dopo l'inaugurazione del museo? Diciamo tra le venti e quarantacinque e le ventuno e quindici?» «Mi trovavo a casa. E posso anche anticipare la sua prossima domanda. Ero solo. Dovrei contattare un avvocato?»
«È un suo diritto. Non vorrei in nessun modo influenzare la sua scelta.» «Capisco.» Adesso Wheaton sta rispondendo più lentamente, soppesando le parole. «Le dispiacerebbe dirci come ha selezionato ognuno dei suoi studenti?» gli chiede Kaiser. «Niente affatto. Ogni candidato inviò dei dipinti per una valutazione. C'era parecchio materiale da esaminare. Inizialmente valutai le fotografie inviate per posta. Successivamente presi l'aereo e venni qui per esaminare un gruppo di dipinti di ogni finalista.» «Per la selezione dei candidati usò altri criteri a parte i loro lavori?» «No.» «Aveva delle informazioni personali sui candidati?» «Credo di avere avuto una breve pagina su ognuno: una specie di curriculum vitae. Quello di Leon Gaines fu una lettura interessante.» «Non ho dubbi.» Kaiser cerca di sembrare amichevole, ma non c'è verso di nascondere il fatto che si tratta di un interrogatorio. «Che cosa la colpì nella produzione di ognuno di loro?» «Non credo di essere in grado di rispondere in modo conciso alla domanda» risponde Wheaton. «Potrebbe darci una breve descrizione di ogni studente?» «Non so molto sul loro conto.» «Diciamo, Frank Smith.» Un'altra lunga pausa, ma non è possibile sapere se sia causata da una certa riluttanza a collaborare o dalla necessità di trovare le parole. «Sono molto legato a Frank» dice finalmente Wheaton. «È un ragazzo di talento. Non ha mai avuto problemi economici, ma credo che abbia avuto un'infanzia difficile. Uno di quei padri, avete presente, con delle aspettative enormi estremamente convenzionali. Il talento e la passione di Frank sono senza limiti e non può fare altro che migliorare. Cura molto la tecnica e non ha preconcetti per quanto riguarda le tematiche. Non so cos'altro dire. Io non sono un critico. Di sicuro nemmeno un investigatore.» «Certo. Ha mai visto Frank Smith diventare violento?» «Violento? Ha una passione per il lavoro che fa. Ma, violento. No. Non ha un gran rispetto per il lavoro degli altri artisti, questo sì. Prende molte persone per il verso sbagliato. Frank conosce quasi tutto ciò che c'è da sapere sulla storia dell'arte, e non sopporta gli sciocchi. Potete immaginare l'effetto che ha su un uomo come Leon Gaines.» «Perché non ce lo dice lei?»
«Leon avrebbe ucciso Frank da un pezzo se la cosa non l'avesse fatto finire nel carcere di Angola, a vita. Sarebbe alla sua terza condanna. Non ne uscirebbe più.» «Ci parli di Gaines.» Il sospiro di Wheaton è così forte che riusciamo a percepirlo anche noi. «Leon è un uomo molto semplice. O molto complicato. Non mi è ancora chiaro. È un'anima in pena che non riuscirà mai a liberarsi dei suoi demoni. Nemmeno attraverso la sua arte, che è di sicuro sufficientemente violenta da esorcizzarne alcuni.» «È a conoscenza del fatto che picchia la sua ragazza?» «Non ho la minima idea di ciò che fa nel tempo libero, ma nulla mi sorprenderebbe.» «Crede che sia capace di uccidere?» «Siamo tutti capaci di uccidere, agente Kaiser.» «Lei è stato in Vietnam» prosegue Kaiser, prendendo spunto dalle parole di Wheaton. «È vero?» «Sì. Come lei ben sa.» «Lei ha uno stato di servizio davvero encomiabile.» «Feci ciò che mi fu chiesto.» «Lei fece ben di più. Si meritò la Bronze Star. Le dispiacerebbe dirmi cosa fece?» «Di certo lei ha visto la motivazione.» Al mio fianco Baxter scuote la testa. «Wheaton si sente a proprio agio; le domande si ritorcono su John.» «Le motivazioni non raccontano mai l'intera storia, non è così?» chiede Kaiser. «C'era anche lei, non è vero?» ribatte Wheaton. «Sì, nei Ranger. Compagnia H, Nono Cavalleggeri. Lei era nei marines?» «Terza divisione.» «Non davano medaglie per avere scavato delle buche.» «No. Si trattava di un'azione ordinaria. La mia compagnia era inchiodata in una risaia nei pressi di Quang Tri. Il sergente aveva messo il piede su una mina che gli portò via la gamba fino oltre il ginocchio. Due uomini andarono ad aiutarlo. Furono entrambi uccisi da un cecchino appostato tra gli alberi. Le condizioni atmosferiche non permettevano di utilizzare il napalm nella zona del cecchino, ma erano sufficientemente buone da consentirgli di vedere dove sparare. Neanche la nostra artiglieria poteva fermarlo.
Il sergente urlava che se non fossimo andati a prenderlo avrebbe fatto saltare una delle sue bombe a mano. Credetti che avrebbe potuto farlo, ma stava morendo dissanguato, quindi andai a prenderlo.» «Come se niente fosse?» «A volte le cose vanno cosi, no? Il cecchino mi sparò, ma non riuscì a colpirmi.» «So che lei riuscì a ucciderlo.» «Credo che l'essere riuscito a riportare indietro il sergente vivo, mi diede l'illusione di essere invulnerabile. Non ha mai avuto la stessa sensazione laggiù?» «Solo una volta, grazie a Dio. È una sensazione molto pericolosa.» «Sì. Ma a me servì. Presi un lanciagranate da un caporale e corsi attraverso la risaia...» «Minata?» «Sì. Ma io andavo a zigzag, il cecchino continuava a sparare e a mancarmi. Così riuscii a vedere le fiammate della sua arma. Quando arrivai a tiro, non ebbe più tempo per scappare. Era rimasto bloccato sull'albero. Io misi i piedi ben saldi sul terreno e lo liquidai. Quel giorno la fortuna fu dalla mia.» «Proprio così. E cosa ci dice dello stupro?», Altro silenzio; Kaiser in pochi secondi era passato da compagno d'armi ad avversario. «Cosa vuole sapere?» chiede Wheaton. «Dev'essersi fatto non pochi nemici, denunciando il fatto.» «Non avevo altra scelta.» «Si spieghi meglio.» «Agente Kaiser, io sono stato educato a trattare le donne con rispetto, a qualunque razza o nazionalità appartengano.» Avevo voglia di applaudire. «E non era una donna» aggiunge. «Era una bambina.» «Fu tentato stupro o vera e propria violenza carnale?» «Arrivai mentre stavano commettendo il reato. Stavamo perquisendo una casa alla ricerca di armi. Sentii delle grida da un capanno sul retro.» «Capisco. Due stupratori?» «Sì. Uno era seduto sul torace della bambina. Le premeva le ginocchia sulle braccia per tenerla ferma: l'altro stava... commettendo il fatto.» «E lei cosa fece?» «Urlai di smettere.»
«Ma uno era un suo superiore, vero? Un caporale?» «Vero.» «Smisero?» «Scoppiarono a ridere.» «Lei come reagì?» «Puntai l'arma e minacciai di sparare.» «Il suo M-16?» «All'epoca avevo un K-50 svedese. Non volevo rischiare la pelle con un M-16. Era un'arma che si inceppava con troppa facilità. Comprai il K da un soldato delle forze speciali di ricognizione in licenza a Saigon.» «Poi cosa successe?» «Mi insultarono e minacciarono di uccidermi, ma si fermarono.» «Li avrebbe uccisi?» «Li avrei feriti.» «Fece immediatamente rapporto?» «Sì.» «Cercò di soccorrere la bambina?» «No, non volevo dare le spalle a quei due.» «Giusto.» «La madre della bambina era nel capanno. L'avevano colpita facendole perdere i sensi, ma in quel momento stava tornando in sé. Ma, tutto questo cosa ha a che fare con l'indagine?» «Non lo so, signor Wheaton. Ma non dobbiamo tralasciare nulla. Apprezzo comunque la sua franchezza. Quello è un elemento a suo favore.» «Davvero?» Il rumore della stoffa contro il microfono mi fa capire che Lenz si sta muovendo per la stanza. «Si prepari» dice Baxter al mio fianco. «Signor Wheaton, devo dirle che l'opera a cui lei sta lavorando mi lascia assolutamente senza parole. Un ritorno al suo lavoro originario sorprenderebbe tutta la comunità artistica.» Anche a questa distanza è facile notare la cultura e gli studi accademici nella voce di Lenz, rispetto a quella di Kaiser. «Una cosa che sarei ben lieto di fare» dice Wheaton. «Non mi curo molto dei critici, non mi piacciono. Con loro non ho mai avuto problemi, ma hanno distrutto il lavoro di molte persone che ammiro.» «Cosa disse Wilde dei critici?» chiede Lenz. «Coloro che trovano significati tremendi in cose meravigliose sono corrotti senza essere affascinan-
ti?» «Proprio così!» grida Wheaton con gioia. «Lei parla come Frank. Lui è un grande ammiratore di Wilde.» «Davvero? Allora sono certo che ci intenderemo a meraviglia.» Altro rumore dagli abiti di Lenz. «Signor Wheaton, in qualità di perito psichiatrico, io sono anche medico. Vorrei quindi farle qualche domanda riguardo la sua malattia e sull'influenza che ha sul suo lavoro.» «È un argomento di cui preferisco non parlare.» Lenz non risponde subito, ma riesco a immaginare l'occhiata penetrante con cui sta scrutando in questo momento il viso di Roger Wheaton. «Capisco» dice infine lo psichiatra. «Ma temo di dovere insistere. Diagnosi di questo genere hanno un profondo impatto sulla sfera psicologica. È a conoscenza del fatto che anche Paul Klee era affetto da sclerodermia?» «Si. E anche il suo lavoro ne ha subito le conseguenze.» «Vedo che lei porta i guanti. Il trasferimento al Sud ha migliorato in qualche misura il fenomeno di Raynaud?» «In un certo senso. Ma soprattutto devo ringraziare l'università che ha fatto moltissimo per agevolarmi. Per frequentare i miei corsi gli studenti hanno dovuto acconsentire a seguire le lezioni in una sala senza aria condizionata. Una cosa per niente facile a New Orleans. Ma sembra che nessuno si sia lamentato.» «Certo che no. Lei è una persona molto famosa.» «In certi ambienti. Per rispondere alla sua domanda, io sono ancora soggetto a frequenti attacchi del fenomeno di Raynaud.» «Ha avuto dei danni permanenti ai tessuti della mano?» «Anche in questo caso preferirei non parlare della questione.» «Cercherò di essere il più breve possibile. Lei è in cura a New Orleans?» «Sono stato una volta al reparto di reumatologia dell'università. Non mi ha impressionato.» «Di sicuro lei avrebbe potuto trasferirsi in una città con un'università dotata di un reparto migliore per le malattie autoimmuni. Non ha mai preso in considerazione una tale possibilità?» «Ovunque io vada, non posso che ricevere cure palliative. Lei dovrebbe saperlo, dottore. Ho scoperto di cavarmela in modo migliore cercando di non pensarci o facendo del mio meglio.» «Capisco. L'anno scorso è stato sottoposto a test di funzionalità organica?» «No.»
«Controlla almeno con regolarità la pressione sanguigna?» «No.» «Sa che un'accelerata ipertensione è sintomo di...» «Dottore, non sono uno sciocco. Preferirei cambiare argomento, se non le dispiace. Mi resta troppo poco tempo per sprecarlo discutendo della cosa che mi sta uccidendo.» Provo una grande compassione mentre ascolto le domande martellanti di Lenz. «Perché non lo lascia in pace?» «Sente che c'è qualcosa» dice Baxter con voce tesa. «Crede davvero?» «La diagnosi di una malattia terminale è una delle cause principali di stress, in grado di spingere un individuo predisposto verso un comportamento omicida.» «Sa che si stanno provando delle nuove terapie rivoluzionarie?» domanda Lenz. «A Seattle, per esempio, usano trapianto di midollo spinale autologo.» «Lo so, dottor...?» «Lenz.» «Dottor Lenz, la ringrazio. Sono perfettamente consapevole della situazione in cui mi trovo. Mi chiedo se lo sia anche lei. Sono un artista. Non ho famiglia. L'unico scopo della mia vita è l'arte e continuerò a lavorare finché le forze me lo consentiranno. Presto cesserò di esistere, ma le mie opere resteranno a sconfiggere il tempo e la morte. Questa è la mia più grande soddisfazione.» La voce di Wheaton è uno squarcio di verità e richiede un silenzio rispettoso, come quello che accompagna la preghiera. «Avanti» incalza Baxter, tamburellando nervosamente sulla consolle che gli sta di fronte. «Falla entrare.» Ma Lenz non sa quando è il momento di fermarsi. «Vorrei ora passare a...» «Signor Wheaton, mi scuso» dice Kaiser duro. «Il nostro fotografo avrebbe dovuto essere qui dieci minuti fa. Se...» «Vada!» ordina Baxter, dandomi una pacca sul ginocchio. Spalanco la porta del furgone e dopo pochi istanti sono sul marciapiede, diretta verso la Newcombe Art Gallery, cercando di stare in equilibrio sui tacchi, che di solito non porto, con il cuore che mi batte all'impazzata nel petto.
Mentre varco la soglia mi assale l'odore dei colori a olio, che diventa sempre più intenso man mano che mi avvicino alla galleria principale. L'area d'ingresso è decorata con vetrate Tiffany, montate su entrambi i lati dell'ampio vestibolo. Quando entro, mi trovo davanti a un muro bianco, ricurvo. Poi vedo l'intelaiatura di legno. Ho di fronte il retro della tela di Wheaton, grande come la stanza che la ospita. Alla mia destra c'è un'apertura nella parete ricurva. Mentre la attraverso mi concentro sulle istruzioni ricevute da Baxter. Agire in modo distaccato e professionale, ma la prima occhiata del dipinto mi fa fermare. Il cerchio è formato da tele su pannelli alti due metri e mezzo e larghi almeno dieci. Solo la dimensione ispira meraviglia. Ma è l'immagine vera e propria a lasciarmi senza fiato. Ho l'impressione di essere entrata nel bosco di Atro creato da Tolkien: un mondo ombroso dove viti intricate e foglie cadute celano misteri che non vorremmo mai svelare. Questo mondo oscuro è attraversato da un sottile ruscello, che di tanto in tanto getta spruzzi bianchi su rocce e rami caduti. La scena mi colpisce perché mi aspettavo qualcosa di astratto, come gli ultimi lavori dell'artista. Ecco cosa voleva dire Lenz parlando di "un ritorno all'ispirazione originaria". Ho l'impressione che potrei entrare nella tela, prendere una fronda, e spezzarla in due con un rumore secco. Dove l'odore di pittura a olio non è così forte, mi pare di sentire il profumo delle foglie in decomposizione. C'è un solo pannello ricurvo completo, e davanti a questo c'è lo stesso Wheaton che tiene pennello e tavolozza nelle mani guantate. L'altro grande choc è la corporatura dell'artista. Il primo piano che avevo visto la sera precedente mi aveva fatto pensare a un uomo smilzo. Wheaton è un paio di centimetri più basso di Kaiser, che raggiunge il metro e ottantacinque. Le braccia magre e forti sostengono le spalle lievemente ricurve per l'età, le mani sono lunghe e affusolate. Il viso è espressivo e spicca da una massa di capelli argentati pettinati all'indietro, che arrivano più o meno all'altezza delle spalle. La pelle eccezionalmente liscia. Sembra una persona che ha trovato un luogo di grande pace, anche se le poche informazioni che ho sul suo conto lasciano intendere il contrario. «È lei la vostra fotografa?» chiede, poi mi sorride. Il suo sorriso svanisce mentre si volta verso Lenz, che come Kaiser non ha sentito la sua domanda, intento com'è a cogliere nell'espressione di Wheaton tracce di riconoscimento. Possono smettere di preoccuparsi: questo tizio non mi ha mai vista in vita sua. «Sissignore» dico io ad alta voce, cercando di risvegliarli dalla trance.
Wheaton si gira di nuovo verso di me. «Cosa deve fotografare?» «Il suo lavoro.» «Bene, scatti pure. Purché le sue fotografie restino nelle mani dell'FBI. Non voglio che nessun giornalista le veda finché il lavoro non è terminato.» «Certamente» dice finalmente Kaiser. «Saranno trattate come materiale strettamente riservato.» Kaiser mi guarda e capisco immediatamente che anche lui è della stessa mia opinione. Il grande nativo del Vermont non ha la più pallida idea di chi io sia. Dopo questo momento di confusione iniziale, mi accorgo che lo studio è surriscaldato. Kaiser si è tolto il cappotto, e ha la camicia sudata. Usando la stessa Mamiya impiegata da de Becque, faccio alcune foto ai diversi pannelli che formano il dipinto, ma è tutta finzione. Molte delle opere di Wheaton saranno confiscate non appena l'interrogatorio sarà terminato. Mi sento in colpa sapendo quanto le vicende successive peseranno e turberanno l'artista, che pare disposto a fare tutto il possibile per aiutarci. Mentre sono all'opera, Wheaton trascina una scala verso il pannello da completare, si arrampica a fatica, poi incomincia a dipingere con brevi pennellate a un'altezza di circa due metri. Poche volte nella mia carriera mi sono sentita in presenza di un genio. Questa è una di quelle. Ho un enorme desiderio di fare delle fotografie a Wheaton, di ritrarre l'artista al lavoro. Dopo un attimo di esitazione, gli scatto qualche foto, e lui sembra non farci caso. Nel mio marsupio ho un rullino di riserva, e in meno di un minuto sto ricaricando la macchina, completamente assorta nelle immagini. Wheaton ha il dono che molti altri grandi uomini possiedono: la capacità di continuare a lavorare come se la macchina da presa non esistesse. Mentre scatto so che queste immagini saranno eccezionali, e da qualche parte nella mia mente nutro la speranza che l'FBI non insista per avere la proprietà dei negativi. Kaiser e Lenz hanno attraversato la stanza e confabulano tra loro. Sento che sono pronti a passare a Leon Gaines. Infatti Kaiser attira la mia attenzione e fa cenno di smettere. Finisco il rullino prima di avvicinarmi alla scala per dare la mano a Wheaton. Di solito non stringo mani, ma in questa occasione sento di dovere fare un'eccezione. Lasciati pennello e tavolozza sulla cima della scala, Wheaton scende per ricambiare il gesto. Anche attraverso il guanto di cotone riesco a sentire che la sua pelle è morbida come quella di una donna. La malattia deve averlo tenuto alla larga da qualunque tipo di lavoro manuale, fatta eccezione per la pittura.
«Grazie per avermi reso tutto così facile.» L'artista sorride timidamente. «È molto facile tollerare le attenzioni di una bella donna.» «Grazie.» Lui alza lo sguardo e mi osserva. «Ha sempre lavorato per l'FBI?» «No, prima facevo la fotogiornalista.» Il che non è proprio una bugia. Lui mi studia un po' più a lungo e poi toma a sorridere. «La prego, una volta o l'altra venga a trovarmi. La fotografia mi interessa e raramente ricevo visite.» «Farò il possibile.» «Signor Wheaton,» interviene Kaiser «vorrei esprimerle il nostro apprezzamento per la sua collaborazione. Può darsi che anche la polizia di New Orleans la contatti. In quel caso le consiglio di essere altrettanto disponibile. In questo modo la situazione si risolverà più rapidamente.» Wheaton sospira come se avesse qualche presentimento di ciò che sta per avvenire. Il dottor Lenz aggiunge: «Dobbiamo chiederle di non parlare del nostro colloquio ai suoi studenti di dottorato, né di parlare dell'accaduto per qualche giorno. Sono certo che lei comprende». L'artista ha l'aria di avere capito tutto alla perfezione. «Buongiorno signori» dice, poi si rivolge a me. «Buongiorno, mia cara.» Kaiser si volta per andarsene, ma Lenz si trattiene. «C'è ancora una domanda che mi sono dimenticato di rivolgerle. La radura è un luogo reale? Un posto vicino alla casa della sua infanzia nel Vermont, forse, o magari nel Vietnam?» Wheaton esita, come se stesse valutando se rispondere. Infine dice: «Ho conosciuto molti luoghi come questo nella mia infanzia. Per me rappresentano il luogo dove si concentra il potere della natura. C'è la vegetazione fitta della giungla o della foresta, si possono vedere il sole e il cielo. C'è l'acqua, ma non in quantità travolgente. E infine c'è la terra.» «Si direbbe un luogo di pace,» commenta Lenz «ma i suoi quadri non sono sereni.» «Qualcuno lo è» dice Wheaton. «Altri no. La natura non è una forza gentile. Ha molti aspetti e tutti indifferenti ai nostri bisogni.» «È senz'altro così» risponde Lenz. «Oh, ancora una cosa, se non le dispiace.» Vorrei prenderlo a sberle. «Leon Gaines dipinge esclusivamente donne, non sempre nude. Frank
Smith invece dipinge uomini nudi. Sa se abbia mai dipinto donne nude?» Wheaton scuote la testa. «Frank adora le donne, ma se sono vestite.» Kaiser sembra sul punto di trascinare Lenz fuori dalla stanza. Finalmente Lenz porge la mano all'artista, il quale però fa un semplice cenno del capo e ritorna alla scala; io non posso fare a meno di sorridere. Siamo quasi alla porta quando Wheaton grida: «Thalia Laveau dipinge donne. È importante?». Kaiser e Lenz sono da lui in pochi secondi. «Cosa vuole dire?» chiede Kaiser. «Donne che lavorano nelle loro case. Cose del genere?» «No. I suoi quadri documentaristici mi avevano realmente sorpreso. I lavori che presentò per la selezione erano tutti degli studi di nudo.» «Di nudi femminili?» «Esclusivamente femminili.» Lenz guarda Kaiser, che chiede: «Ha nessuno di quei quadri?». «No. Ma sono sicuro che lei li ha. Andrete a parlarle?» Kaiser e Lenz si guardano come due cacciatori che arrivano in un boschetto, all'inseguimento di un leone e invece trovano un unicorno. CAPITOLO QUATTORDICESIMO «Forza!» grida Baxter dalla porta aperta del furgone di sorveglianza. «Saltate su!» Kaiser e Lenz stanno pensando a Thalia Laveau e ai suoi nudi, ma qualcosa nella voce di Baxter li risveglia. Entriamo nel torrido furgone sovraffollato e ci sediamo; i nostri visi sono a pochi centimetri gli uni dagli altri. «Dieci minuti fa,» inizia Baxter «una finanziaria si è ripresa il furgone di Leon Gaines.» «Maledizione» commenta Kaiser. «La legge di Murphy ha colpito ancora.» «Pare che il rappresentante della società avesse già cercato di riprenderlo, ma Gaines è sempre riuscito a farla franca. Oggi invece si è avvicinato alla casa, ha fatto'saltare la serratura e, salito sul furgoncino, se ne è andato prima che la polizia di New Orleans potesse fare qualcosa.» «Dov'è il furgone adesso?» «I poliziotti della Jefferson Parish lo hanno fermato sulla Veterans Highway. Lo porteranno al loro deposito dei mezzi confiscati e gli metteranno i sigilli in attesa della nostra squadra investigativa.» «Gaines sa che gli hanno preso il furgone?» chiede Lenz.
«Certo. Ora sta litigando con la sua ragazza. Li si sente urlare dalla strada, e gli strumenti hanno captato il rumore di schiaffi e pugni.» Lenz scuote la testa. «Sappiamo se è armato?» «Siamo in Louisiana» spiega Kaiser. «Parti perciò dal presupposto che lo sia. Cosa sappiamo della ragazza?» «Si chiama Linda Knapp» risponde Baxter. «Ha ventinove anni e fa la cameriera in un bar. Stanno insieme, tra alti e bassi, da poco più di un anno. Andiamo a parlargli subito o aspettiamo?» «Subito» interviene Kaiser. «Mentre è incazzato. Entriamo decisi, lo calmiamo e facciamo entrare Jordan.» Baxter mi guarda e quando parla sento odore di caffè. «Non è come parlare a Roger Wheaton. Gaines è un criminale violento.» «Ho firmato stamattina il foglio che vi solleva da qualsiasi responsabilità. Kaiser è armato, e fuori ci saranno dei poliziotti appostati. Sono pronta.» Baxter esita ancora un momento, poi spalanca il divisorio tra noi e l'autista. Il motore ruggisce. Mentre lasciamo il campus, Kaiser mi guarda e mi fa un cenno di ringraziamento. Leon Gaines vive in una casa stretta e lunga, composta da una fila di stanze, che danno una dentro l'altra, in Freret Street, al di là della fermata di St. Charles e Carrollton, molto vicino al fiume. È un quartiere abitato prevalentemente da neri, che sorge dietro un vecchio centro commerciale, dove la gente si fa gli affari propri e una fedina penale sporca è ordinaria amministrazione. L'autista fa il giro dell'isolato per permetterci di dare un'occhiata, poi si ferma ad alcuni metri dal passo carraio di Gaines. Baxter apre la porta. «Ricorda cosa c'è in ballo, John? Questa è la nostra unica possibilità di arrivare a lui.» Kaiser annuisce, poi esce e si incammina lungo il marciapiede accidentato, con il dottor Lenz che fatica a stargli dietro. Alcuni secondi dopo sentiamo dall'altoparlante la voce di Kaiser: «Qualunque cosa faccia, non reagire. Anche se fossi sconvolto comportati come se fosse la cosa più normale del mondo.» «Cosa hai intenzione di fare?» chiede Lenz. «Quello che serve. E ricordami di chiedergli se conosce Marcel de Becque. Con Wheaton ce ne siamo dimenticati.» «È vero» risponde Lenz sbuffando. Baxter, seduto di fianco a me spiega: «Lei ha perso gran parte della riunione di questa mattina. Sappiamo per certo che tra de Becque e Christo-
pher Wingate non scorreva buon sangue. La maggioranza della comunità artistica ne era a conoscenza. Quando Wingate vendette i quadri promessi a de Becque, questi si vendicò mandando a monte degli ingenti investimenti fatti da Wingate. Non conosciamo ancora i dettagli.» «Riesco a sentire le urla di Gaines da qui» dice Lenz con nervosismo. «Ci siamo» dichiara Kaiser. Si sentono i rumori dei loro passi sulle assi di legno, poi una zanzariera batte contro lo stipite della porta, e il furgone è percorso dall'eco di un colpo alla porta. «Leon Gaines!» urla Kaiser. «Apra! FBI!» C'è una pausa, poi un grido soffocato di sfida. Baxter commenta: «Sarà dura». Dagli altoparlanti sentiamo arrivare l'inconfondibile suono di una porta che si apre. Poi riecheggia un accento di New York alterato dall'alcol: «Chi cazzo siete? Rompicoglioni della finanza? Allora ho qualcosa per voi». «Sono l'agente speciale Kaiser dell'FBI. Abbiamo qualcosa per te, Leon. Un mandato di perquisizione. Allontanati dalla porta.» «FBI?» Un silenzio perplesso. «Un mandato di perquisizione? Per cosa?» «Allontanati dalla porta, Leon.» «Ehi, che cavolo succede? Questa è casa mia.» Una debole voce femminile mormora qualcosa di incomprensibile. «Torna in camera da letto!» grida Gaines. «Non farmi ripetere di allontanarti dalla porta» continua Kaiser. «Muoviti, o ci penso io.» «Ehi, non c'è problema. Ma prima voglio vedere il mandato.» Segue uno strascichio, coperto a sua volta dalla reazione spaventata di Lenz e dalle lamentele di Gaines. «Cos'ha fatto, Kaiser?» chiedo afferrando un mancorrente di metallo. «Lo ha fatto spostare dalla porta» spiega Baxter. «Proprio come aveva preannunciato. Con un ex detenuto bisogna mettere subito in chiaro chi comanda.» «Leon, abbiamo due possibilità» dice Kaiser con un tono di voce che stento a riconoscere. «Possiamo parlarti o possiamo perquisire questa topaia. Adesso preferirei parlare. Se mi piace quello che sento, potremmo anche evitare la perquisizione. Altrimenti dovremo fare la perquisizione e allora potrebbe saltare fuori della roba, o un'arma. Tutta merce che ti fa-
rebbe andare dritto ad Angola.» «Di cosa vuoi parlare?» «Arte.» «Arte chi?» «Arte, Leon. I tuoi quadri.» «Ah.» «Nell'ultimo anno e mezzo da New Orleans sono sparite undici donne. Ne hai sentito parlare?» «Certo. E allora?» «Cosa ne sai?» «Quello che dice la TV.» «Abbiamo trovato una serie di dipinti che mostrano le donne scomparse. Sono nude e sembrano addormentate o morte. Occhi chiusi, pelle bianca, roba così.» «Allora?» «L'ultimo quadro della serie è stato venduto per più di un milione di dollari.» «Ti sembro uno che ha appena guadagnato un milione di dollari?» «I tuoi quadri rivelano una predilezione per la violenza» interviene Lenz. «E tu chi diavolo sei?» «Lui è il dottor Lenz» aggiunge Kaiser. «Parlagli come si deve, o ti troverai a scoprire la pista della vaselina ad Angola. L'unico programma di miglioramento personale che laggiù sia davvero utile.» Gaines non dice una parola. «L'artista che ha dipinto quei quadri non li ha firmati. Ma in alcuni di essi abbiamo trovato dei peli di un pennello molto raro. Ti dice niente tutto questo?» C'è una pausa durante la quale Gaines tira le sue conclusioni. «Uno di quei pennelli costosi che Wheaton ci ha dato?» «Proprio così.» «Voi avete rintracciato dei peli di pennello da Hong Kong a Tulane?» «Sì, Leon. Possiamo rintracciare i peli pubici di una prostituta di Algeri fino al tuo buco del culo, se fosse necessario. Voglio delle riposte. Hai sprecato cinque secondi del mio tempo, ti sei messo in moto verso la statale 61.» Gaines non dice una parola. «Dov'eri tre notti fa, dopo l'inaugurazione del museo?» «Qui.»
«C'è qualcuno che può confermarlo?» «Linda!» urla Gaines, trapassando il microfono di Lenz. C'è una pausa, poi Kaiser dice: «Signora Knapp?». «Chi mi vuole?» chiede una voce femminile stridula. «Sono dell'FBI. Potrebbe dirci...» «Di' a questi tizi che eravamo qui dopo quell'affare del NOMA» interviene Gaines. «Non mi credono.» «Merda» mormora Baxter. «È vero» dice la donna. «Siamo tornati a casa subito. Io ero stufa. Tutti credono di essere dei padreterni a quelle robe d'arte. Siamo stati qui tutta la notte.» «C'è qualcun altro che è disposto a confermarlo?» chiede Kaiser. «No» risponde Gaines. «Ce la stavamo spassando, vero?» «Come no» commenta Kaiser stancamente. «È tutto» continua Gaines, congedando la sua ragazza come se fosse una cameriera. «È lei il tuo alibi di ferro, Leon?» chiede Kaiser. «Non so di cosa stai parlando.» «Dimmi di Roger Wheaton.» «Cosa vuoi sapere?» «Perché sei entrato nel suo corso?» «Perché Roger è l'uomo giusto.» «Cosa vuoi dire?» «Lui fa le sue cose e se ne sbatte di quello che pensano gli altri. E dato che ha fatto così per tutta la vita, adesso è ricco e famoso.» «Anche tu Leon vuoi essere ricco e famoso?» «Come no.» «Ti piace Wheaton?» «Cosa c'è da piacere o no? Dipinge e basta.» «Lo rispetti?» «È uno che sta morendo, ma continua a lavorare e non la fa lunga. È una cosa che rispetto. Hai visto quello che sta facendo? La roba nella stanza?» «Sì.» «Quel lavoro lo sta facendo a pezzi. Ha un sacco di problemi alle articolazioni. Tendini o altro.» «Entesopatie» puntualizza Lenz. «Fa lo stesso. Deve salire sulla scala e stare seduto là per ore, sempre con il collo nella stessa posizione. È peggio che la Cappella Sistina. Mi-
chelangelo aveva le impalcature, così poteva sdraiarsi, no? E le mani poi... A volte le dita diventano blu. Blu dico. Prima bianche e poi blu; a volte quasi nere. Non ci va più il sangue, e lui non può dipingere, non può fare niente. È un'agonia. Ma lui si siede e aspetta che passi, poi torna a lavorare.» «Niente da dire, lo rispetti proprio» commenta Lenz. «E non sei il tipo da dare il tuo rispetto al primo che capita.» «Hai detto bene. Penso che Roger ne abbia ingoiata di merda in guerra. È un saggio, che sa fare diventare così gli altri. Con l'esempio.» «E Frank Smith?» chiede Lenz. Gaines sembra sputare. «Non ti piace Smith?» «Frankie è una faccia di cazzo di Westchester, cresciuto nel lusso. Cammina come se avesse un vibratore su per il culo, e si mette a predicare ogni volta che apre la bocca.» «E i suoi quadri?» Gaines ride con disprezzo. «La serie delle checche nude? Molto di buon gusto. Ne hai vista qualcuna? Copia i vecchi maestri, così la roba sembra meno pornografica, poi la spaccia per buona ai finocchi di New York. È un vendi fumo, ma è dolce. Questo è vero. Lo proverei anch'io, ma ho un'avversione per la penetrazione anale, sai? Ma chissà, forse è solo un problema mio.» «Cosa mi dici di Thalia Laveau?» chiede Lenz. Un'altra pausa, come se Gaines stesse decidendo se rispondere oppure no. «È un bocconcino, se ti piace la carne scura. Cosa che ogni tanto assaggio anch'io. Non sembra nera, ma lo è eccome. Più scuro il frutto, più dolce il succo, non è così?» «E i suoi quadri?» chiede Kaiser. «Dipinge i poveri e gli sfigati. Chi compra quella roba? Qualche intellettuale con i sensi di colpa del New England. Dovrebbe tornare a fare lo spogliarello.» «Te l'ha detto lei che si spogliava per soldi?» chiede Lenz. «Me l'ha detto una pollastra che studia storia dell'arte a Newcomb. Lei e Thalia ogni tanto si davano una ripassata. Non ditemi che non lo sapevate.» «Conosci un certo Marcel de Becque?» chiede Lenz. «Mai sentito prima.»
«Vogliamo fare qualche fotografia» dice Kaiser con tono distante. «Il nostro fotografo avrebbe dovuto essere già qui, ma sono sicuro che abbiamo ancora di che parlare mentre la aspettiamo.» Baxter mi dà un colpetto al ginocchio. «Va'. E se le cose si mettono male, buttati a terra.» Apre la porta e io sono sul marciapiede, muovendomi lungo la fila di case strette e lunghe al suono di R. Kelly che arriva da una radio portatile. Faccio un cenno alle persone, sedute sotto il portico delle loro case, che senz'altro mi scambieranno, dato l'abbigliamento e la macchina fotografica appesa al collo, per quello che sono veramente: una fotografa mandata a fotografare un cadavere o qualche spacciatore. La pittura verde delle pareti della casa di Gaines si sta scrostando, e la zanzariera alla porta ha delle chiazze gialle per la ruggine. Mentre sto per afferrare la maniglia ho un momento di inquietudine, ma il pensiero di Kaiser armato mi dà la forza necessaria per bussare e varcare la soglia. La prima cosa a colpirmi è l'odore. L'odore di pittura e di olio che rendeva così gradevole lo studio di Wheaton si mescola qui a quello di muffa, birra rancida, cibo avariato e marijuana. Kaiser, Lenz e Gaines riempiono la prima stanza, lunga e stretta, che mi ricorda una serie di case simili da me visitate quando lavoravo per il «Times-Picayune». «E questa chi è?» chiede Gaines. C'è uno strano intervallo, durante il quale Kaiser e Lenz valutano la sua reazione davanti al mio arrivo. Mi impongo di non guardarlo e di concentrare l'attenzione sulla mia macchina fotografica. Oltre la macchina fotografica vedo un divano dalla fodera sforacchiata dalle bruciature di sigaretta, e un tappeto consunto macchiato di colore. Le pareti sono spoglie tranne per un ritratto di Elvis su una parete e un elegante quadro astratto sul divano. Nell'angolo più vicino a me si trova un cavalletto, coperto da un pezzo di stoffa sporco. «È la nostra fotografa» spiega Kaiser, che indica il cavalletto. «È uno dei tuoi quadri?» «Certo» risponde Gaines, e dal suono della voce capisco che mi sta ancora guardando. Lo fisso direttamente in viso, cercando di capire dal suo sguardo se mi riconosce. L'iride è nera come il carbone, la cornea gialla, e i suoi occhi sembrano permanentemente spalancati, come quelli di un paziente ipertiroideo. La fronte è coperta da un ciuffo con la permanente, le guance da una barba vecchia di tre giorni. Non è difficile immaginarlo mentre passa
un tagliaerba su un gatto vivo. «Togli lo straccio dal quadro, così lei può fotografarlo» ordina Kaiser. «Forse non voglio che nessuno lo veda prima che sia terminato.» «Forse da qualche parte c'è qualcuno a cui non gliene frega un cazzo di quello che vuoi tu.» Kaiser va al cavalletto e tira via il lenzuolo. Dato che mi aspettavo così poco, il dipinto di Gaines è sorprendentemente forte. Una donna dai capelli dritti con il viso duro siede al tavolo della cucina, sotto la cruda luce di una lampadina. Intorno a lei i piatti sporchi della colazione, sacchetti del fast-food; la sua camicetta, aperta fino alla vita, mostra un seno piccolo e pendulo. Gli occhi vuoti guardano dalla tela con la cupa rassegnazione di un animale. Preparo il flash della Mamiya e inizio a scattare, facendo del mio meglio per ignorare Gaines, ma sento i suoi occhi su di me, come dita appiccicose sulla mia pelle. Dopo dieci scatti, mi giro verso il piccolo quadro astratto sull'altra parete. È diverso dall'opera di Gaines, ma sembra un originale. Deve averglielo dato qualche studentessa dopo avere passato la notte con lui. «Chi l'ha dipinto?» chiedo mentre scatto una fotografia della tela. «Roger» risponde Gaines. «Roger Wheaton?» domanda Lenz. «Già.» Gaines mi viene vicino. «Vedo che il mio quadro ti piace. Perché non torni più tardi, così ti faccio il ritratto.» Se la situazione non fosse così seria mi metterei a ridere. «Chiudi la bocca, fottuto bastardo!» Mi giro di scatto e vedo la donna del quadro entrare a passo di carica nella stanza. Nel volto pallido brillano degli occhi pieni di rabbia e si vede un livido rossastro, grande come un pugno e già scuro al centro che dall'occhio va alla bocca. «Torna là dentro!» urla Gaines. Kaiser si mette tra il pittore e la ragazza, che indossa solo una leggera camicia da notte. «Quest'uomo l'ha assalita, signorina?» «Mi ha scopata, ecco che cos'ha fatto! È un maledetto bugiardo! Mi aveva detto che sarei diventata una modella!» «Ha posato per lui nuda?» «Certo! Non mi lascia quasi mai tenere qualcosa addosso. Ma non vuole dipingere, vuole solo scopare. Scopare e farsi, tutto il santo giorno, un giorno dopo l'altro. E quando è fatto, non ce la fa neanche più a scopare!» «Togliti dai piedi, merda!» urla Gaines alzando il pugno.
La ragazza mi guarda con aria di sfida. «Non farti mettere addosso gli occhi da questo pazzo, bella mia, è un perdente.» «Senti chi parla» grida Gaines. «Questa signora ha classe.» La donna scoppia a ridere. «Beh? Vuol dire che non scopa con uno stronzo come te.» Gaines si lancia su di lei, ma Kaiser muove un piede e Gaines finisce improvvisamente sul pavimento, afferrandosi il ginocchio con entrambe le mani. La ragazza fa una risata isterica e indica Gaines. «Penso che farebbe meglio a venire con noi» le dice Kaiser. «Non ho un posto dove lui non possa trovarmi.» «Possiamo procurarle un rifugio. Un luogo protetto.» «Sul serio?» «Provaci, puttana» mormora Gaines. Kaiser guarda Lenz. «Hai delle domande?» Lo psichiatra scuote la testa. «Quasi quasi vengo con voi» dice la ragazza a Kaiser. Quando lui annuisce, lei corre nel retro della casa, e dopo un rumore di cocci e un rimestio ritorna con una borsetta e un sacchetto del supermercato pieno di vestiti. «Può dimenticarsi quello che ho detto prima» dice. «Non so dov'è stato tre notti fa. Doveva tornare a casa dopo l'inaugurazione del NOMA, ma non si è fatto vedere.» Gaines la guarda dal pavimento con odio. «Bene, Leon» commenta Kaiser. «Credo che tu abbia qualche problema. La polizia di New Orleans si farà viva.» «Solo un momento» dice la ragazza. Si china a lato del divano e prende un mezzo bicchiere di una cosa che assomiglia a della birra senza schiuma, poi la butta sul quadro appoggiato al cavalletto. «Non mi puoi cavare altro, bastardo.» Gaines ruggisce infuriato e lei fugge dalla porta, seguita da Lenz e da me, sorpresa di desiderare così fortemente di uscire da questo inferno. «Ehi, signora del quadro» urla Gaines mentre me ne vado. «Sai dove trovarmi se ti viene voglia.» Mi giro in tempo per vedere che, accovacciato di fianco a Gaines, c'è Kaiser, ma la sua presenza mi impedisce di vedere altro. In un primo tempo penso che gli stia sussurrando qualcosa all'orecchio, ma poi Gaines si mette a urlare come una donna e la ragazza sul portico si mette a ridere.
Lenz infila la testa nella porta e guarda impietrito Kaiser in piedi, che cammina imperturbabile verso di noi. «Cosa cavolo è successo?» chiede Lenz. «Non ho più la pazienza di una volta» mormora Kaiser. Raggiunto il marciapiede, Kaiser fa un segnale a qualcuno che non vedo. Un uomo in abiti civili con una fondina a spalla risale di corsa la strada, parla brevemente con Kaiser, poi porta via la ragazza di Gaines. Noi tre ci riuniamo vicino alla porta posteriore del furgone, mentre Baxter ci guarda con impazienza. «Cosa ne pensate?» «Non è Gaines» dice Lenz. Baxter fissa Kaiser. «John?» «Non so.» Lenz sbuffa. «Abbiamo già sprecato troppo tempo. Andiamo da Frank Smith.» «Di certo non è rimasto indifferente a me» dico piano. «Come un cane in calore» commenta Lenz. «Tutto qui. Non lo ha certo spaventato. Non l'aveva mai vista prima.» Baxter mi sta osservando. «Che impressione le ha fatto?» «So che lui sembra troppo scontato. Ma in lui c'era qualcosa che mi faceva paura. Come se stesse cercando di nascondere qualcosa, qualcosa di profondamente ripugnante. Ci capite qualcosa?» «Sì» risponde Kaiser. «Anch'io ho avuto la stessa sensazione.» «Mi ha sorpreso la qualità del suo lavoro. Lui cattura davvero le donne che dipinge.» Baxter chiede: «Aveva un'opera di Roger Wheaton appesa alla parete?». «Sì» dice Kaiser. «Sono sorpreso che non l'abbia venduta per comprarsi la roba.» «Faremmo meglio a controllare con Wheaton, per essere sicuri che non sia un quadro rubato» aggiunge Lenz. «Lascia stare» spiega Baxter. «La polizia di New Orleans è pronta a intervenire e a passare la casa al setaccio. È quello che vogliamo.» «Troveranno certamente droga o armi» dice Kaiser. «Potremmo metterlo nel carcere di Angola e vedere se i rapimenti cessano.» «Crede davvero che ci saranno altri rapimenti adesso che siamo così vicini?» chiedo. «Non sappiamo se siamo vicini» dice Lenz. «Il nostro interessamento potrebbe fare rallentare un criminale più tradizionale, ma la persona dietro
a quest'affare, chiunque essa sia, non ha alcun motivo per farlo. Per quanto ne sappiamo, il pittore è un elemento sostituibile nell'equazione. Se vogliono un'altra donna, la prenderanno. Potrebbero anche farlo solo per dimostrarci che ne sono capaci.» «Non fare arrestare Gaines» dice Kaiser. «Se è coinvolto sapremo di più facendolo pedinare che mettendolo in prigione.» Baxter guarda Lenz, che annuisce. Baxter preme un pulsante sulla consolle e parla nel microfono a cuffia. «Ed? Dai la sveglia a Gaines, ma se puoi, evita di arrestarlo; vorremmo che lo lasciaste dov'è... Perquisite dappertutto, ma non portatelo via... Grazie. Ci vediamo alla riunione delle quattro.» Baxter toglie la cuffia e mi guarda. «È pronta per Frank Smith?» «Dovrebbe essere un passo avanti dopo Gaines.» «Di sicuro sarà più pulito» aggiunge Kaiser. Baxter dà un colpo sul pannello divisorio e il furgone parte su Freret Street, diretto verso l'ambiente più piacevole del quartiere francese. CAPITOLO QUINDICESIMO «Roger Wheaton ha telefonato a Smith per avvisarlo del nostro arrivo» dice Baxter togliendosi la cuffia. «Se ne sono appena accorti quelli che tengono sotto controllo i telefoni.» Il furgone è parcheggiato di fronte a un bellissimo cottage creolo sul lotto prospiciente il fiume dell'Esplanade, il limite orientale del quartiere francese, dove da due anni a questa parte abita Frank Smith. «Perché Wheaton avrebbe dovuto avvertirlo?» chiede Kaiser. «Perché gli abbiamo chiesto di non farlo» spiega Lenz. «E adesso gli stiamo mettendo la casa sottosopra e gli diciamo che deve dare dei campioni di epidermide e di sangue per risalire al suo DNA e confrontarlo con la pelle trovata sotto le unghie della vittima del Dorignac.» «In realtà la telefonata lo rende meno sospetto» aggiunge Kaiser. «Wheaton non è uno stupido; sa di essere sospettato, dunque di avere probabilmente il telefono sotto controllo, ma ha chiamato comunque. Solo una persona innocente o davvero incazzata si comporterebbe cosi.» «A meno che non lo faccia per sembrare innocente» interviene Lenz. «Perché non ha avvertito Gaines?» chiedo. «Forse Gaines non gli è simpatico» spiega Kaiser. «Non c'è da stupirsene.»
«Ha avvisato Thalia Laveau?» si informa Lenz. «Non ancora» risponde Baxter. «Solo Smith.» «"Sono molto affezionato a Frank"» dice Kaiser. «Nell'interrogatorio Wheaton ha detto proprio così.» «Mi chiedo se non ci sia un legame omosessuale» interviene Lenz. «Wheaton non si è mai sposato» osserva Baxter. «Perché non gli avete chiesto se è gay?» «Forse lo vuole tenere nascosto» commenta Lenz. «Non volevo bruciare tutti i ponti con lui. Lo possiamo scoprire altrove.» Kaiser si avvicina alla portiera posteriore. «Frank Smith è un gay dichiarato. Forse ce lo dirà lui.» Poi mi guarda e dice: «Ci vediamo tra poco». Lui e Lenz escono dal furgone e chiudono la portiera. Baxter avvicina il viso al finestrino oscurato. «La casa non sembra bella come avevo immaginato.» «Lei sta guardando il retro» gli spiego. «La maggior parte di queste case si affaccia all'interno, su cortili o splendidi giardini con piante tropicali.» «John mi ha parlato della sua teoria della luce naturale. Questa casa ha un cortile. Smith è l'unico sospetto ad averlo. Wheaton ha un giardino esterno, che però non è riparato da pareti. Ehi, guardi un po'.» Porto il viso vicino al suo e l'occhio all'oblò scuro. Frank Smith è sul portico di casa in attesa dell'arrivo di Kaiser e Lenz. È un uomo snello e di bell'aspetto, con una abbronzatura che contrasta con l'abito bianco. Ha un'espressione vivace, le labbra atteggiate a un sorriso ironico. «Guardate questo tipo» dice Kaiser dall'altoparlante. «Un bel furbacchione, lo vedo da qui.» «Conduco io il gioco» dice Lenz. All'altoparlante la voce di Frank Smith ha il tono allegro del padrone di casa che accoglie gli ospiti. «Salve! Siete i signori dell'FBI? Quando arrivano le truppe d'assalto?» «Cristo» mormora Lenz. «Non ci sono truppe d'assalto, signor Smith. In seguito all'esistenza di alcune prove, lei è sospettato di avere commesso dei crimini molto gravi. Non c'è verso di indorare la pillola. Siamo qui per rivolgerle delle domande.» «Non siete qui per un campione di sangue o magari di urina?» «No. Siamo qui per parlare.» «Beh, io non ho un alibi per la notte in cui venne rapita la donna del Dorignac. Ero qui a casa, da solo.» Attraverso il finestrino vedo Smith porge-
re le mani come se dovesse farsele ammanettare. «Avanti, togliamoci il pensiero.» «Siamo solo qui per parlare» ripete Kaiser. «Preliminari per la polizia?» chiede Smith in tono di sfida. «La polizia cittadina non è sotto le nostre direttive.» «Credevo di sì, dopo tutti gli scandali che ci sono stati.» Baxter vicino a me spiega: «È piuttosto bene informato per essere uno arrivato da poco». Non molti anni fa la corruzione della polizia e la percentuale di omicidi raggiunsero a New Orleans un livello mai toccato prima. Due poliziotti che stavano compiendo una rapina ammazzarono qualcuno, e il caos che ne derivò portò la polizia locale quasi sotto il controllo del Dipartimento della Giustizia. «Possiamo parlare qui in modo civile,» continua Kaiser «o può farsi trascinare in città dalla polizia, se preferisce.» Smith ride. «Mio Dio, Humphrey Bogart con i rialzi nelle scarpe. Perché non entriamo? Faccio preparare il caffè.» Nel furgone si sente l'eco dei passi e di una porta che si chiude. Poi ancora altri passi. «Prego, accomodatevi» invita Smith. Si sente il rumore delle molle sotto il peso di Lenz. «Juan? Tre caffè per favore.» «Sì.» «Il tipo ha un domestico» dice Baxter. «Cavolo. Quando ero studente io le cose erano diverse.» «Signor Smith,» esordisce Lenz «sono Arthur Lenz, perito psichiatrico. Lui è l'agente speciale John Kaiser. Si occupa dei profili psicologici per l'FBI.» «Due Von Helsing nel mio studio. Dovrei esserne indignato o compiaciuto?» «Di cosa parla?» chiede Baxter. «Von Helsing era infatti il professore che diede la caccia a Dracula» gli spiego. «La cosa si fa divertente, non c'è dubbio.» «Appoggia il vassoio lì, Juan. Grazie.» C'è una pausa, poi Smith quasi mormora: «Sta ancora imparando. Ha parecchia strada da fare, ma ne vale la pena. Come prende il caffè, dottore?». «Senza zucchero.»
«Per me lo stesso» dice Kaiser. Si sente il rumore della porcellana, e altro scricchiolare di molle. «Non so da dove cominciare» dice Lenz. «Noi...» «Permettetemi di aiutarvi a non perdere tempo» interviene Smith. «Vi trovate qui in seguito alla scomparsa di alcune donne. Avete scoperto che una serie di quadri, conosciuta con il nome di "Donne Addormentate", le ritrae. Alcune piccole prove vi hanno condotto al corso tenuto da Roger Wheaton a Tulane. State interrogando Wheaton e il resto di noi prima di sguinzagliarci addosso la polizia e sconvolgere le nostre vite. Roger è molto seccato, e quindi lo sono anch'io. Vorrei proprio conoscere i dettagli di questa famosa prova.» «Ne parla come se avesse già sentito parlare delle "Donne Addormentate"» commenta Kaiser. «È così.» «Come ne venne a conoscenza?» «Da un amico in Asia.» «Lei ha molti amici laggiù?» «Io conosco gente dappertutto: amici, colleghi, clienti, amanti. Circa tre mesi fa sentii parlare di una nuova serie di dipinti che superavano il milione nelle vendite private. Poi venni a sapere che alcune sarebbero state esposte a Hong Kong. Sto pensando se è il caso che vada a vederle.» «Conosceva il soggetto dei quadri?» chiede Lenz. «All'inizio si diceva che fossero delle donne nude ritratte nel sonno. Solo recentemente ho sentito circolare l'ipotesi che fossero morte.» «Che effetto le ha fatto il pensiero che delle donne possano morire per produrre delle tele?» Una lunga pausa. «Difficile rispondere perché non ho visto i quadri.» Lenz sorseggia il caffè, riusciamo a sentirlo dal microfono. «Intende dire che il suo giudizio morale sulla morte di quelle donne dipende dal valore artistico dei dipinti?» «Per parafrasare Wilde, dottore, non esiste un quadro immorale o morale. Un dipinto è ben fatto oppure no. Se i quadri sono notevoli, allora la loro esistenza è giustificata. Qualsiasi altra circostanza coinvolta nella loro creazione è irrilevante.» «Suona familiare» commenta Kaiser. «Come mai?» chiede Smith. «Conosce un individuo di nome Marcel de Becque?» «No.»
«È un espatriato francese che vive alle isole Cayman.» «Non so chi sia. Ma il nome ha una certa ironia.» «E sarebbe?» chiede Lenz. «Emile de Becque era il nome dell'espatriato francese di South Pacific.» «Figlio di puttana» sibila Baxter. Sento l'imbarazzo di Lenz attraverso l'etere. «Lei ha ragione» ammette. «L'avevo dimenticato.» «Forse l'uomo ne ha preso il cognome come pseudonimo?» «Il padre di de Becque si trasferì nell'Asia sudorientale negli anni Trenta» continua Lenz. «Forse Michener sentì il nome e lo scelse per uno dei suoi personaggi dell'isola.» «Vi posso dire cosa sapevo» interviene Smith. «Questo dovrebbe suscitare il vostro interesse. Christopher Wingate.» Stavolta il silenzio dura più a lungo. «Perché tira fuori Christopher Wingate?» chiede Lenz. «Dottore, non prendiamoci in giro. Ho sentito parlare della morte di Wingate. Sapevo che era il mercante d'arte che trattava le "Donne Addormentate". In principio la cosa non mi disse niente. Ma ora che so che i quadri possono essere connessi a degli omicidi, la sua morte assume un significato ben diverso.» «Come conobbe Wingate?» chiede Kaiser. «Un amico comune me lo presentò a una festa a New York. Stavo considerando l'idea di lasciare il mio attuale agente per passare a lui.» «Perché?» «Perché, per dirla senza mezzi termini, era in gamba.» «Vorrei farle una domanda personale» interviene Lenz. «La prego di non offendersi. È una questione molto importante.» «Non sto nella pelle.» Lenz dev'essere furioso per essere stato preso in giro, ma continua imperterrito. «Roger Wheaton è gay?» Smith scoppia in una risata che è difficile da interpretare. «Lo ha chiesto a Roger?» «No.» «Posso considerare questa domanda come una violazione della privacy?» «Quando della gente muore, le questioni private non esistono. Se lei non risponderà alla domanda, dovrò chiederlo allo stesso Wheaton. Preferisce che faccia così?»
«No.» «Benissimo.» Dopo un pausa per riflettere Smith dice: «Non direi che Roger sia gay». «Cosa direbbe?» «È un uomo complesso. Lo conosco soltanto da due anni. Credo che la malattia lo abbia spinto a concentrarsi su se stesso.» «Lo ha mai visto uscire con una donna o stare in sua compagnia?» «Roger non "esce". Sta a casa o all'università. Comunque ha delle ospiti di sesso femminile.» «Si fermano a dormire?» «Non credo.» «Ha delle amicizie maschili importanti?» «Ho la presunzione di considerarmi suo amico.» «È stato suo amante?» «No.» «Le piacerebbe esserlo?» domanda Kaiser. «Sì.» «Ascoltatelo» dice Baxter. «Non batte ciglio.» «Avrebbe dei problemi a descriverci i suoi movimenti in alcune date specifiche?» chiede Kaiser. «Non credo. Permettetemi però, signori, di essere chiaro su un punto. Collaborerò entro certi limiti. Ma se la polizia ha intenzione di sconvolgere la mia vita, senza avere in mano prove a mio carico, muoverò un'azione legale nei confronti della polizia e dell'FBI. Ho i mezzi per poterlo fare, e data la storia recente del dipartimento di polizia di questa città, credo di avere delle buone chances. Siete avvisati.» Avverto un silenzio carico di tensione. «Si dà il caso che la psicologia sia uno dei miei interessi particolari, dottore» continua Smith. «So che la percentuale di omosessuali tra i serial killer è inesistente. Credo quindi che per lei non sarà facile convincere una giuria che sono l'individuo colpevole degli omicidi.» «Non siamo assolutamente convinti che il pittore e l'assassino siano la stessa persona» spiega Lenz. «Inoltre non ci stiamo concentrando su un unico sospetto. Lei è semplicemente una delle quattro persone che ha accesso a un particolare tipo di setole uguali a quelle trovate nelle tele delle "Donne Addormentate".» «Mi parli di queste setole.» Kaiser riassume brevemente il collegamento tra la fabbrica in Manciuria,
l'importatore di New York e gli ordini speciali commissionati da Wheaton. Quando ha terminato Smith dice: «Agente Kaiser, nei suoi occhi leggo una serie di domande, come piccoli vermi che si agitano. Lei vuole conoscere tutto. Come funziona esattamente? Frank se lo fa davvero mettere in culo? È un tipo promiscuo? Sta pensando alle scene nei vecchi bagni pubblici? Ci sono stato, è vero. Avevo solo diciassette anni. Succhiavo finché i muscoli non mi facevano male. Sono per questo un assassino?». «Pazzesco» commenta Baxter. «Perché ha scelto di abitare nel quartiere francese e non più vicino all'università?» domanda Kaiser. «La parte bassa del quartiere è un paradiso per i gay. Non lo sapeva? Qui c'è più gente come me che come voi. Dovrebbe tornare qui il giorno della manifestazione per l'orgoglio gay e vedermi con il mio entourage. Sono piuttosto famoso da queste parti.» «Ci parli dei suoi compagni di corso» chiede Lenz. «Che cosa pensa di Leon Gaines?» «Feccia. Roger gli regalò una coppia di quadri astratti, piccoli ma molto buoni. Dopo due settimane Leon ne aveva venduto uno, per dell'eroina, immagino. Non ho avuto il coraggio di dirlo a Roger.» «E il lavoro di Gaines?» «Il suo lavoro?» Un'altra risata. «La violenza ha una certa autenticità. Ma per me Leon è un imbrattamuri: un ragazzino che scrive parolacce e segni sul muro. Vuole stupire e provocare a tutti i costi, ma non ha introspezione, quindi l'effetto finale manca.» «E Thalia Laveau?» «Thalia è un'amabile creatura. Amabile e triste.» «Perché triste?» «Le ha mai parlato?» «No.» «Credo che abbia avuto un'infanzia molto infelice.» «E i suoi quadri?» «Sono graziosi. Una specie di tributo alle classi svantaggiate, un mito che non condivido, ma che lei riesce a fare rivivere nelle sue tele.» «Ha mai visto uno dei suoi nudi?» «Non sapevo che ne facesse.» «Cosa pensa delle sue capacità di artista?» «Thalia ha talento. Lavora molto rapidamente, forse perché riesce ad arrivare al cuore delle cose in fretta. Sono certo che le occasioni non le man-
cheranno, se continuerà.» «Perché non dovrebbe?» «Come ho detto... ha una certa fragilità. Un nucleo di fragilità sotto un'apparenza dura.» «E del lavoro di Wheaton cosa pensa?» chiede Kaiser. «Roger è un genio. Uno dei pochissimi che ho incontrato in vita mia.» «Perché è un genio?» chiede Kaiser. «Ha visto il suo lavoro?» «Parte.» «E non crede che sia un genio?» «Non ho le qualifiche per esprimere un simile giudizio.» «Beh, io sì. Roger non è come noi altri. Lui dipinge dall'interno. Totalmente e completamente. Io cerco di farlo, e mi piace credere di riuscirci ogni tanto. Ma l'esterno per me è una componente importante del processo. Io programmo, uso modelli e una tecnica rigorosa. Mi sforzo al massimo per catturare la bellezza, per congelarla e al tempo stesso animarla. Roger non usa né modelli né fotografie, niente. Quando dipinge, il divino semplicemente fluisce dal suo pennello. Ogni volta che guardo una sua tela vedo qualcosa di diverso. Specialmente in quelle astratte.» «Sa qualcosa della radura che sta dipingendo? È un luogo reale?» «Credo che lo sia o lo sia stato, ma in realtà non ne ho idea. Non penso che sia importante. Per lui è semplicemente un punto di partenza.» «Per questi crimini può essere importante» interviene Lenz. «Davvero considerate Roger una persona sospetta? È ridicolo. È l'uomo più gentile che io abbia mai conosciuto, e anche il più morale.» «Lei sapeva che in Vietnam uccise diversi uomini?» domanda Kaiser. «So che fece la guerra. Lui non ne parla. Ma di certo non considererete un'uccisione in combattimento un assassinio?» «No. Ma un uomo che ha ucciso una volta può farlo ancora.» «Forse. Agente Kaiser, lei ha mai ucciso qualcuno?» «Sì.» «In guerra?» «Sì.» «E da civile, in servizio?» «Sì.» «Ne sono certo. In lei c'è della violenza. Lo vedo. Un giorno o l'altro mi piacerebbe farle un ritratto.» «Non sono disponibile.»
«Lei deve avere visto delle cose tremende, non è vero?» «È un mondo difficile, Frank.» «Già. Anche il dottor Lenz ne ha viste di cose, ma non ne è stato colpito allo stesso modo. Malvagità e brutalità la offendono. Lei ha un forte senso morale. Una compulsione a giudicare.» «Stiamo perdendo tempo» risponde Kaiser seccato. «Il nostro fotografo dovrebbe arrivare a momenti.» Baxter mi afferra il gomito. «Si muova. Vada, vada.» Fuori dal furgone mi guardo intorno, poi attraverso la strada tenendo gli occhi puntati sulla casa di Frank Smith. Dalla strada si vede una semplice facciata: quattro finestre, tre abbaini, un tetto a due spioventi e una porta. La porta mi viene aperta da un bel ragazzo di circa diciannove anni, Juan, immagino. «Sì?» dice. «Sono dell'FBI. Devo fare delle fotografie.» «Mi segua.» Mentre Juan mi conduce attraverso l'ingresso, noto che il cottage creolo di Smith è stato trasformato da umile dimora del XIX secolo in una esposizione di arte e di pezzi antichi. Alla mia destra vedo una lussuosa sala da pranzo. Sopra la credenza è appeso il ritratto frontale di un nudo maschile disteso su una chaise longue. L'individuo ha un aspetto vagamente familiare. «Señora?» dice Juan. «Prego.» Dopo pochi passi e una svolta a sinistra arriviamo al salone, dove gli altri stanno bevendo il caffè. Anche questa stanza è sorprendente: paraventi di legno orientale e un tappeto Aubusson grande come una piscina per bambini. Frank Smith alza lo sguardo mentre io entro nella stanza e, sebbene avessi avuto l'intenzione di tenere gli occhi sulla macchina fotografica, mi ritrovo a guardarlo diritto negli occhi. Il viso del giovane pittore è abbronzato e rivela un naso romano e una bocca sensuale. Sia il corpo sia il viso sono insolitamente simmetrici, e sotto gli abiti di lino bianco c'è un corpo snello e muscoloso. Improvvisamente ricordo lo scopo della mia presenza, socchiudo gli occhi e mi giro verso Kaiser. «Mi scuso per il ritardo. Cosa devo fotografare?» «Qualsiasi cosa prodotta dal signor Smith.» Frank Smith non mi ha ancora tolto gli occhi di dosso e io ho la sgradevole sensazione che lui mi abbia già vista da prima. Me o mia sorella. Il solo pensiero mi blocca la gola e mi fa sudare.
«Il nudo in sala da pranzo è mio» spiega Smith. Annuisco e cerco di dire qualcosa. «Farò in un attimo.» «Mi scusi» interviene lui. «Ci siamo già incontrati?» Tossicchio e guardo Kaiser, sperando quasi che estragga la pistola. «Non credo.» «Forse a San Francisco? Lei ci è mai stata?» Quando non lavoro, vivo lì... «Sì, ma non per...» «Mio Dio! Lei è Jordan Glass.» Kaiser, Lenz e io ci guardiamo l'un l'altro come degli sciocchi. «È così» continua Smith. «Forse non sarei riuscito a riconoscerla, ma la macchina fotografica ha semplicemente fatto scattare qualcosa. Dio mio, cosa ci fa qui? Non mi dica che si è arruolata nell'FBI?» «No.» «Allora cosa ci fa qui?» La verità ha una forza tutta propria. «Una delle vittime è mia sorella.» Smith spalanca la bocca dallo stupore. «Oh, no. Capisco.» Si alza e sembra che mi voglia abbracciare, come se la tragedia fosse appena avvenuta. «Anzi, non è vero. Non capisco affatto.» Kaiser mi guarda con occhi furiosi per avere svelato la messa in scena, ma dopo essere stata riconosciuta, continuare non aveva più alcun senso. «Siamo sorelle gemelle» spiego. Gli occhi dell'artista si fanno più stretti mentre si sforza di capire; non ha bisogno di molto tempo. «Lei è un richiamo per le allodole! La stanno usando per spaventare l'assassino e spingerlo a uscire allo scoperto.» Rimango zitta. Smith scuote la testa sorpreso. «Sono contento di fare la sua conoscenza malgrado le circostanze. Ammiro il suo lavoro, da anni.» «Grazie.» «Come ha fatto a riconoscerla?» chiede Lenz. Smith risponde rivolgendosi a me. «Durante una festa a San Francisco qualcuno me l'ha indicata. Sono stato a parlare per una ventina di minuti con una persona a un metro da lei; volevo conoscerla, ma senza essere invadente.» Mentre guardo Smith, mi torna in mente il ritratto nella sala da pranzo. «L'uomo nel quadro in sala da pranzo è Oscar Wilde?» I suoi occhi si illuminano di piacere. «Sì. Ho usato la fotografia sulla copertina della biografia scritta da Ellmann, e diverse altre foto per avere
un'idea del resto del corpo. Wilde è uno dei miei eroi.» «Mi piace molto la sua casa» continuo appoggiandogli una mano sul braccio per vedere la sua reazione. Lui ne è chiaramente contento. «Ha un giardino?» Smith si illumina. «Certo. Mi segua.» Senza prestare la minima attenzione a Kaiser o a Lenz, mi accompagna alla porta principale, che conduce a un giardino cinto da mura e ricco di piante di limoni, rose e un glicine contorto che dev'essere vecchio come la casa. Una parete del giardino è occupata dalla vecchia zona riservata alla servitù, che sembra essere stata convertita in un'ala della casa. Da una fontana a tre livelli sgorga dell'acqua, che riempie il cortile con il suo suono, ma ciò che mi conquista è la luce: una splendida luce naturale, che filtra attraverso il fogliame con la trasparenza perfetta che ricordo di avere visto nelle "Donne Addormentate" di de Becque. «È molto bello» dico a bassa voce, chiedendomi se mia sorella si sia mai trovata, priva di conoscenza o di vita, sul pavimento in mattoni che ho dinanzi. «Lei è invitata a venire quando crede. Sarei felice di averla come ospite. Mi chiami in qualsiasi momento.» È il secondo invito della giornata. «Non è da escludere.» Sul portico alle nostre spalle si sente il rumore di passi. Kaiser dice: «Signor Smith, vorremmo pregarla di tenere per sé la notizia della presenza della signora Glass in città». «Guastafeste» risponde Smith, guardandomi negli occhi. «Non sono affatto divertenti, vero?» «E per favore non avvisi Thalia Laveau del nostro arrivo.» Negli occhi di Smith passa un lampo di rabbia. «La smetta di dare ordini in casa mia.» Nel silenzio imbarazzato che segue, io non desidero essere lontano da quest'uomo che potrebbe essere stato l'ultima persona che ha visto mia sorella. «Dobbiamo proprio andare» dice Lenz. «I malvagi non conoscono sosta» dice Smith, rispolverando il suo senso dell'umorismo. Prendendomi il braccio mi accompagna attraverso la casa fino al portico che si affaccia sull'Esplanade Avenue. «Si ricordi,» mi dice «lei è sempre la benvenuta.» Io faccio un cenno senza aprire bocca, e Smith senza rivolgere la parola né a Kaiser né a Lenz, ritorna in casa, lasciandoci tutti nel piccolo portico.
«Alla faccia dell'elemento sorpresa» commenta Kaiser mentre ci dirigiamo al furgone. «E il quadro di Oscar Wilde?» «Un eccellente dipinto» commenta Lenz. «Smith mi ricorda Dorian Gray» penso ad alta voce. «Un uomo bellissimo, amorale, che non invecchierà mai.» «Perché amorale?» domanda Kaiser. «Non certo perché è gay.» «No. È una mia sensazione. In un certo senso assomiglia a de Becque. Cosa ne pensa, dottore?» Lenz sorride in modo strano. «Sa che cosa tutti dimenticano di Dorian Gray?» «Cosa?» «Che uccise un uomo, poi pagò un farmacista perché andasse da lui e distruggesse il corpo. Il farmacista usò una miscela speciale che bruciò il cadavere finché non ne rimase più traccia.» «Stai scherzando?» dice Kaiser. «No. Wilde sotto molti aspetti precorreva i tempi. La teoria omicida di Dorian Gray sosteneva: nessun corpo, nessuna prova, nessun crimine.» CAPITOLO SEDICESIMO Thalia Laveau vive al secondo piano di una casa vittoriana con camere ammobiliate in affitto vicino alla Tulane University. Nell'edificio vivono altre nove donne e due uomini; un vero incubo per la squadra di sorveglianza della polizia di New Orleans: sette porte, ventuno finestre al piano terra e due scale antincendio. Parcheggiati lungo l'isolato popolato di studenti, stiamo tutti rattrappiti nel furgone di sorveglianza dell'FBI. «Il piano prevede che sia Kaiser a condurre con la Laveau» ricorda Baxter, guardando il dottor Lenz. «C'è qualcuno che preferisce un cambiamento di programma prima di cominciare?» Kaiser e Lenz si guardano l'un l'altro, ma nessuno dei due parla. «Io» dico rivolta a loro. I tre mi guardano confusi. «Cos'ha in mente?» chiede Baxter. «Voglio andare da sola.» «Cosa?» gridano all'unisono. «Ragazzi, è una donna. Forse lesbica. Riuscirei a tirarle fuori il doppio delle informazioni che otterreste voi.» «Non si tratta di farle tirare fuori delle informazioni» puntualizza Baxter.
«Ma di scoprire se l'ha già vista in precedenza, vale a dire se ha incontrato sua sorella. E dato che nessun altro, a parte Smith, il quale non ha certo cercato di negarlo, pare averla riconosciuta, quest'interrogatorio può essere cruciale.» Lo guardo diritto negli occhi. «Lei crede davvero che dietro tutte queste sparizioni ci sia la responsabilità o il coinvolgimento di una donna?» «Lasciaglielo fare» dice Lenz a sorpresa. «Le probabilità che la Laveau sia coinvolta sono basse e i suoi quadri di nudi ci possono dire più di quanto lei non voglia. Ma se Jordan riesce a guadagnarsi la sua fiducia, potremmo venire a sapere qualcosa di importante su uno degli uomini.» «Lei ha visto come Smith ha reagito di fronte a me» insisto rivolta a Baxter. «Penso che se fossimo stati da soli avrei ottenuto molto di più. Lo stesso vale per Wheaton.» «Smith ha reagito alla sua fama» interviene Kaiser, che non sembra per niente contento della mia proposta. «Non al fatto che lei è una donna.» «Se agisse da sola, cosa direbbe?» mi chiede Baxter. «Non lo so ancora. Devo prima trovarmi sul posto. È il mio modo di lavorare.» Il capo dell'USI sembra tentato e al tempo stesso preoccupato. «Accidenti, la responsabilità...» «Che responsabilità? Sono una privata cittadina che va a bussare a casa di qualcuno. Se questo qualcuno mi invita, dov'è il problema?» «E se vedendola perde la testa?» domanda Kaiser. «E la aggredisce? Se è coinvolta, la cosa non è da escludere.» «Non rifiuterei una pistola se me la offriste.» Baxter scuote la testa. «Non possiamo darle una pistola.» «E una bomboletta spray urticante?» «Non ne abbiamo.» «Ha avuto una pessima idea» sostiene Kaiser. «Migliore di quella di mandare là dentro lei e Lenz» insisto io. «Sentite, mi accorgerò subito se mi ha già vista; nel qual caso le dirò che voi siete nei paraggi. Dirò la verità: che sono la sorella di una delle vittime, che cerco di trovare delle risposte e che l'FBI mi sta proteggendo.» «Lasciala andare» interviene Lenz. «Dobbiamo sapere ciò che la Laveau conosce, e questo è il modo migliore per scoprirlo.» Poi guarda Kaiser. «Tu non sei d'accordo?» Kaiser ha l'aria di chi sarebbe ben felice di mettersi a discutere, ma lascia perdere. «Mettile un microfono addosso, io starò all'esterno con un ri-
cevitore.» I suoi occhi castani mi fissano con intensità. «Se ha l'impressione che la situazione prenda una brutta piega, chiami aiuto. Si metta a urlare. A scanso di equivoci, nessuna parola in codice.» «Per me va bene» afferma Baxter. «Muoviamoci, prima che la Laveau decida di uscire per andare dal parrucchiere.» «Togliti il T-4» dice Kaiser a Lenz, che si leva il cappotto e comincia a sbottonarsi la camicia. Baxter strappa il cerotto dal torace di Lenz e Kaiser sogghigna vedendo le smorfie dell'interessato. «Sotto questa camicetta noterà il trasmettitore» faccio osservare agli altri indicando la stoffa sottile. «Dovrà metterlo sotto la gonna» interviene Lenz, tenendo tra le mani il trasmettitore, l'antenna e il microfono. «Avete dell'altro cerotto?» Baxter si mette a cercare in un cassetto di metallo e tira fuori un rotolo che mi passa, a disagio. «Non è il momento di fare la timida» dico loro mentre sollevo la gonna. «Porto la biancheria intima.» «Molto bella direi» commenta Lenz guardando le mie mutandine di seta avorio. «Avanti, lo incerotti.» «Non credo di sapere come fare» protesta Lenz. «Dammi quella roba» dice Baxter in fretta. Prende il trasmettitore da Lenz e sotto lo sguardo attento degli altri due si piega in avanti e fissa con il cerotto trasmettitore e antenna all'interno della mia coscia, abbastanza in alto da farmi venire la pelle d'oca. Quando ha finito mi porge il minuscolo microfono, collegato al trasmettitore da un filo sottile. «Lo faccia passare sotto il girovita fino al reggiseno.» «Perché non chiudete gli occhi per la seconda parte?» Loro eseguono e io fisso la clip del microfono tra le coppe del reggiseno. «Pronta o no,» dico in un soffio «procediamo.» I tre aprono gli occhi e Kaiser spalanca il portellone posteriore. «Si ricordi» mi dice Baxter. «Se ha l'impressione che stia per succedere qualcosa di strano, si metta a urlare e arriva la cavalleria.» «Andrà tutto bene.» L'edificio in cui la Laveau ha la sua camera in affitto avrebbe bisogno di un tetto nuovo e di una mano di vernice, ma difficilmente le due cose av-
verranno nei prossimi dieci anni. La porta della sua camera al secondo piano si trova in cima a una scala di legno malridotta, fissata alla parete esterna della casa, fatta di assicelle di legno con la vernice scrostata. Salgo. Busso forte alla porta e aspetto. Poco dopo sento risuonare dei passi. «Chi è?» chiede una voce soffocata. «Il mio nome è Jordan Glass. Vorrei parlarle dei suoi quadri.» Silenzio. Poi: «Io non la conosco. Come ha fatto a trovarmi?». «Mi ha mandata Roger Wheaton.» Sento scattare una serratura, poi la porta si apre per quanto consentito dalla catena. Vedo sbucare un occhio scuro che mi scruta. «Chi ha detto di essere?» Alla faccia della teoria che la mia vista l'avrebbe indotta a confessarsi. «Signora Laveau, ha sentito parlare delle donne sparite da New Orleans negli ultimi diciotto mesi? Due sono scomparse da Tulane.» «Se ne ho sentito parlare? Da tre mesi a questa parte esco con la pistola. Cosa c'entrano?» «Una di loro è mia sorella.» L'occhio nero si socchiude. «Mi dispiace. Ma che cosa c'entro io?» «Ho trovato dei ritratti delle vittime. Si trovavano a Hong Kong, ma l'FBI ha rintracciato delle setole nel colore, appartenenti a un tipo speciale di pennelli di zibellino, e sono risaliti al corso di Roger Wheaton a Tulane.» L'occhio si spalanca, poi si socchiude per due volte. «È pazzesco. Quadri delle donne rapite?» «Sì. Tutte nude e in una posa come se fossero addormentate o morte. Signora Laveau, io sto cercando di scoprire se mia sorella sia viva o morta, e l'FBI mi sta dando una mano. Anzi mi permette di dare loro una mano.» «Perché dovrebbero fare una cosa del genere?» Mi sembra piuttosto strano parlare a una porta socchiusa, ma l'ho fatto più volte nel corso degli anni, e si fa quello che si può. «Perché io e mia sorella siamo gemelle. L'FBI mi mostra ai sospetti sperando che io spinga il colpevole a farsi avanti.» «O la colpevole?» chiede la Laveau. «Mi sta dicendo che io sono tra i sospetti per via delle setole di pennello?» «Nessuno crede davvero che sia coinvolta, ma dato che ha avuto accesso ai pennelli, l'FBI è costretta a cercare di toglierla dalla lista dei sospetti.» «Vuole entrare?» «Volentieri, se lei accetta di parlarmi.»
«La mia scelta è tra lei e l'FBI?» «Sì. Le cose stanno così.» L'occhio scompare e sento un sospiro. Apre la porta e me la trovo davanti. Ha i capelli corvini che le arrivano a metà busto e nonostante l'origine africana, ha la carnagione chiara. Indossa una vestaglia esotica colorata. Sembra una bellissima principessa di qualche tribù. «Perché non mi segue nella stanza sul retro?» mi dice, indicando la minuscola stanza in cui ci troviamo. La sua voce è roca e priva di inflessioni; deve avere lavorato sodo per liberarsi della cadenza della sua infanzia. La seguo attraverso una soglia senza porta ed entro in una stanza più grande. Mi aspettavo una sorta di caverna piena di perline, fumo d'incenso e incantesimi vudù, e invece ho davanti un locale arredato in modo convenzionale. C'è un comodo sofà, su cui mi invita a sedere, e un divano, su cui si siede lei. Non appena si accomoda fa capolino un gatto tigrato, che mi lancia un'occhiata sospettosa, salta in grembo alla Laveau e si accuccia. Lei raccoglie le gambe, nascondendo i piedi sotto di sé, e accarezza il gatto tra le orecchie. È perfettamente a suo agio. Sulla parete alle sue spalle c'è un quadro della Cattedrale di Saint Louis in Jackson Square. Sono sorpresa perché quella chiesa è forse l'immagine più rappresentata di New Orleans, fatta e rifatta dagli studenti e dagli ambulanti che la propinano ai turisti in piazza. Stona nell'appartamento di un vero artista, anche se questo esemplare è molto superiore alla media. «L'ha dipinto lei?» chiedo. Laveau ride sommessamente. «Lo ha fatto Frank Smith, per scherzo.» «Per scherzo?» «Gli avevo detto che non sarebbe stato un artista di New Orleans finché non avesse dipinto la cattedrale, così lui prese un cavalletto, andò nella piazza e non si mosse per quattro ore. A mezzogiorno tutti gli artisti della piazza erano radunati intorno a lui come se fosse il pifferaio magico. Non potevano credere ai loro occhi, alla sua bravura.» «Proprio in carattere con il personaggio.» «Ha parlato a Frank?» «Sì.» Divento improvvisamente consapevole del mio ruolo, abbasso la gonna sulle ginocchia per essere sicura che non possa vedere il trasmettitore che porto alla coscia. «A chi altri?» «Roger Wheaton. Gaines.»
«Allora mi ha lasciata per ultima. È buon segno oppure no?» «Per l'FBI lei è la meno sospetta.» Lei sorride, mostrando dei denti bianchi e un luccichio d'oro verso il fondo della bocca. «Buono a sapersi. Il suo piano ha funzionato? Quando l'hanno vista qualcuno ha perso la testa?» «Non posso risponderle con sicurezza.» Laveau annuisce, riconoscendo il fatto che non posso essere completamente sincera su certi argomenti. «Era legata a sua sorella?» La domanda mi coglie di sorpresa, ma non vedo alcun motivo per mentire. «Non in senso convenzionale. Ma le volevo molto bene.» «Bene. Mi può ridire il suo nome?» «Jordan. Jordan Glass.» «Mi piace.» «Comunque fossero le cose tra me e mia sorella, io devo scoprire cosa le è successo.» «Capisco. Crede che possa essere ancora viva?» «Non lo so. Mi aiuterà a scoprirlo?» «Come posso fare?» «Dicendomi che cosa sa.» Stringe le labbra facendole sparire tra i denti, e per la prima volta sembra a disagio. «Intende dire raccontando dei miei amici?» «Leon Gaines è suo amico?» Lei storce le labbra in una smorfia di disprezzo. «Posso chiamarla per nome?» «Sì.» «Thalia, io non intendo raccontarle bugie. Dopo che me ne sarò andata, la polizia verrà qui e le farà delle domande sui suoi movimenti nelle notti in cui le donne scomparvero. Avrà dei problemi a fornire degli alibi in quelle occasioni?» «Non so. Passo molto tempo da sola.» «Anche tre notti fa, quando c'è stata l'inaugurazione del NOMA?» Il suo sguardo rivela una certa confusione. «Il giornale ha detto che la donna rapita quella notte non aveva niente a che fare con gli altri casi.» «Lo so. L'FBI procede a modo suo.» «Allora... Oddio. Lui continua a rapirle? Lei forse pensa che io...» «Thalia, io non so niente. Le ho solo fatto una domanda, sperando che avesse una risposta in grado di evitarle l'interrogatorio della polizia.» «Sono venuta subito a casa e ho fatto un po' di yoga. Era un giorno lavo-
rativo e io non mi sentivo bene.» «Non ha incontrato nessuno, niente telefonate? Non c'è nessuno che potrebbe confermare la sua versione?» Adesso ha l'aria preoccupata. «Non ricordo. Non credo proprio. Come ho appena detto, sono spesso sola.» Annuisco, incerta su come comportarmi con lei. «Lo sei anche tu, vero?» dice. La mia prima reazione sarebbe quella di cambiare argomento, ma non lo faccio. Sedendo di fronte a questa donna mai vista prima mi accorgo che dal mio arrivo da Hong Kong sono sempre stata in compagnia di uomini. Certo c'è l'agente Wendy, ma ha quindici anni meno di me e sembra quasi una bambina. Thalia mi è più vicina per età e con lei mi sento sorprendentemente a mio agio. «Sì» ammetto. «Che lavoro fai?» «Come fai a sapere che lavoro e che non sono una casalinga?» «Perché non ti comporti come una di loro. E non ci assomigli nemmeno, neanche con quella gonna addosso. La prossima volta dovresti scegliere un travestimento migliore di un paio di scarpe con il tacco alto, a meno che tu non trovi un sacco di tempo per esercitarti.» Non riesco a trattenere la risata. «Mia sorella faceva la casalinga. Prima di sparire, voglio dire. Io sono una fotogiornalista.» «Di successo?» «Sì.» Lei sorride. «Scommetto che è una bella soddisfazione, giusto?» «È vero. L'avrai anche tu.» «A volte me lo chiedo.» Thalia accarezza il dorso del gatto e a ogni passaggio aumenta la pressione della mano. «Se devi farmi delle domande, avanti.» «Alcune sono per conto dell'FBI, ma se non te le faccio io, lo faranno loro.» «Preferisco che me le faccia tu.» «Perché lasciasti Terrebonne Parish per andare a New York?» «Sei mai stata a Terrebonne Parish?» «Sì.» Nei suoi occhi passa un lampo di sorpresa. «Davvero?» «Una volta lavoravo per il giornale di qui. È stato molto tempo fa. Ci sono stata qualche giorno.»
«Allora sai perché me ne sono andata.» «Ricordo gente che non aveva molto, ma che amava il posto in cui viveva.» Lei sospira amaramente. «Non ti sei fermata abbastanza.» «Perché hai voluto studiare con Roger Wheaton?» «Stai scherzando? Era una possibilità su un milione. Ho sempre amato i suoi dipinti. Quando ho saputo che mi aveva accettata, non riuscivo a crederci.» «Mandasti dei nudi femminili per la selezione?» «Sì.» Si porta una mano alla bocca. «I miei nudi mi fanno sembrare sospetta, vero?» «Secondo qualcuno sì. Perché sei passata dai nudi ai ritratti delle persone nelle loro case?» «Non so. Direi per frustrazione. I miei nudi non vendevano, fatta eccezione per gli uomini d'affari che cercavano qualcosa da appendere in ufficio. Qualcosa di artistico con delle tette, hai presente? Non sono venuta al mondo per questo scopo.» «No.» «Hai visto i miei lavori?» «No. È solo una mia sensazione.» «Interessante.» «Thalia, conosci un certo Marcel de Becque?» Scuote la testa in segno di diniego. «Chi è?» «Un collezionista d'arte. E Christopher Wingate?» «No.» «È un grosso mercante d'arte di New York.» «Allora non so proprio chi sia. Non conosco nessun mercante d'arte importante.» «Questo non lo conoscerai mai. È stato ucciso qualche giorno fa.» La notizia la sconcerta un pochino. «Faceva parte della faccenda?» «È l'uomo che vendeva i dipinti delle vittime. La cosiddetta serie delle "Donne Addormentate".» «Potrei vederne uno? Non hai una foto o qualcos'altro?» «No, mi dispiace.» «È roba buona?» «Gli esperti dicono di si.» «E vendono?» «L'ultimo è stato venduto a più di due milioni di dollari.»
«Cristo santo!» Chiude gli occhi e scuote la testa. «E le donne in quei quadri sembrano morte?» «Sì.» «L'acquirente sarà stato di sicuro un uomo.» «Sì. Un giapponese.» «Non è scontato?» «Cosa vuoi dire?» «Una donna morta vende a due milioni di dollari. Credi che un altro tipo di quadro dello stesso artista avrebbe raggiunto la stessa somma? Che so, un paesaggio? Un dipinto astratto?» «Non so.» «Certo che no! I quadri di Roger non raggiungono quella cifra.» «Sono molto cari.» «Costano un quarto di quello. E lui lavora da decenni.» «Adesso che ci penso, hai ragione. I primi quadri dell'artista erano più astratti e non vendevano. Il fenomeno iniziò quando fu evidente che i soggetti erano donne occidentali, nude, e addormentate o morte.» Thalia siede a labbra serrate. «Parlami di Leon Gaines. Cosa ne pensi?» «È un maiale. Sempre in giro a ficcanasare e a dirmi cosa gli piacerebbe farmi. Mi ha offerto cinquecento dollari perché posassi nuda per lui. Non lo farei nemmeno per diecimila.» «Per cinquecento dollari poseresti nuda per Frank Smith?» «Per Frank poserei gratis, ma lui dipinge solo uomini.» «E Roger Wheaton?» Uno strano sorriso le affiora sulle labbra. «Roger non mi chiederebbe mai di posare per lui. È ancora distante, dopo due anni. Credo di intimidirlo. Forse si sente attratto da me e non vuole superare certi limiti, non so. È un uomo complesso e malato. Una volta sono entrata nel suo studio mentre si stava abbottonando la camicia, e ho visto che aveva il torace ricoperto di ematomi a furia di tossire. Qualunque cosa sia, adesso è nei polmoni. Prova qualcosa per me, ma non so che cosa. Vicino a me è quasi imbarazzato. Credo che debba avere visto qualche studente di dottorato dipingere dei miei nudi.» «Lo sa che sei lesbica?» Thalia si irrigidisce. Diventa cauta. «L'FBI mi tiene d'occhio?» «No, ma la polizia sì. Non te ne eri accorta?» «Ho visto dei poliziotti tenere sotto controllo la casa. Credevo fossero
quelli dell'antidroga che sorvegliavano due tizi che abitano qui.» «No. Ma ti tengono d'occhio solo da un giorno.» Sembra sollevata. «L'FBI vuole sapere se sei lesbica. Per i casi così fanno parecchi profili psicologici, e pensano che sia importante.» Si morde il labbro, osserva il tavolino tra di noi, poi mi guarda negli occhi. «Tu pensi che lo sia?» «Sì.» Sorride e accarezza il gatto. «Sono strana. Non vado bene da nessuna parte. Ho desideri sessuali come chiunque altro.» «E l'amore e la tenerezza?» «Ho gli amici. Per lo più donne, ma anche uomini. Tu hai molti amici?» «Non molti. Ho dei colleghi, gente che fa il mio stesso lavoro e che capisce il genere di vita che faccio. Condividiamo delle esperienze, ma non è proprio la stessa cosa. Ho più ex amanti che amici.» Mi sorride. «Non è facile trovare degli amici a quarant'anni. Bisogna davvero aprirsi alla gente, e non è facile. Si è fortunati se sono rimasti un paio di amici dall'infanzia.» «Anch'io ho lasciato il posto dove sono cresciuta. A casa hai degli amici?» «Una. Vive ancora nel bayou. A volte ci sentiamo per telefono, ma non vado mai a trovarla. Hai figli?» «No. E tu?» «Sono rimasta incinta una volta, quando avevo quindici anni. Lui era mio cugino. Abortii, e la cosa finì lì.» «Mi dispiace.» «Ecco perché odio quel posto. Avevo appena compiuto dieci anni quando mio padre cominciò ad abusare di me. Mio cugino non si fece avanti subito; aspettò qualche anno. Quando fui abbastanza grande scappai via, ma ci misi parecchio a superare tutto quanto. Non posso avere un uomo sopra di me, non importa quanto io tenga a lui. Ecco perché scelgo le donne. Sono rassicuranti. Una volta pensavo che le cose sarebbero cambiate, ma adesso non ci credo più.» «Capisco.» Mi guarda scettica. «Davvero?» «Sì.» «Hanno abusato di te?» «Non in quel modo. Non un familiare. Ma...» Sono improvvisamente
consapevole di Baxter, Lenz e Kaiser nel furgone di sorveglianza che ascoltano ogni parola. Mi sento una traditrice di Thalia e di me stessa, e ho voglia di gettare via il trasmettitore che porto. Ma se lo facessi Thalia non capirebbe. «Non avere fretta» mi dice lei. «Vuoi del tè?» «Sono stata violentata» dico a bassa voce, senza quasi credere alle parole che escono dalla mia bocca. «È successo molto tempo fa.» «Il tempo non conta.» «Hai ragione.» «Era un amico?» «No. Ero in Honduras, durante la guerra nel Salvador. Ero appena agli inizi. Stavo fotografando un campo di rifugiati con un paio di colleghi giornalisti, e ci perdemmo di vista. Loro tornarono in città senza di me e dovetti tornare a piedi. Arrivò una macchina e si fermò. Dentro c'erano dei soldati governativi. Quattro soldati e un ufficiale. Erano educati e sorridenti. Mi dissero che mi avrebbero portato in città. Io accettai l'offerta. Dopo circa un chilometro e mezzo lasciarono la strada e mi portarono nella giungla. Nessuno avrebbe sentito le mie grida. Quella notte persi la voce.» «È tutto a posto» mormora Thalia. «Non sei sola adesso.» «Lo so, ma non è tutto a posto. Non è mai più tornato tutto a posto. Mi vergogno, mi vergogno profondamente.» «Tu non hai fatto niente, Jordan. Hai solo accettato un passaggio. Ti sei fidata di quegli uomini.» I miei occhi si riempiono di lacrime di rabbia e di disprezzo. «Non parlo dello stupro, parlo di quello che successe dopo. Prima di cominciare, mi avevano legato le mani dietro la schiena. Non avevo modo di ribellarmi e la cosa andò avanti per ore. A un certo punto della notte persi conoscenza. Mi svegliai all'alba con le braccia addormentate, ma le mani libere. Seguii le tracce di pneumatico per arrivare alla strada, poi zoppicando ritornai in città sanguinante e piangente. Non ne parlai a nessuno. Credevo di essere forte, ma non ebbi nemmeno il coraggio di andare all'ospedale. Temevo che se le persone per cui lavoravo avessero conosciuto il fatto mi avrebbero allontanata prima ancora che mi rendessi ben conto di quanto mi era capitato. Sai una cosa? Provo disprezzo per me stessa. Forse altre donne hanno incrociato quei vigliacchi e... Sono perseguitata da quest'incubo. Una mia denuncia avrebbe potuto impedire altre violenze.» Thalia scuote la testa lentamente. «Probabilmente ci sono state altre donne, prima e dopo di te. Ma adesso è passato. La cosa importante è co-
me ti senti tu adesso. Questa è la sola cosa che tu puoi cambiare.» «Lo so.» «Lo sai con la testa, ma non con il cuore, Jordan.» «Lo so. Ci proverò.» «Hai paura per tua sorella, non è così? Paura che abbia subito quello che è toccato a te.» «O peggio.» «Va bene, ma guarda cosa stai facendo. Stai facendo tutto il possibile per trovarla.» «Thalia, io devo sapere.» «Ci riuscirai. Ci riuscirai.» Alza l'enorme gatto e lo posa sul pavimento, poi mi si avvicina e mi aiuta ad alzarmi. «Vieni in cucina. Preparo del tè verde.» «Perdona lo sfogo. Sei la prima persona a cui io l'abbia mai detto, e non so nemmeno perché l'ho fatto. Non ti conosco.» Thalia Laveau mi posa le mani sulle spalle e mi guarda a fondo negli occhi. «Sai una cosa?» «Cosa?» «Hai appena trovato un'amica, a quarant'anni.» Mi sento invadere da una strana sensazione, molto simile a quella che provano le persone religiose dopo l'assoluzione. «Dai, vieni in cucina.» Dieci minuti più tardi scendo le scale mal ridotte e sento John Kaiser sussurrarmi all'orecchio. «Da questa parte, Jordan.» Non voglio vederlo, ma non ho modo di evitarlo. Quando sono dietro l'angolo, lui mi segue. «Mi dispiace di avere ascoltato» dice. «Mi dispiace per quello che ti è successo.» «Non ne voglio parlare.» «Mi dispiace per come ho parlato dello stupro che Roger Wheaton ha interrotto in Vietnam» prosegue. Vedo il furgone che si avvicina a noi. «Jordan, cosa vuoi? Dimmelo.» «Voglio tornare in albergo e fare una doccia.» «Ci stai andando.» «E non voglio salire sul furgone.»
«Faccio venire una macchina. Aspetto con te, poi ti accompagno. Va bene?» Io non lo guardo. Provo una grande rabbia, del tutto irrazionale, verso di lui e verso il fatto che mi desideri. Vuole abbracciarmi e consolarmi, ma non può. Solo la donna che io ho stupidamente sospettato di essere coinvolta nella scomparsa di mia sorella potrebbe consolarmi, e lei ha già fatto tutto il possibile. «L'auto di sorveglianza sta arrivando. In un minuto sarai in albergo. Va bene?» Lo guardo tranquilla. «Thalia non mi conosceva. Non mi aveva mai vista prima. Il che significa che non aveva mai visto Jane. Lo capisci, vero?» «Capisco.» «Bene.» CAPITOLO DICIASSETTESIMO Nella mia camera d'albergo, sotto la doccia, si spezza finalmente la mia imperturbabilità, creando tante immagini che si accavallano senza senso nella mia mente: Wingate che cerca di salvare il suo quadro, le fiamme ai suoi piedi; i soldati che mi legano le mani e mi schiacciano la faccia contro il suolo della giungla; mio cognato che mi bacia il collo, cercando di portarsi a letto il fantasma della moglie; de Becque che mi guarda con gli occhi che scintillano mentre mi dà con parsimonia delle informazione su mio padre... Regolo la temperatura dell'acqua. Gli occhi chiusi contro il getto vedono le quattro strane persone che ho incontrato oggi. Penso a Baxter, Lenz, Kaiser e al loro grandioso piano. Mi hanno esibita sotto gli occhi dei sospetti e non hanno colto il più piccolo segno di cedimento. In mia presenza, nemmeno un'esitazione. Suona il telefono. Per prima cosa penso che sia nella mia testa, tanto è forte. Poi apro la tenda della doccia e vedo il telefono sulla parete, in basso, vicino al gabinetto. Premo il palmo della mano sull'asciugamano, quindi prendo il ricevitore. «Sì?» «Sono John.» «John?» «Kaiser.» Sembra a disagio. «Ah. Che c'è?»
«Sono ancora qui sotto.» «Come mai?» «Stiamo per avere una riunione, Baxter, Lenz, Bowles e io, prima che si raduni la task force ufficiale. So che sei sottosopra, ma ho pensato che saresti stata ancora più arrabbiata se l'avessi mancata.» «Sto facendo la doccia. Andrà per le lunghe, no?» «Non credo. Ho appena sentito Baxter al cellulare. Mi ha detto che ci sono un paio di novità.» «Che novità?» «Non lo saprò finché non sono in ufficio.» Per quanto io muoia dalla voglia di svaligiare il minibar e di buttarmi sul letto con gli asciugamani ancora indosso, so che lui ha ragione. Starei peggio a non andarci. «Dammi cinque minuti.» Kaiser riattacca, pensando senza dubbio che nessuna donna di sua conoscenza possa essere pronta dopo la doccia in cinque minuti. Ma in questo caso si sbaglia. Questa volta ci incontriamo dove ci eravamo riuniti la prima volta: nell'ufficio dell'ASR Bowles. Kaiser mi precede e bussa frettolosamente; sebbene io senta delle voci, l'ufficio pare vuoto. Dalla lunga finestra alla mia destra vedo il lago Pontchartrain, grigio contro il cielo pomeridiano, con poche vele che scivolano sulla superficie. Entrando nella stanza vedo Baxter, Lenz e l'ASR Bowles seduti nella zona salotto. Bill Granger, il capo dell'unità crimini violenti, mentre esce stringe la mano a Kaiser e mi fa un cenno pieno di imbarazzo. Ovviamente deve essere stato tra quelli che hanno ascoltato la trasmissione dall'appartamento di Thalia. Io e Kaiser ci sediamo vicini su un sofà, di fronte a Baxter e Lenz. L'ASR Bowles è su una sedia alla mia destra. Nessuno ha l'aria contenta, ma non sembrano neanche sfiduciati come credevo. Sono invece sorpresi di vedermi. «Jordan, oggi lei ha fatto un lavoro davvero di prim'ordine» esordisce Baxter in tono da riunione alla Camera di Commercio. «Peccato che non abbia smosso nessuno.» Lui guarda Kaiser. «Abbiamo quaranta minuti prima della riunione della task force e voglio andarci con fatti concreti. Al momento due agenti, su due aerei diversi, stanno portando al laboratorio di Washington le prove raccolte oggi dalla polizia di New Orleans. Tutto quanto: dai quadri ai
campioni di DNA. Il direttore stesso ha definito la cosa urgente, il che significa dodici ore per le prime analisi, ventiquattro o quarantotto ore per le altre e tre giorni per il DNA, nella migliore delle ipotesi.» «Tre giorni?» ripete Kaiser. «Sarei rimasto sorpreso se avessero detto tre settimane.» «Tra le famiglie delle vittime ce n'è un paio che hanno parecchio peso. Ringraziamo Dio.» In questa stanza tutti sanno che se le vittime fossero delle prostitute che si facevano di crack, le prove che si trovano su quegli aerei sarebbero rimaste in attesa del loro turno in laboratorio per settimane. «Prima di decidere la nostra prossima mossa,» continua «esaminiamo a che punto siamo. Oggi gli interrogatori non hanno prodotto l'effetto sperato. Perché?» «Ci sono due possibilità» spiega Lenz. «La prima: nessuno dei quattro sospetti è l'individuo che cerchiamo, il pittore. Questa teoria è suffragata dall'opinione degli esperti d'arte, secondo i quali le "Donne Addormentate" non sono state dipinte da nessuno dei sospetti. La seconda: uno dei sospetti ha riconosciuto Jordan, ma ci ha ingannati mantenendo la calma davanti a lei.» «Nessuno ci ha ingannati» commenta Kaiser. «A eccezione, forse, di Frank Smith. Lui è rimasto sorpreso di fronte a Jordan, ma si è spiegato dicendo di averla vista molto tempo fa a una festa, una spiegazione di fatto non verificabile.» Baxter guarda Lenz. «Cosa pensi di Smith?» «Brillante, dotato, sicuro di sé. Dei quattro è certamente quello più capace di organizzare una cosa del genere.» «E la prima possibilità? Che nessuno di loro sia il nostro individuo sospetto?» «Le setole dei pennelli ci hanno portato a questi quattro e ai cinquanta studenti che avrebbero potuto prendere i pennelli» sottolinea Lenz. «Come stiamo andando con loro?» «Nessuno studente è stato direttamente interrogato» risponde Baxter. «Per l'età, e per il fatto che ben pochi di loro avrebbero il talento necessario per dipingere le "Donne Addormentate", è molto improbabile che siano loro. E poi nel momento in cui iniziassimo a interrogare gli studenti di Tulane, i mezzi di informazione si butterebbero sul caso come sciacalli. Finora ci è andata bene.» «Molto bene» dico piano. «Mi chiedo come mai.» «A New Orleans i mezzi di informazione non sono troppo agguerriti»
commenta Bowles. «Se volessero potrebbero darci dentro molto di più.» «Ma quando partiranno,» interviene Kaiser «si scatenerà l'inferno. E con Roger Wheaton coinvolto, per non parlare dei genitori pieni di soldi e arrabbiati, e dei loro avvocati, arriverà la stampa nazionale.» «Lasciamo perdere i media adesso» interviene Baxter. «La polizia di New Orleans dice che nessuno dei sospetti era preoccupato all'idea di fornire dei campioni per il DNA. Se uno di loro avesse rapito la donna di Dorignac, non sarebbe certo così tranquillo.» «Se il pittore dipinge soltanto,» aggiunge Lenz «e qualcun altro si occupa dei rapimenti, allora l'artista non avrebbe motivo di preoccuparsi per l'analisi del DNA.» Kaiser guarda Baxter. «Qual è il nuovo sviluppo di cui parlavi al telefono?» Io sarei partita con questa domanda, ma evidentemente questi hanno i loro tempi. «Anche se l'omicidio di Wingate e il rapimento di Dorignac sono avvenuti a sole due ore di distanza l'uno dall'altro,» spiega Baxter «ho messo al lavoro una mezza dozzina di agenti a tempo pieno, per controllare le liste passeggeri e per interrogare chi, nelle ore seguenti, ha viaggiato tra New Orleans e New York. La cosa ha dato i suoi frutti.» «Cosa hai scoperto?» «Un'ora dopo la morte di Wingate, un uomo solo ha comprato in contanti un biglietto per un volo dal John Kennedy di New York ad Atlanta, dove, sempre in contanti presso un'altra compagnia aerea, ne ha acquistato uno per Baton Rouge.» «Chi è?» domando. Il dottor Lenz accavalla le gambe e in tono pedante risponde: «Una falsa identità, ovviamente. Forse l'individuo sconosciuto che ha ucciso Wingate si trovava già a New York quando lei a Hong Kong ha dato uno scossone a tutta la faccenda. Lui ha messo a tacere Wingate, poi è volato quasi direttamente a New Orleans, per mettere in guardia il suo complice. Se si considerano i tempi, è possibile che sia riuscito ad arrivare solo sei ore dopo la scomparsa della donna di Dorignac. Forse il piano era quello di farle il ritratto, ma lo sconosciuto di New York ha scelto la linea più prudente: ucciderla e sbarazzarsene». Baxter dà un'occhiata tagliente allo psichiatra. «È possibile. Ma chiunque sia l'individuo sospetto di New York, e qualsiasi cosa abbia fatto dopo il rapimento di Dorignac, a New Orleans c'era qualcuno che ha compiuto il
crimine. Probabilmente il pittore.» Nel silenzio che segue tutti meditano su ciò che hanno appena sentito. «Hai una descrizione del sospetto di New York?» chiede Kaiser. «È molto generica. Età compresa tra i trentacinque e i quarantacinque, muscoloso, espressione dura. Vestito in modo sportivo. Probabilmente lo stesso tipo che, dopo l'incendio, ha fatto vedere il dito a Jordan.» «Portava un berretto?» chiedo con fare quasi scherzoso. «C'è altro» prosegue Baxter. «Linda Knapp, la ragazza di Gaines, quella che ha distrutto il suo quadro e che se n'è andata con voi, è ricomparsa a casa di Gaines mezz'ora fa. La polizia di New Orleans non voleva lasciarla avvicinare a Gaines, ma lei ha raccontato loro che è in grado di fornirgli un alibi per qualsiasi notte, e che lui è sempre stato a casa con lei, ubriacandosi o scopandola fino allo sfinimento.» Ricordo come sembrava arrabbiata e ansiosa di andarsene. Adesso è tornata e lo protegge dalla polizia. «Knapp è sempre stata con Gaines negli ultimi diciotto mesi?» «No. Gaines ha indicato un'altra ragazza come alibi per gli omicidi precedenti alla sua relazione con Knapp. Stiamo cercando di rintracciarla. Per quanto riguarda gli altri alibi, la situazione è la seguente: in base alle carte di credito, sia Roger Wheaton sia Frank Smith erano in città in occasione di ogni omicidio. Leon Gaines e Thalia Laveau non hanno nemmeno la carta di credito. I primi interrogatori della polizia di New Orleans non hanno smontato alcun alibi. In verità la cosa non sorprende. Quasi tutti i rapimenti sono avvenuti in giorni feriali, tra le ventidue e le sei.» «E Smith?» chiede Lenz. «Di sicuro ha qualche amante che si è fermato a dormire da lui e che potrebbe fornirgli un alibi almeno in un'occasione.» «Oggi non ha menzionato nessuno» replica Baxter. «Forse sta proteggendo qualcuno.» «Qualcuno che non ammette pubblicamente di essere gay» aggiunge l'ASR Bowles «E Juan, il domestico?» chiedo. «Non ne sapevamo niente fino a stamattina» chiarisce Baxter. «La polizia di New Orleans lo sta interrogando. Ha cercato di sfuggire, ma sono riusciti a prenderlo. Pare che sia immigrato illegalmente dal Salvador.» «Che cos'altro abbiamo?» domanda Kaiser. «Qualcosa sui commilitoni di Wheaton? Sui compagni di carcere di Gaines?» «Ho due elenchi» spiega Baxter. «Ho pensato che tu voglia parlare con i veterani del Vietnam.»
Mentre gli uomini mettono a punto i dettagli, alla mia mente si affaccia un'ipotesi. Il paradosso tra l'opinione degli esperti e le prove concrete sta lentamente prendendo forma. «Mi viene in mente una terza possibilità» dico calma. Kaiser fa un cenno con la mano per zittire gli altri, poi si volta verso di me. «Quale?» mi chiede. «E se uno dei quattro sospetti che abbiamo incontrato oggi commettesse gli omicidi, ma non sapesse ciò che fa?» Nessuno risponde. Baxter e Kaiser sembrano impietriti all'idea, ma il dottor Lenz è ottimista. «Come le è venuto in mente?» si informa lo psichiatra. «La vecchia teoria di Sherlock Holmes: escluse tutte le possibilità, non resta che la soluzione, per quanto improbabile possa sembrare.» «Non abbiamo escluso altre possibilità» interviene Baxter. «Nemmeno per sogno.» «Ma non ci portano da nessuna parte.» Kaiser guarda Lenz pensieroso. «Che te ne pare?» Lo psichiatra fa un gesto con la mano che non lascia trapelare nulla, come se stesse considerando l'ipotesi per la prima volta. «Stiamo parlando di DPM, disturbo della personalità multipla. È estremamente raro. Molto più raro di quanto si veda nei film o nei romanzi.» «In tutto il periodo passato a Quantico non mi è mai capitato un caso confermato» dice Kaiser. «Quando capita,» chiede Bowles «da che cosa dipende?» «Esclusivamente da gravi violenze fisiche o sessuali durante l'infanzia» spiega Lenz. «Cosa sappiamo dell'infanzia dei tre uomini?» domando, ricordando la confessione di Thalia delle violenze sessuali da lei subite. «Sappiamo che la Laveau ha avuto questo tipo di problemi.» «Non molto» ammette Baxter. «L'infanzia di Wheaton è piuttosto oscura. Non abbiamo altre informazioni se non quelle contenute nei cenni biografici standard che compaiono negli articoli. Di sicuro non si parla di abusi. Sappiamo che la madre se ne andò da casa quando il ragazzo aveva tredici o quattordici anni, forse in conseguenza di qualche abuso, ma non conosciamo i dettagli. E se anche i bambini subivano delle violenze, perché non portarli con sé?» «Dovremmo chiedere a Wheaton» interviene Kaiser.
«E Leon Gaines?» chiedo. «Ci deve essere stato qualche abuso nel suo caso.» «Certamente» commenta Lenz. «È stato rinchiuso in riformatorio, un indice di alta probabilità di abuso. Ma il danno psicologico di cui parlo avviene in un periodo più precoce dello sviluppo infantile.» Io guardo Baxter. «Non ci aveva detto che il padre era stato in prigione per rapporti sessuali con un minore? Una ragazzina di quattordici anni?» Baxter annuisce. «È così. Faremmo meglio a scavare più a fondo nella vita del padre di Gaines.» «Cosa sappiamo dell'infanzia di Frank Smith?» domanda Kaiser. «Famiglia ricca» spiega Lenz. «Non il tipo di ambiente dove gli abusi verrebbero denunciati. Cercherò di rintracciare il medico di famiglia.» Mentre riflettiamo in silenzio su questa nuova prospettiva per le indagini, squilla il telefono dell'ASR. Bowles va alla scrivania, poi chiama Baxter all'apparecchio. Baxter prende la cornetta, fa delle domande che non riesco a sentire, quindi riaggancia e torna da noi, con un sorrisetto forzato sulle labbra. «Cosa c'è?» domanda Kaiser. «Il domestico salvadoregno di Frank Smith ha appena detto agli investigatori della polizia di New Orleans che Roger Wheaton si è fermato a lungo da Smith diverse notti e che ha dormito lì due volte.» Kaiser fischia. «Sul serio?» Baxter annuisce. «E sentite questa. In quelle occasioni lui li ha sentiti urlare.» È un'immagine in netto contrasto con l'impressione che ho ricevuto dei due uomini, ma il dottor Lenz pare eccitato come non mai. «Dobbiamo incontrare di nuovo entrambi» dice. «Senz'altro» asserisce Baxter. «Come li avviciniamo?» Lenz si morde le labbra ma non dice niente. «Penso che con Frank Smith dovrei parlare io» propongo decisa. Tutti mi guardano. «Da sola?» mi chiede Baxter. «Mi ha invitata a ritornare, no? È il modo migliore per scoprire qualcosa su quelle visite.» «È riuscita a guadagnarsi la fiducia della Laveau» interviene Kaiser. «Direi che è il caso di lasciarla fare.» Baxter sembra a disagio, e si gira verso Lenz per avere la sua opinione. Lo psichiatra si stringe nelle spalle. «So che preferiresti un altro modo, ma Smith aveva davvero stabilito un'intesa con lei. Dobbiamo scegliere la
situazione con le maggiori probabilità di riuscita.» Baxter sospira. «Va bene. Jordan parlerà a Smith.» «Arthur e io possiamo incontrare Wheaton» propone Kaiser. «Dovremmo chiedere alla società dei telefoni di creare qualche problema con le loro linee telefoniche, onde evitare altre soffiate tra i due.» «Un buon piano» conclude Baxter. «Fino a che punto ne informiamo la task force?» «Completamente, direi» interviene Kaiser. «Finora si sono dimostrati degni di fiducia. Se nascondiamo loro qualcosa senza una ragione, non facciamo che fregarci da soli.» «Parliamo anche della teoria del disturbo di personalità multipla?» chiede Lenz. «No» interviene Baxter. «È proprio il tipo di ipotesi per cui ci sfottono; lasciamo stare finché non abbiamo gli elementi per pensare di essere sulla pista giusta.» Mi guarda. «Almeno finché non c'è qualcosa oltre alla teoria di Sherlock Holmes.» Il sorriso che segue mi fa capire che l'ultima frase l'ha detta per ridere. «Domande?» Kaiser alza la mano come uno scolaro. «Stamattina ci hai detto che il programma per computer Argus stava lavorando sulle foto digitali delle "Donne Addormentate". Sono venuti fuori dei volti riconoscibili?» «Hanno un aspetto più umano» aggiunge Baxter. «Ma non è stato finora possibile identificare nessuna delle persone uccise o scomparse da New Orleans e dintorni negli ultimi tre anni. «Chi si occupa del confronto?» «Un paio di agenti presi a prestito dal controspionaggio» risponde l'ASR. «Ottime persone. Hanno vent'anni in due.» «Mi piacerebbe vedere quello che esce da Argus,» dice Kaiser. «Nei mesi scorsi ho esaminato i volti di un sacco di vittime.» «Ci pensi tu, Patrick?» chiede Baxter. Bowles annuisce. «Ti daremo copia di tutte le immagini che Washington ci manda per posta elettronica, non appena le hanno decodificate. Spero che non ti manchi il tempo.» Baxter guarda l'orologio. «Dobbiamo andare.» Rivolgendosi a me dice: «Jordan, abbiamo più che mai bisogno che lei stia alla larga dai suoi vecchi amici.» «Non c'è problema. Sono cotta. Ritorno in albergo, mi faccio portare su la cena e vado a dormire.»
«Crede che suo cognato starà zitto?» «Non creerà nessun problema.» I suoi occhi restano su di me. «Abbiamo assegnato a Wendy una stanza vicino alla sua. In caso di bisogno cacci un urlo.» Annuisco. Preferisco Wendy a un estraneo, anche se immagino che la sua presenza possa creare delle complicazioni. Baxter si dà una manata sulle cosce e si alza, gli altri lo seguono come dei giocatori di football dopo la mischia. «Andiamo a parlare agli uomini in blu» dice Baxter. «In nero e blu» precisa Kaiser. «La polizia di New Orleans ha la divisa di due colori.» Baxter fa strada verso la porta, diretto all'EOC, l'Emergency Operation Center, che io non ho ancora visto. Seguono Bowles e Lenz, che chiude la fila. Solo Kaiser resta indietro, riuscendo a camminare al mio fianco mentre vado verso la porta. «Così vai a letto presto?» dice piano. «Sì.» Mi fermo sulla soglia e guardo gli altri camminare lungo il corridoio. «Ma non è detto che mi addormenti subito. Chiamami dall'atrio.» Guardando verso il corridoio mi tocca la mano e la stringe leggermente, poi senza dire una parola segue il dottor Lenz. Gli concedo un paio di secondi e mi incammino verso l'ascensore dietro l'angolo, dove trovo Wendy che mi aspetta. CAPITOLO DICIOTTESIMO Dormivo già da qualche ora, quando vengo svegliata dal telefono sul comodino. La TV è muta, ma ancora accesa e sintonizzata sul canale HBO. Chiudo gli occhi davanti alla luce accecante dello schermo e afferro la cornetta. «Pronto?» «Sono io. Sono qui sotto.» Nella mia mente fa capolino il viso di John Kaiser. «Che ora è?» «Mezzanotte passata.» «Bene. La riunione è durata così tanto?» «La polizia ha interrogato ogni sospetto per ore e noi abbiamo dovuto ascoltare tutto.» Sbadiglio. «Piove ancora?» «Ha smesso, finalmente. Ti ho svegliata, vero?» «Sonnecchiavo.»
«Se sei troppo stanca, non importa.» Una parte di me vorrebbe dirgli che sono troppo stanca, ma un lieve brivido me lo impedisce. «No, sali. Sai il numero della stanza?» «Sì.» «Mi porteresti per favore una Coca-Cola o qualcosa di simile? Ho bisogno di un po' di caffeina.» «Normale o senza zucchero?» «Cosa pensi?» «Normale.» «Indovinato.» «Arrivo subito.» Riaggancio e incespico verso il bagno; capisco, dal confuso senso di stanchezza che provo, che gli ultimi giorni sono stati più stressanti di quanto non pensassi. Senza accendere la luce mi lavo i denti e mi risciacquo il viso. Mi tolgo la camicia da notte e indosso una maglietta bianca e i jeans. Kaiser bussa leggermente alla porta per non farsi sentire da Wendy, che dorme nella stanza accanto. Guardo dallo spioncino per essere sicura che sia proprio lui, quindi apro velocemente la porta. Lui entra, sorride e appoggia due lattine di Coca-Cola fredde sul tavolo, ne apre una e me la porge. «Grazie.» Bevo una lunga sorsata che mi pizzica la gola. «Sei stanco?» «Abbastanza.» «Cosa pensi del caso?» Si stringe nelle spalle. «Non è una meraviglia.» «Credi che Wheaton e Frank Smith abbiano una relazione?» «Non so che altro significato dare a quelle visite.» «Potrebbe essere qualsiasi cosa. Discussioni d'arte.» «Non ho quest'impressione.» «Neanch'io. Qual è l'accordo con Lenz? Mi pare che non voglia sbottonarsi molto, con te presente, no?» «Da quando ha lasciato l'FBI si è accorto che si può essere dimenticati in fretta. Vorrebbe far vedere che a Quantico non c'è più nessun fuoriclasse.» «Non sembrava sorpreso quando ho chiesto se uno dei sospettati avrebbe potuto uccidere delle persone senza esserne consapevole.» «È vero.» Kaiser mi dà un'occhiata significativa. «L'ipotesi ti convince?» «No. Non mi sembra verosimile che una persona così incasinata possa
riuscire a portare a termine undici rapimenti e magari dipingere anche come un Rembrandt. Comunque non scarto l'ipotesi. Cerco di scoprire se uno dei tre uomini è stato vittima di abusi sessuali.» Apre la sua lattina di Coca-Cola e beve un sorso. «Parleremo di lavoro tutta la sera?» «Spero di no.» Vado alla finestra e scosto le tende: davanti a noi si spalanca la vista sul lago Pontchartrain. Adesso il lago è una distesa scura, fatta eccezione per le luci della strada, che si perde nella foschia verso Nord. Mi allontano dalla finestra e mi siedo ai piedi del letto. Kaiser si toglie la giacca e la appoggia sullo schienale della sedia, quindi si siede di fronte a me, a circa mezzo metro di distanza; la sua pistola è ancora appesa al fodero. «Di cosa dovremmo parlare?» mi chiede. «Perché non mi dici cosa stai pensando?» Un debole sorriso. «A te.» «Come mai?» Scuote la testa. «Vorrei saperlo. Hai presente quando perdi qualcosa e poi la trovi solo nel momento in cui hai smesso di cercarla?» «Sì, ma a volte non è più la cosa di cui si ha bisogno.» «Questo è qualcosa di cui tutti hanno bisogno.» «Credo di sì.» Provo un senso di calore in me, ma una forte esitazione mi impedisce di abbandonarmi completamente. Bevo un altro sorso di Coca-Cola. «Ti ho già parlato di alcuni miei problemi con gli uomini. Dei tipi che credono di volermi, ma poi scoprono che non ne vogliono sapere della realtà della mia vita.» «Ricordo.» «Voglio sapere di te. Non sei uno che si dà per vinto. Che cosa ha allontanato te e tua moglie?» Sospira e appoggia la lattina, come se fosse diventata troppo pesante. «Il motivo non fu tanto il lavoro quanto le cose che vedevo ogni giorno. Non potevano essere raccontate a una persona normale. Si arrivò al punto in cui non avevamo più niente da condividere. Arrivavo a casa dopo avere lavorato per diciotto ore su casi di bambini uccisi e lei era di cattivo umore perché le tende nuove del soggiorno stonavano con il tappeto. Cercai più volte di spiegarglielo, ma si rifiutava di ascoltare. Non voleva sentire parlare di certe cose, e così ho dovuto allontanarmi.» «Ce l'hai con lei?» «No. Il suo istinto di sopravvivenza è stato più forte. È più saggio evita-
re che certi pensieri entrino nella mente, perché una volta che ci sono non si possono più mandare via. Lo sai bene, perché probabilmente hai visto situazioni ben più infernali.» «Non credo che "l'inferno" si possa quantificare. Ma so cosa vuoi dire quando parli di difficoltà nel riuscire a comunicarlo. Ho passato gran parte della mia attività professionale cercando di farlo, e a volte mi chiedo se ci sono mai riuscita. Le immagini che ho messo su pellicola non trasmettono che una frazione dell'orrore di quelle impresse nella mia mente.» Lo sguardo di Kaiser esprime una comprensione che non incontravo da tempo. «Eccoci qui,» dice «merce danneggiata.» Ciò che provo per quest'uomo non è una semplice infatuazione che mi spinge ad andarci a letto. È quel senso d'intimità che sento da quando abbiamo fatto il primo giro in macchina insieme. John Kaiser ha guardato nelle tenebre senza cadere nel cinismo. Ha saputo mantenere una sorta di integrità umana e di naturalezza che mi attraggono. Sento che con lui sarei sicura. «Così tu vuoi dei bambini» continua, riprendendo la conversazione lasciata a metà al Camellia Grill. Io penso ai miei nipoti e maledico mio cognato per avere rovinato il periodo che ho passato con loro. «Sì.» «Quanti anni hai? Quaranta?» «Già. Non ho tempo da perdere.» «Non hai mai pensato di fare come Jodie Foster e di trovare un donatore che ti piaccia?» «Non è nel mio stile. Tu vuoi dei bambini?» Lui mi guarda, i suoi occhi brillano. Si sta divertendo. «Sì.» «Quanti?» «Uno all'anno per i prossimi cinque o sei anni.» Mi si stringe lo stomaco. «Allora io sono fuori competizione.» «Sto scherzando. Due però non sarebbero male.» «Allora potrei farcela.» Dopo pochi istanti di silenzio lui dice: «Di cosa diavolo stiamo parlando?». «Forse è la stanchezza. Siamo tutti e due sotto pressione. Ho visto rapporti cominciare per questa ragione, e di solito non finiscono bene. Credi che stia capitando la stessa cosa a noi?» «No. Mi sono trovato in condizioni ben più stressanti senza dover per forza cercare una donna a portata di mano.»
«Buono a sapersi.» Lo guardo negli occhi, sperando di scorgervi una risposta istintiva a quello che sto per chiedergli. «Forse dovremmo passare la notte insieme; se al mattino la cosa ci va ancora bene, puoi ripetere la domanda.» Lui scoppia a ridere. «Dio santo! Sei sempre stata così?» «No, ma sono troppo vecchia per perdere tempo.» Nella mia mente fa improvvisamente capolino l'immagine dell'agente Wendy Travis nella camera accanto con l'orecchio contro il bicchiere appoggiato alla parete. «Se sei qui solo per farti una scopata, penso che avresti più fortuna nella stanza qui vicino.» Il suo sorriso sparisce. «Questa va benissimo.» Appoggio i gomiti sulle ginocchia e poso il mento tra le mani: i miei occhi si trovano a pochi centimetri dai suoi. «Siamo impazziti?» «No. Semplicemente a volte si sa e basta.» «Lo penso anch'io.» La mia mano sfiora il suo labbro inferiore. «Allora, a cosa pensi?» «Al profumo dei tuoi capelli.» Si avvicina e mi tocca i capelli sulle spalle, e improvvisamente vorrei averli più lunghi. «Al sapore della tua bocca.» «Credo che tu ti faccia ben altre domande.» «Sì. Ma è difficile pensare alla conversazione che abbiamo avuto semplicemente come a un preliminare.» «Tu e io facciamo uno strano lavoro. Sai che cos'hanno detto.» «Cosa?» mi chiede. «Accogli la stravaganza.» «Chi l'ha detto?» «Non so. Hunter Thompson, forse. Avvicinati e baciami.» Invece lui mi prende le mani e mi porta vicino al petto. Poi mi cinge i fianchi e mi guarda, ma non mi bacia. Non ancora. Scruta i miei occhi e mi stringe. Ho la pelle bollente, che desidera ardentemente il contatto con la sua. Sto pensando di prendergli la mano e di posarla sul mio seno, ma mi accorgo che lui lo sta già facendo, come se mi avesse letto nel pensiero. Mi tocca con delicatezza, poi avvicina il viso e mi bacia sulle labbra. Il cuore mi batte forte, proprio come avevo previsto. «Quanto tempo abbiamo?» chiedo. «Tutta la notte.» «È la risposta giusta.» Lo bacio ancora, aprendo la mia bocca alla sua. Poi mi allontano. «Forse dovrei cominciare a chiamarti per nome.»
I suoi occhi brillano di gioia. «Quando vuoi.» «Allora renderemo l'occasione speciale. Sei pronto?» «Pronto.» «John, facciamo l'amore.» Lui sorride, poi mi solleva tra le braccia e sento tutta la forza del suo corpo. Mi aspetto di essere posata sul letto, invece mi porta in bagno. «È stata una giornata lunga. Ti piacerò di più dopo la doccia.» «O forse durante» gli rispondo ridendo. Ride anche lui, mi fa sedere sul mobiletto, poi apre i rubinetti. Il vapore inizia a riempire la stanza e lui si toglie le scarpe. «Maledizione, mi sono dimenticato di questo.» Sento il rumore del velcro, quindi vedo che ha in mano un fodero. La vista della pistola mi raggela. «È per te» mi spiega. «È una Smith & Wesson calibro trentotto leggerissima. Sai come si usa?» «Sì.» «Bene. La metto sul tuo tavolo.» Quando torna, io cerco di scrollarmi di dosso il peso dei brutti ricordi. «Sai cosa mi piace degli alberghi americani?» gli chiedo. «Cosa?» domanda appoggiando le mani sulle mie ginocchia. «L'inesauribile quantità d'acqua. Se ti va puoi anche stare sotto la doccia per due ore.» «L'hai mai fatto?» «Quando ritorno negli Stati Uniti dal Medio Oriente o dall'Africa, stappo una bottiglia di vino bianco fresco e mi metto sotto la doccia finché non divento avvizzita come una prugna.» Lui afferra il bordo della mia maglietta e aspetta che alzi le braccia. Sorrido ed eseguo; me la sfila, sbottona la sua camicia e mi stringe a sé. Questa volta sono io a baciarlo per prima, e lui si scosta solo per dire: «Credo che l'acqua vada bene». Mi sfilo i jeans, contenta di non provare alcun imbarazzo di fronte a lui e mi avvicino alla tenda della doccia. Mentre si toglie i calzoni mi guarda. «Sei bella, Jordan.» Dall'espressione capisco che dice sul serio. «In questo momento mi sento bella.» Mi prende la mano, scosta la tenda e mi aiuta a entrare nella vasca. Ci tocchiamo reciprocamente. «Ne è passato di tempo per me» gli dico. «Anche per me.»
«Sai cosa mi piace degli alberghi?» mi chiede con un sorriso divertito. «La doccia è in alto e io riesco a mettere la testa sotto il getto.» «Capisco. Bene. Sei troppo alto per appoggiare qui la testa e fare qualcosa di buono?» Ride, si abbassa e mi bacia i seni con dolcezza, sento la sua lingua fresca sui miei capezzoli avvolti nel vapore. Faccio scorrere un'unghia lungo il suo corpo. «Soffri?» «Mm-mm» geme. «Bene.» Mentre l'acqua bollente mi percorre la schiena, la sua mano scivola in basso. Sento le sue labbra sul collo, sul mento, sulla bocca. Improvvisamente un trillo acuto ci lascia impietriti. «L'allarme antincendio?» chiede lui, ma il suono sta già svanendo. «Il telefono nel bagno.» «Chi cavolo può essere?» «Scommetto cinquanta dollari che è Wendy.» Il trillo ricomincia, nel locale minuscolo sembra un clacson assordante. Sospira. «È meglio che tu risponda.» Mi sporgo oltre la tenda, asciugo la mano e sollevo il ricevitore. «Pronto?» «Jordan, sono Daniel Baxter.» Sussurro: «È Baxter» a John, che immediatamente chiude il rubinetto. «Che cosa è successo?» «Ah... John è lì da lei?» «Un attimo, il volume della TV è troppo alto.» Copro la cornetta con la mano. «Vuole parlarti.» «Le batterie del mio cellulare devono essere morte.» «Forse non lo hai sentito. Il che vuole dire che Baxter sapeva di poterti trovare qui.» John stringe le spalle. «Non è uno scemo.» «Vuoi che dica che non ci sei?» Scuote la testa e prende il telefono. «Che c'è, capo?» Mentre ascolta, i suoi occhi si muovono rapidamente avanti e indietro con crescente concentrazione. «Quando?» chiede. Poi ascolta ancora, e io gli leggo in viso che non passeremo la notte insieme. Dev'essere successo qualcosa di tremendo. «Arrivo subito» risponde. «Va bene. Dirò a Wendy di venire nella sua
stanza.» Riattacca. «Cosa c'è?» chiedo cercando di contenere la mia ansia. «Hanno trovato i corpi? Hanno trovato mia sorella?» «No.» Mi prende le mani tra le sue. «Thalia Laveau è sparita. Daniel crede che sia stata rapita dall'UNSUB.» Sono assalita da un'ondata di nausea. «Thalia? Ma era sotto sorveglianza.» «L'ha volutamente evasa.» «Cosa?» «Non è entrato nei dettagli, visto che non stavamo usando un telefono sicuro. Non saprò niente di più finché non lo raggiungo. Dio santo, perché proprio lei?» Mi vengono in mente molte ragioni, ma non riesco a evitare di pensare al pronome singolare usato da John. "Finché io non lo raggiungo?" Cosa voleva dire quel lasciarmi qui con Wendy? Il suo sguardo non vacilla, ma se mi dice di rimanere qui, di non andare in ufficio con lui - in sostanza se mi dice che vado bene per andare a letto con lui ma non per accompagnarlo a una riunione dove ci può essere qualcuno che non gradisce la mia presenza - allora di me non conoscerà altro. «Vestiti» mi dice. «Vieni anche tu.» Né io né lui ci muoviamo. Qui, gocciolanti nella vasca, la notizia che Baxter ci ha appena dato pare irreale. Ma è vera. Ho la sensazione che una volta usciti da questa vasca passerà molto tempo prima di avere un'altra occasione di intimità. «Tutto a posto?» mi chiede toccandomi la guancia. «Credo. E tu? Ce la fai ad aspettare il momento in cui riusciremo a ritornare in questa stanza?» Annuisce, ma senza convinzione. «Abbiamo trenta secondi di tempo?» Annuisce ancora. «Non ti muovere.» Sul mobiletto, vicino al lavello, ci sono le confezioni omaggio di sapone, shampoo, balsamo e crema per le mani. Apro la crema e torno nella doccia. «Sto infrangendo una delle mie regole,» gli dico «ma mi potrai ripagare più tardi.» Borbotta mentre mi avvicino con le mani cosparse di crema, ma nei brevi istanti prima che lui smetta di pensare coscientemente, io vedo le imma-
gini della donna che ho conosciuto questo pomeriggio, l'artista sabina, semi-lesbica, Thalia Laveau, e il mio cuore si riempie di paura pensando a lei. Il centro operativo emergenze (EOC), dal quale finora sono stata tenuta alla larga, è il cuore pulsante dell'indagine NOKIDS. È un grande locale, più di trenta metri quadri, con lunghe file di tavoli che avanzano verso l'inizio della stanza, come un laboratorio scientifico delle scuole superiori, ma su scala gigantesca. Ogni fila è occupata da uomini e donne seduti di fronte a collegamenti telefonici; quelli non in uso hanno un adesivo rosso brillante che dice: «Non sicuro!» John fa attendere Wendy alla porta, quindi mi conduce nell'EOC. Durante il tragitto Wendy è stata silenziosa. Anche quando John ha cercato di farla partecipare alla conversazione, le sue risposte sono state rapide e professionali. Ero dispiaciuta per lei, ma adesso dovevo preoccuparmi di ben altro. Mentre John e io raggiungiamo il primo tavolo, almeno venti facce si girano verso di me, poi si guardano l'un l'altra perplesse. La domanda rimasta a mezz'aria è palese: "Cosa diavolo ci fa lei qui?" Ma dopo pochi secondi tutti riprendono il lavoro. La parte iniziale della stanza è occupata da una fila di grandi monitor che fronteggiano i tavoli e che mostrano immagini di diversi edifici: le abitazioni dei quattro sospettati e il Woldenberg Art Center alla Tulane University. Mentre guardo gli schermi vedo un'automobile passare vicino al cottage di Frank Smith sull'Esplanade. Sto vedendo dal vivo la sorveglianza in atto in diverse parti della città. Dietro i monitor c'è un enorme schermo a parete con delle righe dattiloscritte che riempiono lo spazio libero poco alla volta. Di fianco a ogni riga ci sono delle annotazioni temporali. È la cronologia dell'intera indagine in corso, che riporta tutto quanto: dalle telefonate dei sospetti all'attività delle varie forze investigative che stanno indagando sulla scomparsa di Thalia Laveau. «Eccoci qui» dico piano. «Dove sono Baxter e Lenz?» «Baxter è proprio qui» afferma una voce alle mie spalle. «Anche Lenz» dice lo psichiatra. «Fratelli siamesi» rispondo io voltandomi verso di loro. Il capo dell'USI ha l'aspetto di una persona che non dorme da trentasei ore. I segni scuri sotto gli occhi sono adesso delle borse nere, e la carnagione ha il pallore di quella di un carcerato. Dà uno sguardo di rimprovero a John, ma non dice niente a proposito della mia presenza. Il dottor Lenz si
è cambiato d'abito e ha un aspetto più riposato di questo pomeriggio; deve essersi fatto accompagnare da un agente al Windsor Court per tè e biscotti e un massaggio nel bel mezzo della notte. «Come ha fatto?» domanda John. «Ti faccio vedere» risponde Baxter. Raggiunge un tecnico vicino ai monitor, gli dice qualcosa, e poi torna da noi. Uno degli schermi diventa buio, poi appare la veduta anteriore della casa vittoriana in cui Thalia abitava. È notte e la pioggia offusca la visuale. Mentre fissiamo la schermo vediamo una donna con un cappello e un ombrello allontanarsi di corsa dalla casa e salire su una Nissan Sentra bianca parcheggiata sulla strada piena di pozzanghere. «È Jo Ann Diggs,» spiega Baxter «una delle donne che affittano una camera sullo stesso piano della Laveau.» La Sentra si allontana velocemente dal marciapiede, ma dopo pochi metri si ferma improvvisamente sbandando, quindi fa retromarcia. Diggs esce dall'automobile, corre verso casa; sembra in tutto e per tutto una persona che ha dimenticato qualcosa. Venti secondi dopo, esce in fretta di casa con un libro in mano, si dirige verso la macchina e se ne va. «È Thalia Laveau» dice Baxter. «La coinquilina l'ha aiutata» aggiunge John. «La Laveau era all'interno, dietro la porta; ha preso il cappello e l'ombrello ed è corsa all'automobile della Diggs, mentre quest'ultima raggiungeva l'appartamento della Laveau e guardava la TV per creare una copertura.» «Come l'avete scoperto?» chiedo. «Questa mattina presto la Laveau ha telefonato a un'amica dal campus e ha fissato un appuntamento per le ventitré. La donna abita in Lake Avenue, sulla linea Orleans-Jefferson Parish. A mezzanotte la Laveau non si era ancora fatta vedere, così l'amica ha telefonato alla polizia di New Orleans, che ci ha contattati.» «Secondo la donna la Laveau andava da lei per un tè e per una chiacchierata tra amiche,» continua Lenz «ma di certo c'era qualcosa di più. Ha evitato la nostra sorveglianza per proteggere l'identità dell'amante.» «Forse non cercava di nascondere la propria sessualità» interviene John. «La Laveau poteva essere coinvolta semplicemente come pittrice. L'interrogatorio di oggi può averla spaventata al punto da renderla audace. Non presentarsi all'appuntamento combinato con quest'altra donna servirebbe a farci credere che è diventata una vittima.»
Baxter inizia a parlare, ma l'esasperazione mi spinge a interromperlo. «Voi avete bisogno della presenza di una donna nel gruppo giorno e notte.» «Perché mai?» domanda Lenz. «Per evitare di sparare cazzate. Torno in albergo. Con questo modo di ragionare non avete nessuna possibilità di trovare la Laveau.» «John,» continua Baxter. «Arthur non stava tirando a indovinare. La Laveau ha aggirato la sorveglianza per proteggere la donna. Le due hanno una relazione di lunga data. Solo la paura che ha per la sorte della Laveau l'ha portata a parlare, a dire la verità. Può fornire un alibi non solo per il rapimento di Dorignac, ma anche per almeno altri cinque.» Scuoto la testa cercando di controllare delle improvvise lacrime di impotenza. «Mi dispiace» dice John. «Non posso fare che pensare allo stesso modo. È un'abitudine cercare di capire la logica.» «Non sei tu» gli dico. Baxter e Lenz non parlano, e io non riesco a capire se tacciono per via delle lacrime, perché si rendono conto del nuovo rapporto che adesso c'è tra John e me. «Devo andare.» Li lascio e mi dirigo verso la porta, ma Baxter mi chiede: «Jordan, cosa faresti per trovare Thalia?». Mi fermo e mi volto, ma non torno da loro. «Partirei dalla cosa più ovvia. Uno degli uomini sospettati ha sbavato dietro Thalia fin dall'inizio. L'interrogatorio lo ha innervosito. Sa che sarà incastrato, è solo questione di tempo. Quindi decide che non ha più niente da perdere togliendosi ogni soddisfazione con lei.» «Tutti e tre sono stati sotto sorveglianza ventiquattro ore al giorno» commenta Lenz. «Thalia non ha avuto alcun problema a evitarla.» Baxter sospira e si rivolge a John. «Sia quando la Laveau è uscita di casa, sia successivamente, Frank Smith era al ristorante. Non può essere stato lui.» «Wheaton e Gaines?» «Gaines era al poligono di tiro in Freret. Tra parentesi, la scientifica dice che il suo furgone è pulito: niente sangue, né capelli, né fibre, niente. Come se fosse stato lavato a vapore uno o due giorni prima.» John annuisce sospettoso, ma la sua mente sta già seguendo qualche al-
tro pensiero. «E Wheaton?» «Wheaton stava dipingendo al Woldenberg Center.» «E l'ipotesi di Jordan sulla luce naturale? Abbiamo delle immagini fotografiche aeree dei cortili e dei giardini interni della città?» «Non è un'idea praticabile» dice Baxter. «La città si estende per almeno cinquecento chilometri quadrati. La casa degli omicidi - o dei dipinti, credo - potrebbe essere ovunque nell'area, magari registrata sotto un nome che non siamo in grado di collegare con nessuno dei sospetti.» «Il pittore non vorrà certo guidare per più di trenta chilometri ogni volta che gli viene voglia di lavorare a un quadro. Fa parte della natura umana. Non vorrà sicuramente spostarsi più dello stretto necessario.» «D'accordo» concede Lenz. «Wheaton e Gaines vivono entro un chilometro e mezzo dall'università. Frank Smith abita al limite del quartiere francese. Facciamo scattare delle fotografie aeree di ogni zona quadrata all'interno di quelle aree, e aggiungiamo anche il Garden District. Poi cerchiamo i cortili interni in cui il pittore potrebbe avere una buona luce naturale.» «Maledizione, sugli alberi ci sono ancora le foglie» commenta Baxter. «Ci potrebbero sfuggire un centinaio di cortili solo nel quartiere francese.» «Allora prendiamo le mappe catastali!» Scatta John. «Dovremmo mettere degli agenti al catasto incaricati di fare delle ricerche sulla proprietà di ogni edificio in quelle due aree. Potremmo trovare dei collegamenti con uno dei sospetti.» Baxter guarda il centro operativo e due dozzine di facce sorprese tornano rapidamente al lavoro. «Credo proprio che non abbiamo altro» dice. «Oltre alle visite notturne di Wheaton a Frank Smith.» «E di quello ce ne occuperemo domani mattina» conclude John. Credo che voglia tornarsene in albergo con me. Potrei perdonargli il ragionamento confuso su Thalia Laveau. Ma Daniel Baxter ha altro in mente. «John, tu puoi coordinare l'unità incaricata della sorveglianza aerea. Se parti adesso puoi riuscire ad avere il tutto in volo non appena fa giorno.» Si tratta ovviamente di un lavoro che potrebbe fare benissimo qualcun altro, ma John non ha nessun problema a capire l'intenzione di Baxter. Annuisce stancamente, poi guarda verso di me come per scusarsi. «A che ora incontriamo Smith e Wheaton?» chiedo. «Si trovi qui alle otto» risponde Baxter. «L'accompagnerà l'agente Tra-
vis.» L'informalità di "Wendy" è sparita. Baxter ovviamente ha in mente i conflitti potenziali che potrebbero nascere dal rapporto tra me e John. «Alle otto.» Sento il bisogno di baciare John sulla guancia, affermando così il mio diritto su di lui, ma lo farei svenire dall'imbarazzo, quindi gli risparmio la situazione. «Se vuole ottenere delle fotografie che valgano la pena,» dico a Baxter «questa notte faccia volare aerei con apparecchi a scansione termica. Gli alberi e le foglie avranno una temperatura diversa rispetto ai mattoni e alle pietre, da non interferire. Al mattino può fare scattare le stesse inquadrature con una pellicola a raggi infrarossi per avere immagini dettagliate. Alle nove e venti la luce del sole dovrebbe essere a trenta gradi sull'orizzonte, ma senza troppe nubi. È il momento migliore.» Mentre i tre mi guardano stupiti io rivolgo loro un: «Buonanotte ragazzi» e vado alla porta dove mi aspetta Wendy. CAPITOLO DICIANNOVESIMO Dopo la pioggia, New Orleans al mattino è satura di vapore. Persino con il morso dell'autunno nell'aria, c'è abbastanza umidità da fare arricciare i colletti inamidati. In quest'umida giornata il dottor Lenz ha deciso che dopo tutto vuole la mia presenza durante il secondo interrogatorio di Wheaton. Non so bene il perché e non ho tempo per chiederglielo. Quando arrivo all'ufficio, scopro che l'edificio è circondato dalle telecamere. A un certo punto, prima della messa in onda del primo notiziario mattutino, lo sceriffo di Jefferson Parish ha comunicato ai giornalisti che il suo ufficio, in stretto contatto con l'FBI, aveva individuato dei probabili sospetti per la serie di rapimenti che da più di un anno affliggevano la città. La scomparsa di Thalia Laveau aveva già provocato una nuova ondata di panico per tutta New Orleans. L'interrogatorio di questa mattina non avrà luogo al Woldenberg Art Center, dove avevamo incontrato Wheaton l'ultima volta. Oggi siamo parcheggiati di fronte all'abitazione temporanea dell'artista in Audubon Place, una strada privata nei pressi del campus universitario. Audubon Place ha un massiccio cancello di ferro, completo di guardiola di pietra, tipica delle casematte della seconda guerra mondiale, e le imponenti abitazioni che la fiancheggiano sono ancora più cospicue di quelle in Saint Charles Avenue,
la strada che la interseca. La casa occupata da Roger Wheaton appartiene a un facoltoso ex allievo dell'università, che vive all'estero da un paio di anni. John, Lenz e io ci avviciniamo insieme all'ingresso. Prima di raggiungerlo, vediamo Roger Wheaton uscire sul portico; indossa i calzoni del pigiama, una felpa dell'università, gli occhiali bifocali dalla montatura metallica e il suo segno distintivo: i guanti bianchi di cotone. «Vi ho visti dalla finestra» dice mentre saliamo i gradini che portano alla veranda anteriore. «Ho visto un servizio in televisione circa un'ora fa. Thalia è scomparsa davvero?» «Temo di sì» risponde John. «Possiamo entrare?» «Certo.» Wheaton ci fa strada attraverso l'atrio conducendoci in uno splendido soggiorno. Allampanato, in pigiama e con i capelli troppo lunghi, sembra fuori luogo nella lussuosa poltrona in cui si raggomitola. Solo i guanti bianchi sono adatti alla stanza, dandogli l'apparenza di un festaiolo appena sveglio, sobrio quanto basta per essersi tolto lo smoking dopo il ballo di carnevale, ma troppo ubriaco per essersi ricordato di rimuovere anche i guanti. Io e John ci sediamo vicini sul sofà di fronte all'artista, Lenz si accomoda su una sedia alla nostra sinistra. «Di nuovo buongiorno» dice Wheaton mentre mi siedo; il suo viso esprime un dolore silenzioso. «Farà altre fotografie oggi?» «Mi piacerebbe. Lei è un ottimo soggetto.» «Ci stavamo occupando di un altro caso» spiega Lenz. «L'agente Travis era con noi e non volevamo lasciarla ad aspettare in automobile.» Agente Travis? Cosa ci faccio qui? Lenz sta di nuovo mettendo alla prova le reazioni di Wheaton nei miei confronti? «Signori,» dice l'artista «credete che Thalia sia stata rapita dalle stesse persone che hanno preso le altre?» «Sì» risponde John. Wheaton sospira e chiude gli occhi. «Ieri ero molto arrabbiato per l'invasione della mia privacy. La polizia mi ha causato degli inconvenienti notevoli. Adesso tutto sembra irrilevante. Cosa volete da me?» John guarda Lenz, che decide di condurre l'interrogatorio. «Signor Wheaton, ci è stato detto che lei ha fatto numerose visite alla residenza privata di uno dei suoi studenti, Frank Smith.» Il volto di Wheaton si irrigidisce. Ovviamente questa era l'ultima cosa che si aspettava di sentire.
«È stato Frank a dirvelo?» Lenz non risponde direttamente. «Ci è stato anche detto che in quelle occasioni avete litigato violentemente. Vorremmo sapere il motivo delle visite e delle discussioni.» Wheaton scuote la testa e distoglie lo sguardo; pare che il desiderio di collaborare sia svanito, o per lo meno sia stato attenuato dall'indignazione. «Non posso aiutarvi in proposito.» John e Lenz si guardano l'un l'altro. «Posso solo dirvi che quelle visite non hanno niente a che fare con i crimini di cui vi state occupando. Dovete fidarvi di me.» «Mi dispiace, ma date le circostanze,» continua Lenz «la sua parola di gentiluomo non è sufficiente.» Wheaton guarda Lenz con tale durezza da ricordare i suoi precedenti di combattente. «Comprendo la premura» risponde calmo. «Ma non posso rispondere alla domanda.» John mi guarda come se cercasse aiuto, ma io non vedo alcun modo per strappare delle rivelazioni all'artista. «Signor Wheaton,» riprende Lenz «personalmente sono dispiaciuto di dovere importunare un uomo della sua levatura con delle domande così invadenti. Ma la situazione è molto seria. Posso inoltre assicurarle che tutte le sue risposte saranno trattate con la massima riservatezza.» Questa è una menzogna. Wheaton non risponde. «Sono uno psichiatra» prosegue Lenz. «E non penso che lei nasconda qualcosa di vergognoso.» L'artista mi guarda dritto negli occhi e chiede: «Qual è il vero motivo della sua presenza?». «Signor Wheaton, sono una fotografa, ma non lavoro per l'FBI e non mi chiamo Travis. Mia sorella è una delle donne rapite. È scomparsa l'anno scorso, e io da allora non ho smesso di cercarla.» Le labbra di Wheaton si aprono per lo stupore. «Mi dispiace davvero. Lei chi è?» «Jordan Glass.» «Jordan Glass. Bene, signora Glass, mi permetta di dirle, prima che chieda a questi uomini di andarsene, che se avessi delle informazioni in grado di aiutare quelle donne, io non esiterei a dargliele. Spero che lei mi creda.» Gli credo e glielo dico. John mi guarda storto. «Signor Wheaton,» dice «il desiderio di protegge-
re la sua privacy mi pare legittimo. Ma lei potrebbe conoscere delle informazioni di cui ignora l'importanza.» Wheaton guarda il soffitto e lascia cadere le mani guantate ai lati della poltrona. «Lei sta dicendo che, senza saperlo, potrei avere delle informazioni che proverebbero che Frank Smith è responsabile di queste sparizioni?» «È possibile.» «No. Frank non potrebbe avere niente a che fare con questi crimini.» Adesso Wheaton è paonazzo e fissa John con i suoi occhi scuri e profondi. «Tuttavia, dato che la signora Glass mi ha fatto chiaramente capire quanto sia in gioco in questo caso, vi dirò qualcosa che mi ha turbato sin dal nostro primo incontro. In precedenza ho esitato perché Leon è un obiettivo così prevedibile. Spesso è una persona spiacevole, ma credo che abbia avuto un'infanzia dura e a volte i risultati sono questi.» Lenz si sta praticamente leccando le labbra. «Nelle rare occasioni in cui ho radunato insieme i miei studenti di dottorato,» spiega Wheaton «sia all'università sia qui, in questa casa, ho notato che Leon faceva commenti non appropriati verso Thalia, e la toccava senza aver ricevuto alcun permesso.» «Che tipo di commenti?» domanda Kaiser. «Di natura apertamente sessuale. Cose come: "Mamy, sembri una che sa come trattare una salsiccia cajun". Sembra ridicolo, non è vero? Ma è il genere di cose che dice Gaines. L'ho sentito dire cose simili a studentesse più giovani. Ma con Thalia c'era dell'altro. Una volta l'ho visto che la aspettava alla macchina di lei. È successo diverse settimane fa, verso il tramonto.» «Cosa successe?» «Lei lo affrontò con la stessa fermezza di sempre. Thalia è una bellissima ragazza e sembrava abituata ad avere a che fare con quel genere di commenti.» «Andò a casa da sola in quell'occasione?» «Sì. Credo che Leon continuasse perché sapeva che lei posava nuda per un corso di pittura e lui lo aveva inteso come una specie di pubblicità a scopo sessuale.» «Ricorda qualche altra cosa tra i due?» chiede John. «Qualcosa di strano o di insolito?» Wheaton sembra riluttante a proseguire. «In un paio di occasioni, mentre lasciavo il centro ho visto Leon seguire Thalia attraverso il prato centrale
del campus.», «Da vicino o da lontano?» «Da una distanza sufficiente per passare inosservato. Come se avesse intenzione di seguirla a lungo. Ma la mia potrebbe essere stata un'impressione sbagliata. Forse erano entrambi diretti verso il centro universitario.» «Ma quella non fu la sua impressione.» «No.» «Ha fatto bene a parlarcene» dice John. «Lo spero. Io credo fermamente nel diritto alla privacy, come ho già detto.» Wheaton si sporge lentamente in avanti. Poi, si alza. «Adesso signori, se non avete altro da aggiungere, sono costretto a chiedervi di andare. Devo tornare al lavoro.» L'artista piega le braccia, e i guanti bianchi spariscono sotto i bicipiti. «Ancora una volta, mi dispiace intromettermi in questioni personali,» afferma Lenz «ma ci sono degli elementi poco chiari nella sua vita.» Wheaton aggrotta le sopracciglia costernato. «Nelle interviste si dice ben poco delle sue origini, ma sappiamo per esempio che è cresciuto in una zona agricola del Vermont, in Windham County. Suo padre faceva l'agricoltore?» Wheaton sospira irritato. «E il cacciatore di animali da pelliccia.» «Che cosa cacciava?» «Castori, volpi. Allevava visoni, senza successo.» «Anche il padre di Thalia era un cacciatore di animali da pelliccia, se non sbaglio.» «Sì. Sono cose di cui abbiamo parlato.» «Può raccontarci qualcosa?» «Non oggi.» «Sappiamo che sua madre se ne andò quando lei aveva tredici o quattordici anni.» Wheaton sembra pronto a scaraventare Lenz fuori di casa. «Sono consapevole di toccare un argomento doloroso» continua lo psichiatra. «Ma noi dobbiamo sapere. Perché se ne andò senza portare i figli con sé?» Wheaton deglutisce e fissa il pavimento. «Non so. Mio padre era convinto che avesse incontrato un altro uomo e fosse scappata con lui. Io non l'ho mai pensato. È senz'altro possibile che si fosse innamorata di un altro, a essere franchi, mio padre era un uomo spiacevole, troppo grezzo per mamma, ma lei non mi - non ci - avrebbe mai abbandonati.» Sento un groppo alla gola; Roger Wheaton, incalzato pesantemente a
Lenz, sta dando voce alle paure più recondite. «Penso che si mise in una situazione pericolosa,» continua «che le successe qualcosa di brutto. E che mio padre non ce ne parlò. Se stava nascondendo la sua identità per stare con un altro - a New York, per esempio - posso capire cosa deve essere successo.» «Suo padre era "spiacevole" al punto da abusare di sua madre?» chiede Lenz. «Secondo gli standard attuali? Certamente. Ma si era negli anni Cinquanta, in un luogo sperduto.» «Ha anche abusato di lei e dei suoi fratelli?» Wheaton stringe le spalle. «Di nuovo, secondo gli standard attuali, sì. Ci colpiva con la cinghia di cuoio per affilare il rasoio, con bacchette di legno di betulla, con qualsiasi cosa a portata di mano.» «E abusi sessuali?» Il profondo sospiro dell'artista esprime il più assoluto disprezzo per lo psichiatra. «Niente del genere.» Wheaton si asciuga la fronte con la mano inguantata. «Adesso devo chiedervi davvero di andare.» Lenz spara l'ultimo colpo mentre si alza dalla sedia. «Signor Wheaton ci può dire semplicemente se lei è o no omosessuale? Ci risparmierebbe così di dover frugare ancora nella sua vita privata e in quella dei suoi amici.» Wheaton sembra piegarsi sotto il peso della domanda. «Temo purtroppo che la risposta sia puramente accademica. Da oltre due anni sono impotente a causa della malattia.» Guarda Lenz. «Adesso ha avuto il suo trofeo?» Poi guarda me, e l'orgoglio ferito che leggo nel suo sguardo mi fa abbassare gli occhi. «Grazie per il tempo che ci ha dedicato» dico, prima che Lenz possa infierire oltre. Indietreggio verso l'ingresso. «Apprezzo molto la sua onestà su Gaines. Potrebbe essere di grande aiuto nel ritrovare Thalia e mia sorella.» Wheaton si avvicina, mi prende la mano. «Lo spero. C'è davvero qualche speranza che siano ancora vive?» «Non molta, ma ce n'è.» Lui annuisce, «Forse un giorno troverò il modo di spiegare perché non ho potuto rispondere all'altra domanda. Così saprà che ho detto tutto ciò che potevo dire. Io ci tengo molto a Thalia. È un'anima ferita. Mi chiami se ha bisogno di parlarmi, o se desidera scattare altre fotografie. Mi piacerebbe farle il ritratto. Potremmo fare uno scambio.»
«Credevo che lei dipingesse solo paesaggi.» «Una volta ero un buon ritrattista.» Ride. «Riuscivo a sopravvivere mangiando minestra di piselli e tagliatelle giapponesi.» «Come sta venendo il quadro? L'ultima Radura? Quando l'ho visto sembrava quasi finito.» «Ci sono quasi. Ancora un giorno, forse due. Il rettore ha dovuto chiudere la galleria. Si è saputo in giro che ho quasi finito e arriva gente di tutti i tipi a sbirciare: giornalisti, studenti, collezionisti. Presto attaccherò il pannello finale, e chiuderò il cerchio; quindi per entrare bisognerà salire sull'impalcatura e scendere la scala. Sarà un vero sollievo quando avrò finito.» «Mi piacerebbe che lei mi facesse il ritratto. Sono curiosa di sapere come mi vede.» «Frank farebbe un lavoro più professionale, ma io saprei forse vederla con maggiore onestà.» John e Lenz osservano Wheaton come se ogni sua parola e ogni suo gesto fossero frammenti di qualche codice. «Bene, grazie.» E gli stringo la mano con gentilezza. «Grazie a lei, mia cara.» Wheaton si scosta dalla porta permettendo a John e a Lenz di raggiungere l'ingresso. «Addio, signori.» Il dottor Lenz cerca di stringergli la mano, ma lui fa un passo indietro e gli riserva un sorriso freddo. Poi ci ritroviamo fuori a camminare in direzione dell'auto dell'FBI parcheggiata sulla via. «Ci ha appena detto di andare al diavolo» commenta John. «Con molto garbo» aggiunge Lenz. «Ma di sicuro ha puntato l'indice contro Gaines.» «Mi chiedo il motivo, visto che ieri non ci aveva detto niente.» «Ve lo ha detto lui» dico io irritata. «Non vuole parlare dei fatti personali di nessuno. Persino di uno stronzo come Gaines. Sa che l'FBI potrebbe trasformare la vita di Gaines in un inferno a causa delle sue parole.» «Sì, lo sa» risponde pensoso Lenz. «Cosa pensi di ciò che ha detto di sua madre?» chiede John. Lenz assume un tono professionale. «Lui non sa perché se ne sia andata, ma non riesce a dimenticare perché lei ha preferito un uomo ai suoi figli. Per quanto riguarda l'abuso di minori... non so. La negazione è il tipico comportamento adattativo. Senza avere passato altro tempo con lui... ci devo riflettere.» John apre la portiera anteriore dell'automobile, la tiene aperta per farmi
entrare e mi guarda negli occhi. «Spero che tu abbia maggior fortuna con Frank Smith.» «Sono artefice della mia fortuna.» Sorride. «Ti credo. Hanno messo sotto controllo tutti i telefoni di Smith, sia quello fisso sia il cellulare. Questa volta Wheaton non lo ha avvertito. Pensi ancora di andare da sola?» «Senz'altro.» «Allora andiamo al quartiere francese.» Il cerotto che tiene il trasmettitore attaccato all'incavo della mia schiena sfrega mentre salgo gli scalini che portano all'ingresso del cottage creolo sulla Esplanade e busso alla porta di Frank Smith. Dal trasmettitore parte un sottile filo che mi gira intorno al torace e arriva al microfono attaccato tra le coppe del reggiseno. Questa volta alla porta non arriva Juan, ma lo stesso proprietario. Frank Smith mi accoglie con un largo sorriso, che rivela la dentatura bianca e splendente. «È una visita di piacere o di affari?» «Vorrei poter dire che si tratta del primo caso, ma purtroppo non è così.» Smith alza le sopracciglia perfettamente curate. «Beh, allora credo di non essere a casa.» La sua avvenenza da divo del cinema inizia a irritarmi. «Ha visto la TV questa mattina?» «No.» «Ha letto il "Times-Picayune"?» «Ho fatto un lungo bagno e ho preso il caffè in giardino. Ecco in breve la mia mattinata. Perché?» «Posso entrare?» I suoi occhi chiari si fanno più stretti. «Non mi dica che lui ne ha presa un'altra?» «Thalia Laveau.» Smith è confuso. «Thalia?» «L'ha presa. La notte scorsa.» Per la prima volta vedo Frank Smith perdere il proprio autocontrollo. «Posso entrare?» Lui si toglie dal passaggio e io entro. Anziché aspettare che mi conduca nel salone, attraverso la casa e mi dirigo in giardino. La fontana, che ieri riempiva del proprio suono il giardino, è chiusa, e un merlo si trova appol-
laiato sul livello più elevato. Sotto il glicine nodoso c'è un tavolino presso il quale mi vado a sedere. Smith si accomoda di fronte a me; con i suoi bei calzoni e la polo blu assomiglia più a un attore che a un artista, ma non si può fare a meno di notare lo sguardo pronto e intelligente. «Com'è potuto accadere, visto che Thalia era sotto sorveglianza?» mi domanda. «Cosa le fa credere che lo fosse?» «Beh, io lo sono. Dove sono i suoi amici dell'FBI oggi?» «Al lavoro.» «Ma l'hanno mandata qui. A farmi delle domande. Perché ieri le ho risposto.» «Ho chiesto io di venire da sola.» Lui medita sulla risposta. «Quindi sono ancora uno dei sospettati. Cosa vuole sapere?» Gli spiego rapidamente che l'FBI è a conoscenza del fatto che Roger Wheaton ha trascorso molte serate come suo ospite, e anche che loro due litigarono in una o più occasioni. «Mi sono chiesto come mai Juan non si è fatto vivo questa mattina» risponde Smith. «Immagino che lo abbiano minacciato di espulsione.» «Frank, non so cosa abbiano fatto. Mi dispiace. E mi dispiace anche dovere ficcare il naso nelle sue faccende personali. Ma si tratta di vita o di morte. Thalia potrebbe essere ancora viva, e noi dobbiamo cercare di aiutarla.» «Lo crede davvero?» «Che sia ancora viva? Sì.» «Ne sono felice. Ma ciò che mi sta chiedendo non ha niente a che vedere con il caso.» «È quello che ha detto Wheaton.» Smith mostra i palmi delle mani come a dire: "Prossima domanda". «Senta, a me pare che ci possano essere solo un paio di motivi per rifiutarsi di fornire quest'informazione; primo: Wheaton è gay e voi due avete una relazione.» «E il secondo?» «Non mi viene in mente. Droga, forse. Ma credo che sia vero il primo motivo.» Smith sorride furbescamente. «E se così fosse, ammetterlo sarebbe il modo più rapido per togliersi di torno l'FBI. A loro non interessa l'inclinazione sessuale mia, sua o di Whe-
aton. Ciò che li preoccupa è ben altro.» «Per esempio?» «Il suo coinvolgimento nel complotto per produrre le "Donne Addormentate".» «Ridicolo.» «Lo credo anch'io. Ma io non dirigo l'FBI. Avanti Frank. Qual è il problema? Roger Wheaton è gay?» «Glielo ha chiesto?» «Ha evitato di rispondere direttamente.» «Certo, non le pare?» «Perché?» «Roger è cresciuto in una zona agricola del Vermont. Ha cinquantotto anni, Cristo santo. Appartiene a un'altra generazione.» «Lei sta dicendo che è gay?» «Certo.» Certo... Smith passa un'unghia curata sulla decorazione della superficie del tavolo. «Semplicemente non è a suo agio di fronte al tipo di interesse che suscita una persona famosa e gay.» «Voi due siete amanti?» Smith scuote la testa con fare dispiaciuto. «No.» «Allora come fa a sapere che lui è gay? Gliel'ha detto lui?» «Roger scappò a New York quando aveva diciassette o diciotto anni. Come crede che si sia guadagnato da vivere? Di sicuro non con la vendita dei suoi quadri.» «Mi sta dicendo che vendeva se stesso?» «Lo facciamo tutti, in un modo o nell'altro. C'era un ragazzino di talento e di bell'aspetto che girava le gallerie d'arte vendendo i suoi quadri che imitavano i maestri. Venne notato, ma non per i suoi quadri. In breve tempo le vecchie checche facevano a gara per dargli un posto dove vivere e lavorare. Si occuparono di lui finché non entrò nel corpo dei marines.» «Lei sembra conoscerlo più di chiunque altro.» «Roger mi confidò queste cose perché sapeva che avrei capito. E io le sto raccontando a lei affinché faccia tutto il possibile per togliergli l'FBI di torno. Ha già una vita abbastanza dura anche senza di loro.» «Sono d'accordo. E lo farò senz'altro. Ma alcune cose non mi sono del tutto chiare. Se si trattava di visite fatte per amicizia, per cosa litigavate?» Smith scuote di nuovo la testa. «Non posso rispondere. L'FBI non deve
saperlo.» «Cristo santo, Frank! Non darò loro i particolari. Dirò semplicemente che discussioni e visite non hanno alcuna importanza.» «Non posso.» Carica di frustrazione, ma anche consapevole della riluttanza di Smith a violare la privacy di Wheaton, mi sporgo in avanti, sfilo la camicia dai jeans e stacco dalla schiena il cerotto. Mentre il trasmettitore urta la mia sedia di ferro penso a Daniel Baxter in preda al panico nel furgone di sorveglianza parcheggiato all'esterno. Spero che abbia il buon senso di non fare irruzione con la pistola spianata. «Chiudo la comunicazione» dico ad alta voce. «Non venite.» Smith spalanca la bocca per lo stupore, mentre io sfilo il microfono microscopico dal reggiseno, stacco il filo, poso il trasmettitore sul tavolo e lo spengo. «Frank, non siamo più in onda. Siamo solo noi due.» Sembra sul punto di buttarmi fuori di casa. «Ascolta» gli dico con la consapevolezza del mio dolore. «Mia sorella ha due figli piccoli. Qualcuno l'ha rapita per strada, e probabilmente adesso sta marcendo in una palude da qualche parte. Ci sono altre undici donne nella sua stessa situazione, una di queste è una tua amica. A Thalia non resta molto tempo. È un'invasione della privacy il fatto che l'FBI sappia che Roger Wheaton è gay? Sì. È una tragedia? No. Se le tue discussioni con Wheaton non hanno niente a che fare con il caso, tutta l'energia che l'FBI dedica in questa direzione è tempo sprecato. Vuoi che sia Thalia a pagare con la vita per il tempo sprecato?» «Credo che tu stia esagerando il mio ruolo.» «Stronzate! L'FBI non ha molto su cui lavorare, quindi non lasceranno perdere questa traccia finché non capiscono cosa è successo. Dimmi di cosa si trattava, e se la cosa è innocente, dirò loro di lasciarti in pace.» Smith chiude gli occhi, inspira profondamente, espira lentamente e riapre gli occhi. «Ho la tua parola che non dirai niente all'FBI se la cosa non è rilevante per il caso?» «Cristo santo! Vuoi che giuri? Non dirò niente che non serva per aiutare mia sorella. Quelli dell'FBI non piacciono neanche a me. Ma sono l'ultima speranza per quelle donne e per le loro famiglie.» Smith guarda il vecchio quartiere degli schiavi che costituisce una delle pareti del suo giardino. Nell'aria si sente il debole profumo dei limoni. «È semplice» mi dice. «Roger vuole che io lo uccida.»
Mi sale in viso una vampata di calore. «Cosa?» «La malattia si sta aggravando. Adesso ha raggiunto i polmoni e altri organi vitali. La fine sarà... terribile. Lui vuole che lo aiuti quando sarà il momento.» Vorrei sparire, tanta è la vergogna. Improvvisamente tutto diventa chiaro, soprattutto la reticenza di Wheaton. Se la polizia di New Orleans dovesse scoprire il desiderio di Wheaton, Frank Smith potrebbe decidere di non rischiare la sua libertà per esaudire il volere dell'artista, indipendentemente da quello che in cuor suo si sentirebbe di fare. «Hai capito adesso?» chiede Smith. «In parte. Ma perché i litigi? Ti sei rifiutato di aiutarlo?» «Proprio così. Credevo che Roger soffrisse di depressione. Credevo che avesse ancora molto da dipingere. E lo credo ancora.» Smith mi guarda esausto, come se nascondere la verità non valesse più lo sforzo. «Ma sinceramente lui mi sta esaurendo. Mi ha fatto vedere le sue cartelle cliniche, per non parlare del suo corpo, e io inizio a capire tutta la gravità del suo caso. In questo stato la pena per il suicidio assistito è di dieci anni, e non è una scelta che posso fare alla leggera.» «Capisco.» Smith sembra scettico. «Davvero?» Un'immagine tremenda attraversa la mia memoria. «Una volta vidi un guerrigliero afgano chiedere al fratello di ucciderlo per evitargli la cattura. Era stato ferito durante una incursione contro un avamposto russo. C'era la confusione più totale: gente che correva nel buio, soldati russi che urlavano, afgani che imprecavano e questo poveraccio, mezzo morto di fame, ferito al ventre. Non poteva più camminare, e non poteva essere trasportato attraverso le montagne. Implorava il fratello di togliergli la vita, ma il fratello non ce la faceva. Gli altri si erano raccolti intorno al sentiero e discutevano; i russi si stavano avvicinando; alla fine un cugino tornò indietro e lo sgozzò mentre gli altri pregavano. Mentre ci rifugiavamo su per le montagne sentivo il cugino singhiozzare.» «Che storia incoraggiante.» «Mi dispiace. Io volevo solo... So che è una cosa difficile. Cosa voleva che facessi? Aveva in mente un metodo?» «Non vedo come saperlo possa esserti di aiuto.» «Non so. Credo di essere curiosa.» «Insulina.» «Insulina?»
«Lui dice che è un modo piacevole per andarsene. Ha fatto delle ricerche. Sonno, coma e poi la morte. Il problema è che a volte non si muore. Si danneggia semplicemente il cervello.» «È per questo che ha bisogno del tuo aiuto?» «Sì. Voleva che io trovassi una medicina che facesse fermare il suo cuore una volta intervenuto il coma. Questo è stato dopo che gli avevo detto che non gli avrei messo un sacchetto di plastica sulla testa e non sarei rimasto a guardare mentre diventava blu per l'asfissia.» «Dio santo. Va bene. Dirò all'FBI che stanno seguendo la pista sbagliata.» «Grazie.» Smith si sforza di sorridere. «Posso offrirti qualcosa da bere?» «Berrei volentieri qualcosa, ma devo andare.» Mi alzo, raccolgo il trasmettitore, il microfono e il cerotto. «Senti, lo sceriffo di Jefferson Parish ha rivelato ai mezzi d'informazione che abbiamo dei sospetti. Non ha fatto nomi ma è meglio se stai sul chi vive. Vai in albergo o da qualche altra parte.» Smith scuote la testa esasperato. «Farò così. Ma prima telefono al mio avvocato e gli dico di citare per danni il governo, e di fargli sputare sangue.» Si alza, mi prende per il braccio e mi fa attraversare la casa. Mentre passiamo vicino al soggiorno, dò un'occhiata al nudo di Oscar Wilde. «Quel quadro mi piace davvero.» «Grazie.» Smith sta per afferrare la maniglia, ma io lo fermo con un braccio. «Frank, dimmi una cosa. I pennelli hanno portato l'FBI a isolare quattro sospetti: tu, Roger, Thalia e Gaines. Thalia è esclusa. Se tu dovessi dare la colpa a Wheaton o a Gaines, chi sceglieresti?» «Stai scherzando? Leon era tenuto sotto sorveglianza quando Thalia è stata rapita?» «Sì.» «Uhm. Anche Roger, no?» «Sì.» Un ultimo disperato pensiero fa capolino nella mia mente. «Wheaton ti ha mai detto di essere stato vittima di abusi da bambino?» Smith sbuffa arrabbiato. «Ho una buona ragione per farti questa domanda, lo giuro.» «Non mi ha mai detto niente del genere. E se adesso vuoi sapere se anch'io ho subito la stessa cosa, la mia risposta è di andare a farti fottere. Va bene?» Spalanca la porta senza affacciarsi. «E torna presto a trovarmi.»
Esco nella pallida luce del sole, tra le foglie dorate dell'Esplanade, e la porta si chiude alle mie spalle. È da parecchio che non mi sento così giù. Ficcanasare nella vita degli altri non è mai stata roba per me. Tutto il fotogiornalismo è essenzialmente sfruttamento, ma nella fotografia l'atto invasivo è mitigato dalla meravigliosa velocità della luce. Nessuna domanda difficile, nessun silenzio imbarazzato; solo una successione di clic. Mi volto verso il Mississippi e incomincio a camminare, sapendo che l'auto con Baxter, Lenz e John mi raggiungerà tra poco. Loro saranno incavolati perché ho interrotto la trasmissione, ma fa lo stesso; io sono incavolata perché ho fatto da pedina nella loro indagine senza sbocco. Forse mi sentirei meglio se gli interrogatori di stamattina avessero portato a una pista, ma non è così. Il suono tranquillo del motore annuncia la mia scorta. La berlina accosta al marciapiede alla mia sinistra, e quando non mi fermo, segue il mio passo. Baxter tira giù il finestrino e vedo che alla guida c'è l'agente Wendy; la sua presenza mi fa pensare che John, che è seduto dietro, presto sarà spedito da qualche parte per tutto il giorno, e che io sto per essere affidata ancora una volta alla protezione dell'agente Travis. «Perché ha interrotto la comunicazione?» mi domanda Baxter. «Lo sa» rispondo guardando dritto davanti a me. «Che cosa le ha detto?» «Mi ha convinta che le visite di Wheaton non hanno niente a che fare con il caso.» Baxter insiste. «Crede di essere il miglior giudice della cosa?» «Buono come chiunque altro di voi.» Si gira verso il sedile posteriore, e sono sicura che sta chiedendo a John di usare la sua influenza su di me per farmi parlare. Baxter forse non è contento del mio rapporto con il suo vecchio collega, ma di certo non disdegna di sfruttarlo. Spero che John si renda conto che non è nemmeno il caso di provarci. L'automobile si ferma, la porta posteriore si apre e John scende. Cammina verso di me con sguardo preoccupato. «Cosa vuoi che faccia?» mi chiede piano. «Ogni tuo desiderio è un ordine.» «Voglio camminare.» «Da sola?» «Sì.» «Credi che Wheaton e Smith siano innocenti, non è così?»
«Sì.» «Va bene. Torno in ufficio a studiare le fotografie aeree dei cortili. Chiamami se ti va di parlare. Wendy ha un cellulare.» Dopo tutto non sarò da sola. John mi stringe il braccio, poi si dirige verso Wendy, che indossa il solito tailleur di Liz Claiborne, con la giacca per nascondere la pistola. Freno il desiderio di fare qualche battuta; lei sta solo cercando di fare il proprio lavoro al meglio. Mi segue a un paio di metri di distanza, e la berlina si allontana dal marciapiede e ci supera. Vedo che John si volta indietro verso di me. Il suo sguardo è imperscrutabile. CAPITOLO VENTESIMO Mentre cammino lungo il marciapiede dell'Esplanade, fiancheggiato da querce ombrose, con l'agente Wendy alle calcagna, la mia mente viene assalita da immagini che vorrei dimenticare, e la nausea che mi ha preso sin dal momento in cui il dottor Lenz ha costretto Wheaton ad ammettere di essere diventato impotente a causa della sua malattia non mi ha ancora abbandonato. Scoprire poi da Frank Smith la richiesta di eutanasia fattagli dall'artista non ha certo migliorato le cose. Mi concentro sul rumore ritmico dei miei passi sul selciato, che mi distrae da questi pensieri. Dall'Esplanade svolto in Royal Street, che più avanti è il centro della zona degli antiquari del quartiere francese, ma che qui, sul lungofiume, è una quieta via con edifici residenziali e depositi con le imposte chiuse. Quando mi trasferii qui a diciassette anni, trascorsi molto tempo passeggiando in questa zona, imparando a conoscere un mondo più spiacevole ma anche più esotico di quello provinciale che mi ero lasciata alle spalle nel Mississippi settentrionale. A venti anni di distanza la vista, gli odori e i suoni sono gli stessi: balconi dalle ringhiere di ferro battuto cariche di felci e di bandiere si affacciano sugli edifici color pastello; da St. Philip Street arriva il profumo del pane che è appena sfornato e del gumbo che cuoce lentamente; le grida in patois cittadino si mescolano con il francese parlato dai turisti fermi all'angolo di Ursulines. Tre isolati alla mia sinistra, oltre Decatur Street e l'argine, scorre il Mississippi, dove passano navi più alte delle case. Mi sento attirata dal fiume, ma dato che la banchina impedisce l'accesso all'acqua, resto in Royal Street, camminando con il passo di un nativo. Arrivata a St. Philip giro a
sinistra, diretta al fiume. I tacchi bassi di Wendy risuonano con distacco mentre lei cerca di mantenere il mio passo. Dalla porta del Babylon Club si sente la nota di una chitarra; più avanzo, più il quartiere diventa commerciale: ristoranti, pub, uffici legali, piccoli alberghi. Eppure la vecchia porta conduce ancora a un tunnel che si apre su un cortile isolato, invitante per la promessa di appuntamenti a mezzanotte e serate in maschera. D'improvviso rabbrividisco, pensando che le "Donne Addormentate" possono essere state dipinte in uno di questi cortili. È strano sapere che la notte scorsa, mentre la gente quaggiù beveva, rideva, si amava e dormiva, gli aerei del governo attraversavano il cielo sovrastante, scattando fotografie a raggi infrarossi degli edifici, alla ricerca di un giardino abbastanza appartato dove potere dipingere una donna morta senza essere interrotti. In Place de France mi accoglie Giovanna d'Arco in mezzo al traffico. Siede alta sul cavallo dorato, reggendo una bandiera dello stesso colore contro il cielo carico di nuvole. Qui Wendy si mette al mio fianco, perché ora siamo circondate da una folla oceanica: ondate di turisti e di vetture, oltre ai venditori del mercato francese che offrono verdura, caffè e strani souvenir. Adesso riesco a sentire l'odore di melma e di putrido del fiume nell'aria fresca. Passando tra due grosse colonne color panna, salgo degli scalini di pietra e mi ritrovo a guardare uno stretto parcheggio sull'argine e gli alberi di un mercantile, la cui linea di galleggiamento rossa ondeggia all'altezza dei miei occhi. «Dove stiamo andando?» mi chiede Wendy. «Al fiume. C'è una zona pedonale sull'argine, oltre i binari del tram.» «Lo conosco, è il Moonwalk.» Rimane alle mie spalle mentre io cammino spedita verso la fermata del tram di Dumaine, attraverso i binari e mi arrampico verso la zona pedonale sull'argine. In questo punto il fiume è largo e l'acqua alta per la stagione, una massa grigio-bruna che separa New Orleans da Algiers. Camminiamo verso Jackson Square, e vedo in lontananza gli alberghi e i negozi di Canal Place, il vecchio edificio del Trade Mart, l'Acquario delle Americhe e i due ponti gemelli che si estendono verso la riva occidentale. Il passaggio pedonale non è deserto, ci sono turisti con macchine fotografiche, gente che fa jogging con le cuffie alle orecchie, suonatori ambulanti con le fodere delle chitarre piene di spiccioli e vagabondi inquieti che cercano di attirare l'attenzione dei passanti. Ogni volta che ci avviciniamo a uno di loro e lo superiamo, sento Wendy diventare tesa al mio fianco e poi rilassarsi lentamente.
Sotto di noi, a destra, ci sono i binari del tram e il parcheggio che si estende per tutta la lunghezza del quartiere francese; a sinistra l'argine scende per sei metri verso l'acqua, un muro di terra coperto di pietre grigie messe alla rinfusa. Pezzi di legno portati dalla corrente si raccolgono tra le pietre a livello dell'acqua, e ogni quaranta metri circa c'è un pescatore che spera di prendere qualcosa all'amo. «Wendy, ti ricordi del grande scandalo in cui erano coinvolti degli agenti del laboratorio analisi dell'FBI. Si scoprì che testimoniavano in base a prove false. Che contraffacevano i risultati per dare al pubblico ministero ciò di cui aveva bisogno.» «Sì» risponde. «Non dimostrarono che molte analisi fatte dal laboratorio ad alta tecnologia dell'FBI non erano affatto accurate come si voleva far credere?» «In qualche caso. Ma Louis Freeh ha fatto tutto il possibile per rimediare alla situazione. Stai pensando ai peli del pennello di zibellino?» «Mi chiedo se le quattro persone che stiamo tormentando abbiano qualche collegamento con il caso.» «Jordan, in quest'occasione il laboratorio non stava cercando delle conferme nei risultati; hanno semplicemente trovato molti peli di un tipo raro di pennello, e New Orleans è uno dei pochi posti in cui è andata a finire quella partita di pennelli.» La sua risposta non fa una grinza e mi rassicura un poco. Io parlo con il fiato in gola per lo sforzo fisico, Wendy invece parla come se ci trovassimo sedute a fare colazione. «Non ho mai lavorato a un caso di omicidio, ma ho completa fiducia in John e nel signor Baxter.» Annuisco, ma la mia fede non è certo assoluta. Mentre passiamo, in basso, vicino al bordo dell'acqua, un grosso uomo barbuto che porta il cappotto guarda in alto verso il fianco dell'argine. È sufficientemente lontano da non fare irrigidire Wendy, ma ho la sensazione che lei potrebbe estrarre la pistola in meno di un secondo. «Che tipo era Thalia Laveau?» mi chiede. «Davvero simpatica. Ha avuto un'infanzia difficile. Il padre e il cugino la violentavano.» «Che orrore.» «Già.» «Era lesbica?» «Spero che lo sia ancora.»
«Oddio! Sì.» Wendy arrossisce. «Non era quello che volevo dire.» «Non importa.» Continuiamo a camminare. Lei sembra tutta presa dai suoi pensieri, poi d'improvviso dice: «Non vorrei offenderti, ma durante l'interrogatorio della Laveau ti ho sentito dire che sei stata violentata. È vero?». Sto per perdere la pazienza, ben sapendo che la storia sta probabilmente facendo il giro dell'ufficio, ma è difficile arrabbiarsi con Wendy. «Sì.» «Ti ammiro davvero per avere avuto il coraggio di parlarne, sapendo che quei tizi ti potevano sentire attraverso il microfono.» «È successo molto tempo fa.» «Hai questa sensazione?» «No.» Annuisce. «Lo immaginavo.» «Ti è mai successo qualcosa di simile?» «Niente di così grave. Solo una volta, all'università, un giocatore di baseball diventò davvero troppo insistente. Una sera eravamo sul sedile posteriore della sua macchina. Aspettai finché non si fu calato i pantaloni e poi gli feci rimpiangere di averlo fatto.» «Buon per te.» «Già. Ma una cosa del genere, fatta da qualcuno che ti rapisce per strada...» «Non sappiamo se le vittime siano state violentate» le ricordo. «È vero, a parte la donna presa da Dorignac.» Le mie guance si fanno di fuoco. «Questo non vuol dir niente, comunque» continua Wendy. «Non siamo affatto sicuri che sia stata presa dall'UNSUB.» Le sue parole mi lasciano di sasso. «La donna rapita nei pressi di Dorignac era stata violentata?» Wendy sembra confusa. «Beh, hanno trovato dello sperma. Potrebbe avere avuto un rapporto sessuale precedente al rapimento, ma mi pare che secondo il patologo si sia trattato di stupro.» Mentre sono ferma, senza parole, sento sul viso una goccia di pioggia. Credevo che la polizia avesse preso dei campioni del DNA dai sospetti per confrontarlo con le tracce di epidermide trovate sotto le unghie della donna rapita nei pressi di Dorignac. Ma loro avevano molto di più. E me lo hanno nascosto.
«Ho appena fatto una gaffe, vero?» commenta Wendy. «Loro non te l'hanno detto.» «No.» «Penso che non volessero darti un altro dolore. Per via di tua sorella e il resto.» La mia rabbia è contenuta dal dolore per il tradimento di John. Come ha potuto nascondermi questo? Ma poi sopravanzano le immagini di Jane vittima del terrore e dello stupro... «Accidenti, sono nei pasticci» commenta Wendy. Ma anziché chiedermi di non dire niente, mi dice: «Avrebbero dovuto dirtelo». Mi volto e continuo a camminare lungo l'argine nonostante la pioggia leggera, che probabilmente non durerà a lungo. «Sai che sta piovendo?» chiede Wendy. «Sì.» I turisti e gli sportivi hanno affrettato il passo, ma i pescatori non demordono, sapendo che ci sono buone probabilità che la pioggia possa cessare presto. Un rumore alle nostre spalle fa trasalire Wendy, ma è soltanto il tram. In pochi attimi ci supera e si ferma di fronte a Jackson Square. Alla nostra destra sorge il tetto arancione del Café du Monde, e l'aroma del caffè e dei dolci fritti arriva fino all'argine, facendomi venire l'acquolina in bocca e un dolore allo stomaco. «Il riflesso di Pavlov» commento a bassa voce. «Possiamo parlare per un momento di qualcosa di personale?» «Credevo che lo stessimo già facendo.» «Questa è un'altra storia.» So cosa aspettarmi. «Certo» le rispondo, temendo già la domanda che seguirà. «Credo che John abbia un debole per te.» «È così.» «E tu?» «Anch'io.» Un uomo con un berretto di lana in testa si avvicina, Wendy si irrigidisce e aspetta che si allontani. «Beh, sai che lui mi piace. Credo che anche John lo sappia. Dovrebbe essere cieco per non accorgersene. Quando provo qualcosa per qualcuno non sono molto discreta.» «Nessuno lo è, quando si prova davvero qualcosa.»
«Credo di non essere la persona che lui cerca» dice con un tono ammirevolmente privo di autocommiserazione. «Voglio dire... lui sa di piacermi e tutto il resto ma... sai cosa voglio dire.» «So cosa vuoi dire. Non è mai facile.» Lei stringe le spalle. «La cosa strana è che non sono gelosa di te. Se fosse stata una persona dell'ufficio, probabilmente lo sarei.» Dà un calcio a un sasso sul selciato. «Chi sto prendendo in giro? Lo sarei di sicuro. Farei dei paragoni tra me e lei e mi chiederei cosa mi manca. Ma con te è diverso.» Davanti a noi, alla nostra destra c'è un chitarrista su una panchina che suona il blues. In piedi dietro di lui c'è una donna con un ombrello aperto per proteggere la chitarra dall'umidità. Un gruppetto di persone ascolta soddisfatto. «Forse non sono così diversa come tu credi» le rispondo. «Sono semplicemente una donna.» «No, non è cosi. Molte donne che conosco - donne che lavorano - lottano continuamente per avere un po' di rispetto. Sono così consapevoli di come vengono trattate, così perennemente alla ricerca di rispetto, che sul lavoro usano solo il settanta per cento del loro cervello. A volte io mi sento tale e quale a loro. Ma tu vai per la tua strada come se non te ne accorgessi nemmeno. Tu esigi rispetto e lo ottieni.» «Sono più vecchia di te. Ho visto più cose.» «Non è questione di età, ma di esperienza. Sei stata dappertutto, hai assistito a guerre e a violenze di ogni tipo. Non ho mai visto John o l'ASR comportarsi con un'altra donna come fanno con te; nemmeno con le donne che sono vice-ASR.» «Sarà così anche per te. Anche se non siamo in un'epoca di grandi cambiamenti. Un giorno ti accorgerai di non essere più una spettatrice, ma di fare parte del gioco. Ci sei dentro e non c'è più verso di uscirne, anche se lo volessi.» «Sarò felice quando verrà quel giorno.» «Non avere fretta.» «A volte penso a Robin Ahrens, il primo agente donna dell'FBI uccisa in azione. Fu nell'Ottantacinque. Cercavano di arrestare un ladro di automobili armato, e la situazione si fece confusa. Fu uccisa da un collega che la scambiò per il delinquente.» «Sei curiosa di sapere come vanno le cose in azione, vero?» «Credo di sì. Voglio dire, essere in una squadra SWAT e tutto il resto. Mi chiedo come siano le cose nella realtà.»
«In combattimento, fin dal primo sparo, c'è la confusione più totale. I reduci del Vietnam dicono la stessa cosa. Ricordati ciò che hai imparato durante l'addestramento e non cercare di fare l'eroe. Questo era il vangelo laggiù.» «Io voglio solo fare il mio lavoro» continua Wendy. «Senza fare sciocchezze.» «Sarà così. La vita sentimentale è sempre più complicata di quanto possa esserlo il lavoro.» Ride amaramente. «Hai ragione. Beh, in ogni caso so perché John ha un debole per te, e non c'è problema. Non dovete nascondervi da me.» Mi chiedo se riuscirei mai a essere così altruista. Probabilmente no. Le tocco l'avambraccio. «Grazie, Wendy. E, in caso tu te lo stia chiedendo, non ci sono ancora andata a letto.» «Non avevo intenzione di chiederlo» risponde in fretta. Poi si morde il labbro. «No, non è vero. Forse ero curiosa. Ma solo un po'.» Scoppiamo a ridere e d'improvviso la giornata non sembra più così grigia, né la pioggia così fredda. Quando passiamo vicino al chitarrista gli faccio un cenno di saluto, poi ci troviamo nel parco dell'artiglieria e in Jackson Square. Proprio di fronte a Decatur sono in attesa le carrozze per turisti, con i cavalli stanchi sotto la pioggia. «Continua a piovere» osserva Wendy. «Forse dovremmo chiamare un'auto.» «Ancora un momento.» Guardo alla nostra sinistra dove gli ampi scalini di legno portano al fiume ingrossato. «Andiamo alla vecchia birreria Jax e prendiamoci un caffè.» Wendy annuisce, ma mi rendo conto che l'istinto le dice il contrario. Aumento l'andatura per scacciare la rabbia che provo verso John, che mi ha nascosto delle informazioni. Il traffico nella zona pedonale è diminuito a causa della pioggia, ma due uomini si stanno avvicinando: uno è giovane, ha i jeans unti e la barba incolta; l'altro, a pochi metri da lui, indossa dei calzoni cachi e una camicia sportiva. Wendy si irrigidisce osservando l'uomo con la barba che ci supera. Mentre lei lo sta tenendo d'occhio, l'uomo con la camicia alza il braccio destro e nella pioggia si vede brillare del metallo lucente. Grido per mettere in guardia Wendy, e prima che il suono svanisca nell'aria lei è di fronte a me, con la mano sotto la giacca, dove c'è la fondina. Sull'argine si sente l'esplosione di un colpo. Qualcosa di caldo e di bagnato mi colpisce in pieno viso. Wendy sembra incespicare, poi cade all'indietro
sui mattoni con il rumore sordo di un sacco di sabbia. La mia camicetta bianca è spruzzata di rosso: il sangue di Wendy. Dal parcheggio si sentono delle grida. L'uomo in camicia mi assale, mi punta la pistola al torace, e mi afferra il braccio con la mano libera. «Muovi il culo!» urla, trascinandomi verso i binari del tram. «Muoviti!» I miei occhi sono fissi su Wendy che giace supina, gli occhi aperti rivolti al cielo; sulle sue labbra c'è una grande bolla di sangue. Mentre la guardo, il mio rapitore alza la pistola e le spara di nuovo, mirando questa volta al fianco. Lei non emette neppure un suono. Cerco di divincolarmi, ma lui mi punta subito la pistola in fronte, oscurando per un attimo ogni altra cosa. «Muoviti o ti uccido!» Un groviglio di pensieri: la sua forza tremenda; la totale mancanza di esitazione quando ha sparato a Wendy, come John aveva previsto; la consapevolezza che non si tratta di un attacco casuale, che ha colpito Wendy per arrivare a me, che mi vuole viva; che è lui, il rapitore, l'UNSUB, il figlio di puttana che ha rapito mia sorella. La mia caccia è finita. Adesso io sono la preda. E lui mi ha catturata. Mentre vengo trascinata verso i binari del tram noto un uomo nel parcheggio che non è sdraiato a terra. Ha entrambe le braccia rivolte verso di noi; inizio ad abbassare la testa quando lo riconosco: è John Kaiser. «Jordan!» urla. «A terra!» Mentre cado il rapitore mi tira verso di sé come scudo. John si sposta a sinistra, cercando di sparare un colpo di lato, ma io sono in mezzo. L'uomo che mi tiene prigioniera alza il braccio libero e spara velocemente tre colpi in direzione di John, che ruota per evitare i proiettili, ma continua a girare finché non cade a terra senza rialzarsi. «Fuori due» mi sussurra una voce all'orecchio. La canna della pistola preme sulla mia tempia. «Muoviti.» Vuole che io vada al parcheggio. Non posso salire sulla sua macchina. Mi ricordo improvvisamente della pistola avuta da John, ma è nella mia Mustang, al parcheggio dell'FBI. L'unica arma a mia disposizione è la certezza che quest'uomo non mi vuole uccidere qui. Per me ha in serbo qualcosa di molto speciale. Gli sferro una gomitata nelle costole: sento un rumore secco e un gemito di dolore; il suo braccio molla la presa per una frazione di secondo, e io ne approfitto per divincolarmi via e correre da Wendy, con la chiara immagi-
ne della sua pistola in mente. Ma avvicinandomi a lei vedo che è distesa sull'arma, ancora nel fodero. Se mi fermo per spostarla, lui mi raggiunge. Qui non c'è alcun rifugio a eccezione del fiume. Mi butto a sinistra, verso gli scalini di legno che portano all'acqua. Quando ho raggiunto il primo scalino sento uno sparo alle mie spalle. «Non farti uccidere!» La mia sagoma si staglia in cima agli scalini come quella di un'anatra in un baraccone; non posso certo raggiungere l'acqua con un salto. Devo aspettare un'occasione migliore. Voltandomi lo vedo arrivare con la pistola in mano e gli occhi spiritati. Non l'ho mai visto prima, ma riconosco la luce oscura del suo sguardo; l'ho incontrata in luoghi che preferisco dimenticare. «Prendiamo la mia macchina» dice. «Se ti ribelli, ti sparo nella schiena. Diventerai molle come una bambola di pezza e ti dovrò portare di peso, ma tra le gambe sarai ancora piacevole e calda, e farai ancora un bel quadretto per quel tizio.» Il tono gelido e deciso della sua voce mi paralizza, lasciando spazio solo al terrore. Prendendomi per il braccio mi riporta dall'altra parte della zona pedonale con grande determinazione. A trenta metri di distanza John giace prono a terra cercando inutilmente di mettersi in ginocchio. Quando gli passiamo vicino l'uomo gli spara un colpo, proprio come ha fatto poco prima a Wendy. «Jooordan!» L'urlo mi paralizza, e in una frazione di secondo capisco che proviene dalla gola di Wendy Travis. Torcendo il collo riesco a vederla sdraiata sullo stomaco, appoggiata sui gomiti con la pistola tra le mani. I suoi occhi scintillano. Un braccio vicino a me scatta per prendere la mira, ma con un colpo lo sposto lateralmente e mi butto a terra, il più lontano possibile. Dalla pistola di Wendy escono fiamme arancioni. Di fianco a me sento un grugnito fortissimo. Il mio attaccante incespica, poi rialza la pistola. L'arma di Wendy sputa ancora fuoco. Lui urla di rabbia e di dolore, poi avanza con furia verso di lei. Wendy spara ancora, ma manca il bersaglio. Lui inizia a fare fuoco, un colpo dopo l'altro. La manca per quattro volte, ma quando vedo la testa di lei cadere all'indietro, e urlo per cancellare quell'immagine, dentro di me so che se n'è andata. Lui si gira verso di me, ma è ferito e vacilla. Sulla sua camicia ci sono delle macchie di sangue in corrispondenza del torace e della spalla. È a venti metri di distanza, alza la pistola e prende la mira. Ho gli occhi pieni
di lacrime e capisco che lui ha abbandonato il piano originario e ha deciso di uccidermi subito. La pistola ondeggia, si ferma, poi punta verso il cielo mentre alle mie spalle sento un boato che riecheggia dalla sponda opposta. Mi volto e vedo John Kaiser sul limite dell'argine, con la sua automatica calibro 40 spianata e perfettamente immobile. «Giù!» urla. Mi butto sul sentiero, John svuota il caricatore, e io sento riecheggiare colpo dopo colpo finché gli echi dei primi spari si confondono con quelli successivi. Quando alzo lo sguardo l'assalitore non c'è più. Mentre svanisce il rumore dell'ultimo sparo, striscio sui mattoni per raggiungere Wendy, sperando che non sia troppo tardi. I capelli sulla nuca sono una massa di sangue e di materia cerebrale, e il mio cuore si gonfia di fronte alla verità. La prima cosa che imparai in un ospedale da campo fu che se c'è della materia celebrale esposta, il ferito è senza speranza. «Mettiti giù!» urla John. «Cerca un riparo!» Bacio Wendy sui capelli, poi mi alzo lentamente e cammino verso la sommità della scala di legno. Quando la raggiungo guardo giù. L'uomo in camicia è piegato in due vicino allo scalino inferiore, respira a fatica e cerca di rimanere aggrappato a un palo. Mentre lo sto guardando freddamente, la sua mano scivola dal sostegno e lui finisce nel fiume a testa avanti. Dopo pochi istanti ritorna in superficie e resta lì a galleggiare, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce fuori dall'acqua, poi lentamente si allontana trascinato dalla corrente. Non sento alcun impulso di salvarlo, ma mentre la corrente lo trasporta lungo la riva, capisco che se il fiume lo prende non sapremo mai chi è, dove sono Thalia e Jane e tutte le altre e non sapremo nemmeno cos'è stato di loro. Cerco di non perderlo di vista saltellando tra le pietre grigie. Non è facile restare in equilibrio, senza contare che l'acqua alta lo spinge rapidamente, non solo verso il mare, ma verso il centro della corrente. È a tre metri dalla riva e si allontana ancora. «Aiuto!» grida con gli occhi pieni di terrore. «Non riesco a respirare!» Deve avere i polmoni pieni di sangue. Potrebbe soffocare nel proprio sangue prima ancora di affogare nel fiume. «Per favore!» urla. «Non riesco a stare a galla!» «Vai al diavolo!» sbraito, anche se so che lo devo salvare a tutti i costi. Adesso gira lentamente in tondo, spinto da una forza lontana. Girando e allontanandosi da me urla qualcosa che non riesco a sentire. Poi quando la
sua faccia ricompare, ripete ancora: «Tua sorella è viva!» Un'ondata di adrenalina mi riempie le vene e devo controllare ogni singolo muscolo per non buttarmi in acqua dietro di lui. Proprio ciò che lui vuole, certo. Dev'essere una menzogna. «Dov'è?» urlo. «Salvami!» ripete. «Io posso salvarla! Ti prego!» «Prima devi dirmi dov'è!» La sua testa finisce sott'acqua, poi riemerge. Mi avvicino a fatica alla riva del fiume, dove, impigliato tra le pietre, si trova un grande pezzo di legno: un ramo lungo, levigato dall'acqua durante il suo viaggio verso sud. «Jordan!» Grida una voce a chilometri di distanza. È John in cima alla scalinata. «Portalo a riva con il ramo!» Tiro il pezzo di legno con tutte le mie forze, ma non riesco a liberarlo dalle rocce. A ogni secondo che passa, l'uomo si allontana sempre di più, e con lui se ne va mia sorella. Non posso salvare quel bastardo senza gettarmi in acqua, ma sarebbe una pazzia. Nel Mississippi annegano dei buoni nuotatori, senza che ci sia nessuno che voglia ucciderli. Improvvisamente, senza alcun pensiero cosciente, porto la mano al marsupio e afferro la Canon automatica che avevo usato durante l'incendio a New York. Inquadro l'uomo che sta affogando e scatto una foto, poi incespico lungo il pietrame saltando di roccia in roccia senza nessuna considerazione per le mie ossa, cercando di avvicinarmi a sufficienza per avere un'inquadratura pulita. Ma il canale l'ha catturato. Adesso l'uomo è a dieci metri dalla riva e sta roteando via. Quando il suo viso riappare, scatto tre fotografie in successione, poi corro sulla cima delle rocce, sperando che faccia un altro giro. Quando è a quindici metri riesco a fare altri due scatti, poi la sua testa scompare sotto la superficie dell'acqua e non riemerge più. Ormai senza fiato, mi allontano dall'acqua e risalgo sulla sommità dell'argine. John è seduto in cima alla scalinata, a cinquanta metri di distanza, con il cellulare in mano. Sento arrivare il suono delle sirene provenienti dal quartiere francese. Mentre corro verso John, lui posa il telefono e si stringe la cintura, legata intorno a una gamba. «Sei ferito alla gamba?» chiedo. Sta soffrendo molto, annuisce e indica il fondo della scala. «Va' giù e vedi se riesci a trovare la sua pistola. Forse l'ha persa. Impronte digitali.» Io controllo ogni centimetro del legno segnato dalle intemperie, ma della
pistola non c'è traccia. C'è sangue, parecchio sangue. «Guarda tra le rocce appena sott'acqua» dice John. C'è un motivo se chiamano il Mississippi il Grande Fangoso. Attraverso le sue acque non si vede niente. Mi inginocchio e passo la mano sul primo scalino sommerso, ma la mia unica ricompensa è una scheggia. Il secondo è rivestito di melma. Mi sposto di lato, tasto le pietre sommerse ma non trovo nulla. Mentre tiro fuori le mani dall'acqua mi fermo all'istante: tra i sassi, in una pozza colma di acqua oleosa iridescente, vedo un telefono cellulare. Recuperandolo dall'acqua scopro delle macchie di sangue. «Cos'hai trovato?» chiede John ad alta voce. Tenendo il cellulare per l'antenna, risalgo i gradini. «Figlio di puttana» grugnisce John. «È ancora acceso» gli dico, guardando il display a cristalli liquidi pieno d'acqua. «Attenzione.» Afferra il telefono per l'antenna e lo regge davanti agli occhi. «Merda! È andato in corto mentre lo stavo guardando!» «Puoi ancora fare cercare le impronte, no?» «Forse. Ma quello che ci serve davvero è il chip di memoria. Questo telefono va direttamente a Washington in aereo. Non farne parola con i poliziotti di pattuglia. Aspetta la squadra omicidi.» Indica verso l'argine in direzione del quartiere francese, dove due poliziotti dall'elmetto bianco spronano i loro cavalli ad attraversare le rotaie del tram. Sono seduta al fianco di John, immobile e inizio a tremare. Mi torco le mani, cercando di farle stare ferme. «Wendy è morta» dico piano. Lui annuisce. «Si è buttata davanti a me.» «L'ho vista. Ha fatto il suo lavoro. Era veramente una brava ragazza.» «Non era una ragazza. Era un'eroina, che baciava la terra su cui camminavi.» «Lo so. Maledizione.» «Merita una medaglia. Per la famiglia.» «Certo.» «Si può sapere cosa stavi facendo da queste parti?» John scuote la testa senza guardarmi. «Non mi piaceva l'idea che tu fossi a spasso per il quartiere francese. Sapevo che eri uscita turbata dalla casa di Frank Smith, e sono sempre stato dell'idea che tu corressi molti più pericoli di quanto gli altri pensavano. Sapevo anche che non avevi la pistola.»
Gli stringo la mano. «Sono felice che tu sia paranoico.» «Cosa ti ha detto il tipo laggiù?» «Ha detto che Jane è viva.» John mi fissa con uno sguardo duro. «Gli credi?» «Non so. So solo che lui non era né Roger Wheaton, né Leon Gaines e nemmeno Frank Smith.» «Lo so.» «Mi ha anche detto qualcos'altro, John.» «Cosa?» «Che se anche fosse stato costretto a spararmi alla schiena, tra le gambe sarei rimasta calda; un quadretto prezioso per quell'uomo.» John impallidisce. «Ha detto esattamente così? "Per quell'uomo?"» «Per quell'uomo.» «Cristo.» Il rumore degli zoccoli sui mattoni si fa più vicino. John toglie il portafogli dalla tasca e lo apre per fare vedere la tessera dell'FBI. «Non mi hai detto la verità.» «Cosa?» «La vittima rapita da Dorignac è stata violentata, e tu lo sapevi. Le hanno trovato dello sperma.» Dapprima tace, poi aggiunge: «Per quanto riguarda lo stupro, l'autopsia non è conclusiva». «Avrete di sicuro chiesto al marito quando hanno avuto l'ultimo rapporto sessuale.» Sospira rassegnato. «Va bene, probabilmente c'è stato uno stupro. Non volevo caricarti di un simile fardello, specialmente prima degli interrogatori. Non volevo che tu soffrissi senza motivo, e nessuno voleva che tu fossi così arrabbiata con i sospettati da rischiare di non essere professionale.» «Guarda che capisco. Ma non devi nascondermi mai più nulla.» Annuisce. «Va bene.» «Nulla.» «Ho capito.» I cavalli ci hanno raggiunto. Due poliziotti ci guardano dall'alto puntandoci addosso le pistole. «Mani in alto! Tutti e due!» John alza la tessera affinché loro la possano vedere. «Agente speciale John Kaiser, FBI. Questa scena del crimine deve essere isolata in attesa della task force congiunta. Sono ferito e non posso
camminare, quindi pensateci voi.» CAPITOLO VENTUNESIMO Adesso, mentre salgo in ascensore al quarto piano della fortezza dell'FBI sul lago Pontchartrain, la veglia funebre per la morte di Wendy non è che un ricordo sfuocato. Mentre John era nella sala operatoria del Charity Hospital, io sedevo in sala d'aspetto, circondata da un tale numero di agenti speciali da sentirmi come una First Lady. Daniel Baxter e l'ASR Bowles si sono precipitati dall'ufficio solo per incontrare John e i medici. Poi sono partiti a caccia del corpo dell'UNSUB e di cento altri dettagli, lasciandomi sola con le immagini di Wendy che lottava e moriva per salvarmi, il suo sangue sulla mia camicetta e la voce dell'UNSUB ancora viva nelle orecchie: "Se ti sparo nella schiena, tra le gambe sarai ancora piacevole e calda. John è uscito dall'operazione in buone condizioni, ma il medico ha cercato di trattenerlo per altre ventiquattro ore. John lo ha ringraziato, ha preso il bastone che il fisioterapista gli aveva messo in camera, ed è uscito zoppicante dall'ospedale. Ho seguito John alla macchina dell'FBI in attesa. «Dove si va, signore?» ha chiesto il giovane agente alla guida della vettura. «In sede» ha risposto John. «Alla svelta.» Baxter, Lenz e l'ASR Bowles ci aspettano nell'ufficio di quest'ultimo. «Come va, John?» gli chiede Baxter, mentre io lo aiuto a sedersi. «Rigido, ma non c'è male.» «Come va, Jordan?» «Resisto.» «So che non dev'essere stato facile, visto cos'è successo a Wendy.» Taccio, ma sento che dovrei dire qualcosa. «C'è una cosa che deve sapere: è stata in gamba, non ha commesso nessun errore. Il primo tipo che si è avvicinato a noi aveva un'aria molto più sospetta, e ha distratto la sua attenzione. Quando il tizio ben vestito ha alzato l'arma, lei è balzata davanti a me cercando di estrarre la pistola. Nessuno avrebbe potuto fare di meglio. Nessuno.» Baxter irrigidisce la mascella, ma il suo sguardo tradisce la commozione. «È la prima volta che perdo degli agenti per mano di un serial killer» dice a bassa voce. «Adesso ne abbiamo persi due. Non è il caso di dirlo,
ma lo voglio fare comunque: non ci fermeremo finché tutti i figli di puttana coinvolti in quest'affare non finiranno a marcire in prigione o sottoterra.» «Amen» conclude l'ASR Bowles. «Sotto ci sono cento agenti pronti a lavorare giorno e notte. Wendy aveva molti amici.» «Abbiamo già il cadavere dell'altro?» chiede John a Baxter. «No, la guardia costiera e i sommozzatori sono al lavoro, ma il Mississippi è senza pietà. Dobbiamo considerare l'eventualità che il suo corpo non venga mai recuperato.» «E il telefono cellulare?» continua John. «Nessuna impronta.» «Un telefono cellulare senza impronte? Com'è possibile?» «È stato ripulito. Lo portava pulito. Questo UNSUB era estremamente cauto. Deve avere pensato che se gli fosse caduto durante un rapimento, le impronte avrebbero rivelato rapidamente la sua identità. È una buona notizia. Se troviamo il corpo ne scopriremo l'identità in un batter d'occhio.» «E i chip di memoria all'interno?» «Il telefono è appena arrivato al Centro Ricerche di Ingegneria di Quantico. Secondo loro, se il cortocircuito non ha danneggiato i chip potremmo avere un colpo di fortuna. Il loro rapporto dovrebbe arrivare da un momento all'altro.» Baxter tamburella le dita come un adeta in panchina, in attesa di ritornare in campo. «E le mie fotografie?» chiedo. «Ci sono buone notizie. Sono sfocate ma servibili. L'università dell'Arizona ha preparato un ingrandimento decente della migliore, che è in onda sulle reti locali da un paio di ore. Finora sono arrivate tre chiamate, ma senza seguito. Il "Times-Picayune" pubblicherà la foto nella prossima edizione.» «Bene» commenta John. «Abbiamo avuto ciò che volevamo. Qualcuno si è spaventato a morte; ma ha reagito a scoppio ritardato e in un modo molto più violento del previsto.» «Già» concorda Baxter. «Cosa sappiamo dell'arma dell'UNSUB?» Baxter scuote la testa. «Adesso c'è l'alta marea e la corrente è forte. Inoltre il fondale del fiume è sabbioso in alcuni punti. Gli oggetti pesanti ci sprofondano dentro in pochi secondi. Stiamo facendo tutto il possibile, ma, ancora una volta, non ci sono grandi speranze. Dobbiamo trovare il corpo.
Allora saremo in grado di verificare i collegamenti con Wheaton, Gaines e Smith.» «Dov'erano i tre moschettieri mentre questo tizio affogava?» chiede John. «Tutti presenti e sotto controllo. Wheaton dipingeva all'Art Center; era lì fin da questa mattina. Dopo la visita di Jordan, Smith ha pranzato da Bayona, ha fatto spese nel negozio di arredamento Hurwitz-Mintz, ed è quindi rientrato a casa. Al momento si trova in compagnia di un giovane di bell'aspetto di cui non conosciamo ancora l'identità.» «E Gaines?» «Gaines e la ragazza si sono svegliati alle dieci, hanno incominciato a bere e a litigare, hanno smesso il tempo sufficiente per fare una scopata e poi sono ripiombati nel sonno. Stanno ancora dormendo.» «Qualcuno ha fatto delle telefonate sospette?» chiede John con voce frustrata. «Contatti?» «Niente.» «Al diavolo tutto,» borbotta Bowles «mandiamo la polizia di New Orleans a interrogarli senza tanti riguardi, finché uno non crolla.» «Ho proprio paura che possa succedere qualcosa del genere,» commenta Baxter «così non avremo più niente su cui fare leva per farli parlare come hanno fatto ieri. Dobbiamo scoprire l'identità dell'UNSUB e trovare un collegamento con uno dei tre.» Il capo dell'USI sbuffa e guarda John e Lenz. «Voglio sentire che cosa ne pensate. Qualsiasi cosa: sensazioni, istinto, onde psichiche, qualunque cosa abbiate in mente, adesso è il momento di tirarla fuori. Con che cosa abbiamo a che fare?» Dato che né John né Lenz sembrano intenzionati a parlare per primi, Baxter si rivolge a Lenz: «Arthur? Mettiti in gioco». Lo psichiatra, finora silenzioso, si sporge in avanti sul sofà. «Io vedo un paradosso: l'UNSUB ha fatto capire, da un commento fatto a Jordan, di avere violentato le vittime precedenti prima di consegnarle all'artista. Eppure gli esperti d'arte consultati ritengono che le "Donne Addormentate" non siano state dipinte né da Wheaton, né da Gaines e tanto meno da Smith. Se si considera ciò che ha detto, non è da escludere che il pittore possa essere stato lui.» Mi sento chiamata in causa. «Non credo che un uomo capace di dipingere le "Donne Addormentate" possa riferirsi a loro chiamandole "bei quadretti". Quando mi ha detto: "faresti ancora un bel quadretto per quell'uo-
mo", avrebbe potuto riferirsi a un compratore anziché al pittore.» «Marcel de Becque,» interviene John «ci è dentro fino al collo. Non so come. Forse tre o quattro persone hanno in comune la stessa perversione sessuale. Non so.» L'impazienza di Baxter è palpabile. «Non riesco a credere che non abbiamo altro!» «Cosa pensi dell'idea di Jordan della personalità multipla?» domanda John. «Non si è trovata nessuna conferma di violenza su minori nel caso di Wheaton e Smith, ma l'idea mi ha colpito. È possibile che un artista con un disturbo di personalità multipla dipinga con due stili completamente diversi e non identificabili? Che differenza ci può essere tra le due personalità?» Lenz congiunge le dita e si appoggia allo schienale. «Possono addirittura avere due manifestazioni fisiche diverse. Nella letteratura medica si conoscono casi di disturbo dissociativo della personalità nei quali una personalità aveva bisogno di farmaci per il cuore per vivere, mentre l'altra no; una può avere bisogno degli occhiali e l'altra no, oppure possono servire lenti correttive di grado diverso.» «Non è possibile» commenta Bowles. «Sono fatti documentati» puntualizza Lenz. «Due pittori totalmente differenti potrebbero occupare lo stesso corpo? È tecnicamente possibile ma, data l'enormità del caso, il numero di vittime, il lungo intervallo di tempo in cui una personalità dovrebbe tenere nascosta le proprie azioni all'altra...» «Un momento,» interviene John «vuoi dire che non tutte le personalità sono al corrente di ciò che le altre stanno facendo?» «Esatto. In genere la personalità dominante sa tutto, mentre le altre restano in parte all'oscuro.» «Cristo santo» commenta Baxter. «La premessa è interessante,» continua Lenz «ma sconfina con il fantastico. La gente crede che la cosiddetta "personalità multipla" sia qualcosa che ha a che fare con Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde. Un'immagine in linea con l'idea del male, mascherato sotto una facciata pubblica positiva. Clinicamente però il disturbo dissociativo dell'identità non si manifesta in questo modo. Non c'è una persona buona in pubblico che celi un'intelligenza maligna. Ci sono dei frammenti di personalità, infantile e ferita, il cui sviluppo è rimasto fermo al momento in cui avvenne la violenza sessuale. La personalità dominante è quella più capace di adattarsi e di affrontare situazioni di stress estremo. Tutto qui.»
John annuisce. «Molti serial killer che abbiamo preso o interrogato avevano subito abusi sessuali da piccoli.» «Ma quanti soffrivano di disturbo dissociativo dell'identità?» chiede Lenz. «Nessuno.» Lenz sorride come un maestro di scacchi che abbia fatto cadere lo sfidante in trappola. «Prima di prendere seriamente in considerazione questa teoria, dovremmo licenziare i nostri esperti d'arte e fare venire un nuovo gruppo.» «Va bene,» risponde John con asprezza «con quelli che abbiamo, non stiamo andando da nessuna parte. Maledizione, tutte le persone coinvolte in questo pasticcio, dai sospetti a de Becque, persino noi, sanno più di quanto non dicano.» «Anche Wheaton sapeva parecchio,» dico loro «lo sentivo.» Baxter mi fissa intensamente. «Ha forse cambiato idea ed è disposta a dirci cosa Frank Smith ha detto delle visite di Wheaton e dei loro litigi?» L'immagine di Smith che mi confida il desiderio di Wheaton di essere aiutato a morire mi attraversa la mente. «No. Dovete fidarvi di me.» «Il motivo ha rilevanza sulla loro psicologia?» chiede Lenz. «Potrebbe essere altrettanto importante.» «Non c'è niente di particolare. È un argomento del quale si discute normalmente.» Il telefono sulla scrivania di Bowles si mette a suonare. L'ASR risponde, poi passa la cornetta a Baxter. «Il Centro Ricerche di Ingegneria di Quantico.» Il capo dell'USI si alza, prende il ricevitore. Ha la mascella tesa, pronto a ricevere cattive notizie e resta imperturbabile all'apparecchio. «Chiaro», dice. «Capisco.» «Novità?» chiede John quando Baxter riattacca. Baxter apre la mano e la appoggia sulla scrivania di Bowles. «Era un cellulare rubato e riprogrammato. Non c'è modo di risalire all'UNSUB con quello. Ma hanno salvato i chip. Sono riusciti a recuperare i numeri preselezionati; uno di questi appartiene a Marcel de Becque.» Mentre John alza il pugno in segno di vittoria, mi torna dinanzi agli occhi l'immagine del vecchio espatriato francese in piedi davanti all'enorme finestra, la sua voce raffinata che mi parla di mio padre e dei gloriosi giorni in Vietnam. Baxter preme un pulsante sul telefono e dice: «Il Centro Operativo? So-
no Baxter. Ditemi dov'è Marcel de Becque in questo momento.» Sediamo in silenzio mentre Baxter aspetta la risposta. Lo vediamo diventare grigio in volto. «Quando? Chiamate immediatamente il controllo aereo e il console. Poi richiamatemi.» Riattacca e si sfrega con forza il mento. «Sei ore fa l'aereo di de Becque ha lasciato Grand Cayman. Il pilota ha presentato un piano di volo per Rio de Janeiro, ma non c'è mai arrivato. De Becque potrebbe essere ovunque.» «Maledizione» impreca John. Prima che gli altri abbiano il tempo di fare commenti, suona nuovamente il telefono di Bowles. Baxter seleziona il vivavoce. «Pronto, parla Baxter.» «Abbiamo in linea per lei Farrell, il capo della polizia.» «Sono pronto.» «Daniel?» chiede una voce con un accento afro-americano assai marcato. «Buon giorno, Henry. Che succede?» «Abbiamo appena ricevuto una chiamata circa la foto trasmessa in TV. Una vedova di Kenner dice di essere la padrona di casa di quel tipo. È sicura al cento per cento. Dice che lui si chiama Johnson e che non è quasi mai in città. Dice che fa il rappresentante. L'indirizzo è 221 Wisteria Drive. Si trova a sud della Interstate 10, nei pressi dell'aeroporto, a Jefferson Parish.» Persino l'espressione imperscrutabile di Baxter, da vero giocatore di poker, tradisce l'emozione mentre scribacchia qualcosa sulla cartella di un incartamento. «Lo sceriffo ha già mandato qualcuno sul posto?» «Non sa ancora niente. Ho pensato di dirlo prima a voi ragazzi.» Baxter guarda verso il cielo con gratitudine. «Abbiamo la scientifica pronta a partire. Ci occupiamo noi delle relazioni tra i vari dipartimenti.» «Buona fortuna, Daniel. La signora si chiama Pitre.» «Sono in debito con te, Henry.» «Le occasioni per ripagarmi non ti mancheranno. In bocca al lupo.» Baxter riaggancia e guarda l'ASR Bowles. «Avremmo ricevuto una telefonata del genere cinque anni fa?» «Neanche morti. Farrell è un duro. Ha licenziato o messo in galera centinaia di poliziotti negli ultimi cinque anni.» Baxter compone un numero. «Squadra scientifica» risponde una voce femminile. «Al 221 di Wisteria Drive, Kenner. Mandate tutta la squadra.»
«Sirene? Tutto quanto?» «No, ma sbrigatevi. Ci vediamo là.» «Partiamo subito.» La signora Pitre abita in un labirinto di strade subito a nord delle piste del Moisant International Airport di New Orleans. Mentre Baxter, Lenz, John e io passiamo attraverso case tutte uguali, un jet in arrivo scende su di noi come un gigantesco uccello, e sorvola la nostra Crown Victoria con un boato che fa tremare il suolo. «Bel posto» commenta Baxter, al volante. «Mentre passa un aereo si può sparare a qualcuno senza che nessuno senta niente.» «Cosa da non trascurare» aggiunge Lenz, che siede al suo fianco. Baxter mi guarda. «Mi dispiace, Jordan.» «Non scusarti: è la verità.» John mi prende la mano sul sedile. «Eccolo lì,» dice Lenz puntando il dito «il numero duecentoventuno.» È la tipica casa dei sobborghi. Quando entriamo nel vialetto, vedo davanti a me il tetto di un garage a due piani, rivestito di assicelle. Sembra un'aggiunta successiva: le pareti non sono a piombo e il tetto è sovrastato dai rami di un olmo che avrebbe dovuto essere tagliato prima di realizzare la costruzione. Mentre Baxter spegne il motore, una donna con una sigaretta in bocca esce dalla porta del garage, mostrandoci un mazzo di chiavi. Sebbene sia più vicina ai sessanta che ai cinquanta, indossa un corpetto elasticizzato rosa e dei calzoncini blu che mettono in evidenza le vene varicose. John afferra la maniglia della porta ed esclama: «Andiamo». «Prendi il bastone,» gli consiglia Baxter «ci saranno delle scale.» «Vaffanculo il bastone» risponde John. «Siete venuti in fretta, non c'è che dire» commenta la signora Pitre con una voce arrochita dal fumo e profonda come quella di un uomo. «Ho avuto paura che lui arrivasse prima di voi.» Porge la mano. «Carol Pitre, vedova da quattro anni, da quando mio marito mori in mare, su una piattaforma.» «Agente speciale John Kaiser» dice John stringendole la mano. «Signora, credo che il signor Johnson non torni.» «Come fa a saperlo? È partito per un altro dei suoi viaggi d'affari?» «No.» Solleva la testa verso John. «Cos'ha combinato? Perché lo cercate? La
polizia ha detto che era ricercato dal governo federale, ma la cosa non mi dice un bel niente.» «Signora, in questo momento non possiamo aggiungere altro.» La signora Pitre si morde le labbra ed esamina John con più attenzione. Poi decide di non insistere. «Cosa le è successo alla gamba?» «Un incidente sugli sci.» «Sci d'acqua?» La vettura della scientifica entra nel vialetto con un ruggito e uno stridio di freni. «Chi sono quelli?» chiede la signora Pitre allungando il collo «fanno sempre parte della vostra banda?» «Sono dei tecnici per la raccolta delle prove, signora.» «Come per il processo di O. J. Simpson?» «Esatto.» «Spero che siano meglio di quelli di Los Angeles.» «Senz'altro. Signora Pitre, noi...» «Penso che adesso vogliate andare su.» Mentre si chiudono le porte della prima vettura, ne arriva un'altra. Sulle automobili non ci sono gli emblemi dell'FBI, ma guardando da vicino gli sportelli si vedono le luci blu e una sirena. «Signora Pitre, il signor Johnson le ha fatto vedere un documento quando si è trasferito qui?» «Cavolo, sì. Gliel'ho chiesto io. Da quando Ray è stato ucciso nel vascone del fango, non posso fare a meno di stare attenta. Ci sono un sacco di pazzi in giro. Neri o bianchi, oggigiorno non fa differenza.» John non sembra essere affatto infastidito dallo stile esagerato della signora Pitre. «Che cosa le ha mostrato?» «Una tessera elettorale, per cominciare.» «Della Louisiana?» «No. Di New York. E aveva anche la patente.» «Gliel'ha fatta vedere lui?» «Come avrei fatto se no a sapere che ce l'aveva?» «Già. C'era la sua foto sopra?» «A cosa serve senza? Era anche un bell'uomo. Una faccia un po' dura, ma se si campa abbastanza ci pensa la vita a fartela venire, non è vero?» «Adesso vorremmo salire di sopra. C'è solo una camera sul garage?» «Due camere con bagno. Le aveva costruite Ray dopo che avevamo regalato i tamburi a Joey. Non sopportava di averlo in casa con tutto quel
chiasso. Non so se fosse bravo, ma di sicuro riusciva a svegliare i morti con quei cosi.» «Capisco. Le dispiace se saliamo da soli? Vorremmo guardarci intorno senza essere disturbati.» La cosa non riempie di gioia la signora Pitre, ma dopo un momento dà le chiavi. «Voglio una ricevuta per le cose che portate via.» «Senz'altro.» John si gira verso di me e mi prende da parte. «Salgo con Baxter e Lenz per dare una prima occhiata. Mi piacerebbe portarti su, ma la cosa non andrebbe a genio alla scientifica.» «Va bene. Vai avanti.» John conferisce con il capo della scientifica, che gli dà una pila di sacchetti di plastica per raccogliere le prove, quindi lui, Lenz e Baxter salgono le scale all'interno del garage. Mentre li osservo, la signora Pitre si avvicina a me, pensando che avrebbe ottenuto più informazioni da una donna, ma io scappo nell'auto dell'FBI, mi sistemo sul sedile anteriore, e mi chiudo dentro. Il rombo degli aerei in partenza scuote me e la macchina, e io mi chiedo come mai la signora Pitre sia solo un po' strana e non matta da legare. Mentre mi sto preparando all'attesa, John scende zoppicando gli ultimi quattro scalini. «È la gamba?» grido uscendo e correndo verso di lui. «No.» In mano ha un sacchetto con delle prove. Fa un cenno al capo della scientifica, e una schiera di tecnici corre verso il garage con casse e borse al seguito. «Che cos'è? Cosa hai trovato?» «L'UNSUB sapeva che saremmo venuti. Il posto è pulito come il cellulare. Abbiamo trovato solo un mucchio di cibo conservato: biscotti, patatine fritte, tortine e carne secca. Quando l'ha comprato deve avere avuto i guanti. Ma sul mobiletto della cucina c'era una fila perfetta di fotografie ad aspettarci.» Uno strano brivido mi scende lungo la spina dorsale. «Le vittime?» «Sì.» «Quante?» «Undici. Non c'è la vittima del Dorignac e nemmeno Thalia.» «Allora non è stato lui a rapire la donna da Dorignac.» Mi rendo conto che John ha ancora in mano il sacchetto con il materiale raccolto. «Cosa c'è lì dentro?» Gli chiedo con un nodo allo stomaco. John sospira e mi sfiora il braccio. «Una foto di Jane. Se te la senti, vor-
rei fartela vedere, per sapere se riconosci dove fu scattata.» «Vediamo.» Lui esita, poi apre il sacchetto e tira fuori una fotografia in bianco e nero, scattata con il teleobiettivo. La profondità di campo è pessima e non riesco a distinguere lo sfondo, ma Jane è nitida. Indossa una maglia senza le maniche e dei jeans, sta guardando verso la macchina fotografica, ma non nell'obiettivo. Ha uno sguardo più intenso del solito: gli occhi sono socchiusi. Mentre studio l'immagine, cercando dei dettagli rivelatori, qualunque cosa in grado di farmi capire cosa possa esserle successo, sento una morsa al cuore e brividi di freddo sulla pelle. «Tutto a posto?» chiede John, afferrandomi le spalle. «Non avrei dovuto fartela vedere.» Quando mi tocca, mi accorgo che sta tremando. La sua gamba ferita è a mala pena in grado di reggerlo in piedi. «John, guarda le braccia.» «Cosa c'è?» «Non ci sono cicatrici.» «Cosa?» Mi assale un'ondata di vertigini, mi gira la testa, ma in realtà sono completamente immobile. «Jane fu morsa da un cane quand'era piccola.» «Un cane?» La foto che ho tra le mani inizia a tremare; mi è difficile esprimere a parole quello che ho notato. Questa fotografia non mi è nuova, anche se ciò che ho davanti agli occhi è una copia: una stampa su carta fotografica fatta da un fax. Cercando di trattenere le lacrime, stringo la foto al petto e chiudo gli occhi. «Attenta,» dice John «potrebbero esserci le impronte.» «Guarda!» esclama il dottor Lenz alle spalle di John «sul retro c'è scritto qualcosa.» John si piega in avanti e osserva con molta attenzione il rovescio della fotografia. «Si tratta di un indirizzo. Venticinquenovanta St. Charles.» «L'indirizzo di Jane Lacour» commenta Lenz. «C'è anche un numero di telefono.» «Sette-cinque-otto, uno-nove-novantadue?» chiedo. «No» risponde John piano. «È un numero di New York. Dobbiamo farlo rintracciare immediatamente.» Allunga la mano per prendere la fotografia, ma io la allontano, giro la
foto e leggo il numero: 212-555-2999. «Lo conosco» mormoro. «Di chi è?» chiede John. «Soltanto un secondo.» Cerco di ricordare un momento confuso, ottenebrato dal whisky e dai calmanti. «Mio Dio... è il numero di telefono della galleria d'arte di Wingate. Di Christopher Wingate. L'ho chiamato dall'aereo in volo da Hong Kong.» «Cristo» si lascia scappare John. «Sono tutti legati l'un l'altro a filo doppio: Wingate, l'UNSUB, de Becque.» «Il numero di Wingate sulla fotografia di una delle vittime» pensa a voce alta Lenz. «Può volere dire che Wingate scelse Jane Lacour.» «Come avrebbe potuto?» chiede John. «Non è stato a New Orleans per anni.» «Lui non aveva scelto Jane,» mormoro «aveva scelto me.» CAPITOLO VENTIDUESIMO La strada sul lago Pontchartrain è il ponte più lungo al mondo costruito interamente sull'acqua. Il nastro di cemento lungo cinquantadue chilometri, pieno di rumore e di traffico, come un richiamo ipnotico mi spinge all'interno, verso un vortice oscuro di paura e senso di colpa. Da qualche parte al di là di questo lago poco profondo, c'è la casa di John Kaiser. Adesso lui è qui, seduto al mio fianco nella Mustang che ho noleggiato, il sedile completamente reclinato per poter tenere distesa la gamba ferita. Trenta secondi dopo avere letto il numero di telefono di Christopher Wingate sul retro della fotografia che avevo in mano, la gamba di John cedette, e lui cadde nel vialetto della signora Pitre. Baxter gli ordinò di tornare in ospedale, ma John disse di essere solo stanco, che avrebbe dovuto usare il bastone e che doveva tornare subito in ufficio per lavorare ai collegamenti tra l'UNSUB, Wingate e Marcel de Becque. Baxter gli diede due scelte: l'ospedale o una notte di riposo a casa. John scelse quest'ultima, ma mentre prendevamo la mia automobile dal parcheggio dell'FBI, lui telefonò di sopra per farsi dare una spessa cartella, colma delle ultime elaborazioni fatte da Argus delle riproduzioni delle "Donne Addormentate". Si comporta come facevo io quando dovevo raccontare un conflitto: niente lo ferma. La fotografia che John ha tirato fuori dal sacchetto di plastica continua a fluttuare nella mia mente. Adesso sono riuscita a localizzare la fotografia:
apparve due anni fa nei principali quotidiani, quando vinsi il Premio dell'Associazione Stampa del Nordamerica. Wingate deve avere avuto accesso a qualche database contenente l'immagine, deve averla stampata su carta fotografica e spedita all'UNSUB, a New Orleans. «Ne vuoi parlare?» John allunga una mano e la posa sul mio ginocchio. «Non so.» «Jordan, so a cosa stai pensando. Un lieve senso di colpa è normale nei sopravvissuti, ma questo rasenta la follia. Stai distorcendo ogni cosa per adattarla a uno schema predefinito: che Jane è morta per colpa tua. Non so perché tu voglia attribuirti quella colpa, ma le cose non stanno così.» Stringo con forza il volante per cercare di controllare il mio umore. «Io non voglio attribuirmi quella colpa.» «Mi fa piacere, perché altrimenti vorrebbe dire che sei davvero paranoica.» Stringo il volante con maggior forza per sfogare la mia esasperazione, ma non serve a niente. «Puoi telefonare e sentire se hanno fatto la perizia calligrafica? Se non è stato scritto da Wingate, allora ammetterò di essere paranoica. Ma se è stato lui, sapremo che Wingate spedì o diede la mia foto all'UNSUB.» John prende il cellulare, chiama l'ufficio e chiede di parlare con la scientifica. «Jenny? Sono John Kaiser. Ci sono novità da New York sul campione di scrittura?... Che cosa hanno detto?... Capisco. Sicuri al cento per cento?... Bene. Grazie.» Preme il pulsante di fine chiamata, poi lascia cadere la testa in avanti e sospira. «Cosa c'è?» «Il numero di telefono sulla tua foto è stato scritto da Wingate.» Ho un nodo allo stomaco e colpisco il volante. «Ci siamo. Qualcuno al di fuori di New Orleans mi aveva scelto come vittima numero cinque, e ha ucciso Jane.» Lui si morde il labbro inferiore e scuote la testa. «Se dovessi optare per qualcuno sceglierei Marcel de Becque.» «John, e se lui avesse dato l'ordine di prendere me? Proprio come si commissiona un quadro? Lui sa chi sono da anni. Dice a Wingate che mi vuole nel prossimo quadro, ma dato che io sono sempre in viaggio, Wingate trova un modo più semplice per soddisfare la richiesta di de Becque: prendere Jane al mio posto.» «Questa teoria ha una falla enorme.» «Il fatto che de Becque non aveva il quadro di Jane? Facile. Wingate
glielo ha venduto sotto il naso. Ecco perché tra loro non correva buon sangue.» «Io mi riferivo alle coincidenze. Tutte le altre vittime sono di New Orleans. Ma per qualche ragione sconosciuta, de Becque sceglie te come vittima numero cinque. Per soddisfare la richiesta di de Becque, Wingate decide di usare come sostituta tua sorella. E quella sostituta per puro caso vive nella stessa città in cui vivono tutte le altre vittime? È statisticamente impossibile.» Inizio a sentire un dolore sordo alla base della nuca. Allungo la mano e apro il marsupio alla ricerca della mia confezione di pastiglie. «Cos'è?» mi chiede John quando vede la bottiglietta. «Xanax.» «Un ansiolitico?» «Non è una cosa seria.» «Lo Xanax è dal punto di vista chimico un parente stretto del Valium.» «Lo so. Ho bisogno di rilassarmi.» Lui guarda il lago dal finestrino, ma so che non ha intenzione di cambiare argomento. «Prendi regolarmente quelle pastiglie?» Tolgo il coperchio, prendo due pastiglie e le trangugio senz'acqua. «Oggi è stata una giornataccia, d'accordo? Ho visto morire Wendy. Ho visto mentre ti sparavano. Un tizio ha cercato di rapirmi, e ho appena scoperto di essere responsabile del rapimento di mia sorella. Puoi mandarmi in un centro di riabilitazione per tossicodipendenti domani.» Lui mi guarda, i suoi occhi castani sono preoccupati. «Fai ciò che devi fare per reggere quello che ti è successo. Sono semplicemente preoccupato per te. E per me. Il viaggio dura ancora un quarto d'ora. Spero che tu non ti addormenti al volante.» «Non ti preoccupare. Due di queste ti stenderebbero, ma a me non fanno nessun effetto.» John mi studia a lungo, poi guarda di nuovo il ponte. «Prima o poi faremo una breccia nel muro, Jordan. Troveremo quelle donne. Le troveremo tutte.» Prima o poi. John vive in una casa a un solo piano in una strada dove ci sono altre venti case esattamente uguali alla sua. L'America senza distinzioni. I prati sono curati, le case tinteggiate di fresco, le automobili nuove e immacolate. Mi fermo nel vialetto, poi lo aiuto a scendere dalla macchina. Visto che
siamo soli usa il bastone. Procediamo adagio, ma lui stringe i denti e continua a camminare. Sotto la tettoia John disattiva il sistema di allarme antifurto inserito nella parete e apre la porta sul retro, che conduce alla lavanderia e quindi in una cucina immacolata. «Non cucini mai» commento, vedendo il locale. «Qualche volta.» «Allora hai una donna di servizio.» «Una volta alla settimana. Ma io sono sostanzialmente una persona ordinata.» «Non ho mai incontrato un tipo ordinato con cui volessi passare la notte.» Lui ride, poi fa una smorfia di dolore. «A dire la verità, da quando Baxter chiamò per dire della tua scoperta a Hong Kong, ho dormito su una branda in ufficio.» «Ah.» Dietro il ripiano della cucina c'è la zona pranzo, e un ampio arco che conduce a uno studio ben arredato. Non c'è una cosa fuori posto; solo un paio di riviste su un tavolino indicano che il luogo è abitato. Questa casa è così pulita che sembra pronta per la vendita, o per essere visitata da sposini che cercano casa nel quartiere. «Dove sono le cose di tutti i giorni, la robaccia che si accumula in casa?» «La robaccia?» «Sì. Libri, video, posta accumulata, le cose che si comprano d'impulso al supermercato?» Si stringe nelle spalle, poi assume un'aria scontrosa. «Niente moglie, niente figli, niente robaccia.» «Questa regola non valeva di sicuro per gli scapoli che ho conosciuto io.» Cerca di rispondere, ma invece fa un'altra smorfia di dolore. «È la gamba?» «Si sta irrigidendo in fretta. Fammi andare al divano laggiù, così posso dare un'occhiata alle foto dell'Argus.» «Prima credo che dovresti riposare un poco.» Lui salterella al sofà appoggiandosi al bastone, ma invece di aiutarlo a sedersi, lo prendo per mano e lo trascino oltre, verso l'ingresso. «Non voglio dormire» si lamenta lui, tirandomi per la mano.
«Non andiamo mica a dormire.» Smette di opporre resistenza, e lo conduco verso una porta semiaperta in fondo al corridoio, da cui intravedo un pavimento di legno. Anche la stanza da letto, come il resto della casa, è pulita e in ordine; il letto è rifatto con cura. A giudicare dall'abbigliamento sportivo di John, mi aspettavo che questa fosse la parte più disastrata della casa. Forse era solo una mia proiezione. Lui cerca di sedersi sul letto, ma io lo fermo e rimuovo le coperte. Non appena si sarà sdraiato, gli antidolorifici faranno il loro effetto, e ci vorrà un bel po', prima che si voglia rialzare. «Devo sedermi» annuncia lui con voce tesa. Gli tengo il braccio, mentre lui si lascia andare all'indietro e si siede sul bordo del letto, poi si appoggia al cuscino con un gemito. «Hai male?» «Non va bene, ma me la cavo.» «Vediamo se riesco a farti stare meglio.» Mi tolgo le scarpe e salgo sul letto sedendomi a cavalcioni su di lui. «Ti fa male?» «No.» «Bugiardo.» Mi sporgo verso di lui, gli sfioro le labbra in un bacio e mi allontano, aspettando la sua reazione. Lui fa scivolare le mani prima sui miei fianchi e poi sulla vita, quindi mi bacia dolcemente, ma con sufficiente insistenza da risvegliare in me la passione che avevo provato la notte scorsa sotto la doccia. Sono attraversata da un'ondata di desiderio. «Voglio dimenticare tutto,» mormoro «solo per un'ora.» Annuisce e prende le mie labbra tra le sue, baciandomi appassionatamente mentre porta le braccia lungo la mia schiena. Mi mordicchia il collo, poi l'orecchio, e il calore che provo si trasforma rapidamente in qualcosa di così impellente da farmi contorcere. «Hai qualcosa?» chiedo a bassa voce. «Nel cassettone.» Scivolo via e vado al cassettone. «Primo cassetto.» Quando torno al letto mi fermo in piedi a guardarlo. Lui mi fissa con gli occhi sgranati, aspettando di vedere che cosa farò. «Tutto bene?» s'informa. Gli sorrido e incomincio a sbottonare la camicetta. Il reggiseno che indossavo questa mattina adesso è in un sacchetto di plastica, in un aereo di-
retto a Washington per le indagini. Quando la camicetta mi scivola dalle spalle, il respiro di John si fa leggero. Mi spoglio completamente e mi arrampico di nuovo sul letto, al suo fianco. «Cinque minuti fa mi sentivo così giù come non mi ero mai sentita prima. Pensavo che saremmo venuti qui e avremmo fatto del sesso selvaggio, che esorcizzasse i nostri demoni quanto bastava per farci dormire. Ma questo è qualcos'altro.» Lui annuisce. «Lo so.» «Con te sono felice.» «Mi fa piacere. Anche tu mi rendi felice.» «Sembriamo i personaggi di un pessimo film.» Ride. «La realtà a volte è così.» Mi sfiora una guancia. «So che dentro ti senti a pezzi, soprattutto dopo avere visto quella foto. Io non...» «Non dire niente. Così vanno le cose. La vita e la morte viaggiano insieme. Sono fortunata ad averti incontrato. Oggi tu saresti potuto morire. Anch'io. E non avremmo mai saputo come sarebbe stato.» «Hai ragione.» «Ce lo meritiamo.» Allunga la mano e mi accarezza il ventre; il suo calore mi dà i brividi. Lui fa un cenno in basso verso la gamba. «Non sono al meglio della forma.» «A parlare te la cavi.» «E?» «Una parte importante è ancora perfettamente a posto.» Lui scuote la testa e ride. «Non sei timida, direi.» «John, ho quarant'anni. E tu sei ancora in debito con me dall'altra sera in albergo.» «Mi chiedevo come mai non mi avessi ancora spogliato.» Gli sorrido. «Una cosa alla volta.» «Come si fa?» «Ti aiuto.» Sporgendomi in avanti afferro la testiera del letto e scivolo sul suo torace. Senza alcuna esitazione mi afferra e mi tira a sé. Un brivido mi avvolge mentre mi appoggio a lui e sento la sua bocca appoggiarsi al mio sesso. «Ti va?»
«Non parlare; continua.» Lui non si fa pregare e in meno di un minuto mi rendo conto che non ci vorrà molto. Con John mi sono sentita subito a mio agio, e adesso non è cambiato niente. Lui sa come farmi arrivare al culmine del piacere, e io sono felice di lasciarlo fare. Stringendo le dita tra i suoi capelli lo tiro verso di me, e lui sospira di piacere. Con un fremito improvviso, mi copro da capo a piedi di goccioline di sudore. La tensione in me cresce; le mie cosce si irrigidiscono. I suoi baci si fanno più profondi, la sua lingua più audace. Sento che mi sta portando verso la pienezza, ogni colpo come il precedente, l'ultimo uno stimolo che mi catapulta in un'altra dimensione, dove ogni terminazione nervosa è investita da un'ondata di calore e ogni muscolo si agita senza più controllo. Lui alza la testa e mi bacia il ventre; io scivolo sul suo torace e lo abbraccio forte. «Mmm. Adesso posso proprio dormire.» «Già» dice, costernato. Mi allungo indietro e gli faccio solletico sullo stomaco, e poi ancora più in basso. «Sembri avere bisogno di un po' di attenzioni prima che si vada a dormire.» Cerca di avere un'aria imperturbabile, ma non me la dà a bere. Slaccio cintura e pantaloni, poi cerco di mettergli il preservativo con una mano sola. «Dev'essere come quando da giovane imparavi a slacciare il reggiseno a una ragazza.» Ride. «Te la cavi niente male.» «Fatto. Va tutto bene?» Mi fa abbassare il viso e mi bacia ancora, piano, nonostante il desiderio che prova. Per gioco gli mordo il labbro inferiore, per vedere quant'è impaziente, ma lui continua a baciarmi. Capisco presto ciò che lui sembra già sapere: che lo voglio dentro di me con la stessa intensità con cui lui desidera andarci. «Hai vinto» dico scivolando indietro. «Come va?» «Andrà benissimo tra un minuto. Fai piano.» «Sto contando.» I suoi occhi brillano. «Adesso non è facile stare fermo.» Appoggia le mani sulle mie gambe e lentamente mi penetra, facendomi restare senza fiato. Quindi inizia a muoversi, mandandomi avanti e indietro con regolarità. Vedo che è felice, ma vedo anche che si sta trattenendo. Ha paura che io sia fragile.
«John, non sono un vaso di porcellana.» «Lo so.» «Stai pensando a quello che ho detto a Thalia.» Lui rallenta i suoi movimenti, poi si ferma. «Non puoi far finta che non faccia parte di te, di averlo completamente superato.» «Non l'ho superato. Ma ne sono al di sopra. Per te è un problema?» «Assolutamente no. Mi preoccupo per te. Voglio prendermi cura di te.» «Allora fallo.» Incomincio a muovermi su di lui, ma John ha un'aria ancora incerta. C'è un solo modo per superare questo momento di disagio: distruggere i suoi preconcetti. È rischioso, ma non posso farne a meno. «Lenz ti ha parlato della mia relazione con il mio insegnante?» gli chiedo guardandolo negli occhi mentre mi muovo. «No, ma ho visto qualcosa nei suoi appunti.» «Lenz te li ha fatti vedere?» «Erano sul tavolo della sala riunioni.» Adesso ha un'aria preoccupata. «Ho dato un'occhiata.» «Cosa normale, no?» «Sono un investigatore. Sono curioso di natura.» «Cos'hai pensato delle cose che hai letto?» «Io non giudico gli altri finché non fanno del male a qualcuno.» «Bene, perché io ero molto innamorata.» «Mi dispiace per quello che è successo.» Inarco la schiena, John chiude gli occhi e ansima. «Sai cosa mi piaceva di quel rapporto?» «Cosa?» «Quando andavo a scuola dopo essere stata con lui il giorno prima o quel mattino stesso, nessuno sapeva niente. Ma io sì. Potevo ancora sentirlo. Sapevo di appartenergli.» «Non sembra una cosa da te, volere appartenere a qualcuno; a nessuno.» «Ciò dimostra quanto tu mi conosca. Sono indipendente quanto basta, giusto?» Mi sistemo e incomincio a muovermi con dei piccoli movimenti circolari. «Sai una cosa?» «Cosa?» mi chiede con voce roca. «Dopo che il Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie ci avrà dato il via libera, sai cosa voglio fare?» «Cosa?» «Voglio che tu mi riempia. Che tu marchi il tuo territorio ogni giorno, così ti posso sempre sentire.»
«Cristo, Jordan...» Stringendo i muscoli appoggio le mani sul suo torace e spingo. Lui ansima di piacere, i suoi occhi si muovono alla ricerca dei miei nel tentativo di scoprire chi sono, in una frazione di secondi. Che uomo assurdo. Solo le mie nevrosi richiederebbero anni di indagini. Si morde il labbro per il dolore alla gamba e stringe i miei polsi tra le mani. «Adesso mi vedi,» sussurro «e io vedo te. Io so che cosa vuoi, come lo vuoi. Sono una persona adulta in tutto e per tutto, John. Puoi fare quello che vuoi. Tutto quello che vuoi.» Finalmente si libera da se stesso, dall'idea che io sia da proteggere e lascia spazio al suo desiderio per me. Mi afferra i fianchi e li spinge verso il basso mentre si muove dentro di me, senza preoccuparsi di niente altro, né di me né della sua gamba, ma solo di penetrarmi il più profondamente possibile. Il letto che prima scricchiolava ora batte contro il muro e la lampada sul tavolino cade a terra, ma non importa. Afferro con tutte le mie forze la testiera del letto e tengo John contro il materasso finché non grida e non è percorso da spasmi che potrebbero uccidere un uomo, ma che in realtà lo riportano, sudato e ansimante, in vita. Quando crolla sul cuscino, io cado vicino a lui. «Caspita» esclama senza fiato. «Sei fantastica.» «Esagerato.» «Come ti senti?» «Esattamente come te. Credi che faccia così con tutti?» «Non sapevo.» «Beh, adesso lo sai.» Lui sorride felice. «Ti amo Jordan.» «Vai adagio. Sei sotto choc.» «Hai ragione. Non sono stato... voglio dire, non mi sentivo così da...» «Da quando?» Sbatte le palpebre e guarda il soffitto. «Stavo per dire dal Vietnam.» La lieve euforia che provo svanisce. «Sei stato con delle vietnamite quando eri là?» «Lo abbiamo fatto tutti.» «Erano belle?» «Qualcuna sì.» «Diverse dalle altre?» «Intendi dire a letto?»
«Sì, ma non solo. Non so. Penso a quello che ha detto de Becque; a Li, la donna che abbiamo conosciuto alle Cayman. Ti eri innamorato di loro?» Mi sta guardando, ma i suoi pensieri sono a migliaia di chilometri di distanza. «L'ho visto capitare molte volte. Laggiù la gente crede che capiti perché le vietnamite sono più sottomesse delle americane, ma questo non c'entra. Erano semplicemente spontanee; molto schive e al tempo stesso molto aperte. Erano seducenti senza volerlo. Conoscevo un tipo che disertò per restare con una di loro.» «E con me ti sei sentito come con loro?» «Non allo stesso modo, ma con la stessa intensità.» Mi tocca la guancia. «Stai pensando a tuo padre, vero?» «Sì.» «Credi che potrebbe essere rimasto là per scelta?» Annuisco, incapace di parlare. «Jordan, io non sono come lui.» «Lo so. Tu sei come gli uomini che lui fotografava.» «Cosa vuoi dire?» Sul soffitto della stanza c'è una macchia d'acqua. La casa di John, dopo tutto, non è perfetta. «Che loro erano più reali di lui. Mio padre sembrava riportare in vita quelle persone, e in un certo senso lo faceva, proprio come faccio io. Noi rendiamo reali certe cose per il resto del mondo. Ma il resto del mondo non è poi così importante. Le fotografie di mio padre non resero immortali quei soldati, come qualcuno ha detto. Sono state le loro azioni a renderli tali. E qualunque cosa abbiano fatto si sta ripetendo, credo, da qualche parte. Tutto. Tutto quanto e in ogni momento. Parlo come una pazza, ma dopo tutto vivo sulla costa occidentale, no?» «Non parli affatto come una pazza. Le cose che ho visto e che ho fatto sono sempre vive in me. Sai perché non soffro di disturbi post-traumatici da stress? Perché non c'è nessun post, nessun dopo. È qualcosa con cui convivo. A volte è più vicino, altre volte più lontano.» «Dimmi una cosa, John. La verità. Credi che mio padre sia coinvolto in questa storia?» «No» dice con lo sguardo fermo. «Ma prima lo pensavi.» «Me lo chiedevo, tutto qui. Non so ancora cosa sia successo. Ma se tuo padre è coinvolto, non può esserlo che con de Becque.» «Ma non ci credi.»
«No.» «Perché?» «È una sensazione viscerale.» Poso la mano sul suo ventre piatto. «Non ce n'è molta.» «Vedo che non ti è passata la voglia di ridere.» «È la solita vecchia alternativa: ridere o piangere.» Gli massaggio piano l'addome. «Perché non dormi un po'?» Scuote la testa. «Non posso. Non con Thalia ancora là fuori. Non posso mai dormire quando le cose sono vicine alla svolta.» «Vuoi che ti prepari qualcosa, magari un caffè?» «Un caffè va benissimo.» «E mangiare? Hai qualcosa nel frigorifero?» «Sai cucinare?» Rido. «Per lo più piatti stranieri adatti per un fuoco da campo. Ma non credo che esista una ragazza del Mississippi che non conosca le cose basilari.» «Nel congelatore ci deve essere del petto di pollo.» «Hai anche del riso e delle cipolle?» «Forse.» «Allora faccio un jambalaya.» Lo bacio sul mento e scendo dal letto. «Potresti portarmi le foto dell'Argus?» «Credo che potrebbero aspettare, ma le porto lo stesso.» Prendo la cartellina appoggiata sul tavolino e la lancio sul letto. «Quante ne hai già guardate?» «Non so. Finché non hanno regolato la sensibilità del programma, ho guardato una ventina di versioni dello stesso viso prima di riuscire a riconoscerlo come se fosse un volto nuovo.» «Prenditela con calma. Focaccine e jambalaya sono in arrivo.» Vado in cucina e cerco di raccapezzarmi, ma ho appena messo il pollo surgelato sotto l'acqua corrente, quando sento John che mi chiama. Qualcosa nel tono della sua voce mi paralizza e resto impietrita con la mano sul rubinetto. Poi corro in camera da letto, immaginando di trovarlo bluastro a causa di un coagulo distaccatosi in seguito all'intenso rapporto sessuale che abbiamo avuto. «Io la conosco» mi dice agitando un foglio di carta verso di me, ormai sulla soglia. «Dove l'hai conosciuta?» chiedo, prendendo la fotografia. Ho tra le mani
il primo piano di una ragazza bionda di circa diciotto anni, che pare la riproduzione di un adulto, sebbene il viso non denoti ancora una personalità ben definita. «È una delle persone scomparse che stavi studiando?» «No. L'ho vista anni fa. A Quantico.» «Mi stai dicendo che la conoscevi? La conoscevi di persona?» Lui scuote la testa. «No. Ogni anno a Quantico riceviamo i poliziotti municipali e quelli statali. Per il programma National Academy. La maggior parte ha un caso che li ossessiona da anni, che non sono riusciti a risolvere o che è rimasto loro sempre in mente. A volte si tratta di un solo omicidio, ma in genere sono due o tre casi che a loro paiono collegati. Questa me l'ha mostrata un investigatore della polizia in visita a Quantico.» «Un poliziotto di New Orleans?» «Questa è la cosa strana: credo che fosse di New York. È un caso molto vecchio.» La mia mente è in preda a una strana eccitazione «Vecchio quanto?» «Dieci anni? Ti ricordi che al Camellia Grill ti dissi che stavo lavorando a qualcosa? Che te ne avrei parlato se ci fossero stati degli sviluppi? Beh, forse ci sono.» «Cosa vuoi dire? Di cosa parli?» «Il nostro sospettato più giovane è Frank Smith, che ha trentacinque anni. Chi compie crimini in serie è una persona di mezz'età che un bel mattino si sveglia e decide di cominciare a fare fuori la gente. La squadra di Baxter stava controllando i luoghi di residenza di tutti e quattro i sospettati per vedere se c'erano stati crimini insoluti. In Vermont, la patria di Wheaton, e a Terrebonne Parish, dove è cresciuta la Laveau, è stato facile. Restava New York, la città di Smith e Gaines, per non parlare di un possibile complice. Di fatto tutti loro hanno un legame con New York. Ma quando si parla di persone scomparse a New York, significa migliaia di individui solo andando indietro di qualche anno. Queste connessioni dovrebbe farle il computer del centro di coordinamento per la cattura dei criminali violenti, ma la polizia non sempre segue la procedura, e lo faceva ancor meno nel passato. Allora io ho pensato: e se a New York ci fossero degli omicidi irrisolti con solo un paio di elementi in comune con il nostro?» «Tipo...?» «Donne rapite presso negozi di alimentari, o lungo gli itinerari di corsa, prese dalla strada senza lasciare nessuna traccia, nessun testimone, niente.
Una somiglianza rilevata per istinto professionale, più che per ovvie similarità tra le vittime.» «Hai controllato?» «Ho telefonato ad alcuni investigatori della polizia che avevano partecipato al programma Academy e ho chiesto di dare un'occhiata ai loro vecchi archivi. Non era una richiesta da poco, ma ho dovuto farla.» «Hai parlato con il poliziotto che ti mostrò questa donna?» «No, adesso è in pensione. Nessuno si è ancora fatto vivo. Ma questa donna...» «La ricordi ancora?» «Te l'ho detto prima, le facce sono il mio forte. Questa ragazza era giovane e bella, e mi è rimasta bene impressa. Anche quell'investigatore. Adesso che ci penso, lei era la sua informatrice. Mi puoi portare il cordless?» Gli dò il telefono e lui chiama l'ufficio e chiede di Baxter. «Sono John,» dice «credo che abbiamo in mano una traccia... roba molto grossa. Ci serve che i nostri di New York si mettano in contatto con la polizia del posto senza perdere tempo...» Sono seduta sul letto e osservo il ritratto fatto dall'Argus: un'immagine stranamente non umana, eppure con una somiglianza sufficiente a risvegliare un ricordo vecchio di dieci anni nella mente di John. In cuor mio ringrazio il fotografo che mi parlò dell'esistenza di Argus. «Jordan?» mi chiede John dopo avere riagganciato. «Hai idea di cosa vuol dire?» «Vuol dire che mia sorella non è stata la vittima numero cinque. Il responsabile, chiunque esso sia, ha cominciato a rapire donne più di dieci anni fa. A New York.» Lui mi stringe il braccio. «Adesso siamo vicini. Davvero.» CAPITOLO VENTITREESIMO Sono a casa di John, sdraiata nella vasca da bagno, immersa nell'acqua calda fino alle orecchie, un piacere che mi sono guadagnata chiudendo con una pellicola di plastica i fori dello scarico. Le finestrelle nel muro sopra la mia testa stanno lentamente cambiando colore, dal nero sono passate al blu: è il primo segno dell'alba che si avvicina. Anche se non mi sento riposata sono meno esausta di ieri. La notte scorsa è passata in un turbinio fatto di accadimenti. In seguito al
riconoscimento dell'immagine di Argus da parte di John, Baxter ha dato la sveglia ai poliziotti del turno di notte al dipartimento di polizia di New York. Grazie alle foto dei dipinti astratti delle "Donne Addormentate" elaborate dal programma Argus, i poliziotti di New York sono riusciti a identificare sei delle otto vittime, ancora sconosciute, del caso NOKIDS. Dopo l'identificazione le parti della storia si sono ricostruite da sé. A New York e dintorni, tra il 1979 e il 1984, operò un rapitore-assassino in serie senza che nessuno fosse riuscito a collegare tra di loro più di tre crimini. Le vittime erano prostitute e autostoppiste, categorie che non rientrano certo nella lista delle priorità del dipartimento di polizia di New York. Il significato della scoperta fu semplice e devastante: l'artista che ha dipinto le "Donne Addormentate" non iniziò il suo lavoro a New Orleans due anni fa, ma a New York più di venti anni fa. Le ramificazioni sono state più complesse. Primo, il nostro sospettato più giovane, Frank Smith, all'epoca aveva solo quindici anni. La cosa non era sufficiente a scagionarlo completamente, ma aveva allontanato le indagini da lui. Secondo, in quel periodo non era stata venduta neppure una "Donna Addormentata". Terzo, perché un serial killer dovrebbe uccidere otto donne e poi smettere all'improvviso? Secondo John solo la morte o la prigione può fermare questo tipo di criminale. Ma, cosa ancora più incomprensibile, perché l'assassino, dopo essersi fermato, avrebbe lasciato passare quindici anni prima di riprendere l'attività? John beveva una tazza di caffè dopo l'altra per contrastare l'effetto degli antidolorifici, e sedeva sul sofà elaborando una serie di teorie che potessero rientrare nei parametri del caso. Io, troppo stanca per essergli di alcun aiuto, ero andata in bagno, avevo preso tre Xanax ed ero andata a letto. Mi addormentai subito, ma non ne ricavai alcun sollievo. Con il sonno arrivarono i sogni. Tutti gli stimoli dei sette giorni precedenti, immagazzinati nel mio subconscio, si scatenarono con furia. Non ricordo la maggior parte delle immagini, solo una è chiara nella mia mente: sono al centro dell'enorme capolavoro di Roger Wheaton, una tela circolare che non è affatto una tela, ma un universo fatto, di foresta, di terra, di acqua e di cielo. Dalle radici contorte degli alberi emergono dei volti inquietanti che mi spiano: Leon Gaines, con gli occhi fiammeggianti di desiderio; l'assassino di Wendy; Frank Smith, che salterella tra gli alberi come uno splendido demone e insegue Thalia Laveau, la quale cerca disperatamente, nella fuga, di non far cadere la sua vestaglia bianca. La scena ruota intorno a me come un incubo di Bosch, mentre io resto pietrificata, il pavimento sotto i miei
piedi scorre come un ruscello, e riflesso nell'acqua vedo il volto di mio padre. Il primo sogno dà origine a un secondo, che non riesco a ricordare. A un certo punto della notte John inizia a baciarmi. Sono mezza addormentata e mi sveglio di soprassalto, ma quando riconosco il suo viso, mi calmo e dimentico le mie paure. Mi accerto che abbia messo qualcosa, poi lo tiro sopra e lo lascio muovere adagio dentro di me finché non è scosso dai brividi e si accascia. Mi sono addormentata prima che lui scivolasse via da me, catturata di nuovo in una spirale discendente che mi trascinava in un'oscurità illuminata da bagliori accecanti. Il telefono suonò incessantemente per tutta la notte, e anche sotto l'effetto del calmante mi agitavo a ogni squillo. Finalmente verso le quattro divenne muto, e John si addormentò profondamente. Adesso con l'arrivo dell'alba, ha ripreso a suonare. Vorrei lasciare dormire John, ma non ho nessuna intenzione di uscire da quest'acqua meravigliosa per parlare con un poliziotto della omicidi di Queens. Al terzo squillo sento gemere le molle del letto e una voce roca che dice: «Kaiser». Dopo pochi istanti aggiunge: «Dove?...Quando?... Va bene. Arrivo». Dopo dieci secondi John entra zoppicante in bagno, ha l'aria arruffata, ma è completamente sveglio. «L'equipaggio di un rimorchiatore ha ripescato dal fiume il cadavere dell'UNSUB. Otto chilometri a valle del punto in cui è affogato.» Sento un'ondata di adrenalina nelle vene. Mi alzo e afferro un asciugamano. «Baxter ha mandato la scientifica sul posto in elicottero per avere le impronte digitali del morto. Saranno di ritorno in ufficio prima che noi riusciamo ad attraversare il ponte.» «Come va la gamba?» «È sempre al suo posto. Vestiti. Stiamo per conoscere l'uomo che ha cercato di rapirti.» Quando arriviamo in ufficio troviamo Baxter e Lenz che bevono caffè nella sala computer. Tre tecnici con le cuffie siedono davanti a una fila di terminali di computer che mostrano dei dati in continuo mutamento, mentre sopra di loro un enorme video mostra tutte le possibili vie di accesso all'ufficio. «Per arrivare hai violato il limite di velocità» commenta Baxter, ma fa a
John l'occhiolino. «Le impronte sono arrivate in elicottero cinque minuti fa. Sono già nello IAFIS.» Lo IAFIS, mi ha spiegato John mentre stavamo venendo in ufficio, è il Sistema Integrato Automatizzato di Impronte Digitali, una banca dati contenente oltre duecento milioni di impronte. «Abbiamo la priorità. Se l'impronta è nella banca dati avremo la risposta a momenti» spiega Baxter. Il dottor Lenz interviene dicendo: «Quando iniziai come consulente, il lavoro era fatto controllando uno schedario cartaceo». «Dov'è il cadavere?» domanda John. «È diretto all'obitorio di Orleans Parish. Sembrava che ci fossero quattro ferite da arma da fuoco.» «Signore?» dice una voce femminile diretta a Baxter «abbiamo l'impronta, combacia al cento per cento.» Il tecnico manovra il mouse e preme un pulsante. Sul suo terminale un'enorme impronta si sovrappone perfettamente a un'altra. «A chi appartiene?» chiede Baxter mentre noi ci raduniamo intorno allo schermo. Sull'angolo superiore destro c'è una fotografia, il viso giovane dell'uomo che ieri ha ucciso Wendy sull'argine. «Conrad Frederick Hoffman» dice il tecnico. «Ex detenuto, nato a Newark, New Jersey, nel 1952.» I tre uomini si fanno tesi. «Il crimine?» «Omicidio.» «Dove ha scontato la pena?» chiede John. «A Sing Sing,» aggiunge il tecnico «nello stato di New York.» Non avevo mai sentito un silenzio così denso di significato. All'unisono i tre dicono: «Leon Gaines». «In che periodo Hoffman è stato a Sing Sing?» chiede Baxter. Mentre il tecnico cerca sullo schermo, John batte sulla spalla del tecnico che gli è seduto seduto vicino e dice: «Cerchi Leon Isaac Gaines. Devo sapere il periodo esatto in cui è stato in prigione». «Hoffman ha fatto quattordici anni per omicidio,» spiega la donna «dal 1984 al 1998.» «Leon Isaac Gaines,» dice il suo collega «due periodi a Sing Sing; il primo dal 1973 al 1978, il secondo dal 1985 al 1990.» «Figlio di puttana» esclama John. «C'è una sovrapposizione di cinque anni. Si conoscevano senz'altro. Inoltre, tutti e due erano in libertà al mo-
mento degli omicidi a New York.» «A volte tutti i conti tornano,» commenta Baxter «torniamo al Centro Operativo.» «Dobbiamo contattare il direttore di Sing Sing,» spiega John «e tutti i detenuti di quel periodo che riusciamo a rintracciare. Non solo compari di Gaines, anche tutti quelli che erano coinvolti nel corso d'arte tenuto in prigione.» John prende il telefono più vicino. «Mi passi il Centro Operativo Emergenze per favore.» Annuisce a Lenz, che evidentemente riesce a leggergli nel pensiero. «Parla John Kaiser. Dov'è Leon Gaines in questo preciso momento?... Cosa ci fa lì?... Lo avete sotto sorveglianza?... Quanti uomini?... Fatevi appoggiare da un elicottero, non voglio correre il rischio di perderlo quando esce... Bene. Dov'è la sua ragazza?... Va bene.» «Dov'è Gaines?» chiede Baxter non appena John ha riagganciato. «È appena entrato al supermercato, al Wal-Mart di Kenner. Non è un po' presto per fare la spesa?» Baxter si stringe nelle spalle. «È un alcolizzato e un tossicodipendente, e si è appena svegliato dopo dodici ore di sonno.» Il capo dell'Unità di Supporto Investigativo, dietro ai due tecnici, stringe loro le spalle. «Grazie molte. Ottimo lavoro.» Il gesto è un po' eccessivo, ma quando usciamo i tecnici hanno un'espressione molto fiera. Quarantacinque minuti più tardi siamo riuniti nell'ufficio dell'ASR Bowles, tutti di umore nero. L'ora di telefonate a Sing Sing non ha dato i risultati sperati. Nessuno è riuscito a stabilire l'esistenza di un legame personale tra Conrad Hoffman e Leon Gaines, nonostante i due abbiano trascorso un periodo comune di cinque anni nello stesso penitenziario. «Abbiamo tre possibilità» osserva Baxter. «Prima: arrestare Gaines e interrogarlo. Seconda: interrogarlo senza arrestarlo. Terza: aspettare finché non abbiamo ulteriori informazioni.» «Non potete aspettare!» grido incredula. «Avete già sprecato troppo tempo. Thalia Laveau potrebbe essere moribonda da qualche parte!» «Credo che sia già morta» commenta Lenz, senza nemmeno guardarmi. «E anche se non lo fosse, Gaines potrebbe non sapere dove si trova. Sempre che lui in questa faccenda sia semplicemente il pittore.» «Lei crede che sia morta?» chiedo sporgendomi dalla sedia. «A chi cavolo importa ciò che lei pensa! Quante volte ci ha azzeccato nella scorsa
settimana? Una?» I quattro mi guardano stupiti, ma io non riesco a contenere la mia rabbia. «Adesso Thalia si trova nello stesso posto dove sono state tutte le "Donne Addormentate". In una casa della morte, come voi l'avete chiamata all'inizio. La casa con il cortile. Quella che voi non riuscite a trovare. E se il pittore è Leon Gaines, Thalia sta aspettando un artista che non si farà mai vedere, perché sa che lo tenete sotto controllo. Lei potrebbe morire mentre lui passeggia al Wal-Mart, sognando di farle il ritratto e ridendo di noi!» «È vero,» commenta John «ma Gaines non può aiutarci con Thalia senza ammettere di essere il complice di un serial killer. Le famiglie delle vittime ci metterebbero in croce. La triste verità è che noi adesso non abbiamo alcun modo di far parlare Gaines. Per lo meno nessun modo legale.» Le sue parole sono seguite da uno strano silenzio che Baxter si affretta a interrompere. «Sei ore» dice. «Per sei ore seguiamo ogni traccia possibile, ogni informatore a Sing Sing. Controlliamo ogni episodio del passato di Gaines per essere sicuri che non ci sia sfuggito qualcosa. Passiamo al setaccio la sua vita. Se troviamo qualcosa che possiamo usare contro di lui, bene; altrimenti gli saltiamo addosso come una valanga di merda e cerchiamo di convincerlo a parlare.» «Cercare di bluffare con un ex prigioniero cresciuto sulla strada?» borbotta Lenz. «Non abbiamo alternativa!» urla Baxter, in un insolito atteggiamento poco professionale. Nel silenzio che segue chiedo: «E la ragazza? Linda Knapp?». «Cosa intendi dire?» domanda Baxter. «Potreste parlarle quando lui non c'è; lei potrebbe ritrattare l'alibi. L'ha già fatto una volta.» «Poi è ritornata da lui ben sapendo che le avrebbe fatto cambiare idea a furia di botte.» «Adesso è a casa da sola,» aggiunge pensoso Lenz, guardandomi «lui è al supermercato.» «Maledizione!» commenta Baxter, capendo solo in quel momento quello che lo psichiatra ha già inteso. «Jordan, ieri per poco non ti facevano la pelle. Non ti è bastato?» «Hoffman è morto; Gaines non è in casa. Datemi il microfono e mandatemi dalla ragazza. Se Gaines va verso casa, bussate alla porta e io mi precipito fuori.» Baxter non è convinto, ma l'ASR Bowles sembra non avere obiezioni, e
John sa bene che a questo punto è meglio non intervenire. «Sapete benissimo che una donna ha maggiori possibilità di farla parlare di quante ne avete voi» insisto. «Abbiamo un sacco di agenti donne» sottolinea Baxter. «Ma nessuna conosce il caso come me. Nessuna di loro ha qualcosa di personale in gioco. Knapp capirà che per me la cosa è importante.» «Ha ragione,» interviene John «non possiamo convincere la donna di Gaines a ribellarsi a lui con qualche frase di circostanza. E poi Knapp ha già incontrato Jordan.» Poi guarda Baxter dritto negli occhi con sguardo deciso. «Daniel, non abbiamo altra scelta.» «Maledizione» mormora lui, alzando le mani in segno di resa. «Andiamo là prima che Gaines abbia riempito il carrello della spesa.» Baxter e il dottor Lenz siedono curvi nel furgone di sorveglianza parcheggiato a un isolato di distanza dalla casa lunga e stretta di Gaines. Io sono nella Mustang ferma dietro al furgone. Sotto i jeans, alla mia caviglia destra ho la calibro 38 superleggera di John. Lui si sporge all'interno appoggiandosi al mio finestrino e indica il mio piede. «Tutto a posto?» chiede, sapendo che Baxter e Lenz ci possono sentire. «Pronta ad andare.» Vedendo la sua espressione preoccupata, infilo la mano nella camicetta e copro con il polpastrello il microfono. «Non ce ne sarà bisogno.» «È proprio allora che serve» mormora. «Come la macchina fotografica che tieni nel marsupio.» Mi posa la mano sul braccio. «Non ho mai incontrato un vero e proprio serial killer donna, ma ci sono capitati casi in cui le donne avevano aiutato gli uomini a compiere delitti orrendi, anche in serie. E Linda Knapp corrisponde a quel tipo di persona: poca autostima, sotto il dominio di un uomo violento...» «John, voglio solo parlarle. Se mi attacca prometto di sparare. Lasciami andare, prima che Gaines torni.» Mi stringe il braccio, poi si allontana dall'automobile. Io gli faccio un saluto e parto. Il quartiere dove Gaines vive è un posto deprimente di prima mattina. Ho l'impressione che anche le persone anziane si mettano in moto ben dopo il sorgere del sole. Dopo avere accostato al marciapiede scalcagnato di fronte alla casa di Gaines, spengo il motore e siedo immobile per un momento. Non voglio sembrare troppo ansiosa. Come un'attrice che si prepara per una scena, lascio sfumare le preoccupazioni del momento e faccio e-
mergere le emozioni che tengo nascoste: la paura per Jane, la nostalgia di mio padre, l'umiliazione dello stupro, le cose che detesto, ma che ora sono mie alleate. Mentre salgo al portico gli scalini scricchiolano. La squadra di sorveglianza dice che la loro telecamera a infrarossi mostra che la Knapp è ancora a letto. Avevo pensato di telefonare per avvertirla, ma tutti erano d'accordo nel ritenere che le avrei fornito un'occasione per rifiutare di incontrarmi. Prima di essere assalita dai dubbi, busso alla porta. Tre colpi decisi. Non ottengo risposta, quindi busso ancora e con tale forza da farmi male. «Dai» dico a bassa voce. Lei non viene alla porta. «Forse è in overdose» dico rivolta la microfono nascosto. Avanzando in punta di piedi sbircio dalla finestrella sopra la porta. L'interno è la stessa deprimente tana da cui l'altro giorno non vedevo l'ora di uscire. Il pavimento è cosparso di indumenti sporchi e di scatole di pizza. Il cavalletto è alla mia sinistra, spoglio come uno scheletro. Alla mia destra c'è una parete vuota, che più avanti si apre nel corridoio. Inaspettatamente mi viene la pelle d'oca per l'agitazione. C'è qualcosa che non quadra. Cosa vedo? "Domanda sbagliata" dico a me stessa, mentre la preoccupazione si tramuta in ansia. Cosa non vedo. Ecco, manca il piccolo quadro astratto di Roger Wheaton, appeso alla parete alla mia destra. È scomparso. Per quale motivo Gaines avrebbe dovuto toglierlo dal muro? Come risposta mi torna alla mente la strana voce di Frank Smith: "Stronzetto... Roger gli regalò una coppia di quadri astratti, piccoli ma di buona fattura. Qualche settimana più tardi Gaines ne aveva già venduto uno, di sicuro per comperarsi dell'eroina". Gaines ha portato via il quadro per venderlo. Ma perché? Per droga, o per il denaro necessario alla fuga? Afferro la maniglia e cerco di aprire la porta. È chiusa, ma il vecchio pannello di legno traballa nell'intelaiatura. Un bambino di otto anni potrebbe aprire questa porta con un calcio. Se lo facessi io, Baxter mi butterebbe fuori di qui così in fretta che non riuscirei nemmeno a raggiungere la camera da letto. Tenendo le mani saldamente attaccate alla maniglia, appoggio la spalla alla porta e mi spingo in avanti. Il legno e il metallo scricchiolano e cigolano, persino sotto la spinta dei miei modesti sessanta chili. Tenendo la gamba contro la porta, mi inclino all'indietro, poi mi butto in avanti con
l'imbottitura della mia spalla. La porta cede con un debole scricchiolio. «Salve, Linda» dico a beneficio dei miei ascoltatori seduti nel furgone. «Se posso vorrei parlarti un momento.» Sono investita da un odore di feci. Mi tiro indietro, percependo la morte nell'aria, ma la mia mente mi ricorda che se le telecamere a infrarossi vedono Linda Knapp sul letto, questo vuole dire che è viva. O morta di recente, suggerisce una debole voce dentro di me. Basterebbe una parola per fare precipitare qui i tizi del furgone, ma se li chiamassi perderei ogni opportunità di interrogare Linda da sola. Forse lei è semplicemente addormentata. L'odore potrebbe arrivare da un gabinetto dove non è stata tirata l'acqua. Mi piego in avanti, estraggo la calibro 38 di John dal fodero, e ritorno in fretta nella prima stanza reggendo la pistola con entrambe le mani. Tengo lo sguardo fisso davanti a me, pronta a captare il più piccolo movimento. L'ingresso è così angusto che provo una sensazione di claustrofobia. Di fronte a me, leggermente a destra, c'è una porta aperta. Abbassandomi il più possibile porto la testa oltre la soglia. Non c'è il letto, ma solo un materasso con una montagna di coperte, appoggiato sul pavimento e circondato da indumenti sporchi. Nella stanza c'è un armadio a muro con la porta socchiusa. La stanza sembra vuota, ma la telecamera dice il contrario. Mentre sono ferma in piedi, la massa di coperte sul materasso assume una forma riconoscibile, una forma umana. Senza staccare gli occhi dalla porta dell'armadio a muro, corro al letto e scosto le coperte. L'odore mi urta lo stomaco, ma ciò che vedo è ancor peggio. Sdraiata sul materasso c'è una donna imbavagliata con del nastro e avvolta in una coperta, la testa incrostata di sangue, un occhio aperto che guarda cieco il soffitto. «John?» mormoro, senza emettere alcun suono riconoscibile. «John, ho bisogno di aiuto. Aiuto!» La donna è Linda Knapp; lo capisco dalla linea della mandibola e dai capelli biondi lisci e flosci. Mi chino su di lei e metto due dita sotto la mandibola cercando di sentire il polso carotideo. Percepisco un debole pulsare. Stacco il nastro adesivo dalla sua bocca il più dolcemente possibile per permetterle di respirare. Poi la piccola casa vibra sotto i passi di piedi maschili e una voce d'uomo urla: «Agenti federali! Gettate le armi!». John e Baxter entrano di corsa ad armi spianate, ma non c'è nessuno a cui sparare.
«È viva!» grido. «Ha bisogno di un'ambulanza! Presto!» Mentre Baxter dà ordini alla radio, John ispeziona l'armadio a muro, e il dottor Lenz corre al letto, si china ed esamina la donna ferita. «Ha un trauma cranico serio» commenta. «Deve averla colpita con un oggetto pesante.» John indica una lampada di metallo priva di paralume, abbandonata sul pavimento e con la lampadina rotta. La base, pesante e quadrata, è sporca di sangue. «Arrestate subito Gaines» ordina Baxter via radio. «Consideratelo armato ed estremamente pericoloso, ma cercate di non sparargli. Date conferma non appena possibile.» «L'ha avvolta in una termocoperta,» osserva Lenz «a temperatura quasi corporea. Anche se fosse morta, ce ne saremmo accorti tardi.» Alza le palpebre socchiuse della Knapp, poi le lascia richiudere. «Saremo fortunati se riuscirà mai a dirci qualcosa.» «Non ha senso» commenta John. «Non picchi a morte la tua ragazza e poi esci per fare la spesa al Wal-Mart.» «Il quadro è sparito» dico lentamente. «Quale quadro?» chiede Lenz. «Quello che Wheaton gli aveva regalato. Deve averlo portato con sé per venderlo.» «È lui» dice John. La radio di Baxter fa rumore. «Signore, parla l'agente Liebe. Gli agenti all'interno hanno perso di vista il sospetto un paio di minuti fa. Ora siamo in forze nel negozio, ma è pieno di gente. Credo che...» «Chiudetelo!» ordina Baxter «non fate uscire nessuno.» CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO Il Wal-Mart è come una pentola a pressione pronta a esplodere. Mentre raggiungiamo il posto a sirene spiegate, vedo un parcheggio pieno a metà di automobili, ma senza anima viva, e, anche se entriamo nel supermercato dall'ingresso fornitori, sentiamo filtrare il sordo vociare della folla arrabbiata attraverso le porte di servizio. Nei dodici minuti che ci sono serviti per arrivare qui, i due agenti infiltrati tra i clienti e gli altri quattro, impegnati a controllare i corridoi e le toilette, non hanno trovato alcuna traccia di Leon Gaines, anche se la sua macchina è ancora nel parcheggio.
Nella stanza che ospita il servizio di sicurezza, sul retro del negozio, c'è una fila di monitor collegata a dozzine di telecamere dislocate in vari punti del grande magazzino. Baxter mostra le sue credenziali al capo della sicurezza, quindi chiede al tecnico che controlla i videoregistratori di fare avanzare rapidamente la registrazione, a partire dai tre minuti precedenti la segnalazione dell'agente Liebe, che annunciava di avere perso di vista Gaines, fino al momento della chiusura del supermercato. «Cos'ha fatto questo tizio?» domanda il capo della sicurezza. «È ricercato dalla polizia federale,» dice John «al momento non posso dire altro.» «Non credo che possiamo trattenere legalmente i clienti all'interno del negozio. La società potrebbe essere citata per danni.» Baxter si allontana dallo schermo. «Il negozio è stato chiuso dal governo federale. Non ha nessun motivo di preoccuparsi.» «Ecco Gaines» esclama John alle spalle del tecnico. Sullo schermo si vede Leon Gaines spingere un carrello con delle cibarie nel corridoio della ferramenta. Si muove a scatti, come un uomo in cerca di una dose. Nel carrello c'è una confezione di latte, una di hamburger, degli articoli da toeletta e una copia della rivista «Hot Rod». Dopo dieci secondi esce dall'inquadratura. La radio di Baxter crepita. «Signore, parla l'agente Liebe. Abbiamo dovuto arrestare un anziano signore nei pressi dell'ingresso principale.» Lenz sogghigna a bassa voce. Baxter tiene la radio vicino alla bocca. «Non dire niente.» «Ci mostri quello che inquadrano le telecamere puntate sull'uscita» dice John, «Non vuole cercare di seguirlo da altre inquadrature?» «Solo l'uscita.» Sullo schermo compaiono un paio di porte vetrate automatiche, e dietro l'ampia uscita. «A velocità normale.» Vediamo gente entrare e uscire dal negozio. Alcuni clienti si fermano vicino al sorvegliante per farsi mettere un adesivo sul prodotto che sono venuti a restituire. «Fermi il nastro!» chiede John. «Cosa c'è?» domanda il tecnico, facendo quello che gli è stato chiesto. John indica una brunetta che sta uscendo dalla porta automatica. «È molto più alta di quest'altra donna» dice facendo scivolare l'indice su una
bionda ferma all'ingresso che sembra essere almeno trenta centimetri più bassa dell'altra. Poi torna a indicare la prima persona. «Penso che sia Gaines.» Baxter si china di fronte allo schermo e socchiude gli occhi. «Maledizione. Hai proprio ragione. Si è fatto la barba, e con cappotto, parrucca e borsetta è passato sotto gli occhi dei nostri.» «Deve essersi portato dietro un rasoio a batterie» commenta Lenz. Baxter si alza e rivolgendosi al capo della sicurezza dice: «Lasci andare tutti quanti». L'uomo annuisce e va di corsa a sedare l'imminente rivolta. «Sarà uscito da almeno un quarto d'ora» aggiunge John. «Potrebbe essere ovunque.» «Ci troviamo a meno di due chilometri dall'aeroporto internazionale» dice Baxter ad alta voce, poi, portata la radio alla bocca, aggiunge: «Liebe, la tua intera squadra è assegnata all'aeroporto, ma prima passa qui». «Sì, signore.» Baxter tocca l'immagine di Gaines sullo schermo e guarda il tecnico. «Mi può fare una stampa di questa "donna"?» «Certo.» «Ne faccia venti copie. E altre venti di com'era nel reparto ferramenta. L'agente Liebe passerà di qui a ritirarle. Baxter guarda John e chiede: «Si torna in ufficio?». John cammina fino al muro grigio, poi torna indietro, come se il movimento gli potesse fare capire meglio la situazione. «Dovremmo lasciare qualcuno al parcheggio. Tra pochi istanti qualche cliente si metterà a urlare che, mentre era trattenuto all'interno contro la sua volontà, gli hanno rubato la macchina. Non appena conosceremo marca e modello potremo dare l'informazione via radio.» Nella stanza risuona un trillo soffocato. John estrae il suo cellulare dalla giacca. «Pronto, Kaiser... Proprio adesso?... Me lo passi.» Ora fissa Baxter. «Roger Wheaton ha appena chiamato l'ufficio e ha chiesto loro di contattarmi. Ha detto che era un'emergenza.» «Wheaton?» domanda Lenz. «Pronto?» John si copre l'orecchio con la mano e si allontana da noi per concentrarsi. «Sì, John Kaiser... Può uscire dall'edificio?... Capisco. Può farli uscire?... Mi ascolti, signor Wheaton. Se non può portarli fuori, esca lei. Non è sua responsabilità... Stiamo arrivando. Si metta in salvo e aspetti il nostro arrivo.»
John si volta per guardarci. «Gaines ha appena minacciato Wheaton nel suo ufficio al Woldenberg Art Center. Gaines sosteneva di essere stato incastrato dall'FBI e di avere bisogno di denaro per lasciare il paese.» «È armato?» chiede Baxter. John annuisce. «Wheaton gli ha detto che lo avrebbe portato in banca con la sua auto per ritirare i soldi, ma che aveva chiavi e portafoglio nella galleria dove stava dipingendo. Gaines gli ha risposto che se non fosse stato di ritorno entro due minuti avrebbe preso in ostaggio gli studenti e avrebbe iniziato a ucciderli. Nell'edificio ci sono tra i cinquanta e i settanta studenti, completamente all'oscuro di tutto. Wheaton è sceso a un altro ufficio e ci ha chiamati.» «Perché non si è rivolto alla polizia?» domanda Lenz. «Perché ha chiesto di te?» «Ha detto che non voleva che Gaines finisse ammazzato. È realmente preoccupato per quel figlio di puttana.» «Neanch'io voglio che finisca con una pallottola in corpo» intervengo io con voce tagliente. «Forse è l'unico a sapere dove si trovano le donne.» Baxter prende il suo cellulare e preme un tasto di memoria. «Parla Baxter. Mi metta subito in comunicazione con l'ASR Bowles.» Poi guarda John. «Ci serve un elicottero... Patrick? Leon Gaines è all'Art Center di Tulane, probabilmente con degli ostaggi. Ci serve la SWAT al più presto possibile... Quanti elicotteri avete in aria?... Mandali tutti e due al parcheggio del Wal-Mart di Kenner Street. Faresti meglio ad allertare la task force. Accertati che sappiano chi ha il comando delle operazioni a Tulane... Ti farò sapere le novità.» Baxter allontana con un gesto le fotografie che il tecnico gli fa vedere e guarda John. «Fra tre minuti ci aspettano due elicotteri qui fuori. Muoviamoci.» Volando su New Orleans a centocinquanta chilometri all'ora si capisce come mai la città sia definita Città a Mezzaluna. Le parti più antiche sorgono in un'ansa del Mississippi dalla quale convergono o si diramano le strade. Oggi il cielo è coperto e il fiume ha il colore dell'ardesia, ma un largo fascio di luce a sud illumina un'area rosso bruna, familiare. John e Baxter sono sul primo elicottero; io e il dottor Lenz sul secondo. Sotto di noi, in direzione nord a partire dal fiume, si estende l'Audubon Park fino a St. Charles Avenue, dove, a settentrione, inizia il giardino rettangolare dell'università di Tulane. Mentre l'elicottero oscilla sopra un campo da golf e scende verso l'università, mi assale un forte déjà vu, e co-
mincio a sudare. Sono scesa allo stesso modo, aggrappata a un sostegno e con la macchina fotografica al collo, su tante città: Sarajevo, Maputo, Karachi, Baghdad, San Salvador, Managua, Panama. L'elenco è infinito, ma proprio qui, in questa città distesa ai miei piedi, iniziai la carriera, e il destino potrebbe non resistere alla tentazione di farmela finire là dove l'ho cominciata. Se così dev'essere, accetto il rischio. Dalla radio di bordo si sentono suoni e rumori, mentre un agente dalla sede, cartina universitaria alla mano, guida i piloti verso la piazzola di atterraggio. L'elicottero si abbassa così rapidamente da farmi venire il voltastomaco, e mentre scendiamo mi chiedo se John e Baxter stanno rivivendo i momenti del Vietnam. In un quadrilatero erboso ci aspettano due auto della polizia a luci accese; alle loro spalle, come un messaggero di guerra, si trova un elicottero Huey verde oliva, con il motore principale che gira lentamente. Alla base della Guardia Nazionale vicina al parcheggio dell'FBI ho visto diversi Huey; la SWAT con tutta probabilità dev'essere arrivata con questo mezzo. Mentre osservo il quadrilatero alla ricerca di uomini armati, ci facciamo largo all'interno dell'area fermandoci a circa due metri e mezzo dal primo elicottero John balza dalla cabina di pilotaggio e corre verso di noi, mentre Baxter va dai poliziotti di New Orleans che sono in attesa. «Non va bene!» urla John mentre scendo e corro a testa bassa sotto l'elica. «Gaines ha preso in ostaggio un uomo in un ufficio del terzo piano. Si è avvicinato alla finestra per farci vedere che il tizio ha la pistola puntata alla testa. La SWAT ha stabilito una postazione di comando sotto gli alberi di fronte all'edificio.» Baxter scende di corsa dall'automobile dei poliziotti. «John, andiamo là!» «Chi è il negoziatore?» chiede il dottor Lenz, apparso improvvisamente. «Ed Davis,» risponde John «uno in gamba.» «Questa è una situazione particolare» commenta Lenz, rivolto a Baxter. «Non abbiamo a che fare con un marito sconvolto o un poliziotto che vuole suicidarsi. Ma con un probabile serial killer. Tu sai...» «So cosa vorresti, Arthur,» interviene brusco Baxter «ne parleremo con il comandante della SWAT.» «Parla con Bowles,» dice Lenz «la decisione spetta a lui.» Baxter inizia a correre verso un grande edificio situato all'estremità settentrionale del quadrilatero, che adesso riesco a identificare come il Woldenberg Art Center. Io e John lo seguiamo, con Lenz che soffia alle nostre
calcagna. Avrei dovuto riconoscere la costruzione dall'alto, dati i tre enormi lucernari sulla galleria dove si trova la gigantesca opera di Wheaton in attesa dei primi visitatori. Da questo punto di vista l'edificio assomiglia a scatole di mattoni a tre piani, separate da una sezione frontale ad archi. Se ricordo bene, le "scatole" ospitano le aule, lo studio e gli uffici, mentre la sezione più lunga accoglie la galleria d'arte. Gaines dev'essere all'interno di una delle due sezioni finali. Quanto più ci avviciniamo al complesso, tanto più difficile ci risulta vederlo. La strada è fiancheggiata da enormi querce, che schermano gran parte delle finestre. Sotto uno di questi alberi c'è un gruppetto di uomini che indossano giubbotti antiproiettile neri, con la scritta gialla FBI, acquattati intorno a ciò che sembra essere una mappa. John li raggiunge per primo e inizia subito a conferire con uno degli uomini chini a terra. Baxter prende il cellulare e compone un numero, mentre il dottor Lenz lo sorveglia da vicino. Io mi accosto lentamente per ascoltare il capo della SWAT fare il punto della situazione con John. È un uomo sui trent'anni che porta i baffi e un cartellino d'identificazione che dice "Burnette". «Gaines è ancora al terzo piano,» spiega Burnette «quando riusciamo a vederlo ha la pistola puntata alla tempia dell'ostaggio, ma per la maggior parte del tempo la nostra vista è impedita dalle veneziane. Non ci sono zone più alte su cui appostare i tiratori scelti, quindi faremo salire un uomo con l'Huey e daremo istruzioni al pilota di rimanere in aria. Non è una buona soluzione, ma finché non facciamo mettere delle impalcature qui fuori, non abbiamo altro modo di dare un'occhiata in quell'ufficio. Sul tetto abbiamo due uomini con l'attrezzatura per calarsi giù. Potrebbero scendere e sfondare la finestra, ma non è quello che ho in mente. Abbiamo messo in salvo circa quaranta persone, tra studenti e corpo docente, ma ce ne potrebbero essere una ventina ancora sullo stesso piano in cui si trova Gaines, in piccoli studi privati. Lui ha barricato l'ingresso principale. I ragazzi potrebbero essere ignari del pericolo, o completamente sotto il controllo di Gaines.» «Avete stabilito contatti con lui?» domanda John. «Una segretaria ha appena dato a Ed il numero di telefono dell'ufficio. Lui gli sta parlando in questo momento.» Mentre Burnette ci indica qualcosa al di là della strada, un uomo in abiti civili si infila in tasca un cellulare e corre verso di noi. «Vuole che uno dei nostri elicotteri lo porti all'aeroporto» dice il negoziatore. «Vuole un aereo ad attenderlo che lo porti in Messico. Ho cercato
di discutere, ma lui ha riagganciato. Sembra un duro. Uno che sa come vanno le cose. Credo che non sarà facile.» Baxter si avvicina a Burnette e dice: «L'Agente Speciale Responsabile Bowles ha appena nominato il dottor Lenz negoziatore in questa circostanza. Io ho ricevuto il comando delle operazioni. Se desidera verificare di persona, per me non c'è problema». Il capo della SWAT scuote la testa. «Per me va bene. Lei è di Quantico, vero?» «Sì.» Ed, il negoziatore, sembra pronto a mettersi a discutere, ma improvvisamente qualcuno urla: «Eccolo!». Tre piani sopra di noi, incastrato fra le veneziane, appare Roger Wheaton. Il suo viso allungato è schiacciato contro il vetro della finestra; puntata al suo orecchio si vede una grande pistola. «Maledizione» borbotta John. «Gli avevo detto di uscire.» «Sta cercando di fare l'eroe, proprio come in Vietnam» commenta Lenz. «Faccia il numero dell'ufficio e mi passi il telefono» ordina Lenz al negoziatore. Poi guarda Burnette e aggiunge: «Dica ai suoi tiratori di stare giù». «Lo faccia» aggiunge Baxter. Mentre il negoziatore precedente fa la chiamata, Burnette, il capo della SWAT, dice: «Signor Baxter, il mio tiratore con uno sparo può togliere la pistola dalle mani di Gaines. Può farlo da qui. L'ho visto all'opera due volte in situazioni molto difficili». Baxter scuote la testa. «Per il momento non se ne parla. Non sappiamo quante armi abbia Gaines lassù.» «Sì, pronto?» dice Lenz. «Leon?... Parla il dottor Lenz... Ero a casa tua l'altro giorno... Sì. Sono qui perché hai bisogno di parlare con qualcuno che non sia vincolato alle normali regole... Esatto. Ci sono dei casi che non rientrano negli schemi, e questo è uno di quelli.» Quando guardo la finestra Wheaton è scomparso. Lenz abbassa la voce. «Leon, l'elicottero non è fuori questione, ma ogni cosa ha un prezzo. Così va avanti il mondo... Forse ti sembra di avere il gioco in mano. Ma dài per scontato di conoscere le nostre priorità. Ci sono dodici famiglie più interessate al fatto che tu abbia la pena di morte che alla vita di un artista gravemente malato, che perderebbe forse solo qualche mese di vita.» Ed, il negoziatore, sembra pronto a strappare il telefono dalle mani di
Lenz, ma Baxter alza una mano per invitarlo a controllarsi. «Leon,» dice Lenz con voce irritata «ascoltami. Tu...» La mia mente registra un suono sordo. «Un colpo di pistola!» urla un agente della SWAT. La radio di Burnette crepita. «Tetto. Abbiamo sentito uno sparo. Aspettiamo ordini.» «Nessuno si muova» esclama Baxter. «Mantenete tutti la posizione,» dice Burnette «ma state pronti.» «Mandate su un tiratore con l'Huey,» ordina Baxter «dategli un binocolo a infrarossi. Dobbiamo riuscire a vedere attraverso quelle veneziane.» Mentre Burnette corre verso la quercia, dall'Art Center si sente l'urlo di una donna, quindi si spalanca la porta anteriore dell'ala che alloggia gli studi e una dozzina di studenti si riversa all'esterno come se stessero fuggendo da un incendio. Dietro di loro, corre con una strana falcata un uomo in guanti bianchi. «È Wheaton!» urlo e comincio a corrergli incontro. Mentre un agente della SWAT si lancia in avanti per soccorrere gli studenti, John mi supera zoppicando e afferra Wheaton per il braccio. La bocca e il naso dell'artista sono coperti di sangue. «Tutto bene?» chiede John. «È ferito?» «No» dice Wheaton tra i colpi di tosse. «Abbiamo lottato e Leon mi ha colpito con la pistola. Avrebbe potuto spararmi, ma non lo ha fatto. Credo che non l'avrebbe mai fatto. Ecco perché ho provato.» «Abbiamo sentito uno sparo» dice John con voce tesa. «Ci sono dei feriti?» «Mentre lottavamo è partito un colpo dalla pistola, ma lui non ha sparato a nessuno.» «Adesso è solo?» Wheaton scuote la testa. «Aveva due studentesse barricate in un ufficio vicino. C'è un divano contro la porta. Sapevo che non avrei potuto salvarle, ma pensavo che sarei riuscito a fare uscire qualche studente mentre lasciavo l'edificio.» Wheaton di colpo mi riconosce. «Oh... Salve.» «Sono contenta di vedere che sta bene» gli dico. «Le chiamiamo un'ambulanza» aggiunge John, conducendo l'artista verso il posto di comando. «Ma dobbiamo sapere tutto quello che è in grado di dirci.» «Quella è Sara! Dio mio!» Le urla delle studentesse sono più acute del suono di una sirena.
Alzando gli occhi verso la finestra vedo un'esile brunetta contro il vetro con la canna della pistola alla tempia. «Dovete fare uscire gli studenti!» urla Baxter agli agenti della SWAT. John fa sedere Wheaton sotto la quercia, e un agente con i guanti di gomma alle mani comincia a ripulirgli il viso dal sangue. Baxter, il capo della SWAT e io ci raccogliamo intorno a loro. «Ha notato altre armi oltre la pistola?» chiede John. Wheaton prende la garza dalle mani dell'agente e si asciuga il sangue dalle labbra. «No, ma Gaines ha una borsa.» «Una borsa.» John si gira indietro verso di me. «Non ho visto nessuna borsa nel suo carrello del supermercato.» «Forse era sotto la rivista.» Un forte suono regolare riecheggia dalla facciata dell'Art Center. L'elicottero Huey sul quadrilatero sta salendo in volo a circa quattro metri dalla finestra dove Gaines tiene l'ostaggio. Presto ci sarà un'esecuzione sul posto. John alza la voce per coprire il rumore del rotore. «Gaines le ha detto qualcosa che facesse capire la sua responsabilità nei rapimenti?» «No.» I lunghi capelli grigi di Wheaton danzano nell'aria mentre lui scuote la testa. «Ha parlato di Thalia Laveau?» «Dice di non sapere niente di lei. Dice che lo state incastrando. Ha detto: "Quei figli di puttana hanno bisogno di un capro espiatorio, e hanno scelto me". Voleva dei contanti. Ha un quadro che gli avevo regalato, ma vuole ricavarne il più possibile.» «Sapeva che lei ha chiamato l'FBI?» «Probabilmente.» Le mani di Wheaton incominciano a tremare, ma ho l'impressione che si tratti più di frustrazione che di spavento. «Ma dovevo ritornare là. Se avessi cercato di fare uscire tutti, mi avrebbe sentito, avrebbe potuto essere colto dal panico e fare qualcosa di esagerato. Leon si comporta come se controllasse le cose, ma in fondo è molto instabile. La cosa più sicura era di offrirmi come ostaggio.» «Ci vuole fegato» commenta John, ma l'artista scuote la testa. «Agente Kaiser, Leon non vuole uccidere nessuno. È spaventato a morte. Se gli offrite un modo per cavarsela, lui lo accetterà.» John sembra scettico. «Signor Wheaton, a un certo punto, la notte scorsa o nelle prime ore del mattino, Leon ha picchiato la sua ragazza fino a farla entrare in coma. Poi l'ha imbavagliata e lasciata a morire lentamente.»
Un'ombra di tristezza scende sul volto dell'artista. «Dio mio. L'avevo conosciuta.» La tristezza si trasforma in preoccupazione. «Questa non è una ragione per sparargli. Lui ha le spalle al muro. Dategli una via d'uscita, lo arresterete dopo.» «Non so,» intervengo «ma Gaines può essere l'unica persona al mondo che sa dove si trova Thalia Laveau, mia sorella e tutte le altre.» John guarda al di sopra della propria spalla verso Lenz, che sta digitando rabbiosamente dei numeri al cellulare. «Ci sei riuscito?» «Non risponde.» John ha un'espressione sorpresa, poi prende il cellulare dalla giacca. «Pronto?» urla, proteggendo l'orecchio con la mano. «Grazie. La richiamo non appena sappiamo qualcosa di più.» Rimette il cellulare in tasca e si gira verso Baxter. «Linda Knapp ha ripreso conoscenza. Ha detto di avere minacciato Gaines di dire la verità sul suo alibi e lui ha perso il controllo. Non ha la minima idea di dove sia andato durante le notti dei rapimenti.» «Qualcuno potrebbe aiutarmi ad alzarmi, per favore?» chiede Wheaton. «Credo di stare per vomitare.» Baxter lo fa alzare. Senza smentirsi, Wheaton si piega su se stesso e vomita sull'erba. «Mi dispiace» si scusa, pulendosi la bocca con la manica. «L'ambulanza sta arrivando» dice Baxter. «Sto bene,» interviene Wheaton «davvero. Ma non credo di voler vedere cosa succederà.» John storce la bocca e riprende in mano il cellulare. «Cosa c'è? Cosa?... Fate partire una ricerca per la sparizione di una persona in tutta la città, anzi in tutto la stato. E tenetemi informato.» «Che cosa è successo?» chiede Baxter «La sorveglianza ha perso Frank Smith.» «Cosa?» «È entrato in un negozio di antiquariato vicino al centro congressi ed è sparito.» «Merda! Cosa sta succedendo, John?» «Non so. Ma faremmo meglio a capirci qualcosa al più presto.» Con lo sguardo rivolto a Wheaton dice: «La faremo accompagnare a casa da qualcuno». «Faccio due passi, così mi schiarisco le idee.» Arriva Lenz, che tocca il braccio di Baxter. «Gaines mi ha fatto sapere
che se non facciamo atterrare uno dei nostri elicotteri sul tetto dell'Art Center entro cinque minuti, ucciderà la ragazza e la getterà dalla finestra. Dice che con lui ce n'è una seconda.» John guarda Wheaton. «Lei ha detto che le ragazze erano due, vero?» Wheaton annuisce, poi vacilla. «Io ho avuto a che fare con lui» dico a John. «Per favore, non dimenticare che può essere l'unico a conoscere ciò che vogliamo sapere.» John mi stringe il braccio, poi si china su di me e dice: «Resta in vista». Mentre accompagno via Wheaton, John si rivolge a un gruppo di uomini vestiti di nero, che mi ricordano troppo bene la loro compagna Wendy Travis per potere valutare la situazione con obiettività. «Potremmo considerare l'ipotesi di fare un'irruzione con dell'esplosivo» spiega John. «Vorrei che ognuno di voi...» Mi volto e raggiungo Wheaton, che sta camminando lungo il prato, parallelamente alla stradina che costeggia il Woldenberg Center. «Veramente Leon ha lasciato la ragazza come se fosse morta?» chiede. «Ho creduto che lo fosse finché non le ho preso il polso.» Si ferma e guarda indietro verso l'ala che alloggia lo studio. «Non ci daranno ascolto. Lo uccideranno.» «Non sono fanatici come lei crede.» «Forse Kaiser no. L'avevo chiamato per questo. Ma gli altri... L'ho visto in Vietnam. Se si mettono armi e uomini a sufficienza in una situazione come questa, qualcuno finirà per sparare.» «Spero di no. Ma abbiamo detto la nostra. Adesso cerchiamo un posto dove lei si possa sedere.» Il suono di un megafono risuona nel quadrilatero, e il dottor Lenz incomincia a parlare a Gaines attraverso il vetro della finestra. «Deve avere smesso di rispondere al telefono» mormoro. «Io non voglio vedere,» dice Wheaton «vado a casa.» «Lei non è in condizione di guidare. La faccio accompagnare da un poliziotto.» «Sto bene, davvero. Ma le mie chiavi sono nella galleria con la mia borsa, e non credo che quel poliziotto mi lascerà entrare a prenderle.» Indica la parte bassa dell'edificio, dove, sotto l'arco d'ingresso, è appostato un agente dell'FBI. Le chiavi di Wheaton sono lontane da Leon Gaines. Questo è il retro della zona delle operazioni. «Gli parlo io, mi aspetti qui.»
«Grazie. Sono sul pavimento, nel centro della stanza. Proprio vicino alla borsa.» Io attraverso il prato a passo di corsa e avvicinandomi all'arco saluto l'agente. «Devo prendere delle chiavi per uno degli ostaggi. Sono all'interno della galleria.» «Nessuno può entrare» mi risponde lui. «Lei ha la radio. Chiami John Kaiser.» L'agente alza il walkie-talkie e fa la chiamata. «Jordan, dov'è Wheaton?» mi domanda John dalla sua postazione a circa quaranta metri di distanza. Con gesti esagerati indico il punto del quadrilatero dove Wheaton è seduto sul prato. «L'accompagni» dice John all'agente. «Ma non lasci rincasare Wheaton. Lo riporti alla postazione di comando. Mando un agente che stia con lui. Non sappiamo deve sia Frank Smith e non voglio nessun altro rapimento; nessun'altra sorpresa.» «Ricevuto» risponde l'agente. Mentre apre la porta e mi fa passare, assume un'aria più gentile e dice: «Sono l'agente Aldridge». Entrata nella galleria, il mio sguardo va alla vetrata Tiffany che mi aveva colpita durante la mia prima visita. «Da questa parte» dico all'agente Aldridge, facendogli strada attraverso l'intelaiatura di compensato che protegge la galleria dagli sguardi indiscreti dei visitatori. Il pannello di accesso al cerchio di tele è ancora aperto. Mi incammino attraverso l'apertura, ma Aldridge mi supera. «Caspita» dice a bassa voce. Nella galleria l'illuminazione è spenta, ma dai lucernari entra un mare di luce naturale che inonda il capolavoro di Wheaton di luce bluastra. Come nel mio sogno della notte precedente, la radura della foresta sembra viva: i rami e le fronde sembrano crescere sotto i miei occhi. «Questa cosa è incredibile» commenta meravigliato Aldridge. «Ecco la borsa» gli dico indicando una grande sporta appoggiata nel mezzo di una enorme pezza di stoffa. «Oh, merda» esclama l'agente, guardandosi le scarpe. «Guardi qua.» La stoffa intorno ai suoi piedi è tutta macchiata di vernice fresca. «È pittura a olio?» chiede. «Credo di sì.» «Merda. Ci vorrà...» Il boato fortissimo di uno sparo risuona nell'edificio, e la sua eco si spe-
gne in una frazione di secondo. Prima che si sia del tutto esaurito, l'agente Aldridge si avvicina a me con la pistola spianata. «Veniva da fuori!» gli dico. «Un fucile. Mi dia la radio!» Con la mano libera lui mi passa il walkie-talkie. «Sono Jordan Glass che chiama John Kaiser. John! Sono Jordan!» Si sente il crepitare delle scariche elettriche, poi la voce di John tuona dalla radio come se lui stesse correndo al piano di sopra. «Gli hanno dovuto sparare, Jordan. Non sappiamo se è morto. Stiamo salendo adesso. Non possiamo raggiungerti. Resta lì per cinque minuti, poi fatti scortare dall'agente al posto di comando.» «Va bene. Stai attento!» John non risponde. «Se è stato Jimmy Reese a sparare,» commenta Aldridge «la musica è finita.» L'uomo dell'FBI solleva una scarpa e osserva il blu sulla suola. «Mi chiedo che cosa sia successo. Il tizio deve essersi fatto prendere dal panico, e ha commesso qualche imprudenza con la pistola.» Non riesco a rispondere. Gaines ha portato con sé ciò che sapeva, e io ne sono sconvolta. Tutto quello che avevo sperato di scoprire è svanito grazie al proiettile di un tiratore. Le gambe mi tremano come se stessero per cedere. Cado sulle ginocchia e cerco di respirare il più profondamente possibile. «Tutto bene?» «Mi serve solo un minuto.» «Certo. Ehi!» grida Aldridge puntando la pistola verso l'apertura nel dipinto. In piedi, appena all'interno del cerchio dei dipinti c'è Roger Wheaton, sul volto una maschera di dolore. «Lo hanno ucciso» dice. «Ho sentito Leon gridare dalla finestra e mi sono avvicinato per vedere. Un tiratore lo ha colpito alla testa.» «Si calmi» dico all'agente Aldridge. «Siamo qui per prendere le sue chiavi.» L'agente abbassa la pistola. «John ha detto che Gaines potrebbe essere ancora vivo» dico con scarsa convinzione. Wheaton scuote la testa, allunga la mano con il guanto macchiato di sangue e tocca il tronco di un albero sulla tela. «Ehi!» grida l'agente Aldridge. «Il tizio che l'ha dipinto potrebbe non es-
sere d'accordo che qualcuno tocchi il suo quadro. È ancora bagnato.» Wheaton sorride tristemente. «Non credo che gliene importi.» «È lui l'artista» spiego ad Aldridge. «Oh. Ehi, a me piace.» «Grazie.» «Come mai i guanti?» «Mi proteggono le mani.» «Credevo che il dipinto fosse finito» dico a Wheaton, appoggiando le mani sul pavimento per alzarmi in piedi. «Ci sono sempre le aggiunte dell'ultimo minuto. Adesso è finito.» Le mie mani sono bagnate. Osservando i palmi vedo sulla pelle delle macchie di pittura rossa e gialla, colori primari brillanti come il blu sulle scarpe di Aldridge. Tutta questa pittura non può essere il risultato di un incidente. Wheaton deve avere dipinto il pavimento. Ecco perché è coperto da una pezza di stoffa. Non gli bastava avere avvolto lo spettatore in un meraviglioso cerchio alberato. Voleva anche dipingere il pavimento. «Ho rovinato qualcosa?» Chiedo alzando le mani per fargli vedere le macchie. «Dipingerà anche il soffitto?» Il volto di Wheaton si rabbuia vedendo che ho imbrattato la pittura. «Si alzi e raggiunga il bordo in punta di piedi.» «Ne ho un po' sulle scarpe» interviene Aldridge. «Non avrebbe dovuto mandarci a prendere le chiavi se era ancora bagnato.» «State dove siete» ordina Wheaton. «Tutt'e due.» L'artista attraversa in punta di piedi il telo di stoffa sul pavimento seguendo un percorso tortuoso. Superato Aldridge, lo prende per mano e lo conduce verso di me. Quando l'agente mi ha raggiunta, Wheaton ci scorta al limite del pavimento, poi mi sorride. «Lei ha scoperto la mia sorpresa. Credevo che fosse già asciutta.» «Posso dare un'occhiata?» «Credo proprio di sì.» Il walkie-talkie di Aldridge gracchia forte, poi la voce di John risuona nella stanza. «Daniel? È stato un CK. L'ostaggio è salvo; sta scendendo.» «Ricevuto» dice Baxter. «Cos'è un CK?» chiedo. «Un clean kill, un'uccisione pulita» spiega Aldridge. «Le avevo detto che avevano sparato alla testa» commenta Wheaton, alzando il bordo del telo. «Jordan, vorrebbe andare dall'altra parte ad alzare l'estremità? Lo togliamo. Se lei desidera ancora vederla.»
Mi muovo lungo il bordo del telo e lo alzo con le mani. «Adesso cammini,» dice Wheaton «lentamente e con attenzione.» Mentre cammino in avanti, il telo si solleva dal pavimento come una pellicola trasparente su una torta di compleanno. «Oh, ma è rovinato, lei ha messo il telo troppo presto» commenta Aldridge. «Grazie per l'ovvietà» ribatte Wheaton. Dopo avere attraversato metà pavimento mi fermo folgorata da quello che vedo. Le immagini non assomigliano affatto a quelle sulla tela circolare che ci circonda. Sono delle figure umane, vivaci e infantili, dipinte direttamente sul compensato: ampie curve rosse, gialle e blu con delle sfumature nei punti in cui i colori primari si intersecano. «Sembrano dipinte con le dita» dico piano. «Proprio così. Pensi a quello che diranno i critici!» esulta Wheaton. «Non vedo l'ora di guardare le loro facce.» Ma io non penso a loro. Penso che di lato a ogni figura c'è una grande X, che tutte le figure hanno i capelli lunghi e che le loro bocche sono spalancate, in un enorme grido di dolore. Apro le labbra per parlare, ma non esce,alcun suono. «È mostruoso» commenta Aldridge. «Lei è il tizio che ha dipinto questo,» dice indicando prima gli splendidi alberi alle sue spalle, quindi il pavimento «e ha dipinto quello?» Wheaton tocca il braccio di Aldridge, e qualcosa schiocca e manda una scintilla blu. L'agente dell'FBI cade per terra, in preda alle convulsioni come un epilettico. Quando Wheaton si volta verso di me, l'espressione da zio se n'è andata, sostituita da uno sguardo astuto, consapevole, freddo e senza paura. «Non sono io l'uomo che ha dipinto quello,» dice rivolto alla radura «quell'uomo è quasi morto.» Con la lentezza di un incubo cerco a tentoni sotto i miei jeans di raggiungere la pistola che John mi aveva dato, ma Wheaton dà uno strattone al telo, io perdo l'equilibrio e cado a terra. Mentre la mia mano afferra l'impugnatura della calibro 38, una puntura atroce mi punge il collo e le mie braccia cominciano a sussultare in preda agli spasmi. La stanza diventa indistinta, si offusca, poi ricompare. Mi sento salire verso il lucernario, mi chiedo se sto per morire, ma quando incomincio a oscillare lateralmente capisco che Wheaton mi sta portando di peso.
Lui cammina lungo il margine del dipinto circolare, allontanandosi dal pannello aperto, e io mi chiedo se non creda di potere entrare semplicemente nella sua stessa tela. Ma a pochi centimetri dalla sua foresta meticolosamente dipinta, si china e mi posa sul pavimento, poi estrae un coltello dalla tasca. Con una grande incisione squarcia dall'alto in basso la tela, poi mi alza nuovamente e mi porta attraverso l'apertura come un fantasma che attraversa i muri. CAPITOLO VENTICINQUESIMO Riprendo coscienza prima di recuperare la vista. So di essere viva, perché ho freddo. Cerco di toccarmi il viso, ma le mie braccia si muovono a fatica, così come le gambe. Con un enorme sforzo sposto il bacino e sento un dolore lancinante alle gambe: riprende la circolazione. Concentro tutta la mia energia sulle palpebre, cercando di aprire gli occhi, ma non ce la faccio. L'olfatto però funziona: l'odore di urina, pungente come quello dell'ammoniaca, mi circonda. Il terrore mi si agita nel petto come un animale che cerca di uscire dal sacco in cui è stato messo. "Basta", dice una voce dentro di me, e io mi aggrappo disperatamente a quella debole eco. La voce di mio padre. "Non farti prendere dal panico", mi dice. "Ma ho paura..." "Sei viva." "Non andare via, papà." "Pensa alle cose belle" mi dice. "Presto farà giorno." La mia mente è avvolta dalla nebbia e dalla confusione, ma attraverso la foschia vedo degli sprazzi di luce. Vedo una bimbetta seduta in un banco in una stanza che è piena di banchi. Vicino c'è un'altra bimba tale e quale a lei, anche nei minimi dettagli. Io sono una di quelle bambine. Mi sento più un maschietto che una bambina. Il mio libro preferito è L'isola misteriosa. Ordino i miei libri da catalogo di edizioni economiche che la maestra dà a ogni studente. Emil e il detective. Zanna bianca. Roba così. Abbiamo pochi soldi, ma, quando è questione di libri, la mamma non si fa pregare; possiamo ordinarne quanti ne vogliamo. Mi siedo qui ogni giorno aspettando che arrivino i miei libri. I miei libri. Ci vuole più di un mese, ma quando sono finalmente qui, quando la maestra apre la grande scatola e li distribuisce ai bambini, controllando i testi arrivati con l'elenco preso dalla scrivania, io sono raggiante di gioia. Non ho mai avuto il vestito alla moda
o quello più bello, ma ho sempre avuto la pila di libri più alta. Le piccole edizioni economiche sanno di inchiostro bagnato. Io appoggio la guancia contro le copertine fresche, immaginando le storie contenute tra quelle pagine, sapendo che le altre bambine si chiederanno che cosa me ne faccio di tutti quei libri. È stato così che ho scoperto L'isola misteriosa. Parla di quattro uomini che durante la guerra civile cercano di fuggire da un campo di prigionia con un pallone aerostatico. Una tempesta li porta in mare aperto, e loro si schiantano vicino a un'isola disabitata. Devono cercare di sopravvivere, e ci riescono benissimo. Un prigioniero trova in tasca un chicco di granoturco da cui ottengono il loro primo raccolto. Un ex ingegnere fa arrivare l'acqua ai campi. La storia è una favola sulla fiducia in se stessi, ed è perfetta per me. Io ho la mamma e la sorella gemella, ma mio padre se n'è andato. Non è morto; è via. A fare fotografie per le riviste. Nell'Isola misteriosa c'è una mappa. Una specie di carta topografica disegnata a mano, che mostra l'isola dall'alto. La spiaggia. L'insenatura. Il vulcano con le sue grotte nascoste. Una foresta di palme attraversata da ruscelli. Potevo quasi vedere gli uomini laggiù, che facevano del loro meglio per sopravvivere. Iniziai a disegnare mappe dappertutto. Senza preavviso le palpebre iniziano a muoversi e le mani si chiudono a pugno. Ai miei muscoli sta succedendo qualcosa. Una voce mi dice di tenere gli occhi chiusi finché non ho più chiara la situazione, ma la mia fame di luce ha il sopravvento. La vista ritorna sotto forma di nubi danzanti, fili bianchi su uno sfondo grigio. Lentamente le nubi si diradano per rivelare il viso di Thalia Laveau. La bellissima sabina è seduta di fronte a me, immersa fino al seno in una vasca di acqua giallastra. La sua testa ciondola sul bordo di smalto bianco. Ha gli occhi chiusi, la pelle così bianca da sembrare bluastra; è nuda. Anch'io sono nuda. Tra noi c'è solo un rubinetto vecchio stile. Siamo in una vasca da bagno. Cerco di voltare la testa, ma i muscoli del collo non rispondono al cervello. La parete di fronte è di vetro. Come il soffitto: lunghi triangoli di vetro scintillante, che si irradiano da un tirante avvitato a una parete di mattoni in alto a sinistra. Attraverso il vetro vedo il cielo rabbuiarsi prima del tramonto. Alla mia sinistra, sopra il lato più stretto dei pannelli, il cielo è blu; a destra è viola. Io sono rivolta a nord. Muovendo solo gli occhi, seguo il vetro in basso fino a circa un metro da terra, dove inizia il muro di mattoni. Mi trovo in una specie di serra. Una
serra con una vasca da bagno. Oltre la parete di vetro ci sono alberi e piante tropicali, ancora oltre c'è una parete in mattoni. Mi sono quasi persuasa di essere in un sogno, quando sento la scalpiccio di passi che si avvicinano. «Ben tornata» dice una voce maschile. «Se hai freddo, aggiungo dell'acqua calda.» La voce suona familiare, ma non riesco a individuarla. Ha il tocco raffinato di quella di Frank Smith, ma è più bassa di un tono. Con uno sforzo sovrumano giro la testa a sinistra; davanti ai miei occhi appare una scena così bizzarra che resto senza parole. Roger Wheaton è in piedi dietro a un cavalletto, nella mano guantata tiene un pennello, e lavora febbrilmente a una tela che non riesco a vedere. È nudo, a parte una stoffa bianca legata in vita che gli passa tra le gambe, simile a quelle che gli artisti del Rinascimento dipingevano sui quadri raffiguranti la crocifissione di Cristo per coprirne i genitali. Il corpo di Wheaton è sorprendentemente muscoloso, ma il torace è segnato da lividi ed emorragie, proprio come quelle che avevo visto in Africa sul corpo dei malati di polmonite, che tossivano fino a morirne. Il mio primo tentativo di parlare non produce altro che un suono rauco. Poi arriva la saliva e quindi riesco ad articolare delle parole. «Dove sono?» In un certo senso si tratta di una domanda retorica. Sono nel luogo che altre undici donne, dodici inclusa Thalia, hanno occupato prima di me. Sono nella casa della morte. Sono una delle "Donne Addormentate". «Non riesci a muoverti, vero?» Siccome non rispondo, Wheaton si avvicina e apre il rubinetto segnato "C." Prima tremo ma poi un piacevole tepore mi avvolge i fianchi e lo stomaco. «Dove sono?» chiedo nuovamente. «Dove pensi di essere?» Lo sguardo di Wheaton si sposta dalla tela a me e viceversa. «Nella casa della morte» rispondo, usando le parole di John Kaiser. Lui pare non sentire. «Thalia è morta?» «Non dal punto di vista clinico.» Lotto per non farmi sopraffare dalla paura. «Cosa vuole dire? È sotto sedativi?» «Per sempre.» «Cosa?»
«Guardala.» Il senso di orrore che mi aveva preso alla vista di Wheaton si trasforma in paura animale allo stato puro, ma mi impongo di guardare Thalia. L'acqua nella vasca le arriva al seno, facendolo galleggiare quasi fosse più vivo del corpo di cui fa parte. Sul suo corpo non vedo ferite evidenti. Un braccio penzola inerte nell'acqua, la mano raggrinzita come una prugna. L'altro penzola dalla vasca. Sbirciando al di sopra del bordo, scopro che la mia paura è solo il gradino iniziale della scala del terrore. Un catetere bianco da endovena penetra nel suo braccio all'altezza del polso. Dal catetere un deflussore trasparente forma una serpentina intorno alla base di una piantana di alluminio e raggiunge una sacca che vi è appesa. La sacca è vuota, completamente piatta. «Cosa c'era nella sacca?» domando cercando di mantenere la voce sotto controllo. Wheaton tiene il pennello fermo nell'aria, poi colpisce la tela più volte, con precisione. «Insulina.» Chiudo gli occhi cercando di ricordare la descrizione fatta da Frank Smith del suicidio ideato da Wheaton: "L'insulina è indolore, ma talvolta non provoca la morte, solo danni cerebrali e coma...". «Non soffre» spiega Wheaton, come se la cosa mitigasse la situazione. Io cerco inutilmente di alzare la mano destra per chiudere il rubinetto. «Cos'hanno le mia braccia?» Wheaton mi ignora, facendo volare il pennello sulla tela con sorprendente velocità. Un impulso a scoppio ritardato mi spinge a girare la mano. La mia mano sinistra. Sembra richiedere un'eternità, ma finalmente, all'esterno del polso vedo un deflussore di plastica infilato in vena. Cerco di farlo uscire, ma non ho abbastanza controllo muscolare. Wheaton mi mette in guardia con un dito alzato. «Nella tua sacca c'è del Valium e una sostanza che rilassa i muscoli. Ma faccio in fretta a cambiarli. Quindi, per favore, lascia stare l'aggeggio.» Valium? Il tranquillante al secondo posto nel mio cuore... «Credevo che saresti rimasta priva di conoscenza per almeno un'altra ora.» Wheaton si raddrizza improvvisamente, poi si gira come per guardarsi allo specchio. Ed è proprio quello che fa. Alla mia destra, tra la vasca da bagno e la parete, c'è un enorme specchio, simile a quelli delle scuole di danza classica.
Wheaton non sta solo dipingendo me e Thalia; sta dipingendo se stesso. «Cosa sta dipingendo?» «Il mio capolavoro. L'ho intitolato Apoteosi.» «Credevo che il suo capolavoro fosse il quadro circolare alla galleria Newcomb.» Lui ride a bassa voce. «Quello era il suo capolavoro.» La mia mente torna alle immagini infantili dipinte sul pavimento della galleria e coperte dal telo. Poi a Wheaton che mi porta in braccio, passando sul corpo dell'agente dell'FBI. "Non sono io l'autore di quel..." «Questo è l'ultimo.» «L'ultimo cosa?» Mi colpisce con un'occhiata sorniona che non avrei neanche potuto immaginare nello sguardo del Roger Wheaton che avevo incontrato pochi giorni prima. «Tu lo sai» mi risponde con tono cantilenante. «L'ultima "Donna Addormentata?"» «Si. Ma questa è diversa.» «Perché ci sei anche tu?» «Tra le altre cose.» «Lei non porta occhiali» penso ad alta voce. «Quelli non erano miei.» «Di chi erano?» Mi dà un'occhiata perplessa. «Erano di Roger. Quel malaticcio. Quel culattone.» Mi viene il voltastomaco. Buon Dio due analisti di profili e uno psichiatra dell'FBI sparano ipotesi seduti a tavolino, e va a finire che aveva ragione la fotografa. Il dottor Lenz l'aveva chiamato disturbo dissociativo dell'identità. Disturbo di personalità multipla. Mi tornano alla mente dei frammenti della lezione piena di condiscendenza dello psichiatra. "Il disturbo dissociativo dell'identità non funziona in questo modo... sarebbe come il dottor Jekyll e Mister Hyde." Benvenuto nell'incubo, dottor Lenz. Cos'altro aveva detto? "È sempre causato da gravi violenze fisiche o sessuali..." «Se lei non è Roger Wheaton,» chiedo con circospezione «chi è?» «Non ho nome.» «Deve pur usare qualcosa.» Uno strano sorriso. «Quando ero un ragazzino, leggevo Ventimila leghe sotto i mari. Mi piaceva molto il capitano Nemo. Nemo significa "nessuno". Lo sapeva?»
«Sì.» «Navigare nella profondità degli oceani, cercando di guarire l'uomo dalle sue ossessioni autodistruttive. Ho vagato per quegli stessi oceani, ma ho capito la verità molto prima del capitano Nemo. L'uomo non vuole essere curato. Solo un bambino può esprimere la purezza della natura umana, ma già il mondo avanza minaccioso verso di lui con tutta la forza, la corruzione, la sporcizia e la violenza.» Wheaton si morde il labbro con un gesto stranamente infantile. «Non credo di capire.» «No? Ricordi quando eri bambina? Quando credevi nelle favole? E lo choc che provavi quando una dopo l'altra finivano a pezzi davanti alla realtà? Niente Cenerentola. Niente Babbo Natale. Papà non era perfetto. Non era nemmeno bravo. Voleva tutto solo per sé. Voleva la mamma dietro una porta chiusa. Voleva... altre cose. E ti faceva male.» "È sempre provocato da gravi abusi sessuali. Sempre..." «Non c'era nessun principe azzurro che ti portava al suo castello, vero?» Adesso gli occhi ardenti non lasciano la tela. «Tutti i pretendenti volevano la stessa cosa, no? A loro non importava proprio niente di te. Dei sentimenti che avevi dentro. Volevano solo venirti dentro, per quello avrebbero fatto qualsiasi cosa, per usarti e ignorarti, e buttarti via come roba vecchia.» Wheaton si sta arrabbiando e io non voglio che diventi ancora più instabile. È arrivato il momento di cambiare argomento. «Adesso ho davvero caldo.» Lui corruga la fronte esasperato, ma dopo poco si avvicina e chiude il rubinetto. «Come ho fatto ad arrivare qui?» chiedo mentre lui torna al dipinto. Nel grande incavo tra i muscoli della schiena, le ossa della colonna vertebrale affiorano come una scala a pioli. «Non ricordi?» chiede alzando ancora il pennello. «Eri cosciente. Ripensa al passato, mentre io finisco il tuo occhio. E cerca di non muoverti.» Ricordo qualcosa. Flash di luce, ondate di vertigine. Un cielo blu, bolle di vetro, un ponte di tubi bianchi e una lunga caduta. «Il tetto. Mi ha fatta uscire dal tetto.» Wheaton sogghigna. «Ma lassù c'erano gli agenti dell'FBI.» «Non più. Dopo l'uccisione di Leon, tutti volevano vedere il loro trofeo. C'è una passerella per i tubi che va dall'Art Center alla centrale termica.
Attraversa solo uno stretto vicolo, ma farlo a carponi con una donna sulla schiena è faticoso.» «Ma come c'è riuscito? Lei è malato?» Wheaton arriccia le labbra sdegnoso. «Quella diagnosi è ora da rivedere. Roger era debole. Io sono forte.» Cosa mi sta dicendo? Non è più ammalato? Cos'aveva detto Lenz del disturbo dissociativo dell'identità? "Ci sono casi in cui una personalità ha bisogno di farmaci per il cuore per sopravvivere, e l'altra no..." «Perché non sono come Thalia?» Wheaton continua a dipingere. «Perché ti volevo chiedere qualcosa.» «Cosa?» «Tu hai una gemella. Una gemella monozigote.» «Sì.» «Io ho ritratto tua sorella.» "Mio Dio". «Ho visto il quadro» dico forte. «Ho letto qualcosa sui gemelli. Mi interessano. E vedo un tema ricorrente nei racconti della loro infanzia. Molti gemelli sono così vicini tra di loro da arrivare quasi alla telepatia. Raccontano cose impressionanti: premonizioni di sciagure, di morte, conversazioni mute quando si trovano nella stessa stanza. Tu e tua sorella avete provato qualcosa del genere da piccole?» «Sì» rispondo, dato che la risposta che lui vuole è così chiara. «A volte.» «Tu vuoi sapere se tua sorella è viva, vero?» Chiudo gli occhi per ricacciare le lacrime, ma non ci riesco. «Non lo sai già?» Attraverso le lacrime vedo Wheaton che mi fissa intensamente. Mi sta mettendo alla prova. Vuole sapere se sono al corrente del destino di Jane. Sta mettendo alla prova la mia affermazione sulle capacità paranormali. «È viva o morta?» mi chiede. Mentre cerco di decifrare il suo atteggiamento, mi torna in mente la strada di Sarajevo, l'istante preciso in cui il mondo si oscurò e sentii una parte di me morire. Nonostante la speranza a cui mi aggrappai in seguito, nonostante la telefonata dalla Thailandia, sapevo che Jane era morta. «Morta» sussurro. Wheaton serra le labbra e torna a dipingere. «Ho ragione?» Lui inclina la testa come se volesse dire: "Forse sì, forse no". «Perché è così interessato ai gemelli?»
«Non è ovvio? Due personalità con lo stesso codice genetico. In un certo senso i gemelli sono proprio come me.» Non so cosa rispondere. Mi pare evidente che lui abbia riflettuto a lungo sull'argomento, e io posso solo cercare degli indizi che mi facciano capire cosa vuole sentirsi dire. «Quando sei arrivata alla galleria,» prosegue «con Kaiser, sapevo di aver ricevuto un segno. Non so chi me lo abbia mandato, ma so che era un segno.» «Un segno di cosa?» «Che una metà può sopravvivere senza l'altra.» Le sue parole sono come una pugnalata. Anche se sapevo che non poteva essere andata diversamente, con questa conferma una parte essenziale di me si dissolve. «È morta?» sussurro. «Sì,» risponde Wheaton «ma non devi essere triste. Sta molto meglio nella condizione in cui si trova adesso.» «Cosa?» «Hai visto i miei quadri. Le "Donne Addormentate". Capisci, no?» «Cosa dovrei capire?» «Il motivo. Lo scopo dei quadri.» «No. Non l'ho mai capito.» Wheaton abbassa il pennello e mi fissa con aria incredula. «La liberazione. Io ho dipinto la liberazione.» «Liberazione da cosa?» ripeto. «Dalla condizione difficile.» «Condizione difficile?» «Dalla femminilità. Dalla difficile condizione di essere donna.» Fino a un momento fa provavo solo dolore. Adesso qualcosa di più duro fa battere il mio cuore: il desiderio di sapere, di capire. «Non capisco cosa mi sta dicendo.» «Sì che capisci. Hai cercato così disperatamente di vivere come un uomo. Lavori senza sosta, in modo ossessivo. Non ti sei sposata, non hai avuto bambini. Ma quella non è una via di salvezza. Non lo è completamente. Te ne stai rendendo conto, non è vero? Ogni mese un piccolo seme dentro di te chiede di essere fecondato. Lo chiede sempre più forte con il passare del tempo. Il tuo utero desidera di essere riempito. Hai lasciato che Kaiser usasse il tuo corpo, non è così? L'ho capito la mattina in cui sei tornata con lui alla casa di Audubon Place.» "Allora non sono in Audubon Place. Certo che no. Se fossi lì non avrei
potuto sentire la campanella del tram su St. Charles." «Vuoi dire che uccidendo le donne le liberi dal dolore?» «Certo. La vita di una donna è una vita da schiava. Lo ha detto Lennon: "la donna è il negro del mondo". Viene sempre usata, dalla culla alla tomba, finché non è altro che un guscio vuoto, spezzato dalle gravidanze, dal matrimonio e dai lavori domestici e...» Wheaton scuote la testa come se fosse troppo arrabbiato per spiegare delle ovvietà, poi intinge il pennello nel colore e ritorna alla tela. Nella testa sento un turbinio di voci. Marcel de Becque, che mi dice che gli occidentali lottano contro la morte, mentre gli orientali la accettano: "le 'Donne Addormentate' rappresentano questa condizione di accettazione"; quella di John: "Tutti gli omicidi in serie sono omicidi a sfondo sessuale; è un assioma". Il dottor Lenz che afferma che la madre di Wheaton se ne andò di casa quando il ragazzo aveva tredici o quattordici anni, i dettagli non sono noti. Lenz che in proposito tormenta Wheaton senza per altro ottenere alcuna risposta. Ecco dov'è il nocciolo di tutto - i dipinti, gli omicidi, tutto quanto - la madre di Wheaton. Non ho intenzione di chiedere niente in merito finché non sono certa di riuscire a sopravvivere alla domanda. «Capisco» gli dico, guardando il corpo inerte di Thalia. «Per questi motivi ho fatto la vita che ho fatto.» "Come fa quest'uomo a vedere come una liberazione lo stato tremendo in cui adesso si trova Thalia?" «Ma il dipinto che sta facendo in questo momento deve avere un altro tema.» Lui annuisce, facendo un movimento secco prima con la mano destra, poi con la sinistra, ogni pennellata precisa come un colpo di fulmine. «È il mio venire alla luce,» spiega «la mia liberazione dalla dualità.» «Cioè da Roger?» «Sì.» Ritorna il suo strano sorriso. «Ora Roger è morto.» "Roger è morto?" «In che modo?» «Me ne sono liberato, come un serpente si libera dalla sua pelle. C'è voluto un bello sforzo, ma andava fatto. Lui stava cercando di uccidermi.» Adesso mi tornano alla mente le parole di Frank Smith, che mi confidò che Roger Wheaton voleva il suo aiuto per suicidarsi. «Roger era andato da Frank Smith per chiedere aiuto, vero?» Adesso Wheaton mi fissa, cercando di valutare che cosa so veramente. «Proprio così.» «Perché rivolgersi a lui? Perché non andare da Conrad Hoffman che lo aveva sempre aiutato? Non è stato Hoffman a prepararle questo posto?»
Wheaton mi guarda come se avessi tre anni. «Roger non conosceva Conrad. L'aveva incontrato a quella prima mostra, ma si era dimenticato di lui. Non capisci?» Non riesco ad assimilare le informazioni abbastanza in fretta. «Roger conosce, conosceva, voglio dire sapeva di lei?» «Certo che no.» «Ma come faceva a nascondersi da lui? Lei ha fatto tutto questo lavoro senza che lui lo sapesse?» «Non è difficile. Conrad e io abbiamo preparato questo posto speciale dove io lavoro.» «Anche a New York ha fatto così.» Wheaton mi scruta con uno sguardo crudele. «Tu sai di New York?» «Sì.» «Come?» «Un programma al computer ha elaborato i volti dei suoi primi quadri, e un agente dell'FBI ha riconosciuto una delle vittime.» «Scommetto che è stato Kaiser.» «Sì.» «È davvero astuto, no?» "Lo spero". Mentre Wheaton continua a dipingere, io esamino le probabilità che l'FBI ha di trovarmi qui. A quest'ora sapranno certo che sono stata rapita. John, Baxter e Lenz. La polizia di New Orleans. Sanno che l'assassino non era Gaines. Hanno visto il dipinto che Wheaton ha fatto con le dita, hanno trovato l'agente Aldridge. Ma cosa potrebbe condurre John qui? Le foto agli infrarossi? Gli aerei dell'FBI hanno fotografato tutta l'area del quartiere francese e del Garden District; adesso hanno un certo numero di case con cortile. Dozzine di agenti sono al tribunale di New Orleans procedendo a fatica tra gli atti di proprietà di quei luoghi, cercando un qualsiasi collegamento con Roger Wheaton e Conrad Frederick Hoffman. Esamineranno anche le case con serra? Sì, John sarà scrupoloso. Abbiamo parlato di case con i lucernari; qualunque cosa che faccia filtrare molta luce sarà sulla loro lista. Da quanto tempo mi stanno cercando? È la sera dello stesso giorno in cui fu ucciso Gaines? O è già il giorno dopo? O quello dopo ancora? Improvvisamente mi rendo conto di essere affamata. E anche assetata. «Sto morendo di fame. Ha qualcosa da mangiare?» Wheaton sospira e guarda il tetto di vetro, controllando la luce che si riduce. Quindi posa il pennello e si sposta alla mia sinistra, fuori dal mio
campo visivo. Storcendo il collo il più possibile vedo che raggiunge un sacco della spesa e tira fuori una confezione stretta e sottile, lunga circa venti centimetri. Carne secca. D'un tratto sono nel vialetto della signora Pitre, fuori dall'appartamento sul garage che Conrad Hoffman aveva in affitto, dove John aveva trovato le riserve di porcherie da mangiare. C'era anche della carne secca. Vicino al sacco della spesa c'è un altro elemento che doveva appartenere a Hoffman. Una borsa frigo igloo. È il modello standard di plastica largo circa un metro, abbastanza grande da contenere due cassette di birra. O delle sacche per endovena piene di soluzione salina e di narcotici. Immagino che dipenda dal destinatario. Wheaton, con le mani inguantate, fa fatica ad aprire la confezione, ma sa bene che nella situazione in cui mi trovo io non sarei in grado di farlo da sola. Finalmente ci riesce e si avvicina alla vasca. Con uno sforzo enorme alzo la mano e prendo la striscia di carne secca. «Molto bene» commenta lui. "Bleah", penso mentre metto in bocca un pezzo di quella robaccia appiccicosa. Ma quando la mastico mi godo il sapore del grasso della carne come se fosse una crème cammei. Se solo avessi un po' d'acqua. Potrei bere il liquido della vasca, ma non ho certo voglia di bere dell'urina. Se riuscirò a riprendere il controllo della muscolatura, berrò dal rubinetto. «Come fa a sapere che Roger Wheaton è morto?» L'artista ride a bassa voce. «Ricordi il dipinto fatto con le dita sul pavimento della galleria?» «Sì.» «Quello è stato il suo ultimo sussulto. Lo spasmo della morte. Un tentativo infantile di confessare. Patetico.» «E adesso lei non ha più bisogno dei suoi occhiali?» «Non vedi che dipingo senza?» "Sì, ma usi ancora i guanti." «E gli altri sintomi?» Wheaton mi guarda sicuro di sé. «Sei sulla strada giusta. Vedi, i tentativi di Roger di uccidermi non sono una novità. Ha cercato di farlo da parecchio. Da più di due anni. Ma io non lo sapevo.» «Come?» Wheaton ferma il pennello, quindi aggiunge alcune pennellate prudenti. «Si sa poco delle malattie autoimmuni: sclerosi multipla, sclerodermia, lupus. I dottori hanno ben chiari i meccanismi che ti uccidono. Ma l'eziologia? La causa? Tanto vale consultare un medicone. Sai cos'è una malattia
autoimmune? Un fenomeno in cui il sistema immunitario dell'organismo, che si formò per proteggere il corpo dalle aggressioni esterne, in realtà funziona male e attacca lo stesso organismo.» Wheaton mi dà un'occhiata trionfante. «Interessante vero? Come ha fatto il malaticcio a pensarci? Forse il senso di colpa e il disgusto di sé lo rodevano, il desiderio di uccidermi era così forte, che si sono manifestati fisicamente. La mia malattia procede a fasi: si risveglia e si indebolisce, ma ho notato che la riacutizzazione succedeva quando Roger era cosciente. Allora lui cercava di uccidermi con l'aiuto di Frank Smith. Con l'insulina. Sai cosa avevo capito? Che nel muro che ci separava c'erano delle brecce. Lui cominciava a leggermi nella mente. Tu sei entrata nella mia vita in quel momento. L'immagine esatta di una donna che avevo già dipinto. Di una donna morta. Eppure davanti a me c'era il suo sosia, l'altra metà, perfettamente in salute. Allora capii. Ebbi una nuova visione e questo dipinto ne fa parte. Dovevo salvarmi.» Io lo fisso dalla vasca da bagno fumante. La complessità del suo delirio è stupefacente. Si è formato nella mente di un bambino sottoposto a violenze, è germogliato e cresciuto nella paura di un artista di fronte alla morte. «Lei è... voglio dire, ha funzionato? È guarito?» «Sta succedendo. Lo sento. Respiro meglio. Le mia articolazioni sono meno rigide.» «Ma lei porta ancora i guanti.» Un sorriso tirato. «Le mie mani sono troppo delicate per correre dei rischi. E poi c'è un danno sistemico. Che per guarire richiede tempo.» Guarda verso il cielo che sta diventando sempre più scuro. «Adesso stai zitta. La luce se ne sta quasi andando.» «Sì. C'è però una cosa che non capisco.» Lui corruga la fronte, ma io continuo. «Lei ha detto di avere ucciso le donne che ha ritratto per liberarle dalla loro tragica condizione. Per salvarle da una vita di dolore e di sfruttamento. Non è così?» «Sì.» «Eppure prima di morire sono state tutte violentate. Come fa a starsene lì e raccontarmi che lei le liberava dal dolore, quando in realtà le sottoponeva all'esperienza peggiore che ci possa essere per una donna, se si esclude la morte?» Wheaton smette di dipingere. I suoi occhi esprimono rabbia e confusione. «Cosa vuoi dire?» «Conrad Hoffman. Prima di morire mi puntò la pistola alla testa e disse
che mi avrebbe violentata. Continuò dicendo che se anche avesse dovuto spararmi alla spina dorsale, tra le gambe sarei stata ancora piacevole e calda.» Gli occhi di Wheaton diventano due fessure. «Tu menti.» «No.» «Allora stava solo cercando di spaventarti per farti salire sulla sua automobile.» Io scuoto la testa. «Gliel'ho letto negli occhi. L'ho capito da come mi toccava. Sono stata violentata. Riconosco lo sguardo di uno stupratore.» Il viso allungato di fronte a me è attraversato da un lampo di compassione. «Sei stata violentata?» «Sì. Ma questo non è il punto... La donna rapita prima di Thalia, quella presa vicino a Dorignac e buttata nel canale di scarico: il patologo ha trovato dello sperma nel suo corpo.» La sua testa si muove bruscamente come se cercasse di evitare un colpo. «È stato lei?» chiedo a voce bassa. Wheaton butta per terra il pennello e fa due passi verso di me. «Stai mentendo.» La cosa più prudente da fare sarebbe quella di lasciare perdere, ma la mia salvezza potrebbe trovarsi proprio alla base di questo paradosso. «L'FBI è convinta che lei abbia ucciso la donna presa da Dorignac. Hanno stabilito il momento della morte di Wingate e sanno quando Hoffman ritornò da New York. Lui non avrebbe potuto rapirla.» Adesso Wheaton sta ansimando come un bambino che soffre d'asma. «L'ho presa io ma...» Resta in piedi a bocca aperta, incapace di proseguire. Lui crede davvero di avere risparmiato quelle donne uccidendole. Ma io non posso risparmiare lui. Da qualche parte, oltre i suoi occhi folli, c'è l'animo gentile dell'artista che ho conosciuto all'inizio della settimana. «Mi aiuti a capire» chiedo. «Un uomo che in Vietnam ha salvato una ragazzina di dodici anni dallo stupro si trasforma, e aiuta un pervertito a violentare le donne che lui dice di volere salvare?» Il mento gli trema. «Immagino che sarà stato Roger a salvare quella ragazzina in Vietnam...» «No!» urla. «Sono stato io!» Taccio. La linea di frattura nella mente di Wheaton è una tortura più dolorosa di qualunque sistema io possa usare. I muscoli del viso si contraggono in preda a tic nervosi. Le mani lungo i fianchi tremano. Con un mo-
vimento brusco del capo guarda il cielo quasi buio. Poi va al tavolo dietro al cavalletto, prende una siringa ipodermica, e si avvicina a me; il suo viso è privo di espressione. La fiducia che avevo appena ritrovato svanisce: sono terrorizzata. Se Wheaton vuole infilarmi quell'ago, io non posso oppormi. Questa realtà mi riporta indietro nel tempo e nello spazio, in Honduras, alla notte in cui persi per sempre la mia innocenza, quando imparai la più atroce delle verità: si può urlare, lottare e implorare qualcuno affinché smetta di farti del male, ma ciò non lo fermerà; si può pregare Dio, la madre, il padre, ma loro non ti ascolteranno; le tue grida non commuoveranno coloro che ti torturano. Quando Wheaton si mette alle mie spalle, ho la pelle d'oca aspettando di sentire la puntura dell'ago. Cercando di raccogliere tutta la mia forza, giro il collo e guardo all'indietro. Lui, in piedi vicino alla piantana, sta iniettando il contenuto della siringa nella sacca endovena. Adesso urlo con tutto il fiato che ho in corpo, ma lui butta la siringa vuota sul pavimento e ritorna al cavalletto. Sento il braccio destro bruciare all'altezza del polso, gli occhi si riempiono di lacrime di rabbia e di impotenza. Respirando a grandi boccate cerco di resistere al veleno ignoto, ma dopo pochi secondi le mie palpebre cadono come persiane che si chiudono. CAPITOLO VENTISEIESIMO Questa volta i miei occhi si riaprono alla vista di un nero cielo stellato, un universo di astri annebbiati dal vetro, e mi giungono i singhiozzi di un uomo. Il pianto angosciato sembra arrivare da un mondo lontano. Il mondo dell'infanzia, credo. Ho di nuovo i brividi, e non è una brutta cosa. La situazione è seria quando si smette di tremare. È così buio che riesco a fatica a distinguere Thalia all'altra estremità della vasca da bagno. Ma sono grata per questa oscurità. Sono stata in molti posti avendo come sola luce notturna il chiarore delle stelle, e so che se vedo la Stella Polare all'orizzonte, riesco a stabilire la latitudine a cui mi trovo. Questo è uno dei trucchi che ho imparato da mio padre. Non ho ancora capito dove si trova adesso la Stella Polare, perché non riesco a vedere né l'Orsa Maggiore, né la Minore, che sono i punti di riferimento più rapidi. Forse la Stella Polare non rientra nel mio campo visivo. Ma sono rivolta a settentrione e sono circondata da vetro, su tre lati e sulla testa; la mia visuale è solo in parte oscurata dagli alberi. Se riesco a osser-
vare, a rimanere cosciente per un tempo sufficiente vedrò muoversi nel cielo tutte le stelle tranne una: la Stella Polare, che percorre una traiettoria circolare di due gradi sopra il Polo Nord. Una luce costante che ha guidato molti viaggiatori disperati, proprio come me. Il mio problema è l'orizzonte. Non riesco a vederlo a causa dell'alto muro esterno. "Non ti preoccupare", dice mio padre. "Puoi usare l'orizzonte artificiale. La cosa migliore è una ciotola di mercurio sul pavimento." Il mercurio riflette molto bene le stelle; devi semplicemente calcolare l'angolo tra la Stella Polare e il suo riflesso, poi dividi per due. Questo vale se c'è un sestante a disposizione, ma non è il mio caso. In assenza della ciotola di mercurio, si può usare la superficie di una pozza d'acqua, ed è proprio la mia situazione. Ma il vetro della serra distorce la luce stellare, e questo, combinandosi con il movimento dell'acqua, causato dal respiro e dalla circolazione del sangue, fa sì che non ci sia un riflesso chiaro. "Non è la fine del mondo," interviene mio padre rassicurante, "puoi indovinare la posizione dell'orizzonte..." Il pianto angosciato si è fermato. Ho la sensazione che Wheaton sia sdraiato da qualche parte sul pavimento, ma non riesco a vederlo. Mentre cerco di intravedere gli oggetti nella stanza, mi accorgo di una cosa sorprendente. Ho il controllo dei miei muscoli. Appoggiandomi all'indietro guardo la sagoma argentea della piantana. La sacca appesa è vuota. La sostanza che teneva i miei muscoli nel limbo, qualsiasi cosa essa fosse, adesso non scorre più nelle mie vene. Ma la mia mente non è ancora sgombra. È stranamente concentrata sulle stelle e sulla mia posizione. So che è un'informazione importante. New Orleans si trova approssimativamente sul trentesimo parallelo, e credo di potere ragionevolmente supporre di trovarmi ancora lì, di non essere stata portata da Wheaton in qualche lontana casa della morte, dove le altre vittime mi aspettano, sculture viventi come la stessa Thalia. Certo la Stella Polare non mi darà la mia longitudine; il trentesimo parallelo potrebbe significare le Bermuda, le Canarie, addirittura il Tibet. Ma queste sono possibilità lontane. Per me trenta gradi di latitudine significano la reale possibilità di essere salvata dall'FBI. Il controllo muscolare mi fa venire in mente un'altra possibilità: salvare me stessa. Dopo avere sgranchito la maggior parte dei miei muscoli anchi-
losati, arrivo alla conclusione che potrei uscire dalla vasca. Il problema è Wheaton. È abbastanza vicino, anche se non riesco a vederlo, da impedirmi di uscire da questa stanza di vetro? Di sicuro deve avere preso in considerazione l'eventualità. Per mettermi in salvo devo necessariamente evadere? Quando sono stata sopraffatta nella galleria, portavo una pistola alla caviglia. Deve pur essere da qualche parte. Però prima che io mi metta a cercare, o che corra qualunque rischio, devo sapere a che distanza lui si trova, e che cosa intende fare quando sentirà dei rumori. Allungando la mano destra apro il rubinetto dell'acqua calda e aspetto. Per circa venti, trenta secondi arriva acqua fredda, poi inizia a riscaldarsi e un gradevole calore si diffonde intorno a me, facendo fluire il sangue alla mia pelle bluastra. L'acqua della vasca non può essere così fredda, mi dico. Non può essere inferiore alla temperatura dell'aria, che Wheaton deve avere regolato intorno ai ventuno gradi, per proteggere le sue mani. "Non c'è bisogno che sia così fredda" mi fa presente mio padre, "nell'acqua perdi calore trenta volte più in fretta di quanto non succeda nell'aria. Un'immersione continua ti può uccidere". Senz'immissione di acqua calda a intervalli regolari, Thalia potrebbe essere già morta per ipotermia. Il rubinetto è sempre aperto, ma Wheaton non viene a vedere cosa sta succedendo. Lo chiudo quando l'acqua ha quasi raggiunto il bordo della vasca. Voglio alzarmi, ma sono presa da una dolce ondata, da quel qualcosa che ha mantenuto la mia mente confusa e che si oppone ai miei piani, e resto appoggiata contro la parete di smalto della vasca. Sono assalita dal sonno, ma mi sforzo di tenere gli occhi aperti e osservo il cielo che muta lentamente. L'acqua si raffredda. Mentre giaccio al buio e al freddo, tutte le stelle sopra di me si muovono attraverso il cielo. Tutte eccetto una. Fissa e luminosa, se ne sta ferma proprio sopra la cima degli alberi. La Stella Polare. Bastano pochi secondi per calcolare dove si trova l'orizzonte, indovinare l'angolo tra la linea immaginaria e la stella e per sottrarre quel numero dai novanta gradi. La risposta mi fa battere il cuore all'impazzata. Trenta gradi. Quasi certamente sono a New Orleans. Se John Kaiser mi cerca con sufficiente determinazione, riuscirà a trovarmi. Questa notizia probabilmente mi scalda più a fondo di quanto non abbia fatto l'acqua. Eppure... non posso affidarmi a un intervento esterno.
Allungando ancora una volta la mano tremante, apro nuovamente il rubinetto dell'acqua calda, ma questa volta non sto seduta ad aspettare di essere scaldata. Questa volta mi alzo ed esco dalla vasca. I muscoli non rispondono bene, ma comunque funzionano. Il deflussore inserito nella mano è un problema, ma la piantana ha le rotelle e il pavimento sembra di cemento. Con passi guardinghi la trascino alla parete di vetro della serra. Ciò che vedo è deprimente. Il primo metro di vetro al di sopra della parete di mattoni che regge la serra contiene una rete di metallo. Rompere il vetro con un oggetto pesante non servirebbe a niente. C'è una porta di vetro che conduce all'esterno, ma anche quella ha un reticolato di metallo ed è chiusa da una pesante serratura. Lo spazio lasciato dal mio corpo nella vasca si sta riempiendo in fretta d'acqua. Quali possibilità mi restano? Introdurmi di soppiatto in casa e cercare di sfuggire a Wheaton? Di sicuro avrà preso dei provvedimenti contro quest'eventualità. E i singhiozzi che sentivo prima non arrivavano da lontano. Forse è sdraiato sul sofà in un'altra stanza con la mia pistola in mano. O forse l'ha in casa da qualche altra parte. Probabilmente ha ancora il taser con cui mi ha colpita alla galleria. Potrebbe avere un cane. Vale la pena di correre il rischio e andare a vedere? "Rifletti," dice mio padre. "Sai qualcosa che lui non sa? Hai qualcosa a disposizione che ti possa aiutare?" Cosa so? Che ho una dipendenza da Xanax, un parente stretto del Valium. Probabilmente è stata la tolleranza incrociata a questi farmaci, che mi ha permesso di svegliarmi, di muovermi in punta di piedi per la stanza mentre Wheaton mi crede addormentata. Cosa c'è a portata di mano che mi può aiutare? Non vedo nessuna arma. Nemmeno un pennello. Il tavolo da cui Wheaton ha preso la siringa ipodermica è vuoto. La stanza è sterile e deserta come la cella di una prigione. È una prigione. Non del tutto vuota, però. Sul pavimento, dietro alla vasca da bagno, c'è la borsa frigorifero e la borsa della spesa. Le cose di Conrad Hoffman. Trascino la piantana in quella direzione. La borsa della spesa è piena per metà delle porcherie che c'erano nel suo appartamento: biscotti, patatine fritte, tortine e carne secca. Osservo scatole e sacchetti, senza ben capire. Lentamente afferro la situazione: queste non sono armi, sono dei meccanismi di difesa. Infilo la mano nella borsa, e in silenzio apro le confezioni e prendo tre scintillanti pacchetti di alluminio di biscotti e una manciata di tortine av-
volte nel cellophane. Li ammasso tra il piede della vasca da bagno e lo specchio, e mi accorgo di non avere guardato l'opera a cui Wheaton è impegnato. Mi rendo conto che quell'immagine potrebbe essermi utile. Ma non quanto la borsa frigo. Da quanto si trova lì? Quanto tempo è passato da quando ho visto Hoffman trasportato dalla corrente del Mississippi? Mentre sposto la borsa frigo, dico in silenzio una preghiera, e poi faccio scattare la chiusura e sollevo il coperchio. Dentro è buio, quindi porto le mani sul fondo alla cieca. Sento il freddo e il rumore del ghiaccio e dell'acqua, e anche delle isole galleggianti che sembrano bottiglie di birra. In pochi secondi sento un dolore alle braccia. "Dio ti benedica, brutto bastardo", penso nel mio intimo. Il cuore mi batte forte per la speranza, ma non ho tempo da perdere. L'acqua calda mi lambisce i piedi. La vasca sta tracimando, e non lo fa in silenzio. Ma è una buona cosa. L'acqua in eccesso, finita sul pavimento cancella le impronte dei miei piedi sparse per la stanza, e forse convincerà Wheaton che non riesco ancora a controllare bene le mie funzioni. Chiudendo la borsa frigo la spingo un po' più vicina alla vasca, poi mi immergo nell'acqua quasi bollente. Sto cercando di arrivare al rubinetto quando sento un rumore nel buio. Appoggio la testa all'indietro e chiudo gli occhi. L'acqua continua a scorrere. «Cosa stai facendo?» mugugna una voce intontita. Allungo la mano sott'acqua e afferro quella di Thalia. Dei passi si avvicinano alla vasca, si fermano. Wheaton mi sta probabilmente osservando. «Bellissima» dice, facendomi rabbrividire nonostante l'acqua bollente. Il rubinetto cigola, l'acqua smette di scorrere. Poi qualcosa si infila nell'acqua, e delle calde onde si infrangono sul mio petto. La mano di Wheaton si posa delicatamente sul seno destro, come se lui stesse rivivendo dei ricòrdi. Mi sforzo di respirare il più regolarmente possibile. La sua mano si sposta sul mio cuore, ne sente il pulsare, poi scivola sotto l'acqua. Mi copre l'ombelico, massaggia il lieve accumulo di grasso che lo circonda, poi scorre tra le gambe. Sto per mettermi a urlare travolta dalla sensazione di precipitare, ma il torpore mi salva. Parte dal cervello e dal cuore, è il torpore dell'autoconservazione, nato nella giungla dell'Honduras, un'arma neurochimica che mi aiuta a sopportare qualunque cosa pur di sopravvivere. Le dita di Wheaton tremano mentre mi esplorano, ma io no. Resto immobile e respiro rego-
larmente. La sua mano non è quella di un bruto, piuttosto quella di un ragazzo. Le sue dita attorcigliano i miei peli pubici e restano lì, con tenacia infantile. Nel silenzio interrotto dal gocciolare del rubinetto, un lungo pungente grido di dolore mi ferisce profondamente. Come il lamento di un giovane animale al fianco della madre morta, il suono risuona nella stanza terminando con un singhiozzo. Quindi le dita si distendono e la mano sparisce. «Presto,» sussurra «domani.» Mentre si allontana, il polso incomincia a bruciare. Valium, dico a me stessa, con gli occhi che già si chiudono. Non è insulina, l'insulina non brucia. Ma per ogni eventualità raggiungo lo spazio tra la vasca e lo specchio, apro una tortiera e ne ingurgito due bocconi, per mandare dello zucchero nel sangue il più rapidamente possibile. Poi ne mangio ancora uno. La gola secca non facilita l'ingestione, ma dopo avere dato un'altra occhiata a Thalia, riesco a mandare giù un terzo boccone. Dovrei staccarmi il deflussore dal braccio? Se lo faccio il sangue finirà nella vasca, e domani Wheaton verrà a sapere cosa ho fatto. Potrei dire che si è trattato di un incidente. Sotto l'acqua stringo la mano di Thalia, sperando in cuor mio che lei faccia altrettanto. «Ce la faremo,» mormoro «vedrai.» "Stacca il deflussore", dice mio padre, "togli la mano dall'acqua. All'aria il sangue si coagulerà..." «Non sento la mano,» gli rispondo «io...» Cerco di afferrare il catetere quando i miei occhi si chiudono. Mi sveglio in piena luce, ma non apro gli occhi. Wheaton si aspetta che io rimanga priva di conoscenza più a lungo. Per un'ora resto a occhi chiusi, valutando l'ambiente in cui mi trovo unicamente con l'udito. Proprio come ieri Wheaton è al cavalletto e dipinge con pennellate rapide e sicure. Ogni tanto il cavalletto scricchiola e il sibilo sottile del suo respiro cambia con il mutare della sua posizione. Nei suoi movimenti c'è una nuova insistenza. Quanto tempo ci vorrà prima che finisca il dipinto? Quanto mi resta prima di venire trasformata in un'altra Thalia? Devo farlo rallentare. Più a lungo resto in vita più tempo avrà John di trovarmi. Ma devo anche considerare l'eventualità che lui non mi trovi. Che Wheaton finisca il suo lavoro. "Una cosa alla volta", dice mio padre. "Fallo parlare." Quando il sole batte ancora più forte sulle mie palpebre, fingo di sve-
gliarmi. «Come viene?» chiedo. «Come dovrebbe» risponde lui con voce tagliente. È ovvio che non ricorda con piacere la conversazione della notte scorsa. Anziché pressarlo, sto calma e tranquilla e cerco di non guardare Thalia, che sembra molto più pallida di ieri. Finalmente Wheaton dice: «Questa mattina ho visto un servizio alla televisione. Se le stazioni locali non mentono per ordine dell'FBI, la notte scorsa sei stata sincera. Sugli stupri». Io taccio. Mentre dipinge, mi lancia una breve occhiata. «Conrad violentava i miei soggetti.» «Sì.» «Farei qualsiasi cosa per cancellare quello che è successo. Ma non posso. Avrei dovuto saperlo. Conrad non è mai stato capace di controllare i suoi impulsi. Ecco perché finì in prigione. Ma lo stupro non è che un sintomo di quello di cui ti ho parlato ieri. La sofferenza. Se non l'avesse fatto Conrad, ci avrebbe pensato qualcun altro. Forse in modo diverso. Come fanno i mariti. Comunque. Stanno molto meglio ora, compresa tua sorella.» Wheaton si allontana dalla tela e si guarda allo specchio. «Per te la sua morte è una sofferenza, ma per lei non esiste più il dolore. Più nessun desiderio confuso, più nessuna remissività.» Se penso adesso a Jane, non riuscirò ad andare avanti. «Capisco la sofferenza. Capisco le "Donne Addormentate". Ma non credo che lei mi stia dicendo tutto.» I suoi occhi mi guardano rapidamente, poi tornano alla tela e lui riprende a dipingere. «Cosa vuoi dire?» «I suoi sentimenti nei confronti delle donne non sono nati dal nulla. Deve essere stato influenzato dalle donne che ha conosciuto.» Qui devo stare attenta. «Forse dalla donna che ha conosciuto meglio.» Il pennello di Wheaton si ferma a mezz'aria, poi ritorna alla tela. «So che sua madre sparì quando lei aveva tredici o quattordici anni.» Lui smette improvvisamente di dipingere. «So come si sta. Mio padre sparì quando avevo dodici anni. In Cambogia. Tutti dicevano che fosse morto, ma io non l'ho mai creduto.» Adesso lui mi osserva con attenzione. Sa che sto dicendo la verità, e non può frenare il desiderio di saperne di più. «Cosa credi che sia successo?»
«All'inizio immaginai un sacco di cose. Che era ferito e soffriva di amnesia. Che era rimasto mutilato e non poteva tornare da me. Che era tenuto prigioniero da signori della guerra asiatici. Ma crescendo ho capito che forse niente di tutto questo era vero.» «Hai accettato la sua morte?» «No. Ho pensato a qualcosa di ancora più tremendo. Che non era ritornato perché non voleva tornare. Ci aveva abbandonate. Forse per un'altra donna, Un'altra famiglia. Un'altra ragazzina che lui amava più di me.» Wheaton annuisce. «Il pensiero mi aveva quasi distrutto. Mi tormentavo la mente cercando di capire che cosa avevo fatto perché si arrabbiasse fino al punto di smettere di amarmi.» «Non è stata colpa sua, era un uomo.» «Lo so, ma la notte scorsa, io pensavo, anzi sognavo, lei. E ho visto una donna. Ho creduto che fosse sua madre. Lei teneva un ragazzo e cercava di spiegargli perché doveva lasciarlo. Ho cercato di chiederle perché lo abbandonava...» Sul collo e sul viso di Wheaton si formano delle chiazze rosse, proprio come capitava a mia sorella. Punta il pennello verso di me come se fosse un coltello. «Lei non mi ha mai abbandonato! Io ero l'unica cosa che la teneva in vita.» «Cosa vuole dire?» Il suo volto si contrae spasmodicamente, come se stesse rivivendo un momento atroce. Quindi intinge il pennello nel colore, torna alla tela, come se la conversazione non fosse mai successa. E poi incomincia a parlare. CAPITOLO VENTISETTESIMO «Nacqui durante la guerra» racconta Wheaton, dipingendo con la solita padronanza assoluta. «Nel '43. Mio padre era nei marines. Tornò a casa in licenza dopo il corso di addestramento, e io venni concepito. O almeno era quello che lui pensava. Era un uomo duro e freddo, senza pietà. La mamma non sapeva dire perché l'avesse sposato. Disse solo: "Da giovani le cose sembrano diverse".» «Anche mia madre mi ha detto più volte la stessa cosa» commento io. «Quando mio padre fu arruolato, lei rimase a casa da sola per la prima volta da quando si erano sposati. Aveva due figli piccoli: quattro e cinque
anni. Fu una liberazione. Era libera da quella voce, dalla brutalità, dall'insistenza e dalla violenza di quelle notti in cui lei protestava inutilmente e implorava Dio di essere lasciata in pace. Dio aveva finalmente esaudito le sue preghiere. Le aveva mandato la guerra.» Wheaton sorride ironico. «Un mese dopo la partenza di mio padre per il Pacifico, uno sconosciuto bussò alla porta per avere un po' d'acqua. Zoppicava. Un incidente o una malattia lo aveva ridotto cosi e l'esercito non lo aveva voluto. Lavorava per il governo, era uno degli artisti impegnati nei progetti della WPA, la Works Progress Administration. Era un pittore. La mamma si innamorò di lui dal primo giorno. Lei adorava l'arte. Comunque, il pittore restò nei paraggi per due settimane e quando se ne andò la mamma era incinta. Lei non seppe mai dove andò, ma lui le aveva detto di essere di New Orleans. Non le aveva detto altro.» "Mio Dio", penso dentro di me. «Io nacqui con due settimane di anticipo.» Wheaton fa girare la punta del pennello sulla tavolozza. «I tempi così potevano coincidere. La mamma avrebbe potuto mentire sulla mia paternità e cavarsela. Almeno per un po'. Quando mio padre ritornò dalla guerra, era un uomo diverso. Era stato catturato dai giapponesi. Non parlava quasi mai. Era diventato una specie di fanatico religioso. Ma la sua brutalità, nei suoi e nei nostri confronti, non era cambiata. Vide subito che la mamma mi trattava diversamente dai miei fratelli. Lui cercava di farmi diventare come gli altri, ma lei si opponeva. Dopo qualche tempo giunsero a un accordo. Lei mi assicurò un'infanzia protetta in cambio della sottomissione al marito, che otteneva tutto ciò che voleva. La sua parola era legge, nella vita di tutti i giorni, nel suo letto. Solo per quanto riguardava me la parola della mamma aveva valore. Quando non erano a scuola, i miei fratelli lavoravano alla fattoria e lo aiutavano a cacciare gli animali selvatici. La mia vita era invece diversa. La mamma mi insegnava tante cose. Leggeva per me. Mi comperava tele e colori per incoraggiarmi a dipingere. Avevamo un rifugio nel bosco.» Sul viso di Wheaton appare uno sguardo languido e lontano, perso nel tempo. «Si trovava in una piccola radura, che era circondata da alberi centenari; vicino scorreva un ruscello. Il tetto era in parte sfondato e il sole entrava dal foro formando enormi fasci di luce, come quelli che si vedono nelle cattedrali gotiche.»
«Che cosa dipingeva lì dentro?» gli chiedo mentre la risposta si affaccia nella mia mente. «Dipingeva sua madre?» «Chi altri avrei dovuto dipingere? Lei portava nel fienile dei vestiti presi da casa o le cose che aveva comprato in uno dei suoi rari viaggi in città. Cose che a lui non faceva mai vedere: abiti trasparenti e vestaglie simili a quelli che le donne indossano nei dipinti classici. Io dipingevo per ore, parlavamo e ridevamo finché la luce non incominciava a svanire e noi iniziavamo a sussurrare, rimandando fino all'ultimo momento il ritorno alla piccola, buia casa della rabbia.» «Cosa successe? Cosa fece finire tutto quanto?» Il corpo di Wheaton si irrigidisce. La mandibola si muove, ma non viene fuori alcun suono. Poi, lentamente, la mano destra porta il pennello alla tela. «Quando avevo tredici anni, divenni curioso... di certe cose. La mamma aveva un libro d'arte. C'erano molti nudi e anch'io volevo dipingere cose del genere. La mamma capiva la mia necessità, ma dovevamo essere prudenti. Solo quando mio padre andava a lavorare al mulino in città, e i miei fratelli uscivano per mettere le trappole, lei posava nuda per me.» Sebbene l'acqua nella vasca sia fredda, io ho il viso bollente. Ho la sensazione che ci stiamo avviando verso l'ignoto territorio dell'incesto. «Siete diventati... intimi?» «Intimi?» La sua voce sembra un'eco che esce da una grotta. «Noi eravamo praticamente la stessa persona.» «Io intendevo dire...» «Tu intendevi dire sesso.» Alza il pennello con aria disgustata. «Non era niente del genere. Certo, a volte la toccavo. Per metterla in posa. E lei mi raccontava delle cose. Come avrebbe dovuto essere l'amore, e come lei sperava che da qualche parte fosse così davvero. Ma più che altro noi facevamo dei progetti. Lei mi diceva che io avevo un dono che un giorno mi avrebbe reso famoso. Io giuravo che se mai fossi riuscito ad andarmene e avessi avuto successo sarei tornato per lei.» Mi viene in mente un'immagine terribile: «Siete mai stati sorpresi da qualcuno in quell'atteggiamento?» Wheaton chiude gli occhi. «Un pomeriggio, era primavera, invece di andare a mettere le trappole, i miei fratelli ci spiarono. Guardarono finché la mamma non iniziò a svestirsi. Poi corsero a rotta di collo in città per chiamare mio padre. Quando lui entrò nel fienile e la vide nuda, perse il controllo e si mise a urlare parole incomprensibili sulle prostitute. Disse ai
miei fratelli di tenermi fermo, e lui... lui incominciò a picchiarla. Ma invece di subire come aveva sempre fatto, lei reagì. Gli graffiò il viso, facendolo sanguinare. Lui, spinto dalla rabbia e dal desiderio di vendicarsi, afferrò il manico di una vecchia falce...» Wheaton socchiude gli occhi come se stesse fissando un oggetto lontano. «Sento ancora quel sibilo e l'impatto. Cadde per terra, morta.» La sua voce ha lo stesso suono della mia quando parlo della "morte" di mio padre: è tremante e acuta. «Perché non se ne sa niente?» «Non c'era nessuno per chilometri. Lei non aveva più famiglia.» «Suo padre la seppellì?» «No.» No? «Cosa successe?» Wheaton fissa il pavimento, la sua voce diventa un mormorio appena percettibile. «Venne da me e dai miei fratelli che mi tenevano fermo e si chinò sul mio viso. Mi disse di seppellirla e di andare a casa. Aveva l'alito che puzzava. Mi spiegò che se avessi detto a qualcuno cos'era successo, lui e i miei fratelli avrebbero giurato di avermi sorpreso mentre la violentavo nel fienile, quando era già morta. Ero paralizzato dalla paura. Mi disse che nessuno mi avrebbe creduto. Che mi avrebbero mandato in un riformatorio in città, dove gli altri ragazzi mi avrebbero picchiato e sodomizzato. Infine mi lasciarono lì con lei.» «Mi dispiace davvero» mormoro, ma Wheaton non mi sente. «Non potevo seppellirla.» La sua voce è quasi un lamento. «Non riuscivo nemmeno a guardarla. Aveva la testa sfondata. La carnagione aveva il colore del marmo blu. In preda alla disperazione la portai al ruscello. La lavai e le sistemai i capelli. Come piacevano a lei. La guardavo e pensavo che le sue sofferenze erano finalmente finite. Aveva sofferto tutta la vita. Finalmente era libera.» Wheaton posa il pennello e si passa le dita tra i capelli arruffati. «Non riuscivo a immaginare la mia vita senza di lei. Ma lei era al sicuro. Capisci?» Capisco. Capisco come un bambino a pezzi abbia intrapreso una strada che lo porta a uccidere delle donne e a credere di compiere un atto di altruismo. «Tornai al fienile e ridipinsi il quadro che avevo fatto. Poi, nella luce morente della radura, dipinsi mia madre finalmente in pace. Era la prima volta che vedevo il suo viso completamente rilassato. Fu una rivelazione. La mia nascita come artista. Quando ebbi finito, presi un badile dal fienile e la seppellii vicino al ruscello. Non lasciai nessuna indicazione del punto
esatto. Non volevo che loro sapessero dove si trovava.» «Cosa successe quando arrivò a casa?» La mia domanda sembra fare sparire ogni traccia di umanità dal viso di Wheaton. «Per quattro anni vissi come un animale. Mio padre sparse in giro la voce che mia madre era fuggita a New York. Poi lui cominciò a indagare nel suo passato. E si convinse che io ero illegittimo. Parlò con il medico, studiò i registri del tribunale. Aveva ragione, ma non poteva provarlo. Lo sapeva, e basta. In me non c'era niente di lui, niente, e per questo ringrazio Dio. Poi fecero delle cose a Roger che non puoi neanche immaginare. Il padre per punirlo lo violentava.» Wheaton scuote la testa con sdegno. «Se non fosse stato per me, non sarebbe mai sopravvissuto.» "Gravi violenze fisiche o sessuali nell'infanzia", ci aveva detto il dottor Lenz. "Il radicale cambiamento psicologico di cui parlo..." «Lei come ha protetto Roger?» «Io ascoltavo. Osservavo. Il mio udito divenne acutissimo. Li sentivo respirare nel sonno. Se il ritmo del respiro cambiava, io me ne accorgevo. Se si alzavano, sapevo che Roger era in pericolo. Gli dicevo quando era il momento di nascondersi, dove scappare. Quando fare provvista di cibo. Quando cedere e quando resistere. Dopo un po' arrivai al punto di riuscire a sentire i loro pensieri. Leggevo il desiderio morboso nelle loro menti, i piani diventare intenzione, l'intenzione passare dal cervello ai muscoli che li mettevano in azione. Ecco come fece Roger a sopravvivere.» «Gli disse lei di scappare a New York?» Wheaton ricomincia a dipingere con veloci colpi di pennello. «Sì. Ma la città non era come pensavo. Roger cercava di dipingere, ma le cose non andavano per il verso giusto. La gente offriva aiuto, ma non voleva aiutare lui. Voleva aiutare se stessa. Gli davano cibo e un posto per la notte. Ma in cambio volevano lui. E lui si concesse. Che importanza aveva? Erano molto più gentili del padre e dei fratelli. Per quattro anni visse tra di loro, tra uomini vecchi e grigi, avidi e molli, dipingendo opere di imitazione, facendo qualunque cosa gli fosse richiesta. Le cose dovevano cambiare.» Sulle labbra di Wheaton compare un sorriso quasi crudele. «Un giorno, mentre camminavo per la strada, colsi la mia occasione. Mi precipitai in un ufficio di reclutamento e mi arruolai nei marines. Una decisione rapida e irrevocabile. Non c'era niente che lui potesse fare. La guerra in Vietnam stava diventando rovente, e prima che Roger se ne fosse reso pienamente conto, era già in viaggio per quella destinazione.» I suoi occhi brillano d'orgoglio. «Là io fui finalmente riconosciuto. In
Vietnam. Senza di me lui non ce l'avrebbe mai fatta. Di giorno gironzolava, scherzando e dando pacche sulle spalle, cercando di inserirsi nel gruppo. Ma di notte mi lasciava spazio. Di pattuglia, in postazione, io riuscivo a percepire cose che lui nemmeno capiva. Riuscivo a sentire i piedi nudi calpestare l'erba a cinquanta metri di distanza. Io l'ho fatto sopravvivere. E ho fatto sopravvivere anche gli altri. Ho ricevuto delle medaglie per questo.» «E dopo?» domando, mentre parte della mia mente si chiede che progressi hanno fatto John, Baxter e Lenz nelle indagini per individuare questa casa, «Sono tornato a New York, no? Ero un uomo diverso. Presi i soldi per i reduci di guerra, andai all'università di New York e dipinsi per quattro anni. Quando terminai feci dei ritratti per comprarmi da mangiare. Cercavo la mia strada. E la mia strada trovò me. Il fratello che era sopravvissuto, morì nella marina mercantile e la fattoria fu messa in vendita. Decisi di comperarla. Pensavo di bruciarla, ma non lo feci. Ogni giorno era una piccola rivincita. Quelle stanze avevano visto tutta la disperazione della mamma, e Roger le riempiva di luce e di colore. Fu allora che cominciò a dipingere la radura.» «E lei quando iniziò a dipingere le "Donne Addormentate?"» Wheaton serra le labbra come chi cerca di ricordare l'anno in cui prese moglie o si arruolò. «Nel Settantotto, credo. Stavo uscendo da New York in auto quando vidi una ragazza presso un ponte, che faceva l'autostop diretta a nord. Era giovane e carina, sembrava una studentessa. Le chiesi dove stesse andando e lei mi rispose: "Non importa, basta che faccia caldo".» Wheaton sorride al ricordo. «Sapevo esattamente come si sentiva. Era successo anche a me. Guidai fino alla fattoria. Per strada lei andò su di giri. Aveva delle pillole che la rendevano loquace. La sua storia non era diversa da altre storie di donne. Un padre come il mio. Una madre che non poteva proteggerla. Gli uomini che l'avevano usata. Alla fattoria le diedi da mangiare. Lei aveva sonno. Le chiesi se potevo dipingerla, e lei rispose di sì. Quando le chiesi se potevo ritrarla nuda, lei esitò un istante. "Tu non faresti mai niente di strano, vero?" disse, e si svestì. Io la misi nella vasca da bagno.» In trance per il suo racconto, vengo colta dalla nausea non appena capisco pienamente le sue ultime parole. «Dipinsi come Roger non aveva mai fatto. Ero io che controllavo le cose, capisci? Io avevo il pennello. Si muoveva secondo la mia volontà.»
«Ma successe qualcosa» intervengo con voce esitante. Wheaton posa il pennello e si massaggia con forza la mano sinistra. «Sì. Si svegliò prima che io finissi il ritratto. Io ero nudo. Non ricordo quando mi spogliai, e poi che cosa importa? So solo che ero nudo, che dipingevo ed ero eccitato. La ragazza si fece prendere dal panico.» «E lei cosa fece?» «Anch'io persi la testa. Lei sapeva dove si trovava. Se avesse raccontato in giro come erano andate le cose, Roger avrebbe avuto un sacco di problemi. Cercai di calmarla, ma lei mi fraintese. Si ribellò. Non mi lasciò scelta. La spinsi sotto l'acqua finché smise di divincolarsi.» Cristo... «E dopo?» «Finii il quadro.» Wheaton prende il pennello, lo immerge nel colore, e torna al lavoro. «Aveva un'espressione così tranquilla. Molto più felice di quando l'avevo incontrata. Lei fu la prima "Donna Addormentata".» Millenovecentosettantotto. L'anno in cui lasciai le superiori, Roger Wheaton aveva affogato una ragazza senza fissa dimora nel New England, iniziando il percorso che in seguito lo avrebbe condotto a mia sorella. «Cosa ne fece del corpo?» «Lo seppellii nella radura.» Per forza. «Aspettai un anno prima di raccogliere per strada un'altra ragazza. Una scappata da casa. Rese tutto così facile. E poi, a quell'epoca, sapevo già ciò che volevo.» «E Conrad Hoffman?» «Quello è stato nel 1980. Roger fece una mostra a New York, e Conrad ci andò. Nei quadri della radura vide qualcosa che nessun altro ci aveva visto. Vide me. Le mie potenzialità. Era un giovane carismatico e pericoloso. Dopo l'esposizione si fermò e andammo a bere qualcosa insieme. Non si mise ad adulare Roger come facevano alcuni. Lui percepiva la forza nascosta in quei quadri. Le tenebre. E io feci qualcosa che non credevo che avrei mai fatto.» «Gli fece vedere le "Donne Addormentate".» Wheaton annuisce furbescamente. «Ce ne erano solo due. Avresti dovuto vedere la sua faccia quando le vide. Capì subito che le donne erano morte. Aveva già visto delle donne così. Quando distolse lo sguardo dai quadri e guardò me, io gli mostrai il mio vero volto. Lasciai cadere la maschera.» "Come hai fatto con me, dopo avere colpito con il taser l'agente dell'FBI". «Hoffman cosa fece?»
«Lui ne fu contento. Quando mi accorsi che lui capiva, sentii una forza irresistibile accumularsi dentro, e lo presi con la forza.» «Cosa?» «Non ero come Roger, debole e sottomesso. Ero io ad avere il controllo. Conrad capì il mio genio e volle farne esperienza nel modo più completo.» Vedendo la mia espressione sconvolta, Wheaton aggiunge: «Conrad era bisessuale. Me l'aveva detto in automobile. Era diventato così in carcere.» «E da quale momento incominciò ad aiutarla?» Wheaton ora dipinge a velocità quasi maniacale. «Conrad mi procurava i soggetti, le miscele di farmaci, e trovava il modo migliore per tenerle tranquille mentre io lavoravo: l'insulina. Mi ha evitato molte preoccupazioni.» «E come premio violentava le donne.» Il pennello di Wheaton esita appena. «Credo di sì. Ma non penso che loro fossero coscienti mentre lo faceva.» "Spero proprio di no". «Che cosa la fece smettere? A New York intendo.» «Conrad uccise qualcuno durante una lite e fu condannato a quindici anni. Mi consigliò di non prenderne più, ma io,... io non riuscivo a smettere. Cercai di caricare una ragazza a New York. Lei capì che c'era qualcosa che non andava e si difese. Riuscii a mala pena a sfuggire alla polizia. Quello mi fece smettere. Conrad mi aveva parlato della prigione. Non potevo andarci. Sarebbe stato come ritornare nella casa di mio padre.» «Allora ha focalizzato i suoi desideri sulle radure. Non è così? Lei diventò più astratto.» «Sì. E più mi ci dedicavo più Roger diventava famoso. Volevo che il mondo conoscesse il mio lavoro, allo stato puro, non attraverso lo specchio distorto delle opere astratte di Roger.» «Per questo lei quindici anni più tardi ricominciò a uccidere?» «No.» Mi dà un'occhiata schietta e diretta. «Stavo morendo. Dovevo fare tutto il bene che potevo, mentre ero ancora in grado.» «Hoffman allora era già uscito di prigione e l'aiutava?» «Fu rilasciato sei mesi dopo la mia diagnosi, per fare posto a dei nuovi prigionieri. Io mi ero già trasferito a New Orleans. Covavo la fantasia infantile di trovare il mio padre biologico. O la sua tomba. Qualcosa di tangibile. Ma non ci riuscii. Sì, è vero, Conrad mi aiutò a riprendere il lavoro.» «Perché vendette i suoi quadri? Perché correre rischi? Lei era già ricco. Aveva fama. Rispetto.»
«Era Roger quello famoso, non io.» Il suo pennello sfiora la tavolozza, poi vola alla tela. «Ma quando i collezionisti videro le mie "Donne Addormentate", riconobbero un diverso grado di verità.» «Come Marcel de Becque?» «Lui fu uno di quelli.» «Lo conosce bene?» «So che compra i miei quadri, ma niente di più.» Stranamente gli credo. Ma cosa spiega il collegamento tra de Becque, Wingate e Hoffman? Sfruttavano tutti questo artista tormentato e la sua visione distorta? «Cosa vuole fare adesso?» «Me ne vado. Ho abbandonato Roger e i soldi non sono un problema. Conrad preparò delle nuove identità per entrambi molto tempo fa.» «Dipingerà ancora?» «Se ne sentirò la necessità. Dopo questo non credo che ne avrò motivo.» «Cos'ha intenzione di fare di me?» «Ti darò quello che più desideri. Ti farò ritrovare tua sorella.» Chiudo gli occhi. «Dov'è?» «Molto vicino.» Wheaton aspira con le narici. Nelle orecchie mi risuona la voce di John, un'eco del primo giorno in cui ci incontrammo. Lakeshore Drive. "Il livello dell'acqua è sceso considerevolmente in questi ultimi anni. Lui potrebbe seppellirle sotto una casa, e resterebbero lì, all'asciutto. Aggiungendo ogni tanto un po' di calce, non puzzerebbero nemmeno." «È sepolta qui, sotto questa casa?» Il pennello non fa il più piccolo sussulto mentre lui annuisce. È quasi più di quanto non riesca a sopportare. «Anche le altre?» «Sì, ma con tua sorella accadde qualcosa di imprevisto. Lei cercò di scappare. Non so come riuscì, ma arrivò fino al giardino. Conrad la prese, ma lei lottò, e lui la dovette finire lì. La seppellì immediatamente. Io finii il quadro usando una fotografia.» Per la prima volta da ore, la rabbia arriva in superficie. Allungo la mano verso il rubinetto, e lo apro come ho già fatto due volte. Ma questa volta apro quello dell'acqua "Fredda". Wheaton sembra non accorgersene. Mentre lotto con le immagini che le sue parole hanno risvegliato nella mia mente, lui posa il pennello, si massaggia la mano, poi prende l'orologio appoggiato al tavolo alle sue spalle e guarda l'ora. Con un debole bor-
bottio, si gira ed entra in casa. Si sente un debole rumore seguito dal mormorio basso di una voce. Sta facendo una telefonata. Io giro su me stessa, mi metto in ginocchio, mi sporgo all'esterno e trascino la borsa frigo vicino alla vasca. Pregando che il rumore dell'acqua copra quello che sto facendo, inspiro a fondo più volte, poi alzo la borsa fino al bordo della vasca e vuoto dentro il suo contenuto. Il freddo intenso mi lascia senza fiato. Anche i miei pensieri sembrano arrestarsi, tanto l'acqua è ghiacciata, ma non ho tempo da perdere. Nella vasca sono cadute tre bottiglie di birra che rimetto al loro posto. Una voce cantilenante arriva dalla porta alla mia destra. Sento ripetere più volte la parola "biglietto". Forse anche "partenza". Dio se fa freddo. Non riuscirò certo a resistere a lungo. Il mio cervello intorpidito ha già dimenticato qualcosa di vitale. La mia difesa dall'insulina. Allungo la mano nello spazio tra il muro e la vasca, prendo una confezione di tartine e apro il sacchetto con le dita irrigidite. Spezzo i biscotti e li caccio in bocca masticandoli quanto basta per inghiottirli. Wheaton sta ancora parlando. Apro un'altra confezione e ingoio altri due biscotti. Passi. «Vieni qui,» dico a bassa voce, cercando di non fare tremare i denti «disse il ragno alla mosca.» Quando Wheaton ricompare, noto immediatamente l'aspetto strano che ha, con la stoffa bianca sui fianchi. Nei due giorni di posa, mi ero abituata. Ma dopo averlo sentito parlare al telefono con il tono di una persona normale, è uno choc. Sembra un uomo che si crede Gesù Cristo. Un Gesù Cristo di sessant'anni. È in piedi di fronte alla tela e la studia con occhio critico. Mi sembra che l'acqua gelata mi stia portando via le forze vitali, e il dolore è più grande del previsto. «Il quadro è finito?» chiedo. «Che cosa?» risponde Wheaton con voce distante. «Ah, quasi. Io...» Lo squillo del telefono lo interrompe. Sembra perplesso. Un altro squillo, debole ma insistente. Dopo avermi dato un'occhiata veloce, ritorna in casa. Ho l'irresistibile impulso di saltare fuori dalla vasca. "Apri il rubinetto dell'acqua calda", dice una vocina nella mia testa. "Un po' non farà certo male... " Questa volta i passi tornano di corsa. Wheaton entra velocemente nella
stanza; ha il viso a chiazze rosse e una pistola in mano. Una Smith & Wesson superleggera calibro 38. Quella che mi aveva dato John. «Cosa c'è? Che succede?» «Hanno riagganciato.» La sua voce è bassa ma stridente. «Capita spesso.» «Non qui. E il telefono non era muto, sono stati in ascolto per qualche secondo prima di riattaccare.» Cerco di mantenere un'espressione indifferente, mentre il mio cuore si riempie di speranza. «Probabilmente è stato qualcuno che ha sbagliato.» Wheaton scuote la testa. L'istinto che brilla nei suoi occhi incute paura: è l'istinto di sopravvivenza dell'animale braccato. «Perché cerchi delle spiegazioni?» mi chiede «Cosa te ne importa?» «Niente. Solo che...» «Zitta!» Si volta e guarda il quadro non ancora ultimato, poi mi fissa di nuovo. «Devo andare.» «Dove? Perché?» «A volte ho delle sensazioni, e qualcosa mi dice che questo posto non è più sicuro.» Wheaton dice: «So che ti puoi muovere». Mi viene un colpo. «Non fare finta di non riuscirci. Ho finito i rilassanti muscolari. Devo prepararmi ad andare. Adesso aggiungo del Valium nella tua sacca endovenosa. Abbastanza da metterti fuori combattimento per un po', ma non abbastanza da ucciderti.» Ha un'espressione sincera, ma io so con chi ho a che fare. «Stai mentendo. Hai già detto che mi avresti uccisa.» «Jordan. Potrei spararti subito se volessi ammazzarti.» «Forse ci sono delle case troppo vicine. Forse non sopporti di uccidere in quel modo. Usare l'insulina ti dà l'illusione di fare un'eutanasia.» Sulle sue labbra e nel suo sguardo compare uno strano sorriso. «In Vietnam ho ucciso un sacco di gente. Non ho alcun problema.» Si acquatta a circa un metro dalla vasca e mi guarda negli occhi. «Perché il Valium con te non funziona, Jordan? Lo prendi spesso, non è così?» «Qualche volta.» Lui ride con apprezzamento. «Tu sei una persona astuta, vero? Una lottatrice, come me.» «Finora.» Si alza e va in un'altra stanza, poi torna con una siringa. «Stai dove sei.
Se provi a fare qualche scherzo, non mi resta che usare la pistola.» Wheaton si sposta al di fuori del mio campo visivo, e anche se non riesco a vederlo, so cosa sta facendo: sporgendosi dal punto più lontano possibile inietta il contenuto della siringa nella mia sacca. E se avesse detto la verità a proposito del Valium? Mi permetterebbe davvero di cavarmela? Non lo ha fatto con nessun'altra. Sono tutte sepolte sotto la casa da qualche parte. Il mio polso dovrebbe cominciare a bruciare, una invece niente. Wheaton riappare alla mia sinistra e si acquatta di nuovo, a meno di un metro di distanza. Non dice una parola. Mi guarda. «Stai tremando» commenta poi. «Come ti senti?» «Ho paura.» «Non c'è niente da aver paura. Non reagire, lasciati andare.» «Reagire a cosa?» «Al Valium.» «Non è Valium.» Sono sopraffatta da un'ondata di nausea. «Vero?» «Cosa te lo fa pensare?» «Il polso. Non brucia.» Lui sospira, quindi sorride quasi con compassione. «Hai ragione. Un tossico conosce la propria roba. È insulina. Presto non avrai più nessuna preoccupazione al mondo. Nessun dolore.» A circa un metro da me Thalia Laveau sembra esattamente ciò che è: un cadavere vivente. Non posso fare questa fine. Spero solo che Conrad Hoffman non l'abbia violentata prima che lei entrasse in coma. «Hai già sonno?» mi chiede Wheaton con la pistola nella mano sinistra. Lo zucchero che ho introdotto in corpo con i biscotti mi darà una resistenza limitata all'insulina, dipende dalla dose che mi ha somministrato. Se non si avvicina di più, perderò i sensi prima di riuscire a fare qualcosa per salvarmi. A meno che io non strappi il deflussore. Così lui mi sparerà. «Ho... ho» dico con voce impastata. «Ho sonno.» «Va bene» sussurra lui, guardando oltre, verso la parete di vetro della serra. Sembra che si aspetti di vedere degli uomini armati fare irruzione da un momento all'altro nel suo giardino. L'acqua nella vasca non è più tanto fredda, e per un secondo ne sono sollevata. Poi capisco: l'insulina sta agendo sulle mie capacità percettive. Il panico sale, mi scuoto, butto le gambe fuori dalla vasca, e finisco immersa nell'acqua. Ci vuole un supremo atto di volontà per tenere giù la testa, ma è l'unica strada verso la sopravvivenza. Fingo di lottare per cercare di ripor-
tare la testa in superficie. Sulla vasca appare un'ombra che poi assume una sagoma definita. Testa. Spalle. Wheaton sta guardando nella vasca. Cosa vede? Una riedizione della prima donna che uccise? La ragazza senza fissa dimora? Con un macabro senso di sdoppiamento, osservo i miei ultimi istanti di vita attraverso i suoi occhi. Vuole tirare la mia testa fuori dall'acqua. Lo sento. Per darmi una morte più umana. I miei polmoni, in carenza di ossigeno e sorpresi dal freddo, hanno bisogno che io raggiunga la superficie con ogni mezzo. Non posso aspettare che Wheaton allunghi una mano. Con un grido di disperazione schizzo fuori dall'acqua con mani protese come degli artigli. I suoi occhi si spalancano dal terrore, e lui cerca di spostarsi indietro, ma io lo tengo per i polsi. Lui ruggisce e cerca di lottare, ma i suoi piedi non hanno abbastanza presa sul pavimento bagnato per permettergli di usare il suo peso contro di me. Con tutte le mie forze, gli spingo entrambe le mani nell'acqua gelida. I suoi occhi sembrano impazziti e i piedi gli scivolano. Io continuo a tenerlo. Nel suo sguardo riappaiono altri volti: il ragazzo violentato che poteva leggere i pensieri depravati del padre; il soldato che sentiva i piedi nudi del nemico a cinquanta metri di distanza. Mentre mi sforzo di tenere ferme le sue mani, un polso fa un movimento brusco e una muta esplosione mi risuona nelle orecchie. Del sangue sgorga nella vasca. Il suo polso si contorce ancora e le mie orecchie risuonano come cembali. Sta sparando sott'acqua con la pistola. Non sento alcuna ferita, ma questo non vuole dire niente. L'esplosione, amplificata dalla vasca, mi stordisce, ma non mollo la presa. Schizzi di sangue si diffondono nell'acqua gelata come attraverso un tubo di gomma. Thalia. Da un foro nella sua coscia sgorga un fiotto di sangue in sintonia con il battito cardiaco. È ancora sufficientemente in vita da poter morire malamente. Urlando di rabbia, mi attacco ai polsi di Wheaton mentre la pistola urta sott'acqua la mia mano gelata. Quando torna il silenzio, ci stupisce entrambi. Il viso di Wheaton è bianco come un cencio e le sue braccia hanno smesso di divincolarsi. L'acqua gelata ha fatto il suo lavoro. Prima di rendermi conto di quello che sto facendo, lascio andare la presa e mi arrampico fuori dalla vasca. La piantana cade a terra vicino a me e il deflussore si stacca dal polso, facendo scendere un caldo fiotto di sangue sulla mano.
Wheaton si raddrizza lentamente, e per un istante penso che si sia ferito con la pistola. Ma non si sta tenendo nessuna parte del corpo; sta cercando invece di togliere i guanti dalle mani tremanti. Sembra la vittima di un incendio che cerca di staccarsi da dosso gli indumenti bruciati. Un guanto cade sul pavimento bagnato, poi l'altro; tiene le mani sollevate di fronte a sé con le dita allargate e tremolanti. Sono blu. Un blu macabro, tipico dei tessuti morti. Mentre lo guardo vedo la sua bocca trasformarsi in un cerchio da cui esce un grido di dolore. L'urlo mi sveglia dalla trance. Mi allontano dalla vasca, mi giro in direzione della porta che conduce all'edificio principale. Sembra vicina, ma quando cerco di correre mi accorgo che le gambe non mi reggono. Devo fermarmi, piegarmi e afferrare le ginocchia per restare in piedi. La paura mi schiaccia il petto e non riesco a respirare. Ho bisogno di zucchero. Anziché cercare di raggiungere la mia provvista vicino allo specchio, cado seduta all'indietro e butto la mano sulla borsa della spesa. Wheaton arranca verso di me, ha gli occhi fiammeggianti, ma non sembra rappresentare una grave minaccia. È come essere attaccati da un uomo senza mani. Rovistando nella sporta, apro una confezione di tortine e mi riempio la bocca, trangugiando il dolce spugnoso quasi senza masticare. Wheaton improvvisamente cambia direzione e ritorna verso la vasca. Guarda in basso, come un monaco che abbia ricevuto l'ordine di salvare qualche reliquia dal fuoco. La pistola. Sta cercando il coraggio di rimettere le sue mani condannate nel ghiaccio. Faccio scorrere le dita lungo il braccio sinistro, sento del sangue. Il dolore riacutizza momentaneamente i sensi, e in quel momento di chiarezza mi impongo di alzarmi in piedi. Wheaton si china sulla vasca e vi infila il braccio fino al livello del gomito. Poi salta su come un giocattolo a molla; il braccio che regge la pistola è scosso dai brividi mentre si gira per affrontarmi. Mentre alza la pistola io mi lancio contro di lui con le braccia distese in avanti. La pistola risuona mentre le mie mani lo centrano, spingendolo all'indietro contro la vasca e lo specchio appoggiato al muro. Lo specchio va in frantumi con un rumore secco a un metro e mezzo dal pavimento, e la metà superiore ci cade addosso in frammenti di schegge letali, grandi come piatti cinesi. Wheaton cade di traverso sulla vasca, stordito ma ancora perfettamente cosciente, sforzandosi di rimanere sopra l'acqua gelida. Mentre io mi sfor-
zo di togliermelo di dosso, lui sembra riacquistare vitalità e mi infila la pistola in bocca. «No» imploro, odiandomi per questa mia debolezza. «Per favore.» Lui sorride stranamente dispiaciuto, poi preme il grilletto. Si sente un clic a vuoto. Furioso, con uno strattone porta la pistola all'indietro per colpirmi, ma la spalla, flettendosi, scivola dal bordo della vasca e lo fa cadere in acqua. Non urla nemmeno. Inspira una grande quantità d'aria, porta una mano scura al petto come se volesse massaggiarsi il cuore. Metto entrambe le mani sulla sua testa e la spingo sotto l'acqua gelida. Lui si divincola, ma le forze lo abbandonano. Lo zucchero nel mio sangue potrebbe essere metabolizzato dall'insulina prima che io faccia dieci passi dalla vasca. Se succedesse una cosa simile, lascerei questo posto con i piedi in avanti e un'etichetta appesa a un dito del piede. Mi sollevo dalla vasca e barcollo fino alla porta dietro al cavalletto, che conduce a una stanza allungata dotata di televisore, sofà e un tavolino con il telefono. Incespicando attraverso il locale, vado a finire in un vasto atrio che si estende per circa dodici metri e termina con un'enorme porta di legno, molto simile a quella della casa di Jane in St. Charles Street. Mi incammino in quella direzione, cercando di mantenermi in equilibrio, ma a due terzi del tragitto mi mancano le gambe e cado picchiando la testa contro il battiscopa bianco. Ho la testa annebbiata. Voglio restare distesa sul morbido legno e lasciarmi andare. Ma dalla foschia emerge un'immagine così netta e potente da farmi battere il cuore: undici fosse poco profonde disposte in un'unica fila, impercettibili accumuli di terra che ammuffiscono nell'oscurità sotto la casa. Questa casa. Sotto di me giacciono in attesa i resti di undici donne, i cui mariti, le cui famiglie e i cui figli pregano ogni giorno di poterne conoscere il destino. Con un enorme sforzo mi sollevo sulle ginocchia e percorro carponi gli ultimi metri che mi separano dalla porta, quindi sollevo la mano destra e giro la maniglia. Non si muove. I miei pochi neuroni ancora attivi formano, dietro le mie palpebre abbassate, l'immagine di una finestra, ma non ho alcuna speranza di riuscire a raggiungerla. Non ce la faccio più a muovermi. Sento la mia voce che piagnucola: «Per favore, apriti» e provo ancora imbarazzo per questo mio implorare.
La porta resta chiusa. Una fine patetica per una vita vissuta con dignità. Nuda. Sola. Persa in una nebbia bianca che cresce in un silenzio insidioso, affievolendo i miei singhiozzi e il suono aspro del mio respiro. Presto sprofonderò in un vuoto grande e nero. Mentre le orecchie inseguono gli ultimi echi del mio respiro, un suono inumano squarcia la mia coscienza come un'ascia. Si sente il battere di tamburi, poi una cacofonia simile a quella prodotta dal frantumarsi dello specchio nella serra. Davanti agli occhi sciamano delle sagome scure, insettiformi, nelle orecchie mi risuonano le loro voci metalliche. Una mi chiede qualcosa, ha gli occhi sporgenti, spalancati e seri, ma io non riesco a capirla. Un urlo desolato attraversa l'aria verso l'infinito. Mi trapassa il cuore come un proiettile, fondendosi con il dolore che lo ha abitato così a lungo. Le mie mani corrono a coprire le orecchie, ma l'urlo si frantuma contro una parete alle mie spalle, lasciando nell'aria solo un'eco sonora. Gli occhi sporgenti davanti a me si allargano, quindi spariscono e al loro posto appare un volto umano. Il viso di John. Crede che io sia morta. Glielo leggo negli occhi. La nebbia mi ha quasi completamente inghiottita. Devo dirgli che sono viva. Se non ci riesco, potrebbe seppellirmi viva. Nel profondo della mia mente, si riaccende una scintilla di vita. Un solitario punto bianco in un cielo di tenebra. E da quella stella giunge una voce. Non è quella di mio padre. È una voce di donna. La voce di mia sorella. "Jordan, parla! Di' qualcosa, maledizione!" Dalle mie labbra escono con sconcertante chiarezza tre sillabe che mettono in moto un'attività frenetica. «Zucchero!» Poi mi percuoto il polso. «Zucchero!» ripeto, colpendo il foro insanguinato lasciato dal catetere come una scimmia sotto anfetamine. «Zucchero, zucchero, zucchero...» Un angelo vestito di bianco si china su di me. «Vuole che le controlliamo il livello di glucosio.» Poi la stella si spegne e il viso di John svanisce. CAPITOLO VENTOTTESIMO «Jordan, Jordan?» Una luce bianca mi trafigge la retina, ma resisto al dolore. Non voglio il buio; qualunque altra cosa, ma non quella.
«Jordan, svegliati!» Davanti agli occhi ondeggia una sagoma e una mano. Un attimo più tardi la mano si scosta e si avvicina un viso. Quello di John. È teso e sconvolto. «Mi riconosci?» chiede. «Agente Kaiser, vero?» Il volto non si rilassa. «John, te l'avevo detto: non sono un vaso di porcellana.» «Grazie a Dio.» «Wheaton?» John scuote la testa. «Quando tu eri a terra lui è entrato urlando nell'ingresso. Aveva una pistola. La afferrava per la canna, come un bastone. Gridai alla SWAT di non sparare, ma qualcuno l'aveva già fatto. È morto sul colpo.» «CK» mormoro. «Cosa?» «Clean kill, un'uccisione pulita.» «Ah.» Girando la testa vedo che sono su una barella in un posto che potrebbe essere un pronto soccorso. Al braccio ho una flebo. Devo lottare contro l'istinto di strapparla via. «Dove siamo?» «Al Charity Hospital. Il tuo livello di glucosio è tornato nella norma. I medici dicono che sei disidratata, ma se ne stanno occupando. Erano preoccupati per il cervello.» «Anch'io me ne sono sempre preoccupata.» «Jordan.» «Mi sento come se mi fossi presa una bella sbornia. Non c'è altro, davvero.» «Fisicamente no, ma dentro?» Dentro. Tiro la fasciatura che ho sul polso, dove Wheaton aveva inserito la flebo. «La settimana scorsa, in un paio di occasioni, ero ottimista per Jane. Ma in fondo sapevo che se ne era andata. Ma Thalia... Dopo la morte di Hoffman nel fiume, pensai che avremmo potuto trovarla viva e in buona salute. Ad aspettare la liberazione, hai presente?» Lo sguardo di John è fermo ma triste. «Probabilmente era in coma già un'ora o due dopo la cattura. Una volta che è sfuggita alla sorveglianza ed è caduta nelle mani di Hoffman, non c'era niente che potessimo fare.»
Annuisco. «Dov'ero?» «A quattro isolati dalla casa di Wheaton in Audubon Place. A cinque da St. Charles Avenue. A un solo isolato dall'università.» «Cristo, ne avevano di faccia tosta. Cosa succede là, ora?» Mi guarda con severità. «Sei sicura di volerlo sapere?» «Sì.» «Hanno estratto due corpi da due fosse poco profonde sotto la casa.» «Jane?» «Nessuna identificazione al momento. Stiamo radunando tutte le famiglie delle vittime in un albergo. Procederemo molto adagio con le esumazioni. Non vogliamo commettere errori.» «Capisco. Wheaton mi disse che le vittime di New York sono sepolte in una radura vicino alla fattoria di famiglia in Vermont.» John annuisce, come se non ne fosse sorpreso. «Là stiamo sbrigando la parte burocratica. La fattoria si trova attualmente in una zona commerciale. Incominciare a fare degli scavi per tirare fuori dei cadaveri non è cosa da poco.» «Non voglio restare qui questa notte.» «I medici vogliono trattenerti.» «Non mi importa. Tu sei dell'FBI. Fa' qualcosa.» Lui inspira profondamente, poi mi posa una mano sul braccio. «Senti, c'è qualcosa che vorrai sapere.» «Cosa?» chiedo con la gola irrigidita dalla paura. «Abbiamo appena ricevuto un messaggio da Marcel de Becque.» «Cosa?» «Per la verità si tratta di un invito.» «Cosa vuoi dire?» «Vuole parlarti. Di persona.» «Lui è qui negli Stati Uniti?» «No. Vuole incontrarti a casa sua. Alle Cayman. Dice che se serve manderà il suo aereo personale.» «Mi serve?» «No. Ci sono ancora molti interrogativi importanti in questo caso, a cui adesso può rispondere solo de Becque. Baxter dice che possiamo usare l'aereo dell'FBI.» «Quando?» «Quando sarai in grado di andare.» «Un viaggio di due ore? Di' che preparino l'aereo. E vai a occuparti dei
dottori. Io non ho voglia di averci a che fare.» John mi guarda come un genitore che sa che il figlio non si accontenterà di un no come risposta. Poi mi stringe le spalle, si china e mi bacia sulla fronte.» «Penso proprio che faremo un viaggetto.» La Grand Cayman si stende come uno smeraldo nel Mar dei Caraibi, liscia e piatta dopo i rilievi montuosi di Cuba. Il pilota atterra all'aeroporto vicino a Georgetown, ma questa volta non troviamo nessuna scorta ad attenderci con la Land Rover. Il governatore dell'isola, dietro richiesta del direttore dell'FBI, ci ha messo a disposizione una limousine nera con la bandierina dell'isola. L'autista locale parla con un forte accento britannico, e senza perdere tempo ci trasporta alla tenuta coloniale di de Becque sulla North Bay. La porta ci viene aperta da Li, in piedi con la stessa compostezza che avevo notato durante il nostro primo incontro. «Mademoiselle» dice inclinando leggermente il capo. «Monsieur, da questa parte, prego.» Questa volta non c'è nessuna perquisizione. John porta due pistole di servizio, e il governatore lo sa bene. Anche de Becque lo sa, ma non ha fatto alcuna obiezione. Li ci conduce in una grande sala sul retro della villa, dove un'imponente finestra si affaccia sul porto. Proprio come l'altra volta, l'espatriato francese, abbronzato e dai capelli argentati, è in piedi presso un angolo della finestra e guarda il mare come un uomo in preda a una nostalgia infinita. «Mademoiselle Glass» annuncia Li, che poi si ritira silenziosa lungo il corridoio. De Becque si gira e annuisce con grazia. «Sono lieto che lei sia qui, chérie. Mi scuso per averla fatta venire fin qui, ma la mia situazione giudiziaria non mi permetteva di raggiungerla.» Fa un passo verso di noi, poi esita. «Devo parlarle di alcune cose che, per il suo e il mio bene, è opportuno che lei sappia.» Ci invita ad avanzare nella stanza. «S'il vous plaît, entrate. Prego.» John e io andiamo a sederci sullo stesso divano su cui sedemmo meno di una settimana fa. De Becque resta in piedi e mentre parla cammina avanti e indietro. «Per prima cosa, la faccenda delle "Donne Addormentate". Voglio con-
fermarvi di non avere mai conosciuto né l'identità dell'autore né quella del suo complice. Conoscevo Christopher Wingate, il mercante d'arte, ed è di lui che vi devo parlare. Come sapete, io comprai le prime cinque "Donne Addormentate" che lui mise in vendita. Mi era stata promessa anche la sesta, per la quale avevo versato un deposito. Poi Wingate mi lasciò, come si suol dire, a bocca asciutta. Vendette il quadro a Hodai Takagi, un collezionista giapponese, anche se sapeva che avrei pagato quanto l'altro era disposto a dare.» «Perché avrebbe dovuto farlo?» chiedo. «Per conquistare nuovi mercati, vero?» commenta John. «Proprio così» conferma de Becque. «Dopo tutto si tratta di affari. Ma quel quadro mi era stato promesso, e io ero arrabbiato. Non sono il tipo che rimugina sulle ingiustizie subite. Non sono una di quelle persone che gli psichiatri chiamano "passiva", mi dispiace, non ricordo bene il termine.» «Passivo-aggressiva?» suggerisco. «Oui. Venni a sapere che Wingate aveva fatto dei grossi investimenti in un progetto di sviluppo edilizio alle Isole Vergini. Feci un paio di telefonate e in breve Monsieur Wingate scoprì che si trattava di un pessimo investimento. Il suo capitale era scomparso. Agente Kaiser, la sto forse annoiando?» «Niente affatto, sono tutto orecchi.» Il francese annuisce, i suoi occhi blu fremono. «Wingate era furioso per quello che avevo fatto e cercò di vendicarsi. Dovete tenere presente che lui era stato mio ospite per alcuni giorni nella tenuta in tre occasioni. Venne a conoscere qualcosa della mia vita. Sedette in questa stanza. Vide molte delle mie cose, tra le quali alcune fotografie.» De Becque fa un gesto in direzione della parete che ospita la collezione di fotografie del Vietnam. «Voi le avete viste. Per lo meno qualcuna.» Cammina verso la parete e prende due foto in bianco e nero, quindi torna verso di noi, guardandole. «Queste non erano appese. Vi piacerebbe vederle?» Le prendo in mano con uno strano presentimento. Nella prima ci sono io; è la mia tipica foto pubblicitaria. La seconda è un ritratto di Jane alla cerimonia di laurea all'Ole Mississippi. Il mio cuore comincia a battere forte. «Cosa ha a che fare lei con queste foto?» Finalmente de Becque si siede sul divano di fronte al nostro. «Jordan, mi
ascolti.» Pronuncia di nuovo la "j" dolce. «A causa delle circostanze, nel nostro precedente incontro, ho taciuto alcune cose. Adesso la situazione è cambiata. Deve sapere che io conoscevo suo padre molto meglio di quanto non le abbia fatto credere. Anche se suppongo che ne avesse il sospetto.» «Sì.» «Eravamo buoni amici. Feci tutto il possibile per la sua carriera e per la sua vita.» «E lui cosa fece per lei?» «Rese la mia vita più ricca. È un grande dono. Ma quello che lei vuole sapere è se suo padre morì davvero al confine cambogiano. Oggi posso dirglielo: lui non morì.» «Mio Dio.» «Sì, fu ferito dai khmer rossi, ma più tardi fu trovato in vita. In un conflitto in Asia ci sono molti aspetti. E gli affari sono affari. Persino con i comunisti, almeno fino alla loro vittoria. Jonathan Glass era mio amico, e quando venni a sapere ciò che era successo, feci ogni sforzo per conoscere che fine avesse fatto. Dopo diversi mesi di negoziato riuscii a mettere a punto uno scambio, con una contropartita che in questo momento non è il caso di discutere.» «Era ferito seriamente?» «Molto seriamente. Aveva una ferita alla testa. Era sopravvenuta un'infezione.» John mi stringe la mano. «Dopo la ferita non era più lo stesso uomo» spiega de Becque. «Sapeva chi era?» «Conosceva il suo nome. Aveva degli sprazzi di memoria. La ferita gli aveva compromesso la vista e la sua carriera fotografica era finita per sempre. Anche se credo che a quel punto non gliene importasse più granché. Le sue preoccupazioni erano limitate alle cose fondamentali: cibo, vino, un tetto sulla testa...» «Amore?» aggiungo. «È qui che lei intende andare a parare? Aveva qualcuno laggiù? Qualcuno come Li?» De Becque alza un sopracciglio come a dire: "Siamo tutti adulti qui, non è vero?" «C'era una donna.» «Lei era con lui prima che gli sparassero?» «Oui.» Inspiro profondamente, poi faccio una domanda quasi impossibile. «Aveva avuto figli da lei?»
Lo sguardo di de Becque mi dice che comprende il mio dolore. «Non. Nessun figlio.» Mi sento molto sollevata, ma sono assalita da una nuova paura. «Si ricordava di noi? Di mia madre? Di mia sorella?» Il francese alza una mano e la sventola da un lato all'altro. «A volte sì, altre no. Ma lasci che le parli apertamente. Se lei teme che suo padre avesse semplicemente deciso di abbandonarvi, di non ritornare in America, non dovrebbe preoccuparsene più. Non poteva. Io avevo una piantagione in Thailandia, e lui visse lì molto semplicemente. Faceva qualche semplice lavoretto, gioiva d'elle piccole cose.» John mi stringe di nuovo la mano, e io sono grata per averlo qui con me. Le emozioni che provo sono troppo intense per affrontarle da sola. Sono sorpresa che la mia segreta speranza si sia rivelata fondata. Mi rattrista che mio padre non fosse più la stessa persona e che, forse, non si ricordasse realmente di me. Ma da un livello più profondo emerge un senso di sollievo che nemmeno le lacrime sono in grado di esprimere. Mio padre non abbandonò la sua famiglia. Non preferì un'altra vita. Non smise volontariamente di amarci. Dal mio cuore sorge un'ondata di gioia infantile: "Papà non mi aveva abbandonata". Non c'è scena che eguagli quella di due signori di fronte a una donna in lacrime. John arrossisce e cerca di prendere un kleenex che non ha, mentre de Becque tira fuori dalla tasca dei calzoni il suo fazzoletto di seta e me lo porge. «Non c'è fretta, ma chérie» mi dice con voce consolante. «Le questioni di famiglia sono sempre difficili.» «Grazie.» Mi asciugo gli occhi e mi soffio il naso, cosa che non sembra preoccupare nessuno dei due. «Mi dica il resto, per favore.» «Prevengo la sua prossima domanda. Suo padre visse fino al 1979. Altri sette anni dopo la ferita che avrebbe dovuto ucciderlo.» Sette anni. Morì quando Jane faceva il primo anno di università all'Ole Miss, l'anno in cui io divenni una fotografa al «Times-Picayune». Prima che io riesca a pensare un'altra domanda, John prende la parola. «Monsieur, la sua storia è cominciata parlando delle figlie, non del padre. È cominciata con delle fotografie. Qual è il legame con Christopher Wingate?» De Becque mi guarda. «Si è ripresa?» «Sì. La prego, continui.» «Lei capisce la situazione? Wingate mi aveva offeso. Mi aveva imbro-
gliato. Perciò gli avevo dato una lezione.» «Capiamo.» «Wingate non si accontentò della lezione ricevuta. Forse non era in grado di sostenere la perdita subita ai Caraibi. In ogni modo, desiderava vendicarsi. E desiderava che certe persone venissero a sapere che c'era riuscito. Per questo motivo si mise in azione per cercare di ferirmi il più duramente possibile. Non è così facile come sembra. Io non ho una famiglia nel senso comune della parola. Non sono in balia della fortuna. Sono un uomo d'affari, un cittadino del mondo. Non sono una persona vulnerabile. Wingate faticò a trovare il mio punto debole.» «Credo di immaginare dove tutto questo vada a parare» commenta John. «Desidera che io continui?» «La prego» gli dico, dando a John un'occhiata che dice chiaramente di non fare altre interruzioni. «Wingate non conosceva soltanto la pittura. Si intendeva anche di fotografia. Quando fu qui, notò ovviamente le foto del Vietnam. Mi incoraggiò a parlarne. Devo ammetterlo, a me piace molto farlo, specialmente dopo qualche bottiglia di buon vino.» Sospira con rimpianto. «Ho sempre tenuto delle foto sue e di sua sorella, in memoria di Jonathan. Talvolta gliele feci vedere. Di lei, Jordan, avevo delle fotografie più recenti perché è famosa. Comunque, Wingate conosceva la sua storia. Sapeva chi era suo padre, e sapeva che a voi tenevo in modo particolare.» «Teneva a noi?» «In una delle sue giornate migliori vostro padre mi chiese di badare a voi. Era verso la fine della sua vita. Allora eravate quasi adulte e io non sapevo che vi trovavate in una situazione finanziaria precaria. Se l'avessi saputo... beh, a cosa servono ora le parole? Dopo la morte di Jonathan scoprii che lei se la cavava, ma che Jane aveva bisogno di soldi per l'università. Mi accertai che li ricevesse.» Scuoto la testa meravigliata. «Non seppi mai come cessò di dipendere da me. Pensai che ricevesse una borsa di studio o qualcosa del genere. Dei prestiti per studenti.» «Sono certo che fu cosi.» Sorride de Becque. «Ma ricevette anche degli aiuti da zio Marcel.» «Lei ci sta dicendo che Wingate scelse come vittima Jane Lacour per colpire lei, vero?» chiede John, incapace di trattenersi oltre. «Io credo di sì. Wingate non conobbe mai l'identità di Roger Wheaton,
ma penso che sapesse da dove provenivano le vittime. Io credo che avesse dei legami molto stretti con un complice di Wheaton.» «Conrad Hoffman» precisa John. «Forse» continua il francese. «In ogni modo a quel punto anch'io avevo capito che le ragazze dipinte erano state rapite a New Orleans.» «Lei ci disse che non ne aveva idea...» «Nessuna prova,» precisa de Becque «solo le congetture di un vecchio. Ma ero attento a non lasciarmi sfuggire quello che accadeva a New Orleans tramite i miei contatti. Sospettavo che se fosse scomparsa un'altra vittima, presto sarebbe arrivata sul mercato un'altra "Donna Addormentata".» «Jane fu la vittima numero cinque» precisa John in tono freddo. «Lei aveva dei sospetti già allora?» De Becque diventa improvvisamente molto serio. «Desidera perdere tempo in un altro inutile dibattito filosofico? Le posso assicurare che per un francese non c'è di meglio.» «No,» intervengo io «ci dica solo ciò che sa.» «Va bene. Credo che le cose siano andate così. Wingate stava cercando un modo per vendicarsi di me. Un giorno, frugando nella sua memoria, si ricordò di ciò che gli avevo raccontato su un certo Jonathan Glass, e sulle due graziose gemelle che io seguivo a distanza: la viaggiatrice e la bella del sud di St. Charles Avenue.» Spalanco la bocca per la sorpresa. «Si tratta di associazioni mentali pure e semplici. A ogni modo, una volta avuta l'idea, la realizzazione fu semplice. Mandò fotografia e indirizzo al complice di Wheaton, fece la sua richiesta, probabilmente promise una ricompensa, e la cosa si tramutò in realtà.» John e io restiamo senza parole. «Così,» continua de Becque «Jane Lacour, nata Glass, diventò la sola "Donna Addormentata" scelta da qualcuno che non fosse il complice di Wheaton. Almeno, così la vedo io.» «Lei vede bene» commenta John. «Jane Lacour morì perché la conosceva. Come si è sentito? Non troppo scosso, presumo.» Le labbra di de Becque si assottigliano. «Giovanotto, lei sta cercando di offendermi. Non glielo consiglio.» Adesso sul suo volto compare un lieve sorriso. «Proprio perché tenevo d'occhio New Orleans, aspettandomi nuovi rapimenti, venni a conoscenza molto rapidamente del rapimento di Jane. Lo dovevo al mio amico scomparso. Dovevo intervenire immediatamente.»
«Cosa fece?» chiedo. «Mandai un emissario a discutere la cosa con Wingate.» «Chi mandò?» domanda John. «Un ex militare. Un amico dai tempi dell'Indocina. Forse lei ha incontrato quel tipo di persona.» «Molto persuasivo?» De Becque annuisce con un deciso gesto del capo. «Proprio così. Costui spiegò a Wingate che la morte di Jane Lacour avrebbe significato non solo la sua condanna a morte, ma anche quella della sua famiglia: donne, bambini, genitori...» «Basta,» imploro «non credo di voler sapere questo.» De Becque fa un gesto di scusa. «Volevo solo farle capire che non lasciai nulla di intentato.» «Ma non ottenne granché, vero?» domanda John. De Becque sospira. «Quando certe cose vengono messe in moto, è difficile fermarle. Wingate si rese conto di quello che era in gioco e usò tutta la sua influenza per fare sì che il complice di Wheaton liberasse Jane. E il complice si dichiarò disposto a provarci.» «Può anche averlo fatto,» gli dico, ricordando ciò che Wheaton mi aveva detto a proposito della morte di mia sorella. «Wheaton mi disse che Jane aveva cercato di scappare e c'era quasi riuscita. Hoffman la fermò già in giardino, e... la finì lì. Wheaton completò il quadro basandosi su una fotografia.» «So che questo l'ha turbata molto.» John fissa de Becque con palese ostilità, ma lui lo ignora. Il francese allunga il braccio e mi afferra la mano. «Si prepari, chérie, ho delle notizie per lei.» «Quali?» «Sua sorella è viva.» La mia mano con un movimento brusco lascia la sua, come se avesse una volontà propria. «Cosa?» «Jane Glass è viva.» «Cosa diavolo vuole dire?» chiede John. «Lei sta dicendo che Hoffman non l'ha uccisa?» «Oui. Considerando quello che Jordan mi ha appena detto, penso che quell'Hoffman l'abbia lasciata andare; poi, per proteggersi, mentì a Wheaton.» «Se Jane Lacour è viva,» prosegue John «dov'è stata negli ultimi diciotto
mesi?» «In Thailandia.» De Becque si stringe nelle spalle. «Laggiù ho ancora una piantagione.» «Lei mente. Persino lei non avrebbe...» «Si risparmi la sua indignazione» taglia corto de Becque. «Mi sono trovato in una posizione molto delicata. Una donna è stata rapita. Diverse donne, per essere esatti. Dal punto di vista legale io ne sapevo più di quanto avrei dovuto. Normalmente non avrei interferito. Ma questa donna era speciale. Non avevo scelta.» «Se questo è vero, lei avrebbe potuto risolvere il caso! Avrebbe potuto salvare...» «Non mi interessa!» urlo. «Non mi interessa cosa ha fatto! Voglio solo sapere se sta dicendo la verità.» De Becque annuisce. «Sì.» «La telefonata?» dico a bassa voce. «La telefonata dalla Thailandia?» «Era sua sorella. All'epoca beveva, era un po' confusa. Aveva appena saputo la verità su vostro padre e ne era rimasta sconvolta.» «Voglio andare in Thailandia» gli dico. «Subito.» Il francese si alza e batte due volte le mani. Li appare alla porta, sembra una principessa dalla pelle dorata; de Becque le fa un cenno e lei sparisce. «Mi ci porterà?» chiedo. «Non ci credo finché non la vedo.» «Prima ci sono altre cose che lei deve conoscere.» «Oddio» mormoro, pensando a Thalia Laveau. «Non mi dica che ha subito un danno cerebrale o che...» «No, no. Ma ha subito un'esperienza traumatica. Hoffman era un uomo dai gusti particolari.» Adesso capisco la precognizione sulla morte di Jane che ebbi a Sarajevo: forse non era fisicamente morta; forse io sentii la morte dell'innocenza che fa parte di ogni stupro, l'uccisione di una parte dell'anima. «Adesso si è in gran parte ristabilita,» spiega de Becque «ma per certi versi è molto fragile. In un primo tempo ebbe bisogno di molte cure. Più tardi, naturalmente, desiderò tornare a casa. Io non potevo permetterlo. Per motivi legali, ma anche perché non volevo che l'autore delle "Donne Addormentate" fosse fermato. Non ho scuse da fare a nessuno se non a lei.» «Per favore, mi porti da lei!» «Subito, ma chérie.» «Jordan,» mi dice John a voce bassa «non permettere che questo tipo ti faccia sperare. È un...»
John si alza dalla sedia e resta in piedi a bocca aperta, come impietrito. Sulla soglia, all'estremità della grande stanza, c'è la copia esatta della donna che lui dice di amare. Jane indossa una tunica bianca come quella di Li, e una donna franco-vietnamita le sta al fianco come un'accompagnatrice. Le mie mani incominciano a tremare, le palme sono diventate appiccicose e ho bisogno di andare in bagno. Non ho mai provato un'emozione simile in tutta la vita. Come avrei potuto? Non ho mai visto una resurrezione. «Figlio di buona donna,» dice piano John a de Becque «per quanto se la sarebbe tenuta?» Jane viene verso di me; ha le guance rosse e gli occhi pieni di lacrime. Li la segue a un passo di distanza, pronta ad afferrarla se dovesse cadere. Jane non è mai stata così bella; sul suo volto e nel suo portamento c'è una nuova consapevolezza di sé. Sento la voce di de Becque alzarsi in una discussione con John, ma non sento le loro parole, sento solo il sangue che mi pulsa nelle orecchie. Quando Jane è a metà percorso, trovo la forza di fare un passo, e poi di correre. Mentre volo verso di lei un'immagine veloce mi attraversa la mente: un uomo alto, con la macchina fotografica al collo, cammina lungo una strada del Mississippi, con al fianco due ragazzine; una lo tiene stretto per mano, l'altra salterella avanti con gli occhi fissi all'orizzonte. Quell'uomo adesso se n'è andato, ma restano le due ragazzine. CAPITOLO VENTINOVESIMO Al tramonto la casa in St. Charles Avenue sembra tale e quale com'era diciotto mesi fa, il giorno in cui Jane ne uscì per andare a correre. Jane e io saliamo gli scalini insieme, mano nella mano. Dopo molte discussioni abbiamo deciso che sarebbe stato meglio così. Senza telefonare prima. Senza cercare di spiegare. Perché fare vivere a Marc e ai bambini un'ora o anche un solo minuto di confusione? E perché lasciare che fosse Marc il primo a vederla, quando certamente sono i bambini ad avere sentito la sua mancanza in modo più forte? Dietro di noi, sul marciapiede, John ci aspetta in automobile. Non nella Mustang che avevo noleggiato, ma in un'auto dell'FBI. Mi volto per guardarlo, poi sollevo il braccio per bussare alla porta, ma Jane mi ferma toccandomi la spalla. «Che cosa c'è?» chiedo. «Tutto a posto?»
Sta piangendo. «Non avrei mai pensato di poter tornare a casa. Non riesco a credere che i miei bambini siano lì.» «Ci sono.» Lo so perché un agente dell'FBI, appostato in strada, ci ha avvertito quando Marc è ritornato a casa. Ci sono tutti: Marc, i bambini e Annabelle. Prendo Jane per mano. «Non pensare troppo. Goditi questo momento. Sei davvero fortunata.» Sto per dire di più, ma mi fermo. Ricordarle che undici donne non torneranno dalle loro famiglie non farebbe altro che scatenare il senso di colpa tipico di chi sopravvive a un'esperienza terribile e che conosco così bene. Invece l'abbraccio e la tengo stretta per un po'. «Eccoci qui.» Busso forte alla porta e aspetto. Dopo poco sento dei passi attraverso l'ampio ingresso, che si fermano prima della porta. Poi la maniglia gira e la grande porta si apre rivelando Annabelle nella sua uniforme bianca e nera. L'anziana donna incomincia a salutarmi, poi spalanca la bocca e resta impietrita. Inizia a tremare. «È...?» «Annabelle, sono io» dice Jane con voce rotta. «Signore Iddio. Entri, signora.» Prende Jane tra le sue braccia e la stringe dolcemente. «Il signor Lacour non sa niente?» «No. Ho pensato fosse meglio che mi vedessero con Jordan. Così avrebbero creduto ai loro occhi.» Annabelle annuisce, stupefatta. «Non ci crederei neanch'io se non l'avessi davanti ai miei occhi.» Jane lentamente si libera dall'abbraccio e chiede: «Dove sono i bambini?». «Sono in cucina, aspettano che io prepari la cena.» «Come stanno?» L'anziana donna sta per rispondere, ma i suoi occhi si riempiono di lacrime. «Per niente bene. Ma adesso tutto si sistemerà. Sissignore. Cosa vuole che faccia?» «Dov'è Marc?» «Nel suo studio.» «Andiamo in cucina.» Annabelle prende Jane per mano e la conduce attraverso il corridoio. Questo ambiente lungo e ampio mi fa tornare alla mente la casa degli omicidi di Wheaton, a soli cinque isolati di distanza, e accelero il passo per
non rimanere indietro. Jane si volta e con la mano mi fa segno di affrettarmi: i bambini, per capire, hanno bisogno di vederci insieme. Ci fermiamo davanti alla porta della cucina e Jane sussurra qualcosa ad Annabelle. La cameriera annuisce e ci precede. Henry, con voce acuta, le chiede chi era alla porta, Annabelle risponde eccitata. «Bambini, adesso chiudete gli occhi.» «Perché?» chiedono all'unisono. «La zia Jordan vi ha portato un regalo speciale.» «La zia è qui?» domanda Lyn, e la speranza che ha nella voce mi spezza il cuore. «Chiudete gli occhi!» ripete Annabelle. «Non riceverete mai più un regalo così, in tutta la vita. Nessuno di voi due.» «Sono chiusi!» urlano le piccole voci. «Zia Jordan?» Quando Jane mi prende la mano sento che sta tremando. La guardo negli occhi, lei annuisce. Oltrepassiamo la soglia. «Zia Jordan?» chiede Lyn, allargando le dita per poter vedere qualcosa. «Adesso potete guardare» dico loro. Quando le mani si abbassano, i bambini spalancano la bocca stupiti e i loro occhi vagano da me a Jane. Poi si illuminano con una luce che non ho mai visto in venti anni di peregrinazioni in giro per il mondo: la luce di chi ha assistito a un miracolo. «Mamma?» bisbiglia Lyn, con gli occhi fissi su Jane. Jane cade in ginocchio, allunga le braccia e i bambini corrono da lei, che li avvolge in un abbraccio scosso da fremiti di pianto. «Cosa succede?» chiede una voce profonda dall'ingresso. «Annabelle? Cos'è tutto questo fracasso...» Marc Lacour, con un pretenzioso abito di tela crespa a strisce bianche e blu, sposta continuamente la sguardo da me alla schiena della donna che abbraccia i suoi bambini e ha un'espressione estremamente confusa. Non riesce a vedere il viso di Jane, ma qualcosa nella figura e nella gestualità gli ha già detto molte cose. Lei abbraccia ancora una volta i bambini e si volta a guardarlo. Marc fa un passo indietro, non crede ai suoi occhi. «Sono io,» dice Jane «sono tornata a casa.» Marc fa un passo in avanti, poi l'afferra tra le braccia e la stringe così forte che sembra sul punto di spezzarle la schiena. «Mio Dio» sospira. «Mio Dio, è un sogno.» «Proprio così» risponde lei, allungando una mano all'indietro.
Io afferro quella mano e la stringo, poi passo loro di fianco ed esco dalla porta. «Dove vai?» mi chiede Jane. Faccio un cenno verso la porta. «Ho bisogno di parlare con qualcuno.» Lei allunga la mano ancora una volta. Quando gliela stringo, con la bocca pronuncia silenziosamente una parola. "Grazie." Lascia andare la mia mano e io attraverso il lungo corridoio da sola. Per diciotto mesi Jane è vissuta sospesa, imprigionata da un uomo che le aveva salvato la vita, un uccello triste in una gabbia dorata. In tutto quel periodo io mi sono trascinata in un tunnel buio, popolato dai sensi di colpa, dalla perdita, sentendo la speranza affievolirsi sempre di più. In verità è una metafora della mia vita: una donna sola, persa in un tunnel con una macchina fotografica, testimone di ciò che accade nelle tenebre, anche quando quel buio penetra dentro di lei. Ma oggi... Oggi io riemergo alla luce. John è appoggiato alla porta della berlina dell'FBI e mi guarda, alla ricerca di indizi che svelino ciò che è appena accaduto. Io scendo gli scalini, prendo le sue mani tra le mie, e lo bacio sulle labbra. «Entriamo?» chiede. «No. Hanno bisogno di stare da soli.» «Dove andiamo?» «Anche noi abbiamo bisogno di un po' di tempo per noi.» Mi abbraccia e mi stringe forte. «È ora di ricominciare a vivere, John.» «Proprio così» risponde lui allungandosi all'indietro per aprire la porta. «Proprio così.» RINGRAZIAMENTI Desidero ringraziare Aaron Priest, Phyllis Grann, David Highfill e Louise Burke. Un ringraziamento particolare all'Agente Speciale Responsabile Charles Matthews del distretto dell'FBI di New Orleans; agli agenti speciali Sheila Thorne e Bob Tucker; e a Ernie Porter dell'FBI di Washington. Per le conoscenze mediche: Jerry Iles, Donald Barraza, Michael Bourland e Noah Archer. I miei complici: Ed Stacker, Courtney Aldridge, Michael Henry.
Per un po' di tutto: Geoff Iles, Carrie Iles, Madeline Iles, Mark Iles, Betty Iles, Rich Hasselberger, Caroline Trefler, Jim Easterling, Fraser Smith, Christie Iles e Kim Barker. Molte grazie anche a tutto il personale della Penguin Putnam, che fin dall'inizio ha lavorato così duramente. Mi scuso per le eventuali omissioni. Gli errori sono unicamente miei. FINE