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JEFFERY DEAVER L’UOMO SCOMPARSO (The Vanished Man, 2003) A Madelyn Warcholik «Il trucco dell'evocazione generalmente è ritenuto dai maghi un insieme di effetto e di metodo. L'effetto è ciò che lo spettatore vede... il metodo è il segreto che si cela dietro l'effetto e che permette all'effetto di accadere.» PETER LAMONT e RICHARD WISEMAN Magic in Theory
PARTE PRIMA EFFETTO Sabato 20 aprile «Il mago esperto cerca di trarre in inganno la mente, non l'occhio.» MARVIN KAYE The Creative Magician's Handbook 1 Buona sera, Riveriti Spettatori. Benvenuti. Benvenuti al nostro spettacolo. Abbiamo moltissime eccitanti sorprese in serbo per voi nel corso dei prossimi due giorni, in cui i nostri illusionisti, i nostri maghi, i nostri prestidigitatori tesseranno i loro incantesimi per divertirvi e intrattenervi. Il nostro primo numero è tratto dal repertorio dell'uomo di cui tutti hanno sentito parlare: Harry Houdini, il più grande artista della fuga d'America, se non del mondo, l'uomo che si è esibito di fronte a teste coronate e presidenti degli Stati Uniti. Alcune delle sue fughe sono così difficili che nessuno ha più osato tentarle, in tutti gli anni che sono trascorsi dalla sua morte prematura. Oggi ricreeremo una fuga in cui Houdini ha rischiato il soffocamento in un numero noto come il Boia Pigro.
In questo trucco, il nostro artista giace prono sul ventre, le mani legate dietro la schiena con delle classiche manette Darby. Ha le caviglie legate e un altro pezzo di corda stretto attorno al collo, come un nodo scorsoio, e annodato alle caviglie. La naturale tendenza delle gambe a raddrizzarsi stringe il nodo scorsoio dando inizio al terribile processo del soffocamento. Perché questo numero viene chiamato il Boia «Pigro»? Perché è lo stesso condannato a eseguire la sentenza. In molti dei più pericolosi numeri del signor Houdini, erano presenti assistenti con coltelli e chiavi per liberarlo nel caso non fosse riuscito a mettere in atto la sua fuga. Spesso era presente anche un dottore. Oggi non verrà presa nessuna di queste precauzioni. Se non riuscirà a fuggire entro quattro minuti, l'artista morirà. Cominceremo tra un attimo... ma prima qualche parola di avvertimento: Non dimenticate mai che entrando nel nostro spettacolo comincerete ad abbandonare la realtà. Ciò che sarete assolutamente convinti di vedere potrebbe non esistere affatto. Quella che secondo voi non può essere che un'illusione potrebbe rivelarsi come la severa verità di Dio. Il vostro compagno nel nostro show potrebbe rivelarsi in realtà un completo sconosciuto. Un uomo o una donna tra il pubblico che non riconoscete potrebbe conoscervi persino troppo bene. Ciò che sembra sicuro potrebbe essere mortale. E i pericoli da cui vi guardate potrebbero essere solo distrazioni per attrarvi verso un pericolo più grande. Nel nostro spettacolo, a cosa potrete credere? Di chi vi potrete fidare? Be', Riveriti Spettatori, la risposta è che non dovreste credere a niente. E che non dovreste fidarvi di nessuno. Proprio di nessuno. Ora il sipario si alza, le luci si abbassano, la musica sfuma, lasciando solo il suono sublime di cuori che battono nell'attesa. E il nostro spettacolo ha inizio... L'edificio doveva aver visto un bel po' di spettri. Gotico, sudicio, oscuro. Stretto tra due grattacieli dell'Upper West Side, sormontato da una balaustra di ferro battuto, aveva molte finestre rotte. Costruito durante l'era vittoriana, era stato prima un convitto e più tardi un manicomio giudiziario, dove i pazzi criminali avevano consumato le loro tragiche esistenze.
La Manhattan School of Music and Performing Arts avrebbe potuto ospitare una dozzina di spiriti. Ma nessuno così vicino quanto quello che adesso stava aleggiando sopra il corpo caldo della giovane donna che giaceva prona nel vestibolo poco illuminato del piccolo teatro. I suoi occhi erano immobili e sgranati ma non ancora vitrei e il sangue sulle sue guance non era ancora marrone. Il suo viso era scuro come una prugna a causa della costrizione della stretta corda che le legava il collo alle caviglie. Attorno a lei erano sparpagliati una custodia da flauto, spartiti e un grande bicchiere rovesciato di Starbucks, il caffè che le macchiava i jeans e la camicia verde Izod e disegnava una virgola di liquido scuro sul pavimento di marmo. Era presente anche l'uomo che l'aveva uccisa, chino su di lei per esaminarla con attenzione. Era calmo e non sentiva alcun bisogno di fare in fretta. Oggi era sabato, ed era ancora presto. Come ben sapeva, durante i weekend a scuola non si tenevano lezioni. Gli studenti usavano le sale prove, ma queste si trovavano in un'altra ala dell'edificio. L'uomo si chinò ancora di più sulla donna, strizzando gli occhi, chiedendosi se avrebbe visto una qualche essenza, uno spirito forse, sollevarsi dal suo corpo. Non vide niente. Si raddrizzò, pensando a cos'altro avrebbe potuto fare alla forma immobile di fronte a lui. «È certo che fossero delle grida?» «Sì... No», disse la guardia di sicurezza. «Forse non erano grida, capisce. Urla. Preoccupate. Per un secondo o due. Poi si sono fermate.» L'agente di pattuglia Diane Franciscovich, che lavorava al Ventesimo Distretto, continuò: «Qualcun altro ha sentito qualcosa?» La guardia massiccia, che respirava rumorosamente, lanciò un'occhiata all'agente alta e bruna, scosse la testa e strinse e aprì le grandi mani. Si passò i palmi scuri sui pantaloni blu. «Chiamiamo i rinforzi?» domandò Nancy Ausonio, un'altra giovane agente di pattuglia, bionda e più bassa della sua partner. Franciscovich non pensava che fosse necessario, anche se non ne era sicura. Gli agenti che pattugliavano quel tratto dell'Upper West Side si occupavano per lo più di incidenti stradali, taccheggi, furti d'auto e di confortare le persone aggredite e sotto choc. Era la prima volta che accadeva una cosa del genere — mentre stavano facendo il loro giro di controllo del sa-
bato mattina, le due agenti erano state avvistate e chiamate dentro la scuola dalla guardia di sicurezza perché lo aiutassero a controllare l'origine delle grida. Be', delle urla preoccupate. «Aspettiamo un momento», rispose calma Franciscovich. «Stiamo a vedere che cosa succede.» La guardia disse: «Sembrava che provenissero da qualche parte qui dentro. Non so». «Che posto spettrale», disse Ausonio, stranamente a disagio. Era un'agente sempre pronta a buttarsi nel bel mezzo di una mischia anche se doveva affrontare uomini grossi due volte lei. «I suoni, sapete. Difficile capire. Capite cosa sto dicendo? Difficile capire da dove arrivano.» Franciscovich era concentrata su ciò che aveva detto la sua collega. Un posto dannatamente spettrale, aggiunse mentalmente. Dopo che i tre ebbero percorso quelli che sembravano chilometri di corridoi senza trovare niente fuori dall'ordinario, la guardia di sicurezza si fermò. Con un cenno, Franciscovich indicò una porta di fronte a loro. «Cosa c'è qui?» «Non c'è motivo per cui debbano esserci degli studenti. È solo...» Franciscovich aprì la porta. Si ritrovarono in un piccolo vestibolo su cui si apriva un'altra porta sulla quale era scritto «Teatro A». E vicino a quella porta c'era il corpo di una giovane donna, legata stretta, un cappio attorno al collo, i polsi ammanettati. Gli occhi aperti nella morte. Un uomo sui cinquant'anni con i capelli scuri e la barba era chino su di lei. L'uomo alzò lo sguardo, sorpreso dalla loro entrata. «No!» gridò Ausonio. «Oh, Cristo», gemette la guardia. Gli agenti estrassero le loro armi e Franciscovich puntò la pistola sull'uomo con quella che, pensò, era una mano straordinariamente salda. «Tu, non muoverti! Alzati lentamente, allontanati da lei e alza le mani.» La sua voce era molto meno ferma delle dita strette attorno all'impugnatura della Glock. L'uomo obbedì. «Sdraiati, faccia a terra. Tieni le mani in vista!» Ausonio fece un passo verso la ragazza. Fu Franciscovich a notare che la mano destra dell'uomo, sopra la sua te-
sta, era stretta in un pugno. «Aprila...» Pop... Il flash di luce abbagliante riempì la stanza e l'accecò. Il lampo parve scaturire direttamente dalla mano del sospetto e brillò per qualche istante prima di spegnersi. Ausonio si fermò di colpo e Franciscovich si accovacciò, arretrando e strizzando le palpebre, facendo oscillare la pistola a destra e a sinistra. Era in preda al panico, sapeva che il killer aveva tenuto gli occhi chiusi per proteggerli dal flash e ora probabilmente stava puntando su di loro la sua arma o era sul punto di aggredirli con un coltello. «Dove, dove, dove?» gridò. Poi — vagamente, a causa della vista offuscata e del fumo che si stava disperdendo — vide l'assassino correre nel teatro e chiudere la porta sbattendola. Si udì il rumore attutito di una sedia o un tavolo spinto contro la porta. Ausonio cadde in ginocchio accanto alla ragazza. Con un coltellino svizzero tagliò la corda che le stringeva il collo, la fece rotolare supina e, usando un boccaglio usa e getta, cominciò a praticarle la procedura di rianimazione. «Ci sono altre uscite?» gridò Franciscovich alla guardia. «Solo una, sul retro, dietro l'angolo. A destra.» «Finestre?» «No.» «Ehi», disse ad Ausonio mentre scattava. «Tieni d'occhio questa porta!» «Ricevuto!» rispose l'agente bionda e soffiò un altro respiro tra le labbra pallide della vittima. Altri colpi dall'interno del teatro mentre l'assassino rinforzava la sua barricata; Franciscovich svoltò di corsa l'angolo diretta alla porta di cui le aveva parlato la guardia, mentre chiedeva rinforzi alla centrale con il suo Motorola. In quel momento vide davanti a sé qualcuno fermo in fondo al corridoio. Franciscovich si fermò di colpo, puntò la pistola in direzione del petto dell'uomo e il fascio di luce brillante della torcia alogena sul suo volto. «Oh, Signore», gracchiò il vecchio custode, lasciando cadere a terra la scopa che aveva tra le mani. Franciscovich ringraziò Dio per averle tenuto il dito lontano dal grilletto della Glock. «Ha visto qualcuno uscire da questa porta?» «Cosa succede?»
«Ha visto qualcuno?» gridò Franciscovich. «No, signora.» «Da quanto tempo è qui?» «Non lo so. Forse dieci minuti.» Giunse un altro suono dall'interno mentre l'assassino continuava a bloccare la porta. Franciscovich ordinò al custode di andare nel corridoio principale insieme alla guardia di sicurezza, quindi si avvicinò alla porta laterale. Tenendo la pistola all'altezza degli occhi, provò a ruotare dolcemente la maniglia. La porta era aperta. Le si mise accanto in modo da non trovarsi sulla linea di tiro, nel caso l'assassino avesse deciso di sparare attraverso il legno. Un trucco che ricordava di aver visto in New York Police Department, anche se forse lo aveva sentito da un istruttore dell'Accademia. Un altro suono attutito. «Nancy, ci sei?» sussurrò Franciscovich nel walkie-talkie. La voce scossa di Ausonio disse: «È morta, Diane. Ho tentato. Ma è morta». «Il sospetto non è uscito da questa parte. È ancora dentro. Riesco a sentirlo.» Silenzio. «Ho tentato, Diane. Ho tentato.» «Basta così. Coraggio. Sei pronta? Sei pronta?» «Certo, sto bene. Veramente.» La voce dell'agente si fece più dura. «Andiamo a prenderlo.» «No», disse Franciscovich, «lo teniamo sotto controllo fino all'arrivo dell'Unità Emergenze. È tutto quello che dobbiamo fare. Resta in posizione. Stai lontana dalla porta. E resta in posizione.» In quell'istante sentì la voce dell'uomo che gridava: «Ho un ostaggio. Ho una ragazza qui con me. Se cercate di entrare la uccido!» Oh, Gesù... «Tu, lì dentro!» gridò Franciscovich. «Nessuno farà niente. Non preoccuparti. Ma non farle del male.» Qual era la procedura? si chiese. In quel momento non le erano d'aiuto né i programmi televisivi di prima serata né il suo addestramento all'Accademia. Sentì Ausonio chiamare la Centrale per informare i loro colleghi che ora il sospetto si era barricato e aveva un ostaggio. Franciscovich gridò all'assassino: «Cerca di restare calmo! Puoi...» Un fragoroso colpo di pistola proveniente dall'interno dell'edificio fece trasalire Franciscovich. «Cos'è successo? Sei stata tu?» gridò alla radio. «No», replicò la collega. «Credevo fossi stata tu.»
«No. È stato lui. Tu stai bene?» «Sì. Ha detto di avere un ostaggio. Credi che le abbia sparato?» «Non lo so. Come faccio a saperlo?» Franciscovich continuò tra sé e sé: Dove diavolo sono i rinforzi? «Diane», sussurrò Ausonio dopo qualche istante. «Dobbiamo entrare. Forse la ragazza è ferita.» Poi, gridando: «Tu, lì dentro!» Nessuna risposta. «Rispondi!» Niente. «Forse si è ucciso», disse Franciscovich. O forse ha sparato per farci credere che si è ucciso e ci sta aspettando, con la pistola puntata sulla porta, all'altezza dello stomaco. Poi le tornò in mente quella terribile immagine: la porta consunta che dava sul vestibolo si apriva gettando una luce pallida sulla vittima, il suo viso blu e freddo come un tramonto d'inverno. Impedire alla gente di compiere gesti simili era il motivo principale per cui aveva deciso di diventare un'agente di polizia. «Dobbiamo entrare, Diane», sussurrò Ausonio. «Lo credo anch'io. Okay. Entriamo.» Parlò in modo leggermente meccanico mentre contemporaneamente pensava alla sua famiglia e a come tenere la mano sinistra premuta sulla destra, ora che stava per fare fuoco con un'automatica. «Di' alla guardia che abbiamo bisogno di avere le luci accese nel teatro.» Un istante dopo Ausonio confermò: «Gli interruttori sono qui fuori. Li premerà quando glielo dirò io». Un profondo respiro, che Franciscovich sentì attraverso il microfono. Poi disse: «Pronta. Al tre. Conta tu». «Okay, Uno... Aspetta. Quando entrerò sarò alla tua destra, a ore due. Non spararmi.» «Okay. A ore due. Io sarò...» «Alla mia sinistra.» «Continua.» «Uno.» Franciscovich afferrò la maniglia con la mano sinistra. «Due.» Questa volta infilò il dito nel ponticello della sua arma, accarezzando gentilmente il secondo grilletto, la sicura delle Glock. «Tre!» Franciscovich gridò con tanta forza che fu certa che la sua collega l'avrebbe sentita anche senza la radio. Spalancò la porta e si precipitò nella grande sala rettangolare proprio mentre si accendevano le luci. «Fermo!» gridò... a una stanza vuota. Accovacciandosi, la pelle che le formicolava per la tensione, puntò l'ar-
ma a destra e a sinistra mentre scandagliava con gli occhi ogni centimetro di quello spazio. Nessun segno dell'assassino, nessun segno dell'ostaggio. Lanciò uno sguardo alla sua sinistra, all'altro ingresso, dove vide Nancy Ausonio esaminare la sala proprio come aveva appena fatto lei. «Dove?» sussurrò la donna. Franciscovich scosse la testa. Notò una cinquantina di sedie pieghevoli di legno disposte in file ordinate. Quattro o cinque erano rovesciate di lato o all'indietro. Ma non sembrava che fossero sistemate per creare una barricata, erano state semplicemente buttate per terra. Alla sua destra c'era un basso palcoscenico su cui si trovavano un amplificatore, due altoparlanti e un malconcio pianoforte a coda. La giovane agente riusciva a vedere tutto ciò che la sala conteneva. Tranne l'assassino. «Cos'è accaduto, Nancy? Dimmi cos'è accaduto.» Ausonio non rispose; come la sua collega, si stava guardando attorno freneticamente, in ogni direzione, scrutando ogni ombra, ogni mobile, anche se era ormai chiaro che l'uomo non si trovava in quella sala. Spettrale... L'ambiente era praticamente un cubo sigillato. Nessuna finestra. Le grate dell'aria condizionata e del riscaldamento erano larghe al massimo quindici centimetri. Un soffitto rivestito di legno, e non di pannelli acustici. Nessuna botola sul palco. Nessun'altra porta eccetto quella principale usata da Ausonio e quella di sicurezza da cui era entrata Franciscovich. «Dove?» sussurrò quest'ultima senza quasi emettere un suono. La sua collega mormorò qualcosa in risposta. L'agente non riuscì a decifrare le sue parole ma lesse con chiarezza il messaggio sul suo volto: non ne ho idea. «Ehi», chiamò con forza una voce dalla soglia. Le due agenti si voltarono in quella direzione, puntando le pistole sul vestibolo vuoto. «Sono arrivati altri poliziotti e un'ambulanza.» Era la guardia di sicurezza, che si teneva nascosta nel corridoio principale. Con il cuore che le batteva all'impazzata nel petto, Franciscovich gli disse di entrare. Lui domandò: «È, uhm... Ecco, lo avete preso?» «Non è qui», rispose Ausonio con voce tremante. «Cosa?» L'uomo lanciò un'occhiata nel teatro. Franciscovich sentì le voci degli agenti e dei tecnici della scientifica che
le stavano raggiungendo. I suoni secchi delle attrezzature. Tuttavia, le due agenti non riuscivano ancora a decidersi a raggiungere i loro colleghi. Erano come pietrificate, in mezzo al teatro, entrambe inquiete e frastornate, e cercavano inutilmente di capire come avesse fatto l'assassino a fuggire da una stanza in cui non c'erano vie di fuga. 2 «Sta ascoltando della musica.» «Io non sto ascoltando della musica. Lo stereo è semplicemente acceso. Ecco tutto.» «Musica, eh?» mormorò Lon Sellitto entrando nella camera da letto di Lincoln Rhyme. «Questa sì che è una coincidenza.» «Gli è venuta la passione per il jazz», spiegò Thom al detective corpulento. «E ammetto che la cosa mi ha sorpreso non poco.» «Come ho già detto», continuò Lincoln in tono petulante, «sto lavorando e la musica è semplicemente un sottofondo. Cosa intendi con coincidenza?» Indicando con un cenno del capo il monitor a schermo piatto di fronte al letto Flexicair di Rhyme, il giovane assistente, che indossava una camicia bianca, pantaloni marroni e una cravatta viola, precisò: «No, non sta lavorando. A meno che fissare per ore la stessa pagina non sia lavorare. Lui non mi permetterebbe di lavorare così». «Comando, volta pagina.» Il computer riconobbe la voce di Rhyme e obbedì al suo ordine, visualizzando sul monitor una nuova pagina della Forensic Science Review. Lincoln chiese a Thom in tono aspro: «Hai forse voglia di interrogarmi su quello che sto fissando? La composizione delle cinque principali tossine esotiche che sono state trovate ultimamente in Europa nei laboratori dei terroristi? E se ci giocassimo un po' di soldi sulle risposte?» «No, abbiamo altre cose da fare», replicò l'assistente, alludendo alle varie funzioni corporali a cui devono dedicarsi gli infermieri quando i loro pazienti sono quadriplegici come Lincoln Rhyme. «Ce ne occuperemo tra qualche minuto», disse il criminologo, piacevolmente concentrato sull'energico riff di tromba. «Ce ne occuperemo subito. Se vuoi scusarci un momento, Lon.» «Certo, non c'è problema.» Grosso e sgualcito come sempre, Sellitto uscì nel corridoio fuori dalla camera da letto al secondo piano della casa di
Rhyme a Central Park West e si chiuse la porta alle spalle. Mentre Thom eseguiva i suoi compiti con precisione, Lincoln Rhyme ascoltava la musica e si chiedeva: Coincidenza? Cinque minuti dopo, Thom chiamò di nuovo Sellitto in camera da letto. «Caffè?» «Grazie. Ci vuole proprio. È sabato ed è fottutamente troppo presto per lavorare.» L'assistente uscì dalla stanza. «Allora, come mi trovi, Linc?» chiese con una piroetta il detective di mezza età, che indossava il suo tipico completo grigio, fatto, a quanto pareva, di un tessuto eternamente spiegazzato. «Sto assistendo a una sfilata?» domandò Rhyme. Coincidenza? Poi la sua mente tornò nuovamente a concentrarsi sul CD. Come diavolo fa uno a suonare la tromba in modo così dolce? Come è possibile trarre un suono simile da uno strumento metallico? Il detective continuò: «Ho perso sei chili. Rachel mi ha messo a dieta. È tutta colpa dei grassi. Elimina i grassi e sarai stupito da quanto peso riuscirai a perdere». «I grassi, sì. Lo sapevo già, Lon. E allora...?» Replicò, sottintendendo: Arriva al punto. «C'è un caso davvero bizzarro. Mezz'ora fa è stato ritrovato un corpo alla scuola di musica che si trova a pochi passi da qui. Mi occupo io del caso e potrei aver bisogno di un po' d'aiuto.» Scuola di musica. E io sto ascoltando della musica. Che misera coincidenza. Sellitto gli espose i fatti principali: una studentessa era stata uccisa, l'assassino era stato quasi catturato ma era riuscito a scappare attraverso una botola che nessuno era ancora riuscito a trovare. La musica era matematica. Rhyme, che era uno scienziato, lo capiva benissimo. La musica era logica, perfettamente strutturata. E, rifletté, era anche infinita. Si poteva scrivere un infinito numero di melodie. Si chiese quale fosse il procedimento. Rhyme era convinto di non possedere alcuna creatività. Aveva preso lezioni di piano all'età di undici o dodici anni e, anche se aveva avuto una cotta incredibile per la signorina Osborne, le lezioni in sé erano state un assoluto fallimento. I suoi ricordi più cari legati al pianoforte riguardavano le immagini stroboscopiche delle corde in risonanza nel suo progetto per un concorso scolastico di scienze.
«Mi stai ascoltando, Linc?» «Un caso, hai detto. Bizzarro.» Sellitto fornì altri dettagli, conquistando lentamente l'attenzione di Rhyme. «Ci dev'essere un modo per uscire dal teatro. Ma nessuno di quelli della scuola o della nostra squadra è riuscito a trovarlo.» «Com'è la scena?» «Ancora piuttosto vergine. Possiamo farla esaminare da Amelia?» Rhyme lanciò un'occhiata all'orologio. «Sarà impegnata ancora per una ventina di minuti.» «Nessun problema», disse Sellitto, massaggiandosi l'addome come se fosse in cerca dei chili perduti. «La chiamerò sul cercapersone.» «Non è il caso di distrarla proprio adesso.» «Perché, cosa sta facendo?» «Oh, qualcosa di pericoloso», disse Rhyme, tornando a concentrarsi ancora una volta sulla voce vellutata della tromba. «Che altro?» Amelia Sachs sentiva l'odore della parete di mattoni umidi contro cui stava premendo il volto. Aveva i palmi delle mani sudati e, sotto la chioma rosso fuoco raccolta sotto il cappello d'ordinanza, il cuoio capelluto le prudeva terribilmente. Tuttavia restò completamente immobile mentre un poliziotto in uniforme le scivolava accanto e premeva a sua volta il viso contro la parete. «Okay, questa è la situazione», disse l'uomo, indicando con un cenno del capo la loro destra. Le spiegò che proprio dietro l'angolo dell'edificio c'era un cortile vuoto, in mezzo al quale si trovava l'auto che era servita per la fuga e si era schiantata pochi minuti prima, dopo un inseguimento a tutta velocità. «È ancora utilizzabile?» domandò Amelia. «No. Ha colpito in pieno un cassonetto ed è fuori uso. Tre criminali. Sono scappati ma siamo riusciti ad arrestarne uno. Un altro è nell'auto, con un grosso fucile da caccia. Ha ferito un agente di pattuglia.» «Condizioni?» «Ferita superficiale.» «Qui?» «No. Fuori dal perimetro. Un palazzo a ovest rispetto alla nostra posizione.» «Il terzo criminale?» L'agente sospirò. «Dannazione, lui è riuscito a rifugiarsi qui dentro.»
Con un cenno indicò l'edificio di mattoni che stavano praticamente abbracciando. «Si è barricato all'interno. Ha un ostaggio. Una donna incinta.» Amelia assimilò quelle informazioni mentre appoggiava il peso prima su un piede poi sull'altro per trovare sollievo dalle fitte dell'artrite che le tormentava le giunture. Accidenti al dolore. Notò il nome del collega, scritto sul petto. «L'arma del criminale con l'ostaggio, Wilkins?» «Una pistola. Tipo sconosciuto.» «Dove sono i nostri?» Il giovane indicò due poliziotti dietro un muro in fondo al cortile. «Altri due sono davanti al palazzo e sorvegliano il criminale con l'ostaggio.» «Qualcuno ha chiamato i rinforzi?» «Non lo so. Ho perso la mia radio quando c'è stato lo scontro a fuoco.» «Indossi il giubbotto antiproiettile?» «Negativo. Stavo dirigendo il traffico... Cosa diavolo facciamo?» Lei sintonizzò il suo Motorola su una particolare frequenza e disse: «Scena del Crimine Cinque Otto Otto Cinque al Supervisore». Un istante dopo: «Qui il capitano Sette Quattro. Continua». «Un dieci-tredici in un cortile a est del sei-zero-cinque della Delancey. Un agente colpito. Abbiamo bisogno immediato di rinforzi, di un'ambulanza e di una squadra dell'UE. Due soggetti, entrambi armati. Uno con ostaggio; avremo bisogno di un negoziatore.» «Roger, Cinque Otto Otto Cinque. Un elicottero di osservazione?» «Negativo, Sette Quattro. Uno dei sospetti ha un fucile di grosso calibro. E i poliziotti sono i loro bersagli.» «Manderemo rinforzi il prima possibile. Ma i Servizi Segreti hanno chiuso metà del centro per la visita del vicepresidente, che sta per atterrare al JFK. Ci sarà un ritardo. Gestite la situazione a vostra discrezione. Chiudo.» «Roger. Chiudo.» Il vicepresidente, pensò Amelia. Si è appena giocato il mio voto. Wilkins scosse la testa. «Non possiamo mandare un negoziatore all'appartamento. Non con un criminale armato ancora nell'auto.» «Ci sto lavorando», replicò Amelia. Si sporse ancora oltre l'angolo dell'edificio e lanciò un'occhiata al veicolo, una macchina bassa con la parte anteriore contro un cassonetto, le portiere spalancate, da cui si intravedeva un uomo magro che imbracciava un fucile. Ci sto lavorando...
Gridò: «Tu nell'auto, sei circondato. Se non lascerai cadere l'arma, apriremo il fuoco. Fallo subito!» L'uomo si accucciò e puntò il fucile nella sua direzione. Amelia si accovacciò per proteggersi. Con il Motorola chiamò gli agenti appostati in fondo al cortile. «Ci sono ostaggi nell'auto?» «Nessun ostaggio.» «Siete sicuri?» «Affermativo», rispose l'agente. «Prima che cominciasse a sparare, abbiamo avuto modo di dare una bella occhiata.» «Okay. Potete colpirlo?» «Probabilmente attraverso la portiera.» «No, non sparate alla cieca. Prendete posizione. Ma solo se siete al riparo per tutto il percorso.» «Roger.» Amelia vide gli uomini mettersi in posizione. Un istante più tardi, uno degli agenti disse: «Lo tengo sotto tiro. Devo fare fuoco?» «Aspetta.» Quindi gridò: «Tu, nell'auto. Con il fucile. Hai dieci secondi prima che apriamo il fuoco. Lascia cadere l'arma. Hai capito?» Ripeté il tutto in spagnolo. «Fottiti.» Amelia la considerò una risposta affermativa. «Dieci secondi», gridò. «Stiamo contando.» Alla radio disse ai due agenti: «Dategli venti secondi. Poi avete via libera». I dieci secondi erano quasi trascorsi, quando l'uomo buttò il fucile e uscì dall'auto con le mani in alto. «Non sparate! Non sparate!» «Tieni le mani bene in alto. Raggiungi l'angolo di questo edificio. Se abbassi le mani, ti spariamo.» Quando l'uomo arrivò all'angolo, Wilkins lo ammanettò e lo perquisì. Amelia restò accovacciata. Chiese al criminale: «Il tizio dentro l'edificio. Il tuo amico. Chi è?» «Non te lo dirò...» «Oh, sì, che me lo dirai. Perché se lo prenderemo, cosa che stiamo per fare, verrai accusato di omicidio aggravato. Ora, vale la pena farsi quarantacinque anni a Ossining per quello là dentro?» L'uomo sospirò. «Forza», sbottò lei. «Nome, indirizzo, famiglia, cosa gli piace mangiare, il nome di sua madre, altri parenti conosciuti... scommetto che puoi farti venire in mente un sacco di informazioni utili sul suo conto.»
Lui emise un profondo sospiro e cominciò a parlare. Amelia prendeva appunti. Il Motorola gracchiò. Il negoziatore e la squadra d'appoggio erano appena arrivati. Amelia passò i suoi appunti a Wilkins. «Portali al negoziatore.» Lesse al criminale i suoi diritti, domandandosi se aveva gestito la situazione nel miglior modo possibile. Aveva messo in pericolo delle vite? Avrebbe dovuto occuparsi in prima persona dell'agente ferito? Cinque minuti più tardi, il capitano supervisore svoltò l'angolo del palazzo. Sorrise. «Il criminale con l'ostaggio ha liberato la donna. Nessun ferito. Li abbiamo arrestati tutti e tre. L'agente ferito sta bene. Solo un graffio.» Una donna poliziotto dai corti capelli biondi che le sfuggivano dal cappello d'ordinanza si era unita a loro. «Ehi, guardate. Abbiamo vinto un premio supplementare.» Sollevò una grande borsa piena di polvere bianca e un'altra che conteneva pipe e altri ammennicoli per la droga. Mentre il capitano controllava, annuendo con aria di approvazione, Amelia domandò: «Era nella loro macchina?» «No. L'ho trovata in una Ford dall'altra parte della strada. Stavo interrogando il proprietario in qualità di testimone e lui ha cominciato a sudare e a innervosirsi, così ho perquisito la sua auto.» «Dov'era parcheggiata?» chiese Amelia. «Nel suo garage.» «Hai fatto richiesta di un mandato?» «No. Come vi ho detto, l'uomo cominciava a essere un po' troppo nervoso e dal marciapiede potevo vedere un angolo della borsa. Si tratta di causa probabile.» «No.» Amelia stava scuotendo la testa. «È perquisizione illegale.» «Illegale? Abbiamo fermato quel tizio la scorsa settimana per eccesso di velocità e gli abbiamo trovato un chilo d'erba nel bagagliaio. Lo abbiamo arrestato legalmente.» «Per strada è diverso. C'è una minore aspettativa della privacy in un veicolo in movimento su una strada pubblica. In questo caso, tutto ciò di cui hai bisogno per un arresto è una causa probabile. Ma quando un'auto si trova su una proprietà privata, anche se vedi della droga, hai comunque bisogno di un mandato.» «Ma questo è pazzesco», protestò l'agente sulla difensiva. «Aveva con sé tre etti di cocaina pura. È uno spacciatore. Quelli della narcotici passano mesi interi cercando di inchiodare gente del genere.»
Il capitano si rivolse ad Amelia. «Ne sei sicura, agente?» «Affermativo.» «Suggerimenti?» Amelia rispose: «Confiscare la droga, mettere una paura del diavolo al delinquente e fornire il suo numero di targa e le sue generalità alla narcotici». Quindi lanciò un'occhiata all'agente bionda. «E tu faresti meglio a ripassare le procedure per la perquisizione e il sequestro.» L'agente fece per ribattere, ma Amelia non le stava più prestando attenzione. Osservava l'auto dei fuggitivi contro il cassonetto. Strizzò gli occhi. «Agente...» cominciò a dire il capitano. Lei lo ignorò e chiese a Wilkins: «Hai detto tre fuggitivi?» «Esatto.» «Come fai a saperlo?» «Era nel rapporto della gioielleria che hanno rapinato.» Amelia si incamminò nel cortile pieno di detriti, estraendo la Glock. «Osserva bene l'auto», disse in tono brusco. «Gesù», mormorò Wilkins. Tutte e quattro le portiere erano spalancate. Con quell'auto erano scappati quattro uomini. Accovacciandosi, Amelia scrutò il cortile e puntò l'arma in direzione dell'unico nascondiglio possibile: un breve vicolo cieco dietro il cassonetto. «Uomo armato!» gridò, quasi prima di scorgere il movimento. Tutti attorno a lei si voltarono mentre il massiccio individuo in T-shirt che imbracciava una doppietta lasciava di corsa il suo nascondiglio diretto verso la strada. Non appena l'uomo abbandonò il riparo, Amelia puntò la Glock su di lui, mirando al petto. «Getta via l'arma!» ordinò. Lui esitò per un istante, quindi sogghignò e puntò il fucile contro gli agenti. Lei spinse la Glock in avanti. E in tono allegro disse: «Bang, bang... Sei morto». L'uomo col fucile si bloccò e scoppiò a ridere. Scosse la testa, ammirato. «Sei dannatamente brava. Pensavo di avercela fatta.» Tenendo il tozzo fucile contro una spalla, si avvicinò al gruppo di colleghi poliziotti fermi vicino all'edificio. L'altro «sospetto», l'uomo che era stato nell'auto, si voltò per farsi togliere le manette da Wilkins. L'«ostaggio», impersonato da un'agente ispanica per nulla incinta che
Amelia conosceva da anni, si unì a loro e le diede una pacca sulla spalla. «Bel lavoro, Amelia, mi hai salvato il culo.» Amelia mantenne un'espressione solenne, anche se si sentiva soddisfatta. Come uno studente che avesse appena passato un esame importante. Cosa che, in effetti, era appena accaduta. Amelia Sachs stava per raggiungere un nuovo obiettivo. Suo padre Herman era stato per tutta la vita un poliziotto nella Divisione Servizi di Pattuglia. Ora Amelia aveva lo stesso rango e sarebbe anche stata felice di mantenere quel grado per qualche altro anno, ma dopo gli attacchi dell'11 settembre aveva deciso di provare a fare di più per la sua città. Così aveva fatto richiesta per essere promossa a sergente. Non esiste un altro gruppo di agenti che abbia lottato contro il crimine come quello dei detective del Dipartimento di Polizia di New York. La loro tradizione risale al duro e brillante ispettore Thomas Byrnes, incaricato di dirigere il neonato Detective Bureau negli anni successivi al 1880. L'arsenale di Byrnes includeva minacce, percosse e sottili deduzioni: una volta identificò un gruppo di ladri rintracciando la provenienza di una minuscola fibra rinvenuta su una scena del crimine. Sotto la magnifica guida di Byrnes, i detective del Bureau divennero noti come gli Immortali e riuscirono a ridurre drasticamente il numero di crimini in una città selvaggia quanto il Far West. L'agente Herman Sachs era stato un collezionista di cimeli del Dipartimento di Polizia e poco prima di morire aveva regalato alla figlia uno dei suoi pezzi preferiti: un taccuino consunto che Byrnes aveva usato per prendere appunti durante gli interrogatori. Quando Amelia era giovane — e sua madre non era nei paraggi — il padre le leggeva i brani ancora decifrabili e insieme creavano delle storie. 12 Ottobre 1883. È stata trovata anche l'altra gamba! A Slaggardy, nel secchio del carbone da cinque pinte. Mi aspetto la confessione di Cotton Williams da un momento all'altro. Dato il prestigio (nonché i soldi) di cui godeva il gruppo, era strano che le donne avessero maggiori opportunità nel Detective Bureau piuttosto che in qualunque altra divisione del Dipartimento di Polizia di New York. Se Thomas Byrnes era l'icona del detective uomo, Mary Shanley era la sua controparte femminile — e una delle eroine di Amelia. Impegnata nella caccia ai criminali negli anni Trenta, la Shanley era stata un'agente forte e tutta d'un pezzo, che una volta aveva detto: «Se hai un'arma da usare, usala». Cosa che aveva fatto di frequente. Dopo anni passati a combattere il
crimine in città, si era ritirata con la qualifica di detective di primo grado. Tuttavia Amelia voleva essere qualcosa di più di un detective, che è soltanto una specializzazione. Amelia voleva anche il grado. Nel Dipartimento di Polizia di New York, come nella maggior parte delle forze dell'ordine, un agente diventa detective sulla base del merito e dell'esperienza. Ma per diventare sergente, il candidato doveva sottoporsi a un arduo triathlon di esami: scritto, orale e — cosa che Amelia aveva appena fatto — un esercizio pratico, una simulazione per testare la competenza nella gestione degli uomini, la sensibilità verso la comunità e la capacità di giudizio in uno scontro a fuoco. Al capitano, un veterano dalla voce dolce che assomigliava a Laurence Fishburne, spettava di valutare la sua competenza durante l'esercizio e per tutto il tempo aveva preso appunti sulla performance di Amelia. «Okay, agente», disse, «scriveremo i nostri risultati e li aggiungeremo a quelli del tuo colloquio. Ma lascia che ti dia un'opinione ufficiosa.» Consultò il taccuino. «La tua valutazione circa il pericolo corso da civili e agenti è stata perfetta. La richiesta di rinforzi è stata tempestiva e appropriata. Lo spiegamento degli agenti ha tolto ogni possibilità ai criminali di sfuggire alla situazione di contenimento e ha minimizzato i rischi di esposizione. Hai giustamente giudicato illegale la perquisizione e la confisca della droga. E chiedere al sospetto arrestato le informazioni personali circa il criminale con ostaggio è stata un'ottima idea. Non avevamo pensato di includere questa parte nell'esercizio, ma lo faremo d'ora in poi. Infine, be', francamente non immaginavamo che avresti capito che c'era un altro criminale nascosto. Avevamo pensato di fargli sparare a Wilkins e poi di vedere come avresti gestito una situazione con un agente a terra e organizzato la cattura di un fuggitivo pericoloso.» A quel punto abbandonò l'ufficialese e disse: «Ma hai inchiodato quel bastardo». Bang, bang. Poi domandò: «Hai già fatto lo scritto e gli orali, giusto?» «Sissignore. Dovrei avere i risultati in questi giorni.» «Il mio gruppo completerà la valutazione e la manderà alla commissione con le nostre segnalazioni. Ora puoi andare.» «Sissignore.» Il poliziotto che aveva impersonato l'ultimo criminale — quello con la doppietta — si avvicinò ad Amelia. Era un italiano di bell'aspetto, allontanatosi di mezza generazione dai moli di Brooklyn, pensò lei, e aveva i mu-
scoli di un pugile. Una corta barba ispida e disordinata gli copriva le guance e il mento. Portava una grossa automatica cromata alta sopra il fianco snello e il suo sorriso vanitoso le fece venir voglia di suggerirgli che avrebbe fatto meglio a usare la pistola come specchio per radersi. «Devo proprio dirtelo... Ho fatto una decina di valutazioni e questa è la migliore che abbia mai visto, dolcezza.» Lei scoppiò a ridere nel sentirgli usare quel termine. Naturalmente c'erano ancora degli uomini delle caverne nel dipartimento — dalle squadre di pattuglia fino agli uffici dei pezzi grossi — ma di solito si mostravano più condiscendenti che apertamente sessisti. Amelia non sentiva pronunciare un «dolcezza» o un «tesoro» da almeno un anno. «Preferisco 'agente', se non ti spiace.» «No, no, no», replicò lui, ridendo. «Adesso puoi rilassarti. La prova è finita.» «Cosa vuoi dire?» «Quando ho detto 'dolcezza' non faceva parte della valutazione. Non devi rispondere in modo ufficiale, ecco. L'ho detto solo perché sono rimasto davvero impressionato. E perché tu sei... be', hai capito.» Le sorrise guardandola negli occhi, il suo fascino scintillante quanto la sua pistola. «Non faccio molti complimenti. Se ne faccio uno, significa davvero qualcosa.» Perché tu sei... be', hai capito. «Ehi, non ti sarai incazzata o cose del genere, vero?» domandò. «Assolutamente no. Ma preferisco ancora 'agente'. È così che devi chiamarmi tu ed è così che ti chiamerò io.» Almeno quando ti avrò di fronte. «Ehi, non volevo offenderti o roba del genere. Sei una bella ragazza. E io sono un ragazzo. Sai come funziona... Così.» «Così», ripeté lei e fece per andarsene. Lui la fermò e le si piazzò davanti, corrucciato. «Ehi, aspetta. Così non va bene. Senti, lascia che ti offra un caffè. Vedrai che ti piacerò quando imparerai a conoscermi.» «Non ci scommetterei, fossi in te», disse uno dei suoi colleghi, ridendo. Gentilmente, l'Uomo Dolcezza gli mostrò il dito e poi tornò a voltarsi verso Amelia. In quel momento il suo cercapersone emise un «bip» e lei lesse il numero di Lincoln Rhyme sul display. Seguito dalla parola «URGENTE». «Devo andare», disse. «Non hai proprio tempo per un caffè?» domandò lui, un finto broncio
stampato sul volto. «Proprio no.» «Be', che ne dici di darmi il tuo numero di telefono?» Lei formò una pistola con l'indice e il pollice e la puntò contro di lui. «Bang, bang», disse. E si diresse di corsa verso la Camaro gialla. 3 Questa è una scuola? Tirandosi dietro una grossa valigia nera a rotelle sulla scena del crimine, Amelia Sachs attraversò il corridoio immerso nella semioscurità. Sentiva odore di muffa e di legno vecchio. Ragnatele impolverate si erano raggrumate vicino agli alti soffitti e scaglie di pittura verde si arricciavano sulle pareti. Come si poteva studiare musica in un posto così? Quel luogo era l'ambientazione perfetta per uno di quei romanzi di Anne Rice che la madre di Amelia amava leggere. «Spettrale», aveva mormorato uno degli agenti, scherzando solo in parte. Quel termine diceva tutto. Una mezza dozzina di poliziotti — quattro agenti di pattuglia e due in borghese — erano fermi vicino a una porta a doppio battente alla fine del corridoio. Uno scarmigliato Lon Sellitto, la testa china e una mano stretta attorno a uno dei suoi taccuini, stava parlando con una guardia. Come le pareti e i pavimenti, anche la divisa della guardia era macchiata e impolverata. Oltre l'ingresso, Amelia notò un altro spazio poco illuminato in mezzo al quale si trovava una forma dai colori chiari. La vittima. Al tecnico della scientifica che camminava al suo fianco disse: «Abbiamo bisogno di luci. Un paio di set». Il giovane annuì e tornò al VER — il veicolo di intervento rapido per la scena del crimine, una station wagon piena di attrezzature della scientifica. Era posteggiato fuori, per metà sul marciapiede, dove l'agente lo aveva lasciato dopo la corsa fin lì (probabilmente a una velocità molto inferiore a quella tenuta da Amelia a bordo della sua Camaro del 1969, che aveva superato i centodieci chilometri orari in città per arrivare il prima possibile alla scuola dalla zona dell'esercizio di valutazione). Amelia studiò la giovane bionda distesa a tre metri da lei, l'addome inarcato verso l'alto a causa delle mani che erano ancora legate dietro la schiena. Persino nella penombra del vestibolo, gli occhi acuti di Amelia notaro-
no i profondi segni di legatura sul suo collo e il sangue sulle labbra e sul mento, probabilmente si era morsicata la lingua, cosa che accadeva spesso negli strangolamenti. Automaticamente osservò anche orecchini color smeraldo, scarpe da ginnastica malconce, apparentemente nessuna traccia di rapina, molestie sessuali o mutilazioni. Niente fede nuziale. «Chi è stato il primo agente ad arrivare?» Un donna alta con corti capelli scuri, la targhetta col nome che diceva D. Franciscovich, rispose: «Siamo qui». Con un cenno del capo indicò la collega bionda, N. Ausonio. Avevano entrambe un'espressione preoccupata e Franciscovich tamburellava con le dita sulla fondina della pistola. Ausonio continuava a fissare il cadavere. Amelia capì che quello doveva essere il loro primo omicidio. Le due agenti di pattuglia le raccontarono cos'era successo. L'assassino chino sulla vittima, un lampo di luce, la scomparsa dell'uomo, la barricata contro la porta. E poi il killer si era volatilizzato. «E ha affermato di avere un ostaggio?» «Così ha detto», rispose Ausonio. «Ma tutti quelli che frequentano la scuola sono stati rintracciati. Siamo sicure che stesse bluffando.» «La vittima?» «Svetlana Rasnikov», disse Ausonio. «Ventiquattro anni. Studentessa.» Sellitto finì di parlare con la guardia e si rivolse ad Amelia: «Bedding e Saul stanno interrogando tutti quelli che si trovavano nell'edificio stamattina». Lei fece un cenno del capo per indicare la scena del crimine. «Chi è stato nella stanza?» Sellitto disse: «I primi agenti». Indicò le due donne. «Poi due medici e due dell'UE. Sono usciti appena l'hanno sgombrata. È ancora abbastanza intatta.» «Anche la guardia è entrata nella stanza», disse Ausonio. «Ma solo per un minuto. Lo abbiamo fatto uscire il prima possibile.» «Bene», approvò Amelia. «Testimoni?» Ausonio rispose: «C'era un custode fuori dalla stanza quando siamo arrivati». «Lui non ha visto niente», aggiunse Franciscovich. «Ho comunque bisogno di vedere le suole delle sue scarpe per il confronto. Una di voi potrebbe farlo venire qui?» chiese Amelia. «Certo.» Ausonio si allontanò.
Dalla valigia nera Amelia prese una busta di plastica trasparente chiusa da una cerniera. L'aprì ed estrasse una tuta bianca di tyvek. Dopo averla indossata, si infilò il cappuccio. Quindi i guanti. La tuta era una dotazione standard ormai per tutti i tecnici della scientifica del Dipartimento di Polizia di New York; impediva che capelli, cellule di tessuto epiteliale ed elementi esterni contaminassero la scena. La tuta era completa di stivali, tuttavia Amelia seguì una delle immancabili raccomandazioni di Rhyme: si sistemò degli elastici attorno agli stivali per distinguere le proprie impronte da quelle della vittima e del colpevole. Dopo essersi aggiustata l'auricolare e il microfono, li collegò al Motorola. Chiese il collegamento e un attimo dopo un complesso insieme di sistemi di comunicazione fece risuonare nel suo orecchio la voce profonda di Lincoln Rhyme. «Sachs, ci sei?» «Certo. Era proprio come hai detto tu... lo hanno messo con le spalle al muro e lui è scomparso.» Rhyme ridacchiò. «E adesso vogliono che lo troviamo noi. Possibile che dobbiamo sempre correggere gli sbagli degli altri? Aspetta un minuto. Comando, abbassa volume... Abbassa.» La musica in sottofondo sfumò. Il tecnico che aveva accompagnato Amelia lungo il corridoio buio tornò portando alcune potenti lampade montate su treppiedi. Amelia le posizionò nel vestibolo e fece scattare l'interruttore. Si discute molto sul modo appropriato di gestire la scena di un crimine. Generalmente gli investigatori si trovano d'accordo sul fatto che sia meglio intervenire il meno possibile, anche se i dipartimenti usano ancora squadre di esperti della scientifica. Prima dell'incidente, Lincoln Rhyme aveva analizzato da solo la maggior parte delle sue scene del crimine e oggi insisteva perché Amelia Sachs facesse altrettanto. Con altri tecnici sul posto, tendevi a distraiti e a essere meno vigile perché avevi la sensazione — anche se a livello inconscio — che il tuo partner avrebbe trovato ciò che a te sarebbe sfuggito. Ma c'erano altri fattori a sostegno della ricerca solitaria. Rhyme si rendeva conto che si creava una macabra intimità nella profanazione della scena del crimine. Chi la analizzava da solo aveva maggiori possibilità di sviluppare un legame mentale con la vittima e con il colpevole, di cogliere intuizioni più profonde sugli indizi rilevanti e su dove avrebbero potuto trovarsi. Con questa difficile disposizione d'animo, Amelia Sachs osservò il corpo
della giovane donna riverso sul pavimento accanto a un tavolo di compensato. Vicino al corpo c'erano una tazza di caffè versato, fogli di uno spartito, la custodia di uno strumento musicale e un pezzo del flauto d'argento che, a quanto pareva, la musicista stava assemblando quando l'assassino le aveva stretto la corda attorno al collo. Nella morsa della morte, la donna aveva afferrato un altro cilindro dello strumento. Aveva pensato di usarlo come arma? O forse la giovane, in preda alla disperazione aveva desiderato soltanto sentire sotto le dita qualcosa di familiare e confortante mentre moriva? «Sono vicino al corpo, Rhyme», disse Amelia, scattando fotografie digitali del cadavere. «Continua.» «È riversa sulla schiena... ma le agenti l'hanno trovata a faccia in giù. L'hanno voltata per cercare di rianimarla. Evidenti segni di strangolamento.» Amelia girò delicatamente il cadavere. «I polsi sono bloccati da manette antiquate. Non le riconosco. Il suo orologio è rotto. Si è fermato esattamente alle otto del mattino. Non mi sembra accidentale.» Strinse la mano guantata attorno al polso sottile della donna. Le ossa erano spezzate. «Sì, Rhyme, lo ha calpestato. Ed è anche un bell'orologio. Un Seiko. Perché romperlo? Perché non rubarlo?» «Bella domanda, Sachs... Potrebbe essere un indizio, potrebbe non essere niente.» Questo sarebbe potuto essere un ottimo slogan per la scienza forense, pensò lei. «Una delle agenti ha tagliato la corda che la vittima aveva attorno al collo. Ha mancato il nodo.» Gli agenti non devono mai tagliare il nodo per liberare da una corda una vittima di strangolamento: può rivelare una grande quantità di informazioni sulla persona che lo ha fatto. Poi si servì di un rotolo adesivo per prelevare gli indizi — ultimamente gli esperti di scienza forense si erano accorti che gli aspirapolvere portatili, che somigliavano a mangiapolvere, raccoglievano tracce in eccesso. La maggior parte delle squadre scientifiche era passata ai rotoli adesivi, simili a quelli che si usano per togliere i pelucchi dai vestiti. Amelia ripose le tracce e usò un vic kit per prelevare capelli e frammenti di unghie dal corpo della donna. Disse: «Sto per percorrere la griglia». Quella frase — inventata da Lincoln Rhyme — nasceva dalla sua pas-
sione per l'esame della scena del crimine. La griglia è in assoluto il metodo più completo: si procede avanti e indietro in una direzione, quindi ci si volta perpendicolarmente e si analizza ancora la stessa porzione di terreno, senza dimenticarsi di esaminare anche le pareti e il soffitto oltre che il terreno o il pavimento. Amelia iniziò l'analisi, cercando oggetti gettati, caduti o lasciati cadere, tracce, rilevando impronte elettrostatiche e scattando foto digitali. La squadra fotografica avrebbe poi realizzato una panoramica e una videoregistrazione della scena, ma quella procedura avrebbe richiesto del tempo e Rhyme insisteva sempre per avere qualche prova fotografica il prima possibile. «Agente?» disse Sellitto. Amelia si voltò. «Mi stavo solo chiedendo... Visto che non sappiamo dov'è andato questo stronzo, vuoi dei rinforzi là dentro?» «No», rispose lei, ringraziandolo tra sé e sé per averle ricordato che l'assassino era stato visto per l'ultima volta poco lontano dal punto in cui si trovava ora. Un altro degli aforismi da scena del crimine di Lincoln Rhyme era: Cerca con cura ma guardati le spalle. Amelia toccò il calcio della Glock per ricordare a se stessa dove si trovava esattamente nel caso fosse stata obbligata a sfoderarla alla svelta — la fondina era leggermente più in alto quando indossava la tuta di tyvek — e continuò la ricerca. «Okay, ho trovato qualcosa», disse a Rhyme un momento dopo. «Nel vestibolo. A circa tre metri dalla vittima. Del tessuto nero. Seta. Voglio dire, sembra seta. Copre la sommità di una parte del flauto della vittima, quindi deve appartenere o a lei o all'assassino.» «Interessante», rifletté Rhyme. «Mi chiedo che cosa significhi.» Nel vestibolo non c'era nient'altro e Amelia entrò nel teatro, la mano ancora vicina al calcio della Glock. Si rilassò per un attimo, accorgendosi che non c'era assolutamente alcun posto in cui l'assassino avrebbe potuto nascondersi, nessuna porta e nessuna uscita. Ma mentre cominciava a percorrere la griglia anche lì, provò una crescente sensazione di disagio. Spettrale... «Rhyme, c'è qualcosa di strano...» «Non riesco a sentirti, Sachs.» Amelia si rese conto di aver cominciato a sussurrare per l'inquietudine. «C'è della corda bruciata legata attorno alle sedie rovesciate. Sembra che ci siano anche delle micce. Sento odore di nitrato e di residui di zolfo. Le
due agenti hanno detto che l'assassino ha esploso un colpo. Ma l'odore non è quello della polvere senza fumo. E qualcos'altro. Ah, okay... È un piccolo petardo grigio. Forse è stato questo lo scoppio che hanno sentito... Aspetta. C'è qualcos'altro... sotto una sedia. E una piccola scheda elettrica collegata a un altoparlante.» «Piccola?» chiese Rhyme caustico. «Trenta centimetri sono piccoli rispetto a un acro. Un acro è piccolo rispetto a cento acri, Sachs.» «Scusa. La scheda è cinque centimetri per dodici.» «Sarebbe piuttosto grossa rispetto a una moneta da un centesimo, non ti pare?» Messaggio ricevuto, grazie mille, pensò lei. Amelia ripose tutte le prove, poi uscì dalla seconda porta — la porta di emergenza — e rilevò le impronte elettrostatiche che trovò lì. Alla fine, prese dei campioni per compararli con le tracce trovate sulla vittima e con quelle rilevate nel punto in cui aveva camminato l'assassino. «Ho tutto, Rhyme. Sarò di ritorno tra mezz'ora.» «E le botole, i passaggi segreti di cui parlano tutti?» «Non ne ho trovato nessuno.» «D'accordo. Torna a casa, Sachs.» Amelia tornò nel vestibolo e lasciò che la squadra che si occupava delle fotografie e delle impronte latenti prendesse possesso della scena del crimine. Trovò Franciscovich e Ausonio vicino alla porta. «Avete trovato il custode?» domandò. «Ho bisogno di esaminare le sue scarpe.» Ausonio scosse la testa. «Ha avvisato la guardia di sicurezza che doveva accompagnare sua moglie al lavoro. Ho lasciato un messaggio alla manutenzione, dicendogli di richiamarmi.» La sua collega con aria solenne intervenne. «Ehi, agente, io e Nancy stavamo proprio dicendo che non vogliamo che questo stronzo la faccia franca. Se c'è qualcosa che possiamo fare per dare una mano, ce lo dica.» Amelia capiva perfettamente come dovevano sentirsi. «Vedrò cosa posso fare», rispose. La radio di Sellitto gracchiò e lui prese la chiamata. Restò in ascolto per qualche istante. «Sono gli Hardy Boys. Hanno finito di interrogare i testimoni e sono nell'atrio principale.» Amelia, Sellitto e le due agenti di pattuglia tornarono nella zona anteriore della scuola e si unirono a Bedding e Saul. I due detective, uno alto e lentigginoso, l'altro basso e con la carnagione chiara, erano specializzati nell'interrogare i testimoni.
«Abbiamo parlato con le sette persone che erano qui stamattina.» «Più la guardia.» «Nessun insegnante...» «... solo studenti.» Chiamati a volte i Gemelli, anche se non si somigliavano affatto, i due formavano una squadra particolarmente abile nel far parlare delinquenti e testimoni. Cercare di distinguerli l'uno dall'altro poteva creare confusione. Considerarli come una sola persona invece era il modo migliore per riuscire a capirli. «Le informazioni raccolte non sono particolarmente illuminanti.» «Tra l'altro erano tutti spaventati a morte.» «E questo posto non aiuta.» Un cenno del capo, a indicare un groviglio di ragnatele che penzolava dal soffitto scuro e macchiato di umidità. «Nessuno conosceva bene la vittima. Quando è arrivata stamattina si è diretta verso il teatro con un amico. Non...» «L'amico.» «... ha visto dentro nessuno. Sono rimasti a parlare nel vestibolo per cinque, dieci minuti. Poi, attorno alle otto, l'amico se n'è andato.» «Quindi», considerò Rhyme che aveva sentito il rapporto attraverso la radio, «l'assassino l'aspettava nel vestibolo.» «La vittima», disse il più basso dei due detective biondi, «era venuta in America dalla Georgia...» «Dalla Georgia russa, non dalla Georgia degli alberi di pesco.» «... un paio di mesi fa. Era una ragazza piuttosto solitaria.» «Il consolato si sta mettendo in contatto con la sua famiglia.» «Oggi tutti gli altri studenti erano in varie sale prove e nessuno di loro ha sentito niente o ha visto qualche sconosciuto.» «Perché Svetlana non era in una sala prove?» domandò Amelia. «L'amico ha detto che Svetlana preferiva l'acustica del teatro.» «Marito, fidanzato, fidanzata?» si informò Amelia, pensando alla regola numero uno delle indagini per omicidio: di solito l'assassino conosce la vittima. «Gli studenti non ne hanno idea.» «Com'è riuscito l'assassino a entrare nella scuola?» domandò Rhyme, e Amelia ripeté la domanda. La guardia rispose: «L'unica porta aperta è quella principale. Abbiamo porte di emergenza, naturalmente. Ma non si possono aprire dall'esterno». «E comunque avrebbe dovuto passarle davanti, giusto?»
«E firmare. E farsi riprendere dalla telecamera.» Amelia alzò lo sguardo. «C'è una telecamera di sicurezza, Rhyme, ma sembra che le lenti non vengano pulite da mesi.» Si spostarono dietro la scrivania della guardia, che premette qualche tasto e avviò il nastro. Bedding e Saul avevano interrogato sette persone. Ma erano entrambi sicuri che una persona — un uomo maturo con i capelli castani e la barba, che indossava un paio di jeans e un giubbotto — non era tra quelli con cui avevano parlato. «È lui», disse Franciscovich. «È lui l'assassino.» Nancy Ausonio annuì. Sul nastro sfuocato, l'uomo firmava il registro delle presenze ed entrava, mentre la guardia esaminava il registro ma non il volto dell'uomo che lo aveva firmato. «Non lo ha visto in faccia?» domandò Amelia. «Non gli ho prestato attenzione», ribatté l'uomo sulla difensiva. «Se firmano, li lascio entrare. È tutto quello che devo fare. È questo il mio lavoro. Sono qui più che altro per evitare che la gente esca portandosi via roba della scuola.» «Abbiamo la sua firma, Rhyme. E un nome. Saranno sicuramente falsi ma almeno abbiamo un campione della sua calligrafia. Dove ha firmato?» domandò Amelia, prendendo il registro con le dita protette dai guanti di lattice. Guardarono nuovamente il nastro dall'inizio, a doppia velocità. L'assassino era stato il quarto a firmare il registro. Ma la quarta firma era il nome di una donna. Rhyme disse: «Contate tutte le persone che hanno firmato». Amelia lo disse alla guardia e insieme videro nove persone firmare il registro con il loro nome: otto studenti, inclusa la vittima, e il suo assassino. «Hanno firmato in nove, Rhyme. Ma sul registro ci sono solo otto nomi.» «Com'è possibile?» domandò Sellitto. Rhyme: «Domanda alla guardia se è sicuro che l'assassino abbia firmato davvero. Forse ha solo fatto finta». Lei pose la domanda all'uomo placido. «Sì, ha firmato. L'ho visto con i miei occhi. Non guardo sempre le loro facce ma mi assicuro che firmino.» È tutto quello che devo fare. È questo il mio lavoro. Amelia scosse la testa. «Be', portami il registro insieme a tutto il resto e daremo un'occhiata»,
ordinò Rhyme. In un angolo della stanza, una giovane donna asiatica era ferma in piedi, le braccia strette attorno al corpo, e guardava attraverso la finestra dai vetri piombati e sporchi. Si voltò e chiese ad Amelia: «Vi ho sentito parlare. Avete detto... ecco, sembra quasi che non siate sicuri che quell'uomo abbia lasciato la scuola dopo che ha... dopo. Pensate che sia ancora qui?» «No, non credo», disse Amelia. «Solo non siamo sicuri su come sia riuscito a scappare.» «Ma se non sapete come, questo significa che potrebbe essere ancora nascosto qui, da qualche parte. In attesa di un'altra vittima. E voi non avete idea di dove si trovi.» Amelia le rivolse un sorriso rassicurante. «Lasceremo qui molti agenti finché non avremo capito cos'è successo esattamente. Non deve preoccuparsi.» Anche se, in realtà, stava pensando che la ragazza aveva assolutamente ragione. Sì, l'assassino poteva essere ancora lì, in attesa di un'altra vittima. E, no, non abbiamo idea di chi sia e di dove si trovi. 4 E ora, Riveriti Spettatori, faremo una breve pausa. Godetevi il ricordo del Boia Pigro... e gustatevi l'attesa di ciò che verrà tra poco. Rilassatevi. Il nostro prossimo numero avrà inizio tra breve... L'uomo camminava lungo la Broadway sull'Upper West Side di Manhattan. Quando raggiunse un angolo si fermò, come se si fosse dimenticato qualcosa, ed entrò nell'ombra di un edificio. Prese il cellulare dalla cintura e se lo portò all'orecchio. Mentre parlava, sorridendo di tanto in tanto, come fanno le persone ai cellulari, si guardava attorno con aria svagata, anche questo un gesto comune tra coloro che usano i cellulari. Tuttavia, l'uomo non stava facendo nessuna chiamata. Era alla ricerca di un qualunque indizio che gli rivelasse di essere stato seguito dalla scuola di musica. In quel momento, l'aspetto di Malerick era molto diverso da quello che aveva quando era scappato dalla scuola quella mattina. Ora era biondo, non aveva più la barba e indossava una tuta da jogging e una maglietta da atleta con il collo alto. Se i passanti lo avessero guardato con attenzione,
avrebbero notato qualche stranezza nel suo aspetto fisico: del tessuto cicatriziale spuntava dal colletto e risaliva lungo il collo, e due dita — il mignolo e l'anulare — della sua mano sinistra erano fuse insieme. Ma nessuno lo stava guardando. Perché i suoi gesti e le sue espressioni erano naturali e — come sanno bene tutti gli illusionisti — agire in modo naturale rende invisibili. Alla fine, contento di non essere stato seguito, riprese a camminare, svoltò l'angolo di un incrocio e continuò lungo il marciapiede alberato fino al suo appartamento. Per strada c'erano solo alcune persone che facevano jogging e qualche residente che tornava a casa con il Times e le borse delle spesa, pregustando un caffè, un'ora in compagnia dei giornali e magari una tranquilla sessione di sesso mattutino. Malerick salì le scale fino all'appartamento che aveva affittato qualche mese prima in quel palazzo buio e silenzioso, molto diverso dalla sua casa e dal suo negozio nel deserto fuori Las Vegas. Raggiunse il suo appartamento sul retro. Come vi stavo dicendo, il nostro prossimo numero avrà inizio tra breve. Per il momento, Riveriti Spettatori, commentate l'illusione a cui avete appena assistito, intrattenetevi in piacevole conversazione con quelli seduti accanto a voi, cercate di indovinare cosa c'è dopo in programma. Il nostro secondo numero richiederà abilità completamente diverse ma sarà, ve lo assicuro, non meno irresistibile del Boia Pigro. Queste parole e molte altre si rincorsero automaticamente nella mente di Malerick. Riveriti Spettatori... Parlava costantemente a questo pubblico immaginario. (Talvolta riusciva persino a udire gli applausi, gli scoppi di risa e, di tanto in tanto, i gemiti di orrore.) Un rumore neutro di parole, con quell'intonazione teatrale che userebbe un direttore di circo equestre con troppo cerone o un illusionista vittoriano. Era un monologo indirizzato agli spettatori per dare loro tutte le informazioni necessarie perché un trucco funzioni, per creare un legame con loro. E anche per disarmarli, rabbonirli e distrarli. Dopo l'incendio, Malerick aveva rotto la maggior parte dei contatti con gli esseri umani, e i suoi Riveriti Spettatori li avevano lentamente rimpiazzati, diventando i suoi onnipresenti compagni. Il monologo aveva ben presto cominciato a riempire i suoi pensieri sia quando era sveglio che quando dormiva e, Malerick lo sapeva, rischiava di farlo impazzire completamente. Allo stesso tempo, però, sapere di non essere rimasto del tutto solo dopo la tragedia di tre anni prima gli comunicava un intenso conforto. Il suo
Riverito Pubblico era sempre con lui. Nell'appartamento aleggiava un odore di vernice da quattro soldi misto a un curioso aroma di carne che proveniva dalla carta da parati e dai pavimenti. C'erano pochi mobili: divani e poltrone da poco prezzo, un tavolo da pranzo funzionale, ora apparecchiato per una persona sola. Le camere da letto invece erano stipate — riempite con attrezzature da illusionisti: arredi scenici, strumenti, corde, costumi, strumenti per modellare il lattice, parrucche, foulard colorati, una macchina da cucire, tinte, petardi, cosmetici, pannelli elettrici, cavi, batterie, carta e cotone lampo, bobine di micce, attrezzi per lavorare il legno... e un centinaio di altri oggetti. Malerick si preparò un infuso di erbe e si sedette al tavolo del soggiorno, sorseggiando la bevanda leggera e mangiando un frutto e una barretta di cereali senza grassi. L'illusione è un'arte fisica e il numero riesce bene solo se il corpo è in perfetta forma. Mangiare cibo sano e fare esercizio erano due condizioni indispensabili per avere successo. Era soddisfatto del numero di quella mattina. Aveva ucciso la prima artista con facilità — ripensò con un brivido di piacere a come si era irrigidita per lo choc quando era comparso dietro di lei e le aveva fatto passare la corda attorno al collo. Non aveva neanche lontanamente intuito che lui era rimasto in attesa in un angolo per mezz'ora, sotto la seta nera. L'entrata a sorpresa della polizia... be', quella aveva scioccato lui. Ma come tutti i bravi illusionisti, Malerick aveva preparato un numero di uscita che aveva eseguito alla perfezione. Finì la colazione e portò la tazza in cucina, la sciacquò con cura e la mise ad asciugare nello scolapiatti. Era meticoloso in tutto: il suo mentore, un illusionista feroce, ossessivo e privo di ogni senso dell'umorismo, gli aveva insegnato la disciplina con la forza. L'uomo andò poi nella camera da letto più grande e inserì nel videoregistratore il nastro che aveva girato del luogo dove si sarebbe svolto il suo prossimo numero. Aveva visto la cassetta già una decina di volte ma, anche se ormai l'aveva imparata a memoria, voleva studiarla ancora. (Il suo mentore gli aveva insegnato con la forza — a volte letteralmente — anche l'importanza della regola 100 a 1. Per ogni minuto sul palcoscenico ci vogliono cento minuti di prove.) Mentre osservava il nastro, tirò verso di sé un tavolino di scena coperto di velluto. Senza guardarsi le mani, Malerick eseguì qualche semplice gioco con le carte: la Finta Mescolata a Coda di Colomba, il Falso Taglio in Tre Pile, e poi qualche gioco più impegnativo, come le Carte Fantasma di
Stanley Palm, il celebre Mistero delle Sei Carte di Maldo, molti altri del famoso maestro e attore Ricky Jay, e infine alcuni di Cardini. Eseguì anche alcuni trucchi con le carte che erano stati nei primi spettacoli di Houdini. Molti pensano a Houdini esclusivamente come a un escapologista, ma l'artista era stato un mago a trecentosessanta gradi, in grado di eseguire numeri da illusionista — talvolta clamorosi come far sparire un'assistente o un elefante — ma anche piccole magie. La figura di Houdini aveva sempre esercitato un grande fascino su di lui. Quando aveva cominciato la sua carriera di prestidigitatore, da adolescente, Malerick aveva usato il nome d'arte di «Giovane Houdini». L'«erick» che ancora conservava nel suo nome era una reliquia della sua vita precedente — la sua vita prima dell'incendio — e un omaggio allo stesso Houdini, il cui vero nome era Ehrich Weisz. Riguardo al prefisso «Mal», un mago avrebbe potuto sospettare che provenisse da un altro artista famoso in tutto il mondo, Max Breit, il cui nome d'arte era Malini. Ma in realtà, Malerick aveva scelto quelle tre lettere perché provenivano dalla radice latina che indica il «male», cosa che rifletteva la natura oscura delle sue imprese illusionistiche. Studiò il nastro, misurando gli angoli, prendendo nota delle finestre e della posizione di possibili testimoni, prevedendo tutti i possibili ostacoli come fanno i bravi artisti. Mentre osservava la cassetta, le carte tra le sue dita si mescolavano alla velocità della luce sibilando come serpenti. I re, i fanti, le regine e i jolly e tutte le altre carte scivolavano sul velluto nero e poi sembravano sfidare la gravità mentre saltavano di nuovo tra le sue mani forti, dove scomparivano alla vista. Guardando questo spettacolo improvvisato gli spettatori avrebbero scosso la testa, quasi convinti che la realtà avesse lasciato spazio all'illusione, che un essere umano non potesse realmente fare ciò a cui stavano assistendo. Ma la verità era l'esatto opposto: i trucchi con le carte che Malerick stava eseguendo con aria assente sul morbido tessuto nero non avevano nulla di miracoloso, erano semplicemente esercizi di destrezza e percezione, governati dalle normali leggi della fisica. Oh, sì, Riveriti Spettatori, ciò che avete visto e ciò che state per vedere è reale. Reale quanto un fuoco che brucia la carne. Reale quanto una corda stretta attorno al collo di una giovane donna. Reale quanto il cerchio tracciato dalle lancette dell'orologio che si avvicinano lentamente all'orrore che il nostro prossimo artista sta per sperimentare.
«Ehi, ciao.» La giovane donna si sedette accanto al letto dove giaceva sua madre. Fuori dalla finestra, nel giardino ben curato, vide un'alta quercia sul cui tronco cresceva un tentacolo di edera, formando un disegno che aveva interpretato in vari modi negli ultimi mesi. Oggi l'anemica pianta rampicante non era un drago o uno stormo di uccelli o un soldato. Era semplicemente una pianta di città che lottava per sopravvivere. «Allora, come ti senti, mamma?» domandò Kara. «Molto bene, tesoro. E a te come va la vita?» «Meglio di come va ad alcune persone, peggio di come va ad altre. Ehi, ti piacciono?» Kara sollevò la mano per mostrarle le unghie corte e curate, che oggi erano laccate di nero come un pianoforte a coda. «Sono adorabili, tesoro. Mi stavo stancando del rosa. Lo si vede dappertutto oggigiorno. È terribilmente banale.» Kara si alzò e sistemò meglio il cuscino sotto la testa di sua madre. Poi tornò a sedersi e bevve un sorso dal suo grande bicchiere di Starbucks. Il caffè era la sua unica droga, ma era un vizio irrinunciabile e costoso e quella mattina ne aveva già bevuti tre. Aveva i capelli tagliati corti, attualmente tinti di viola e castano dorato, ma negli anni che aveva vissuto a New York li aveva avuti praticamente di ogni sfumatura dello spettro cromatico. Alcuni dicevano che aveva un taglio da folletto, ma era una definizione che Kara odiava. Lei diceva semplicemente che era «comodo». Poteva essere fuori di casa pochi minuti dopo essere uscita dalla doccia — un autentico vantaggio per una che non andava mai a letto prima delle tre del mattino e che non era di certo una persona mattiniera. Oggi indossava pantaloni elasticizzati neri e, anche se non era molto più alta di un metro e cinquanta, scarpe senza tacco. Aveva un top viola scuro senza maniche che metteva in mostra muscoli tesi e ben modellati. Kara aveva frequentato un college in cui l'arte e la politica avevano la precedenza sul culto del fisico, ma dopo la maturità si era iscritta alla Gold's Gym e ora sollevava pesi e praticava jogging regolarmente. Da una ragazza di circa trent'anni che abitava da otto in un quartiere bohémien come il Greenwich Village, ci si sarebbe aspettati che fosse un'appassionata di body art o che avesse almeno un anello o una borchia nascosta da qualche parte, ma la pelle lattea di Kara era priva di tatuaggi e di piercing. «Ora senti questa notizia, mamma. Domani ho uno spettacolo. Sai, uno
dei piccoli show del signor Balzac.» «Mi ricordo.» «Ma questa volta è diverso. Questa volta mi farà esibire da sola. Sono entusiasta. E sono persino pagata bene.» «Davvero, tesoro?» «Assolutamente.» Davanti alla porta della camera passò il signor Geldter. «Ehi, salve.» Kara lo salutò con un cenno del capo. Ricordò che quando aveva portato sua madre al Stuyvesant Manor, una delle migliori case di cura per anziani della città, insieme avevano causato non poca agitazione. «Pensano che io abbia una storia con qualcuno», le aveva detto la madre in un sussurro. «Ed è così?» aveva chiesto Kara, pensando che fosse tempo che sua madre allacciasse una relazione con un uomo dopo cinque anni di vedovanza. «Naturalmente no!» aveva sibilato sua madre, furiosa. «Che idea orribile.» (Quell'incidente definiva perfettamente il carattere della donna: un pizzico di malizia andava bene, ma c'era un confine ben preciso — deciso arbitrariamente da lei — oltrepassato il quale si diventava il Nemico, anche se si era carne della sua carne.) Kara continuò, dondolandosi in avanti eccitata e raccontando a sua madre con voce animata cosa aveva deciso per il giorno successivo. Mentre parlava, studiava sua madre con attenzione, la pelle stranamente morbida per una donna di settantacinque anni e rosea come quella di un bambino, i capelli quasi tutti grigi ma striati di folte ciocche corvine. L'estetista della casa di cura li aveva raccolti in uno chignon all'ultima moda. «Comunque, mamma, ci saranno alcuni amici e mi piacerebbe che venissi anche tu.» «Ci proverò.» Di colpo Kara, ora seduta sul bordo della poltrona, si rese conto di avere i pugni stretti e il corpo annodato dalla tensione. Il respiro le usciva in pesanti ansiti sibilanti. Ci proverò... Chiuse gli occhi, che si colmarono di lacrime. Maledizione! Ci proverò... No, no, no, è tutto sbagliato, pensò con rabbia. Sua madre non avrebbe mai detto «Ci proverò». Non era il suo modo di parlare. Avrebbe potuto dire: «Ci sarò, tesoro. In prima fila». Oppure avrebbe potuto ribattere freddamente: «Be', domani non posso. Avresti dovuto dirmelo prima».
Sua madre non era certo il tipo di persona che diceva «ci proverò». Tranne adesso — ora che la donna era a malapena un essere umano. Una bambina che dormiva con gli occhi aperti, nel migliore dei casi. La conversazione che Kara aveva appena avuto con sua madre era avvenuta soltanto nella speranzosa immaginazione della ragazza. Be', la parte di Kara era stata reale. Ma quella di sua madre, da Molto bene, cara. E a te come va la vita? alla battuta sbagliata Ci proverò l'aveva inventata lei. No, oggi sua madre non aveva detto una parola. Né durante la visita di ieri. O quella precedente. Era rimasta sdraiata accanto alla finestra con l'edera in una sorta di coma vigile. Alcuni giorni era così. Altri giorni poteva essere completamente sveglia ma balbettava orribili frasi senza senso che attestavano soltanto la presenza dell'esercito invisibile che si muoveva senza sosta nel suo cervello, contorcendo memoria e ragione. Ma c'era un risvolto ancora peggiore in quella tragedia. Di tanto in tanto, molto raramente, c'erano fragili momenti di lucidità che, per quanto fossero brevi, annullavano la disperazione di Kara. Proprio quando la ragazza riusciva ad accettare il peggio — che la madre che conosceva se n'era andata per sempre — la donna tornava, proprio com'era stata prima dell'emorragia cerebrale. E le difese di Kara cadevano, nello stesso modo in cui una donna maltrattata perdona il marito violento al minimo segno di contrizione. In momenti come quelli, Kara si convinceva che sua madre stesse migliorando. Naturalmente, i medici le avevano detto che non c'era praticamente alcuna possibilità di recupero. Tuttavia loro non erano stati al capezzale di sua madre quando, molti mesi prima, d'un tratto si era svegliata e le aveva detto: «Ciao, tesoro. Ho mangiato quei biscotti che mi hai portato ieri. Hai messo una doppia dose di noci, proprio come piace a me. E al diavolo le calorie». Aveva sorriso come una ragazzina. «Oh, sono felice che tu sia qui. Volevo raccontarti quello che la signora Brandon ha fatto ieri sera. Con il telecomando.» Kara aveva battuto le palpebre, attonita. Perché, maledizione, il giorno prima aveva davvero portato a sua madre dei biscotti a cui aveva davvero aggiunto una doppia dose di noci. E, sì, la folle signora Brandon del quinto piano aveva davvero rubato un telecomando e l'aveva puntato mandando il segnale da una finestra nella sala TV della casa di cura, creando confusione per mezz'ora fra i pazienti seduti davanti alla televisione, cambiando i canali e il volume come un poltergeist.
Ecco! Non aveva avuto bisogno di una prova più convincente del fatto che sua madre, la sua vera madre, continuasse a vivere dentro il guscio ferito di quel corpo e che un giorno avrebbe potuto tornare per sempre. Ma il giorno dopo sua madre non aveva fatto che fissarla con sospetto, chiedendole perché si trovasse lì e che cosa volesse da lei. Se si trattava della bolletta dell'elettricità di ventidue dollari e quindici cent, l'aveva già pagata e aveva la ricevuta per provarlo. Dal giorno dei biscotti alle noci e del telecomando, non c'erano stati altri bis. Ora Kara toccò il braccio della madre, caldo, liscio, roseo, augurandosi ciò che si augurava sempre durante tutte le sue visite giornaliere: che finalmente morisse o che tornasse alla vita intensa che aveva sempre vissuto — e, insieme, di poter sfuggire al terribile peso che comportava il desiderare le due cose allo stesso tempo. Un'occhiata all'orologio. Come sempre, era in ritardo per il lavoro. Il signor Balzac non sarebbe stato contento. Sabato era il loro giorno più indaffarato. Finì il suo caffè, buttò il bicchiere di carta e si incamminò per il corridoio. Una grassa donna di colore in uniforme bianca sollevò una mano per salutarla. «Kara! Da quanto sei qui?» Un ampio sorriso nel volto largo. «Venti minuti.» «Sarei passata a salutarti», disse Jaynene. «È ancora sveglia?» «No. Era inconsciente quando sono arrivata.» «Oh, mi dispiace.» «Prima ha parlato?» domandò Kara. «Sì. Solo qualche parola. Non saprei dirti se fosse lucida o meno. Lo sembrava, però... È una giornata meravigliosa, non è vero? Più tardi, se sarà sveglia, io e Sophie le faremo fare una passeggiata in giardino. Le piace tanto. Dopo, sta sempre meglio.» «Devo andare a lavorare», disse Kara all'infermiera. «Ehi, domani farò uno spettacolo. Al negozio. Ti ricordi l'indirizzo?» «Certo. A che ora?» «Alle quattro. Passa a dare un'occhiata.» «Domani finisco presto. Ci sarò. Dopo, ci berremo qualche altro margarita alla pesca. Come la volta scorsa.» «Favoloso», replicò Kara. «Ehi, porta Pete.» La donna si accigliò. «Ehi, ragazza, niente di personale, ma l'unico modo per farti vedere da quell'uomo di domenica è fare lo spettacolo nell'intervallo della partita dei Knicks o dei Lakers. Alla televisione.»
«Non stento a crederti», borbottò Kara. 5 Cent'anni fa un finanziere di modesto successo avrebbe potuto chiamare quel posto casa. Oppure il proprietario di un piccolo negozio di abbigliamento nel lussuoso quartiere dello shopping della Quattordicesima Strada. O forse un politico che avesse a che fare con il Tammany Hall, abile nell'antichissima arte di fare soldi attraverso un pubblico ufficio. Tuttavia, l'attuale proprietario del piccolo palazzo di Central Park West non conosceva le sue origini, e non se ne curava. Lincoln Rhyme non avrebbe amato nemmeno i mobili vittoriani e gli oggetti d'arte fin de siecle che un tempo avevano decorato quelle stanze. Lui era soddisfatto delle cose che lo circondavano ora: tavoli solidi disseminati disordinatamente, sgabelli girevoli, computer, strumenti scientifici — un'apparecchiatura per il gradiente di densità, un gascromatografo/spettrometro di massa, microscopi, scatole di plastica dai mille colori, alambicchi, barattoli, termometri, bombole di propano, occhiali di protezione, custodie grigie o nere dalle strane forme che sembravano contenere esotici strumenti musicali. E cavi. Cavi e fili ovunque, che coprivano la maggior parte della limitata superficie calpestabile della stanza, alcuni arrotolati strettamente a collegare macchinari vicini, altri che scomparivano dentro fori slabbrati praticati senza ritegno nelle pareti dall'intonaco liscio vecchie di un secolo. Lincoln Rhyme era collegato a pochi cavi, ora. I progressi nella tecnologia radio e a infrarossi avevano messo in comunicazione il microfono posto sulla sua sedia a rotelle — e quello sul suo letto al piano di sopra — ai computer e alle unità di controllo ambientali. Lincoln guidava la sua Storni Arrow muovendo l'anulare sinistro su un touchpad MKIV ma tutti gli altri comandi, dalle telefonate alle e-mail al passaggio dell'immagine dal microscopio composto al monitor del computer, potevano essere eseguiti attraverso la voce. Poteva persino controllare il suo nuovo Harmon Kardon 8000, che ora stava diffondendo un piacevole assolo di jazz in tutto il laboratorio. «Controllo, stereo spento», ordinò Rhyme a malincuore, quando udì sbattere la porta d'ingresso. La musica si interruppe, rimpiazzata dal ritmo confuso dei passi nell'a-
trio e nel salotto. Rhyme sapeva che uno dei visitatori era Amelia Sachs: per essere una donna così alta aveva un passo decisamente leggero. Poi sentì il tipico passo pesante dei grossi piedi di Lon Sellitto. «Sachs», borbottò mentre lei entrava nella stanza, «era una scena del crimine molto grande? Era enorme?» «Non così tanto.» Amelia si accigliò a quella domanda. «Perché?» Gli occhi di Rhyme erano fissi sulle casse grigie che contenevano gli indizi che lei e altri agenti avevano portato. «Mi stavo solo chiedendo perché c'è voluto così tanto tempo per esaminare la scena e tornare qui. Potevi usare quella luce lampeggiante che hai sull'auto. È per questo che le fanno, sai. Anche le sirene sono permesse.» Quando era annoiato diventava irascibile. La noia era il male peggiore che affliggeva la sua vita. Ma Sachs non si curò della sua amarezza — sembrava particolarmente di buon umore — e disse semplicemente: «Abbiamo un po' di misteri da risolvere, Rhyme». A lui tornò in mente che Lon aveva definito «bizzarro» quell'omicidio. «Descrivimi la scena. Cos'è successo?» Sachs gli riferì gli eventi culminati nella fuga dell'assassino dal teatro. «Le agenti hanno udito uno sparo provenire dal teatro e hanno deciso di intervenire. Sono entrate insieme attraverso le due uniche porte della stanza. L'uomo era svanito.» Sellitto consultò i propri appunti. «Le agenti di pattuglia lo hanno descritto come un uomo sui cinquant'anni, altezza media, corporatura media, nessun segno distintivo tranne la barba, capelli castani. C'era un custode che ha detto di non aver visto nessuno entrare o uscire dal teatro. Ma forse gli è venuta la testimonite, sai. La scuola ci chiamerà per darci il suo nome e numero di telefono. Vedrò se riesco a rinfrescargli la memoria.» «E la vittima? Qual è stato il movente?» Sachs disse: «Non è stata né violentata né derubata». «Ho appena parlato con i Gemelli. La vittima non ha fidanzati attuali o recenti. Nessuno nel suo passato che potrebbe essere stato un problema», aggiunse Sellitto. «Era una studentessa a tempo pieno?» domandò Rhyme. «O aveva anche un lavoro?» «Studentessa a tempo pieno. Ma a quanto pare si esibiva di tanto in tanto. Stiamo controllando dove.» Rhyme reclutò il suo assistente, Thom, affidandogli il compito di trascrivere con la sua elegante calligrafia l'elenco degli indizi su una delle
grandi lavagne bianche del laboratorio. Thom prese il pennarello e cominciò a scrivere. Qualcuno bussò alla porta e l'assistente scomparve per un attimo. «Visite!» gridò Thom dall'ingresso. «Visite?» si stupì Rhyme che non si sentiva affatto in vena di avere compagnia. Thom, però, stava scherzando. Nella stanza fece il suo ingresso Mel Cooper, lo snello tecnico di laboratorio con pochi capelli che Rhyme, all'epoca capo della scientifica del Dipartimento di Polizia di New York, aveva conosciuto anni prima mentre indagava su un caso di furto/rapimento. Cooper aveva messo in dubbio l'analisi di Rhyme di un particolare tipo di terriccio e aveva dimostrato di avere ragione. Colpito, Rhyme aveva esaminato le credenziali del tecnico, scoprendo che, come lui, Cooper era un membro attivo e molto rispettato dell'Associazione Internazionale per l'Identificazione, un gruppo di esperti che si dedicavano a identificare individui basandosi su scanalature di frizione, DNA, ricostruzioni forensi e impronte dentali. Laureato in matematica, fisica e chimica organica, Cooper era imbattibile nell'analisi delle prove fisiche. Rhyme aveva fatto di tutto per ottenere il suo trasferimento a New York e Cooper alla fine aveva accettato. Il tecnico — nonché campione di ballo — lavorava nel laboratorio del Dipartimento di Polizia di New York del Queens ma spesso collaborava con Rhyme quando il criminologo faceva da consulente nelle indagini su un caso. Dopo aver salutato tutti, Cooper si spinse sul naso gli spessi occhiali dalla montatura alla Harry Potter e osservò con occhio critico le casse di prove, come un giocatore di scacchi intento a scrutare il suo avversario. «Che cosa abbiamo qui?» «Misteri», rispose Rhyme. «Per usare la definizione della nostra Sachs. Misteri.» «Be', vediamo se possiamo renderli un po' meno misteriosi.» Sellitto descrisse a Cooper la scena del crimine mentre il tecnico si infilava dei guanti di lattice e cominciava a esaminare i sacchetti e i barattoli. Rhyme gli si avvicinò con la sedia a rotelle. «Ecco», disse facendo un cenno con il capo. «Che cos'è questo?» Stava fissando la scheda verde collegata a un altoparlante. «L'ho trovata nel teatro», intervenne Amelia. «Non ho idea di cosa sia. So solo che è stato il nostro assassino a metterla lì... l'ho dedotto dalle sue impronte.» La scheda sembrava presa da un computer, cosa che Rhyme non trovava
sorprendente; i criminali sono sempre stati all'avanguardia in materia di progressi tecnologici. I rapinatori di banche si erano armati con le celebri Colt .45 semiautomatiche del 1911 pochi giorni dopo che erano state immesse sul mercato, anche se la legge permetteva soltanto ai militari di possederne una. Radio, telefoni modificati, fucili mitragliatori, mirini laser, GPS, tecnologia cellulare, attrezzatura per la sorveglianza e la crittografia avevano finito per far parte dell'arsenale dei criminali spesso prima che venissero dati in dotazione alle forze dell'ordine. Rhyme era il primo ad ammettere che alcuni criminali erano molto più esperti di lui. Quando si trovava a dover analizzare prove come computer, telefoni cellulari o come quel curioso congegno — indizi che il criminologo aveva soprannominato «indizi NASDAQ» — si rivolgeva agli specialisti. «Mandatelo a Tobe Geller», ordinò. L'FBI aveva un giovane agente di talento nei suoi uffici di New York che si occupavano di crimini informatici. Geller li aveva già aiutati in passato e Rhyme sapeva che se c'era qualcuno in grado di rivelare loro la natura e l'origine di quel congegno, quel qualcuno era senz'altro lui. Amelia consegnò la busta a Sellitto, che a sua volta la diede a un poliziotto in uniforme perché la portasse da Geller. Ma l'aspirante sergente Amelia Sachs lo fermò. Si assicurò che compilasse il documento di custodia su cui sono riportati i nomi di tutte le persone che hanno maneggiato o trasportato ciascuna prova dalla scena del crimine al processo. Controllò con attenzione l'etichetta, poi lasciò andare l'agente. «A proposito, com'è andata la valutazione, Sachs?» domandò Rhyme. «Bene», rispose lei. Un'esitazione. «Penso di avercela fatta.» Rhyme fu sorpreso da quella risposta. Amelia Sachs aveva dimostrato spesso difficoltà ad accettare le lodi degli altri ed era sempre molto dura con se stessa. «Non ne avevo alcun dubbio», borbottò lui. «Sergente Sachs», disse Lon Sellitto, come riflettendo ad alta voce. «Suona bene.» Passarono a occuparsi degli oggetti pirotecnici trovati alla scuola di musica: le micce e il petardo. Amelia aveva risolto almeno un mistero. L'assassino, spiegò, aveva inclinato all'indietro due sedie, tenendole in quella posizione con un sottile filo di cotone. Aveva legato le micce al centro e le aveva accese. Dopo circa un minuto, la fiamma aveva raggiunto il filo bruciandolo. Le sedie era-
no cadute a terra dando l'impressione che il killer fosse ancora all'interno della stanza. L'uomo inoltre aveva acceso un'altra miccia facendo scoppiare il petardo, che era stato scambiato per un colpo di pistola. «Possiamo risalire alla fonte di qualcuno di questi oggetti?» chiese Sellitto. «Le micce sono generiche, irrintracciabili, e il petardo è distrutto. Nessuna ditta produttrice, niente.» Cooper scosse la testa. Tutto ciò che restava, Rhyme poteva vederlo con i suoi occhi, erano minuscoli brandelli di carta con un nucleo di metallo bruciato. Il filo era di cotone al cento per cento, generico, impossibile da identificare. «C'è stato anche un lampo», disse Amelia controllando i propri appunti. «Quando le agenti lo hanno visto curvo sulla vittima, l'uomo ha sollevato una mano e c'è stata una luce abbagliante, come quella di una torcia. Le ha accecate per qualche istante.» «Qualche traccia?» «Non sono riuscita a trovarne. Hanno detto che la luce si è dissolta nell'aria.» «Continuiamo. Le impronte delle scarpe?» Cooper si collegò al database delle suole del Dipartimento di Polizia di New York, una versione digitale dello schedario cartaceo creato da Rhyme quando era stato capo della scientifica del Dipartimento di Polizia di New York. Dopo qualche minuto di consultazione, disse: «Le scarpe sono delle Ecco nere senza stringhe. Misura quarantaquattro». «Altre tracce?» chiese Rhyme. Amelia prese diverse buste di plastica da una delle casse grigie. All'interno c'erano pezzi di nastro prelevati dal rullo adesivo. «Provengono dal punto in cui ha camminato e dall'area attorno al cadavere.» Cooper prese le buste ed estrasse i rettangoli di nastro adesivo uno alla volta, sistemandoli su vassoi di analisi separati per evitare che si contaminassero a vicenda. Le tracce che avevano aderito ai rettangoli erano costituite per lo più da polvere che coincideva con i campioni di controllo di Amelia, il che significava che non proveniva né dall'assassino né dalla vittima ma che si trovava naturalmente sulla scena del crimine. Tuttavia su diversi pezzi di nastro c'erano alcune fibre che Amelia aveva trovato solo nei punti in cui aveva camminato l'omicida o sugli oggetti che aveva toccato. «Passali al microscopio.» Il tecnico sollevò le fibre servendosi di un paio di pinzette e le depositò
su alcuni vetrini. Li sistemò sotto il microscopio binoculare stereo — lo strumento migliore per analizzare le fibre — e poi premette un pulsante. L'immagine che stava osservando attraverso l'oculare apparve sul grande schermo piatto di un computer che tutti potevano vedere. Le fibre sembravano fili spessi di colore grigiastro. Le fibre sono molto importanti in un'analisi forense perché. sono comuni, facili da prelevare e classificare. Sono divise in due categorie: naturali e artificiali. Rhyme notò subito che i fili non erano di rayon viscoso o di un qualche altro materiale derivato dai polimeri e che quindi dovevano essere naturali. «Ma di che tipo sono esattamente?» chiese Mel Cooper riflettendo ad alta voce. «Osserva la struttura cellulare. Scommetto che è un tessuto escrementizio.» «Cosa?» chiese Sellitto. «Escrementi? Come la merda?» «Escrementi, come la seta. La seta proviene dal tratto digerenti dei bachi. Il tessuto è stato tinto di grigio. Finitura opaca. Cosa c'è sugli altri vetrini, Mel?» Il tecnico li passò al microscopio e scoprì che vi erano fibre identiche alle prime. «L'assassino indossava qualcosa di grigio?» «No», rispose Sellitto. «Neanche la vittima», precisò Amelia. Altri misteri. «Ah», disse Cooper guardando attraverso l'oculare, «potremmo avere un capello, qui.» Sullo schermo comparve la lunga traccia di un capello castano. «È un capello umano», disse Rhyme, notando centinaia di scaglie. Un pelo animale ne avrebbe avute al massimo poche decine. «Ma è falso.» «Falso?» chiese Sellitto. «Be'», disse il criminologo con impazienza, «è un capello autentico ma proviene da una parrucca. È ovvio. Guarda... l'estremità. Quello non è un bulbo. È colla. Potrebbe non appartenere all'assassino, naturalmente, ma mi sembra il caso di aggiungerlo alla tabella.» «Cosa? Che l'assassino non ha i capelli castani?» domandò Thom. «I fatti», ribatté Rhyme conciso, «sono la sola cosa di cui ci dobbiamo occupare. Scrivi che il nostro uomo potrebbe indossare una parrucca castana.»
«Okay, buana.» Cooper continuò la sua analisi e scoprì che due dei rettangoli adesivi rivelavano un minuscolo frammento di terriccio e di materiale vegetale. «Esamina prima il materiale vegetale, Mel.» Nell'analisi delle scene del crimine a New York, Lincoln Rhyme aveva sempre attribuito una grande importanza alle tracce geologiche, vegetali e animali perché solo l'ottantuno percento della città sorge sul continente nordamericano; il resto è situato su isole. Questo significa che i minerali, la flora e la fauna tendono a essere più o meno comuni in determinate zone, cosa che rende più facile rintracciare con precisione la provenienza di alcune sostanze. Un attimo dopo, un'immagine piuttosto artistica di un rametto rossiccio e del frammento di una foglia apparve sullo schermo. «Bene», annunciò Rhyme. «Bene in che senso?» domandò Thom. «Bene perché è una pianta rara. È noce rosso americano. È difficilissimo trovarne in città. Gli unici posti che conosco sono il Central Park e il Riverside Park. E... oh, guarda quello. Quella piccola massa blu-verde.» «Dove?» chiese Amelia. «Ma non vedi? È proprio lì!» Rhyme si sentiva dolorosamente frustrato dall'impossibilità di alzarsi di scatto e indicarle il punto sullo schermo. «Nell'angolo in basso a destra. Se il rametto è l'Italia, la massa è la Sicilia.» «Ci sono.» «Che cosa ne pensi, Mel? È un lichene, giusto? Direi di Parmelia conspersa.» «Può essere», ipotizzò cautamente il tecnico. «Ci sono molti tipi di licheni.» «Ma non ci sono molti licheni blu-verdi e grigi», ribatté seccamente Rhyme. «In realtà quasi non ce ne sono. E questo si può trovare in abbondanza a Central Park... Abbiamo due indizi che conducono al parco. Bene. Adesso diamo un'occhiata al terriccio.» Cooper montò un altro vetrino. L'immagine al microscopio — granelli di terra simili ad asteroidi — non era illuminante dal punto di vista forense e Rhyme disse: «Passane un campione al gascromatografo/spettrometro di massa». Il gascromatografo/spettrometro di massa è l'applicazione combinata di due strumenti per l'analisi chimica. Il primo scompone una sostanza scono-
sciuta nei suoi componenti essenziali, il secondo identifica ciascuna delle parti. Per esempio, della polvere bianca in apparenza uniforme potrebbe essere scomposta in una decina di diverse sostanze chimiche — bicarbonato di sodio, arsenico, talco per bambini, fenolo e cocaina. Il cromatografo è stato paragonato a una corsa di cavalli: le sostanze cominciano a muoversi insieme attraverso lo strumento ma avanzano a velocità diverse finendo per separarsi. Raggiunto il «traguardo», lo spettrometro di massa compara ciascuna sostanza con quelle contenute in un enorme database per identificarla. I risultati dell'analisi di Cooper mostrarono che il terriccio recuperato da Amelia era impregnato di un olio. Il database però evidenziò solo che quell'olio era di origine minerale — non vegetale né animale — senza identificarlo con precisione. Rhyme ordinò: «Mandatelo all'FBI. Vediamo di scoprire se i loro tecnici lo hanno mai incontrato». Poi abbassò lo sguardo su un sacchetto di plastica. «Quello è il pezzo di tessuto nero che hai trovato?» Potrebbe essere un indizio, potrebbe non essere niente... Amelia annuì. «Era nell'angolo del vestibolo dove la vittima è stata strangolata.» «Apparteneva a lei?» chiese Cooper. «Può darsi», disse Rhyme, «ma per il momento partiamo dal presupposto che appartenga al killer.» Con attenzione, Cooper prelevò il materiale. Lo esaminò.. «Seta. Lavorata a mano.» Rhyme notò che anche se il tessuto poteva essere ripiegato in un minuscolo fagotto, aperto era piuttosto ampio, un metro e ottanta per un metro e venti. «Dalla ricostruzione, sappiamo che la stava aspettando nel corridoio», disse Rhyme. «Scommetto che ha fatto così: si è nascosto nell'angolo coprendosi con quel tessuto. Questo deve averlo reso invisibile. Probabilmente lo avrebbe portato via con sé, ma quando sono comparsi gli agenti è stato costretto a scappare.» Chissà cosa doveva aver provato la povera ragazza quando l'assassino si era materializzato come per magia, l'aveva ammanettata e le aveva stretto una corda attorno al collo. Cooper trovò diversi frammenti sul tessuto nero. Li posò su un vetrino. Sullo schermo apparve un'immagine. Ingranditi, i frammenti sembravano pezzetti irregolari di lattuga color carne. Ne toccò uno con una sonda sotti-
le. Il materiale era elastico. «Ma che diavolo è quella roba?» chiese Sellitto. Rhyme suggerì: «Un qualche tipo di gomma. Il frammento di un palloncino... no, è troppo spesso. E poi guarda il vetrino, Mel. Qualcosa ha lasciato del colore. Sempre color carne. Passalo al gascromatografo». Mentre attendevano i risultati, qualcuno suonò alla porta. Thom uscì dalla stanza per andare ad aprire e tornò con una busta. «Le impronte latenti», annunciò. «Ah, bene», esclamò Rhyme. «Le impronte sono tornate. Passale al SAIID, Mel.» I potenti server del sistema automatico di identificazione delle impronte dell'FBI in West Virginia avrebbero cercato le immagini digitalizzate delle scanalature di frizione — delle impronte — in tutto il Paese e nel giro di qualche ora avrebbero fornito i risultati, forse persino nel giro di pochi minuti nel caso fossero state rilevate delle impronte latenti abbastanza chiare. «Come ti sembrano?» chiese Rhyme. «Piuttosto chiare.» Amelia sollevò le foto per fargliele osservare. Molte erano solo parziali. Tuttavia avevano una buona impronta di tutta la mano sinistra dell'assassino. La prima cosa che Rhyme notò fu che il killer aveva due dita deformate: il mignolo e l'anulare. Sembravano unite ed entrambe erano lisce, prive di impronte. Rhyme aveva un'ottima esperienza nel campo della patologia forense ma non riusciva a capire se si trattasse di un difetto congenito o delle conseguenze di un incidente. Che ironia, pensò Lincoln osservando l'immagine, l'anulare sinistro del nostro killer è danneggiato mentre il mio è l'unica estremità al di sotto del collo che io riesca a muovere. Poi si accigliò. «Aspetta un minuto, Mel... Avvicinati, Sachs. Voglio vederle meglio.» Amelia si spostò accanto a Rhyme e lui esaminò di nuovo le impronte. «Non noti niente di strano?» «Per la verità, no... aspetta!» Amelia scoppiò a ridere. «Sono tutte identiche.» Sfogliò le fotografie. «Tutte le dita... sono identiche. Quella piccola cicatrice è nella stessa posizione su ciascun dito.» «Deve aver indossato un particolare tipo di guanti», disse Cooper, «con finte scanalature di frizione. Mai vista una cosa simile.» Chi diavolo era quell'assassino? I risultati del cromatografo/spettrometro comparvero sullo schermo di uno dei computer. «Allora, abbiamo del lattice puro... e questo cos'è?
Qualcosa che il computer identifica come alginato. Mai sentito...» «Denti.» «Cosa?» chiese Cooper a Rhyme. «È una polvere che si mescola con l'acqua per realizzare calchi. I dentisti lo usano per le corone e per i lavori dentali. Forse il nostro colpevole è appena stato dal dentista.» Cooper continuò a esaminare lo schermo del computer. «Abbiamo tracce minime di olio di ricino, glicole propilenico, alcool cetilico, mica, ossido di ferro, diossido di titanio, catrame di carbone e alcuni pigmenti neutri.» «Alcune di queste sostanze si trovano nei prodotti per il trucco», disse Rhyme, ricordandosi di un caso in cui era riuscito a risalire all'identità di un assassino dopo che l'uomo aveva scritto messaggi osceni sullo specchio della vittima con un rossetto che aveva lasciato alcune tracce sulla sua manica. Indagando su quel caso, Rhyme aveva studiato la composizione di molti cosmetici. «Della vittima?» chiese Cooper ad Amelia. «No», rispose lei. «Ho preso campioni della sua pelle. Non era truccata.» «Be', aggiungilo alla lavagna. Scopriremo se significa qualcosa.» Passando all'analisi della corda, l'arma del delitto, Mel Cooper spostò lo sguardo su un vassoio da analisi di porcellana. «È una corda bianca avvolta attorno a un nucleo nero. Sia la corda che il nucleo sono di seta intrecciata — molto leggera e molto sottile — ed è per questo che non sembra più spessa di una corda normale anche se in realtà è come un insieme di due corde.» «Per quale motivo? Il nucleo la rende forse più forte?» domandò Rhyme. «Più facile da slegare? Più difficile da slegare? Cosa?» «Non ne ho idea.» «La faccenda si fa sempre più misteriosa», disse Amelia con un tono drammatico che Rhyme avrebbe trovato irritante se non fosse stato d'accordo con lei. «Già», disse, sconcertato. «Roba mai vista prima. Continuiamo. Voglio qualcosa di familiare, qualcosa che possiamo utilizzare.» «E il nodo?» «È stato fatto da un esperto ma non lo riconosco», rispose Cooper. «Mandane una foto al bureau. E... non conosciamo qualcuno al Museo Marittimo?» «Ci hanno aiutato qualche volta con i nodi», disse Amelia. «Manderò
una foto anche a loro.» Arrivò una telefonata da Tobe Geller dell'Unità Crimini Informatici del quartier generale dell'FBI di New York. «Questo è molto divertente, Lincoln.» «Sono contento che tu sia così allegro», borbottò Rhyme. «C'è qualcosa di utile che puoi dirci a proposito del nostro giocattolo?» Geller, un giovane dai capelli ricci, ignorò la frecciata di Rhyme soprattutto perché stavano parlando di un apparecchio elettronico. «È un registratore digitale. Affascinante. Il vostro assassino l'ha usato per registrare qualcosa, ha immagazzinato dei suoni su un hard disk e poi lo ha programmato perché li riproducesse dopo un certo intervallo. Non sappiamo quale fosse il suono — ha dotato l'apparecchio di un programma di cancellazione e i dati sono andati distrutti.» «Era la sua voce», mormorò Rhyme. «Quando ha detto di avere un ostaggio era solo una registrazione. Come le sedie. Le ha usate per far pensare che fosse ancora nella stanza.» «Tutto torna. Aveva un altoparlante speciale... piccolo ma perfetto per i bassi e i mezzi toni. Si potrebbe usare per imitare piuttosto bene una voce umana.» «Non è rimasto niente sul disco?» «Niente. È stato tutto cancellato.» «Dannazione. Volevo un'impronta vocale.» «Mi dispiace. Non c'è più niente.» Rhyme sospirò frustrato e tornò ai vassoi di analisi; lasciò ad Amelia il compito di dire a Geller quanto avessero apprezzato il suo aiuto. La squadra passò a esaminare l'orologio da polso della vittima che era stato rotto per ragioni che nessuno di loro riusciva a capire. Non c'era alcun indizio, solo l'ora che segnavano le lancette quando era stato rotto. Talvolta i criminali rompono gli orologi che si trovano sulle scene del crimine dopo averli regolati su un'ora sbagliata per sviare le indagini. Ma questo era fermo a un'ora praticamente identica a quella dell'omicidio. Che cosa si poteva dedurre? Sempre più misteriosa... Mentre l'assistente riportava sulla lavagna le loro osservazioni, Rhyme lanciò un'occhiata al sacchetto che conteneva il registro. «Il nome mancante nel registro», rifletté. «Nove persone lo hanno firmato ma sono riportati solo otto nomi... Credo che abbiamo bisogno di un esperto.» Disse, parlando nel microfono: «Comando, telefono. Chiamare Kincaid, virgola Par-
ker». 6 Sullo schermo comparve il prefisso della Virginia, 703, quindi il numero che il computer stava chiamando. Uno squillo. La voce di una ragazzina disse: «Casa Kincaid». «Uhm, sì. C'è Parker? Tuo padre, voglio dire.» «Chi parla?» «Lincoln Rhyme. Da New York.» «Un momento, per favore.» Un attimo dopo, la voce rilassata di uno dei più importanti analisti di documenti del Paese disse: «Ehi, Lincoln. Sarà un paio di mesi che non ci sentiamo». «Ho avuto molto da fare», disse Rhyme. «E tu cosa combini, Parker?» «Oh, sto cercando di mettermi nei guai. Ho quasi causato un incidente diplomatico. La Società Culturale Inglese del distretto mi ha chiesto di autenticare un taccuino di re Edoardo che avevano acquistato da un collezionista privato. Da notare l'uso del verbo al passato, Lincoln.» «Lo avevano già pagato.» «Seicentomila dollari.» «Un tantino costoso. Lo volevano così disperatamente?» «Oh, conteneva dei succosi pettegolezzi su Churchill e Chamberlain. Be', non in quel senso, naturalmente.» «Naturalmente no.» Rhyme cercava sempre di essere paziente con le persone a cui chiedeva aiuto gratuitamente. «L'ho esaminato, e cosa avrei potuto fare? Ne ho messo in dubbio l'autenticità.» Quell'espressione innocua usata da un importante analista di documenti come Kincaid significava che Parker aveva bollato il diario come sfacciatamente fasullo. «Ah, sopravviveranno», continuò. «Però, adesso che ci penso, non mi hanno ancora pagato la parcella... No, tesoro, non possiamo fare la glassa prima che la torta si sia raffreddata... Perché lo dico io.» Kincaid era un padre single ed era l'ex capo del dipartimento documenti del quartier generale dell'FBI. Aveva lasciato il bureau per occuparsi privatamente di analisi di documenti e per poter passare più tempo con i suoi figli, Robbie e Stephanie.
«Come sta Margaret?» disse Amelia nel ricevitore. «Sei tu, Amelia?» «Sì.» «Sta bene. Non la vedo da qualche giorno. Mercoledì abbiamo portato i bambini al Planet Play e stavo per batterla alla pistola laser quando il suo cercapersone si è messo a suonare. Ha dovuto buttare giù la porta di qualcuno per arrestarlo. A Panama o in Ecuador o in qualche posto del genere. Non mi dà mai i dettagli. Allora, che succede?» «Ci stiamo occupando di un caso e ho bisogno d'aiuto. La scena è questa: il sospetto è stato visto scrivere il suo nome su un registro della sicurezza. Okay?» «Capito. E voi avete bisogno di un'analisi della calligrafia?» «Il problema è che non abbiamo niente da analizzare.» «La firma è scomparsa?» «Sì.» «E siete sicuri che il sospetto non abbia finto di scrivere?» «Sicurissimi. C'era una guardia che ha visto l'inchiostro sulla carta, quindi nessun dubbio.» «E ora non c'è niente di visibile?» «Niente.» Kincaid fece una cupa risata. «Davvero astuto. Così non c'era alcuna registrazione del colpevole che è entrato nell'edificio. E poi qualcun altro ha scritto il suo nome nello spazio bianco e ha rovinato qualunque traccia potesse esserci della sua firma.» «Esatto.» «Non c'è niente sul foglio sotto quello con le firme?» Rhyme lanciò un'occhiata a Cooper, che illuminò con una luce radente e intensa il secondo foglio del registro — questo, piuttosto che coprire la pagina con la grafite di una matita, era il metodo preferito per raccogliere le tracce sulla carta. Scosse la testa. «Niente», disse Rhyme all'analista di documenti. Poi: «Allora, come ha fatto?» «Ha usato un ex-lax», annunciò Kincaid. «Un cosa?» chiese Sellitto. «Ha usato l'inchiostro che scompare. Noi del settore lo chiamiamo exlax. Il vecchio ex-lax conteneva fenolftaleina, prima che questa venisse messa fuori commercio dal FDA. Scioglievi una pillola nell'alcool e ottenevi dell'inchiostro blu. Aveva un ph alcalino. Poi scrivevi qualcosa. Dopo
qualche secondo di esposizione all'aria, il blu scompariva.» «Certo», disse Rhyme ricordando le sue nozioni di chimica. «L'anidride carbonica presente nell'aria rende acido l'inchiostro e questo neutralizza il colore.» «Esattamente. Oggi la fenolftaleina non è più reperibile. Ma si può ottenere lo stesso effetto con un indicatore di timolftaleina e con l'idrossido di sodio.» «C'è un posto in particolare in cui si possono acquistare queste sostanze?» «Mmmm», rifletté Kincaid. «Be'... solo un attimo, tesoro. Papà è al telefono... No, è tutto okay. Tutte le torte sembrano storte quando sono nel forno. Vengo subito... Lincoln? Quello che ti volevo dire è che la tua è una grande idea in teoria ma quando lavoravo per il bureau non c'è mai stato nessun criminale o nessuna spia che abbia effettivamente usato l'inchiostro che scompare. È una novità, sai. Lo usa la gente di spettacolo.» Gente di spettacolo, pensò cupamente Rhyme, guardando la lavagna a cui erano state fissate le foto della povera Svetlana Rasnikov. «Dove potrebbe aver trovato questo tipo di inchiostro il nostro sospetto?» «Molto probabilmente nei negozi di giocattoli o nei negozi di magia.» Interessante... «Be', mi sei stato di grande aiuto, Parker.» «Vieni a trovarci qualche volta», si intromise Amelia. «E porta anche i bambini.» Rhyme fece una smorfia nel sentire quell'invito. Sussurrò ad Amelia: «E allora perché non inviti anche tutti i loro amici? Tutta la scuola...» Scoppiando a ridere, lei gli fece segno di star zitto. Una volta conclusa la telefonata, Rhyme borbottò: «Più scopriamo, meno sappiamo». Telefonarono Bedding e Saul e riferirono che a quanto pareva Svetlana era benvoluta alla scuola di musica e che non aveva nemici. Era improbabile che il suo lavoro part-time avesse attirato l'attenzione di un maniaco; la vittima cantava alle feste di compleanno dei bambini. Arrivò un pacchetto dall'ufficio del Medico Legale. All'interno c'era un sacchetto di plastica che conteneva le vecchie manette con cui era stata immobilizzata la vittima. Non erano state aperte, come Rhyme aveva ordinato. Aveva detto al medico legale di toglierle comprimendo le mani della vittima, dal momento che trapanando il lucchetto avrebbero corso il rischio di distruggere indizi importanti.
«Non ho mai visto niente del genere», confessò Cooper sollevandole, «tranne che nei film.» Rhyme era d'accordo con lui. Le manette erano antiche, pesanti e fatte di ferro dalla superficie irregolare. Cooper spazzolò e picchiettò attorno al meccanismo dei lucchetti ma non trovò tracce significative. Il fatto che le manette fossero antiche, però, era incoraggiante, perché avrebbe ristretto il campo delle ricerche. Rhyme disse a Cooper di fotografarle in modo da avere delle immagini da mostrare ai commercianti. Sellitto ricevette un'altra telefonata. Rimase ad ascoltare per un attimo, poi con aria sconvolta disse: «Impossibile... È sicuro?... Già. Grazie». Interrompendo la comunicazione, il detective lanciò un'occhiata a Rhyme. «Non capisco.» «Che cosa?» chiese Rhyme, che non era dell'umore per affrontare altri misteri. «Era il direttore della scuola di musica. Non c'è nessun custode.» «Ma le agenti di pattuglia lo hanno visto», gli fece notare Amelia. «Il personale che si occupa delle pulizie non lavora di sabato. Soltanto le sere dal lunedì al venerdì. E nessuno di loro assomiglia all'uomo che hanno visto le agenti.» Nessun custode? Sellitto esaminò i suoi appunti. «Era vicino alla seconda porta e stava pulendo il pavimento. L'uomo...» «Oh, maledizione», ringhiò Rhyme. «Era lui!» Un'occhiata al detective. «Il custode non assomigliava neanche lontanamente all'assassino, giusto?» Sellitto consultò il suo taccuino. «Era sui sessant'anni, calvo, niente barba e indossava una tuta grigia.» «Una tuta grigia!» gridò Rhyme. «Già.» «Le fibre di seta. Era un costume.» «Di cosa stai parlando?» chiese Cooper. «Il nostro uomo ha ucciso la studentessa. Quando è stato sorpreso dalle agenti le ha abbagliate con il flash, poi è corso nel teatro, ha acceso le micce e il registratore digitale per far loro credere che fosse ancora dentro, si è travestito da custode ed è corso fuori dalla porta secondaria.» «Ma non si è semplicemente levato uno strato di vestiti di dosso come uno scippatore su un convoglio della metropolitana», gli fece notare il poliziotto corpulento. «Come diavolo può aver fatto? Lo hanno perso di vista
per... quanto, sessanta secondi?» «Benissimo, se hai una spiegazione che non abbia niente a che fare con l'intervento divino sono prontissimo ad ascoltarla.» «Andiamo. È impossibile, cazzo.» «Impossibile?» chiese Rhyme cinicamente avvicinando la Storm Arrow alla lavagna su cui Thom aveva fissato le stampe delle foto digitali delle impronte dell'assassino scattate da Amelia. «Allora cosa ne dici di un po' di prove?» Esaminò le impronte lasciate dal killer, quindi quelle che Amelia aveva rilevato nel corridoio vicino al punto in cui il custode era stato visto. «Scarpe», annunciò. «Sono le stesse?» chiese il detective. «Sì», disse Amelia avvicinandosi alla lavagna. «Delle Ecco, numero quarantaquattro.» «Cristo», mormorò Sellitto. Rhyme domandò: «Okay, che cosa abbiamo? Un assassino sulla cinquantina, corporatura media, altezza media, probabilmente senza barba, due dita deformi, forse già schedato perché ha nascosto le impronte... e queste sono tutte le dannate informazioni che abbiamo». Poi si accigliò. «No», borbottò cupamente, «queste non sono tutte le informazioni che abbiamo. C'è qualcos'altro. L'uomo aveva con sé un cambio di vestiti, le armi con cui ha ucciso... È un aggressore organizzato.» Lanciò un'occhiata a Sellitto e aggiunse: «Ucciderà ancora». Amelia annuì con aria grave. Rhyme guardò l'ordinata calligrafia di Thom sulla lavagna delle prove e si chiese: Cosa lega tutti questi elementi? La seta nera, il trucco, il cambio di costume, i travestimenti, il flash, gli effetti pirotecnici. L'inchiostro che scompare. Disse lentamente: «Sto cominciando a pensare che il nostro ragazzo abbia studiato magia». Amelia annuì. «Ha senso.» Sellitto annuì. «Okay. Può darsi. Ma adesso cosa facciamo?» «Mi sembra ovvio», rispose Rhyme. «Troviamo qualcuno che ci aiuti.» «Qualcuno chi?» domandò Sellitto. «Un mago, naturalmente. Chi altro?» «Fallo ancora.»
Lo aveva già fatto altre otto volte. «Ancora?» L'uomo annuì. E allora Kara lo fece di nuovo. La Liberazione dei Tre Fazzoletti — inventata dal famoso mago e insegnante Harlan Tarbell — è uno dei numeri preferiti dal pubblico. Si tratta di separare tre fazzoletti di seta di colori diversi che sembrano indissolubilmente annodati tra loro. È un numero difficile da eseguire in modo fluido, ma Kara era certa del risultato. Tuttavia David Balzac non era d'accordo con lei. «Le tue monete stavano parlando», disse con un sospiro, una critica feroce che significava che un'illusione o un trucco erano stati eseguiti goffamente e in modo banale. L'uomo anziano e robusto con i capelli bianchi e la barbetta macchiata di tabacco scosse la testa esasperato. «Penso sia stato fluido. A me è sembrato fluido.» «Ma tu non sei il pubblico. Io sono il pubblico. Ora, di nuovo.» Si trovavano sul piccolo palco nel retro dello Smoke & Mirrors, il negozio che Balzac aveva comprato dieci anni prima, dopo essersi ritirato dal circuito internazionale di magia e illusionismo. Il cadente negozio vendeva strumenti di magia e noleggiava costumi e arredamenti scenici. Tutte le settimane vi venivano organizzati per i clienti e i residenti della zona spettacoli gratuiti di magia eseguiti da dilettanti. Un anno e mezzo prima Kara, allora editor freelance della rivista Self, si era fatta coraggio e aveva finalmente deciso di provare — la reputazione di Balzac l'aveva intimidita per mesi. Il vecchio mago l'aveva guardata svolgere il suo numero, poi l'aveva convocata nel suo ufficio. Il Grande Balzac le aveva detto con voce brusca ma accattivante che pensava avesse del talento. Aveva aggiunto che avrebbe potuto diventare una grande illusionista — con il giusto allenamento — e le aveva proposto di andare a lavorare nel suo negozio. Lui sarebbe diventato il suo mentore e insegnante. Kara si era trasferita a New York dal Midwest anni prima e conosceva bene la vita della città; sapeva bene che cosa avrebbe potuto significare il termine «mentore», soprattutto perché a utilizzarlo era un uomo che aveva già divorziato quattro volte e lei era una donna attraente di quarant'anni più giovane di lui. Ma Balzac era un mago molto apprezzato, era stato spesso ospite di Johnny Carson e si era esibito per anni a Las Vegas. Aveva girato il mondo decine di volte e conosceva personalmente tutti i più grandi illusionisti viventi. L'illusionismo era la grande passione di Kara e quella era
la sua grande occasione. E così aveva accettato. Alla prima lezione si era presentata con la guardia alzata, pronta a respingere ogni tentativo di abbordaggio. Quella lezione era stata uno choc per lei... ma per una ragione del tutto diversa. Balzac l'aveva massacrata. Dopo un'ora passata a criticare praticamente ogni aspetto della sua tecnica, il mago aveva guardato il volto pallido e coperto di lacrime di Kara e aveva abbaiato: «Ho detto che hai del talento. Non ho detto che sei brava. Se vuoi qualcuno che ti lucidi l'ego, sei venuta nel posto sbagliato. Ora, vuoi correre a casa a farti consolare dalla mammina o hai intenzione di rimetterti al lavoro?» Si erano rimessi al lavoro. Così diciotto mesi prima era cominciato un rapporto di amore-odio tra mentore e apprendista che li aveva tenuti svegli fino a notte fonda sette giorni alla settimana, a fare pratica, fare pratica, fare pratica. Anche se Balzac nel corso degli anni aveva avuto molti assistenti, era stato il mentore di due soli apprendisti e in entrambi i casi, a quanto pareva, era rimasto deluso. Non voleva che accadesse la stessa cosa con Kara. Talvolta gli amici le chiedevano da dove venisse il suo amore — la sua ossessione — per l'illusionismo. Probabilmente si aspettavano di sentire qualche racconto strappalacrime sull'infanzia difficile e tormentata di una ragazzina che aveva cercato di usare la fantasia per sfuggire a una realtà crudele. Ma Kara era stata una ragazza normale — una brava studentessa, una brava atleta, aveva cucinato dolci e cantato nel coro della scuola, e si era appassionata all'illusionismo in modo per niente drammatico assistendo con i nonni a uno spettacolo di Penn e Teller a Cleveland e, un mese più tardi, a Las Vegas, in viaggio con i suoi genitori, scoprendo le tigri volanti e le illusioni con il fuoco, tutto lo splendore della magia. Era bastato questo. A tredici anni, a scuola, aveva fondato il club della magia e ben presto aveva cominciato a spendere ogni penny che guadagnava in riviste di magia, videocassette di illusionismo e scatole di trucchi. Più tardi i suoi sforzi da imprenditrice l'avevano portata a falciare prati e spalare neve in cambio di passaggi per il Big Apple Circus e il Cirque du Soleil ogni volta che comparivano nel raggio di cinquanta chilometri dalla sua città. Il che non significa che non ci fossero motivazioni importanti nella sua decisione. No, ciò che spingeva Kara si poteva trovare senza difficoltà negli occhi stupiti e incantati degli spettatori, che fossero parenti invitati per
il Giorno del Ringraziamento (lo spettacolo comprendeva rapidi cambi di costume e un gatto che levitava anche senza la botola che suo padre si era rifiutato di lasciarle realizzare nel pavimento del salotto) o gli studenti e i genitori allo spettacolo dell'ultimo anno di liceo, dove si era guadagnata due bis e una standing ovation. La vita con David Balzac, però, era molto diversa dal trionfo di quello spettacolo: nel corso dell'ultimo anno e mezzo talvolta Kara aveva avuto la sensazione di aver perso tutto il proprio talento. Ma ogni volta che era stata sul punto di darsi per vinta, Balzac aveva annuito rivolgendole un sorriso appena accennato. E a volte aveva persino detto: «È stato un bel numero». E in momenti come quello il suo mondo era perfetto. Tuttavia, il resto della sua vita si era volatizzato come polvere quando lei aveva preso a passare tutto il tempo al negozio, maneggiando libri e occupandosi dell'inventario, della contabilità e facendo da webmaster per il sito Internet dello Smoke & Mirrors. Dal momento che Balzac non la pagava molto, Kara aveva bisogno di un altro lavoro e così aveva di volta in volta accettato impieghi almeno vagamente compatibili con la sua laurea in inglese, curando i testi di altri siti web sull'illusionismo e sul teatro. Poi, circa un anno prima, le condizioni di sua madre erano peggiorate e Kara, figlia unica, aveva trascorso con lei il poco tempo libero che le restava. Una vita estenuante. Ma per il momento riusciva a gestirla. Di lì a qualche anno Balzac l'avrebbe ritenuta capace di esibirsi e Kara avrebbe potuto cominciare a lavorare, grazie alla sua benedizione e ai suoi contatti, con vari produttori in giro per il mondo. Tieni duro, ragazza, come avrebbe potuto dire Jaynene, e non farti disarcionare dal cavallo al galoppo. Kara finì di eseguire per l'ennesima volta il trucco dei tre fazzoletti. Gettando un po' di cenere della sigaretta sul pavimento, Balzac si accigliò. «Tieni il dito indice leggermente più in alto.» «È riuscito a vedere il nodo?» «Se non fossi riuscito a vederlo», ribatté lui con rabbia, «perché dovrei chiederti di tenere più in alto il dito? Prova ancora.» Ancora una volta. Quel maledetto indice leggermente più in alto. Wshhhh... i fazzoletti di seta annodata si separarono e volarono nell'aria come bandiere trionfanti.
«Ah», disse Balzac. Un vago cenno del capo. Non esattamente un complimento tradizionale. Ma Kara aveva imparato ad accontentarsi dei suoi ah. Ripose il necessario per il numero e si spostò dietro il bancone per registrare la merce che era arrivata con la consegna del venerdì pomeriggio. Balzac tornò al computer su cui stava scrivendo per il sito web del negozio un articolo su Jasper Maskelyne, il mago inglese che aveva creato una speciale unità militare durante la Seconda guerra mondiale che si serviva di tecniche illusionistiche contro i tedeschi in Nordafrica. Stava scrivendo tutto a memoria, senza appunti o ricerche: quella era una delle doti di David Balzac... la sua conoscenza della magia era tanto profonda quanto il suo temperamento era instabile e collerico. «Ha saputo che il Cirque Fantastique è in città?» chiese Kara. «La prima è stasera.» Il vecchio illusionista grugnì. Si era tolto gli occhiali per mettere le lenti a contatto. Balzac teneva sempre presente l'importanza dell'immagine di un illusionista e cercava di apparire al meglio per qualsiasi pubblico, compreso quello dei suoi clienti. «Ci andrà?» insistette lei. «Penso che dovremmo andarci.» Il Cirque Fantastique — concorrente del più antico e più grande Cirque du Soleil — apparteneva ai circhi di nuova generazione. Combinava tradizionali numeri da circo con l'antica commedia dell'arte, la musica contemporanea e la danza, la performance art d'avanguardia e la magia di strada. Ma David Balzac era della vecchia scuola: Las Vegas, Atlantic City, il Late Show. «Perché cambiare qualcosa che funziona?» borbottava sempre. Kara invece amava il Cirque Fantastique ed era determinata a portarlo ad assistere a uno spettacolo. Tuttavia, prima di poter tentare di convincerlo ad accompagnarla, la porta del negozio si aprì e un'attraente donna poliziotto dai capelli rossi entrò chiedendo chi fosse il proprietario. «Sono io. Sono David Balzac. Cosa posso fare per lei?» L'agente rispose: «Stiamo indagando su un caso che coinvolge una persona che potrebbe essere esperta di magia. Stiamo parlando con i proprietari di tutti i negozi di magia della città, speriamo che possiate esserci d'aiuto». «Vuole dire che state indagando su un truffatore o qualcosa di simile?» domandò Balzac. Sembrava sulla difensiva, e anche Kara si sentiva così. In passato la magia era spesso stata collegata a imbroglioni, ciarlatani, finti veggenti che usavano tecniche da illusionisti per convincere familiari in
lutto che i loro parenti defunti stavano comunicando con loro. Ma l'agente era lì per un'altra ragione. «Per la verità», rispose lanciando un'occhiata a Kara e poi tornando a guardare Balzac, «si tratta di un caso di omicidio.» 7 «Ho una lista di alcuni oggetti che abbiamo trovato sulla scena del crimine», disse Amelia Sachs al proprietario, «e mi chiedevo se per caso siano stati acquistati qui.» Balzac prese il foglio che gli stava porgendo e lo lesse mentre Amelia si guardava attorno. La caverna dipinta di nero dello Smoke & Mirrors, che si trovava nel photo district, zona del quartiere di Chelsea a Manhattan, sapeva di muffa e sostanze chimiche — anche di plastica, l'aroma petrolchimico di fondo delle centinaia di costumi, simili a una folla di spettatori senza vita, esposti nel negozio. I vecchi banconi di vetro percorsi da crepe richiuse con pezzi di nastro adesivo erano occupati da mazzi di carte, bacchette, monete finte e scatole polverose che contenevano trucchi di magia. Una replica a grandezza naturale della creatura dei film di Alien si trovava accanto a un costume da Lady Diana con tanto di maschera («Sarai la Principessa della Festa!» diceva un cartello, come se nessuno nel negozio sapesse ancora che era morta). L'uomo batté leggermente sul foglio con un dito, poi indicò i banconi con un cenno del capo. «Penso di non potervi essere d'aiuto. Noi vendiamo alcuni di questi articoli, certo. Ma li vende anche ogni altro negozio di magia del Paese. E anche molti negozi di giocattoli.» Amelia notò che Balzac aveva studiato la lista solo per qualche secondo: «Cosa mi sa dire di queste?» Gli mostrò una fotografia delle manette. Lui la guardò appena. «Non so niente di escapologia.» Quella era una risposta? «Quindi questo significa che non le riconosce?» «No.» «E una cosa molto importante», insistette Amelia. La giovane donna dagli straordinari occhi azzurri e dalle unghie laccate di nero guardò la fotografia. «Sono delle Darby», disse poi. L'uomo le lanciò un'occhiata glaciale. La ragazza rimase in silenzio per un attimo, poi: «Nell'Ottocento erano le manette regolamentari di Scotland Yard. Vengono usate da molti escapologisti. Erano le preferite di Houdini». «Quale potrebbe essere la loro provenienza?»
Balzac si dondolò con impazienza sulla sedia del suo ufficio. «Non sapremmo proprio dirglielo. Come le ho già spiegato, non abbiamo esperienza in questo campo.» La giovane donna annuì, dandogli ragione. «Probabilmente c'è un museo di escapologia da qualche parte con cui potrebbe mettersi in contatto.» «Quando hai finito di occuparti del magazzino», intervenne Balzac rivolgendosi alla sua assistente, «ho bisogno che inoltri questi ordini. Ne sono arrivati più di una decina ieri sera dopo che te ne sei andata.» Si accese una sigaretta. Amelia gli porse nuovamente la lista. «Prima ha detto che tenete alcuni di questi oggetti. Avete un registro dei clienti?» «Intendevo dire che vendiamo oggetti simili a questi. E, no, non abbiamo un registro dei clienti.» Dopo una breve discussione, Amelia gli fece finalmente ammettere che avevano una registrazione degli ordini per posta e delle vendite on line. La giovane li controllò ma scoprì che nessuno aveva comprato gli oggetti della lista. «Mi dispiace», disse Balzac. «Vorrei esserle di maggior aiuto.» «Sa una cosa? Anch'io vorrei che potesse essermi di maggior aiuto», ribatté Amelia, sporgendosi in avanti. «Perché, vede, questo tizio ha ucciso una donna ed è scappato utilizzando trucchi da illusionista. E temiamo che ucciderà ancora.» Aggrottando la fronte in segno di preoccupazione, Balzac mormorò: «È terribile... Sa, potrebbe provare all'East Side Magic and Theatrical. Sono molto più forniti di noi». «Da loro c'è già un nostro agente proprio in questo momento.» «Ah, benissimo.» Amelia restò in silenzio per qualche secondo, quindi concluse: «Be', se le dovesse venire in mente qualcos'altro, apprezzerei molto una sua telefonata». Un bel sorriso da pubblico ufficiale, un sorriso da sergente del Dipartimento di Polizia di New York («Ricordate: i rapporti con i cittadini sono importanti quanto le indagini su un crimine»). «Buona fortuna, agente», le augurò Balzac. «Grazie», rispose lei. Grazie, gelido figlio di puttana. Con un cenno del capo salutò la donna e lanciò un'occhiata al bicchiere di carta da cui stava sorseggiando. «Senta, c'è un posto qui vicino dove poter bere una buona tazza di caffè?»
«All'incrocio tra la Quinta e la Diciannovesima.» «E hanno anche degli ottimi bagel», aggiunse Balzac, pronto a rendersi utile ora che non era richiesto alcun rischio, né alcuno sforzo. Fuori, Amelia svoltò verso la Quinta Strada e trovò la caffetteria che le avevano indicato. Entrò e ordinò un cappuccino. Si appoggiò contro uno stretto bancone di mogano davanti alla vetrina impolverata sorseggiando la bevanda calda e osservando il popolo del sabato mattina che affollava Chelsea: venditori di negozi di abbigliamento della zona, fotografi professionisti seguiti dai loro assistenti, ricchi yuppie che vivevano in enormi loft, artisti squattrinati, giovani e vecchi innamorati, qualche tizio dall'aria strana che scribacchiava su un taccuino. E una commessa di un negozio di magia che stava entrando nel locale. «Salve», la salutò la donna dai corti capelli rosso-viola, che portava con sé una malconcia borsa a tracolla zebrata. Ordinò un caffè lungo, versò dello zucchero nella tazza e raggiunse Amelia al bancone. Allo Smoke & Mirrors, la donna poliziotto aveva chiesto dove poteva bere un buon caffè perché l'assistente le aveva lanciato un'occhiata d'intesa; aveva avuto l'impressione che volesse dirle qualcosa ma che non potesse farlo in presenza di Balzac. Sorseggiando avidamente il caffè, la giovane donna disse: «Il problema di David è che...» «Che non collabora?» La ragazza si accigliò per un attimo. «Già. È questo il punto. È diffidente nei confronti di qualsiasi cosa non appartenga al suo mondo. Aveva paura che saremmo stati costretti a testimoniare o qualcosa del genere. E secondo lui, io non devo farmi distrarre.» «Da cosa?» «Dalla professione.» «Dalla magia?» «Esatto. Vede, più che il mio capo, è una specie di mentore per me.» «Come ti chiami?» «Kara... è il mio nome d'arte ma lo uso sempre.» Un sorriso dolente. «Sempre meglio di quello che i miei genitori sono stati così gentili da affibbiarmi.» Amelia, incuriosita, inarcò un sopracciglio. «Preferisco che resti un segreto.» «Allora», disse Amelia, «perché mi ha lanciato quell'occhiata al negozio?»
«David ha ragione a proposito di quella lista. Quegli articoli si potrebbero comprare ovunque, in qualsiasi negozio. Oppure su Internet, in centinaia di siti. Ma le Darby, quelle manette... Sono molto rare. Dovrebbe rivolgersi al museo di New Orleans dedicato a Houdini e all'escapologia. È il migliore del mondo. Sono una vera appassionata di escapologia. Ma lui non lo sa.» Una reverente enfasi sul pronome. «David è piuttosto dogmatico... Può dirmi cos'è successo? Parlo dell'omicidio.» Di solito prudente circa le informazioni da rivelare su un caso ancora in corso, Amelia sapeva che avevano bisogno di aiuto e così descrisse a grandi linee a Kara l'omicidio e la fuga dell'assassino. «Oh, è terribile», sussurrò la giovane. «Già», ribatté Amelia sottovoce. «È terribile.» «Il modo in cui è scomparso. C'è qualcosa che dovrebbe sapere, agente... un attimo, devo chiamarla 'agente'? O forse è detective o qualcosa del genere?» «Puoi chiamarmi Amelia», rispose Sachs godendosi per un attimo il ricordo dell'esercizio di valutazione. Bang, bang... Kara bevve un altro po' di caffè, decise che non era abbastanza dolce e versò dell'altro zucchero dalla zuccheriera di vetro. Amelia guardò le agili mani della giovane donna, poi abbassò lo sguardo sulle proprie unghie, due delle quali erano rosicchiate, le pellicine macchiate di sangue. Le unghie della ragazza, invece, erano perfettamente curate, e lo smalto nero e lucido rifletteva le luci sopra il bancone in una perfetta miniatura. Una fitta dolorosa — al pensiero di quelle unghie e dell'autocontrollo che le manteneva così curate — l'attraversò per un istante, poi Amelia Sachs si affrettò a soffocarla. Kara domandò: «Sai che cos'è l'illusionismo?» «David Copperfield», replicò Amelia, scrollando le spalle. «Houdini.» «Copperfield, sì. Houdini, no... lui era un escapologista. Be', l'illusionismo è diverso dai giochi di destrezza con le mani o dalla magia close-up, come la chiamiamo noi. Come...» Kara tenne sollevato un quarto di dollaro tra le dita, il resto del suo caffè. Chiuse la mano e quando la riaprì la moneta era scomparsa. Amelia scoppiò a ridere. Dove diavolo era finita? «Questo era un gioco di destrezza. L'illusionismo è fatto di trucchi che coinvolgono oggetti grandi, persone o animali. Quello che mi hai appena descritto, quello che ha eseguito l'assassino, è un classico numero da illu-
sionista. Si chiama l'Uomo Scomparso.» «Continua.» «Di solito viene eseguito in modo leggermente diverso da come lo hai descritto, ma essenzialmente comporta la sparizione dell'illusionista da una stanza chiusa. Gli spettatori lo vedono entrare in questa piccola stanza sul palco... possono vederne la parte posteriore grazie a un grande specchio. Lo sentono battere contro le pareti. E quando gli assistenti abbassano le pareti di cartone, il mago è scomparso. Poi uno di loro si volta e il pubblico si accorge che è l'illusionista.» «Come funziona?» «C'è una porta sulla parete di fondo della stanza. L'illusionista si copre con un grande pezzo di seta nera in modo che il pubblico non possa vederlo nello specchio e scivola fuori subito dopo essere entrato. In una delle pareti c'è un altoparlante, che dà l'impressione che lui sia dentro per tutto il tempo, e c'è un marchingegno che colpisce le pareti per dare l'impressione che sia lui a colpirle. Una volta che l'illusionista è fuori, fa un veloce cambio d'abito sotto la seta nera e indossa un costume da assistente.» Amelia annuì. «Certo, ho capito. Potremmo avere una breve lista delle persone che conoscono questo numero?» «No, mi dispiace... è un trucco piuttosto comune.» L'Uomo Scomparso... Amelia si ricordò che il killer aveva cambiato velocemente travestimento per apparire come un uomo anziano e ripensò anche alla mancanza di collaborazione di Balzac e allo sguardo glaciale — quasi sadico — che aveva quando parlava con Kara. Domandò: «Devo chiedertelo... dov'era lui stamattina?» «Chi?» «Il signor Balzac.» «Era qui. Cioè, era nell'edificio. Abita proprio sopra il negozio... Aspetta un attimo, non starai pensando che sia coinvolto?» «Ci sono domande che devo fare», rispose Amelia evasiva. Comunque la giovane donna sembrava più divertita che turbata da quella domanda. Emise una breve risata. «Ascolta, so che è brusco e ha... un caratteraccio. È irascibile. Ma non ha mai fatto del male a nessuno.» Amelia annuì ma poi chiese: «Comunque sai dov'era alle otto di questa mattina?» Kara annuì. «Certo, era in negozio. Ha aperto presto, perché in città è arrivato un suo amico che deve fare uno spettacolo e aveva bisogno di pren-
dere in prestito alcune attrezzature. Io ho telefonato per avvisarlo che sarei arrivata tardi.» Amelia annuì. Un attimo dopo domandò: «Puoi allontanarti dal lavoro per un po'?» «Io? Oh, no, è impossibile.» Una risata imbarazzata. «Sono già stata abbastanza fortunata a riuscire a sgattaiolare fuori adesso. Ci sono mille cose da fare in negozio. E poi ho tre o quattro ore di prove con David per uno spettacolo che farò domani. Non mi lascia mai riposare il giorno prima di un'esibizione. Io...» Amelia fissò la donna negli occhi. «Temiamo che questa persona possa uccidere di nuovo.» Kara guardò per un attimo l'appiccicoso bancone di mogano. «Per favore. Solo qualche ora. Dovresti esaminare le prove con noi. Discutere con noi del caso.» «Lui non me lo permetterà. Non sai com'è fatto David.» «Quello che so è che non ho intenzione di permettere che qualcun altro subisca un'aggressione se posso impedirlo.» Kara finì il suo caffè e giocherellò distrattamente con la tazza. «Usare i nostri trucchi per uccidere», sussurrò sconvolta. Amelia non aprì bocca e lasciò che fosse il silenzio a parlare per lei. Alla fine, la giovane fece una smorfia. «Mia madre è in una casa di riposo. È entrata e uscita molte volte dall'infermeria di recente. Il signor Balzac lo sa. Penso che potrei dirgli che devo andare a trovarla.» «Potrebbe davvero servirci il tuo aiuto.» «Oh-oh. La scusa della madre malata... Dio mi punirà per questo.» Amelia abbassò di nuovo lo sguardo sulle perfette unghie nere di Kara. «Ehi, un'ultima cosa: che ne è stato di quel quarto di dollaro?» «Guarda sotto la tua tazza di caffè», rispose la ragazza. Impossibile. «Non scherzare.» Amelia sollevò la tazza. La moneta era lì. «Ma come hai fatto?» La risposta di Kara fu un sorriso enigmatico. Con un cenno del capo indicò le tazze. «Prendiamocene altri due.» Afferrò la moneta. «Testa, paghi tu, croce, pago io. Due su tre.» Fece roteare la moneta nell'aria. Amelia annuì. «D'accordo.» La giovane afferrò la moneta e sbirciò nella mano socchiusa. Sollevò lo sguardo. «Abbiamo detto due su tre, giusto?» Amelia annuì.
Kara aprì le dita. Sul palmo della sua mano c'erano due monete da dieci centesimi e una da cinque. Entrambe quelle da dieci centesimi erano a faccia in su. Non c'era traccia del quarto di dollaro. «Credo che questo significhi che paghi tu.» 8 «Lincoln, ti presento Kara.» Rhyme si accorse che la ragazza era stata avvertita delle sue condizioni, ma la vide comunque battere le palpebre sorpresa e fissarlo con lo Sguardo. Quello che lui conosceva fin troppo bene. Accompagnato dal Sorriso. Era il famoso sguardo non-fissare-il-suo-corpo, accompagnato dal sorrisetto oh-sei-handicappato-non-me-n'ero-accorta. E Rhyme sapeva che la giovane avrebbe contato i minuti che la separavano dal momento in cui avrebbe potuto alzare i tacchi e andarsene. La ragazza si addentrò nel salotto laboratorio della casa di Rhyme. «Salve. Piacere di conoscerla.» Tenne gli occhi fissi in quelli di lui. Almeno non si era presentata accennando a sporgersi in avanti come per stringergli la mano per poi ritrarsi, conscia di aver commesso un orribile passo falso. Okay, Kara. Non preoccuparti. Di' pure allo storpio quello che sai e levati dai piedi. Le offrì un sorriso superficiale identico a quello che gli stava rivolgendo lei e disse che anche per lui era un piacere conoscerla. Cosa che almeno dal punto di vista professionale non era per nulla ironica: Kara infatti era l'unica esperta di magia che erano riusciti a trovare. Nessuno degli impiegati degli altri negozi della città era stato di alcun aiuto, e tutti avevano un alibi per l'ora del delitto. Kara venne presentata a Lon Sellitto e a Mel Cooper. Thom annuì e fece una delle cose per cui era famoso, che Rhyme lo volesse o meno: offrì da bere. «Thom, questa non è una festa parrocchiale», borbottò Rhyme. Kara ringraziò ma disse che non prendeva niente, tuttavia Thom insistette. «Posso avere un caffè?» chiese lei. «Arriva subito.» «Nero. Zuccherato. Due cucchiaini, per favore.» «Dovremmo proprio...» cominciò Rhyme. «Caffè per tutti i presenti», annunciò l'aiutante. «Preparo una caraffa.
Porterò anche qualche bagel.» «Bagel?» chiese Sellitto. «Perché non apri un ristorante nel tempo libero?» chiese bruscamente Rhyme al suo assistente. «Così potresti darti pace.» «E chi ha del tempo libero?» ribatté prontamente l'uomo snello e biondo, dirigendosi in cucina. «L'agente Sachs», continuò Rhyme rivolgendosi a Kara, «ci ha detto che hai qualche informazione che pensi potrebbe esserci utile.» «Lo spero.» Un altro esame accurato del volto di Rhyme. Di nuovo lo Sguardo. Più vicino, questa volta. Oh, Cristo santo, di' qualcosa. Chiedimi com'è successo. Chiedimi se fa male. Chiedimi com'è pisciare in un catetere. «Ehi, come dobbiamo chiamarlo?» Sellitto batté un dito sulla lavagna delle prove. Finché l'identità di un assassino non viene scoperta, molti detective hanno l'abitudine di dargli un soprannome. «Che ne dite di 'Mago'?» «No, troppo banale», disse Rhyme, osservando le fotografie della vittima. «Che ne dite di 'Negromante'?» Propose, sorprendendosi di offrire un suggerimento decisamente da emisfero destro. «Per me funziona.» Con una calligrafia molto meno elegante di quella di Thom, il detective scrisse il nome in cima alla lavagna. Il Negromante... «Ora, vediamo se riusciamo a farlo comparire», disse Rhyme. Amelia disse: «Raccontagli dell'Uomo Scomparso». La giovane si sfregò una mano sui capelli dal taglio mascolino e descrisse un trucco da illusionista che sembrava quasi identico a ciò che il Negromante aveva fatto nella scuola di musica. Aggiunse una notizia scoraggiante, però, ovvero il fatto che quasi tutti gli illusionisti conoscevano bene quel numero. Rhyme domandò: «Dacci un'idea sul modo in cui esegue i trucchi. Sulle tecniche. Così sapremo cosa aspettarci da lui nel caso decidesse di colpire di nuovo». «Volete che vi faccia dare un'occhiata dentro il cappello a cilindro, eh?» «Dare un'occhiata...?» «Dentro il cappello a cilindro», ripeté Kara, poi spiegò: «Vedete, tutti i numeri di magia sono composti di effetto e metodo. L'effetto è ciò che vede il pubblico. Sapete: la ragazza che levita, le monete che cadono attra-
verso il solido ripiano di un tavolo. Il metodo è il meccanismo con cui il mago esegue il trucco — i fili che sollevano la ragazza, nascondere le monete in una mano e poi farne cadere di identiche da un nascondiglio sotto il ripiano». Effetto e metodo, rifletté Rhyme. È simile a ciò che faccio io: l'effetto è la cattura di un criminale che sembra inafferrabile. Il metodo è la scienza e la logica che ci permettono di farlo. Kara continuò. «Far dare un'occhiata dentro il cappello a cilindro significa rivelare il metodo di un trucco. Come ho appena fatto... spiegandovi il funzionamento dell'Uomo Scomparso. È un nervo scoperto per chi fa il nostro lavoro: il signor Balzac, il mio mentore, dà sempre la caccia ai maghi che rivelano al pubblico i trucchi, che siano loro o di altre persone.» Thom entrò nella stanza spingendo un carrello. Versò caffè per chi ne voleva. Kara zuccherò abbondantemente il suo e svuotò la tazza in un baleno anche se a Rhyme sembrava bollente. Lincoln lanciò un'occhiata alla bottiglia di Macallan invecchiato diciotto anni che si trovava sulla libreria dall'altra parte della stanza. Thom notò il suo sguardo e disse: «Siamo a metà mattina. Non pensarci nemmeno». Sellitto guardò i bagel con una bramosia non molto diversa. Se ne concesse solo metà. Senza crema di formaggio. Sembrava sempre più addolorato, morso dopo morso. Esaminarono ogni traccia rinvenuta insieme a Kara, che studiò con cura gli indizi e disse che purtroppo quegli oggetti potevano essere reperiti in centinaia di negozi. La corda faceva parte di un trucco in cui una corda cambiava colore, venduto da FAO Scharw e dai negozi di magia di tutto il Paese. Il nodo era di una varietà che Houdini aveva usato nei suoi numeri quando aveva in programma di tagliare la corda per fuggire... difatti per un artista legato era impossibile scioglierlo. «Anche senza le manette», mormorò Kara, «quella ragazza non sarebbe mai potuta fuggire.» «È un nodo molto raro?» Lei spiegò che, no, lo conosceva chiunque avesse una minima familiarità con i numeri di Houdini. L'olio di ricino nel trucco, continuò Kara, significava che i cosmetici che l'assassino aveva usato erano molto realistici e duraturi, e di solito venivano impiegati negli spettacoli, e il lattice probabilmente proveniva, come Rhyme aveva sospettato, dai finti copridita, un altro strumento molto popolare tra i maghi.
L'alginato non proveniva da un calco dentale ma veniva usato per fare stampi per le colate di lattice, probabilmente per i copridita e la cuffia da calvo che aveva indossato quando si era travestito da custode. L'inchiostro che scompare era già qualcosa di più particolare anche se alcuni illusionisti, di tanto in tanto, se ne servivano nei loro spettacoli. Solo poche cose erano davvero uniche, spiegò; per esempio, il circuito elettrico (che era un «gimmick», disse, un marchingegno che il pubblico non deve vedere). Ma l'assassino l'aveva assemblato di persona. Anche le manette Darby erano rare. Rhyme ordinò che qualcuno facesse un controllo al museo di escapologia di New Orleans menzionato da Kara. Amelia suggerì di approfittare dell'offerta d'aiuto fatta dalle due agenti di pattuglia, Franciscovich e Ausonio. Quell'incarico sarebbe stato ideale per due giovani agenti desiderose di rendersi utili. Rhyme si trovò d'accordo e Sellitto diede l'ordine tramite il capo della Divisione Servizi di Pattuglia. «E cosa ci puoi dire della sua fuga?» chiese Sellitto. «Come ha fatto a travestirsi da custode così in fretta?» «È un tipo di magia chiamata 'trasformismo'», rispose Kara. «Cambi rapidissimi. Mi occupo di trasformismo da anni, ma c'è gente che vi si dedica completamente. Può essere sensazionale. Qualche anno fa ho visto Arturo Brachetti. Riusciva a fare quaranta o cinquanta cambi d'abito in un solo spettacolo, alcuni dei quali in meno di tre secondi.» «Tre secondi?» «Già. E, vedete, i veri trasformisti non si cambiano soltanto d'abito. Sono dei veri e propri attori. Camminano in modo diverso, assumono un atteggiamento diverso e parlano in modo diverso. Il trasformista prepara tutto in anticipo. I vestiti vengono strappati via... sono tenuti insieme da fermagli o da lembi di velcro. Il trasformismo è una sorta di spogliarello velocissimo. Gli indumenti sono di seta o nylon molto sottile, in modo da poter indossare molti strati uno sopra l'altro. A volte indosso fino a sei costumi insieme.» «Seta?» domandò Rhyme, quindi spiegò: «Abbiamo trovato delle fibre di seta grigia. Le agenti che sono intervenute per prime stamattina hanno dichiarato che il custode indossava un'uniforme grigia. Le fibre erano lise e avevano un sorta di finitura opaca». Kara annuì. «In questo modo il costume poteva passare per lino o cotone e non aveva un aspetto lucido. Noi trasformisti usiamo cappelli e valigette pieghevoli, copriscarpe, ombrelli telescopici, tutta una serie di oggetti che ci nascondiamo addosso. E, naturalmente, parrucche.
«Per alterare i tratti del volto si devono modificare le sopracciglia. Cambiate le sopracciglia e il volto si trasforma per il sessanta, settanta per cento. Poi aggiungete qualche protesi — noi le chiamiamo 'accessori': strisce e cuscinetti di lattice che vengono applicati con mastice. I trasformisti studiano le diverse strutture facciali di razze e generi. Un bravo trasformista conosce le proporzioni del viso delle donne e degli uomini. Studiamo le reazioni psicologiche che si riflettono su volti e atteggiamenti — così possiamo diventare belli, mostruosi, terrificanti o apparire comprensivi o bisognosi. Qualunque cosa decidiamo.» Gli aspetti esoterici dell'illusionismo erano interessanti, ma Rhyme voleva suggerimenti ben precisi. «C'è qualcosa di pratico e utile che puoi dirci per aiutarci a catturare l'assassino?» Lei scosse la testa. «Non mi viene in mente niente che possa indirizzarvi a un negozio o a un luogo particolari. Ma posso fare qualche considerazione generale.» «Va' avanti.» «Be', il fatto che abbia usato una corda che cambia colore e copridita mi dice che ha familiarità con i giochi di destrezza. Ciò significa che dev'essere bravo a borseggiare e a nascondere pistole, coltelli o cose simili. A procurarsi le chiavi e le carte d'identità delle persone. È un trasformista, ed è ovvio che questo sarà un grosso problema per voi. Ma ciò che più conta, il numero dell'Uomo Scomparso, le micce e i petardi, l'inchiostro che svanisce, la seta nera, il cotone lampo significano che il vostro uomo è un autentico ed esperto illusionista.» Spiegò la differenza tra un prestigiatore e un vero illusionista, i cui trucchi contemplavano persone e oggetti di grandi dimensioni. «Perché questo dovrebbe essere importante per noi?» Kara annuì. «Perché l'illusionismo è molto di più di una tecnica fisica. Gli illusionisti studiano la psicologia del pubblico e inventano numeri in grado di ingannare gli spettatori... non solo i loro occhi ma anche la loro mente. Il loro obiettivo non è farvi ridere perché vedete scomparire una moneta; il loro obiettivo è convincervi in modo assoluto che tutto ciò a cui assistete e che credete vero sia in un modo mentre invece è l'esatto opposto. C'è una cosa che dovete tenere a mente e non dimenticarvi mai.» «Cosa?» «La diversione... Il signor Balzac dice che è il cuore dell'illusionismo. Avete mai sentito l'espressione: la mano è più veloce dell'occhio? Be', non è così. L'occhio è sempre più veloce. Così gli illusionisti ingannano l'oc-
chio distogliendolo da ciò che sta facendo la mano.» «Intendi dire una specie di distrazione?» domandò Sellitto. «In parte. Con la diversione potete dirigere l'attenzione degli spettatori dove desiderate e allontanarla da dove non volete si concentri. Ci sono un sacco di regole che Balzac mi sta insegnando, per esempio che il pubblico non nota ciò che gli è familiare ma è attratto dalla novità. Quindi non nota una serie di cose comuni ma si focalizza su ciò che è diverso dal solito. Ignora oggetti o persone che restano fermi ed è attratto dal movimento. Volete rendere qualcosa invisibile? Ripetetelo per quattro o cinque volte e alla fine gli spettatori si annoiano e si distraggono. Possono anche fissare le vostre mani e non vedere ciò che state facendo. Ed è in questo preciso momento che mettete in pratica il vostro inganno. «Okay, ci saranno un paio di diversioni che userà: per prima cosa, una diversione fisica. Guardate.» Kara si avvicinò ad Amelia, sollevò un braccio molto lentamente e indicò il muro, strizzando gli occhi. Quindi lasciò cadere la mano. «Ecco, avete tutti guardato il mio braccio e il punto che ho indicato. È una reazione perfettamente naturale. Così, probabilmente non avete notato che la mia mano sinistra ha preso la pistola di Amelia.» Amelia sobbalzò mentre abbassava lo sguardo e si rendeva conto che le dita di Kara avevano estratto per metà la Glock dalla fondina. «Fa' attenzione», disse Amelia, rinfoderando l'arma. «Ora, guardate quell'angolo.» Indicò di nuovo un punto con la mano destra. Questa volta, però, Rhyme e gli altri tennero lo sguardo fisso sulla sua mano sinistra. «Avete guardato la mia mano sinistra, vero?» Scoppiò a ridere. «Ma non avete notato il mio piede che spingeva quell'oggetto bianco dietro il tavolo.» «Una padella», borbottò Rhyme in tono acido, irritato per essere stato ingannato di nuovo ma contento di aver menzionato l'indelicata natura dell'oggetto spostato dalla ragazza. «Davvero?» domandò lei, per nulla turbata. «Be', non è soltanto una padella: è anche una diversione. Perché mentre la stavate guardando, io ho preso questa con l'altra mano. Oh, ecco! È molto importante?» Porse ad Amelia una bomboletta di Mace. La donna poliziotto si accigliò, abbassò lo sguardo sul suo cinturone per controllare se mancasse qualcos'altro, quindi rimise a posto la bomboletta. «Allora, questa è una diversione fisica. È piuttosto facile. Il secondo tipo di diversione è di carattere psicologico. Ed è più difficile. Gli spettatori
non sono stupidi. Sanno bene che cercherai di ingannarli. Insomma, questa è la ragione principale per cui sono venuti a vedere lo spettacolo, giusto? Così noi cerchiamo di ridurre o eliminare i sospetti degli spettatori. La cosa più importante da fare nella diversione psicologica è comportarsi con naturalezza. Parlare di cose che gli spettatori possono aspettarsi. Ma intanto, sotto la superficie, si può fare qualsiasi cosa...» La sua voce si spense quando si rese conto che «qualsiasi cosa» avrebbe potuto significare anche, com'era accaduto quella mattina, un omicidio. «Non appena facciamo qualcosa in modo innaturale, il pubblico ci smaschera», continuò Kara. «Diciamo che voglia leggerti nel pensiero. In questo caso, ecco cosa faccio.» La giovane mise le mani sulle tempie di Amelia e chiuse gli occhi per un attimo. Fece un passo indietro e porse ad Amelia l'orecchino che le aveva appena tolto dal lobo sinistro. «Non mi sono accorta di niente.» «Ma il pubblico si accorgerebbe subito di come ho fatto, perché toccare qualcuno quando si cerca di leggere il pensiero, cosa a cui la maggior parte della gente comunque non crede, non è naturale. Ma se dicessi che parte del trucco comporta che io sussurri una parola che nessun altro deve sentire...» Si sporse verso l'orecchio di Amelia coprendosi la bocca con la mano destra. «Ecco, in questo caso il gesto sarebbe naturale.» «Ti è sfuggito l'altro orecchino, però», disse Amelia, scoppiando a ridere: si era portata una mano all'orecchio quando Kara si era avvicinata. «Lo so, ma ti ho fatto sparire la collana.» Nemmeno Lincoln Rhyme poté nascondere lo stupore — e il divertimento — nel guardare Amelia toccarsi il collo e il petto, sorridente ma preoccupata da quella continua perdita di accessori. Sellitto scoppiò a ridere come un ragazzino e Mel Cooper smise di analizzare gli indizi per assistere allo spettacolo improvvisato. La donna poliziotto si guardò attorno in cerca dei suoi gioielli, poi guardò Kara che le mostrò la mano destra vuota. «Svaniti», disse. «Tuttavia», intervenne Rhyme in tono sospettoso, «io ho notato che hai la mano sinistra chiusa a pugno e che la nascondi dietro la schiena. E questo, tra l'altro, è un gesto estremamente innaturale. Quindi sono portato a credere che la collana sia lì.» «Ah, lei è molto bravo», disse Kara. Poi scoppiò a ridere. «Ma non nel notare i movimenti, temo.» Aprì la mano sinistra, vuota come l'altra. Rhyme si accigliò.
«Tenere il pugno chiuso e nascosto è la diversione più importante di tutte. L'ho fatto perché sapevo che l'avrebbe notato e perché l'avrebbe costretta a focalizzare l'attenzione sulla mano sinistra. Chiamiamo questo stratagemma 'forzare'. L'ho forzata a pensare che sarebbe riuscito a capire il mio metodo. Non appena lo ha pensato, la sua mente si è chiusa e ha smesso di prendere in considerazione altre possibili spiegazioni. E mentre lei — o chiunque altro — mi fissava la mano sinistra, ho avuto la possibilità di far scivolare la collana nella tasca di Amelia.» Amelia controllò e tirò fuori la collana. Cooper applaudì. Rhyme grugnì, impressionato suo malgrado. Kara indicò la lavagna con un cenno del capo. «È questo che farà l'assassino. Userà delle diversioni. Voi penserete di aver capito che cosa sta combinando ma questo fa solo parte del suo piano. Proprio come ho fatto io, si servirà dei vostri sospetti e della vostra intelligenza per far funzionare i suoi trucchi. Il signor Balzac dice che i migliori illusionisti sanno eseguire un trucco indicando chiaramente il metodo che stanno usando, spiegando ciò che hanno intenzione di fare. Ma il pubblico non crede mai alle loro parole. Gli spettatori guardano nell'altra direzione. Quando questo accade, il gioco è fatto. Il pubblico ha perso e l'illusionista ha vinto.» Il riferimento al suo mentore sembrò inquietarla e la giovane donna guardò l'orologio e fece una smorfia. «Adesso devo tornare al negozio. Sono stata via anche troppo.» Amelia la ringraziò e Sellitto disse: «Ti farò accompagnare al negozio con una delle nostre auto». «Be', facciamo vicino al negozio. Non voglio che lui sappia dove sono stata... Oh, un'ultima cosa. È arrivato un circo in città. Il Cirque Fantastique. So che hanno un numero di trasformismo. Vi consiglio di andare a vederlo.» Amelia annuì. «Sì l'ho notato, è proprio dall'altra parte della strada, a Central Park.» Spesso in primavera e in estate il parco veniva usato per grandi concerti e altre manifestazioni. Rhyme e Amelia una volta avevano «assistito» a un concerto di Paul Simon dalla finestra aperta della camera da letto. Rhyme borbottò: «Ah, ecco chi suonava quell'orribile musica tutta la sera». «Non ti piace il circo?» chiese Sellitto. «Ovviamente non mi piace», ribatté lui bruscamente. «A chi può piacere? Pessimo cibo, clown, acrobati che minacciano di morire sotto gli occhi
dei bambini... Ma», si rivolse a Kara, «questo è un ottimo suggerimento. Grazie... Uno di noi comunque avrebbe dovuto pensarci prima», aggiunse in tono caustico osservando gli altri membri della squadra. La osservò mentre si metteva a tracolla una brutta borsa bianca e nera. Pronta a fuggire da lui, a tornare nel mondo dei non-storpi, portandosi via lo Sguardo e il Sorriso. Non preoccuparti. Di' pure allo storpio quello che sai e levati dai piedi. Lei esitò, guardò ancora una volta la lavagna degli indizi, un'ombra che le incupiva gli incredibili occhi azzurri, quindi si incamminò verso la porta. «Aspetta», la fermò Rhyme. Lei si voltò. «Vorrei che restassi.» «Cosa?» «Vorrei che lavorassi con noi a questo caso. Almeno per oggi. Potresti andare con Lon o con Amelia a parlare con la gente del circo. E tra l'altro potremmo scoprire altre prove di carattere magico.» «Oh, no. Non posso proprio. E già stato abbastanza difficile allontanarmi per poco tempo. Non posso assentarmi dal negozio più di così.» Rhyme insistette. «Il tuo aiuto potrebbe farci comodo. Abbiamo solo cominciato a scalfire la superficie, con questo tizio.» «Tu hai visto il signor Balzac», disse Kara ad Amelia. In nomine patri... «Sai, Linc», intervenne Sellitto a disagio, «credo che sia meglio non coinvolgere troppi civili durante le indagini. Ci sono dei regolamenti in proposito.» «Ma una volta non hai assunto una medium?» domandò Rhyme seccamente. «Non l'ho assunta io, cazzo. È stato qualcuno del quartier generale.» «E poi hai chiesto aiuto all'impiegato del cinodromo e...» «Continui a dire 'tu'. No, io non assumo civili. A parte te. Cosa che mi causa già abbastanza guai.» «Ah, non ci sono mai abbastanza guai quando si lavora in polizia, Lon.» Lanciò un'occhiata a Kara. «Per favore. È molto importante.» La giovane donna esitò. «Pensate davvero che ucciderà ancora?» «Sì», rispose lui, «ne siamo convinti.» Alla fine Kara annuì. «Se devo essere licenziata, almeno sarà per una buona causa.» Poi emise una breve risata. «Sapete... Robert-Houdin ha fat-
to la stessa cosa.» «Chi sarebbe?» «Un famoso mago e illusionista francese. Ha anche aiutato la polizia, be', insomma l'esercito francese. Non so di preciso quando, ma nell'Ottocento c'erano degli estremisti algerini, i marabutti. Volevano convincere le tribù locali a insorgere contro i francesi e affermavano di possedere poteri magici. Il governo francese ha mandato Robert-Houdin in Algeria per affrontare una specie di duello magico. Per dimostrare alle tribù che i francesi avevano una magia migliore... più potente. E ha funzionato. Robert-Houdin aveva trucchi più stupefacenti di quelli dei marabutti.» Poi si accigliò. «Se non sbaglio, però, loro lo hanno quasi ucciso.» «Non preoccuparti», la rassicurò Amelia. «Farò in modo che questo a te non accada.» Poi Kara guardò la lavagna. «Lo fate in tutti i vostri casi? Scrivete tutte le prove e gli indizi che avete scoperto?» «Esatto», confermò Amelia. «Ho un'idea... di solito gli illusionisti si specializzano in particolari settori della magia. Il Negromante sembra esperto di trasformismo e grandi numeri di illusionismo. È una cosa insolita. Appuntiamo le sue tecniche. Questo potrebbe aiutarci a restringere la lista dei sospetti.» «Già», disse Sellitto, «un profilo. Ottimo.» La giovane fece una smorfia. «Dovrò trovare qualcuno che mi sostituisca al negozio. Il signor Balzac doveva uscire con il suo amico e lasciare me a badare al negozio... Oh, ragazzi, questa storia non gli piacerà.» Si guardò attorno. «C'è un telefono che posso usare? Sapete, uno di quelli speciali.» «Un telefono speciale?» chiese Thom. «Sì, in un'altra stanza. Così nessuno potrà sentirmi mentre mento al mio capo.» «Oh, uno di quei telefoni», disse l'aiutante circondandole le spalle con un braccio e accompagnandola verso la porta. «Quello che uso io è nell'atrio.» 9 Sentirono molti odori mentre camminavano: lillà in fiore, fumo dalle bancarelle dei venditori di pretzel e dai barbecue, lozioni abbronzanti. Attraversando l'erba umida del Central Park, Amelia e Kara si stavano
dirigendo verso l'enorme tendone bianco del Cirque Fantastique. Notando due innamorati che si stavano baciando su una panchina, Kara domandò: «Lui è qualcosa di più di un capo per te, vero?» «Lincoln? Sì, è così.» «Me ne sono accorta... Come vi siete conosciuti?» «Durante le indagini su un caso. Una serie di rapimenti. Qualche anno fa.» «Le sue condizioni rendono le cose difficili?» «No, per niente», si limitò a rispondere Amelia. Quella era la pura e semplice verità. «I dottori non possono fare niente per lui?» «C'è un'operazione chirurgica a cui sta pensando da qualche tempo. È molto rischiosa, però, e probabilmente non gli sarebbe di grande aiuto. L'anno scorso ha deciso di non sottoporvisi e da allora non ne ha più parlato. Per cui è tutto rimasto in sospeso. Prima o poi potrebbe cambiare idea. Vedremo quando sarà il momento.» «Non mi sembri molto favorevole a questo intervento.» «Infatti non lo sono. Troppi rischi e pochi benefici. Per come la vedo io, è solo una questione di calcolo dei rischi. Diciamo che vuoi arrestare un criminale e hai tutte le carte che ti servono, okay? I mandati, voglio dire. Sai che è in un certo appartamento. Be', entri buttando giù la porta anche quando non sai se sta dormendo o se lui e i suoi amici hanno degli MP5 puntati contro la porta? Oppure aspetti i rinforzi e corri il rischio di dargli la possibilità di fuggire? Talvolta vale la pena correre dei rischi, talvolta no. Ma se Lincoln vorrà sottoporsi all'operazione, io sarò al suo fianco. È così che lavoriamo.» Amelia le spiegò che Rhyme si era sottoposto a una serie di trattamenti, tra cui la stimolazione elettronica dei muscoli e degli esercizi che Thom e alcuni fisioterapisti gli facevano svolgere, gli stessi esercizi che con risultati notevoli stava facendo l'attore Christopher Reeve. «Reeve è un uomo straordinario», disse. «Ha una determinazione incredibile. E Lincoln è come lui. Non ne parla molto, ma talvolta scompare e chiede a Thom e ai fisioterapisti di fargli fare gli esercizi. Certe volte non lo sento per giorni interi.» «Un altro uomo scomparso, eh?» disse la giovane donna. «Esattamente», rispose Amelia sorridendo. Restarono in silenzio per un attimo e lei si chiese se Kara si aspettasse di sapere qualcosa di più sulla loro relazione. Di sentire racconti di perseveranza e ostacoli da superare,
qualche accenno alla difficile vita di un quadriplegico. Le reazioni della gente quando uscivano insieme. O persino qualche dettaglio sulla natura dei loro rapporti intimi. Tuttavia se anche era curiosa, non chiese nulla. In realtà, Amelia percepiva in lei qualcosa di simile all'invidia. Kara continuò: «Non ho avuto molta fortuna ultimamente con gli uomini». «Non esci con nessuno?» «Non ne sono sicura», rispose Kara, pensosa. «Il nostro ultimo incontro è stato a base di toast alla francese e mimose. A casa mia. Un brunch a letto. Molto romantico. Lui ha detto che mi avrebbe chiamata il giorno dopo.» «E non ti ha chiamata.» «Non mi ha chiamata. Ah, forse dovrei aggiungere che il succitato brunch è stato tre settimane fa.» «Tu lo hai chiamato?» «Non lo farei mai», rispose lei con fermezza. «È compito suo.» «Brava.» L'orgoglio e il potere sono come gemelli siamesi, Amelia lo sapeva. Kara rise. «C'è un vecchio numero che era solito fare un mago chiamato William Ellsworth Robinson. Era molto popolare. Si chiamava Come Liberarsi di una Moglie, altrimenti noto come La Macchina del Divorzio.» Un'altra breve risata. «La storia della mia vita. Sono capace di far svanire i miei fidanzati più in fretta di chiunque altro.» «Be', sai, a volte sono molto bravi a svanire da soli», commentò Amelia. «Ai ragazzi che ho incontrato quando lavoravo alla rivista e che incontro adesso lavorando in negozio interessano solo due cose. O un'avventura di una notte. Oppure l'esatto contrario — il fidanzamento, il matrimonio con tanto di casetta in periferia... Ti hanno mai fatto una proposta di matrimonio?» «Certo. Può essere spaventoso. Tutto dipende da chi ti chiede in moglie, naturalmente.» «Esatto, sorella. Quindi sia l'avventura di una notte sia gli impegni seri... sono un problema per me. Non voglio nessuna delle due cose. Be', un'avventura di tanto in tanto. Cerchiamo di essere realistici.» «Cosa mi dici dei tuoi colleghi?» «Ah, vedo che hai notato che li ho esclusi dalla mia equazione avventura/matrimonio. Gli altri maghi... No, li escludo. Troppi conflitti d'interesse. Dicono di amare le donne forti, ma la verità è che quasi nessuno di loro ci vuole, in questo ambiente. Il rapporto tra uomini e donne è di circa cento a
uno. Adesso le cose vanno meglio. Ci sono anche famose illusioniste. Princess Tenko, un'illusionista orientale... è davvero brillante. E poi alcune altre. Ma è un fenomeno recente. Venti o trent'anni fa una donna non avrebbe mai potuto essere la star di uno spettacolo, al massimo l'assistente.» Un'occhiata ad Amelia. «Un po' come in polizia, vero?» «Non va più tanto male oggigiorno. Con la mia generazione le cose sono cambiate. Negli anni Sessanta e Settanta le donne hanno rotto il ghiaccio. È stato un periodo difficile. Ma anch'io ho avuto la mia parte. Sono stata un'agente di pattuglia prima di passare alla scientifica. Se una donna lavorava a Hell's Kitchen a Midtown, come partner le affiancavano sempre un agente maschio con molta esperienza. Di tanto in tanto mi ritrovavo in coppia con uno scimmione che odiava lavorare con una donna. Non lo sopportava. Non mi rivolgeva la parola per tutto il turno. Otto ore passate a camminare su e giù per le strade e lui non mi diceva una parola. Quando andavamo a mangiare, io me ne stavo seduta lì e cercavo di essere gentile mentre lui se ne stava a mezzo metro da me a leggere la pagina sportiva e a sospirare perché doveva sprecare il suo tempo con una donna.» Fu assalita dai ricordi. «Lavoravo alla casa Sette-cinque...» «La cosa?» Amelia spiegò: «Il distretto. Noi li chiamiamo 'case'. E i poliziotti per la maggior parte non dicono Settantacinquesimo. Dicono sempre Settecinque o Settanta-cinque. Come dire che il Macy's è sulla Tre-quattro». «Okay.» «Comunque, il solito supervisore non c'era e noi avevamo un sergente temporaneo che era della vecchia scuola. Così, uno dei miei primi giorni alla Sette-cinque mi ritrovo a essere l'unica donna di un certo turno. E quando vado nella sala riunioni, trovo una decina di assorbenti attaccati al podio.» «No!» «Non scherzo. Il solito supervisore non avrebbe mai permesso che accadesse una cosa simile. Ma sotto molti aspetti, i poliziotti sono come dei ragazzini. Insistono finché un adulto non li ferma.» «Non è quello che si vede nei film.» «I film vengono fatti a Hollywood, non alla Sette-cinque.» «E tu cos'hai fatto quando hai visto gli assorbenti?» «Ho raggiunto la prima fila e ho chiesto al poliziotto che sedeva davanti al podio di lasciarmi il suo posto — era lì che mi sarei seduta comunque. Gli altri ridevano così forte che mi sorprende che nessuno se la sia fatta
addosso. Comunque, mi sono seduta e ho cominciato a prendere appunti su ciò che ci stava dicendo il sergente... sai, mandati in sospeso, rapporti con la comunità, angoli di strada in cui si spacciava droga. E circa due minuti più tardi nessuno stava più ridendo. La cosa era diventata imbarazzante. Non per me. Per loro.» «Sapevi chi era stato?» «Certo.» «E gli hai fatto rapporto?» «No. Vedi, questa è la parte più difficile dell'essere una donna poliziotto. Devi lavorare, con queste persone. Hai bisogno di loro, hai bisogno che ti guardino le spalle. Puoi lottare a ogni passo. Ma se lo fai, hai già perso. La parte più difficile non è avere le palle per combattere. E sapere quando combattere e quando lasciar correre.» L'orgoglio e il potere... «Come noi, credo. Nel nostro ambiente. Ma se sei in gamba, se riesci ad avere un pubblico, la direzione ti ingaggerà. Comunque è una specie di Comma 22. Non puoi dimostrare che riempirai il teatro se non ti ingaggiano, e loro non ti ingaggiano se non puoi dimostrare che farai il tutto esaurito.» Si avvicinarono all'immenso tendone luccicante e Amelia notò gli occhi della giovane donna illuminarsi mentre lo guardava. «Questo è il tipo di posto dove vorresti lavorare?» «Oh, ragazzi, certo. È la mia idea di paradiso. Il Cirque Fantastique e gli speciali in televisione.» Dopo un attimo di silenzio, si guardò attorno e disse: «Il signor Balzac mi sta insegnando molti vecchi trucchi e questo è importante: bisogna conoscerli alla perfezione. Però...» fece un cenno col capo per indicare il tendone «... questa è la direzione in cui sta andando la magia. David Copperfield, David Blaine... Performance art, magia di strada. Magia sexy». «Dovresti fare un'audizione qui.» «Io? Stai scherzando», rispose Kara. «Non sono nemmeno lontanamente pronta. Il numero che esegui dev'essere perfetto. Devi essere il migliore.» «Migliore di un uomo, vuoi dire?» «No, migliore di tutti, uomini e donne.» «Perché?» «Per il pubblico», spiegò Kara. «Il signor Balzac è come un disco rotto: lo devi al pubblico. Ogni respiro che fai sul palco è per il tuo pubblico. L'illusione non è abbastanza, devi dare il brivido. Se anche una sola perso-
na tra il pubblico nota i tuoi gesti, hai fallito. Se esiti per un secondo di troppo e l'effetto risulta smorzato, hai fallito. Se una persona su tre sbadiglia o guarda l'orologio, hai fallito.» «Non si può essere al cento per cento ventiquattr'ore al giorno, credo», osservò Amelia. «Ma è necessario», si limitò a dire Kara, stupita dal fatto che qualcuno potesse pensarla diversamente. Arrivarono al Cirque Fantastique, dov'erano in corso le prove per lo spettacolo serale. C'erano decine di artisti, alcuni in costume, altri semplicemente in jeans e T-shirt. «Oh, ragazzi...» disse una voce senza fiato. Era la voce di Kara. Il suo volto era come quello di una ragazzina, gli occhi che osservavano il brillante tessuto bianco del tendone che ondeggiava al vento. Amelia trasalì quando alle sue spalle riecheggiò uno schiocco fragoroso. Alzò lo sguardo e vide due alti striscioni che sbattevano sospinti dal vento, rischiarati dalla luce abbagliante del sole. Su uno dei due striscioni c'era la scritta «Cirque Fantastique». Sull'altro c'era il grande disegno di un uomo magro con una tuta a scacchi bianchi e neri. Aveva le braccia protese in avanti, i palmi all'insù come per invitare il pubblico a entrare. Indossava una maschera dal grosso naso e dai lineamenti grotteschi che gli copriva la parte superiore del volto. Era un'immagine inquietante. Amelia pensò immediatamente al Negromante nascosto da uno dei suoi travestimenti. Anche il suo movente e i suoi piani erano indecifrabili. Kara notò lo sguardo di Amelia. «È Arlecchino», spiegò. «Conosci la commedia dell'arte?» chiese. «No», rispose Amelia. «È teatro italiano. È nata nel... non so, 1500 ed è durata per un paio di secoli. Il Cirque Fantastique la usa come tema principale.» Indicò due striscioni più piccoli ai lati del tendone, che mostravano altre maschere. Con i loro grossi nasi a becco, le sopracciglia arcuate, gli zigomi sporgenti, avevano un aspetto soprannaturale e sinistro. Kara continuò: «C'era una decina di personaggi ricorrenti che le tutte compagnie della commedia dell'arte usava nelle loro rappresentazioni. Indossavano delle maschere per mostrare al pubblico quale dei personaggi stavano interpretando». «Commedia?» chiese Amelia, inarcando un sopracciglio mentre osservava una maschera dall'aria particolarmente demoniaca. «Credo che oggi le definiremmo commedie nere. Arlecchino non era una
figura precisamente eroica. Non aveva alcun tipo di morale. Le sole cose che gli interessavano erano il cibo e le donne. Appariva e scompariva nei momenti più impensati. Un altro personaggio, Pulcinella, era estremamente sadico. Faceva scherzi davvero crudeli alla gente, persino alle sue amanti. Poi c'era un dottore che avvelenava le persone. L'unica voce della ragione era una donna, Colombina. Una delle cose che mi piacciono della commedia dell'arte è il fatto che la sua parte veniva davvero interpretata da una donna. Non come in Inghilterra, dove alle donne non era permesso fare teatro.» Lo striscione schioccò di nuovo. Gli occhi di Arlecchino sembravano fissi su un punto alle loro spalle, come se il Negromante le stesse seguendo, un'eco dell'inquietudine che aveva provato ispezionando la scuola di musica. No, non abbiamo idea di chi sia e di dove si trovi. Voltandosi, Amelia notò una guardia che si stava avvicinando. Notando la sua uniforme, si fece avanti. «Posso aiutarla, agente?» Lei chiese di poter parlare con il direttore. L'uomo le spiegò che in quel momento non c'era ma che avrebbe potuto farla parlare con la sua assistente. Amelia disse di sì e un attimo dopo arrivò una donna bassa, magra e dall'aria infastidita, con la carnagione scura da zingara. «Sì, posso aiutarvi?» domandò con un accento impossibile da identificare. Dopo le presentazioni, Amelia disse: «Stiamo indagando su una serie di crimini avvenuti in questa zona. Vorremmo sapere se nel vostro spettacolo si esibiranno degli illusionisti o dei trasformisti». La preoccupazione si dipinse sul volto della donna. «Sì, ce ne sono, naturalmente», rispose. «Irina e Vlad Klodoya.» «Mi faccia lo spelling, per favore.» Kara annuì mentre Amelia scriveva quei nomi. «Certo, li conosco. Qualche anno fa lavoravano con il Circo di Mosca.» «Esatto», confermò l'assistente. «Sono stati qui tutta la mattina?» «Sì. Hanno provato fino a una ventina di minuti fa. Adesso sono in giro a fare shopping.» «È sicura che non si siano assentati in un altro momento?» «Sì. Ho il compito di controllare dove si trovano tutti i nostri artisti.» «Non c'è qualcun altro che abbia studiato illusionismo o trasformismo?
Voglio dire, anche qualcuno che non si esibisce.» «No, nessuno. Loro due sono gli unici.» «Okay», disse Amelia. «Dovremo mandare qui un paio di agenti. Saranno qui tra una quindicina di minuti. Se qualcuno dovesse infastidire i suoi dipendenti o il pubblico, o comportarsi in modo sospetto, avverta subito gli agenti.» Quella era stata un'idea di Rhyme. «Avvertirò tutti, sì. Ma potrebbe dirmi di cosa si tratta?» «Un uomo con una notevole esperienza di illusionismo è stato coinvolto in un omicidio. Non c'è nessun collegamento con il vostro spettacolo ma non vogliamo correre rischi.» Ringraziarono l'assistente che le salutò turbata, probabilmente rimpiangendo di aver aver voluto conoscere la ragione della loro visita. Una volta fuori, Amelia chiese: «Cosa sai dirmi di quei due artisti?» «Gli ucraini?» «Già. Possiamo fidarci di loro?» «Sono marito e moglie. Hanno uri paio di bambini che viaggiano con loro. Sono due dei migliori trasformisti del mondo. Ritengo impossibile che abbiano qualcosa a che fare con l'omicidio.» Amelia chiamò Rhyme e fu Thom a rispondere. Gli diede i nomi degli artisti ucraini e gli riferì ciò che aveva scoperto. «Chiedi a Mel o a qualcun altro di fare un controllo sui loro nomi con il centro nazionale informazione sul crimine, l'NCIC, e con il Dipartimento di Stato.» «Certo.» Amelia chiuse la comunicazione e insieme a Kara si diresse verso l'uscita ovest del parco. Nel cielo un grappolo di nuvole scure come le striature di un livido si stavano addensando nel cielo terso. Un altro rumoroso schiocco alle sue spalle... di nuovo gli striscioni sospinti dalla brezza, mentre l'allegro Arlecchino continuava a invitare i passanti a entrare nel suo magico regno. Vi siete riposati, Riveriti Spettatori? Vi siete rilassati? Bene, perché è arrivato il momento del nostro secondo numero. Forse non conoscete il nome di ET. Selbit, ma se siete stati a qualche spettacolo di magia o avete visto qualche illusionista alla televisione probabilmente avrete familiarità con alcuni dei trucchi che questo geniale inglese ha reso popolari nei primi anni del Novecento. Selbit ha cominciato la carriera esibendosi con il suo vero nome, Percy
Thomas Tibbles, ma ben presto ha scoperto che un nome così banale non si addiceva a un artista specializzato non in trucchi con le carte, in colombe che svaniscono o in bambini che levitano, ma in numeri sadomasochistici che scioccavano — e quindi attraevano — gli spettatori di tutto il mondo. Selbit — sì, il suo nome d'arte era il suo cognome al contrario — ha creato il famoso Puntaspilli Vivente, un numero in cui una ragazza viene apparentemente trafitta da ottantaquattro punte affilate. Un'altra delle sue creazioni è stata la Quarta Dimensione, un numero in cui il pubblico paralizzato dall'orrore vedeva una giovane donna che apparentemente moriva schiacciata da un'enorme scatola. Tra i numeri di Selbit che preferisco ce n'è uno che ha inaugurato nel 1922. Il nome dice già tutto, Riveriti Spettatori: L'Idolo di Sangue o Come Distruggere una Ragazza. Oggi ho il piacere di presentarvi una versione aggiornata della più rinomata illusione di Selbit che è stata presentata in decine di Paesi e persino alla Royal Command Variety Performance dell'Ippodromo di Londra. È nota come... Ah, ma no... No, Riveriti Spettatori, penso che vi lascerò nel dubbio, in attesa del momento opportuno per rivelarvi il nome di questa illusione. Ma voglio darvi un indizio: quando Selbit metteva in scena questo numero, ordinava ai suoi assistenti di versare sangue finto nei canali di scolo davanti al teatro per catturare l'attenzione di possibili spettatori. E questa strategia, naturalmente, era dì grande effetto. Godetevi il nostro prossimo numero. Spero che vi piacerà. Ma conosco una persona che di certo non lo gradirà. 10 Quanto ho dormito? si domandò il giovane. Lo spettacolo era finito a mezzanotte, poi aveva bevuto qualche drink al White Horse dov'era rimasto fino a chissà che ora, era arrivato a casa alle tre, era stato al telefono con Bragg per quaranta minuti, no, forse persino un'ora. E poi, alle otto e mezza, quelle dannate tubature avevano cominciato a fare un chiasso infernale. Allora quante ore di sonno erano? La matematica non era il forte di Tony Calvert, che alla fine decise che
forse era meglio non conoscere fino in fondo il proprio grado di stanchezza. Ma almeno stava lavorando a Broadway e non stava facendo spot pubblicitari dove a volte si cominciava a girare — Dio ce ne scampi — alle sei del mattino. Il suo impegno pomeridiano al Gielgud Theatre compensava il fatto che doveva lavorare sia il sabato sia la domenica. Osservò i suoi strumenti di lavoro e decise che gli sarebbe servito altro trucco per coprire i tatuaggi, dal momento che il ragazzo dal mento perfetto avrebbe dovuto esibirsi oggi, e le signore del Teaneck and Garden City avrebbero potuto mettere in dubbio la sua credibilità di protagonista che vuole sedurre l'ingenua starlet se avessero notato che sui suoi grossi bicipiti campeggiava la scritta «Io amo Robert». Chiuse la grande valigetta per il trucco gialla e si lanciò un'occhiata nello specchio vicino alla porta. Aveva un aspetto migliore di come si sentiva, doveva ammetterlo. La sua carnagione era ancora vagamente abbronzata per il sole che aveva preso durante il favoloso viaggio a St. Thomas che aveva fatto in febbraio. La sua corporatura snella celava la pancetta sporgente. (Cristo santo, non superare le quattro birre. Bene. Ma qualcuno può davvero vivere così?) Gli occhi però erano molto arrossati e segnati da profonde occhiaie. Un problema non difficile da risolvere. Un truccatore conosce centinaia di modi per far sembrare giovane chi è vecchio, bellissimo chi è banale e in forma chi è sfinito. Mise qualche goccia di collirio e poi diede il colpo di grazia allo sguardo affaticato passandosi il correttore stick sotto gli occhi. Si infilò la giacca di pelle, chiuse a chiave la porta e si incamminò nell'atrio del suo palazzo nell'East Village che ora, qualche minuto prima di mezzogiorno, era silenzioso. La maggior parte degli inquilini doveva essere già uscita e probabilmente si stava godendo il primo vero weekend di primavera dell'anno, o forse stava ancora dormendo per smaltire gli eccessi della notte passata. Come faceva sempre usò l'uscita posteriore che dava sul retro del palazzo. Mentre si dirigeva verso il marciapiede a poco più di una decina di metri da lui, notò qualcosa: un movimento in una delle rientranze che si aprivano sui lati del vicolo. Si fermò e scrutò nella semioscurità. Un animale. Gesù, era un topo? No, no, era un gatto, a quanto pareva ferito. Calvert si guardò attorno ma il vicolo era completamente deserto, nessuna traccia del proprietario del gatto. Oh, povera creatura!
Lui non era di certo un amante degli animali ma l'anno precedente si era occupato del terrier di un suo vicino di casa e ricordava che l'uomo gli aveva detto che il veterinario di Bilbo si trovava sulla St. Marks. Decise che avrebbe portato il gatto dal veterinario mentre si dirigeva verso la metropolitana. Magari sua sorella lo avrebbe adottato. Aveva adottato anche dei bambini. Perché non un gatto? Attardarsi in un vicolo non era la cosa più saggia da fare in un quartiere come quello, ma oltre a lui non sembrava esserci anima viva. Si mosse lentamente per non spaventare l'animale. Il gatto giaceva su un fianco e miagolava debolmente. Poteva prenderlo in braccio? L'animale lo avrebbe graffiato? Ricordava di aver letto qualcosa a proposito della febbre da graffi di gatto. Tuttavia la creatura sembrava troppo stremata per potergli fare del male. «Ehi, che ti è capitato, amico?» chiese con voce rassicurante. «Sei ferito?». Si accovacciò, appoggiando sul selciato la valigetta per il trucco, e allungò una mano con cautela nel caso il gatto avesse tentato di graffiarlo. Lo toccò ma subito ritrasse la mano, sconvolto. L'animale era freddo come il ghiaccio ed emaciato — aveva sentito le ossa sotto il pelo. Era morto? No, no, la zampa si muoveva ancora. E stava ancora miagolando. Lo toccò di nuovo. Ma, un attimo, quelle che sentiva sotto il pelo non erano ossa ma barre. E all'interno del suo corpo c'era una scatola metallica. Che cazzo era? Era su Candid Camera? O qualche stronzo gli stava facendo uno scherzo? Poi alzò lo sguardo e vide qualcuno a tre metri da lui. Calvert trasalì e arretrò. Era un uomo accovacciato. No, no, si rese conto che ciò che stava vedendo era la sua immagine riflessa in uno specchio a figura intera in fondo al vicolo buio. Calvert vide il riflesso del proprio viso sconvolto, gli occhi sgranati, impietriti. Cominciò a rilassarsi ed emise una risatina, ma poi si accigliò vedendosi cadere lentamente all'indietro, quando lo specchio scivolò sul selciato, cadendo e andando in mille pezzi. L'uomo di mezza età con la barba che era rimasto nascosto dietro lo specchio si avventò su di lui, sollevando un lungo tubo di metallo. «No! Aiuto!» gridò il giovane, cercando di allontanarsi. «Mio Dio, mio Dio!» Il tubo calò in un rapido arco direttamente sulla sua testa.
Calvert afferrò la valigetta del trucco e la spinse verso il suo aggressore, deviando il colpo. Riuscì ad alzarsi in piedi e cominciò a correre. L'assalitore si lanciò all'inseguimento ma scivolò sul selciato umido e cadde sbattendo con violenza un ginocchio. Prendi il portafogli! Prendilo! Calvert estrasse da una tasca il portafogli e se lo lanciò alle spalle. Ma l'uomo lo ignorò, si rimise in piedi e continuò a seguirlo. Era tra Calvert e la strada: l'unica via di fuga per il giovane uomo era riuscire a rientrare nel palazzo. Oh, Gesù, Gesù, Signore... «Aiutatemi, aiutatemi, aiutatemi!» Le chiavi! pensò. Prendile subito! Togliendosele dalla tasca dei jeans, si lanciò una breve occhiata alle spalle. L'uomo era solo a una decina di metri da lui. Se non apro la porta al primo tentativo, è la fine... sono morto. Calvert non rallentò. Sbatté con violenza contro la porta di metallo e, come per miracolo, infilò la chiave nella toppa in un istante, girandola subito. La serratura scattò, lui tolse la chiave e con un balzo attraversò la soglia, richiudendosi con forza la porta d'acciaio alle spalle. La porta si chiuse automaticamente. Con il cuore che gli batteva violentemente nel petto, si fermò per un attimo, cercando di riprendere fiato, chiedendosi se fosse un rapinatore, uno che ce l'aveva coi gay, un tossico. Non aveva importanza. Non ho intenzione di permettere a quello stronzo di passarla liscia, pensò. Percorse il corridoio diretto al suo appartamento. Anche la sua porta si aprì alla svelta. Si precipitò all'interno e chiuse a chiave. Si diresse subito in cucina, afferrò il telefono e chiamò il 911. Un attimo dopo, la voce di una donna disse: «Pronto intervento, polizia e vigili del fuoco». «Un uomo! Un uomo mi ha appena aggredito! È qua fuori.» «È ferito?» «No, ma dovete mandare la polizia!» gridò lui. «Sbrigatevi!» «L'uomo è lì con lei?» «No, non è riuscito a entrare. Ho chiuso le porte a chiave. Ma potrebbe essere ancora nel vicolo! Dovete sbrigarvi!» Cos'è stato? Si chiese. Sentì un'improvvisa brezza accarezzargli il viso. Era una sensazione familiare e subito si rese conto che era la corrente d'aria che sentiva quando qualcuno apriva la porta d'ingresso del suo appartamento. L'operatrice del 911 chiese: «Pronto, signore, è ancora lì? Può...»
Calvert si voltò di scatto verso la porta e lanciò un urlo, vedendo l'uomo barbuto con il tubo a pochi passi da lui, che, con calma, scollegava dalla parete il cavo del telefono. Le porte! Come aveva fatto ad aprire le serrature? Calvert arretrò per quanto gli fu possibile e si ritrovò con la schiena contro il frigorifero; non aveva alcuna via di fuga. «Cosa vuoi?» sussurrò, notando le cicatrici sul collo dell'uomo, la mano sinistra deforme. «Che cosa vuoi?» L'aggressore lo ignorò per un attimo e si guardò attorno; prima lanciò un'occhiata al tavolo della cucina, poi al tavolino di legno del soggiorno. Qualcosa di ciò che vide parve rallegrarlo. Quindi si voltò e, quando calò il tubo sulle braccia alzate di Calvert, il suo gesto sembrò quasi un distratto ripensamento. Arrivarono a sirene spente. Due auto di pattuglia, due agenti su ciascuna. Il sergente scese dalla macchina prima che si fermasse completamente. Erano passati solo sei minuti da quando era giunta la chiamata al 911. La centrale sapeva da quale palazzo e da quale appartamento era partita la telefonata grazie all'identificatore di chiamate. Sei minuti... Se fossero stati fortunati, avrebbero trovato la vittima viva e in buone condizioni. Se fossero stati meno fortunati, almeno il colpevole sarebbe stato ancora nell'appartamento, impegnato a impossessarsi degli oggetti di valore della vittima. Chiamò con il suo Motorola: «Sergente Quattro Cinque Tre Uno a Centrale. Sono dieci-ottanta-quattro sulla scena dell'aggressione sulla Nona strada, passo». «Roger, Quattro Cinque Tre Uno. L'ambulanza sta arrivando. Ci sono feriti? Passo.» «Non lo so ancora. Chiudo.» «Roger, Quattro Cinque. Chiudo.» Il sergente mandò uno dei suoi uomini sul retro del palazzo per sorvegliare la porta di servizio e le finestre posteriori e disse a un altro di fermarsi davanti all'ingresso. Il terzo agente entrò nel palazzo con il sergente. Se fossero stati fortunati, il criminale sarebbe saltato dalla finestra e si sarebbe rotto una caviglia. Il sergente non era dell'umore adatto per gettare a terra un delinquente in una giornata così bella. Quella era Alphabet City: prendeva il nome dalle strade che andavano da
nord a sud, A, B, C. Le cose stavano lentamente migliorando, tuttavia quello restava uno dei quartieri più pericolosi di Manhattan. Quando arrivarono alla porta, entrambi avevano già sfoderato le pistole d'ordinanza. Se fossero stati fortunati, il criminale sarebbe stato armato solo di un coltello. O di qualcosa di simile a ciò che quel relitto umano strafatto di crack aveva usato per minacciarlo la settimana precedente: la bacchetta di un ristorante cinese e il coperchio di un bidone dell'immondizia usato come scudo. Be', avevano già avuto un colpo di fortuna a non dover cercare qualcuno che aprisse loro la porta d'ingresso. Una donna anziana, che si stava trascinando dietro una pesante borsa della spesa da cui sporgeva un grosso ananas, stava uscendo dal palazzo proprio in quel momento. Battendo le palpebre sorpresa, tenne la porta aperta ai due poliziotti, che si affrettarono a entrare e risposero alla sua domanda a proposito della loro presenza con un vago: «Non c'è niente di cui preoccuparsi, signora». Se siamo fortunati... L'appartamento 1J era al piano terra, sul retro dell'edificio. Il sergente si posizionò a sinistra della porta. L'altro agente dalla parte opposta. Si scambiarono un'occhiata e annuirono. Il sergente bussò con forza con le grosse nocche. «Polizia. Apra la porta. La apra subito!» Nessuna risposta. «Polizia!» Provò a ruotare la maniglia. Un altro colpo di fortuna. La porta non era chiusa a chiave. Il sergente l'aprì ed entrambi gli uomini si tennero indietro, in attesa. Alla fine il sergente sbirciò oltre l'angolo. «Oh, Cristo santissimo», sussurrò quando vide cosa c'era al centro del soggiorno. La parola «fortuna» svanì in un istante dalla sua mente. Il segreto del successo di un numero di trasformismo è apportare all'aspetto e all'atteggiamento cambiamenti significativi ma semplici mentre allo stesso tempo si distrae il pubblico con una qualche diversione. E nessun cambiamento era più significativo di quello di trasformarsi in un'anziana signora di settantacinque anni. Malerick aveva saputo fin dall'inizio che la polizia sarebbe arrivata in fretta, così, dopo il breve numero nell'appartamento di Tony Calvert, aveva indossato rapidamente uno dei suoi travestimenti da fuga: un abito blu dal colletto alto e una parrucca bianca. Aveva arrotolato i jeans elasticizzati al
di sopra dell'orlo del vestito, scoprendo i collant opachi che indossava. Si era tolto la barba scoprendo il viso su cui aveva applicato uno spesso strato di fard rosso da vecchia signora eccentrica. Aveva usato volutamente troppa matita per mettere in risalto le sopracciglia. E delle sottilissime linee tracciate con una sottile matita color terra di Siena gli avevano conferito rughe da ultrasettantenne. Quindi aveva dato il tocco finale con un rapido cambio di scarpe. Quanto alla diversione, aveva trovato una borsa della spesa e ne aveva riempito la parte inferiore con fogli di giornale appallottolati tra cui aveva nascosto il tubo e l'altra arma usata per il numero, poi aveva aggiunto un grande ananas fresco preso dalla cucina di Calvert. Se avesse incontrato altre persone mentre lasciava il palazzo, gli avrebbero lanciato una rapida occhiata ma subito la loro attenzione sarebbe stata attratta dal grosso ananas, proprio ciò che era accaduto quando aveva gentilmente tenuto la porta aperta ai due poliziotti. Ora, a circa mezzo chilometro dall'edificio, ancora vestito da donna, si fermò e si appoggiò al muro di un palazzo come se stesse cercando di riprendere fiato. Fatto questo, imboccò un vicolo poco illuminato. Con un unico strattone, il vestito tenuto insieme da minuscole strisce di velcro si staccò. Nascose l'indumento e la parrucca sotto la fascia elastica larga trenta centimetri che teneva attorno allo stomaco e che compresse gli oggetti rendendoli invisibili sotto la sua camicia. Srotolò i pantaloni, si prese da una tasca i dischetti struccanti e si pulì il volto fino a far sparire il fard, le rughe e la matita con cui si era truccato le sopracciglia, controllando il risultato in uno specchietto. Lasciò cadere i dischetti nella borsa della spesa, che poi infilò in un sacco verde della spazzatura. Trovò un'auto parcheggiata in sosta vietata, aprì la serratura del bagagliaio e vi gettò dentro il sacco. Gli agenti non avrebbero mai pensato di perquisire i bagagliai delle auto parcheggiate, e comunque era probabile che quel veicolo venisse rimosso prima del ritorno del suo proprietario. Tornato sulla strada principale, si incamminò verso la metropolitana. E come vi è sembrato il nostro secondo numero, Riveriti Spettatori? A suo avviso era andato tutto molto bene, considerando anche il fatto che, poiché lui era scivolato su quel maledetto selciato, l'altro artista era scappato ed era riuscito a nascondersi dietro ben due porte. Ma quando Malerick aveva raggiunto la porta sul retro del palazzo di Calvert, aveva già preso i suoi strumenti per forzare la serratura. Malerick aveva studiato per anni la difficile arte di aprire le serrature.
Era stato uno dei primi insegnamenti che il suo mentore gli aveva trasmesso. Per riuscire nell'impresa servono due strumenti: un sottile tirante che viene inserito nella serratura e girato in modo da esercitare una pressione costante sulle copiglie, e il grimaldello, che spinge da parte ogni copiglia in modo che la serratura possa scattare nella posizione di apertura. Spingere da parte le copiglie una alla volta può essere un'operazione molto lunga, però; così Malerick aveva approfondito lo studio di una tecnica assai difficile chiamata «pulitura», in cui si muove velocemente avanti e indietro il grimaldello per spostare le copiglie più in fretta. La pulitura funziona solo quando lo scassinatore intuisce con esattezza la giusta combinazione del momento torcente sul cilindro e la giusta pressione sulle copiglie. Usando strumenti lunghi solo pochi centimetri, Malerick aveva impiegato meno di trenta secondi per aprire la serratura della porta sul retro e quella dell'appartamento di Calvert. Vi sembra impossibile, Riveriti Spettatori? Ma è questo il compito degli illusionisti, sapete: realizzare l'impossibile. Fermandosi davanti all'ingresso della metropolitana comprò una copia del New York Times che si mise a sfogliare mentre in realtà osservava i passanti. A quanto pareva nessuno lo aveva seguito. Scese le scale di corsa per prendere il treno. Un illusionista veramente cauto forse avrebbe aspettato qualche istante di più per essere assolutamente sicuro di non essere seguito. Ma Malerick non aveva così tanto tempo. Il prossimo numero sarebbe stato molto difficile — aveva scelto di affrontare grandi sfide — e doveva prepararsi. Non voleva correre il rischio di deludere il suo pubblico. 11 «È terribile, Rhyme.» Ferma in piedi sulla soglia dell'appartamento 1J nel cuore di Alphabet City, Amelia Sachs stava parlando nel microfono. Qualche ora prima, quella mattina, Lon Sellitto aveva dato ordine a tutti i centralini del quartier generale di chiamarlo immediatamente nel caso avessero avuto notizie di omicidi commessi in città. Quando lo avevano informato di quel particolare delitto, lui e gli altri avevano concluso che dovesse essere opera del Negromante: il modo misterioso in cui l'assassino si era introdotto nell'appartamento dell'uomo era un indizio chiaro. La certezza, comunque, era giunta quando si era scoperto che l'orologio della vitti-
ma era stato rotto, proprio come il Negromante aveva già fatto con la studentessa quella mattina. L'unica differenza con il primo delitto era la causa della morte. Che aveva suscitato quel commento da parte di Amelia. Mentre Sellitto dava ordini agli altri detective e agli agenti di pattuglia nell'atrio, era andata a esaminare il corpo della sventurata vittima — un giovane di nome Anthony Calvert. Giaceva sulla schiena al centro del tavolino del soggiorno, braccia e gambe aperte, le mani e i piedi legati alle gambe del mobile. Il suo addome era stato segato completamente fino alla spina dorsale. Amelia descrisse la ferita a Rhyme. «Bene», disse il criminologo con voce priva di emozioni. «Interessante.» «Interessante?» «Direi che sta continuando con il tema della magia. Corde nel primo omicidio. E ora qualcuno tagliato a metà.» Alzò la voce rivolgendosi a qualcuno dall'altra parte della stanza, presumibilmente Kara. «È un trucco di magia, giusto? Tagliare una persona in due?» Una pausa, poi tornò a rivolgersi ad Amelia: «Ha detto che è un classico trucco da illusionisti». Amelia si rese conto che Rhyme aveva ragione: era rimasta talmente scioccata da ciò che aveva visto che non era riuscita a individuare il collegamento tra i due omicidi. Un trucco da illusionisti... Anche se il termine «mutilazione grottesca» descriveva molto meglio quello spettacolo. Mantieni il distacco, si disse. Un sergente sarebbe in grado di mantenere il distacco. Ma poi un pensiero la attraversò. «Rhyme, credi che...» «Che cosa?» «Credi che fosse ancora vivo quando l'assassino ha cominciato a tagliare? Ha le mani legate alle gambe del tavolo.» «Oh, vuoi dire che potrebbe averci lasciato qualcosa, una qualche traccia sull'identità del killer? Molto bene.» «No», mormorò, «pensavo al dolore.» «Oh. Quello.» Oh, quello... «Ce lo diranno le analisi.» Poi lei notò una ferita alla tempia di Calvert, provocata da un oggetto smussato. La ferita non aveva sanguinato molto, il che suggeriva che il suo cuore aveva smesso di battere non appena il cranio era stato fracassato.
«No, Rhyme, sembra che il taglio sia stato eseguito post-mortem.» Sentì la voce del criminologo che parlava con il suo assistente dicendogli di aggiungere quel dettaglio alla lavagna delle prove. Disse anche qualcos'altro, ma Amelia non gli prestò attenzione. La vista della vittima la stava stringendo in una morsa a cui non riusciva a sfuggire. Ma questo era ciò che voleva. Sì, avrebbe potuto ignorare la vittima — come tutti i poliziotti della scientifica dovevano fare — e di lì a poco lo avrebbe fatto. Ma Amelia era convinta che la morte meritasse un momento di immobilità. Non lo faceva per ragioni di tipo spirituale o per un astratto rispetto nei confronti dei morti; no, lo faceva per se stessa, perché il suo cuore non diventasse duro come una pietra, cosa che accadeva fin troppo spesso a chi faceva il suo lavoro. Si rese conto che Rhyme le stava parlando. «Cosa?» domandò. «Mi stavo chiedendo se hai trovato qualche arma.» «Non ce n'è traccia, ma non ho ancora analizzato la scena.» Un sergente e un agente in uniforme raggiunsero Sellitto sulla soglia. «Abbiamo parlato con gli altri inquilini», disse uno di loro. Indicò con un cenno del capo il cadavere, poi lo guardò meglio e trasalì. Amelia si disse che probabilmente il poliziotto non aveva ancora visto da vicino quella carneficina. «La vittima era un tipo gentile, tranquillo. Sembra che piacesse a tutti. Era gay ma non si prostituiva e non faceva niente di strano. Da qualche tempo era single.» Amelia annuì, poi disse nel microfono: «Sembra che non conoscesse il suo assassino, Rhyme». «Non pensavamo che questo fosse comunque probabile, ricordi?» ribatté il criminologo. «Il Negromante ha piani ben diversi... quali che siano.» «Che lavoro faceva?» domandò lei agli altri agenti. «Faceva il truccatore in alcuni teatri di Broadway. Abbiamo trovato la sua valigetta nel vicolo. Sa, lacca per capelli, trucco, pennelli. Stava andando al lavoro.» Amelia si domandò se Calvert avesse mai lavorato per i fotografi di moda e, se sì, se l'avesse mai truccata quando lavorava all'agenzia di moda Chantelle su Madison Avenue. A differenza di molti fotografi e della maggior parte della gente che lavorava per le agenzie, i truccatori trattavano le modelle come esseri umani. Una volta un dirigente aveva detto: «D'accordo, pitturiamola e vediamo che aspetto ha», e il truccatore aveva ribattuto: «Scusi, non sapevo che la ragazza fosse un cancello». Un detective di origine asiatica del Nono Distretto, che copriva quella
parte della città, si fermò sulla porta mentre finiva di parlare al cellulare. «Che è successo qui?» domandò in tono leggero. «Che è successo», borbottò Sellitto. «Hai idea di come se ne sia andato? La vittima ha chiamato il 911. I tuoi agenti saranno arrivati qua nel giro di dieci minuti.» «Di sei minuti», puntualizzò il detective. Il sergente spiegò: «Siamo arrivati a sirene spente e abbiamo coperto tutte le porte e le finestre. Quando siamo entrati, il cadavere era ancora caldo. Parlo di trentasette gradi. Abbiamo fatto una ricerca porta a porta ma non abbiamo trovato traccia del responsabile». «Testimoni?» Il sergente annuì. «L'unica persona nell'atrio quando siamo arrivati qui era una vecchia signora. È stata lei a farci entrare. Quando tornerà parleremo anche con lei. Forse è riuscita a vedere l'assassino.» «Se n'è andata?» chiese Sellitto. «Già.» Rhyme aveva sentito. «Sai chi era, vero?» «Maledizione», ringhiò la donna poliziotto. Il detective disse: «No, è tutto okay. Abbiamo lasciato biglietti da visita sotto le porte di tutti gli inquilini. Ci richiamerà». «No, non lo farà», ribatté Amelia sospirando. «Era l'assassino.» «Lei?» chiese il sergente con voce acuta. Scoppiò a ridere. «Non era una lei», spiegò Amelia. «Era solo un travestimento da vecchia signora.» «Ehi, agente», disse Sellitto, «non diventiamo troppo paranoici. Questo tizio non può cambiare sesso o roba del genere.» «Sì, invece può. Ricordati di quello che ci ha spiegato Kara. Era lei, tenente. Vuoi scommettere?» La voce di Rhyme borbottò: «Non sono un bookmaker, Sachs». Sulla difensiva, il sergente spiegò: «La donna avrà avuto circa settant'anni. Aveva un grossa borsa della spesa. Un ananas...» «Guardate», esclamò Amelia, e indicò il bancone della cucina su cui c'erano due foglie appuntite. Accanto a esse, un cartellino fissato a un elastico, regalo della Dole, che offriva gustose ricette da preparare con ananas fresco. Dannazione. Avrebbero potuto prenderlo... gli erano passati accanto. «E», continuò Rhyme, «probabilmente in quella borsa della spesa aveva l'arma del delitto.»
Amelia riferì tutto al detective del Nono, che si stava incupendo sempre di più. «Non l'avete vista in faccia, giusto?» chiese poi al sergente. «In realtà, no. L'ho guardata appena. Era, sa, truccata con quella roba. La usava anche mia nonna, come si chiama?» «Fard?» chiese Amelia. «Esatto. E aveva le sopracciglia molto truccate... Be', adesso che lo sappiamo la troveremo. Non può essere andata... voglio dire non può essere andato molto lontano.» Rhyme intervenne: «Si è cambiato di nuovo, Sachs. Probabilmente ha buttato gli abiti da qualche parte non lontano da lì». Lei lo disse al detective asiatico. «Adesso è vestito in maniera diversa. Ma il sergente può darvi una descrizione degli abiti. Dovrebbe ordinare ai suoi uomini di controllare tutti i cassonetti dei vicoli qui attorno.» Il detective si accigliò e, con uno sguardo glaciale, squadrò Amelia dall'alto in basso. Un'occhiata di avvertimento lanciatale da Sellitto le ricordò che una parte importante del diventare sergente era non comportarsi come tale prima di esserlo effettivamente diventato. Alla fine il detective autorizzò la ricerca, poi prese la radio e diede l'ordine. Amelia indossò la tuta di tyvek e percorse la griglia nell'atrio e nel vicolo (dove trovò il più strano indizio che le fosse mai capitato di rinvenire: un gatto nero giocattolo). Quindi analizzò la terribile scena dell'appartamento del giovane, esaminò il corpo e raccolse tutte le prove. Si stava dirigendo alla sua auto quando Sellitto la fermò. «Ehi, aspetta un attimo, agente.» Chiuse la comunicazione sul suo cellulare — doveva aver avuto una discussione difficile, a giudicare da com'era accigliato. «Devo discutere col capitano e con la commissione del Dipartimento del caso del Negromante. Ma ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Dobbiamo aggiungere una persona alla squadra, e vorrei che passassi tu a prenderlo.» «Certo. Ma perché qualcun altro?» «Perché abbiamo trovato due cadaveri nel giro di quattro ore e non abbiamo nessun fottutissimo sospetto», ribatté bruscamente lui. «E questo significa che i pezzi grossi non saranno per nulla contenti. E questa è la tua prima lezione per diventare un bravo sergente: quando i pezzi grossi non sono contenti, nemmeno tu sei contento.» Il Ponte dei Sospiri.
Era il passaggio sospeso che collegava le due alte torri del Centro di Detenzione di Manhattan di Centre Street, in piena Manhattan. Il Ponte dei Sospiri, il cammino percorso dai più grandi mafiosi a cui venivano attribuite centinaia di delitti. Percorso da giovani uomini spaventati che non avevano fatto niente di più che prendere una mazza da baseball per dare una lezione allo stronzo che aveva picchiato le loro sorelle o le loro cugine. Percorso da criminali che avevano ammazzato un turista per rubargli quarantadue dollari perché ho bisogno del crack, amico, ne ho bisogno, cazzo se ne ho bisogno... Amelia Sachs ora stava percorrendo il ponte diretta al Centro di Detenzione — tecnicamente il Bernard B. Kirek Complex, ma universalmente noto come le Tombe, soprannome ereditato dall'antica prigione della città che aveva avuto sede dall'altra parte della strada. Lì, in alto sopra il quartiere direzionale della città, diede il proprio nome a una guardia, consegnò la Glock (aveva lasciato la sua arma non ufficiale — un coltello a serramanico — nella Camaro) ed entrò nell'atrio, oltrepassando una rumorosa porta elettrica che si richiuse con un gemito. Pochi minuti dopo, l'uomo che era venuta a prendere uscì da una stanza per gli interrogatori poco lontano. Era snello, aveva circa quarant'anni, capelli castani che si andavano diradando e un vago sorriso che gli illuminava il volto simpatico. Indossava una giacca sportiva nera, una camicia azzurra e dei jeans. «Ehilà, Amelia», la salutò. «Sei venuta per darmi uno strappo fino a casa di Lincoln?» «Ciao, Rol. Sì, ci puoi scommettere.» Il detective Roland Bell si sbottonò la giacca e Amelia intravide il suo cinturone. Anche lui, in rispetto delle regole, non aveva armi. Ma Amelia notò due fondine vuote sui fianchi di Bell. Si ricordò che quando avevano lavorato insieme spesso si erano scambiati aneddoti sulle loro prodezze al poligono di tiro — per Bell un hobby e per Amelia uno sport che praticava a livello agonistico. Altri due uomini uscirono dalla stanza degli interrogatori e li raggiunsero. Uno indossava un completo ed era un detective che Amelia aveva già incontrato. Luis Martinez aveva i capelli a spazzola ed era un uomo silenzioso dagli occhi rapidi e attenti. Il secondo era vestito in modo informale: pantaloni kaki e una camicia nera Izod sotto una giacca a vento sbiadita. Venne presentato ad Amelia come Charles Grady, anche se lei lo conosceva già di vista; il viceprocura-
tore distrettuale era una specie di celebrità tra gli agenti di polizia di New York. Laureato a Harvard, snello e di mezza età, Grady era rimasto all'ufficio del procuratore per molto tempo rispetto alla maggior parte dei pubblici ministeri che si erano ben presto spostati verso pascoli più remunerativi. «Mastino» e «tenace» erano solo due delle molte etichette che i giornalisti gli avevano regolarmente affibbiato. Era stato paragonato a Rudolph Giuliani; tuttavia, a differenza dell'ex sindaco della città, Grady non aveva alcuna aspirazione politica. Era soddisfatto di lavorare nell'ufficio del procuratore e di potersi dedicare alla sua passione, che lui con semplicità descriveva come «mettere in prigione i cattivi». Cosa che sapeva fare dannatamente bene; il suo curriculum di condanne era uno dei migliori della storia della città. Bell si trovava lì per il caso di cui si stava occupando in quel momento Grady. Lo Stato stava processando un assicuratore quarantenne che viveva in una cittadina rurale a nord di New York. Andrew Constable era noto non tanto per le polizze che aveva stipulato quanto per la sua milizia locale, l'Alleanza Patriottica. Era accusato di concorso in omicidio e in crimini razziali e il caso era stato trasferito lì per una mozione di cambiamento di sede del processo. Con l'avvicinarsi della data del processo, Grady aveva cominciato a ricevere minacce di morte. Poi, qualche giorno prima, il procuratore aveva ricevuto una telefonata dall'ufficio di Fred Dellray, un agente dell'FBI che spesso lavorava con Rhyme e Sellitto. Dellray attualmente faceva parte di un gruppo speciale antiterrorismo, e alcuni suoi colleghi gli avevano confermato la serietà della minacce rivolte a Grady. Giovedì notte o forse nelle prime ore di venerdì mattina, l'ufficio di Grady era stato messo a soqquadro. A quel punto era stato chiamato Roland Bell. L'agente, originario del North Carolina, inizialmente era stato assegnato alla omicidi e aveva lavorato con Lon Sellitto, ma si era anche occupato di una squadra non ufficiale di detective del Dipartimento di Polizia di New York nota come SICUT, ovvero «Salviamo il Culo al Testimone». Bell aveva, per dirlo con parole sue, «una specie di talento a far restare vive le persone che altri vorrebbero morte». Quindi, oltre al suo normale lavoro di indagini con Sellitto e Rhyme, finiva per fare gli straordinari con la protezione testimoni. Ma ora le guardie del corpo di Grady erano al loro posto e i pezzi grossi della Centrale — i pezzi grossi scontenti — avevano deciso di intensificare gli sforzi nella ricerca del Negromante. Alla squadra Sellitto-Rhyme servi-
vano altri muscoli, e quella di Bell era la scelta più logica. «E così quello era Andrew Constatile», disse Grady a Bell, indicando con un cenno del capo la finestra sudicia della stanza degli interrogatori. Amelia si avvicinò alla finestra e, seduto a un tavolo con il capo chino intento ad annuire lentamente, vide un prigioniero snello, dall'aria piuttosto distinta, che indossava una tuta arancione. «È come te lo aspettavi?» continuò Grady. «Non esattamente», rispose Bell. «Pensavo che fosse un tipo più rozzo. Il tipico bigotto di provincia, sai cosa intendo. Ma quel tizio ha una certa classe. Il fatto è, Charles, te lo devo dire, che non si sente colpevole.» «Certo che no.» Grady fece una smorfia. «Sarà difficile ottenere una condanna.» Fece una breve risata. «Ma in fondo è per questo che mi pagano un sacco di soldi.» Lo stipendio di Grady era più basso di quello di un associato del primo anno di uno studio legale di Wall Street. Bell domandò: «C'è qualche novità a proposito dell'irruzione nel tuo ufficio? È già arrivato il rapporto preliminare sulla scena del crimine? Ho bisogno di vederlo». «Stanno facendo il più in fretta possibile. Vedremo di fartene avere una copia.» «C'è un altro caso di cui mi devo occupare. Lascerò i miei uomini con te e la tua famiglia. Ma potrai chiamarmi in qualsiasi momento», lo avvertì Bell. «Grazie, detective», disse Grady. Poi aggiunse: «Mia figlia ti manda i suoi saluti. Bisognerà che le facciamo conoscere i tuoi figli. E che le presentiamo quella tua amica. Dove hai detto che abita?» «Lucy? Giù in North Carolina.» «Anche lei è in polizia, giusto?» «Già, è a capo dell'ufficio dello sceriffo. Nella metropoli di Tanner's Corner.» Luis notò che Grady si stava incamminando verso la porta e gli si affiancò immediatamente. «Le dispiace aspettare un attimo, Charles?» La guardia del corpo lasciò l'area protetta, recuperò la pistola che aveva consegnato alla guardia che si occupava degli armadietti di sicurezza e controllò con attenzione il corridoio e il ponte. In quel momento, una voce morbida risuonò alle spalle di Amelia. «Salve, signorina.» Amelia individuò in quelle parole un tono particolare, frutto di lunghi anni a contatto con la gente. Si voltò e vide Andrew Constable in piedi ac-
canto a una guardia robusta. Il prigioniero era piuttosto alto, e teneva la schiena perfettamente dritta. I capelli brizzolati erano folti e ondulati. Accanto a lui c'era il suo avvocato, un uomo basso e rotondo. Constable continuò: «Lei fa parte della squadra che si occupa di proteggere il signor Grady?» «Andrew», lo ammonì il suo avvocato. Il prigioniero annuì, tuttavia inarcò le sopracciglia guardando Amelia. «Non è questo il mio incarico», rispose lei con noncuranza. «Ah, no? Stavo per dirle ciò che ho appena detto al detective Bell. Cioè che sinceramente non so proprio nulla a proposito delle minacce contro il signor Grady.» Si voltò verso Bell, che lanciò un'occhiata al sospetto. A volte, il poliziotto di Tar Heel poteva sembrare timido e riservato, ma mai quando si trovava ad avere a che fare con un sospetto. Reagì con uno sguardo gelido. «Lei deve fare il suo lavoro. Lo capisco. Ma, mi creda, non farei mai nulla di male al signor Grady. Il rispetto è una delle cose che hanno reso grande questo Paese.» Rise. «Lo batterò al processo. E ce la farò — grazie al mio brillante giovane amico qui.» Con un cenno del capo indicò il suo avvocato. Poi rivolse a Bell uno sguardo incuriosito. «A proposito, detective, mi stavo chiedendo se potrebbe interessarle quello che i miei Patrioti stanno facendo su a Canton Falls.» «A me?» «Oh, non mi riferisco a quell'assurda accusa di concorso in omicidio. Mi riferisco a quello che siamo veramente.» L'avvocato del prigioniero disse: «Andiamo, Andrew. Meglio non aggiungere altro». «Sto solo conversando, Joe.» Scoccò un'occhiata a Bell. «Che cosa mi dice?» «A quale proposito, signore?» domandò Bell in tono duro. Ma il prigioniero preferì non chiarire oltre la sua allusione al razzismo e alla provenienza di Bell da uno Stato del Sud. Disse invece: «I diritti degli Stati, i lavoratori, il governo locale contro quello federale. Dovrebbe andare a visitare il nostro sito, detective». Rise. «La gente si aspetta delle svastiche e invece trova Thomas Jefferson e George Mason.» Bell non rispose e un pesante silenzio calò su di loro. Alla fine il prigioniero scosse la testa, poi scoppiò a ridere e assunse un'aria imbarazzata. «Dio, sono desolato... A volte non riesco proprio a fermarmi... tutte queste prediche ridicole. Basta che mi trovi in mezzo a poche persone e guardate che cosa succede... abu-
so della pazienza degli altri.» La guardia disse: «Andiamo». «D'accordo, allora», rispose il prigioniero. Un cenno col capo ad Amelia, uno a Bell, e si incamminò lungo il corridoio accompagnato dal leggero tintinnio delle manette che gli sbattevano sulle gambe. L'avvocato fece un cenno al procuratore — due avversari che si rispettavano a vicenda ma che non si fidavano l'uno dell'altro — e lasciò l'area protetta. Un attimo dopo Grady, Bell e Amelia fecero altrettanto seguiti da Martinez. La donna poliziotto osservò: «Non mi è sembrato un mostro. Quali sono esattamente le accuse a suo carico?» «Alcuni agenti dell'antiterrorismo che lavoravano sotto copertura per indagare su un traffico d'armi hanno scoperto un piano ordito da Constable. Alcuni dei suoi uomini dovevano attirare degli agenti di polizia in zone remote facendo finte chiamate al 911. Se avessero risposto agenti di colore, gli uomini di Constable dovevano rapirli, spogliarli e linciarli. Qualcuno aveva proposto persino la castrazione», rispose Grady. Amelia, che nel corso degli anni si era occupata di crimini terribili, batté le palpebre sconvolta da quell'orribile notizia. «Dice sul serio?» Grady annuì. «E questo sarebbe stato solo l'inizio. Sembrava che i linciaggi facessero parte di un grande disegno. Constable e i suoi speravano che se avessero assassinato abbastanza poliziotti e i media avessero trasmesso le immagini delle impiccagioni, i neri sarebbero insorti in una specie di rivolta. Avrebbero dato ai bianchi di tutto il Paese il pretesto per fare una rappresaglia contro di loro e spazzarli via. Speravano che i latinoamericani e gli asiatici si sarebbero uniti ai neri e che la rivoluzione bianca avrebbe cancellato anche loro.» «Al giorno d'oggi?» «Ci può scommettere.» Bell rivolse un cenno a Luis. «Lo hai tu in custodia adesso. Restagli sempre vicino.» «Certo», rispose il detective. Grady e la snella guardia del corpo lasciarono l'atrio del centro di detenzione mentre Amelia e Bell ritiravano le loro armi. Mentre attraversavano il Ponte dei Sospiri diretti all'edificio adibito alle aule giudiziarie, Amelia raccontò a Bell del Negromante e delle sue vittime. Bell fece una smorfia quando lei gli riferì i dettagli dell'orribile morte di Anthony Calvert. «Movente?»
«Non lo conosciamo.» «Schema?» «Come sopra.» «Che aspetto ha il sospetto?» domandò Bell. «Anche su questo ci sarebbe da discutere.» «Quindi non avete niente?» «Pensiamo che sia un maschio bianco di media statura.» «Quindi nessuno è riuscito a vederlo, giusto?» «A dire il vero l'hanno visto in tanti. Solo che la prima volta aveva i capelli scuri, la barba e sembrava un uomo di circa cinquant'anni. La seconda volta aveva l'aspetto di un custode calvo sulla sessantina. E la terza volta aveva quello di una donna di settant'anni.» Bell rimase ad aspettare una risata da parte di Amelia, convinto che gli avrebbe rivelato che si trattava di uno scherzo. Quando vide che la sua espressione seria non svaniva, chiese: «Non mi stai prendendo in giro?» «Temo di no, Roland.» «Sono bravo», disse Bell, scuotendo la testa e battendo una mano sul calcio dell'automatica che teneva nella fondina destra. «Mi serve un bersaglio, però.» Ti conviene pregare di trovarlo, pensò Amelia Sachs. 12 Gli indizi raccolti sulla seconda scena del crimine erano arrivati e Mel Cooper stava sistemando i sacchetti e le provette sui grandi tavoli da laboratorio nel soggiorno di Rhyme. Sellitto era appena tornato da una tesa riunione alla centrale di polizia, durante la quale si era discusso del caso del Negromante. Il sovrintendente e il sindaco avevano preteso di conoscere i dettagli sui progressi nelle indagini... peccato che non ce ne fossero stati. Rhyme aveva ricevuto le informazioni richieste sui due illusionisti ucraini che lavoravano con il Cirque Fantastique e aveva scoperto che non avevano precedenti. I due agenti di polizia che sorvegliavano il tendone avevano fatto un controllo nel circo e fatto rapporto dicendo di non aver trovato tracce di attività sospette. Un attimo dopo, Amelia fece il suo ingresso nella stanza in compagnia del pacato Roland Bell. Quando a Sellitto era stato ordinato di aggiungere un altro detective alla squadra, Rhyme aveva immediatamente fatto il suo
nome: gli piaceva l'idea che ci fosse un poliziotto esperto, nonché tiratore formidabile, come lui a dare una mano ad Amelia sul campo. Ci fu un rapido giro di presentazioni e saluti. Nessuno aveva informato Bell della presenza di Kara e lei rispose al suo sguardo incuriosito dicendo: «Sono come lui». Indicò Rhyme con un cenno. «Una specie di consulente.» «Piacere di conoscerti», disse Bell. Batté le palpebre quando la vide farsi rotolare avanti e indietro con aria assorta tre monete sulle nocche contemporaneamente. Mentre Amelia si metteva al lavoro sulle prove insieme a Cooper, Rhyme chiese: «Chi è la vittima?» «Si chiamava Anthony Calvert. Trentadue anni. Scapolo. Be', nel suo caso, senza un compagno.» «Qualche legame con la studentessa della scuola di musica?» «A quanto pare no», rispose Sellitto. «Bedding e Saul hanno controllato.» «Che lavoro faceva?» chiese Cooper. «Truccatore a Broadway.» E la prima volta era toccato a una studentessa di musica, rifletté Rhyme. Una donna eterosessuale, un gay. Vivevano e lavoravano in quartieri diversi. Che collegamento poteva esserci tra i due omicidi? «L'assassino ha preso con sé qualche trofeo dal corpo della vittima?» Dal momento che non c'era stato niente di sessuale nella natura del primo crimine, Rhyme non fu sorpreso quando Amelia rispose: «No. A meno che non si porti a casa i suoi ricordi... e non si ecciti con questo». Andò alla lavagna, a cui fissò le foto digitali del cadavere. Rhyme si avvicinò e studiò le immagini raccapriccianti. «Maniaco del cazzo», fu il letargico commento di Sellitto. «E quale arma ha usato?» domandò Roland Bell. «A quanto pare una sega a telaio», disse Cooper esaminando alcuni primi piani delle ferite. Bell, che lavorando come poliziotto nel North Carolina e a New York aveva visto ben più di un omicidio efferato, scosse la testa. «Be', questo sarà un osso duro.» Mentre continuava a studiare le fotografie Rhyme si accorse all'improvviso di uno strano rumore, un sibilo irregolare vicino a lui. Si voltò e vide Kara alle sue spalle. Il rumore era quello dei suoi respiri affannosi. Stava osservando le foto del cadavere di Calvert. Si stava passando compulsiva-
mente una mano tra i corti capelli mentre fissava sconvolta le fotografie, gli occhi sgranati e pieni di lacrime, il mento che le tremava. Distolse lo sguardo dalla lavagna. «Ti senti...» cominciò Amelia. Kara sollevò una mano e chiuse gli occhi, traendo dei profondi respiri. Rhyme capì in quel momento, vedendo il dolore sul suo viso, che per lei questo era troppo. Aveva raggiunto il limite. La sua vita — l'analisi delle scene dei crimini — implicava quel tipo di orrore; il mondo di Kara, no. I rischi, i pericoli della professione di quella ragazza erano, naturalmente, illusori, e lui non poteva chiedere ai civili di affrontare volontariamente quell'orrore. Era un vero peccato, perché avevano disperatamente bisogno del suo aiuto. Ma notando l'orrore sul suo viso, Lincoln seppe che non avrebbero potuto sottoporla oltre a quella violenza. Si chiese se la giovane non fosse sul punto di vomitare. Amelia fece un passo verso Kara; si fermò quando vide Rhyme scuotere la testa; colse il suo messaggio: sapeva che stavano per perdere la ragazza e che era giusto lasciarla andare. Ma Rhyme si sbagliava. Kara trasse un altro profondo respiro — come un apneista in procinto di tuffarsi dalla barca — e tornò a guardare le fotografie, un'espressione determinata negli occhi. Si era fatta forza per affrontare di nuovo quelle immagini. Le studiò con attenzione e alla fine annuì. «P. T. Selbit», disse, asciugandosi gli occhi azzurri. «È una persona?» Era stata Amelia a domandarlo. Kara annuì. «Il signor Balzac era solito fare alcuni dei suoi numeri. Selbit è un illusionista vissuto attorno al 1900. Quello è un suo numero. Si chiama la Donna Segata in Due. Questo è uguale, le gambe e le braccia aperte, legate. La sega. L'unica differenza è che ha preso un uomo per il suo numero.» Batté le palpebre e si corresse: «Voglio dire per l'omicidio». Di nuovo Rhyme chiese: «È un trucco che solo un numero limitato di persone potrebbe conoscere?» «No. È un numero molto famoso. Più famoso persino dell'Uomo Scomparso. È noto a chiunque abbia una minima conoscenza della storia della magia.» Rhyme si era aspettato quella risposta scoraggiante. «Aggiungilo comunque al profilo, Thom.» Si rivolse ad Amelia: «Okay, raccontaci quello che è successo da Calvert».
«Sembra che la vittima sia uscita dalla porta posteriore del palazzo per andare al lavoro — come faceva sempre, ci hanno detto i vicini. È passato vicino a un vicolo e ha visto questo.» Indicò il gatto nero giocattolo che si trovava in un sacchetto di plastica. «Un gatto giocattolo.» Kara lo osservò. «È un automa. Un robot. Un falso, come diremmo nel mio ambiente.» «Un falso?» «Esatto. Uno strumento che il pubblico dovrebbe scambiare per vero. Come un coltello con la lama che scompare o una tazza da caffè con un doppio fondo.» Spinse un interruttore e d'improvviso il gatto meccanico cominciò a muoversi emettendo un miagolio piuttosto realistico. «La vittima deve avere visto il gatto ed essersi avvicinato, magari pensando che fosse ferito», continuò Amelia. «Dev'essere così che il Negromante lo ha sorpreso nel vicolo.» «Fonte?» chiese Rhyme a Cooper. «La Sing-Lu Manufacturing di Hong Kong. Ho controllato il loro sito web. Il giocattolo è disponibile in centinaia di negozi in tutto il Paese.» Rhyme sospirò. «Impossibile da rintracciare» era un tema ricorrente in quelle indagini, a quanto pareva. Amelia riprese: «Così Calvert si è avvicinato al gatto e si è accovacciato per guardarlo meglio. L'assassino era nascosto da qualche parte e...» «Lo specchio», la interruppe Rhyme. Un'occhiata a Kara, che stava annuendo. «Gli illusionisti si servono spesso degli specchi. Orientandoli nel modo giusto si può far svanire qualunque cosa o chiunque si trovi dietro di essi.» Rhyme si ricordò che il nome del negozio in cui lavorava Kara era Smoke & Mirrors, Fumo & Specchi. «Ma qualcosa è andato storto e la vittima è scappata», continuò Sellitto. «Ora viene la parte più assurda. Abbiamo controllato il nastro del 911. Calvert è rientrato nel palazzo, poi nel suo appartamento e ha chiamato il pronto intervento. Ha detto che l'aggressore era fuori dal palazzo e che le porte erano chiuse a chiave. Ma è caduta la linea. In qualche modo il Negromante è riuscito a entrare.» «Magari dalla finestra... Sachs, hai controllato l'uscita antincendio?» «No. La finestra che dava sull'uscita di emergenza era chiusa dall'interno.» «Però l'hai esaminata», disse Rhyme in tono sbrigativo.
«Non è entrato da lì. Non ne avrebbe avuto il tempo.» «Be', allora deve aver preso le chiavi della vittima», disse il criminologo. «Niente impronte latenti sulle chiavi», ribatté Amelia. «Solo le impronte della vittima.» «Deve aver fatto così», insistette Rhyme. «No», disse Kara. «Ha forzato la serratura.» «Impossibile», obiettò Rhyme. «O forse si è introdotto prima nell'appartamento e ha fatto una copia delle chiavi. Sachs, dovresti tornare a controllare se ha...» «Ha forzato la serratura», ripeté con convinzione la donna. «Glielo garantisco.» Rhyme scosse la testa. «E avrebbe aperto due porte in sessanta secondi? È impossibile.» Kara sospirò. «Mi dispiace ma, sì, in sessanta secondi è riuscito ad aprire due porte. Potrebbe averci messo anche meno.» «Be', dobbiamo presumere che non ci sia riuscito», tagliò corto Rhyme. «Ora...» «Dobbiamo presumere che ci sia riuscito. Ascolti, non possiamo sorvolare su questo dettaglio. Ci dice qualcos'altro sul suo conto... qualcosa di importante... ovvero che le porte chiuse a chiave non possono nemmeno rallentarlo», esclamò la giovane. Rhyme lanciò un'occhiata a Sellitto, il quale precisò: «Devo dire che ho arrestato decine di ladri, e nessuno di loro sarebbe mai riuscito a forzare una serratura così in fretta». «Il signor Balzac mi fa esercitare a forzare serrature dieci ore alla settimana», disse Kara. «Non ho con me il mio kit, ma se lo avessi potrei aprire la sua porta d'ingresso in trenta secondi. Il chiavistello in sessanta. Non so fare la pulitura a una serratura. Se il Negromante ne è capace potrebbe impiegare la metà del tempo di cui ho bisogno io. Ora, so che tutto questo le piace, lo studio delle prove intendo, ma sprecherebbe il suo tempo se mandasse Amelia a cercare qualcosa che non c'è.» «Ne sei sicura?» chiese Sellitto. «Se non vi fidate della mia opinione, perché volete il mio aiuto?» Amelia lanciò un'occhiata a Rhyme. Lui accettò controvoglia la dichiarazione di Kara, annuendo appena (anche se dentro di sé era contento che la giovane avesse dimostrato di avere del fegato; questo la riscattava dallo Sguardo e dal Sorriso). Disse a Thom: «Okay, aggiungi alla tabella che il nostro ragazzo è un maestro nel forzare serrature».
Amelia continuò: «Nessun segno dello strumento, qualunque sia, che il Negromante ha usato per far perdere i sensi alla vittima. Ha un trauma da oggetto smussato. Potrebbe trattarsi di un tubo. Ma l'assassino comunque l'ha portato via con sé». Arrivò il rapporto sulle impronte latenti. Nella scena del crimine ne erano state rinvenute ottantanove nell'area vicino alla vittima e nei punti che più probabilmente il Negromante aveva toccato. Rhyme, tuttavia, notò subito che alcune avevano un aspetto strano, e un'analisi più approfondita rivelò che erano state lasciate da copridita. Non perse tempo a esaminare le altre. Analizzando l'indizio che Amelia aveva raccolto sulla scena, scoprirono minime quantità dello stesso olio minerale rinvenuto alla scuola di musica quella mattina e altre tracce di lattice, cosmetici e alginato. Telefonò il detective Kuan del Nono Distretto, e riferì che la ricerca nei cassonetti attorno al palazzo di Calvert non aveva dato risultati: non erano stati trovati né il travestimento né le armi del delitto usati dall'assassino. Rhyme lo ringraziò e lo invitò a continuare. L'uomo disse che lo avrebbe fatto, ma con un entusiasmo talmente falso che Lincoln capì che la ricerca era già finita. Il criminologo si rivolse ad Amelia. «Mi hai detto che l'assassino ha rotto l'orologio di Calvert, giusto?» «Sì. Segnava le dodici in punto. Le dodici e qualche secondo.» «E quello dell'altra vittima segnava le otto. Sembra che stia seguendo una tabella di marcia. E probabilmente ha già in programma di uccidere qualcun altro alle quattro di oggi pomeriggio.» Mancavano meno di tre ore. «Non abbiamo avuto fortuna con lo specchio. Nessun marchio di fabbrica... doveva essere sulla cornice ma il killer lo ha cancellato. Alcune impronte reali, ma coperte dalle sbavature lasciate dai copridita, per cui credo che appartengano al commesso del negozio in cui lo ha comprato oppure al produttore. Comunque, le manderò al SAIID», intervenne Cooper. «Ho trovato delle scarpe», disse Amelia prendendo un sacchetto da una scatola di cartone. «Sue?» «È probabile. Sono delle Ecco, la stessa marca di quelle di cui abbiamo trovato le impronte alla scuola di musica; sono anche dello stesso numero.» «Se le è lasciate dietro. Perché?» chiese Sellitto, riflettendo ad alta voce.
«Probabilmente ha pensato che avessimo già scoperto che sulla prima scena del crimine indossava delle Ecco e ha temuto che i poliziotti potessero notarle ai piedi della vecchia signora», siggerì Rhyme. Esaminando le scarpe, Mel Cooper disse: «Abbiamo delle buone tracce nella scanalatura sulla parte anteriore del tacco e tra la tomaia e la suola». Aprì un sacchetto e grattò via il materiale. «Ce n'è un bel po'», aggiunse il tecnico con aria assorta chinandosi sul terriccio. Non era un ritrovamento memorabile, ma per l'analisi forense quei residui erano come una montagna e avrebbero potuto rivelare un gran numero di informazioni. «Passali al microscopio, Mel», ordinò Rhyme. «Vediamo un po' cosa abbiamo.» Il cavallo da tiro degli strumenti di un laboratorio di analisi scientifica è il microscopio e, benché ci siano stati molti miglioramenti nel corso degli anni, in teoria lo strumento non è diverso dal piccolo microscopio di ottone inventato da Antonie van Leeuwenhoek in Olanda nel sedicesimo secolo. Oltre a un vecchio microscopio elettronico a scansione, di cui raramente c'era bisogno, Rhyme aveva altri due microscopi nel suo laboratorio. Uno era un Leitz Orthoplan composto, un modello vecchio ma assolutamente affidabile. Era trinoculare: c'erano due oculari per il tecnico e una microtelecamera al centro. Il secondo — che Cooper si stava preparando a usare — era un microscopio stereo, che il tecnico aveva usato per esaminare le fibre della prima scena del crimine. Questi strumenti hanno una capacità di ingrandimento relativamente bassa e vengono usati per analizzare oggetti tridimensionali come insetti e vegetali. L'immagine apparve sullo schermo del computer e Rhyme e gli altri poterono osservarla. Gli studenti di analisi criminologica del primo anno tendono a utilizzare subito la massima potenza del microscopio per analizzare le prove. Ma in realtà, il miglior ingrandimento che si possa usare per questi scopi è solitamente piuttosto basso. Cooper cominciò a 4x e salì fino a 30x. «Ah, metti a fuoco, metti a fuoco», ordinò Rhyme. Cooper regolò la manopola in modo che l'immagine del materiale risultasse perfettamente nitida. «Okay, vediamo un po'», mormorò. Il tecnico spostò il portaoggetti muovendo impercettibilmente i sensori che vi erano collegati. Centinaia di sagome scorsero sullo schermo, alcune nere, alcune rosse o verdi, alcune traslucide.
Come gli accadeva sempre quando guardava nell'oculare di un microscopio, Rhyme ebbe l'impressione di essere un voyeur intento a esaminare un mondo che non sapeva minimamente di essere spiato. Un mondo da cui ci si potevano aspettare molte rivelazioni. «Peli», borbottò studiando una lunga striscia. «Di animale.» Lo aveva capito osservando il numero delle scaglie. «Che genere di animale?» chiese Amelia. «Un cane, direi», rispose Cooper. Rhyme era d'accordo con lui. Il tecnico si collegò a Internet e un attimo dopo si mise a confrontare le immagini con quelle contenute nel database di peli animali del Dipartimento di Polizia di New York. «Ho trovato due razze, no, tre. Sembra una razza a pelo medio-lungo. Pastore tedesco o Malinois. E ci sono anche peli di due razze a pelo più lungo. Cane da pastore inglese, Briard.» Cooper fermò l'immagine sullo schermo. Stavano osservando una massa di granelli e bastoncini marroni. «Cos'è quella roba lunga?» chiese Sellitto. «Fibre?» suggerì Amelia. Rhyme le osservò. «Erba secca, direi, o comunque vegetazione di un qualche tipo. Non riconosco l'altro materiale. Passalo al gascromatografo, Mel.» Ben presto il cromatografo/spettrometro fornì i risultati dell'analisi. Sul monitor apparve una tabella: pigmenti biliari, stercobilina, urobilina, indolo, nitrati, scatolo, mercaptano, solfito di idrogeno. «Ah.» «Ah?» chiese Sellitto. «Che significa 'ah'?» «Comando, microscopio uno.» L'immagine riapparve sullo schermo del computer. «È ovvio: materia batterica morta, erba e fibre parzialmente digerite. È merda. Oh, perdonate la mia indelicatezza», disse in tono sarcastico. «È cacca di cane. Il nostro uomo ha messo un piede dove non avrebbe dovuto.» Era una notizia incoraggiante: i peli e la materia fecale erano delle buone prove, e così se avessero trovato tracce simili su un sospetto, in un luogo particolare o in un'auto ci sarebbero state buone probabilità che lui fosse o avesse avuto a che fare con il Negromante. Arrivò il rapporto sulle impronte rinvenute nel vicolo sui frammenti di specchio. Era negativo, cosa che non sorprese nessuno. «Abbiamo qualcos'altro dalla scena del crimine?» volle sapere Rhyme.
«Niente», rispose Amelia. «Questo è quanto.» Rhyme stava studiando la tabella delle prove quando suonarono alla porta. Thom andò ad aprire. Un attimo dopo riapparve in compagnia di un agente in uniforme. Il poliziotto rimase timidamente sulla soglia, come facevano spesso molti giovani agenti quando entravano nel regno del leggendario Lincoln Rhyme. «Sto cercando il detective Bell. Mi hanno detto che era qui.» «Sono io», disse Bell. «Le ho portato i risultati dell'analisi della scena del crimine. L'irruzione nell'ufficio di Charles Grady.» «Grazie, figliolo.» Il detective prese la busta e fece un cenno al giovane che, lanciando una breve, intimidita occhiata a Lincoln Rhyme, si voltò e se ne andò. Leggendo il contenuto della busta, Bell scrollò le spalle. «Non è il mio campo. Ehi, Lincoln, potresti darci un'occhiata tu?» «Certo, Roland», rispose Rhyme. «Togli i fermagli e montalo sull'apparecchio voltapagine. Ci penserà Thom. Riguarda il caso di Andrew Constable?» «Sì.» Raccontò a Rhyme dell'irruzione nell'ufficio di Charles Grady. Quando l'aiutante ebbe finito di sistemare il rapporto, Lincoln si mise in posizione. Lesse la prima pagina con attenzione. Poi disse: «Comando, volta pagina». Continuò a leggere. Il responsabile si era introdotto nell'ufficio semplicemente mandando in pezzi un angolo del vetro della porta che dava sul corridoio e aprendola dall'interno (la porta tra l'ufficio della segretaria e quello del procuratore aveva una doppia serratura ed era fatta di legno spesso; e questo aveva fermato l'intruso). I tecnici della scientifica, notò Rhyme, avevano trovato delle tracce interessanti: attorno e sul tavolo della segretaria c'era un gran numero di fibre. Sul rapporto era indicato soltanto il loro colore — erano per lo più bianche, alcune nere e una sola rossa — ma non c'erano altri particolari in proposito. Erano stati rinvenuti anche due minuscoli frammenti di foglia d'oro. La scientifica aveva scoperto che l'irruzione era avvenuta dopo che gli addetti alle pulizie avevano finito il loro turno, quindi le fibre probabilmente non erano state lasciate dalla segretaria di Grady o da qualcun altro che era stato nell'ufficio durante il giorno. Quasi certamente era stato l'intruso a lasciarle. Rhyme arrivò all'ultima pagina. «Tutto qui?» chiese.
«Suppongo di sì», rispose Bell. Il criminologo grugnì. «Comando, telefono, chiamare Peretti virgola Vincent.» Rhyme aveva assunto Peretti nella sua squadra anni prima e l'uomo si era dimostrato molto abile nell'analisi forense. Ciò in cui eccelleva, comunque, era l'arte esoterica della politica del Dipartimento di Polizia, cosa che, al contrario di Rhyme, preferiva all'analisi sul campo delle scene del crimine. Attualmente era a capo della Divisione Indagini e Risorse, che sovrintendeva l'unità scientifica. Quando Rhyme riuscì finalmente a mettersi in contatto con lui, l'uomo domandò: «Come stai, Lincoln?» «Bene, Vince. Io...» «Ti stai occupando del caso del Negromante, vero? Come sta andando?» «Sta andando. Ascolta, ti sto chiamando per un'altra ragione. Sono qui con Roland Bell. Ho ricevuto il rapporto sull'irruzione nell'ufficio di Grady.» «Oh, quella storia di Andrew Constable. Le minacce contro Grady. Certo. Cosa posso fare per te?» «Sto dando un'occhiata al rapporto. Ma è solo un rapporto preliminare. Ho bisogno di maggiori informazioni. La scientifica ha trovato delle fibre. Ho bisogno di conoscere l'esatta composizione di ciascuna fibra, la lunghezza, il diametro, la temperatura del colore, i coloranti usati e il grado di logoramento.» «Aspetta un attimo. Prendo una penna.» Un attimo dopo la sua voce si risentì. «Continua.» «Ho anche bisogno delle elettrostatiche di tutte le impronte e le foto del disegno del pavimento. E voglio sapere tutto sulla scrivania della segretaria, sulla credenza e sulle librerie. Tutto su qualunque superficie, dai cassetti alle pareti. E l'esatta collocazione.» «Tutto ciò che ha toccato il criminale? Okay, nessun problema. Noi...» «No, Vince. Tutto quello che c'era nell'ufficio. Tutto. Fermagli, fotografie dei figli della segretaria. La muffa nel primo cassetto. Non mi importa che abbia toccato qualcosa o meno.» Infastidito, Peretti disse: «Farò in modo che se ne occupi qualcuno». Rhyme non capiva perché Peretti non volesse farlo di persona. Al suo posto lui lo avrebbe fatto, anche se fosse stato a capo della DIR, per assicurarsi che il lavoro venisse svolto immediatamente. Ma nel suo attuale ruolo di consulente, non poteva pretendere di più.
«Prima lo farai, meglio sarà... Grazie, Vince.» «Di niente», rispose freddamente l'altro. Riappesero. Rhyme si rivolse a Bell. «Non posso fare molto di più, Roland, finché non otteniamo le informazioni.» Un'occhiata al rapporto sull'irruzione. Fibre e rozzi miliziani... Misteri. Ma per il momento quegli enigmi sarebbero appartenuti a qualcun altro. Lincoln aveva già i suoi misteri da risolvere e non gli restava molto tempo per farlo: le annotazioni sulla tabella delle prove sugli orologi rotti gli ricordarono che avevano meno di tre ore per fermare il Negromante prima che colpisse di nuovo. 13 Nel 1900 a Manhattan c'erano più di centomila cavalli e, dal momento che nemmeno a quei tempi lo spazio abbondava sull'isola, molti animali venivano tenuti in condomini, così venivano considerati all'epoca i palazzi di due o tre piani. Una di queste stalle a più piani esiste ancora oggi ed è la celebre Accademia Ippica Hammerstead dell'Upper West Side. Costruita nel 1885 e rimasta immutata da allora, l'Accademia ha centinaia di stalle sopra il pianoterra, che invece è adibito a spettacoli e lezioni private di equitazione. Una grande stalla affollata come questa può sembrare un'anomalia in una città come la Manhattan del ventunesimo secolo finché non si pensa ai nove chilometri di sentieri da equitazione ben curati del Central Park, che si trova a pochi isolati da lì. Nell'Accademia sono ospitati novanta cavalli, alcuni appartengono a privati, altri sono per il noleggio, ed era proprio uno di questi ultimi che una giovane stalliera dai capelli rossi stava accompagnando giù lungo la rampa dove lo attendeva una cavallerizza. Cheryl Marston sentì lo stesso brivido che provava ogni sabato a quell'ora quando vedeva il cavallo alto e superbo con il dorso screziato da Appaloosa. «Ehi, Donny Boy», lo salutò, usando il soprannome che aveva dato all'animale, che in realtà si chiamava Don Juan di Middleburg. Un nome da rubacuori, pensava spesso Cheryl. Uno scherzo che però aveva un fondo di verità: quando era un uomo a cavalcarlo, l'animale diventava diffidente e recalcitrante. Ma con lei era docile. «Ci vediamo tra un'ora», disse Cheryl alla stalliera montando su Donny
Boy, afferrando le redini e sentendo sotto di sé gli stupefacenti muscoli del cavallo. Un leggero tocco con le staffe e uscirono dalla stalla. Sull'Ottantaseiesima, si diressero lentamente a est, verso Central Park, gli zoccoli che battevano rumorosamente sull'asfalto attirando l'attenzione di tutti che osservavano sia lo stupendo animale sia la cavallerizza dal volto serio e affilato che indossava calzoni da equitazione, una giacca rossa e un cap di velluto nero da cui spuntava una lunga treccia bionda. Entrando a Central Park, Cheryl lanciò un'occhiata verso sud e vide in lontananza il palazzo di Midtown in cui passava cinquanta ore la settimana a lavorare come avvocato praticante. Riguardo al suo lavoro aveva mille pensieri che avrebbero potuto sommergerla, progetti che erano finiti «bruciati», come era solito dire con irritante frequenza uno dei suoi colleghi. Ma ora niente di tutto ciò la toccava. Sarebbe stato impossibile. Era invulnerabile quando si trovava lì, su una delle più magnifiche creature di Dio e sentiva sul volto l'aria tiepida profumata di terra, mentre Donny Boy trottava lungo il sentiero scuro, circondato da giunchiglie, forsizie e lillà. Il primo bellissimo giorno di primavera. Per mezz'ora seguì lentamente il percorso, ammirata e rapita dallo straordinario legame che univa due animali diversi, complementari, ciascuno potente e intelligente a modo suo. Fece una breve galoppata, poi rallentò passando al trotto, quando raggiunsero le curve più strette nella parte più deserta del parco, a nord, vicino a Harlem. Completamente in pace. Finché non accadde qualcosa di terribile. Non capì esattamente come andarono le cose. Aveva rallentato per svoltare in uno stretto passaggio tra due gruppi di cespugli quando un piccione andò a sbattere contro il muso di Donny Boy. Nitrendo, il cavallo si fermò di colpo, così in fretta che Cheryl per poco non venne disarcionata. Poi l'animale si impennò e lei fu quasi sbalzata all'indietro. Cheryl gli afferrò la criniera e si tenne alla parte anteriore della sella per non farsi scaraventare sul terreno roccioso due metri e mezzo più in basso. «Buono, Donny», gridò, cercando di accarezzargli il collo. «Donny Boy, va tutto bene. Buono!» Ma lui continuò a impennarsi, come impazzito. La collisione con il piccione l'aveva forse ferito agli occhi? La sua preoccupazione per il cavallo, tuttavia, si mescolava alla paura che provava per sé. Sul terreno, alla loro destra e alla loro sinistra, c'erano rocce affilate. Se Donny Boy avesse con-
tinuato a impennarsi avrebbe potuto perdere l'equilibrio sul terreno irregolare e cadere rovinosamente, rischiando di schiacciarla. Quasi tutte le ferite più serie che i suoi amici appassionati di equitazione avevano riportato erano state causate non da una caduta da cavallo ma dall'essere rimasti schiacciati tra il terreno e l'animale durante una caduta. «Donny!» gridò senza fiato. Ma lui si impennò di nuovo, danzando sulle zampe posteriori e avvicinandosi sempre più alle rocce. «Gesù», ansimò Cheryl. «No, no...» In quel momento capì che lo avrebbe perso. I suoi zoccoli stavano sbattendo sulle rocce e lei sentì i potenti muscoli del cavallo che cominciava a perdere l'equilibrio. L'animale emise un alto nitrito. Si sarebbe rotta la gamba in una decina di punti. Forse si sarebbe persino fracassata le costole. Le sembrava quasi di sentire già il dolore. E di sentire il dolore del cavallo. «Oh, Donny...» Poi, d'un tratto, un uomo in tenuta da jogging sbucò dai cespugli. Con gli occhi sgranati guardò il cavallo. Balzò in avanti afferrando morso e briglie. «No, stia indietro!» gridò Cheryl. «Ha perso il controllo!» L'uomo si sarebbe preso un calcio in testa. «Si tolga di...» Ma... Cosa stava succedendo? L'uomo non stava guardando lei ma teneva lo sguardo fisso negli occhi marroni del cavallo. E pronunciava parole che Cheryl non riusciva a sentire. Come per miracolo l'Appaloosa iniziò a calmarsi. Smise di impennarsi. Donny Boy cadde in avanti su tutti e quattro gli zoccoli. Era ancora insicuro e continuava a tremare — proprio come il cuore di Cheryl — ma il peggio sembrava essere passato. L'uomo fece abbassare la testa al cavallo, avvicinandola a sé e pronunciando qualche altra parola. Alla fine fece un passo indietro, lanciò al cavallo un'occhiata di approvazione e poi guardò lei. «Si sente bene?» domandò. «Penso di sì.» Cheryl trasse un profondo respiro portandosi una mano al petto. «Io non... È successo tutto così in fretta.» «Cos'è capitato?» «Un uccello lo ha spaventato. Gli ha sbattuto contro il muso. Potrebbe avergli colpito gli occhi.» L'uomo esaminò attentamente il muso del cavallo. «Mi sembra che sia tutto okay. Potrebbe farlo vedere comunque da un veterinario. Ma non mi
sembra che ci siano tagli.» «Come ha fatto?» chiese lei. «È un...?» «Un uomo che sussurra ai cavalli?» replicò lui scoppiando a ridere e distogliendo timidamente lo sguardo. Sembrava più a suo agio quando guardava il cavallo negli occhi. «Niente affatto. Ma vado molto a cavallo. Devo avere un specie di effetto calmante.» «Pensavo che stesse per cadere.» Lui le rivolse un sorriso incerto. «Vorrei poter dire qualcosa per calmare lei.» «Ciò che fa bene al mio cavallo fa bene a me. Non so come ringraziarla.» Si avvicinò un'altra persona a cavallo e l'uomo con la barba fece allontanare Donny Boy dal sentiero, accompagnandolo fino al castagno poco lontano. Esaminò di nuovo l'animale con attenzione. «Come si chiama?» «Don Juan.» «Lo ha noleggiato all'Hammerstead? Oppure è suo?» «All'Hammerstead. Ma è come se fosse mio. Lo cavalco tutte le settimane.» «Anch'io noleggio lì i miei cavalli di tanto in tanto. Che animale stupendo.» Ora che si era calmata, Cheryl osservò meglio l'uomo. Era un tipo attraente sulla cinquantina. Aveva la barba ben curata e sopracciglia folte che si toccavano sopra la radice del naso. Notò che sul collo — e anche sul petto — aveva delle profonde cicatrici e che aveva la mano sinistra deforme. Tuttavia niente di tutto questo aveva importanza, visto che possedeva la caratteristica che più lo rendeva affascinante agli occhi di Cheryl: amava i cavalli. Cheryl Marston, che aveva trentotto anni e quattro anni prima aveva divorziato, si rese conto che lei e l'uomo si stavano studiando con interesse. Lui emise una debole risata e distolse lo sguardo. «Mi stavo...» La sua voce sfumò e lui riempì il silenzio dando qualche pacca sulla spalla di Donny Boy. Lei inarcò un sopracciglio. «Sì?» gli chiese incoraggiante. «Be', dal momento che lei sta per allontanarsi cavalcando verso il tramonto, potrei non rivederla più...» Mise da parte la timidezza e continuò: «Mi stavo chiedendo se sarebbe fuori luogo invitarla a prendere un caffè». «Non sarebbe per niente fuori luogo», rispose lei, apprezzando il suo
approccio diretto. Ma aggiunse, per dirgli qualcosa di sé: «Sto per finire la mia ora. Mi restano ancora una ventina di minuti... Devo risalire in sella, per così dire. Lei che impegni ha?» «Tra venti minuti andrà benissimo. L'aspetterò alla stalla.» «Bene», disse Cheryl. «Oh, non gliel'ho ancora chiesto: lei cavalca all'inglese o all'americana?» «Per lo più cavalco senza sella. Un tempo ero un professionista.» «Davvero? E dove?» «Che ci creda o no», rispose lui timidamente, «lavoravo in un circo.» 14 Un debole suono giunse dal computer di Cooper per indicare che aveva ricevuto un'e-mail. «Un messaggio da parte dei nostri amici del Nono e della Pennsylvania.» Decrittò l'e-mail del laboratorio dell'FBI e disse: «I risultati delle analisi sull'olio. È disponibile in commercio con il nome di Tack-Pure. Viene usato per ammorbidire selle, redini, sacchetti di cuoio per la biada e altri oggetti relativi al mondo equestre.» Cavalli... Rhyme fece voltare la sua Storm Arrow e osservò la lavagna delle prove. «No, no, no...» «Cosa c'è?» domandò Amelia. «Gli escrementi sulle scarpe del Negromante.» «Sì?» «Non sono di cane. Ma di cavallo! Guarda la vegetazione. A cosa diavolo stavo pensando? I cani sono carnivori. Non mangiano erba e fieno... Okay, riflettiamo. Il terriccio e il lichene e le altre prove indicavano Central Park. E i peli... Conoscete quella zona, la collinetta dei cani? Anche quella è nel parco.» «È proprio dall'altra parte della strada», fece notare Sellitto. «Dove tutti portano a passeggio i loro cani.» «Kara», esclamò Rhyme, «il Cirque Fantastique ha dei cavalli?» «No», rispose la giovane donna. «Non ha numeri con animali.» «Okay, quindi dobbiamo eliminare il circo... Che cosa potrebbe avere in mente? La collinetta dei cani si trova proprio accanto al sentiero da equitazione, giusto? Forse è un azzardo, ma il Negromante potrebbe andare a cavallo o aver tenuto d'occhio qualcuno che va a cavallo. Ecco chi potrebbe
essere un bersaglio. Forse non la sua prossima vittima, ma partiamo dal presupposto che lo sia... perché questa è la nostra unica, dannatissima pista valida.» Sellitto chiese: «C'è una stalla da qualche parte nelle vicinanze, vero?» «Devo averla vista», disse Amelia. «Credo che sia all'altezza dei numeri ottanta.» «Scoprite dov'è esattamente», ordinò Rhyme. «E mandate lì degli agenti.» Amelia lanciò un'occhiata all'orologio. Era l'una e trentacinque. «Be', abbiamo un po' di tempo. Due ore e mezza prima della prossima vittima.» «Bene», disse Sellitto. «Manderò delle squadre di sorveglianza al parco e alla stalla. Se saranno pronte per le due e mezza, avremo abbastanza tempo per individuare l'assassino.» Poi Rhyme notò che Kara si era accigliata. «Cosa c'è?» le chiese. «Sa, non sono così sicura che abbiate davvero tutto questo tempo.» «Perché?» «Ricorda quello che le ho spiegato a proposito della diversione?» «Certo.» «Be', esistono anche diversioni temporali. Servono a ingannare il pubblico portandolo a pensare che qualcosa succederà in un certo momento quando invece succederà in un altro. Un illusionista ripete un'azione a intervalli regolari. Inconsciamente gli spettatori arrivano a credere che quell'azione debba accadere solo in uno di quei momenti. Invece l'artista abbrevia l'intervallo che intercorre tra quei momenti. In questo modo il pubblico smette di prestare attenzione e non si accorge di ciò che l'illusionista sta facendo. Potete individuare una diversione temporale perché in questo caso l'illusionista fa sempre sapere al pubblico quale sarà l'intervallo.» «Come ha fatto il Negromante rompendo gli orologi?» domandò Amelia. «Esattamente.» Rhyme chiese: «Allora non pensi che abbiamo tempo fino alle quattro?» Kara scrollò le spalle. «È possibile. Forse l'assassino ha in programma di uccidere tre persone ogni quattro ore e poi di uccidere la sua quarta vittima solo un'ora più tardi. Non lo so.» «Qui nessuno di noi sa qualcosa con certezza», disse Rhyme con decisione. «Tu che cosa ne pensi, Kara? Che cosa faresti?» La giovane donna fece una risata nervosa al pensiero di dover entrare nella mente dell'assassino. Dopo un momento di attenta riflessione, rispo-
se: «Sa che avete trovato gli orologi, ormai. Sa che siete in gamba. Non ha bisogno di ribadire oltre il concetto. Se fossi in lui, farei in modo di uccidere la mia prossima vittima prima delle quattro. Credo che dobbiamo individuarlo subito». «Per me va bene», concordò Rhyme. «Lasciamo perdere le squadre di sorveglianza e muoviamoci. Lon, chiama Haumann e fa' venire l'UE a Central Park. In forze.» «Potremmo metterlo in allarme, Linc, se è travestito e sta studiando la sua vittima.» «Credo che dobbiamo correre questo rischio. Di' all'UE che stiamo cercando... chi può dire cosa diavolo stiamo cercando? Fornisci a Haumann una descrizione generica, la migliore che riesci a mettere insieme.» Killer cinquantenne, custode sessantenne, eccentrica signora settantenne... Cooper distolse lo sguardo dal monitor del computer. «Ho trovato la stalla. È l'Accademia Ippica Hammerstead.» Bell, Sellitto e Amelia si avviarono verso la porta. Kara intervenne: «Voglio venire con voi». «No», disse Rhyme. «Potrebbe esserci qualcosa che solo io posso notare. Un atto di trasformismo o un trucco di destrezza di qualcuno nella folla. Io potrei accorgermene.» Con un cenno del capo indicò i poliziotti. «Loro no.» «No. È troppo pericoloso. Niente civili durante un'operazione tattica. Questa è la regola.» «Non mi importa delle regole», ribatté la giovane, chinandosi coraggiosamente verso Rhyme. «Posso essere d'aiuto.» «Kara...» Ma lei lo zittì lanciando un'occhiata alle fotografie dei cadaveri di Tony Calvert e di Svetlana Rasnikov e poi tornando a guardarlo con un'espressione fredda negli occhi. Con quel semplice gesto gli ricordò che era stato lui a volerla lì, che era stato lui a portarla nel suo mondo e a trasformarla in una persona capace di guardare quegli orrori senza battere ciglio. «D'accordo», disse Rhyme. Poi fece un cenno ad Amelia e aggiunse: «Non perderla d'occhio». Era cauta, notò Malerick, come si addiceva a una donna che aveva appena conosciuto un uomo a Manhattan, benché quello sconosciuto fosse timido, amichevole e capace di calmare cavalli imbizzarriti.
Tuttavia, Cheryl Marston si stava a poco a poco rilassando e cominciava a godersi i racconti sul circo che Malerick abbellì considerevolmente allo scopo di divertirla e farle abbassare la guardia ancora di più. Dopo che la stalliera e il veterinario di turno all'Hammerstead avevano esaminato Donny Boy e lo avevano dichiarato in perfetta salute, Malerick e la sua prossima, inconsapevole artista lasciarono la stalla e si recarono in un ristorante poco lontano da Riverside Drive. Ora la donna chiacchierava amabilmente con John (il personaggio che lui stava interpretando per quell'appuntamento) della sua vita in città, del suo precoce amore per i cavalli, degli animali che aveva avuto o cavalcato, delle sue speranze di comprare una casa per le vacanze a Middleburg, in Virginia. Lui rispondeva di tanto con piccoli aneddoti sui cavalli — basandosi in parte su ciò che riusciva a estrapolare dai discorsi di lei, in parte sulla sua esperienza nel mondo del circo e dell'illusionismo. Gli animali hanno sempre ricoperto un ruolo importante nella professione del mago. Venivano ipnotizzati, fatti svanire, tramutati in esemplari di specie diverse. Nell'Ottocento, un illusionista aveva creato un numero estremamente popolare trasformando in un istante un pollo in un'anatra. (Il metodo era di una semplicità estrema: l'anatra arrivava sul palco camuffata da pollo.) I numeri in cui si uccidevano e si resuscitavano gli animali erano stati molto popolari in tempi meno politicamente corretti benché gli animali venissero feriti raramente durante lo svolgimento; dopotutto, solo un illusionista inetto uccide un animale per creare l'illusione che sia morto. E questo tipo di metodo è anche molto costoso. Per il numero con cui quel giorno a Central Park aveva preso in trappola Cheryl Marston, Malerick aveva tratto ispirazione dai trucchi di Howard Thurston, un popolare illusionista dei primi del Novecento che si era specializzato in numeri con gli animali. Il trucco che Malerick aveva usato non avrebbe incontrato l'approvazione di Thurston, però: il famoso illusionista aveva trattato gli animali nei suoi spettacoli come se fossero stati assistenti umani se non addirittura membri della sua famiglia. Malerick non era stato così gentile. Aveva catturato un piccione a mani nude. Poi lo aveva girato sulla schiena e gli aveva accarezzato il collo e i fianchi fino a ipnotizzarlo: una tecnica che i maghi usano da sempre per creare l'illusione di un uccello morto. Quando Cheryl Marston si era avvicinata a cavallo, Malerick aveva scagliato il piccione con forza contro il muso dell'animale. Il dolore e la paura di Donny Boy però non avevano niente a che fare con il piccione, ma erano stati causati da un generatore di ultrasuoni regolato
su una frequenza che solo le orecchie dei cavalli potevano percepire. Quando Malerick era sbucato dai cespugli per «salvare» Cheryl, aveva spento il generatore e quando aveva afferrato le briglie il cavallo aveva già cominciato a calmarsi. Ora, poco alla volta, la cavallerizza si stava facendo sempre meno cauta nello scoprire che avevano tante cose in comune. O almeno, questo era ciò che lui le stava facendo credere. Questa illusione era dovuta all'uso del mentalismo, che, pur non essendo una delle specialità di Malerick, era comunque un campo in cui era più che competente. Il mentalismo non ha niente a che fare con la telepatia, naturalmente. È una combinazione di tecniche meccaniche e psicologiche usata per dedurre fatti. Malerick, ora, stava facendo ciò che solo i migliori mentalisti fanno: stava leggendo il corpo, l'esatto contrario della lettura del pensiero. Stava prestando attenzione ai più piccoli cambiamenti della postura di Cheryl, delle espressioni del suo viso e dei suoi gesti, in risposta ai commenti fatti da lui. Alcuni gli dicevano che si stava allontanando dai pensieri della donna, altri invece che stava centrando l'obiettivo. Accennò, per esempio, a un amico che aveva appena divorziato e non gli fu difficile capire che anche lei era una donna divorziata, e che era stato il marito a lasciarla. Così, facendo una smorfia, Malerick le disse che anche lui aveva divorziato, che sua moglie si era trovata un amante e lo aveva lasciato. La cosa lo aveva distrutto ma ora stava cominciando a riprendersi. «Ho rinunciato persino a una barca», disse lei amaramente, «pur di tagliare i ponti con quel figlio di puttana. Una barca a vela di sette metri.» Malerick si servì anche dell'«effetto Barnum» per convincerla che avessero in comune molte cose. Il classico esempio di effetto Barnum è un mentalista che scruta il soggetto e poi dice in tono grave: «Sento che tu la maggior parte del tempo sei estroverso ma che a volte ti senti piuttosto timido». Il che viene interpretato come un commento molto profondo, ma che naturalmente è applicabile a quasi chiunque al mondo. Né «John» né Cheryl avevano figli. Entrambi amavano i gatti, avevano genitori divorziati ed erano appassionati di tennis. Ma quante coincidenze! Sembriamo fatti l'uno per l'altra. È quasi ora, pensò Malerick. Tuttavia non aveva fretta. Se anche la polizia avesse trovato qualche traccia su ciò che aveva intenzione di fare, gli investigatori avrebbero pensato che avrebbe ucciso soltanto alle quattro e adesso erano le due passate da poco.
Potreste pensare, Riveriti Spettatori, che il mondo dell'illusionismo non interagisca mai con la realtà, ma questo non è del tutto vero. Penso a John Mulholland, noto mago ed editor di una rivista di magia, La Sfinge. Negli anni Cinquanta, improvvisamente, ha annunciato la sua intenzione di ritirarsi dalla magia e dal giornalismo. Nessuno capiva perché ma poi le voci sono cominciate — voci secondo le quali aveva iniziato a lavorare per l'intelligence americana insegnando alle spie come usare trucchi di magia per somministrare droghe in modo talmente invisibile che nemmeno il comunista più paranoico si sarebbe mai accorto di nulla. Che cosa vedete nelle mie mani, Riveriti Spettatori? Guardate bene le mie dita. Non notate niente, giusto? Sembrano vuote. Eppure, come probabilmente avrete indovinato, non lo sono affatto... Ora, usando una delle tecniche migliori di Mulholland per drogare qualcuno, Malerick sollevò il cucchiaino con la mano sinistra. Con aria assorta, picchiettò con la posata sul tavolo, attirando l'attenzione di Cheryl. Soltanto una frazione di secondo. Ma aveva dato a Malerick il tempo di svuotare nel caffè di lei una minuscola capsula di polvere insapore mentre con l'altra mano prendeva lo zucchero. John Mulholland sarebbe stato fiero di lui. Dopo qualche istante, Malerick notò che la droga stava già facendo effetto: Cheryl aveva gli occhi leggermente appannati e ondeggiava sulla sedia. Tuttavia lei non si rese conto di niente. Era quello l'aspetto migliore del flunitrazepam, altrimenti noto come Roipnol, la famosa pillola dello stupro: la vittima non capiva di essere stata drogata. O almeno non lo capiva fino al mattino dopo. Il che nel caso di Cheryl Marston non era un problema. Malerick la guardò e sorrise. «Ehi, vuoi sapere una cosa?» «Cosa?» domandò lei intontita. Batté le palpebre, e fece un ampio sorriso. Lui pagò il conto, poi le disse: «Ho appena comprato una barca». Lei rise entusiasta. «Una barca? Io adoro le barche. Di che tipo?» «Una barca a vela. Di dodici metri. Io e mia moglie ne avevamo una», aggiunse Malerick in tono triste, «ma dopo il divorzio l'ha tenuta lei.» «Oh, no, John, stai scherzando!» esclamò lei ridendo stordita. «Anche io e mio marito ne avevamo una! E lui si è preso la nostra dopo il divorzio.» «Davvero?» Lui rise e si alzò. «Be', facciamo due passi fino al fiume. Da lì potrai vederla.» «Mi piacerebbe moltissimo.» Si alzò malferma sulle gambe e si aggrap-
pò al braccio di lui. Lui l'aiutò a uscire dal locale. Il dosaggio sembrava giusto. Cheryl era docile ma non avrebbe perso i sensi prima che lui l'avesse portata ai cespugli vicino all'Hudson. Si diressero verso Riverside Park. «Stavi parlando di barche», disse lei con voce impastata. «Esatto.» «Io e il mio ex marito ne avevamo una», ripeté la donna. «Lo so», disse Malerick. «Me lo hai già detto.» «Oh, davvero?» rise Cheryl. «Aspetta. Devo prendere una cosa.» Si fermò alla sua auto, una Mazda rubata, e dai sedili posteriori prese una pesante borsa sportiva, quindi chiuse la macchina. Dall'interno della borsa giunse un forte rumore metallico. Cheryl la guardò, fece per parlare ma poi si dimenticò ciò che aveva intenzione di chiedere. «Da questa parte.» Malerick la condusse in fondo alla strada, oltre un ponte pedonale che passava sopra la strada alberata, e poi giù fino alla sponda del fiume deserta e invasa dalla vegetazione. Liberò il braccio da quello di lei e l'afferrò saldamente, circondandole la schiena con il braccio. Con la mano le sfiorò un seno mentre lei appoggiava la testa sulla sua spalla. «Guarda», mormorò lei indicando vagamente l'Hudson le cui acque azzurro scuro erano solcate da decine di yacht e barche a vela. Malerick disse: «La mia barca è laggiù». «Mi piacciono le barche.» «Anche a me», mormorò lui. «Davvero?» chiese lei e sussurrando aggiunse che anche lei e il suo ex marito ne avevano avuta una. Purtroppo l'aveva tenuta lui dopo il divorzio. Che combinazione. 15 L'Accademia Ippica era un angolo di vecchia New York. Sentendo il forte odore della stalla, Amelia Sachs guardò attraverso un ingresso ad arco l'interno del vecchio edificio di legno. C'erano diverse persone a cavallo e tutte, con i loro pantaloni beige, le giacche nere o rosse e i cap di velluto, avevano un'aria solenne. Una decina di agenti in uniforme venuti dal Ventesimo Distretto, il più
vicino, si trovavano dentro e fuori l'edificio. Altri agenti erano nel parco sotto il comando di Lon Sellitto, distribuiti attorno al sentiero da equitazione, in cerca della loro elusiva preda. Amelia e Bell entrarono nell'ufficio e il detective mostrò il distintivo dorato alla donna che sedeva dietro il bancone. La donna lanciò un'occhiata agli agenti che aspettavano fuori e chiese, a disagio: «Sì? C'è qualche problema?» «Signora, qui usate olio Tack-Pure per trattare le selle e i finimenti di cuoio?» Lei guardò un assistente che annuì. «Sissignore, lo usiamo. Ne usiamo molto.» Bell continuò: «Abbiamo trovato tracce di Tack-Pure e di sterco di cavallo sulla scena di un delitto, oggi. Pensiamo che il sospetto possa lavorare qui o forse stia dando la caccia a uno dei vostri impiegati o a uno dei vostri clienti». «No! Chi?» «Di questo non siamo molto sicuri, mi dispiace. E non siamo nemmeno sicuri dell'aspetto del criminale. Sappiamo soltanto che è di corporatura media. Sulla cinquantina. Bianco. Potrebbe avere la barba o i capelli castani, ma non ne siamo sicuri. Potrebbe avere le dita della mano sinistra deformi. Abbiamo bisogno che parli con i suoi impiegati e con i clienti abituali se sono rintracciabili e che scopra se hanno notato qualcuno che corrisponda a questa descrizione. O qualcuno che potrebbe rappresentare una minaccia.» «Naturalmente», disse la donna esitante. «Farò il possibile. Certo.» Bell prese con sé diversi agenti in uniforme e scomparve oltre una vecchia porta nell'arena dal pavimento coperto di segatura. «Faremo una perquisizione», disse ad Amelia prima di andarsene. La donna poliziotto annuì e guardò fuori dalla finestra per controllare Kara che sedeva da sola sull'auto di Sellitto, parcheggiata lungo il ciglio della strada dietro alla Camaro giallo scuro di Amelia. La giovane non era felice di essere stata confinata in macchina ma Amelia era stata intransigente: non doveva correre alcun pericolo. Robert-Houdin aveva trucchi più stupefacenti di quelli dei marabutti. Se non sbaglio, però, loro lo hanno quasi ucciso. Non preoccuparti. Farò in modo che questo a te non accada. Controllò velocemente l'ora; erano le due. Con la radio chiamò la Centrale e si fece mettere in collegamento con il telefono di Rhyme. Un attimo
dopo, udì la voce del criminologo. «Sachs, le squadre di Lon non hanno notato niente di strano a Central Park. Tu hai avuto più fortuna?» «La direttrice sta parlando con i dipendenti e i clienti dell'Accademia. Roland e la sua squadra stanno perquisendo le stalle.» In quel momento scorse la direttrice in mezzo a un gruppo di impiegati. Sui loro volti si notavano espressioni accigliate e preoccupate. Una ragazza dal volto rotondo e dai capelli rossi si coprì all'improvviso la bocca con la mano, sconvolta. Cominciò ad annuire. «Aspetta un momento, Rhyme. Potrebbe esserci qualcosa.» La direttrice fece cenno ad Amelia di avvicinarsi e la ragazza disse: «Insomma, non so se possa essere importante, ma c'è una cosa». «Come ti chiami?» «Tracey?» rispose come se stesse ponendo una domanda. «Faccio la stalliera qui?» «Continua.» «Be', il fatto è che c'è una cliente che viene ogni sabato. Cheryl Marston.» Rhyme gridò nell'orecchio di Amelia: «Sempre alla stessa ora? Chiedile se viene sempre alla stessa ora ogni settimana». Amelia riferì la domanda. «Oh, sì, certo», rispose la ragazza. «È puntuale, sì, insomma, come un orologio. È nostra cliente da anni.» «Le persone con abitudini regolari sono i bersagli più facili. Dille di continuare», intervenne il criminologo. «Cosa mi sai dire di lei, Tracey?» «Oggi è tornata dalla cavalcata? Mezz'ora fa? Circa mezz'ora fa? E, insomma, mi ha restituito Don Juan, il suo cavallo preferito e ha chiesto a me e al veterinario di controllarlo con attenzione perché un uccello gli è andato a sbattere sul muso e lo ha spaventato. Insomma, noi stiamo dando un'occhiata al cavallo e lei mi dice che è arrivato un tizio che ha calmato Donny. Noi le diciamo che Donny sta bene e lei continua a parlare di questo tizio, bla bla bla, e di com'era interessante e del fatto che è tutta eccitata perché andrà a prendere un caffè con lui e del fatto che potrebbe essere un vero uomo che sussurra ai cavalli. Io l'ho visto giù che l'aspettava. E, insomma, mi sono chiesta ma che cos'ha alla mano? Perché la teneva come nascosta. Sembrava che avesse solo tre dita.» «È lui!» esclamò Amelia. «Sai dirmi dov'erano diretti?» La ragazza indicò un punto a ovest lontano dal parco. «Da quella parte,
credo. Ma non ha detto esattamente dove.» «Fatti dare una descrizione», ordinò Rhyme. La ragazza spiegò che l'uomo aveva la barba e che aveva delle strane sopracciglia. «Erano come unite.» Per alterare i tratti del volto si devono modificare le sopracciglia. Cambiate le sopracciglia e il volto si trasforma per il sessanta per cento. «Com'era vestito?» chiese Amelia. «Aveva una giacca a vento, scarpe da ginnastica e pantaloncini da jogging.» «Di che colore?» «La giacca e i pantaloncini erano scuri. Blu o neri. Non ho visto la maglietta.» Bell tornò con i suoi agenti e borbottò: «Non abbiamo trovato niente». «Qui abbiamo una pista.» Gli riferì della cavallerizza e dell'uomo con la barba, quindi chiese alla ragazza: «Sei proprio sicura che non conoscesse l'uomo?» «Sicurissima. La signorina Marston e io ci conosciamo da un bel pezzo e mi ha detto che non esce con nessuno. Non si fida più degli uomini. Il suo ex marito la tradiva e dopo il divorzio si è preso la loro barca a vela. E la cosa non le è ancora andata giù.» Gli illusionisti più esperti, amici miei, programmano l'ordine e il ritmo dei loro numeri con grande attenzione per rendere la messinscena il più coinvolgente possibile. Nel nostro terzo numero di oggi, per prima cosa abbiamo visto la nostra prima illusione con gli animali, di cui è stato protagonista Donny Boy, il cavallo-meraviglia, a Central Park. Poi abbiamo rallentato il ritmo con un classico gioco di destrezza della mano unito a un tocco di mentalismo. E ora stiamo per passare all'escapologia. Vedremo quella che è forse la più famosa fuga di Harry Houdini. In questo numero, che Houdini ha messo a punto personalmente, l'illusionista veniva legato, appeso per i piedi e immerso in una stretta vasca d'acqua. Aveva solo pochi minuti per cercare di piegarsi verso l'alto, liberarsi le caviglie e aprire la chiusura della vasca prima di annegare. La vasca, naturalmente, era «preparata». Le sbarre che apparentemente dovevano impedire al vetro di andare in frantumi servivano in realtà come appigli per permettere al mago di arrivare alle caviglie. I lucchetti ai suoi piedi e sulla chiusura stessa della vasca avevano serrature a scatto che
immediatamente liberavano le caviglie e il coperchio. Nella nostra reinvenzione del numero del famoso escapologista, è quasi inutile dirlo, non ci saranno queste comodità. La nostra artista potrà contare sulle sue sole forze. E io ho personalmente aggiunto qualche mia variante. Tutto per il vostro intrattenimento, naturalmente. E ora, per gentile concessione del signor Houdini: la Tortura della Cella d'Acqua. Senza barba e con indosso un paio di pantaloni di cotone cachi e una camicia bianca sopra una T-shirt bianca, Malerick strinse con forza le catene attorno a Cheryl Marston. Prima le circondò le caviglie, quindi il petto e le braccia. Fece una pausa e si guardò di nuovo attorno, e vide che gli spessi cespugli li nascondevano dalla strada e dal fiume. Erano sulla riva del fiume Hudson accanto a una piccola pozza di acqua stagnante che a quanto pareva un tempo era stata una stretta insenatura per piccole imbarcazioni. Terra e detriti l'avevano chiusa molto tempo prima, creando quella maleodorante pozza di circa tre metri di diametro. Su un lato c'erano i resti di un molo, al centro del quale stava un gru arrugginita che era stata usata per togliere le barche dall'acqua. Malerick gettò una corda sul braccio della gru, stringendone la cima in un cappio, quindi cominciò a legare l'altra estremità alle catene che intrappolavano i piedi di Cheryl. Gli escapologisti amano le catene. Fanno molta scena e possiedono una fantastica aura sadica e sembrano molto più resistenti della seta e delle corde. Inoltre sono pesanti: lo strumento ideale per tenere legato un'artista sott'acqua. «No, no, noooo», gemette la donna stordita. Lui le accarezzò i capelli controllando le catene. Semplici e strette. Houdini aveva scritto: «Per quanto strano questo possa apparire, ho scoperto che più una trappola è spettacolare agli occhi del pubblico meno difficile è liberarsi». Era vero, Malerick lo sapeva per esperienza personale. Fitte masse di corde e di catene dall'aria drammatica legate ancora e ancora attorno all'illusionista erano in realtà facili da sciogliere. Costrizioni più semplici ed essenziali risultavano molto più difficili. Come quelle, per esempio. «Nooooooo», gemette la donna. «Mi fai male. Ti prego!... Cosa stai...?» Malerick le chiuse la bocca con un pezzo di nastro adesivo. Poi si assicurò di avere una salda presa sulla corda e cominciò a tirarla lentamente.
La corda sollevò i piedi dell'avvocato mugolante e prese a trascinarla inesorabilmente verso l'acqua putrida. In quello stupendo pomeriggio di primavera, una fiera riempiva la grande piazza centrale del West Side College tra la Settantanovesima e l'Ottantesima strada, così affollata di visitatori che sarebbe stato praticamente impossibile individuare l'assassino e la sua vittima in mezzo a tutta quella gente. In quello stupendo pomeriggio di primavera, i ristoranti e le caffetterie del quartiere erano piene di avventori e in uno qualunque di quei locali, in quel momento, forse il Negromante stava invitando Cheryl Marston a fare un giro in macchina con lui o le stava chiedendo di poter salire a casa da lei. In quello stupendo pomeriggio di primavera, cinquanta vicoli si snodavano tra gli isolati offrendo con il loro buio isolamento il luogo ideale per commettere un omicidio. Amelia, Bell e Kara correvano su e giù per le strade setacciando la fiera, i ristoranti e i vicoli. E qualsiasi altro luogo venisse loro in mente. Non trovarono niente. Finché, alcuni disperati minuti più tardi, ci fu una svolta. I due poliziotti e Kara entrarono nell'Ely's Coffe Shop, nei pressi della Riverside Drive, e scrutarono la folla. Amelia mise una mano sul braccio a Bell indicandogli con un cenno del capo il registratore di cassa accanto al quale c'erano un cap di velluto nero e uno sporco frustino di cuoio. Amelia corse dal direttore, un mediorientale dalla carnagione scura. «Questi li ha lasciati qui una donna?» «Sì, dieci minuti fa. Era...» «Era con un uomo?» «Sì.» «Un uomo con la barba, in tenuta da jogging?» «Sono loro. La donna si è dimenticata il cappello e la frusta sul pavimento accanto al tavolino.» «Ha visto da che parte sono andati?» «Ma cosa succede? C'è...» «Dove?» insistette Amelia. «Ecco, ho sentito che lui le diceva che voleva mostrarle la sua barca. Ma spero che l'abbia accompagnata a casa.» «Che intende dire?» domandò Amelia.
«La donna non si sentiva bene. Penso che sia per questo che si è dimenticata la sua roba.» «Non si sentiva bene?» «Faceva fatica a camminare. Sembrava ubriaca anche se avevano bevuto solo un caffè. E stava benissimo quando sono arrivati qui.» «L'ha drogata», sussurrò Amelia a Bell. «Drogata?» chiese il direttore. «Ehi, ma che succede?» «A quale tavolo erano seduti?» Il direttore le indicò un tavolo a cui sedevano quattro donne che mangiavano e chiacchieravano rumorosamente. «Scusate», disse Amelia e fece un rapido esame del tavolino, ma non trovò alcuna traccia evidente né sopra né sotto. «Dobbiamo andare a cercarla», disse a Bell. «Se ha parlato di una barca, andiamo a ovest. Verso l'Hudson.» Amelia fece un cenno per indicare il punto in cui si erano seduti il Negromante e Cheryl. «Questa è una scena del crimine: non pulisca né il tavolo né il pavimento sotto il tavolo. E faccia spostare le signore», gridò indicando le quattro donne dagli occhi sgranati e improvvisamente silenziose, poi corse fuori nella luce abbagliante del pomeriggio. 16 Vide suo marito piangere. Lacrime di rimpianto per aver dovuto «far finire il matrimonio». Far finire il matrimonio. Come portare fuori la spazzatura. Portare il cane a fare una passeggiata. Era il nostro fottuto matrimonio! Non era una cosa. Ma Roy non la pensava così. Roy voleva una tozza viceanalista dei sistemi di sicurezza più di quanto volesse lei, e questo era quanto. Un altro fiotto soffocante di acqua viscida le invase le narici. Aria, aria, aria... Datemi dell'aria! Poi Cheryl Marston vide suo padre e sua madre a Natale, molti anni prima, mentre timidamente spingevano la bicicletta che Babbo Natale le aveva portato dal Polo Nord. Guarda, tesoro, Babbo Natale ti ha portato persino un casco rosa per proteggere la tua graziosa testolina... «Ahhhhhh...» Tossendo e singhiozzando, stretta dalle catene, Cheryl venne tirata fuori
dall'acqua limacciosa e putrida della pozza, a testa in giù, girando pigramente su se stessa, sollevata da una corda fissata al braccio della gru che si sporgeva sopra l'acqua. Le pulsava la testa per l'afflusso di sangue. «Basta, basta, basta!» gridò senza voce. Cosa stava succedendo? Ricordava Donny Boy che si impennava, qualcuno che lo calmava, un uomo gentile, un caffè in un ristorante greco, una conversazione, qualcosa che aveva a che fare con le barche, poi il mondo si era smarrito in una spirale di stordimento, di sciocche risate. E poi le catene. E quell'acqua disgustosa. Adesso l'uomo la stava guardando morire con compiaciuta curiosità. Chi è? Perché lo sta facendo? Perché? La forza d'inerzia la fece ruotare lentamente su se stessa e lui non riuscì più a vedere i suoi occhi disperati, che scorsero invece in lontananza l'orizzonte caliginoso del New Jersey, al di là del fiume. Ruotò lentamente in senso inverso finché non si ritrovò a guardare i rovi e i lillà. E lui. L'uomo la scrutò con attenzione, annuì, quindi fece scorrere la corda, abbassandola nuovamente in quella pozza disgustosa. Cheryl si piegò con tutte le sue forze all'altezza della vita, cercando disperatamente di allontanarsi dalla superficie dell'acqua, come se fosse stata bollente. Ma il suo stesso peso unito al peso delle catene la trascinò giù, al di sotto della superficie. Trattenendo il fiato, si dimenò con forza e scosse la testa, cercando inutilmente di liberarsi dal metallo che non poteva spezzare. Poi il marito riapparve davanti a lei, spiegandole, spiegandole, spiegandole, perché il divorzio sarebbe stata la cosa migliore che le potesse capitare. Roy sollevò lo sguardo, si asciugò le lacrime da coccodrillo dagli occhi e disse che era davvero la cosa migliore. Che lei sarebbe stata più felice così. Guarda, ho una cosa per te. Roy aprì una porta e le mostrò una nuova e scintillante bicicletta Schwimm. Nastri colorati che decoravano il manubrio, rotelline fissate alle ruote posteriori e un casco — un casco rosa — per proteggere la sua graziosa testolina. Cheryl si arrese. Hai vinto tu, hai vinto tu. Prenditi la stramaledetta barca, prenditi la tua stramaledetta ragazza. Lasciami andare e basta, lasciami in pace. Trasse un respiro col naso per lasciare che il conforto della morte le riempisse i polmoni. «Laggiù!» gridò Amelia Sachs.
Lei e Bell attraversarono di corsa il ponte pedonale che portava a un fitto intrico di cespugli e alberi sulla riva dell'Hudson. C'era un uomo in piedi su un molo fatiscente che evidentemente era stato usato per anni, prima che l'accesso al fiume venisse chiuso. L'area era abbandonata, piena di rifiuti e puzzava di acqua stagnante. Un uomo in pantaloni cachi e camicia bianca stava tenendo una corda che passava sulla sommità del braccio di una piccola gru arrugginita. L'altra estremità spariva sotto la superficie dell'acqua. «Ehi, tu», gridò Bell, «fermo!» Certo, l'uomo aveva i capelli castani ma indossava abiti diversi. E non aveva nemmeno la barba. E le sue sopracciglia non erano così folte. Amelia non riusciva a vedere se avesse o meno le dita della mano sinistra fuse insieme. Eppure, che importanza aveva? Il Negromante poteva essere un uomo, poteva essere una donna. Il Negromante poteva essere invisibile. Mentre si avvicinavano di corsa, l'uomo alzò lo sguardo, apparentemente sollevato. «Qui!» gridò. «Venite ad aiutarmi! C'è una donna nell'acqua!» Bell e Amelia lasciarono Kara sul ponte e si precipitarono verso i cespugli che circondavano la pozza d'acqua. «Non fidarti di lui», disse lei senza fiato a Bell mentre correvano. «Ci puoi contare, Amelia.» L'uomo tirò con più forza e dall'acqua emersero i piedi, poi le gambe coperte da pantaloni marroni e infine il corpo di una donna. Era avvolta da catene. Oh, poverina! pensò Amelia. Ti prego, fa' che non sia morta. Coprirono velocemente la distanza che li separava dal molo mentre Bell chiamava rinforzi con la radio. Sul ponte si stava radunando un folto gruppo di persone allarmate da ciò che stava succedendo. «Aiutatemi! Non riesco a sollevarla da solo», gridò l'uomo a Bell e ad Amelia. Era senza fiato per lo sforzo. «C'era un uomo che l'ha legata e l'ha buttata nell'acqua. Ha cercato di ucciderla!» Amelia sfoderò la pistola e la puntò sull'uomo. «Ehi, ma cosa sta facendo?» domandò lui, sconvolto. «Io sto cercando di salvarla!» Abbassò lo sguardo sul cellulare che aveva fissato alla cintura. «Sono stato io a chiamare il 911.» Amelia non riusciva ancora a vedere la sua mano sinistra; era coperta dalla destra. «Tenga le mani su quella corda, signore», disse. «Le tenga dove le posso
vedere.» «Io non ho fatto niente!» Respirava male, producendo uno strano suono. Forse non era colpa dello sforzo, forse soffriva d'asma. Tenendosi lontano dalla linea di fuoco, Bell afferrò la piccola gru e la fece ruotare verso la riva fangosa. Quando la donna fu abbastanza vicino, la tirò a sé mentre l'uomo lasciava andare lentamente la corda. Alla fine la donna giacque sull'erba, cianotica e senza vita. Il detective le tolse il nastro adesivo dalle labbra, la liberò dalle catene e cominciò a praticarle la respirazione bocca a bocca. Rivolgendosi alle numerose persone che si erano radunate nelle vicinanze, Amelia gridò: «C'è un dottore?» Nessuno rispose. Lei tornò a guardare la vittima e vide che si stava muovendo... Vide che stava tossendo e sputando acqua. Sì! L'avevano trovata in tempo. Di lì a un minuto, sarebbe stata in grado di confermare l'identità dell'uomo. Poi sollevò lo sguardo e, poco lontano, notò un fagotto di lucido tessuto blu scuro. Intravide una cerniera lampo e una manica. Poteva trattarsi della giacca da jogging che il Negromante si era tolto per indossare altri vestiti. Gli occhi dell'uomo seguirono il suo sguardo e anche lui vide ciò che aveva notato lei. C'era stata una reazione, una smorfia quasi impercettibile? Ma Amelia non poteva esserne sicura. «Signore», disse in tono deciso, «dovrò ammanettarla, finché non si sarà chiarita la situazione. Mi porga le mani...» All'improvviso, la voce di un uomo in preda al panico gridò: «Ehi, signora, attenta! Quel tizio in tuta da jogging alla sua destra! È armato!» La gente prese a gridare e si gettò a terra e Amelia si accovacciò, girandosi a destra in cerca di un bersaglio. «Roland, fa' attenzione!» Bell si gettò a terra accanto alla donna e guardò nella direzione che gli stava indicando Amelia, impugnando la pistola. Ma Amelia non vide nessuno vestito da jogging. Oh, no, pensò. No! Furiosa con se stessa, capì che cos'era accaduto: era stato l'uomo, a mimare quella voce. Con il ventriloquio. Si voltò velocemente e vide un'abbagliante palla di fuoco esplodere nella mano dell'uomo, che fluttuò nell'aria abbagliandola. «Amelia!» gridò Bell. «Non riesco a vedere niente! Dov'è andato?» «Non lo...» Una rapida serie di colpi di pistola risuonò nel punto in cui si era trovato
il Negromante. I passanti fuggirono in preda al panico mentre Amelia prendeva la mira seguendo quel suono. Bell fece altrettanto. Entrambi strizzarono gli occhi in cerca di un bersaglio, ma quando riuscirono di nuovo a vedere con chiarezza, l'assassino era scomparso: Amelia si accorse di aver puntato la pistola su una vaga nuvola di fumo generata da altri petardi. Poi scorse il Negromante sull'altro lato del viale. Stava correndo in mezzo alla strada ma Amelia vide che un'auto di pattuglia gli si stava avvicinando a sirene spiegate. Il Negromante balzò sull'ampia scalinata che conduceva al college e svanì tra la gente che affollava la fiera, come un serpente velenoso che sparisce nell'erba alta. 17 Erano ovunque... Decine di agenti. E tutti stavano cercando lui. Ansimando per la corsa, i polmoni e i muscoli dei fianchi in fiamme, Malerick si appoggiò alla fredda pietra di uno degli edifici del college. Davanti a lui la grande piazza era occupata dalla fiera invasa dai visitatori. Si lanciò un'occhiata alle spalle nella direzione da cui era arrivato. La polizia aveva già chiuso quell'entrata. Sul lato nord e su quello sud della piazza si ergevano alti edifici di cemento. Le finestre erano sigillate e non c'erano porte. La sua unica via d'uscita era a est, dall'altra parte di quello spiazzo grande come un campo da football affollato di persone e bancarelle. Si incamminò in quella direzione. Ma non osò mettersi a correre. Perché tutti gli illusionisti sanno che i movimenti rapidi attirano l'attenzione. Mentre quelli lenti rendono invisibili. Continuò verso est, chiedendosi come avessero fatto gli agenti a localizzarlo. Naturalmente aveva previsto che sarebbero riusciti a trovare in giornata il cadavere della donna. Ma si erano mossi troppo in fretta, era come se avessero saputo che avrebbe rapito qualcuno proprio in quella parte della città, forse persino all'Accademia Ippica. Come avevano fatto? Sempre a est. Oltre le bancarelle, oltre il baracchino degli hot dog, oltre un complesso dixieland che suonava su un palco decorato con festoni rossi, bianchi e blu.
Davanti a lui c'era l'uscita, la scalinata che dalla piazza portava a Broadway. Altri quindici metri per raggiungere la libertà, altri dieci. Otto... Ma poi vide i lampeggianti. Sembravano luminosi come il cotone lampo che aveva usato per sfuggire all'agente dai capelli rossi. Erano i lampeggianti di quattro auto di pattuglia che si erano fermate accanto alla scalinata. Una decina di agenti in uniforme scesero dalle macchine. Rimasero vicino alle loro vetture, sorvegliando la scalinata. Nel frattempo stavano arrivando altri agenti in borghese. Salirono le scale e si mescolarono alla folla, osservando con particolare attenzione gli uomini. Circondato, Malerick tornò al centro della fiera. Gli agenti in borghese si stavano muovendo lentamente verso ovest. Fermavano tutti gli uomini sulla cinquantina senza barba che indossavano camicie chiare e pantaloni cachi. Esattamente come lui. Ma fermavano anche cinquantenni che avevano la barba ed erano vestiti in modo diverso. Il che significava che erano al corrente della sua abilità di trasformista. Poi scorse ciò che più aveva temuto: la donna poliziotto dagli occhi d'acciaio e dai cappelli rosso fuoco che aveva cercato di arrestarlo vicino al molo comparve in cima alle scale, all'estremità ovest della fiera. La donna cominciò a farsi largo tra la folla. Malerick si voltò e abbassò la testa per dare l'impressione di osservare una bruttissima scultura di ceramica. Si chiese disperatamente che cosa fare. Gli restava un ultimo travestimento sotto quello che stava indossando. Ma oltre a quello non aveva altro. L'agente dai capelli rossi notò qualcuno vestito più o meno come lui e con la stessa corporatura. Esaminò l'uomo con attenzione. Poi si voltò e continuò a scrutare la folla. Il poliziotto snello dai capelli castani che aveva praticato a Cheryl Marston la respirazione bocca a bocca apparve in cima alle scale e raggiunse la donna poliziotto. Discussero per qualche istante. Con loro c'era anche un'altra donna, ma non sembrava della polizia. Aveva brillanti occhi azzurri, capelli rossi-viola ed era piuttosto magra. Guardò la folla e sussurrò qualcosa alla donna poliziotto, che si diresse in un'altra direzione. La ragazza dai capelli corti rimase con il poliziotto e insieme cominciarono a farsi largo tra la folla. Malerick sapeva che presto o tardi sarebbe stato individuato. Doveva
andarsene subito dalla fiera prima che arrivassero altri poliziotti. Raggiunse una fila di toilette chimiche, entrò in una delle cabine e cambiò travestimento. Trenta secondi più tardi era già uscito e stava gentilmente tenendo la porta aperta a una donna di mezza età che esitò e poi si ritrasse, decidendo di aspettare che si liberasse un bagno che non fosse appena stato usato da un biker dalla coda di cavallo e il ventre sporgente che indossava un cappellino Penzoil, un'unta camicia di jeans Harley-Davidson con le maniche lunghe e un paio di sudici jeans neri. Malerick prese un vecchio giornale e lo arrotolò, tenendolo con la mano sinistra per nascondere le dita deformi, quindi si incamminò nuovamente verso il lato est della fiera, fermandosi a guardare di tanto in tanto vetrate colorate, tazze e coppe, giocattoli fatti a mano, cristalli, CD. Un poliziotto lo guardò, ma fu solo una breve occhiata, quindi si voltò. Raggiunse il lato est della fiera. La scalinata che conduceva a Broadway era larga trenta metri e i poliziotti in uniforme erano riusciti a bloccarla quasi completamente. Ora stavano fermando tutti gli uomini e le donne che lasciavano la fiera e chiedevano loro di esibire i documenti. Malerick vide il detective e la ragazza coi capelli viola poco lontano dal baracchino degli hot dog. Lei gli stava sussurrando qualcosa. Possibile che lo avesse notato? Si sentì invadere da una furia incontrollabile. Aveva pianificato con estrema cura ogni aspetto del suo numero, aveva studiato nei minimi particolari la coreografia di ogni trucco, per arrivare al gran finale del giorno successivo. Quel weekend avrebbe dovuto essere il più perfetto numero di illusionismo mai realizzato. E ora rischiava di andare tutto in pezzi. Pensò alla delusione che avrebbe dato al suo mentore. Pensò che avrebbe tradito le aspettative dei suoi Riveriti Spettatori... Si accorse che la mano con cui teneva un piccolo dipinto a olio della Statua della Libertà stava tremando. Tutto questo è inaccettabile! pensò con rabbia. Posò il quadro e si voltò. Ma si fermò di colpo, trattenendo il fiato. La donna poliziotto dai capelli rossi era a pochi metri da lui e stava guardando in un'altra direzione. Malerick si affrettò a spostare lo sguardo su un espositore di gioielli e chiese al venditore, con un pesante accento di Brooklyn, il prezzo di un paio di orecchini. Con la coda dell'occhio vide la donna poliziotto scrutarlo per un istante prima di distogliere lo sguardo e prendere la radio. «Cinque Otto Otto
Cinque. Richiesta di collegamento via terra alla linea telefonica di Lincoln Rhyme.» Un attimo dopo: «Siamo alla fiera, Rhyme. Lui deve essere qui... Non può essere fuggito mentre chiudevamo le uscite. Lo troveremo. Anche se dovessimo perquisire tutti i presenti uno per uno, lo troveremo». Malerick si spostò in mezzo alla folla. Che cosa poteva fare? La diversione sembrava l'unica risposta possibile. Qualcosa che distraesse la polizia per fargli guadagnare i cinque secondi necessari a passare oltre lo sbarramento e scomparire tra i pedoni della Broadway. Ma quale diversione avrebbe potuto dargli il tempo necessario? Aveva finito i petardi con cui simulava i colpi di pistola. Avrebbe potuto dare fuoco a una bancarella? Certo, ma questo non avrebbe causato il tipo di panico di cui adesso aveva bisogno. La rabbia e la paura si impossessarono nuovamente di lui. Ma poi sentì le parole che tanti anni prima gli aveva detto il suo mentore, dopo che lui, ancora ragazzo, aveva commesso un errore sul palco rischiando di rovinare uno dei numeri del maestro. Il demoniaco illusionista con la barba aveva preso da parte il ragazzo dopo lo spettacolo. Questi, prossimo alle lacrime, aveva tenuto gli occhi bassi sul pavimento mentre l'uomo gli chiedeva: «Che cos'è l'illusione?» «È scienza e logica», aveva risposto Malerick senza esitare. (Il suo mentore gli aveva impresso nell'anima centinaia di risposte come quella.) «Scienza e logica, sì. Se accade un imprevisto — a causa tua o del tuo assistente o di Dio in persona — devi usare la scienza e la logica per riacquistare immediatamente il controllo della situazione. Non deve trascorrere nemmeno un secondo tra l'errore e la reazione. Sii coraggioso. Leggi il tuo pubblico. Trasforma il disastro in un applauso.» Ripensando a quella parole, Malerick si calmò. Si sistemò la coda di cavallo da biker, si guardò attorno e rifletté sul da farsi. Sii coraggioso. Leggi il tuo pubblico. Trasforma il disastro in un applauso. Amelia scrutò ancora una volta le persone che la circondavano: una madre e un padre con due bambini annoiati, una coppia di anziani, un biker con una camicia Harley-Davidson, due giovani donne europee che contrattavano con un venditore il prezzo di alcuni gioielli. Notò Bell dall'altra parte della piazza, vicino a un baracchino degli hot dog. Ma dov'era finita Kara? La ragazza avrebbe dovuto restare vicino a
uno di loro. Fece un cenno al detective ma un gruppo di persone passò tra di loro e lei lo perse di vista. Si diresse verso di lui guardandosi attorno e studiando la folla. Si rese conto di sentirsi turbata come si era sentita quella mattina alla scuola di musica, benché il cielo fosse limpido e luminoso e lo scenario che la circondava fosse molto diverso dalla cupa costruzione gotica dove aveva avuto luogo il primo omicidio. Spettrale... Sapeva qual era il problema. Quando si pattugliava un quartiere, o si era in sintonia con l'ambiente circostante o non lo si era. Non si trattava solo di conoscere le persone e la geografia del luogo: si trattava di capire quale fosse la sua energia essenziale, quali criminali ci si potesse aspettare di incontrare, quanto potessero essere pericolosi, come avrebbero aggredito le loro vittime — e i poliziotti. Se non si era in sintonia con un quartiere era inutile pattugliarlo. Con il Negromante, ora Amelia se ne rendeva conto, non aveva la minima sintonia. In quel momento avrebbe potuto essere su un treno della linea 9 diretto in centro oppure a pochi passi da lei, e non se ne sarebbe resa conto. Proprio in quel momento qualcuno passò alle sue spalle. Si sentì accarezzare il collo da un respiro o forse dal lembo di un vestito. Si voltò di scatto rabbrividendo spaventata, la mano sul calcio della pistola, ripensando alla facilità con cui Kara l'aveva distratta per sfilarle l'arma dalla fondina. Intorno a lei c'era una mezza dozzina di persone ma nessuna di loro sembrava aver mosso l'aria alle sue spalle. O forse sì? Un uomo si stava allontanando, zoppicante. Non poteva essere il Negromante. O forse sì? Il Negromante può trasformarsi in un'altra persona nel giro di pochi secondi, ricordi? Vicino a lei: una coppia di anziani, il biker con la coda di cavallo, tre ragazzine, un uomo robusto che indossava un'uniforme della CONED. Amelia era in alto mare, frustrata e spaventata per se stessa e per tutti coloro che vedeva attorno a sé. Nessuna sintonia... Fu allora che le grida di una donna riempirono l'aria.
Una voce disse: «Là! Guardate! Dio, qualcuno sta male». Amelia prese la pistola dalla fondina e si diresse verso il capannello che si stava formando poco lontano. «Chiamate un dottore!» «Cosa succede?» «Oh, Dio, non guardare, tesoro!» Una piccola folla si era radunata attorno al confine est della piazza, non lontano dal baracchino degli hot dog. Tutti, in preda all'orrore, tenevano lo sguardo fisso su qualcuno che giaceva sui mattoni ai loro piedi. Amelia prese il Motorola per chiamare una squadra medica e si fece largo tra la folla. «Fatemi passare, fatemi...» Si fermò di colpo e rimase senza fiato. «No», disse con un filo di voce, rabbrividendo sconvolta davanti a quello spettacolo. Amelia Sachs stava fissando l'ultima vittima del Negromante. Kara giaceva a terra, il sangue che inzuppava il suo top viola e i mattoni attorno a lei. Aveva il capo riverso all'indietro e giaceva immobile, gli occhi morti che fissavano il cielo azzurro. 18 Stordita, Amelia si portò una mano alla bocca. Oh, Signore, no... Robert-Houdin aveva trucchi più stupefacenti di quelli dei marabutti. Se non sbaglio, però, loro lo hanno quasi ucciso. Non preoccuparti. Farò in modo che questo a te non accada. Ma non era riuscita a mantenere la promessa. Si era talmente concentrata sul Negromante che aveva finito per trascurare la ragazza. No, no, Rhyme, ci sono morti che non puoi abbandonare. Non avrebbe mai potuto dimenticare quella tragedia. Ma poi pensò: Ci sarà tempo per il lutto. Ci sarà tempo per le recriminazioni e per le conseguenze. Adesso cerca di pensare come un dannato poliziotto. Il Negromante è vicino. E non riuscirà a fuggire. Questa è una scena del crimine, sai quello che devi fare. Uno. Blocca tutte le vie d'uscita. Due. Proteggi la scena. Tre. Identifica, proteggi e interroga i testimoni. Si voltò verso due agenti di pattuglia per affidare loro quei compiti. Fece
per parlare ma sentì una voce provenire dalla radio. «RMP Quattro Sette a tutti gli agenti disponibili sul dieci-venti-quattro vicino al fiume. Il sospetto ha appena superato il perimetro del confine est della fiera. Adesso è sulla West End e si sta avvicinando alla Sette-otto, si dirige a nord a piedi... Indossa dei jeans, una camicia blu con il logo della Harley-Davidson. Capelli lunghi raccolti a coda di cavallo. Berretto da baseball nero. Nessuna arma visibile... Lo sto perdendo in mezzo alla folla... A tutti gli agenti disponibili, rispondete.» Il biker! Il Negromante si era tolto i vestiti da uomo d'affari ed era passato a quel travestimento. Aveva accoltellato Kara per distrarli, quindi era scivolato oltre il perimetro quando gli agenti si erano avvicinati alla ragazza. E io ero a meno di un metro da lui! Gli altri poliziotti risposero alla chiamata e si lanciarono all'inseguimento anche se, a quanto pareva, il killer aveva un buon vantaggio su di loro. Amelia scorse Roland Bell che teneva lo sguardo basso su Kara, accigliato, mentre si sistemava l'auricolare del Motorola e ascoltava lo stesso messaggio che stava ascoltando Amelia. Lei e Roland si guardarono negli occhi e lui le fece un cenno col capo per dirle di seguire gli altri agenti. Amelia ordinò a un poliziotto vicino a lei di proteggere la scena dell'omicidio di Kara, di chiamare il medico legale e di trovare i testimoni. «Ma...» fece per protestare il giovane agente dai capelli radi, tutt'altro che contento, immaginò Amelia, di prendere ordini da una collega che aveva all'incirca la sua età. «Niente ma», tagliò corto lei, che non era dell'umore di stare a discutere su chi fosse in polizia da più tempo. «Potrai lagnarti con il tuo supervisore più tardi.» Se il poliziotto ribatté qualcosa, Amelia non lo sentì: ignorando le fitte dolorose dovute all'artrite, scese la scalinata due gradini alla volta seguendo Roland Bell e si lanciò all'inseguimento dell'uomo che aveva ucciso la loro amica. È veloce. Ma io sono più veloce. L'agente di pattuglia Lawrence Burke con uno scatto lasciò il Riverside Park e imboccò la West End Avenue a meno di una decina di metri dal criminale, uno stronzo biker con una camicia della Harley. Schivando i passanti, proprio come aveva fatto ai tempi del liceo quando
giocava a football per inseguire il ricevitore. E, proprio come allora, «Gambe Larry» stava guadagnando terreno. Quando aveva sentito la chiamata, si stava dirigendo al fiume Hudson per aiutare a proteggere la scena di un crimine 10-24, si era voltato e per puro caso si era trovato a fissare il criminale, uno sporco biker. «Ehi, tu! Fermo!» Ma lui non si era fermato. Aveva superato Burke e aveva continuato a correre verso nord, in preda al panico. E così, proprio come alla partita di ex alunni del liceo Woodrow Wilson quando aveva rincorso per settantadue iarde Chris Broderick (riuscendo ad atterrarlo a mezzo metro dalla meta), Gambe aveva ingranato la marcia e si era lanciato all'inseguimento del criminale. Burke non estrasse la pistola. Se il sospetto che si sta inseguendo non è armato e non c'è un immediato pericolo che apra il fuoco, non si può usare la pistola per fermarlo. E sparare a qualcuno, a chiunque, alle spalle non farebbe una buona impressione nel corso dell'inchiesta, per non parlare della cattiva pubblicità che si avrebbe sui giornali. «Ehi, tu, brutto stronzo!» ansimò Burke. Il biker raggiunse un incrocio e svoltò a est dopo essersi lanciato un'occhiata alle spalle e aver visto Gambe guadagnare terreno. L'uomo imboccò un vicolo sulla sinistra. Il poliziotto lo seguì senza perdere di vista Mr Harley nemmeno per un secondo. Alcuni dipartimenti di polizia fornivano reti o pistole di stordimento per fermare i sospetti in fuga, ma il Dipartimento di Polizia di New York non era così hi-tech. Comunque in quel caso attrezzature del genere non sarebbero servite. La corsa non era l'unica abilità di Larry Burke. Era bravo anche a placcare i suoi avversari. Quando fu a circa un metro di distanza, spiccò un balzo, ricordandosi di saltare più in alto che poteva e di cercare di usare il corpo dell'altro per attutire la caduta. «Gesù», ansimò il biker quando caddero rovinosamente sul selciato e scivolarono contro una pila di sacchi dell'immondizia. «Dannazione!» ringhiò Burke, sbucciandosi un gomito. «Brutto figlio di puttana.» «Io non ho fatto niente!» ansimò il biker. «Perché mi stavi inseguendo?» «Chiudi il becco.» Burke lo ammanettò e, dal momento che lo stronzo sembrava così portato per la corsa, gli intrappolò le caviglie con un legaccio di plastica. Lo
strinse per bene. Si guardò il gomito sanguinante. «Maledizione, ho perso un pezzo di pelle. Ahi, che male. Brutto stronzo.» «Io non ho fatto niente. Stavo solo facendo un giro alla fiera. Stavo solo...» Burke sputò a terra e trasse qualche profondo respiro. Poi ansimò: «Quale parte di chiudi il becco non hai afferrato? Non ho intenzione di ripetertelo... Cazzo, che male!» Perquisì l'uomo con attenzione e trovò il suo portafogli. Non aveva documenti, soltanto soldi. Strano. Non aveva nemmeno armi né droga, il che era veramente insolito per un biker. «Puoi minacciarmi quanto vuoi, ma voglio un avvocato. Ti farò causa! Se pensi che abbia fatto qualcosa, ti sbagli di grosso, mister.» Ma poi Burke sollevò la camicia e la T-shirt dell'uomo e sbatté le palpebre. Aveva il petto e l'addome segnati da terribili cicatrici. Proprio uno spettacolo spaventoso. Ma la cosa più strana era la borsa che aveva attorno alla vita, come quei marsupi che lui e sua moglie avevano usato quando erano stati in vacanza in Europa. Burke si sarebbe aspettato una mazzetta di banconote ma, no, il tizio stava nascondendo soltanto dei pantaloncini da jogging, un maglione a collo alto, dei pantaloni cachi, una camicia bianca e un telefono cellulare. E — quello era proprio il colmo della stranezza — dei cosmetici. Oltre a una tonnellata di carta igienica appallottolata ficcata nella borsa come se stesse cercando di apparire grasso. Veramente strano... Burke trasse un altro profondo respiro e sfortunatamente inspirò la puzza di spazzatura e urina che impregnava il vicolo. Premette un pulsante sul suo Motorola. «Agente di pattuglia Cinque Due Uno Due a Centrale... Ho catturato il sospetto di quel dieci-due-quattro, passo.» «Ci sono feriti?» «Negativo.» A parte il mio fottuto gomito. «Posizione?» «A un isolato e mezzo dall'inizio della West End, passo. Un attimo, controllo il nome della strada.» Burke raggiunse l'imboccatura del vicolo per leggere la targa e aspettare che i suoi colleghi si facessero vivi. Fu solo in quel momento che l'adrenalina cominciò ad abbandonarlo lasciando posto a una gustosa euforia. Non aveva sparato nemmeno un colpo. E aveva catturato quel figlio di puttana... Stramaledizione, lo faceva sentire bene — quasi bene quanto si era
sentito durante quella partita di dodici anni prima atterrando Chris Broderick che aveva strillato come una ragazzina e aveva sbattuto il muso sul terreno vicino alla meta dopo aver coperto tutto il campo senza sapere che Gambe Larry gli era stato alle calcagna per tutto il tempo. «Ehi, tutto bene?» Bell appoggiò una mano sul braccio di Amelia Sachs. Era rimasta talmente scossa dalla morte di Kara che non riuscì a rispondergli. Annuì, senza fiato per il dolore. Ignorando le fitte alle ginocchia, che correndo si erano fatte più acute, insieme al detective Amelia continuò a percorrere velocemente la West End verso il punto in cui l'agente Burke aveva fermato l'assassino. Amelia si stava chiedendo che vita facesse Kara. Aveva tanti amici? Dei fratelli? Oh, Dio, dovremo informare noi la sua famiglia. No, non noi. Io dovrò farlo. È colpa mia. Questo compito spetta a me. Distrutta dal dolore, si affrettò verso il vicolo. Bell la guardò di nuovo, respirando profondamente per riprendere fiato. Ma almeno avevano preso il Negromante. Anche se in fondo al cuore le dispiaceva di non essere stata lei a catturarlo. Rimpianse di non essersi trovata da sola nel vicolo ad affrontare il Negromante, la pistola stretta in pugno. Forse avrebbe usato prima la Glock del Motorola, colpendolo alla spalla con un unico proiettile. Nei film, i colpi alla spalla erano soltanto ferite superficiali, piccoli inconvenienti, e gli eroi sopravvivevano senza difficoltà. Ma la verità era che anche la più piccola ferita da arma da fuoco cambiava la vita di una persona per molto, molto tempo. Talvolta per sempre. Invece il killer era stato preso e Amelia avrebbe dovuto accontentarsi della condanna per omicidio multiplo. Non preoccuparti, non preoccuparti, non preoccuparti... Kara... Amelia si rese conto di non conoscere nemmeno il suo vero nome. È il mio nome d'arte ma lo uso sempre. Sempre meglio di quello che i miei genitori sono stati così gentili da affibbiarmi. Il fatto di non conoscere quell'informazione la fece quasi scoppiare in lacrime. Si rese conto che Bell le stava dicendo qualcosa. «Ehi, ci sei, Amelia?» Un breve cenno di assenso.
Svoltarono l'angolo sulla Ottantottesima strada, dove l'agente aveva catturato il criminale. Entrambe le imboccature della strada erano presidiate da poliziotti. Bell guardò in fondo all'isolato e notò un vicolo. «Laggiù», disse indicandoglielo. Fece cenno di seguirli a diversi agenti, sia detective in borghese che poliziotti in uniforme. «Okay, andiamo a prenderlo», mormorò Amelia. «Dio, spero che Grady chiederà la pena di morte.» Si fermarono e guardarono il canyon poco illuminato. Il vicolo era deserto. «Ma non era qui?» chiese Bell. «Ha detto Otto-otto, giusto?» disse Amelia. «Un isolato e mezzo dalla West End. Ne sono sicura.» «Anch'io», disse il detective. «Dovrebbe essere questo il posto.» Amelia si guardò attorno. «Non ci sono altri vicoli.» Vennero raggiunti da altri tre agenti. «Abbiamo capito male?» domandò uno di loro. «Il posto è questo oppure no?» Bell prese il Motorola. «Agente Cinque Due Uno Due, rispondi, passo.» Nessuna risposta. «Agente Cinque Due, in che strada ti trovi, passo?» Amelia guardò in fondo al vicolo. «Oh, no.» Si sentì stringere il cuore in una morsa. Corse nel vicolo e, sul selciato vicino a una pila di spazzatura, trovò un paio di manette aperte. Accanto alle manette, un legaccio di plastica che era stato tagliato. Bell si affrettò a raggiungerla. «Si è tolto quelle dannate manette e ha tagliato il legaccio.» Amelia si guardò attorno. «Be', ma allora dove sono?» domandò uno dei poliziotti in un uniforme. «Dov'è Larry?» chiese un altro. «Lo sta inseguendo?» disse qualcun altro. «Forse è in una zona di non ricezione.» «Forse», mormorò Bell. La preoccupazione nella sua voce derivava dal fatto che i Motorola raramente avevano problemi di funzionamento e che le loro capacità di ricezione in città erano migliori di quelle della maggior parte dei telefoni cellulari. Bell chiamò per avvertire di un 10-39, che segnalava la fuga di un sospetto con un agente scomparso o impegnato nell'inseguimento. Chiese alla centrale se ci fossero state altre trasmissioni da Burke e gli fu detto che
no, non ce n'erano state. E non c'erano state nemmeno segnalazioni da parte di terzi di colpi sparati nelle vicinanze. Amelia percorse tutto il vicolo in cerca di prove che potessero suggerirle dove si fosse diretto l'assassino o dove il Negromante potesse aver scaricato il cadavere dell'agente, nel caso fosse riuscito a impadronirsi dell'arma di Burke e a ucciderlo. Ma né lei né Bell trovarono alcuna traccia dell'agente o del criminale. Amelia tornò tra i poliziotti all'imboccatura del vicolo. Che giornata terribile. Due omicidi quella mattina. Poi Kara. E adesso un agente di polizia era scomparso. Con la mano prese l'altoparlante/microfono del suo SP-50. Era ora di sentire Rhyme. Oh, ragazzi. Non voglio fare questa chiamata. Si mise in contatto con la centrale e chiese un collegamento. Mentre aspettava di essere messa in comunicazione con Rhyme, si sentì tirare una manica. Amelia si voltò. Trasse un profondo e sconvolto respiro, il microfono le scivolò di mano e cadde dondolandole dal fianco come un pendolo. Davanti a lei c'erano due persone. Uno era l'agente dai capelli radi a cui Amelia aveva dato ordini una decina di minuti prima. L'altra era Kara, che indossava una giacca a vento del Dipartimento di Polizia di New York. Accigliandosi, la giovane donna si guardò attorno nel vicolo. Chiese: «Allora, dov'è il Negromante?» 19 «Stai bene?» balbettò Amelia. «Ma cosa... Aspetta, cos'è successo?» «Sto bene, certo...» Kara notò lo sguardo attonito di Amelia e disse: «Vuoi dire che non lo sapevi?» L'agente dai capelli radi si rivolse ad Amelia. «Ho cercato di dirtelo. Ma sei scappata prima che potessi aprire bocca.» «Dirmi...?» Amelia si sentì mancare la voce. Era talmente stupefatta — e invasa dal sollievo — che non riusciva a parlare. «Hai pensato che fossi davvero ferita?» chiese Kara. «Oh, mio Dio.» Bell li raggiunse e salutò con un cenno del capo Kara che disse: «Lei non lo sapeva». «Cosa?» «Non sapeva del nostro piano. Il finto accoltellamento.» L'espressione sul volto di Bell fu di puro choc. «Mio Dio, hai pensato che fosse veramente morta?»
L'agente di pattuglia ripeté a Bell: «Ho cercato di informarla. All'inizio non sono riuscito a trovarla, poi quando l'ho rintracciata mi ha detto soltanto di sorvegliare la scena del crimine, di chiamare l'ambulanza e poi se n'è andata». «Roland e io stavamo parlando e abbiamo pensato che il Negromante stesse per ferire veramente qualcuno — che forse avrebbe appiccato un incendio oppure avrebbe sparato o accoltellato qualcuno», spiegò Kara. «Sai, come diversione per depistarci e poter fuggire. Quindi abbiamo deciso di usare per primi la diversione.» «Per far uscire il ragazzo allo scoperto», aggiunse Bell. «Kara ha preso del ketchup al baracchino degli hot dog, se l'è spruzzato addosso, ha urlato ed è caduta.» Kara si abbassò la lampo della giacca a vento mostrando la macchia rossa sul top viola. Il detective continuò: «Temevamo che la gente alla fiera si spaventasse...» Be', lo credo bene... «... ma abbiamo pensato che sarebbe stato comunque meglio che permettere che qualcuno venisse aggredito o, peggio, ferito dal Negromante.» Bell aggiunse orgoglioso: «L'idea è stata di Kara. Sul serio». «Sto cominciando a capire come pensa l'assassino», disse la giovane donna. «Gesù!» Amelia si sorprese a tremare. «Era tutto così reale.» Bell annuì. «È veramente brava a fare la morta.» Amelia abbracciò Kara mormorandole in tono severo: «Ma d'ora in avanti restami vicina. O comunque non perdermi di vista. Sono troppo giovane per farmi venire un attacco di cuore». Attesero per qualche minuto ma non giunsero nuove segnalazioni di persone sospette avvistate nella zona. Alla fine Bell disse: «Tu occupati della scena del crimine qui, Amelia. Io andrò a interrogare la vittima. Cercherò di scoprire se sa dirmi qualcosa. Ci vediamo alla fiera». Un furgone della scientifica era parcheggiato sull'Ottantottesima strada. Amelia lo raggiunse e cominciò a raccogliere le attrezzature che le sarebbero servite per esaminare la scena. Una voce gracchiò dall'altoparlante che le pendeva ancora lungo il fianco, facendola trasalire. Amelia si tolse dalla cintura l'auricolare con microfono e lo collegò. «Cinque Otto Otto Cinque, ripetete, passo.» «Sachs, cosa diavolo sta succedendo? Ho sentito che lo avevate preso e
che adesso è scappato.» Amelia riferì a Rhyme ciò che era successo e di come avevano stanato il Negromante alla fiera. «È stata un'idea di Kara? Quella di fingersi morta? Hmm.» Quell'ultimo suono — una specie di grugnito, in realtà — era un vero complimento se a pronunciarlo era Lincoln Rhyme. «Ma ora è scomparso», aggiunse Amelia. «E non riusciamo a trovare nemmeno l'agente. Forse lo sta inseguendo. Ma non lo sappiamo. Roland sta interrogando la donna che abbiamo salvato. Per scoprire se può offrirci qualche pista.» «Va bene. Analizza la scena, Sachs.» «Le scene», lo corresse lei amaramente. «La caffetteria, la riva del fiume e il vicolo. Sono dannatamente troppe.» «Niente affatto», ribatté lui. «Ci danno il triplo delle possibilità di trovare delle buone prove.» Rhyme aveva ragione. Le tre scene avevano fornito una grande quantità di indizi. Era stato difficile esaminarle ma per una ragione insolita: il Negromante era stato presente in tutte e tre le occasioni... il suo fantasma, quantomeno. Aveva aleggiato attorno a lei. L'aveva costretta a fermarsi spesso per toccare il calcio della sua Glock, a guardarsi attorno per assicurarsi che il killer non si fosse materializzato dietro di lei. Cerca con cura ma guardati le spalle. In realtà non aveva visto nessuno. Ma nemmeno Svetlana Rasnikov aveva visto il suo assassino togliersi di dosso il telo nero e scivolarle alle spalle tra le ombre. Tony Calvert non lo aveva visto nascosto dietro lo specchio nel vicolo quando si era avvicinato al gatto meccanico. E nemmeno Cheryl Marston aveva veramente visto il Negromante anche se aveva chiacchierato a lungo con lui. Aveva visto una persona completamente diversa e non aveva mai sospettato della terribile morte che l'assassino aveva in programma per lei. Amelia aveva percorso la griglia sulle varie scene del crimine e scattato foto digitali prima di consegnare i luoghi agli specialisti delle impronte e ai fotografi della scientifica. Poi era tornata alla fiera dove la stava aspettando Roland Bell. Lui aveva interrogato Cheryl Marston all'ospedale. Naturalmente l'assassino non le aveva detto niente di utile per loro («Una dan-
nata montagna di bugie», aveva commentato amaramente la Marston) ma si era ricordata di alcuni dettagli che aveva notato prima che la droga facesse effetto. Gli aveva fornito una descrizione fisica, inclusi alcuni dettagli sulle cicatrici. Si era anche ricordata la marca e i primi numeri della targa dell'auto da cui il Negromante aveva preso la borsa. Quella era un'ottima notizia. Ci sono centinaia di modi per risalire a un criminale o a un testimone servendosi dei dati di una macchina. Lincoln Rhyme chiamava le automobili «generatori di prove». L'Ufficio della Motorizzazione aveva detto che un'auto che corrispondeva alla descrizione — una Mazda marrone 626 del 2001 — era stata rubata all'aeroporto di White Plains una settimana prima. Sellitto aveva inoltrato un ordine urgente di ricerca del veicolo a tutti gli agenti dell'area metropolitana e mandato alcuni poliziotti a cercare l'auto nelle strade della zona circostante, anche se nessuno di loro pensava che il veicolo fosse ancora lì. Bell stava concludendo il suo racconto sulla testimonianza di Cheryl Marston quando un agente di pattuglia che aveva risposto a una chiamata radio lo interruppe. «Detective Bell? Come ha detto che era quella macchina? Quella guidata dal sospetto?» «Una Mazda marrone. Sei due sei. La targa è FET due tre sette.» «Esatto», disse l'agente nel microfono. Poi, rivolgendosi a Bell e ad Amelia, aggiunse: «È appena arrivata una segnalazione: degli agenti hanno visto il sospetto a Central Park West. Lo hanno inseguito ma — tenetevi forte — lui è salito con la macchina sul marciapiede ed è entrato nel parco. I nostri hanno cercato di seguirlo ma sono rimasti bloccati sul terrapieno». «Central Park West dove?» domandò Amelia. «Nei pressi della Nove-due.» «Probabilmente è già riuscito a svignarsela.» «Se la svignerà», disse Amelia. «Ma prima cercherà di allontanarsi.» Indicò con un cenno del capo le cassette che contenevano le prove. «Portatele a Rhyme», ordinò, e dieci secondi dopo era dietro il volante della Camaro e aveva già avviato il potente motore. Si infilò la cintura di sicurezza da auto da corsa e la regolò per stare più comoda. «Amelia, aspetta!» la chiamò Bell. «L'UE sta arrivando!» Ma lo stridore dei pneumatici e la nuvola di fumo blu che i Goodyear si lasciarono dietro furono la sola risposta di Amelia alle parole di Bell. Sbandando su Central Park West, diretta a nord, Amelia si concentrò per
evitare i pedoni, le altre auto, i ciclisti e i ragazzi sui rollerblade. E anche i passeggini. Erano dappertutto. Dio, ma quei bambini non andavano mai a casa a fare un sonnellino? Posizionò il lampeggiante blu sul cruscotto e lo collegò all'accendisigari. La luce brillante prese a ruotare e mentre Amelia scattava in avanti, si ritrovò a dare colpi di clacson a ritmo col lampeggiante. Davanti a lei, una striscia grigia. Cazzo... Frenando di colpo per evitare un automobilista che aveva fatto un'inversione a U, Amelia fermò la Camaro a una trentina di centimetri da una macchina che costava il doppio di quello che lei guadagnava in un anno. Poi premette di nuovo l'acceleratore e la General Motors rispose all'istante. Riuscì a tenersi al di sotto degli ottanta chilometri all'ora, finché il traffico non si fece meno intenso attorno alla Novantesima strada e lei poté lanciare la Camaro a tutta velocità. Nel giro di pochi secondi superò i centodieci chilometri all'ora. Dall'auricolare del Motorola posato sul sedile del passeggero giunse un ticchettio. Lo afferrò con una mano e premette un pulsante. «Sì?» disse, senza curarsi delle procedure ufficiali per rispondere alla radio. «Amelia? Sono Roland», rispose Bell. Anche lui non stava seguendo i protocolli standard per la comunicazione. «Raccontami tutto.» «Stanno arrivando delle nostre auto.» «Lui dov'è?» chiese lei, gridando per farsi sentire al di sopra del ruggito del motore. «Aspetta... È uscito dal parco su Central Park North. Ha urtato di striscio un camion e ha tirato dritto.» «Dove si sta dirigendo?» «Questo è accaduto... meno di un minuto fa. È diretto a nord.» «D'accordo.» Sta andando a Harlem? si domandò Amelia. Da quella zona della città avrebbe potuto prendere diverse strade per lasciare New York ma non pensava che fosse quello il suo scopo; tutte obbligavano a passare sopra dei ponti e la maggior parte erano ad accesso controllato, quindi sarebbe stato individuato facilmente. Era più probabile che abbandonasse la berlina in un quartiere relativamente tranquillo e che rubasse un'altra auto. Una nuova voce risuonò nell'auricolare di Amelia. «Sachs, lo abbiamo
localizzato!» «Dove, Rhyme?» Il criminologo le spiegò che il Negromante aveva svoltato a ovest sulla 125ma strada. «Vicino alla Quinta strada.» «Sono quasi all'incrocio tra la Uno Due Cinque e la Adam Clayton Powell. Cercherò di bloccarlo. Ma mandatemi dei rinforzi», disse. «Ci abbiamo già pensato, Sachs. A che velocità stai andando?» «Non sto guardando il tachimetro.» «Probabilmente è meglio così. Tieni gli occhi sulla strada.» Amelia si fece largo a colpi di clacson fino all'incrocio con la 125ma. Fermò l'auto di traverso in mezzo alla strada, bloccando le due carreggiate che andavano a ovest. Con un balzo scese dalla Camaro, la Glock in pugno. Due auto si fermarono sulle carreggiate dirette a est. Gridò ai conducenti: «Allontanatevi! Questa è un'operazione di polizia. Scendete dalle macchine e mettetevi al riparo». I conducenti — un fattorino e una donna con una divisa di McDonald's — ubbidirono all'ordine. Adesso tutte le corsie della 125ma Strada erano bloccate. «Mettetevi tutti al riparo! Immediatamente!» gridò Amelia. «Vaffanculo.» «Stronza.» Amelia guardò a destra e vide quattro membri di una gang appoggiati a una rete metallica che osservavano con blando interesse la pistola austriaca, l'auto fabbricata a Detroit e la donna dai capelli rossi a cui appartenevano. Quasi tutti gli altri passanti si erano messi al riparo, ma quei quattro ragazzi non si erano mossi. Perché avrebbero dovuto? Non capitava spesso che un film con Wesley Snipes approdasse nel loro quartiere. Amelia vide in lontananza la Mazda che avanzava sbandando freneticamente in mezzo al traffico, dirigendosi verso il posto di blocco improvvisato. Il Negromante lo notò solo quando ebbe oltrepassato la strada che avrebbe dovuto imboccare per evitarlo. Si fermò di colpo. Dietro di lui, un camion della nettezza urbana che stava facendo una curva frenò bruscamente. Il guidatore e gli altri netturbini videro cosa stava succedendo e fuggirono via, lasciando il camion a bloccare anche l'ultima via di fuga dell'assassino. Amelia lanciò un'altra occhiata ai ragazzi. «State giù!» Ridacchiando, loro la ignorarono. Lei scrollò le spalle, si appoggiò al tetto della Camaro e mirò al para-
brezza della Mazda. E così eccolo finalmente, il Negromante. Poteva vedere il suo volto, la sua camicia Harley azzurra. Sotto un cappello da baseball nero, la sua finta coda di cavallo oscillava avanti e indietro mentre l'assassino si guardava disperatamente attorno in cerca di una via d'uscita. Ma non ce n'erano. «Tu! Sulla Mazda! Scendi dall'auto e sdraiati a terra!» Nessuna risposta. «Sachs?» la voce di Rhyme risuonò nella cuffie. «Riesci a...» Amelia si strappò l'auricolare e spostò il mirino sulla sagoma della testa dell'assassino. Se hai un'arma da usare, usala... Sentendo le parole del detective Mary Shanley riecheggiarle nella testa, Amelia trasse un profondo respiro e strinse saldamente le mani attorno al calcio della pistola, un po' più in alto, un po' più a sinistra per compensare la forza di gravità e la piacevole brezza di aprile. Quando spari, esistete solamente tu e il tuo bersaglio, collegati da un filo invisibile simile alla calma energia della luce. La tua capacità di colpire il bersaglio dipende esclusivamente dal punto di origine di questa energia. Se la fonte è la tua mente, hai buone probabilità di colpire ciò a cui stai mirando. Ma se la fonte è il tuo cuore, ci riuscirai quasi sempre. Le vittime del Negromante — Tony Calvert, Svetlana Rasnikov, Cheryl Marston, l'agente Larry Burke — ora avevano fissato saldamente nel suo cuore quell'energia e Amelia sapeva che non avrebbe sbagliato. Andiamo, figlio di puttana, pensò. Ingrana la marcia. Provaci. Andiamo! Dammi un pretesto... L'auto scattò in avanti. Le dita di Amelia circondarono il grilletto. Come se se ne fosse accorto, il Negromante frenò. «Andiamo», si ritrovò a sussurrare lei. Pensò a come affrontare la situazione. Se lui avesse solo tentato di fuggire, lei avrebbe sparato al radiatore o a un pneumatico per cercare di catturarlo vivo. Ma se si fosse diretto contro di lei o verso il marciapiede, mettendo in pericolo la vita di qualcuno, avrebbe sparato direttamente a lui. «Ehi!» esclamò uno dei ragazzi sul marciapiede. «Spara a quel figlio di puttana!» «Fagli il culo, stronza!»
Non avete bisogno di convincermi, ragazzini. Sono pronta, disposta e in grado... Decise che se avesse fatto anche solo tre metri verso di lei, a qualunque velocità, gli avrebbe sparato. Il motore dell'auto color cerotto aumentò i giri e Amelia vide — o immaginò di vedere — il veicolo vibrare. Tre metri. Non chiedo altro. Un nuovo ringhio del motore. Fallo! pensò Amelia. E poi vide una lenta sagoma gialla scivolare dietro la Mazda. Uno scuolabus della Chiesa del Tabernacolo Profetico di Zion pieno di bambini si allontanò dal ciglio della strada e si immise nel traffico, il conducente del tutto inconsapevole di ciò che stava succedendo. Si fermò di traverso tra la Mazda e il camion della nettezza urbana. No... Anche un centro perfetto avrebbe potuto non riuscire a fermare la pallottola, che avrebbe rischiato di andare a conficcarsi nello scuolabus dopo aver attraversato il suo bersaglio. Allontanando le dita dal grilletto e alzando la canna della pistola verso il cielo, Amelia guardò attraverso il parabrezza della Mazda. Poté scorgere il debole movimento della testa del Negromante che si voltava a guardare alla sua destra, notando lo scuolabus nello specchietto retrovisore. Poi l'uomo tornò a guardare Amelia e lei ebbe l'impressione che stesse sorridendo, resosi conto che lei ora non poteva sparare. Lo stridore dei pneumatici anteriori della Mazda riempì la strada mentre l'assassino premeva l'acceleratore a tavoletta e si avvicinava ad Amelia a trenta, cinquanta, settanta chilometri all'ora. Puntò dritto verso la donna poliziotto e la sua Camaro di un giallo molto più chiaro dello scuolabus che con la sua presenza aveva involontariamente protetto il Negromante. 20 Mentre la Mazda sfrecciava dritto verso di lei, Amelia corse sul marciapiede per tentare di sparare da una posizione laterale. Sollevando la Glock, mirò alla sagoma scura della testa del Negromante. Ma dietro di lui c'erano una decina di vetrine di negozi e di finestre di appartamenti oltre a numerosi passanti accovacciati sul marciapiede. Era del tutto impossibile sparare anche un unico colpo in assoluta sicurezza. Al suo pubblico non importava, però. «Ehi, stronza, vediamo come secchi quel figlio di puttana.»
«Che stai aspettando?» Amelia abbassò la pistola, le spalle curve mentre guardava la Mazda puntare dritto contro la Camaro. Oh, no, la macchina no... No! Ripensò a quando suo padre le aveva comprato quella potente auto del '69, un rottame, a come insieme avevano ricostruito gran parte del motore e delle sospensioni aggiungendo una nuova trasmissione e a come l'avevano modificata per potenziarla al massimo. Quell'auto e l'amore per il lavoro nella polizia erano l'eredità che suo padre le aveva lasciato. A una decina di metri dalla Camaro, il Negromante sterzò bruscamente a sinistra dirigendosi verso il punto in cui Amelia era accovacciata. Lei balzò di lato e lui sterzò nell'altra direzione, di nuovo verso la Chevy. La Mazda slittò tagliando in diagonale verso il marciapiede e andò a sbattere contro la portiera del passeggero e il paraurti anteriore della Camaro. L'auto di Amelia ruotò su se stessa per due corsie andando a finire in fondo al marciapiede dove si trovavano i quattro ragazzi, che finalmente mostrarono un po' di energia e fuggirono. Anche Amelia si tolse con un balzo dalla traiettoria della Camaro e atterrò con le ginocchia sul cemento, restando senza fiato per le terribili fitte alle articolazioni dovute all'artrite. La Camaro si fermò a pochi passi da lei, la parte posteriore sollevata sopra il vecchio cestino della spazzatura arancione che aveva rovesciato. La Mazda percorse per qualche metro il marciapiede, poi imboccò nuovamente la strada e si diresse a nord. Amelia si alzò in piedi ma non perse tempo a puntare la pistola in direzione dell'auto beige: sparare era ancora troppo rischioso. Diede un'occhiata alla Camaro. La fiancata e la parte anteriore erano un disastro ma il paraurti danneggiato non toccava nessuno dei due pneumatici. Già, probabilmente sarebbe riuscita a prenderlo. Salì a bordo in un lampo e accese il motore. In prima. Un rombo. Il contagiri schizzò a 5000 e lei staccò la frizione. Ma l'auto non si mosse di un centimetro. Perché? Si era per caso rotto l'albero di trasmissione? Amelia guardò fuori dal finestrino e vide che le ruote posteriori — le ruote motrici — non toccavano terra a causa del cestino della spazzatura. Sospirò frustrata e colpì il volante con il palmo della mano. Dannazione! Vide la Mazda tre isolati più in là. Il Negromante non stava fuggendo molto in fretta; anche la sua auto doveva essere rimasta danneggiata nella collisione. C'era ancora una chance di catturarlo.
Ma non con un'auto bloccata. Avrebbe dovuto... La Camaro cominciò a ondeggiare avanti e indietro. Amelia guardò nello specchietto retrovisore e vide che tre membri della gang si erano tolti le giacche militari e stavano tentando di spingere la macchina in avanti per liberarla. Il quarto, il più grosso del gruppo e a quanto pareva il leader, si avvicinò al finestrino dalla parte del conducente. Si chinò, un dente d'oro che scintillava al centro del suo volto scuro. «Ehi.» Amelia annuì e sostenne il suo sguardo. Lui lanciò un'occhiata ai suoi amici. «Su, negri, spingete questa macchina del cazzo! Smettetela di farvi seghe e muovete il culo.» «Va' a farti fottere», rispose uno dei tre, senza fiato. Il leader si chinò di nuovo. «Ehi, signora, ti faremo scendere. Con cosa sparerai a quel figlio di puttana?» «Una Glock. Calibro quaranta.» Lui lanciò un'occhiata alla sua fondina. «Una vera bellezza. Dev'essere una ventitré. Compact?» «No, full size.» «Ottima pistola. Io invece ho una Smittie.» Sollevò l'orlo della felpa e, con un misto di orgoglio e sfacciataggine, le mostrò il calcio argentato di una Smith and Wesson automatica. «Ma penso che mi prenderò una Glock come la tua.» Un ragazzino armato, rifletté Amelia. Come si comporterebbe un sergente in una situazione come questa? Con un sussulto, l'auto scese dal cestino, le ruote posteriori pronte allo scatto. Amelia decise che non le importava quale sarebbe stata la cosa giusta da dire per un sergente in quelle circostanze. Decise di fare a modo suo e annuì con aria solenne guardando il leader del gruppo. «Grazie, amico.» Poi aggiunse con aria minacciosa: «Non sparare a nessuno altrimenti dovrò venire a cercarti. Intesi?» Un ampio sogghigno dorato. Poi ingranò la prima e i pneumatici bruciarono sull'asfalto. In pochi secondi Amelia Sachs era lanciata a quasi cento chilometri orari. «Vai, vai, vai», si disse a mezza voce, concentrandosi sulla sfuocata macchia beige in lontananza. La Chevy sobbalzava ma riusciva comunque ad andare dritta. A fatica Amelia recuperò l'auricolare e il microfono del
Motorola. Chiamò la centrale e riferì dell'inseguimento e del nuovo percorso che i rinforzi avrebbero dovuto seguire. Accelerazioni, frenate improvvise... Le strade affollate di Harlem non erano fatte per quel tipo di inseguimenti. Il Negromante, che non valeva la metà di lei al volante, riusciva ad avanzare in quel traffico, ma Amelia stava guadagnando lentamente terreno. Poi l'assassino si diresse verso il cortile di una scuola dove alcuni ragazzi stavano giocando a basket e a softball. Il cortile non era molto affollato; il cancello era chiuso a chiave e chiunque avesse voluto giocare lì avrebbe dovuto infilarsi tra le sbarre come un contorsionista oppure arrampicarsi e scavalcare la rete metallica, alta più di sei metri. Il Negromante, però, si limitò a dare gas e a investire il cancello. I ragazzi si sparpagliarono e il killer per poco non ne travolse uno mentre aumentava la velocità per abbattere il secondo cancello del cortile. Amelia esitò ma alla fine decise di non seguirlo, non al volante di quell'auto instabile nel cortile di una scuola. Girò rapidamente attorno all'isolato pregando di riuscire a ritrovare il Negromante sul lato opposto, svoltò bruscamente l'angolo e si fermò. Di lui non c'era più traccia. Amelia non riusciva a capire come avesse fatto a dileguarsi. Lo aveva perso di vista solo per dieci secondi o poco più, mentre girava attorno alla scuola. E l'unica via di fuga era una breve strada senza uscita che terminava in una parete di cespugli e alberelli. Oltre la vegetazione, poteva vedere la sopraelevata Harlem River Drive, al di là della quale c'era solo una sudicia banchina che conduceva al fiume. E così ce l'ha fatta a fuggire... E tutto quello che ho ottenuto con questo inseguimento sono cinquemila dollari di danni alla macchina. Ragazzi... Poi una voce gracchiò: «A tutte le unità nelle vicinanze della Frederick Douglass e della Uno-cinque-tre, attenzione, abbiamo un dieci-cinquequattro». Incidente d'auto con probabili feriti. «Un veicolo è finito nel fiume Harlem. Ripeto, abbiamo un veicolo nel fiume.» Possibile che si trattasse di lui? «Scena del crimine Cinque Otto Otto Cinque. Richiedo informazioni sul dieci-cinque-quattro. Qual è la marca del veicolo, passo?» «Mazda o Toyota. Modello recente. Beige.» «Okay, centrale, ho ragione di credere che sia il veicolo dell'inseguimen-
to di Central Park. Dieci-otto-quattro sulla scena. Chiudo.» «Roger, Cinque Otto Otto Cinque. Chiudo.» Amelia guidò la Camaro fino in fondo alla strada senza uscita e la parcheggiò sul marciapiede. Scese mentre un'ambulanza dell'Unità Emergenze arrivava e passava lentamente attraverso la vegetazione che era stata schiacciata dalla corsa della Mazda. Seguì l'ambulanza camminando con cautela tra i detriti. Quando emerse dalla vegetazione vide un gruppo di baracche cadenti. Decine di barboni, per lo più uomini. L'area era fangosa, piena di erbacce, rifiuti e carcasse di automobili. A quanto pareva, il Negromante, convinto di trovare una strada dall'altra parte, aveva lanciato l'auto attraverso la vegetazione. Amelia vide i segni dei pneumatici lasciati dalla Mazda quando era slittata sulla fanghiglia scivolosa, abbattendo una delle baracche prima di scivolare da un molo fatiscente. Due agenti dell'UE aiutarono gli abitanti della baracca — che non erano rimasti feriti — mentre altri scrutavano il fiume in cerca del conducente. Amelia chiamò con la radio Rhyme e Sellitto, raccontò loro cos'era accaduto e chiese al detective di inoltrare una richiesta urgente per un veicolo di intervento rapido per la scena del crimine. «Lo hanno preso, Amelia?» domandò Sellitto. «Dimmi che lo hanno preso.» Scrutando la superficie dell'acqua oleosa di benzina e gasolio, lei rispose: «Non c'è traccia di lui». Passando accanto a tazze del water frantumate e a un fetido sacco dell'immondizia, si avvicinò ad alcuni uomini intenti a pescare che stavano parlando concitatamente tra di loro in spagnolo. Avevano bevuto ma erano abbastanza lucidi da riferirle in modo sensato ciò che era accaduto. L'auto era sbucata dai cespugli ed era finita dritta nel fiume. Tutti avevano visto un uomo dietro il volante ed erano d'accordo nel dire che non era riuscito a saltare fuori dal veicolo. Amelia parlò brevemente con Carlos e il suo amico, i due senzatetto che vivevano nella baracca che era stata distrutta. Erano entrambi ubriachi e, dal momento che erano all'interno della piccola costruzione quando la Mazda l'aveva colpita, non avevano visto niente di utile. Carlos era furioso e sembrava convinto che la città gli dovesse un qualche risarcimento per la perdita. Altri due testimoni che al momento dell'incidente stavano frugando nella spazzatura in cerca di bottiglie e lattine confermarono ciò che i pescatori le avevano detto.
Erano arrivate altre auto della polizia, persino alcune troupe televisive che stavano riprendendo ciò che restava della baracca e la barca della polizia dalla quale due agenti sommozzatori si stavano tuffando nelle acque del fiume. Ora che l'attività delle squadre di emergenza si stava concentrando sul fiume vero e proprio, Amelia Sachs si occupò delle operazioni sulla terraferma. Sulla Camaro aveva solo il minimo indispensabile per esaminare la scena del crimine, tuttavia aveva una gran quantità di nastro giallo con il quale circondò un'ampia sezione della riva del fiume. Quando ebbe finito, arrivò il veicolo di intervento rapido. Amelia si mise l'auricolare, chiamò la centrale e si fece mettere in comunicazione con Rhyme ancora una volta. «Abbiamo seguito le operazioni, Sachs. I sommozzatori non hanno ancora trovato niente?» «Non penso.» «È riuscito a mettersi in salvo?» «Secondo i testimoni, no. Devo analizzare la scena del crimine qui, sulla riva del fiume, Rhyme», gli disse lei. «Porterà fortuna.» «Fortuna?» «Certo. Mi prendo il disturbo di analizzare la scena. E questo significa che certamente i sommozzatori troveranno il suo cadavere e io avrò sprecato il mio tempo.» «Ci sarà comunque un'inchiesta e...» «Rhyme, stavo scherzando.» «Già, be', questo assassino in par-tic-olare non mi fa affatto venire voglia di ridere. Percorri la griglia.» Lei portò una delle valigie della scientifica fino al perimetro della scena del crimine e la stava aprendo quando sentì una voce dal pesante accento ispanico esclamare: «Mio Dio, cos'è successo? Stanno tutti bene?» Vicino alle troupe televisive, un uomo dai capelli ben curati che indossava jeans e una giacca sportiva si fece largo tra la folla. Guardò allarmato la scena e si precipitò verso la baracca distrutta. «Ehi», gli gridò Amelia. Lui non la sentì. Passò sotto la striscia di nastro giallo e corse verso la baracca, calpestando i segni dei pneumatici della Mazda e forse qualunque cosa potesse essere caduta o potesse essere stata gettata dalla macchina, rischiando di distruggere le impronte del killer nel caso fosse riuscito a mettersi in salvo, nonostante ciò che i pescatori credevano di aver visto.
Ormai sospettosa nei riguardi di chiunque, Amelia controllò subito la mano dell'uomo e notò che non aveva l'anulare e il mignolo fusi insieme. Quindi non era il Negromante, ma chi diavolo era? Si domandò. E che cosa ci faceva sulla sua scena del crimine? L'uomo si mise a frugare tra i rottami della baracca sollevando assi di legno e pezzi di lamiera arrugginita, spostandoli e gettandoli via. «Ehi, lei!» gridò Amelia. «Se ne vada immediatamente da lì!» Lui si voltò al di sopra della spalla e le rispose: «Potrebbe esserci ancora qualcuno qui sotto!» Con rabbia, Amelia ribatté: «Questa è la scena di un crimine! Non può stare qui!» «Potrebbe esserci ancora qualcuno qui sotto!» «No, no, no. Sono tutti in salvo. Stanno bene. Ehi, mi ha sentita?... Mi scusi, amico. Mi ha sentita?» Che l'avesse sentita o meno, non aveva alcuna importanza per lui, a quanto pareva. Continuò a scavare freneticamente. Ma perché lo stava facendo? L'uomo era ben vestito e aveva un Rolex d'oro; quello strafatto di crack di Carlos evidentemente non poteva essere un suo parente. Recitando tra sé la famosa preghiera del poliziotto — Signore, liberaci dai cittadini preoccupati — Amelia fece un cenno a due agenti che si trovavano vicino. «Portatelo via.» Ora l'uomo stava gridando: «Servono altri paramedici! Potrebbero esserci dei bambini qui sotto!» Amelia guardò disgustata le impronte degli agenti che contribuivano alla lenta erosione della sua scena del crimine. I due poliziotti afferrarono l'intruso per le braccia e lo fecero alzare. Lui si liberò con uno strattone, gridando ad Amelia in tono arrogante il suo nome come se fosse stato una specie di mafioso che tutti avrebbero dovuto conoscere, e cominciò a farle una lezione sul vergognoso trattamento che la polizia riservava ai cittadini latino-americani. «Signora, ha idea di...» «Ammanettatelo», disse Amelia, «e levatemelo dai piedi.» Aveva deciso che i buoni rapporti tra un sergente e la comunità non potevano essere più importanti di un'indagine criminale. Gli agenti ammanettarono l'uomo rosso in viso che, fumante e rabbioso, venne allontanato dalla scena del crimine. «Vuole che lo arrestiamo?» «No, tenetelo in panchina solo per un po'», gridò lei, facendo scoppiare a ridere alcuni dei presenti.
Guardò mentre i due poliziotti facevano salire a bordo di un'auto di pattuglia l'intruso, ennesimo ostacolo nella ricerca apparentemente impossibile di quell'assassino inafferrabile. Indossò la tuta di tyvek, si armò di macchina fotografica e sacchetti e, dopo essersi messa gli elastici attorno alle scarpe, si preparò a esaminare la scena cominciando da quel che restava della magione di Carlos. Procedette con calma, conducendo con cura la sua analisi. Dopo quell'interminabile inseguimento, Amelia Sachs non aveva intenzione di farsi ingannare dalle apparenze. Certo, il Negromante avrebbe potuto trovarsi a una decina di metri sotto la superficie dell'acqua grigio-marrone del fiume. Ma con altrettanta facilità avrebbe potuto essersi messo in salvo e trovarsi sulla riva, poco lontano. Non sarebbe rimasta sorpresa di scoprire che l'assassino si trovava già a chilometri da lì, con un nuovo travestimento, impegnato a dare la caccia alla sua prossima vittima. Il reverendo Ralph Swensen era in città ormai da parecchi giorni — era la prima volta che veniva a New York — e aveva capito che non si sarebbe mai abituato a quel luogo. Swensen era magro e stava incominciando a perdere i capelli, aveva un'aria timida ed era il pastore di anime di una città mille volte più piccola e decenni più indietro di Manhattan. Se nella sua città, guardando dalla finestra della sua chiesa, vedeva acri e acri di campi dove pascolavano placidi animali, a New York guardava fuori dalla finestra protetta da sbarre di un hotel da quattro soldi nei pressi di Chinatown e vedeva un muro di mattoni coperto di graffiti e scritte oscene. Se nella sua città quando camminava per strada la gente lo salutava dicendo «Salve, reverendo» o «Fantastico sermone, Ralph», a New York gli dicevano «Dammi un dollaro» oppure «Ho l'AlDS» oppure semplicemente «Succhiamelo». Eppure il reverendo Swensen non sarebbe rimasto ancora a lungo quindi, era certo di poter sopportare lo choc culturale ancora per un po'. Aveva trascorso le ultime ore leggendo la vecchia malconcia Bibbia fornita dall'hotel. Ma alla fine aveva rinunciato. Il Vangelo secondo san Matteo narrava una storia appassionante ma non riusciva a scacciare gli ululati del gay e del suo cliente che si accoppiavano rumorosamente per il dolore o per il piacere o, molto più probabilmente, per entrambe le cose. Il reverendo sapeva che avrebbe dovuto sentirsi onorato di essere stato
scelto per quella missione a New York, tuttavia si sentiva come l'apostolo Paolo in uno dei suoi viaggi per convertire i non credenti della Grecia e dell'Asia Minore che lo avevano accolto solo con la derisione e lo scherno. Ah, ah, ah, ah... Proprio lì, proprio lì... Oh, sì, sì, sì, ancora ancora ancora... Okay, la misura era colma. Nemmeno Paolo aveva dovuto affrontare un simile livello di depravazione. Il concerto non sarebbe cominciato prima di alcune ore, ma il reverendo Swensen decise di uscire prima. Si spazzolò i capelli. Si infilò gli occhiali e gettò nella sua valigetta la Bibbia, una cartina della città e un sermone su cui stava lavorando. Scese le scale fino all'atrio dove sedeva una prostituta, anche se era impossibile essere sicuri che fosse davvero una donna. Padre Nostro che sei nei cieli... Con un nodo di tensione che gli serrava lo stomaco, passò velocemente oltre tenendo lo sguardo basso sul pavimento in attesa dell'inevitabile proposta. Ma la donna — o l'uomo o qualunque cosa fosse — si limitò a sorridere e a dire: «Che tempo stupendo, vero, padre?» Il reverendo Swensen batté le palpebre e rispose al sorriso. «Sì, certo», disse resistendo alla tentazione di aggiungere «figliola», un'espressione che non aveva mai usato da quando aveva preso i voti. Decise di concludere con: «Buona giornata». Era fuori, nelle dure strade del Lower East Side, a New York. Si fermò davanti all'albergo mentre i taxi rombavano lungo la strada, giovani asiatici e ispanici gli passavano accanto velocemente, gli autobus si lasciavano dietro densi fumi metallici e fattorini cinesi a bordo di biciclette malridotte sfrecciavano sul marciapiede. Era tutto così stancante. Nervoso e turbato, il reverendo decise che andare a piedi alla scuola dove si sarebbe tenuto il concerto lo avrebbe aiutato a calmarsi. Aveva consultato la cartina e sapeva che c'era molta strada da fare, ma aveva bisogno di fare qualcosa per liberarsi di quell'insostenibile ansia. Avrebbe guardato qualche vetrina, si sarebbe fermato per cenare da qualche parte e per lavorare al suo sermone. Mentre si guardava attorno per orientarsi, ebbe la sensazione di essere osservato. Lanciò un'occhiata a sinistra verso il vicolo accanto all'hotel. Seminascosto dietro un cassonetto c'era un uomo dai capelli castani che indossava una tuta e aveva con sé una piccola cassetta degli attrezzi. Stava squadrando il prete dall'alto in basso con aria risoluta. Poi, come se fosse stato colto di sorpresa, si voltò e scomparve nel vicolo.
Il reverendo Swensen strinse con forza la valigetta chiedendosi se non avesse commesso un errore ad abbandonare la sicurezza della sua stanza — per quanto brutta e rumorosa potesse essere — in attesa dell'ora del concerto. Poi emise una debole risata. Rilassati, si disse. Quell'uomo senz'altro non era che un custode o un operaio, forse un impiegato del suo hotel, sorpreso nel vedere un prete in un luogo così decadente. Inoltre, rifletté mentre cominciava a incamminarsi verso nord, lui era un uomo di chiesa e questo doveva dargli una certa immunità, persino in quella moderna Sodoma. 21 Un secondo prima c'era, il secondo dopo era scomparsa. La pallina rossa non poteva in nessun modo essersi spostata dalla mano destra tesa di Kara a dietro il suo orecchio. Ma invece così era stato. Dopo averla recuperata e averla lanciata in aria, la sfera cremisi non poteva essere svanita e riapparsa dietro il suo gomito sinistro. Invece così era stato anche in questo caso. Com'è possibile? si domandò Rhyme. Kara e il criminologo erano nel laboratorio del piano terra della casa di Rhyme e stavano aspettando Amelia Sachs e Roland Bell. Mentre Mel Cooper riordinava le prove su uno dei tavoli e un CD diffondeva nell'aria le note di un pezzo jazz per pianoforte, Lincoln stava assistendo a uno show di destrezza messo in scena esclusivamente per lui. Kara era davanti a una finestra e indossava una delle T-shirt nere di Amelia. Thom in quel momento stava lavando il suo top per far sparire la macchia di «sangue» di ketchup Heinz 57 con cui aveva improvvisato il suo numero da illusionista alla fiera. «Quelle dove le hai prese?» domandò Rhyme indicando le palline. Non l'aveva neanche vista estrarle dalla borsa o togliersele di tasca. Lei rispose con un sorriso dicendogli che le aveva «materializzate.» «Dove vivi?» domandò lui. «Al Village.» Rhyme annuì. «Quando mia moglie e io eravamo ancora insieme, i nostri amici vivevano quasi tutti lì. E a SoHo e a TriBeCa.» «Io non vado molto spesso oltre la Ventitreesima», disse lei. Il criminologo emise una risata. «Ai miei tempi, la Quattordicesima era
l'inizio della zona smilitarizzata.» «Sembra che il nostro quartiere stia vincendo», scherzò lei mentre le sfere rosse apparivano e scomparivano, spostandosi da una mano all'altra, prima di fluttuare nell'aria in un improvvisato numero da giocoliere. «E il tuo accento?» chiese lui. «Ho un accento?» si stupì lei. «Un'intonazione, un'inflessione... una cadenza.» «È dell'Ohio, probabilmente. Midwest.» «Anch'io vengo da lì. Illinois.» «Ma vivo qui da quando avevo diciotto anni. Sono andata a scuola a Bronxville.» «Sarah Lawrence, teatro», dedusse Rhyme. «Inglese.» «E sei rimasta perché qui ti trovavi bene.» «Be', ho cominciato a trovarmi bene quando ho lasciato la periferia e sono venuta a vivere in città. Poi, dopo la morte di mio padre, mia madre si è trasferita qui per poter essere più vicina a me.» Figlia di una madre vedova... Proprio come Amelia, rifletté Rhyme. Si chiese se Kara avesse gli stessi problemi con sua madre che Sachs aveva con la sua. Qualche anno prima le due donne avevano stipulato un trattato di pace, ma fino ad allora i rapporti tra madre e figlia erano stati tempestosi, difficili e imprevedibili. Rose non capiva perché suo marito non volesse essere niente di più che un poliziotto né capiva perché sua figlia volesse essere qualcosa di diverso da ciò che lei voleva che fosse. Tutto questo aveva portato padre e figlia a stringere una naturale alleanza che aveva contribuito a peggiorare la situazione. Amelia aveva raccontato a Rhyme che il loro rifugio nelle giornate difficili era il garage, dove avevano trovato un universo accogliente e rassicurante: quando un carburatore non funzionava, la ragione era da attribuire a una semplice e normale legge fisica, ossia al fatto che era rotto, che le tolleranze della macchina erano sbagliate oppure una guarnizione era stata tagliata male. I motori, le sospensioni e le trasmissioni non reagivano a malumori melodrammatici o a recriminazioni incomprensibili e, anche nei momenti peggiori, non davano mai agli altri la colpa dei propri fallimenti. Rhyme aveva incontrato Rose Sachs diverse volte e l'aveva trovata affascinante, espansiva, eccentrica e molto fiera di sua figlia. Ma il passato, il criminologo lo sapeva, non è mai così presente come lo è tra genitori e figli.
«E com'è averla vicino?» chiese Rhyme scettico. «Sembra la sit-com venuta dall'inferno, vero? Ma non è cosi, mia madre è grandiosa. Lei è... sai, una madre. E le madri hanno tutte un certo modo di essere che non abbandonano mai.» «Dove abita?» «È in una casa di cura nell'Upper East Side.» «È molto malata?» «Non ha niente di serio. Presto starà bene.» Con aria distratta, Kara si fece rotolare le palline dalle nocche al palmo della mano. «Appena si sarà rimessa, andremo in Inghilterra, noi due sole. Londra, Stratford, il Cotswolds. Io e i miei genitori ci siamo andati, una volta. È stata la vacanza più bella che abbiamo mai fatto insieme. E questa volta potrò guidare sulla sinistra e bere birra calda. L'altra volta, i miei non me l'hanno permesso. Anche perché avevo tredici anni. Tu ci sei mai stato?» «Certo. Collaboravo con Scotland Yard di tanto in tanto. Ho tenuto anche alcune lezioni, là. Non ci sono più tornato da... be' da alcuni anni.» «La magia e l'illusionismo sono sempre stati molto più popolari in Inghilterra di quanto non lo siano qui in America. C'è così tanta storia. Voglio mostrare a mia madre il punto in cui si trovava l'Egyptian Hall a Londra. Per un centinaio di anni, quello è stato il centro dell'universo per i maghi. Sai, sarebbe una specie di pellegrinaggio per me.» Rhyme lanciò un'occhiata verso la porta. Nessuna traccia di Thom. «Fammi un favore.» «Certo.» «Ho bisogno di una medicina.» Kara notò alcune boccette di medicinali allineate contro la parete. «No, non lì, sulla libreria.» «Ah! Quale?» chiese lei. «Quella in fondo. Il Macallan, invecchiato diciotto anni.» Sussurrò: «E probabilmente sarebbe meglio che lo versassi in silenzio». «Ehi, stai parlando con la persona giusta. Robert-Houdin diceva sempre che c'erano tre doti necessarie per diventare illusionisti di successo. La destrezza, la destrezza e la destrezza.» Nel giro di pochi istanti, Kara aveva versato una salutare dose di whisky dalla bottiglia, senza fare alcun rumore e senza farsi assolutamente notare. Thom avrebbe potuto trovarsi con loro nella stanza e non si sarebbe accorto di niente. Kara mise la cannuccia nel bicchiere, che sistemò nell'apposito supporto della Storm Arrow. «Serviti pure», disse lui.
Lei scosse la testa e indicò la caraffa di caffè che aveva finito quasi da sola. «È quello il mio veleno.» Rhyme bevve un sorso di scotch. Gettò la testa all'indietro e lasciò che il bruciore gli riempisse la bocca prima di sparire. Continuava a fissare le mani di Kara e l'imprevedibile comportamento delle palline rosse. Un altro lungo sorso. «Mi piace.» «Che cosa?» «L'idea dell'illusione.» Vedi di non essere piagnucoloso, si disse. Lo diventi sempre quando sei ubriaco. Ma quella considerazione non gli impedì di bere un altro sorso di whisky e di continuare. «Talvolta la realtà può essere piuttosto dura da sopportare, sai.» Non poté impedirsi di abbassare lo sguardo sul proprio corpo immobile. Subito si pentì di quel commento — e di quell'occhiata — e decise di cambiare argomento, ma Kara non rispose con frasi di compassione preconfezionata. Disse invece: «Sai, non sono così sicura che esista davvero una realtà». Lui la guardò con aria interrogativa. «In fondo, le nostre vite non sono tutta un'illusione?» continuò lei. «In che senso?» «Be', il nostro passato è solo memoria, giusto?» «Verissimo.» «E il futuro è immaginazione. Entrambe le cose sono illusioni... i ricordi sono inaffidabili e quanto al futuro possiamo solo fare speculazioni. L'unica cosa veramente reale è il momento presente, che cambia continuamente trasformandosi da immaginazione a ricordo. Quindi, vedi? Gran parte della nostra vita è solo un'illusione.» Rhyme emise una bassa risata. Come scienziato e amante della logica, gli sarebbe piaciuto trovare una falla nella teoria di Kara. Ma non ce n'erano. La ragazza aveva ragione, concluse. Lui stesso passava gran parte del suo tempo in compagnia dei ricordi del Prima, prima dell'incidente, e dei pensieri sul Dopo. E il futuro? Oh, sì, era un territorio che visitava spesso. Fatta eccezione per Amelia e Thom, a insaputa di tutti, Rhyme passava almeno un'ora al giorno a fare esercizi — eseguendo gli esercizi di motilità manuale, facendo acquaterapia in un ospedale vicino o usando la cyclette a stimolazione Electrologic che si trovava in un angolo della camera da letto al piano superiore. Quel regime di esercizi aveva in parte lo scopo di riattivare funzioni nervose e motorie, di migliorare la sua resistenza e prevenire i pro-
blemi di salute collaterali che possono affliggere i quadriplegici. Ma la ragione principale era che voleva tenere in forma i muscoli per il giorno in cui sarebbe stata trovata una cura. Provò ad applicare la teoria di Kara anche alla sua professione: quando lavorava a un caso, attingeva continuamente ai ricordi, alla conoscenza delle procedure forensi e dei crimini del passato, mentre cercava di prevedere la mossa successiva del sospetto. Il nostro passato è solo memoria, il futuro è immaginazione... «Ora che abbiamo rotto il ghiaccio», disse Kara, aggiungendo altro zucchero nel suo caffè, «devo farti una confessione.» Un altro sorso. «Sì?» «Quando ti ho visto la prima volta, ho pensato una cosa.» Oh, sì, ricordava. Lo Sguardo. Il famoso sguardo scappiamo-dallostorpio. Accompagnato dall'immancabile Sorriso. C'era solo una cosa peggiore: le scuse, sempre imbarazzate, per lo Sguardo e il Sorriso. Kara esitò per un attimo. Poi disse: «Ho pensato che saresti stato uno straordinario illusionista». «Io?» chiese uno stupefatto Lincoln Rhyme. Kara annuì. «Tu sei fatto di percezione e realtà. La gente ti guarda e vede che sei handicappato... È così che dici?» «Gli amanti del politicamente corretto dicono 'disabile'. Io mi limito a dire che sono fottuto.» Kara rise e continuò: «Gli altri vedono che non puoi muoverti. Probabilmente pensano che tu abbia problemi mentali o che sia ritardato. Giusto?» Era vero. Quelli che non lo conoscevano spesso gli parlavano molto lentamente e a voce alta, spiegando in termini semplici ciò che era ovvio. (Con grande disgusto di Thom, Rhyme talvolta rispondeva balbettando frasi senza senso o fingendo di essere affetto dalla Sindrome di Tourette, facendo fuggire i visitatori in preda all'orrore.) «Degli spettatori si farebbero subito un'opinione su di te e si convincerebbero che non potresti mai essere responsabile delle illusioni e dei trucchi a cui stanno assistendo. Metà di loro sarebbero ossessionati dalla tua condizione. Gli altri non ti guarderebbero nemmeno. E sarebbe quello il momento in cui potresti catturarli... Comunque, quando ti ho incontrato, ho visto che eri sulla sedia a rotelle e ho capito subito che dovevi aver passato momenti terribili. E non ho cercato di essere compassionevole, non ti ho chiesto come stavi. Non ti ho nemmeno detto 'Mi dispiace'. Invece ho pensato: Dannazione, che grande illu-
sionista potrebbe essere. È stato un pensiero piuttosto irriverente e ho avuto la sensazione che tu lo avessi intuito.» Rhyme fu assolutamente deliziato da quella rivelazione. La rassicurò. «Credimi, la compassione e i guanti di velluto non fanno per me. Preferisco di gran lunga l'irriverenza.» «Sul serio?» «Già.» Kara sollevò la sua tazza di caffè. «Brindiamo al famoso illusionista, L'Uomo Immobilizzato.» «I giochi di destrezza potrebbero essere un problema», le fece notare Rhyme. Ma Kara rispose: «Come dice sempre il signor Balzac, la destrezza della mente è la dote più importante». In quel momento sentirono la porta d'ingresso che veniva aperta e le voci di Amelia e Sellitto in corridoio. Rhyme inarcò un sopracciglio e avvicinò il viso alla cannuccia. Sussurrò: «Sta' a guardare. Questo è un numero che chiamo la Sparizione delle Prove Compromettenti». «Prima di tutto, dobbiamo pensare che sia morto? Che dorma coi pesci?» chiese Lon Sellitto. Amelia e Rhyme si scambiarono un'occhiata e insieme dissero: «No». Il detective corpulento aggiunse: «Lo sapete come sono le acque dell'Harlem? Un sacco di ragazzini provano a nuotarci e nessuno li rivede più». «Portami il suo cadavere», disse Rhyme, «e ci crederò.» C'era un fatto incoraggiante, comunque: non avevano ricevuto segnalazioni di omicidi o sparizioni. La cattura sfiorata e la nuotata nel fiume probabilmente avevano spaventato l'assassino; forse adesso che sapeva di avere la polizia alle calcagna avrebbe rinunciato alle sue aggressioni o almeno le avrebbe sospese per un po', dando a Rhyme e alla squadra l'opportunità di scoprire dove si stava nascondendo. «E Larry Burke?» chiese il criminologo. Sellitto scosse la testa. «Decine di uomini lo stanno cercando. Molti volontari, poliziotti e vigili del fuoco che non sono in servizio, sai. Il sindaco ha offerto una ricompensa... Ma devo dirti la verità, non la vedo bene. Probabilmente era nel bagagliaio della Mazda.» «Non l'hanno ancora ripescata?» «Non l'hanno ancora trovata. L'acqua è nera come la notte e un som-
mozzatore mi ha detto che con quella corrente un'auto potrebbe andare alla deriva per più di mezzo chilometro prima di fermarsi sul fondo.» «Dobbiamo presumere», fece notare Rhyme, «che l'assassino abbia l'arma e la radio di Burke. Lon, dovremmo cambiare la frequenza, così non potrà scoprire che cosa abbiamo in mente.» «Sicuro.» Il detective chiamò la centrale e fece trasferire la frequenza di tutte le trasmissioni sul caso del Negromante a quella delle operazioni speciali. «Torniamo alle prove. Che cos'abbiamo, Sachs?» «Niente dal ristorante greco», disse, facendo una smorfia. «Avevo detto al proprietario di preservare la scena ma forse non mi ha capita. O non ha voluto capirmi. Quando siamo tornati il personale aveva già pulito il tavolo e lavato il pavimento.» «E cosa mi dici della pozza dove avete trovato il Negromante?» «Abbiamo raccolto alcuni indizi», disse Amelia. «L'assassino ci ha abbagliati con del cotone lampo, poi ha fatto esplodere dei petardi. Sul momento abbiamo creduto che fossero spari.» Cooper esaminò i residui bruciacchiati. «Proprio come gli altri. Impossibile risalire alla fonte.» «D'accordo», sospirò Rhyme. «Che altro c'è?» «Catene. Di due lunghezze diverse.» Il Negromante le aveva avvolte attorno alle braccia e alle caviglie di Cheryl Marston e le aveva chiuse con dei moschettoni, simili a quelli dei guinzagli per cani. Cooper e Rhyme studiarono con cura tutti gli indizi. Né le catene né i moschettoni avevano marchi che potessero far risalire al produttore. Lo stesso valeva per la corda e per il nastro adesivo con cui l'assassino aveva imbavagliato la vittima. La borsa da ginnastica che il killer aveva preso dalla macchina e in cui era presumibile che avesse tenuto le catene e la corda, non aveva marca ed era stata fabbricata in Cina. Se si avevano abbastanza uomini a disposizione, talvolta era possibile trovare la fonte di oggetti comuni come quelli passando al setaccio i discount e le bancarelle di strada. Ma era praticamente impossibile compiere una ricerca così complessa per una borsa tanto comune. Cooper girò la borsa sopra un vassoio da analisi di porcellana e batté sul fondo per far uscire qualunque frammento potesse essere rimasto all'interno. Cadde un po' di polvere bianca. Il tecnico eseguì l'analisi per le droghe e scoprì che la sostanza era flunitrazepam.
«La classica droga dello stupro», disse Amelia a Kara. C'erano anche minuscole palline di un materiale traslucido e appiccicoso. Sembrava simile alla sostanza rinvenuta nella cerniera lampo e sulla maniglia. «Non lo riconosco», disse Cooper. Ma Kara, dopo aver osservato e annusato la sostanza, disse: «Cera adesiva per maghi. La usiamo per appiccicare temporaneamente oggetti durante gli spettacoli. Forse aveva la capsula che conteneva la droga attaccata al palmo della mano. Quando si è allungato verso il drink o il caffè della vittima, ce l'ha versata dentro». «Possibili fonti a cui far risalire la cera?» chiese Rhyme cinicamente. «Lasciami indovinare... qualsiasi negozio di magia del mondo libero, giusto?» Kara annuì. «Mi dispiace.» All'interno della borsa Cooper trovò anche minuscoli residui di limatura metallica e un cerchietto nero, simile a una goccia di vernice. Un'analisi al microscopio rivelò che il metallo probabilmente era ottone e che mostrava inconfondibili tracce di lavorazione. Ma Lincoln Rhyme non sapeva che cosa dedurne. «Manda qualche fotografia ai nostri amici del bureau.» Cooper scattò delle foto, le compresse e le inviò con un'e-mail criptata a Washington. Le macchie nere, si scoprì, non erano di vernice ma di inchiostro permanente. Purtroppo il database non riuscì a identificare con precisione di che tipo, dato che non avevano alcuna particolarità. «Quello cos'è?» chiese Rhyme indicando un sacchetto di plastica che conteneva un indumento blu. «Il nostro unico colpo di fortuna», rispose Amelia. «È la giacca a vento che l'assassino indossava quando ha avvicinato la Marston. Non è riuscito a portarla con sé quando è stato costretto a scappare.» «Segni di identificazione?» domandò Rhyme, sperando che sulla giacca ci fossero delle iniziali o l'etichetta di una lavanderia. Dopo una lunga analisi dell'indumento, Cooper concluse: «Niente. Sono state rimosse tutte le etichette». «Tuttavia», disse Amelia, «abbiamo trovato alcune cose nelle tasche.» Il primo oggetto che esaminarono fu il pass di un giornalista di una televisione via cavo. Il nome del reporter era Stanley Saferstein e la foto sul tesserino mostrava il volto di un uomo magro con la barba e i capelli castani. Sellitto telefonò all'emittente e chiese di parlare con il capo della sicurezza. Si scoprì che Saferstein era uno dei loro reporter e lavorava per la
TV da molti anni. Il suo pass era stato rubato la settimana prima durante una conferenza stampa in centro. Il reporter non si era accorto di niente quando il ladro aveva tagliato il cordoncino con cui lo portava al collo. Il Negromante aveva preso il tesserino di Saferstein, immaginò Rhyme, perché tra lui e il reporter c'era una vaga somiglianza: circa cinquant'anni, il volto sottile e i capelli scuri. «Il tesserino rubato era stato annullato», spiegò il capo della sicurezza, «ma il vostro uomo potrebbe averlo usato comunque per passare un controllo. Le guardie di sicurezza e i poliziotti non fanno mai molta attenzione se vedono il nostro logo.» Al termine della telefonata, Rhyme disse a Cooper: «Controlla 'Saferstein, Stanley' col VICAP e l'NCIC». «Certo. Ma perché?» «Per sicurezza», rispose Rhyme. Non fu sorpreso quando la ricerca diede esito negativo. Non aveva veramente pensato che potessero esserci collegamenti tra il reporter e il Negromante, ma con quell'assassino Rhyme non voleva lasciare niente di intentato. Nella giacca c'era anche una tessera di plastica grigia di un hotel. Rhyme fu entusiasta di quella scoperta. Anche se sulla tessera non c'era il nome dell'albergo — solo l'immagine di una chiave e una freccia che indicava agli ospiti come inserirla — era certo che sarebbero bastati i codici della striscia magnetica per identificare l'hotel e il numero della stanza. Cooper trovò il nome del produttore scritto in caratteri minuscoli dietro la tessera: APC. Inc., Akron, Ohio. Grazie a una ricerca nel database dei marchi registrati, scoprirono che APC stava per American Plastic Cards, una compagnia che produceva centinaia di tipi diversi di tessere. Nel giro di pochi minuti, la squadra era al telefono con il presidente dell'APC in persona — un dirigente, immaginò Rhyme, che non aveva alcun problema a lavorare di sabato o a rispondere da solo al telefono. Il criminologo gli spiegò la situazione, gli descrisse la tessera e gli chiese a quanti alberghi nell'area di New York l'avesse fornita. «Ah, la APC-42. È il nostro modello più popolare. Le produciamo per tutte le ditte di serrature più importanti. Ilco, Saflok, Tesa, Ving, Sargent e tutte le altre.» «Cosa ci consiglia per restringere le ricerche dell'hotel a cui appartiene?» «Temo che dovrete cominciare a telefonare a tutti gli alberghi per sco-
prire quali usano la APC-42. Da qualche parte abbiamo quelle informazioni, ma non saprei come recuperarle. Cercherò di rintracciare il mio addetto alle vendite o il suo assistente. Ma potrei metterci anche un giorno o due.» «Ahi», sospirò Sellitto. Già, ahi. Conclusa la telefonata, Rhyme decise che non potevano aspettare le informazioni dell'APC, così chiese a Sellitto di mandare la chiave a Bedding e Saul con l'ordine di cominciare a setacciare gli alberghi di Manhattan per scoprire quali usassero la stramaledetta, popolarissima APC-42. Ordinò anche un controllo delle impronte digitali sul tesserino e sulla chiave dell'albergo, ma l'analisi diede esiti negativi anche questa volta, rivelando soltanto due macchie lasciate dai copridita. Roland Bell tornò dalle scene del crimine del West Side e Cooper lo aggiornò su ciò che la squadra aveva scoperto in sua assenza. Quindi ricominciarono a studiare le prove e scoprirono che la giacca a vento del Negromante conteneva anche qualcos'altro: la ricevuta di un ristorante chiamato Riverside Inn a Bedford Junction, New York. Il conto rivelava che quattro persone avevano pranzato al tavolo 12 sabato 6 aprile, due settimane prima. I quattro avevano preso tacchino, polpettone, una bistecca e un piatto del giorno. Nessuno aveva bevuto alcolici. Amelia scosse la testa. «Dove diavolo è Bedford Junction?» «Credo a nord», rispose Mel Cooper. «C'è un numero di telefono sulla ricevuta», disse Bell. «Chiamiamoli. E chiediamo a Debby o a Tanya o a chiunque sia la graziosa cameriera del locale se quattro clienti abituali sono soliti sedersi al...» diede un'occhiata alla ricevuta «... tavolo 12. O almeno se si ricorda chi abbia ordinato quei piatti. Le possibilità sono pochissime, ma chissà...?» «Qual è il numero?» chiese Sellitto. Bell glielo lesse. Le possibilità erano pochissime, troppo poche, come Rhyme aveva previsto. Il direttore disse che le cameriere non avevano idea di chi avesse pranzato lì quel sabato. «È un 'posto molto animato'», riferì Sellitto, roteando gli occhi. «Cito le sue parole.» «Non mi piace», disse Amelia. «Cosa?» «Perché il Negromante ha pranzato con altre tre persone?» «Ottima domanda», intervenne Bell. «Pensi che lavori con qualcuno?»
Sellitto rispose: «No, ne dubito. I criminali che seguono uno schema preciso sono quasi sempre dei solitari». Kara non era convinta. «Non ne sono sicura. I maghi e i prestigiatori lavorano da soli. Ma lui è un illusionista, ricordate? E gli illusionisti lavorano sempre con altre persone. Ci sono i volontari che l'illusionista sceglie tra il pubblico. Poi ci sono gli assistenti che lavorano con lui sul palco. E infine ci sono i complici. Sono persone che lavorano con l'illusionista all'insaputa del pubblico. Possono essere travestiti da attrezzisti, spettatori, volontari. In qualsiasi buono spettacolo non si può mai essere sicuri di chi sia veramente chi.» Cristo, pensò Rhyme, quel criminale era già abbastanza cattivo ed era capace di servirsi del trasformismo, dell'escapologia e dell'illusionismo. Se era vero che lavorava con degli assistenti, allora era cento volte più pericoloso. «Aggiungilo alla tabella, Thom», abbaiò. «Vediamo cos'hai trovato nel vicolo dove Burke lo ha arrestato.» Il primo oggetto erano le manette dell'agente. «Se le è tolte in un secondo. Probabilmente aveva una chiave», disse Amelia. Con grande disappunto dei poliziotti di tutto il Paese, quasi tutti i modelli di manette possono essere aperti con chiavi generiche disponibili per pochi dollari presso i fornitori delle forze dell'ordine. Rhyme guidò la Storm Arrow fino al tavolo delle prove e osservò con attenzione le manette. «Voltale... Sollevale... Potrebbe aver usato una chiave, certo, ma ci sono dei graffi fatti di recente attorno alla serratura. Direi che l'ha forzata...» «Ma Burke deve averlo perquisito», gli fece notare Amelia. «Dove può aver preso un grimaldello?» Kara spiegò: «Poteva averlo nascosto ovunque. Nei capelli, in bocca». «In bocca?» chiese Rhyme. «Mel, analizza le manette con l'ALS.» Cooper si mise gli occhiali e diresse sulle manette una fonte di luce alternativa. «Già, ci sono delle sbavature e dei segni attorno alla serratura.» Questo significava, spiegò Rhyme a Kara, che era presente un liquido corporeo, probabilmente saliva. «Houdini lo faceva sempre. A volte chiedeva a qualcuno del pubblico di controllargli la bocca. Poi, appena prima che cominciasse il suo numero, sua moglie lo baciava... lui diceva che gli portava fortuna ma in realtà lei gli faceva scivolare in bocca una chiave.» «Ma il Negromante era ammanettato dietro la schiena», disse Sellitto.
«Come può essere riuscito a raggiungersi la bocca?» «Oh», disse Kara con una risata. «Qualsiasi escapologista è in grado di portarsi le mani intrappolate davanti al corpo in tre o quattro secondi.» Cooper analizzò le tracce di saliva. Alcuni individui secernono anticorpi in tutti i fluidi corporei, che gli investigatori usano per determinare il gruppo sanguigno. Tuttavia il Negromante non risultò essere un secretore. Amelia aveva trovato anche un minuscolo pezzo di metallo dal bordo dentellato. «Sì, dev'essere suo anche questo», disse Kara. «È un altro strumento da escapologisti. Una sega a rasoio. Probabilmente l'ha usata per tagliare i legacci di plastica che aveva attorno alle caviglie.» «Ma può aver tenuto anche questo in bocca? Non sarebbe stato troppo pericoloso?» «Oh, molti di noi si nascondono chiodi e lamette in bocca durante gli spettacoli. Se si ha esperienza, non è affatto rischioso. Esaminando l'ultimo degli indizi rinvenuti nel vicolo, trovarono altri frammenti di lattice e tracce di cosmetici identici a quelli che avevano già rilevato. C'erano anche residui di Tack-Pure. «Cos'hai trovato sulle rive del fiume, Sachs?» «Solo i segni dei pneumatici nel fango.» Amelia fissò alla tabella delle prove le foto digitali che Cooper aveva stampato dal computer. «Un cittadino volenteroso è riuscito a rovinare la scena del crimine», spiegò. «Ma ho passato mezz'ora a esaminare il fango. Sono piuttosto sicura che il Negromante non abbia gettato niente e che non sia riuscito a fuggire.» «Cosa mi dici della vittima, Cheryl Marston? Ha raccontato qualcosa?» chiese Sellitto a Bell. Il poliziotto di Tarheel riassunse le dichiarazioni della donna. Un avvocato, rifletté Rhyme. Perché scegliere proprio lei? Che diavolo di schema stava seguendo l'assassino? Una musicista, un truccatore e un avvocato. Bell aggiunse: «È divorziata. Il marito vive in California. Non è stato il divorzio più amichevole della storia ma sono convinto che lui non sia coinvolto. Ho chiesto al Dipartimento di Polizia di Los Angeles di fare un controllo e a quanto pare per oggi l'ex marito ha un alibi di ferro. E non è inserito nel NCIC e nel VICAP». Cheryl Marston aveva detto che il Negromante era snello, forte, che aveva la barba e il collo e il petto segnati da cicatrici. «E le dita deformi, proprio come avevamo immaginato. Fuse insieme, ha detto. Oh, lui non ha
fatto alcun accenno al quartiere dove vive, e come alias ha scelto il nome 'John'. Un ragazzo davvero astuto.» Era tutto inutile, dichiarò Rhyme. Poi Bell spiegò alla squadra come aveva fatto il Negromante ad avvicinarla e cos'era successo in seguito. «Qualcosa ti sembra familiare?» domandò Lincoln a Kara. «Potrebbe aver ipnotizzato un piccione o un gabbiano e averlo lanciato contro il cavallo. Quindi può aver usato un qualche gimmick per tenere il cavallo agitato.» «Che tipo di gimmick?» chiese Rhyme. «Conosci qualche produttore?» «No, probabilmente è di fabbricazione artigianale. Un tempo molti maghi usavano elettrodi o pungoli per far ruggire i leoni a comando, roba del genere. Ma oggigiorno gli attivisti per i diritti degli animali non permetterebbero più a un mago di fare una cosa del genere.» Bell continuò descrivendo ciò che era successo quando la Marston e il Negromante erano andati a prendere il caffè. «Ha detto che c'era una cosa particolarmente strana. Era come se lui fosse in grado di leggerle nel pensiero.» Bell riferì alla squadra le cose che il Negromante aveva dato l'impressione di conoscere sul conto di Cheryl Marston. «Si tratta di lettura del corpo», spiegò Kara. «L'assassino diceva qualcosa e osservava attentamente le reazioni della donna. Questo deve avergli fornito molte informazioni su di lei. Gli illusionisti chiamano questa tecnica 'vendere la medicina'. Un mentalista davvero in gamba può scoprire ogni genere di cose sulla persona con cui sta parlando anche durante una conversazione banale.» «Quindi la Marston stava cominciando a sentirsi a suo agio quando lui l'ha drogata e l'ha portata allo stagno. Dove l'ha appesa a testa in giù.» «Una variazione della Tortura della Cella d'Acqua», spiegò Kara. «Uno dei più famosi numeri di Houdini.» «E la fuga del Negromante dallo stagno?» chiese Rhyme ad Amelia. «All'inizio non ero sicura che fosse lui... aveva cambiato travestimento», cominciò lei. «I suoi vestiti erano diversi così come...» lanciò un'occhiata a Kara «... le sue sopracciglia. Non sono riuscita a vedergli la mano, le dita. Poi mi ha distratta, usando il ventriloquio. Lo stavo guardando in faccia: le sue labbra sono rimaste immobili.» Kara intervenne: «Scommetto che ha scelto parole che non contenevano né b né p. Probabilmente nemmeno f o v».
«Hai ragione. Mi pare che abbia detto qualcosa come 'Ehi, signora, attenta! Quel tizio in tuta da jogging alla sua destra! È armato'.» Fece una smorfia. «Ho distolto lo sguardo... ho guardato dove stava guardando lui, come tutti i presenti. A quel punto lui ha usato il cotone lampo, abbagliandomi. Ha fatto scoppiare i petardi e io ho creduto che fossero degli spari. Mi ha colto completamente alla sprovvista.» Rhyme notò il disgusto sul suo volto. Amelia Sachs riservava per sé le sue critiche più severe. Ma Kara la giustificò. «Non essere dura con te stessa. L'udito è il senso più facile da ingannare. Non usiamo molto spesso le illusioni acustiche negli spettacoli. Le consideriamo troppo facili.» Amelia scrollò le spalle e continuò: «Mentre Roland e io eravamo ancora accecati, lui è scomparso e si è confuso tra la folla della fiera». Un'altra smorfia. «E poi l'ho visto quindici minuti più tardi: era travestito da biker, aveva una camicia Harley Davidson. Voglio dire, Cristo santo, mi è passato proprio davanti». «Ragazzi», mormorò Kara scuotendo la testa. «Le sue monete non parlano proprio.» «Che significa?» domandò Rhyme. «Monete?» «Oh, è un'espressione che usiamo noi maghi. Letteralmente significa che nessuno riesce a sentire alcun tintinnio quando esegui un trucco con le monete. Ma in generale la usiamo per dire che qualcuno è veramente bravo, che ha trucchi formidabili.» Kara si avvicinò alla lavagna riservata al profilo del Negromante come mago, prese il pennarello e aggiunse alcune voci, commentando: «Quindi, il nostro uomo fa trucchi di destrezza, usa il mentalismo e persino il ventriloquio. E i trucchi con gli animali. Sapevamo già che è abile nel forzare le serrature — lo abbiamo scoperto dopo il secondo omicidio — ma adesso sappiamo anche che è un esperto escapologista. Esiste un tipo di magia che non fa?» Mentre Rhyme posava il capo contro il poggiatesta, guardando Kara che scriveva, Thom entrò nella stanza portando una grande busta. La porse a Bell. «Per te.» «Cos'è?» chiese il detective di Tarheel, mentre estraeva il contenuto dalla busta e cominciava a leggere. Annuì lentamente. «È il rapporto sulla nuova analisi dell'ufficio di Grady. Quella che hai chiesto a Peretti di svolgere. Ti dispiace dargli un'occhiata, Lincoln?» Ai documenti era allegato un biglietto che diceva soltanto LR — Come
richiesto — VP. Rhyme lesse il rapporto con l'aiuto di Thom, che a ogni suo brusco cenno del capo voltava le pagine per lui. I tecnici della scientifica avevano completato l'analisi dell'ufficio della segretaria e avevano identificato e catalogato tutte le impronte trovate nella stanza, esattamente come aveva chiesto il criminologo. Rilesse quest'ultima parte varie volte, quindi chiuse gli occhi, cercando di visualizzare la scena. Dopo di che passò alla completa analisi delle fibre che erano state rinvenute. La maggior parte di quelle bianche era di un misto di poliestere e rayon. Alcune erano attaccate a una spessa fibra di cotone anch'essa bianca. Per lo più erano opache e sporche. Le fibre nere invece erano di lana. «Mel, che ne pensi delle fibre nere?» Il tecnico si alzò dal suo sgabello ed esaminò le immagini. «Le fotografie non sono di buona qualità», disse. Dopo qualche istante concluse: «Provengono da un tessuto a trama stretta e diagonale». «Gabardine?» domandò Rhyme. «Non posso rispondere senza un campione più grande che mi permetta di vedere il disegno diagonale. Comunque direi gabardine.» Rhyme finì di leggere la pagina e scoprì che l'unica fibra rossa rinvenuta nell'ufficio era di satin. «Okay, okay», disse riflettendo ad alta voce e chiudendo gli occhi per assimilare tutto ciò che aveva letto. Poi chiese a Cooper: «Cosa sai di trame e tessuti, Mel?» «Non molto. Ma, se posso citare le tue parole, Lincoln, la domanda non è 'che cosa sai?' ma 'puoi scoprire qualcosa?' e la risposta è sì, mi metto subito al lavoro.» 22 Harry Houdini era famoso per le doti di escapologista ma in realtà alcuni grandi esperti di escapologia erano vissuti prima di lui e altri erano suoi contemporanei. Ciò che distingueva Houdini da tutti gli altri era un ingrediente che veniva sempre aggiunto ai suoi numeri: la sfida. Una parte fondamentale dei suoi spettacoli consisteva nell'invitare un qualsiasi abitante della città in cui si esibiva a sfidare Houdini a liberarsi da un marchingegno o a fuggire da un luogo fornito o indicato da colui che lanciava la sfida: le manette di un poliziotto del luogo o una cella nella prigione della città. Era stato quell'elemento competitivo a rendere grande e a far prosperare Houdini.
E sarà così anche per me, pensò Malerick entrando nel suo appartamento dopo la fuga dal fiume Harlem e un po' di lavoro di perlustrazione. Ma era ancora molto scosso dagli eventi di quel pomeriggio. Ai tempi in cui si era esibito regolarmente, prima dell'incendio, c'era stato spesso un elemento di pericolo nei suoi numeri. Di autentico pericolo. Il suo mentore gli aveva insegnato che senza rischio non si poteva sperare di catturare l'attenzione del pubblico. Per Malerick non esisteva peccato più grave dell'annoiare coloro che erano venuti per farsi intrattenere. Ma che incredibile serie di sfide si era rivelato quel particolare numero: i poliziotti erano molto più in gamba di quello che si era aspettato. Come avevano fatto a prevedere che avrebbe preso di mira la donna dell'Accademia Ippica? E che avrebbe tentato di affogarla? Lo avevano intrappolato alla fiera e poi lo avevano identificato a bordo della Mazda e lo avevano inseguito di nuovo, avvicinandosi talmente tanto che lui era stato costretto a gettare la macchina nel fiume. Le sfide erano un conto, ma adesso cominciava a sentirsi paranoico. Avrebbe voluto dedicarsi alla preparazione del prossimo numero ma decise di restare in casa fino all'ultimo minuto. Inoltre, c'era qualcos'altro che doveva fare. Qualcosa per sé, non i per i suoi Riveriti Spettatori. Chiuse le tende e sistemò una candela sulla mensola del caminetto, accanto a una piccola scatola di legno intarsiato. Con un fiammifero accese la candela. Poi si sedette sul tessuto ruvido del divano da quattro soldi. Cercò di controllare la respirazione. Inspirando lentamente, espirando. Lentamente, lentamente, lentamente... Si concentrò sulla fiamma andando alla deriva nella meditazione. L'arte della magia è sempre stata divisa in due scuole. La prima è quella a cui appartengono i prestidigitatori, i giocolieri, gli illusionisti: persone che intrattengono i loro spettatori con giochi di destrezza e abilità fisiche. La seconda è molto più controversa e riguarda la pratica dell'occulto. Persino in quest'epoca dominata dalla scienza, alcuni maghi sostengono di possedere davvero poteri soprannaturali che permettono loro di leggere il pensiero, spostare gli oggetti con la forza della mente, predire il futuro e comunicare con gli spiriti. Per migliaia di anni, ciarlatani che dichiaravano di essere veggenti e medium si sono arricchiti dichiarando di essere in grado di evocare gli spiriti dei morti e di farli comunicare con i parenti in lutto. Prima che lo Stato cominciasse a impedire questo tipo di frodi, erano stati i maghi più seri a proteggere gli ingenui rivelando pubblicamente i trucchi che stavano alla
base di alcune cosiddette pratiche esoteriche. Ancora oggi il brillante mago James Randi passa la maggior parte del suo tempo a smascherare gli imbroglioni. Lo stesso Harry Houdini aveva dedicato gran parte della sua vita e del suo patrimonio a sfidare falsi medium. Tuttavia una delle ragioni per cui aveva fatto propria quella causa era la disperata ricerca di un vero medium che fosse capace di metterlo in contatto con lo spirito della madre, dalla cui morte Houdini non si era mai completamente ripreso. Malerick ora stava fissando la candela, la fiamma. Fissando, pregando che lo spirito della sua anima gemella comparisse e accarezzasse il cono di luce gialla per mandargli un segno. Malerick usava la candela come mezzo di comunicazione perché era stato proprio il fuoco a portargli via il suo amore, perché era stato proprio il fuoco a cambiargli per sempre la vita. Un momento, la fiamma aveva tremolato? Sì, o forse no. Non poteva esserne sicuro. Le due scuole di magia erano in lotta dentro di lui. Come illusionista di talento, naturalmente, Malerick sapeva che i suoi numeri non erano altro che fisica, chimica e psicologia applicate. Tuttavia c'era una scheggia di dubbio nella sua mente che lo spingeva a chiedersi se la magia non fosse realmente la chiave del mondo soprannaturale: Dio come illusionista, che faceva svanire i nostri fragili corpi e rubava le anime di coloro che amavamo, trasformandole e riportandole a noi, i Suoi tristi e speranzosi spettatori. Non era impensabile, si disse Malerick. Lui... E in quel momento la fiamma tremolò! Sì, l'aveva vista. La fiamma si mosse di un millimetro verso la scatola intarsiata. Molto probabilmente, significava che la sua anima gemella stava fluttuando vicino a lui, evocata non dalla meccanica ma dal legame e dalla connessione che la magia può rivelare solo a chi riesce a restare ricettivo. «Ci sei?» sussurrò. «Sei proprio tu?» Respirò con estrema lentezza, temendo che il suo fiato raggiungesse la candela facendo tremolare la fiamma: voleva la prova che gli dimostrasse che non era solo. Alla fine, la candela si spense da sola e Malerick rimase seduto a lungo in meditazione a guardare il fumo grigio che saliva in una spirale verso il soffitto prima di svanire. Diede un'occhiata all'orologio. Non poteva indugiare oltre. Prese i costumi e gli strumenti che gli sarebbero serviti, li riordinò, si vestì e si truccò con cura.
Lo specchio gli disse che era entrato nel ruolo. Raggiunse l'atrio del palazzo e guardò fuori dalla finestra. La strada era deserta. Poi uscì nella sera di primavera per un numero che, sì, avrebbe rappresentato una sfida ancora più ardita delle precedenti. Il fuoco e l'illusione sono anime gemelle. Lampi di polvere abbagliante, candele, fiamme su cui dondolano gli artisti della fuga... Il fuoco, Riveriti Spettatori, è il giocattolo del Diavolo e il Diavolo è sempre stato collegato alla magia. Il fuoco illumina e il fuoco oscura, distrugge e crea. Il fuoco trasforma. Ed è il fulcro del nostro prossimo numero. Il numero che ho chiamato L'Uomo Carbonizzato. La Neighborhood School, nel Greenwich Village, poco lontano dalla Quinta strada, è un caratteristico edificio di pietra calcarea modesto nell'aspetto quanto lo è nel nome. Nessuno penserebbe mai che i figli di alcune delle famiglie più ricche e potenti di New York imparino a leggere, a scrivere e a contare proprio lì. Era noto non solo come istituto scolastico di qualità — sempre che si possa usare questo termine per una scuola elementare — ma anche, per quella parte della città, come centro per importanti eventi culturali. Come, per esempio, il concerto delle otto di sabato sera. A cui il reverendo Ralph Swensen si stava recando proprio ora. Era sopravvissuto al lungo tragitto attraverso Chinatown e Little Italy fino al Greenwich Village senza gravi fastidi a parte le continue richieste di elemosina, delle quali ormai non si curava praticamente più. Si era fermato a mangiare in un ristorante italiano e aveva ordinato degli spaghetti (oltre ai ravioli, l'unico piatto del menu che conosceva). E dal momento che sua moglie non era con lui si era concesso anche un bicchiere di vino rosso. Il cibo era fantastico e il reverendo si era trattenuto a lungo nel ristorante, sorseggiando la bevanda proibita e godendosi la vista dei bambini che giocavano nelle strade di quel rumoroso quartiere. Aveva pagato il conto, sentendosi in qualche modo in colpa per aver usato i fondi della parrocchia per degli alcolici, quindi si era incamminato nuovamente verso nord in direzione del Village, lungo una strada che lo aveva portato ad attraversare un luogo chiamato Washington Square. An-
che se a prima vista gli era sembrata una Sodoma in miniatura, quando si era addentrato nel cuore del caotico parco il reverendo aveva scoperto che gli unici peccatori lì erano ragazzi che ascoltavano musica ad alto volume e gente che beveva birra e vino da bottiglie avvolte in sacchetti di carta. Benché credesse in un sistema morale che voleva che alcuni peccatori fossero destinati all'inferno (come i chiassosi omosessuali che si prostituivano e impedivano agli altri di dormire), le offese spirituali che aveva trovato lì non erano del genere che assicurava un biglietto di sola andata per la grande fornace. Arrivato a metà strada nel parco aveva cominciato a sentirsi a disagio. Aveva pensato di nuovo all'uomo che lo aveva spiato, l'uomo in tuta con la cassetta degli attrezzi che aveva visto accanto all'hotel. Swensen era sicuro di averlo visto una seconda volta, nel riflesso della vetrina di un negozio poco dopo aver lasciato l'hotel. Aveva provato la stessa sensazione di essere osservato. Si era voltato di scatto guardandosi alle spalle. Be', nessun operaio. Ma aveva intravisto un uomo che indossava una giacca sportiva nera e che lo stava fissando. Con fare noncurante, l'uomo aveva distolto lo sguardo e si era diretto verso un bagno pubblico. Paranoia? Non poteva essere che così. L'uomo non assomigliava per niente all'operaio. Ma quando aveva lasciato il parco, imboccando la Quinta strada, e aveva cominciato a fare lo slalom tra i passeggini sul marciapiede, il reverendo aveva avuto di nuovo l'impressione di essere seguito. Si era lanciato un'occhiata alle spalle. Questa volta aveva visto un uomo biondo dagli occhiali spessi, vestito con una giacca sportiva marrone e una T-shirt, che guardava nella sua direzione. Il reverendo Swensen aveva notato che stava attraversando la strada nel punto in cui l'aveva appena attraversata lui. Ma adesso era certo di essere solo stato paranoico. Tre uomini diversi non potevano averlo seguito. Rilassati, pensò, continuando sulla Quinta strada, affollata di persone che si godevano quella splendida sera di primavera. Il reverendo Swensen arrivò alla Neighborhood School alle sette in punto, mezz'ora prima dell'apertura. Appoggiò a terra la valigetta e incrociò le braccia sul petto. Poi decise che, no, avrebbe fatto meglio a tenersela stretta e la sollevò di nuovo. Si appoggiò contro il cancello di ferro battuto che circondava il giardino accanto alla scuola, guardando inquieto nella direzione da cui era arrivato. No, nessuno. Nessun operaio con la cassetta degli attrezzi. Nessun uomo
in giacca sportiva. Era... «Mi scusi, padre.» Sorpreso, Swensen si voltò di scatto e si ritrovò a guardare un uomo bruno, robusto e con la barba di due giorni. «Uhm, sì?» «È qui per lo spettacolo?» Con un cenno del capo l'uomo indicò la Neighborhood School. «Esatto», rispose lui, cercando di non far trapelare l'inquietudine nella sua voce. «A che ora dovrebbe cominciare?» «Alle otto. La scuola apre alle sette e trenta.» «Grazie, padre.» «Nessun problema.» L'uomo sorrise e si allontanò in direzione della scuola. Il reverendo Swensen continuò ad attendere, stringendo nervosamente la maniglia della valigetta. Uno sguardo all'orologio: le 7:15. Poi, finalmente, dopo cinque interminabili minuti, vide ciò che stava aspettando, ciò per cui aveva intrapreso quel lungo viaggio: la Lincoln nera con la targa governativa. L'auto si fermò a un isolato di distanza dalla Neighborhood School. Il reverendo strizzò gli occhi nella semioscurità per leggere il numero di targa. Era il veicolo giusto... Ti ringrazio, Signore. Dai sedili anteriori della Lincoln scesero due giovani uomini che indossavano completi scuri. Si guardarono attorno controllando il marciapiede — e lanciando un'occhiata a lui — e alla fine decisero che la strada era sicura. Uno dei due uomini si chinò verso un finestrino e parlò con qualcuno che sedeva sui sedili posteriori. Il reverendo sapeva con chi stava parlando: il viceprocuratore distrettuale Charles Grady, l'uomo che si stava occupando del processo ad Andrew Constable. Grady era lì con sua moglie per assistere allo spettacolo a cui partecipava la figlia. Era proprio il procuratore il fulcro della sua missione di quel weekend a Sodoma. Come san Paolo, il reverendo Swensen era entrato in un mondo di miscredenti per mostrare loro l'errore che stavano commettendo e portare loro la verità. Aveva deciso, però, di farlo in modo più determinato dell'apostolo: uccidendo Charles Grady con la pesante pistola che teneva nella valigetta che si stringeva al petto come se fosse stata l'arca dell'alleanza stessa.
23 Soppesò la scena che aveva davanti agli occhi. Valutò con attenzione le angolazioni, le vie di fuga, il numero dei passanti che si trovavano sul marciapiede, l'intensità del traffico sulla Quinta strada. Non poteva permettersi di sbagliare. Molte cose dipendevano dal suo successo; il reverendo aveva motivi personali per volere la morte di Charles Grady. Martedì, attorno a mezzanotte, Jeddy Barnes, un miliziano della sua città, si era inaspettatamente presentato alla porta della casa prefabbricata che il reverendo usava sia come abitazione sia come chiesa. Correva voce che Barnes si fosse nascosto in un camper nel fitto dei boschi attorno a Canton Falls dopo le operazioni della polizia di Stato contro l'Alleanza Patriottica di Andrew Constable qualche mese prima. «Preparami un caffè», aveva ordinato Barnes guardando il reverendo terrorizzato con i suoi occhi feroci e fanatici. L'unico suono era quello del battito irregolare della pioggia sul tetto di metallo. Barnes, un tipo duro, solitario e inquietante, con capelli grigi a spazzola e il volto scavato, si era sporto in avanti e aveva detto: «Ho bisogno che tu faccia una cosa per me, Ralph». «Che cosa?» Barnes aveva allungato le gambe e aveva fissato l'altare di legno che il reverendo Swensen aveva costruito e verniciato malamente. «C'è un uomo che ce l'ha con noi. Che ci perseguita. È uno di loro.» Swensen sapeva già che con «loro» Barnes si riferiva a un'indefinita alleanza composta dal governo federale e quello statale, dai media, dai non cristiani, dai membri di qualsiasi partito politico organizzato e dagli intellettuali — per cominciare. («Noi» indicava chiunque non appartenesse a quelle categorie, sempre che quel qualcuno fosse bianco.) Il reverendo non era fanatico quanto Barnes e i suoi amici miliziani — che per la verità lo spaventavano a morte — tuttavia era convinto che ci fosse qualcosa di vero in ciò che predicavano. «Dobbiamo fermarlo.» «Chi è?» «Un procuratore di New York.» «Oh, quello che vuol far condannare Andrew?» «Proprio lui. Charles Grady.» «Che cosa dovrei fare?» aveva chiesto il reverendo Swensen immagi-
nando una raccolta di firme o un sermone infuocato. «Ucciderlo», aveva risposto semplicemente Barnes. «Cosa?» «Voglio che tu vada a New York e che lo uccida.» «Oh, Signore! Be', non posso farlo.» Aveva tentato di usare un tono deciso anche se le mani gli tremavano talmente tanto che aveva versato il caffè sul libro degli inni. «Prima di tutto, a cosa servirà? Non aiuterà in alcun modo Andrew. Dannazione, capiranno subito che c'è lui dietro l'omicidio e la situazione diventerà anche più difficile...» «Constable non fa parte di questo piano. È fuori dall'equazione. Ci sono questioni più importanti in gioco. Abbiamo bisogno di fare una dichiarazione. Sai, come fanno tutti quegli stronzi di Washington nelle loro conferenze stampa.» «Be', scordatelo, Jeddy. Non posso farlo. È una pazzia.» «Oh, penso che tu possa farlo, invece.» «Ma sono un ministro di Dio.» «Vai a caccia ogni domenica... anche quello è omicidio da un certo punto di vista. E sei stato in Vietnam. Hai preso degli scalpi... sempre che quello che racconti sia vero.» «È stato trent'anni fa.» Il reverendo aveva parlato con voce bassa e disperata, cercando di evitare sia gli occhi dell'uomo sia di ammettere che no, i suoi racconti di guerra non erano veri. «Non ho intenzione di uccidere nessuno.» «Sono sicuro che Clara Sampson vorrebbe che lo facessi.» Silenzio per un attimo. «La verità torna sempre a galla, Ralph.» Signore, Signore, Signore... L'anno prima, Jeddy Barnes aveva impedito a Wayne Sampson di andare alla polizia dopo che l'allevatore aveva scoperto il reverendo con la figlia tredicenne nel campo giochi che aveva costruito dietro la scuola. Ora, Swensen si era reso conto che Barnes aveva fatto da mediatore solamente per poterlo ricattare. «Ti prego, ascolta...» «Clara ha scritto una bella lettera, che si dà il caso che abbia io. Ti ho detto che l'anno scorso le ho chiesto io di scriverla? Comunque, ha descritto le tue parti intime con più dettagli di quanti ne vorrei mai conoscere, ma sono sicuro che una giuria apprezzerebbe.» «Non puoi farmi questo. No, no, no...» «Non voglio discutere con te di questa faccenda, Ralph. Questa è la situazione. Se non accetti, entro un mese in prigione farai tu ai negri quello
che ti sei fatto fare da Clara Sampson. Adesso, dimmi: cosa hai deciso?» «Merda.» «Lo prendo come un sì. Ora, lascia che ti spieghi che cosa abbiamo in programma.» E Barnes gli aveva dato una pistola, l'indirizzo di un albergo e dell'ufficio di Grady, quindi lo aveva spedito a New York. Quando, qualche giorno prima, il reverendo Swensen era arrivato in città, aveva passato alcuni giorni a fare lavoro di ricognizione. Nel tardo pomeriggio di giovedì era entrato nell'edificio governativo e, con aria vagamente confusa e gli abiti da reverendo, si era aggirato senza problemi per i corridoi finché non aveva trovato il ripostiglio in fondo a un corridoio deserto dov'era rimasto nascosto fino a mezzanotte. Poi aveva fatto irruzione nell'ufficio di Grady e aveva scoperto che il procuratore e la sua famiglia sarebbero andati allo spettacolo alla Neighborhood School; la figlia di Grady era tra i giovani artisti che si sarebbero esibiti. Ora, armato, teso e con i nervi a fior di pelle, il reverendo era in piedi davanti alla scuola e stava osservando le guardie del corpo di Grady intente a parlare con il procuratore seduto sul sedile posteriore della Lincoln. Il piano era uccidere Grady e le sue guardie usando la pistola con il silenziatore e poi gettarsi a terra urlando, in preda al panico, che un uomo era passato a bordo di un'auto e aveva sparato. Il reverendo avrebbe sfruttato la confusione per fuggire. Cercò di dire una preghiera ma, anche se Charles Grady era uno strumento del demonio, l'idea di chiedere aiuto al Signore nostro Dio per uccidere un cristiano bianco e disarmato metteva terribilmente a disagio il reverendo Swensen. Così decise di recitare mentalmente qualche passo della Bibbia. Vidi un altro angelo scendere dal cielo e il suo potere era grande; e la Terra venne illuminata dalla sua gloria... Il reverendo Swensen spostò il peso da un piede all'altro pensando che non sarebbe riuscito a sopportare l'attesa ancora per molto. Nervi a fior di pelle, nervi a fior di pelle... Voleva tornare dai suoi fedeli, nella sua città, nella sua chiesa, a dedicarsi ai suoi sermoni sempre tanto apprezzati. Anche da Clara Sampson, che ormai aveva quasi quindici anni ed era sotto ogni aspetto una facile preda. E l'angelo gridò con voce potente dicendo Babilonia la grande è caduta ed è diventata la dimora dei demoni, la roccaforte degli spiriti malvagi... Rifletté sulla questione della famiglia di Grady. La moglie del procura-
tore non aveva fatto niente di male. Essere sposati a un peccatore non equivaleva a essere peccatori o a lavorare per un peccatore. No, avrebbe risparmiato la signora Grady. A meno che lei non lo avesse visto sparare. Quanto alla figlia di cui Barnes gli aveva parlato, Chrissy... Si chiese quanti anni e che aspetto avesse. E i frutti che la tua anima ha bramato sono lontani da te, e tutte le cose che erano squisite e buone sono lontane da te e tu non potrai trovarle mai più... Il giorno del giudizio è arrivato per te, Grady, pensò, e il suo strumento è un'efficiente pistola svizzera e il messaggero non è un angelo del paradiso ma un rappresentante dell'America dei giusti. Il reverendo si mosse. Le guardie del corpo stavano guardando ancora da un'altra parte. Aprì la valigetta, estrasse la cartina Rand McNally e la pesante pistola. Nascondendo l'arma sotto la cartina colorata, si avvicinò con aria noncurante alla Lincoln. Le guardie del corpo di Grady, ora, erano una accanto all'altra sul marciapiede e gli davano le spalle. Uno dei due uomini si chinò per aprire la portiera al procuratore. Ancora sei metri... Il reverendo Swensen pensò a Grady, che Dio avesse pietà della sua... E fu in quel momento che il cielo crollò sulle sue spalle. «A terra, a terra, subito, subito, subito, subito!» Una mezza dozzina tra uomini e donne, un centinaio di demoni, afferrarono il reverendo Swensen per le braccia e lo sbatterono con violenza a terra. «Non ti muovere non ti muovere non ti muovere non ti muovere!» Uno dei demoni gli tolse la pistola, un altro gli strappò la valigetta, un altro ancora gli schiacciò il volto contro il marciapiede con il peso di tutti i peccati della città. Il volto del reverendo sfregò contro il cemento e una fitta di dolore gli trafisse i polsi e le spalle quando venne ammanettato e gli vennero rivoltate le tasche. Schiacciato a terra, il reverendo Swensen vide aprirsi la portiera dell'auto di Grady, da cui scesero tre poliziotti in giubbotto antiproiettile. «Sta' giù, tieni la testa giù giù giù!» Gesù Signore onnipotente... Il reverendo vide i piedi di un uomo che gli si avvicinavano. In confronto agli altri agenti, l'uomo era molto gentile. Con un pesante accento del Sud disse: «Adesso, signore, la volteremo e io le leggerò i suoi diritti. E lei
mi dirà se li ha capiti». Diversi poliziotti lo voltarono a faccia in su e lo fecero alzare in piedi. Il reverendo li fissò sconvolto. L'uomo che stava parlando era l'uomo con la giacca sportiva scura che aveva notato a Washington Square. Accanto a lui c'era l'uomo biondo con gli occhiali. Il terzo, l'uomo bruno che gli aveva chiesto a che ora sarebbe iniziato il concerto, era in piedi poco lontano. «Signore, io sono il detective Bell. E sto per leggerle i suoi diritti. È pronto? Molto bene. Cominciamo.» Bell esaminò il contenuto della valigetta di Swensen. Munizioni extra per la pistola H&K. Un blocco per appunti giallo su cui era scarabocchiato quello che sembrava un pessimo sermone. Una guida, New York, spendendo cinquanta dollari al giorno. Una Bibbia malconcia su cui erano stampati un nome e un indirizzo: Hotel Adelphi, 232 Bowery, New York, New York. Mmm, pensò Bell ironico, a quanto pare possiamo aggiungere l'accusa di furto di Bibbia. Non trovò niente, però, che suggerisse un collegamento diretto tra l'attentato alla vita di Grady e Andrew Constable. Scoraggiato, lasciò che altri agenti si occupassero di raccogliere le prove e chiamò Rhyme per dirgli che l'intervento improvvisato della squadra Salviamo il Culo aveva avuto successo. Un'ora prima, a casa di Rhyme, il criminologo aveva continuato a studiare il nuovo rapporto sulla scena del crimine mentre Mel Cooper si occupava dell'analisi delle fibre rinvenute nell'ufficio di Grady. Alla fine Rhyme aveva tratto delle inquietanti conclusioni. L'analisi delle impronte aveva rivelato che l'intruso era rimasto per alcuni minuti in un unico punto: l'angolo a destra, davanti alla scrivania della segretaria. L'inventario dell'ufficio aveva evidenziato un unico oggetto su quella parte della scrivania: il calendario giornaliero della donna. E l'unico appunto per quel weekend era l'esibizione di Chrissy Grady allo spettacolo della Neighborhood School. Questo significava che la persona che si era introdotta nell'ufficio senz'altro aveva notato l'appunto. Quanto all'aggressore, Rhyme aveva azzardato l'ipotesi che potesse essere travestito da reverendo o da prete. Con l'aiuto di un database dell'FBI, Cooper era riuscito a far risalire le fibre nere e la tinta a un produttore del Minnesota che — Cooper e Rhyme lo ave-
vano scoperto visitando il suo sito web — era specializzato in gabardine nero per le sartorie che confezionavano abiti clericali. Lincoln inoltre aveva notato che alcune delle fibre bianche ritrovate dalla scientifica erano di poliestere e cotone inamidato, il che suggeriva che provenissero da una camicia leggera con un rigido colletto clericale. L'unica fibra rossa di satin avrebbe potuto provenire dal segnalibro di tessuto di un vecchio volume, così come la foglia d'oro. Una Bibbia, per esempio. Anni prima, Rhyme si era occupato di un caso in cui un trafficante aveva nascosto della droga in una Bibbia svuotata: la squadra della scientifica aveva trovato tracce simili nell'ufficio dell'uomo. Bell aveva ordinato a Grady e alla sua famiglia di non recarsi allo spettacolo di Chrissy. Al loro posto, una squadra di agenti dell'UE si sarebbe recata alla scuola a bordo dell'auto di Grady. Alcune squadre si erano posizionate a nord della scuola sulla Quinta strada, a ovest all'incrocio con la Sesta strada, a est a University Piace e a sud al Washington Square Park. Ben presto Bell, che aveva sorvegliato il parco, aveva individuato un reverendo che camminava nervosamente verso la scuola. Aveva cominciato a seguirlo ma l'uomo l'aveva notato, così aveva dovuto allontanarsi. Un altro agente aveva preso il suo posto seguendolo fino alla scuola. Un terzo detective del gruppo di Bell si era avvicinato e gli aveva chiesto del concerto, ma non avendo notato tracce che indicassero che portava una pistola non aveva potuto fermarlo e perquisirlo. Il sospetto era comunque stato tenuto sotto stretta sorveglianza e appena era stato visto estrarre l'arma dalla valigetta e avvicinarsi ai falsi bersagli, era stato atterrato. Convinti che si trattasse di un falso prete, erano stati tutti sorpresi nello scoprire che ne avevano arrestato uno vero, cosa che era stata confermata dal contenuto del portafogli di Swensen, benché il pessimo e imbarazzante sermone sembrasse suggerire il contrario. Ora Bell indicò con un cenno del capo la H&K automatica. «Pistola un po' ingombrante per un prete», disse. «Sono un ministro di Dio.» «Ma non mi dica.» «Consacrato.» «Buon per lei. Adesso mi stavo chiedendo: le ho letto i suoi diritti. Vuole rinunciare al suo diritto di rimanere in silenzio? Le dirò, signore, se dovesse ammettere ciò che stava per fare, le cose diventerebbero molto più semplici per lei. Ci dica chi le ha chiesto di uccidere il signor Grady.» «È stato Dio.»
«Mmm», disse Bell. «Okay. Qualcun altro?» «Questo è tutto quello che dirò a lei o a chiunque altro. È la mia risposta. È stato Dio.» «Be', d'accordo. Adesso la portiamo alla centrale e vedremo se l'Altissimo sarà disposto a pagarle la cauzione.» 24 E questa la chiamano musica? Il battito di un tamburo seguito dal suono ruvido di uno strumento a fiato che ripeteva continuamente dei brevi passaggi penetrò nel salotto di Rhyme. Giungeva dal Cirque Fantastique dall'altra parte della strada, nel parco. Le note erano squillanti e il timbro allegro ed esuberante. Il criminologo cercò di ignorarlo e tornò alla sua conversazione telefonica con Charles Grady, che lo stava ringraziando per aver contribuito alla cattura del reverendo arrivato in città per ucciderlo. Bell aveva appena interrogato Constable al centro di detenzione. Il prigioniero aveva detto di conoscere Swensen ma di averlo allontanato dall'Alleanza Patriottica più di un anno prima a causa di un «interesse malsano» che nutriva per le figlie di alcuni parrocchiani. Constable non aveva avuto più niente a che fare con lui dopo che, secondo alcune voci, era entrato in contatto con alcuni miliziani indipendenti. Il prigioniero aveva negato risolutamente di sapere qualcosa del tentato omicidio. Tuttavia Grady aveva fatto in modo di far consegnare a Rhyme una scatola con le prove raccolte sulla scena del crimine davanti alla Neighborhood School e un'altra con quelle raccolte nella camera d'albergo del reverendo Swensen. Rhyme le aveva esaminate velocemente ma non aveva trovato alcun legame evidente con Constable. Lo spiegò a Grady e aggiunse: «Dobbiamo sottoporre le prove a qualche esperto della scientifica su al Nord... come si chiama la cittadina?» «Canton Falls.» «Devono raccogliere campioni di terreno e tracce per le comparazioni. Potrebbe esserci qualche collegamento tra Swensen e Constable, ma io non ho alcun campione dell'area di Canton Falls.» «Grazie dell'aiuto, Lincoln. Farò mandare le prove a qualcuno della zona il più presto possibile.» «Se vuoi che scriva un rapporto in qualità di esperto, sarò felice di aiutarti», disse il criminologo, ma subito dovette ripetere la sua offerta: l'ulti-
ma parte della frase era stata cancellata da un assolo di tromba particolarmente rauco. Dannazione, persino io sarei in grado di scrivere musica migliore, pensò. Thom gli fece concludere la telefonata e gli misurò la pressione. Era piuttosto alta. «Non mi piace», disse l'assistente. «Be', per la cronaca, anche a me non piacciono un sacco di cose», rispose Rhyme petulante, frustrato dalla lentezza dei progressi nel caso del Negromante. Un tecnico del laboratorio dell'FBI di Washington aveva chiamato e detto che avrebbero avuto i risultati delle analisi sui frammenti di metallo trovati della borsa del Negromante solo la mattina dopo. Bedding e Saul avevano telefonato a più di cinquanta alberghi di Manhattan ma avevano scoperto che nessuno di quegli hotel usava schede APC uguali a quella trovata nella giacca a vento del Negromante. Sellitto aveva fatto dare il cambio agli agenti che per molte ore avevano sorvegliato il Cirque Fantastique e che non avevano niente da segnalare. E, cosa ancora più preoccupante, non avevano avuto fortuna nella ricerca di Larry Burke, l'agente di pattuglia scomparso che aveva arrestato il Negromante vicino alla fiera. Decine di agenti stavano setacciando la West Side, ma finora non avevano trovato testimoni o indizi su dove potesse essere Burke. Un'unica notizia incoraggiante: il cadavere dell'agente non era sulla Mazda rubata. L'auto non era ancora stata recuperata dal fiume ma un sommozzatore, che aveva sfidato le forti correnti, aveva riferito che non c'erano cadaveri all'interno della macchina o nel bagagliaio. «Quando arriva la cena?» chiese Sellitto guardando fuori dalla finestra. Amelia e Kara erano andate a prendere qualcosa da mangiare a un takeaway cubano poco lontano (la giovane illusionista era eccitata non tanto all'idea della cena quanto a quella del suo primo caffè cubano, che Thom aveva descritto come «metà espresso, metà latte condensato e metà zucchero», concetto che, malgrado le proporzioni impossibili, l'aveva subito conquistata). Il detective corpulento si rivolse a Rhyme e Thom e chiese: «Avete mai provato uno di quei sandwich cubani? Sono fantastici». Ma né il cibo né il caso avevano importanza per Thom. «È ora di andare a letto.» «Sono le nove e trentotto», gli fece notare Rhyme. «È praticamente pomeriggio. Quindi non è. Ora. Di. Andare. A. Letto.» Riuscì a far sembrare la sua voce cantilenante allo stesso tempo infantile e minacciosa. «Abbia-
mo un fottutissimo killer in libertà che continua a cambiare idea su quanto spesso ha voglia di ammazzare qualcuno. Ogni quattro ore, ogni due ore.» Diede un'occhiata all'orologio. «E proprio in questo momento potrebbe essere impegnato a commettere il suo delitto delle nove e trentotto. Apprezzo il fatto che questo non ti piaccia, ma ho del lavoro da sbrigare.» «No, Lincoln. Se vuoi proprio lavorare stanotte, d'accordo. Andremo di sopra, ci occuperemo di alcune cose e poi farai un pisolino per un paio d'ore.» «Ah. Speri che mi addormenti e che vada avanti fino a domani mattina. Be', non sarà così. Starò sveglio tutta la notte.» L'aiutante alzò gli occhi al cielo. In tono deciso annunciò: «Lincoln sarà al piano di sopra per qualche ora». «Hai proprio voglia di restare senza lavoro?» chiese Rhyme bruscamente. «Hai proprio voglia di finire in coma?» ribatté Thom. «Queste sono fottute molestie a uno storpio», borbottò il criminologo. Ma stava per cedere. Si rendeva conto del pericolo. Quando un quadriplegico resta seduto troppo a lungo nella stessa posizione o ha le estremità costrette o, come Rhyme amava dire indelicatamente in presenza di estranei, ha bisogno di pisciare o di cagare e non lo fa da un po', c'è il rischio di disriflessia autonoma, una crescita della pressione sanguigna che può provocare un infarto o portare a un aggravamento della paralisi o alla morte. La disriflessia è rara ma può portare a un ricovero in ospedale o alla tomba molto velocemente, e così Rhyme accettò di farsi portare al piano superiore per riposare. Erano i momenti come quelli — interruzioni della sua vita «normale» — a farlo infuriare più di ogni altro aspetto della sua condizione di disabile. Lo facevano infuriare e, anche se non lo avrebbe mai ammesso, lo deprimevano profondamente. Nella camera da letto al piano di sopra, Thom si occupò delle sue necessità corporali. «Okay. Due ore di riposo. Cerca di dormire un po'.» «Un'ora», borbottò Rhyme. L'assistente stava per replicare ma poi osservò il volto di Rhyme, e oltre alla rabbia e all'espressione che significava «non provare a fottermi», che non lo avrebbero minimamente sorpreso, notò una preoccupazione sincera per le prossime vittime sulla lista del Negromante. Thom concesse: «Un'ora. Ma solo se dormi». «Vada per un'ora», disse Rhyme. Poi aggiunse, ironico: «E farò sogni d'oro... A proposito, un drink mi sarebbe d'aiuto».
L'assistente si lisciò la sottile cravatta viola: un segno di debolezza di cui Rhyme approfittò come uno squalo che si lancia verso la più piccola traccia di sangue. «Solo uno», propose il criminologo. «D'accordo.» Thom versò un po' di Macallan invecchiato in uno dei bicchieri di Rhyme e gli sistemò la cannuccia vicino alla bocca. Il criminologo bevve un lungo sorso. «Ah, il paradiso...» Poi lanciò un'occhiata al bicchiere vuoto. «Un giorno o l'altro dovrò insegnarti come si versa seriamente un drink.» «Sarò di ritorno tra un'ora», disse Thom. «Comando, sveglia», borbottò Rhyme bruscamente. Sullo schermo piatto del monitor apparve l'immagine di un orologio che il criminologo puntò con comandi vocali affinché lo svegliasse dopo un'ora. «Ti avrei svegliato io», disse l'assistente. «Ah, be', nel caso fossi stato troppo occupato e per qualche ragione ti fossi dimenticato», ribatté Rhyme in tono falsamente timido. «Così adesso sarò sicuro di essere svegliato, giusto?» L'assistente se ne andò chiudendosi la porta alle spalle e Rhyme spostò lo sguardo sulla finestra su cui spesso si appollaiavano i falchi pellegrini che dominavano la città, con quelle teste che ruotavano in un modo strano, inconfondibile, brusco ed elegante al tempo stesso. Poi un esemplare — la femmina, la cacciatrice migliore — lo guardò rapidamente, battendo i piccoli occhi come se avesse appena percepito il suo sguardo. Inclinò la testa, poi tornò a esaminare la baraonda del circo a Central Park. Rhyme chiuse gli occhi, anche se la sua mente si stava aggirando veloce tra le prove, cercando di capire che cosa significassero gli indizi: l'ottone, la chiave dell'hotel, il tesserino del giornalista, l'inchiostro. Tutto era sempre più misterioso... Alla fine spalancò gli occhi di colpo. Era assurdo. Non si sentiva minimamente stanco. Voleva tornare subito al piano inferiore e rimettersi al lavoro. Dormire era fuori discussione. Sentì una brezza accarezzargli la guancia e subito si arrabbiò con Thom che, evidentemente, aveva lasciato in funzione l'aria condizionata. Quando a un quadriplegico gocciola il naso, è meglio che ci sia qualcuno nelle vicinanze ad asciugarglielo. Richiamò sul monitor il pannello di controllo del climatizzatore, pensando di dire a Thom che gli sarebbe piaciuto dormire ma che non aveva potuto farlo perché in camera faceva troppo freddo. Ma un'occhiata allo schermo gli disse che il condizionatore era spento. Era stata una corrente d'aria? La porta era sempre chiusa.
Eccola! La sentì di nuovo, una chiara carezza d'aria sull'altra guancia, la destra. Voltò rapidamente la testa. Veniva dalle finestre? No, erano chiuse. Be', probabilmente era... Ma poi notò la porta. Oh no, pensò, pietrificato. La porta della sua camera da letto aveva una serratura che poteva essere chiusa solo dall'interno. Non dall'esterno. E adesso era chiusa. Un altro alito sulla pelle. Caldo, questa volta. Molto vicino. Sentì anche un leggero ansito. «Dove sei?» sussurrò Rhyme. Restò senza fiato quando una mano apparve di colpo davanti alla sua faccia, due dita deformate fuse insieme. La mano impugnava una lametta, il filo puntato verso gli occhi di Rhyme. «Se chiedi aiuto», disse il Negromante in un sussurro rauco, «se fai anche solo un rumore, ti acceco. Capito?» Lincoln Rhyme annuì. 25 La lametta nella mano del Negromante svanì. Non la mise via, non la nascose. Un istante prima il rettangolo di metallo era nelle sue dita rivolto verso il viso di Rhyme e un istante dopo non c'era più. L'uomo — capelli castani, niente barba, un'uniforme da poliziotto — si spostò nella stanza esaminando i libri, i CD, i manifesti. Sembrò annuire con aria di approvazione notando qualcosa. Si soffermò a studiare una curiosa decorazione: un piccolo altare rosso sul quale si trovava l'immagine del dio cinese della guerra e dei detective, Guan Di. Il Negromante parve indifferente alla contraddizione di un oggetto come quello nella camera da letto di uno scienziato forense. Tornò a rivolgersi a Rhyme. «Be'», mormorò l'uomo in un sussurro rauco, lanciando un'occhiata al letto Flexicair. «Non sei come mi aspettavo.» «L'auto», si stupì Rhyme. «Nel fiume. Come hai fatto?» «Oh, quello?» disse il Negromante con noncuranza. «Il trucco della Macchina Sommersa? Non ero più nell'auto quando è finita nel fiume. Sono sceso tra i cespugli in fondo alla strada. Un numero semplice: un finestrino chiuso — così i testimoni avrebbero visto soltanto riflessi — e il
mio cappello sul poggiatesta. È stata l'immaginazione del mio pubblico a vedermi. Houdini non è mai stato in alcuni dei bauli e delle botti da cui fingeva di fuggire.» «Quindi quelle sul fango non erano tracce di frenata», fece notare Rhyme. «Erano tracce di accelerazione.» Era furioso con se stesso per non essersene accorto. «Hai messo un mattone sull'acceleratore.» «Un mattone sarebbe sembrato innaturale quando i sommozzatori avessero recuperato la macchina; l'ho tenuto premuto con una scarpa.» Il Negromante guardò Rhyme con attenzione poi, con voce ansimante, disse: «Ma tu non hai mai creduto che fossi morto». Non era una domanda. «Come hai fatto entrare nella stanza senza che ti sentissi?» «Ero qui da prima. Sono salito dieci minuti fa. Ero al piano di sotto nella tua sala di guerra o come diavolo la chiami. Nessuno mi ha notato.» «Sei stato tu a portare le prove?» Rhyme ricordava vagamente di aver visto due poliziotti che entravano portando le prove raccolte davanti alla Neighborhood e nella stanza d'albergo del reverendo Swensen. «Esatto. Ho aspettato sul marciapiede. È arrivato un poliziotto con due scatole. Io l'ho salutato e gli ho offerto il mio aiuto. Nessuno ti ferma mai se indossi un'uniforme e dai l'impressione di avere uno scopo.» «E ti sei nascosto quassù, coperto da un pezzo di seta dello stesso colore delle pareti.» «Hai scoperto quel trucco, vero?» Rhyme si accigliò, guardando l'uniforme dell'uomo. Sembrava autentica, non un costume da poliziotto. Ma, contrariamente a quello che prevedeva il regolamento, non aveva la targhetta con il nome. Ebbe un tuffo al cuore. Sapeva dove il Negromante aveva preso l'uniforme. «Hai ucciso Larry Burke... Lo hai ucciso e hai indossato i suoi vestiti.» Il Negromante si guardò l'uniforme e scrollò le spalle. «Il contrario. Prima gli ho rubato l'uniforme», mormorò, la voce bassa e innaturale. «L'ho convinto che volevo spogliarlo per avere una chance di fuggire. Lui mi ha risparmiato lo sforzo di doverlo spogliare dopo l'omicidio. Poi gli ho sparato.» Disgustato, Rhyme pensò che aveva preso in considerazione il pericolo che l'assassino avesse preso la radio e l'arma di Burke. Non gli era venuto in mente, però, che avrebbe potuto servirsi dell'uniforme dell'agente per travestirsi e attaccare coloro che gli stavano dando la caccia. A bassa voce domandò: «Dov'è il suo cadavere?» «Sulla West Side.»
«Dove?» «Credo che terrò per me questa informazione. Qualcuno lo troverà tra un paio di giorni. Sentirà la puzza. Fa già piuttosto caldo.» «Sei un figlio di puttana», ringhiò il criminologo. Poteva anche essere ufficialmente un civile ora, ma nel suo cuore Lincoln Rhyme sarebbe sempre rimasto un poliziotto. E non c'è legame più forte di quello che si instaura tra colleghi in polizia. Fa già piuttosto caldo... Tuttavia si sforzò di mantenere la calma e chiese: «Come hai fatto a trovarmi?» «Alla fiera. Mi sono avvicinato alla tua partner. Quell'agente con i capelli rossi. Ero molto vicino. Vicino come lo ero a te un attimo fa. Le ho anche respirato sul collo — non so che cosa mi sia piaciuto di più... Comunque l'ho sentita parlare con te alla radio. Ha fatto il tuo nome. Poi mi è bastato fare qualche ricerca per trovarti. Sei finito sui giornali. Sei famoso.» «Famoso? Uno storpio come me?» «A quanto pare.» Rhyme scosse la testa e disse lentamente: «Sono storia antica. Ho passato il testimone del comando ad altri molto tempo fa». La parola «comando» lasciò le labbra di Lincoln e attraversò il microfono montato nella testata del letto e fu captata dal software di riconoscimento vocale del computer. «Comando» era la parola chiave che diceva al computer di prepararsi a ricevere istruzioni. Una finestra si aprì sul monitor che Rhyme, a differenza del Negromante, poteva vedere. Istruzioni? domandò il computer silenziosamente. «Il testimone del comando?» chiese il Negromante. «Che cosa vuoi dire?» «Che una volta ero a capo del Dipartimento. Adesso gli agenti più giovani non si prendono nemmeno il disturbo di chiamare per chiedermi un consiglio.» Il computer captò la parola «chiamare». Rispose: Chi vuoi chiamare? Rhyme sospirò. «Voglio raccontarti una storia: l'altro giorno dovevo mettermi in contatto con un agente. Un tenente. Lon Sellitto.» Sul monitor comparve: Chiamata per Lon Sellitto. «E gli ho detto...» Di colpo il Negromante si accigliò. Fece un passo in avanti voltando bruscamente il monitor e guardandolo. Con una smorfia, strappò le prese telefoniche dal muro e staccò la spina
del computer. L'apparecchio emise un debole «pop» e si spense. Mentre l'uomo indugiava a pochi metri da lui, Rhyme appoggiò il capo ai cuscini, certo che la lametta affilata sarebbe riapparsa. Ma il Negromante fece un passo indietro, respirando a fatica come se fosse affetto da asma. Sembrava più colpito che arrabbiato per ciò che il criminologo aveva tentato di fare. «Sai che cosa hai appena combinato, vero?» domandò con un sorriso freddo. «Puro illusionismo. Mi hai distratto e hai usato qualche classica diversione verbale. Noi maghi lo chiamiamo artificio. Sei stato bravo. Le cose che hai detto sembravano molto naturali... ma poi hai fatto quel nome. È stato il nome a rovinare tutto. Vedi, riferirmelo non era naturale. Mi hai insospettito. Ma fino a quel momento sei stato molto bravo.» L'Uomo Immobilizzato... Continuò: «Anch'io sono bravo, però». Il Negromante si avvicinò mostrandogli il palmo della mano vuoto. Rhyme tirò indietro la testa quando le dita gli passarono vicino agli occhi. Sentì qualcosa sfregargli contro l'orecchio. Quando la mano del Negromante riapparve un istante dopo, aveva quattro lamette strette tra le dita. Richiuse a pugno la mano e le quattro lame diventarono una sola che prese tra il pollice e l'indice. No, ti prego... Se c'era una cosa che Lincoln temeva più del dolore era l'orrore di essere privato di un altro dei suoi sensi. L'assassino avvicinò il filo della lametta agli occhi di Rhyme spostandolo avanti e indietro. Poi sorrise e fece un passo indietro. Lanciò un'occhiata dall'altra parte della stanza, alle ombre sulla parete. «Ora, Riveriti Spettatori, cominceremo il nostro numero con un po' di prestidigitazione. Il mio assistente sarà questo mio collega artista.» Parlava con uno strano tono teatrale. La mano dell'uomo si alzò per mostrare la lametta luccicante. Con un gesto aggraziato, sollevò l'elastico dei pantaloni della tuta e degli slip di Rhyme e lanciò dentro la lametta come un frisbee contro il suo inguine nudo. Il criminologo fece una smorfia. «Chissà che cosa sta pensando...» disse il Negromante al pubblico immaginario. «Sa che la lama è contro la sua pelle, che forse gli sta tagliando la pelle, i genitali, una vena o un'arteria. E non può sentire niente!» Rhyme si abbassò lo sguardo sull'inguine in attesa di veder comparire una macchia di sangue sui pantaloni. Il Negromante sorrise. «Ma forse la lametta non è lì... Forse è da qualche altra parte. Forse è qui.» Si mise due dita in bocca ed estrasse il piccolo
rettangolo d'acciaio. Lo sollevò. Poi si accigliò. «Un attimo.» Dalla bocca si tolse un'altra lametta. Poi altre due. Adesso nella mano teneva quattro lamette. Le agitò come se fossero state le carte di un mazzo, quindi le lanciò nell'aria sopra Rhyme che rimase senza fiato, certo che lo avrebbero colpito. Ma... niente. Erano svanite. Nel collo e nelle tempie, Rhyme sentiva i battiti violenti del suo cuore, sempre più forti. Aveva le tempie e la fronte madide di sudore. Lanciò un'occhiata alla sveglia. Aveva l'impressione che fossero trascorse ore. Ma Thom se n'era andato solo quindici minuti prima. Domandò: «Perché lo stai facendo? Perché hai ucciso quelle persone? Qual è il tuo scopo?» «Non le ho uccise tutte», gli fece notare rabbioso. «Hai rovinato il mio numero con la cavallerizza vicino al fiume Hudson.» «Be', allora perché le hai aggredite? Perché?» «Non è niente di personale», rispose l'assassino, e venne colto da un accesso di tosse. «Niente di personale?» ripeté Rhyme incredulo. «Diciamo che l'ho fatto più per ciò che rappresentavano che per ciò che erano.» «Cosa significa? Che vuoi dire con 'rappresentavano'? Spiegati meglio.» Il Negromante sussurrò: «No, non penso che lo farò». Camminò lentamente attorno al letto di Rhyme, respirando affannosamente. «Lo sai che cosa passa per la mente degli spettatori? Alcuni di loro sperano che l'illusionista non riuscirà a fuggire in tempo, che affogherà, che cadrà su punte acuminate, che brucerà vivo, che resterà schiacciato. C'è un numero chiamato lo Specchio Che Brucia. È il mio preferito. Comincia con un illusionista vanitoso che si guarda allo specchio. L'illusionista vede una bellissima donna dall'altra parte del vetro. Lei lo invita ad avvicinarsi e alla fine lui cede alla tentazione e attraversa lo specchio. Ci accorgiamo che si sono scambiati il posto. Adesso la donna è davanti allo specchio. Ma c'è uno sbuffo di fumo e lei rapidamente indossa un travestimento che la trasforma in Satana. «Ora l'illusionista è intrappolato all'inferno, incatenato al pavimento. Le fiamme cominciano a divampare attorno a lui. Sono un muro di fuoco che si avvicina sempre di più. Proprio quando sta per essere inghiottito dalle fiamme, si libera dalle catene, salta attraverso il fuoco e lo specchio mettendosi in salvo. Il diavolo corre verso l'illusionista, fa un balzo e svanisce a mezz'aria. L'illusionista manda in pezzi lo specchio con un martello. Poi
attraversa il palco, si ferma e schiocca le dita. C'è un lampo di luce e, come probabilmente avrai già capito, lui si trasforma nel diavolo... Il pubblico adora questo numero... Ma so che una parte della mente degli spettatori fa il tifo per il fuoco e spera che le fiamme abbiano la meglio e che l'illusionista muoia.» Fece una pausa. «E, naturalmente, di tanto in tanto è questo che accade.» «Chi sei tu?» sussurrò Rhyme in preda alla disperazione. «Io?» Il Negromante si sporse in avanti e in tono appassionato ansimò: «Sono lo Stregone del Nord. Sono il più grande illusionista che sia mai esistito. Sono Houdini. Sono l'uomo che può fuggire dallo Specchio Che Brucia. Che può liberarsi da manette, catene, camere chiuse, ceppi, corde, qualsiasi cosa...» Fissò Lincoln negli occhi. «Tranne che... tranne che da te. Temevo che tu fossi l'unica cosa a cui non sarei riuscito a sfuggire. Sei troppo in gamba. Dovevo fermarti prima di domani pomeriggio...» «Perché? Cosa succederà domani pomeriggio?» Il Negromante non rispose. Scrutò nell'oscurità. «E ora, Riveriti Spettatori, il nostro numero principale... l'Uomo Carbonizzato. Guardate il nostro artista: niente catene, niente manette, niente corde. Eppure è impossibile che riesca a fuggire. Questo è ancora più difficile del primo numero di escapologia mai realizzato: quello di san Pietro. Venne gettato in una cella, ammanettato e sorvegliato. Eppure riuscì a fuggire. Naturalmente, aveva un complice importante. Dio. Il nostro artista di stasera, invece, è completamente solo.» Un piccolo oggetto grigio apparve nella mano del Negromante che si chinò in avanti prima che Rhyme riuscisse a voltare la testa. L'assassino gli premette sulla bocca un pezzo di nastro adesivo. Quindi spense tutte le luci nella stanza tranne una piccola lampada da notte. Tornò al letto di Rhyme, sollevò l'indice e vi sfregò contro il pollice. Dal polpastrello si levò una fiamma alta sette centimetri. Spostò la mano avanti e indietro. «Stai sudando, vedo.» Avvicinò la fiamma al volto del criminologo. «Il fuoco... Non è affascinante? Probabilmente è l'immagine più potente dell'illusionismo. Il fuoco è la diversione perfetta. Tutti guardano la fiamma. Non riescono a distogliere lo sguardo quando la vedono sul palco. Con l'altra mano potrei fare qualsiasi cosa e tu non te ne accorgeresti. Per esempio...» La bottiglia di scotch di Rhyme comparve nella mano dell'uomo. Tenne la fiamma sotto la bottiglia per un lungo istante. Poi bevve un sorso di liquore e si portò alle labbra il dito in fiamme, fissando Rhyme che tirò in-
dietro la testa. Ma il Negromante sorrise, si voltò e soffiò il liquore sulla fiamma verso il soffitto, arretrando leggermente quando la vampata si dissolse nell'oscurità. Rhyme spostò lo sguardo verso un angolo della camera. Il Negromante scoppiò a ridere. «Il rilevatore di fumo? L'ho disattivato prima. La batteria è andata.» Soffiò un'altra fiammata verso il soffitto, poi posò la bottiglia. All'improvviso apparve un fazzoletto bianco. Glielo mise sotto il naso. Era imbevuto di benzina. L'odore acre bruciò le narici e gli occhi di Lincoln. Il Negromante avvolse il fazzoletto in una corta corda e aprendo la giacca del pigiama di Rhyme glielo mise attorno al collo come una sciarpa. L'uomo si avvicinò alla porta. Aprì silenziosamente la serratura, quindi la porta, e guardò fuori. Rhyme riconobbe un altro odore mescolato a quello della benzina. Che cos'era? Qualcosa di ricco, fumoso... Ah, lo scotch. Il killer doveva aver lasciato la bottiglia aperta. Solo che ben presto l'odore dello scotch cancellò l'odore della benzina. Era potentissimo. C'era scotch dovunque. E Rhyme capì con orrore ciò che l'uomo aveva intenzione di fare. Aveva versato una striscia di liquore che andava dalla porta al letto, come una miccia. Il Negromante schioccò le dita e una palla di fuoco bianco sfrecciò dalla sua mano sulla pozzanghera di single malt. Il liquore prese fuoco e le fiamme blu corsero lungo il pavimento. Ben presto una pila di riviste e una scatola di cartone accanto al letto presero fuoco. Così come una delle sedie di rattan. Il fuoco non avrebbe tardato ad arrampicarsi sulle lenzuola e a cominciare a divorare il suo corpo che non avrebbe sentito niente e poi il suo viso e la sua testa che invece avrebbero sentito orribilmente tutto. Si voltò verso il Negromante, ma l'uomo era scomparso e la porta era chiusa. Il fumo cominciò a pungere gli occhi di Rhyme e a riempirgli le narici. Il fuoco si avvicinò avvolgendo scatole, libri e poster, sciogliendo CD. Ben presto, le fiamme gialle e blu presero a lambire le coperte ai piedi del letto di Lincoln Rhyme. 26 Un diligente poliziotto del Dipartimento di Polizia di New York, forse perché aveva sentito uno strano rumore, forse perché aveva visto una porta
aperta, si inoltrò in un vicolo del West Side. Quindici secondi più tardi un altro uomo emerse da quello stesso vicolo, vestito con un maglione a collo alto marrone, dei jeans attillati e un berretto da baseball. Abbandonato il ruolo dell'agente Larry Burke, Malerick si incamminò con aria risoluta lungo la Broadway. Guardando il suo volto, notando il modo con cui si guardava attorno, si sarebbe pensato che era un uomo in cerca di compagnia, diretto a un qualche bar del West Side dove defibrillarsi l'ego e i genitali, entrambi in arresto ora che si stava avvicinando alla mezza età. Si fermò davanti a un bar che si trovava in un seminterrato e lanciò un'occhiata all'interno. Decise che sarebbe stato un buon posto per nascondersi temporaneamente in attesa del momento di tornare brevemente da Lincoln Rhyme per scoprire quali danni aveva provocato l'incendio. Trovò uno sgabello in fondo al bancone vicino alla porta della cucina e ordinò una Sprite e un sandwich al tacchino. Si guardò attorno: una schiera di videogiochi che emettevano suoni elettronici, un juke-box polveroso, l'ambiente buio e fumoso, pieno di odori di sudore, di profumo e di disinfettante, di risate indotte dall'alcool e di inutili conversazioni. Tutto questo lo riportò ai giorni della sua giovinezza nella città costruita sulla sabbia. Las Vegas è uno specchio circondato da luci abbaglianti; bastava fissarlo abbastanza a lungo per perdere la percezione di se stessi, delle proprie tasche, delle rughe, della vanità, dell'avidità, della disperazione. È un posto duro e polveroso dove le luci sgargianti della Strip svaniscono a un paio di isolati di distanza e non riescono a penetrare il resto della città: le roulotte, i bungalow cadenti, gli empori polverosi, banchi dei pegni che vendono anelli di fidanzamento, giacche, protesi di braccia... qualsiasi cosa possa essere trasformata in quarti di dollaro o in dollari d'argento. E dovunque, il deserto, infinito e polveroso. Quello era il mondo in cui era nato Malerick. Suo padre, mazziere di blackjack, e sua madre, cameriera in un ristorante (finché il suo peso divenuto eccessivo non l'aveva relegata dietro un registratore di cassa), avevano fatto parte dell'esercito di persone che lavoravano a Las Vegas e che venivano trattate come formiche sia dalla direzione sia dagli ospiti dei casinò. L'esercito di persone che passavano le loro vite continuamente a contatto col denaro al punto che avevano l'impressione di poter sentire l'odore dell'inchiostro, il profumo o il sudore sulle banconote, ma che sapevano che quello stupefacente flusso era destinato soltanto a transitare per un istante nelle loro mani.
Come molti bambini di Las Vegas lasciati soli da genitori che facevano turni lunghi e irregolari — e come i bambini che dovunque vivevano in situazioni difficili — il loro figlio aveva gravitato in un luogo in cui trovava conforto. E quel luogo per lui era la Strip. Vi stavo parlando, Riveriti Spettatori, della diversione — del modo in cui noi illusionisti vi distraiamo distogliendo la vostra attenzione dal nostro metodo con movimenti, colori, luci, sorprese, rumori. Bene, la diversione è qualcosa di più di una tecnica di magia; è anche un aspetto della vita. Siamo tutti disperatamente attratti da ciò che è luccicante e luminoso nella speranza di allontanarci dalla noia, dalla routine, da famiglie soffocanti, da ore calde e immobili sul confine col deserto, da ragazzini prepotenti che se la prendono con te perché sei magrolino e timido e ti picchiano con pugni duri come corazze di scorpioni... La Strip era stata il suo rifugio. Soprattutto i negozi di magia. Ce n'erano molti. Las Vegas è nota ai maghi di tutto il mondo come la Capitale della Magia. Il ragazzo aveva scoperto che quei negozi erano qualcosa di più di semplici negozi; erano luoghi dove gli aspiranti maghi, i maghi e i maghi in pensione trascorrevano il tempo raccontandosi aneddoti e scambiandosi trucchi e pettegolezzi. Era stato proprio in uno di quei negozi che il ragazzo aveva imparato qualcosa di importante su se stesso. Poteva anche essere magrolino e timido e lento nella corsa, ma possedeva una destrezza miracolosa. Quando i maghi gli mostravano qualche trucco lui lo capiva e lo imparava immediatamente. Una volta uno degli impiegati di un negozio aveva inarcato un sopracciglio e aveva detto al ragazzino allora tredicenne: «Sei un prestidigitatore nato». Il ragazzo si era incuriosito. Non aveva mai sentito quella parola. «L'ha inventata un mago francese nell'Ottocento», aveva spiegato l'uomo. «'Presti' come presto, alla svelta. 'Digit' come digitale, dito. Prestidigitazione... dita veloci. Destrezza della mano.» Così poco alla volta si era convinto di essere qualcosa di più del ragazzino strano che i suoi genitori pensavano fosse, qualcosa di più della vittima designata delle prepotenze da cortile della scuola. Ogni giorno, alle tre e dieci, usciva da scuola e si recava direttamente nel suo negozio di magia preferito, dove passava il tempo a imparare il metodo. A casa, faceva continuamente pratica. Uno dei proprietari del negozio di tanto in tanto lo assoldava per dimostrazioni e brevi spettacoli per i
clienti della Caverna Magica nel retro del negozio. Ancora oggi ricordava perfettamente la sua prima esibizione. Da quel giorno in avanti il Giovane Houdini — il suo nome d'arte — aveva fatto di tutto per riuscire a esibirsi ogni volta che ne aveva l'occasione. Che gioia era stata affascinare i suoi spettatori, deliziarli, vendergli la medicina, ingannarli. E anche spaventarli. Gli piaceva spaventarli. Alla fine era stato scoperto da sua madre. Un giorno la donna si era resa conto che il ragazzo non stava quasi più a casa e aveva fatto una perquisizione della sua stanza per scoprire il perché delle sue assenze. «Ho trovato questi soldi», aveva sbottato una sera alzandosi dal divano e ballonzolando verso la cucina per affrontarlo quando lui era rientrato dalla porta sul retro. «Voglio delle spiegazioni.» «Vengono dall'Abracadabra.» «E cosa sarebbe?» «Quel negozio. Vicino al Tropicana. Ho cercato di parlartene...» «Devi stare lontano dalla Strip.» «Mamma, è solo un negozio. È un negozio di magia.» «Dove sei stato? A bere? Fammi sentire l'alito.» «Mamma, no.» Era indietreggiato, disgustato dall'enorme donna che indossava un top sporco di salsa di pomodoro, dal suo alito orribile. «Se ti beccano in un casinò, potrei anche perdere il posto. E anche tuo padre potrebbe essere licenziato.» «Sono stato solo al negozio. Faccio un piccolo spettacolo. Gli spettatori mi lasciano delle mance.» «Ma questi sono troppi soldi per essere delle mance. Non ho mai avuto mance simili quando facevo la cameriera.» «Sono bravo», aveva replicato il ragazzo. «Anch'io lo ero... Hai detto uno spettacolo? Che tipo di spettacolo?» «Di magia.» Si era sentito terribilmente frustrato. Gliene aveva già parlato mesi prima. «Sta' a guardare.» Le aveva mostrato un trucco con le carte. «Sei stato bravo», aveva detto sua madre alla fine, annuendo. «Ma dato che mi hai mentito, mi terrò io questi soldi.» «Ma io non ho mentito.» «Non mi hai detto cosa stavi facendo. E questo è come mentire.» «Mamma, quei soldi sono miei.» «Se menti, devi pagare.» Non senza una certa fatica, si era infilata i soldi in una tasca dei jeans,
sigillata dalla sua pancia. Poi aveva esitato. «Okay, prendi dieci dollari. Ma solo se mi dici una cosa.» «Cosa...?» «Devi dirmi una cosa. Hai mai visto tuo padre insieme a Tiffany Loam?» «Non lo so... chi è?» «Lo sai. Non far finta di niente. È quella cameriera del Sands che è stata a cena qui con suo marito un paio di mesi fa. Quella con la camicetta gialla.» «Io...» «Allora, li hai visti? Li hai visti ieri che andavano insieme nel deserto?» «Non li ho visti.» Lei lo aveva guardato con attenzione e aveva deciso che le stava dicendo la verità. «Se dovessi vederli, ricordati di dirmelo.» Detto questo, lo aveva lasciato per tornare a dedicarsi ai suoi spaghetti che si stavano coagulando su un vassoio davanti alla televisione nel soggiorno. «I miei soldi, mamma!» «Sta' zitto. C'è il Super Premio.» Un giorno, mentre faceva un piccolo spettacolo all'Abracadabra, il ragazzo era rimasto sorpreso nel notare un uomo snello dal volto cupo che entrava nel negozio. Quando si era avvicinato alla Caverna Magica, tutti i maghi e gli impiegati del negozio si erano zittiti. L'uomo era un famoso illusionista che si esibiva al Tropicana. Era noto per il carattere ombroso e per le sue cupe e inquietanti illusioni. Dopo lo spettacolo, l'illusionista aveva fatto cenno al ragazzo di avvicinarsi e con un cenno del capo aveva indicato il cartello scritto a mano che si trovava sul palcoscenico. «Ti fai chiamare il 'Giovane Houdini'?» «Già.» «Pensi di essere degno di questo nome?» «Non lo so. Mi piaceva e basta.» «Mostrami qualcos'altro.» Gli aveva indicato un tavolo coperto di velluto. Il ragazzo, ora nervoso, lo aveva accontentato mentre il leggendario illusionista studiava tutte le sue mosse. Alla fine l'uomo aveva annuito, un cenno apparentemente di approvazione. Il fatto che un ragazzino di quattordici anni potesse ricevere un simile complimento proprio da lui aveva lasciato senza parole gli altri ma-
ghi. «Vuoi una lezione?» Il ragazzo aveva annuito, eccitato. «Dammi quelle monete.» Lui aveva aperto la mano per offrirgliele. L'illusionista aveva abbassato lo sguardo accigliandosi. «Dove sono?» La sua mano era vuota. L'illusionista gli aveva già sottratto le monete che ora si trovavano nella sua mano. Rise aspramente dell'espressione sbalordita del ragazzo, che non si era accorto di niente. «Ora terrò questa moneta a mezz'aria...» Il ragazzo aveva alzato lo sguardo ma l'istinto gli aveva detto: Chiudi le dita! Vuole rimettere le monete al loro posto. Vuole metterti in imbarazzo davanti a tutti questi maghi. Afferragli la mano! D'un tratto, senza abbassare gli occhi, l'illusionista si era fermato e aveva sussurrato: «Sei proprio sicuro di volerlo fare?» Il ragazzo aveva battuto le palpebre, sorpreso. «Io...» «Pensaci bene.» Un'occhiata alla mano del ragazzo. Il Giovane Houdini si era guardato il palmo già teso per afferrare la grande mano dell'illusionista. Notò sconvolto che l'uomo gli aveva già lasciato qualcosa in mano, ma non le monete: erano cinque lamette. Se avesse chiuso le dita come aveva pensato di fare, il Giovane Houdini avrebbe avuto bisogno di più di una decina di punti. «Fammi vedere le mani», aveva detto l'illusionista, riprendendo le lamette e facendole svanire in un istante. Il Giovane Houdini gli aveva mostrato le mani, i palmi rivolti verso l'alto, e l'uomo le aveva toccate, accarezzate con i pollici. Il ragazzo aveva avuto la sensazione di una scossa elettrica. «Con queste mani potresti diventare un grande illusionista», aveva sussurrato l'uomo, la voce così bassa che solo il ragazzo aveva potuto sentirlo. «Hai la passione e so che hai la crudeltà... Ma non hai la visione. Non ancora.» Era ricomparsa una delle lamette e l'uomo l'aveva usata per tagliare un foglio di carta, che aveva cominciato a sanguinare. Aveva appallottolato il foglio e poi lo aveva riaperto. Nessun taglio e nessuna traccia di sangue. Lo aveva dato al ragazzo, che aveva notato che all'interno c'era un indirizzo scritto con inchiostro rosso. Mentre i pochi spettatori applaudivano sinceramente ammirati, o forse invidiosi, l'illusionista aveva sussurrato: «Vieni a trovarmi», chinandosi e sfiorando l'orecchio del Giovane Houdini con le labbra. «Hai molto da im-
parare. E io ho molto da insegnare.» Il ragazzo aveva tenuto l'indirizzo dell'illusionista ma non era riuscito a trovare il coraggio di andare a trovarlo. Poi, il giorno del suo quindicesimo compleanno, sua madre aveva cambiato completamente il corso della sua vita facendo una scenata e lanciando un piatto di fettuccine contro il marito per alcune informazioni che aveva ricevuto di recente a proposito della signora Loam. Erano volati piatti e soprammobili, era arrivata la polizia. Il ragazzo aveva deciso che la misura era colma. Il giorno dopo era andato a trovare l'illusionista, che aveva accettato di diventare il suo mentore. La scelta dei tempi era stata perfetta. Di lì a due giorni, l'uomo avrebbe iniziato una lunga tournée in tutti gli Stati Uniti. Aveva bisogno di un assistente. Il Giovane Houdini aveva ritirato tutti i soldi che aveva sul suo conto corrente segreto e aveva fatto proprio come il grande illusionista che aveva ispirato il suo nome: era scappato di casa per diventare un mago. Ma c'era una grande differenza tra di loro; a differenza di Harry Houdini, che se n'era andato di casa solo per guadagnare e aiutare i suoi familiari e che ben presto era tornato da loro, il giovane Malerick non avrebbe mai più rivisto né sua madre né suo padre. «Ehi, come te la passi?» La voce roca della donna lo risvegliò da quei ricordi indelebili che lo avevano assorbito mentre sedeva al bancone del locale dell'Upper West Side. Doveva essere una cliente abituale, pensò. La donna aveva circa cinquant'anni anche se tentava, senza riuscirci, di apparire di dieci anni più giovane, e doveva aver scelto quel terreno di caccia principalmente per la scarsa illuminazione. Si spostò sullo sgabello accanto al suo e si sporse in avanti per mettere in mostra la scollatura. «Scusa?» «Ti ho solo chiesto come te la passi. Non mi sembra di averti mai visto qui.» «Sono in città solo da un paio di giorni.» «Ah», fece lei con la voce impastata dall'alcool. «Ehi, mi serve un accendino.» Gli diede la fastidiosa impressione che pensasse di concedergli un grande privilegio offrendogli di accenderle la sigaretta. «Oh, certo», disse lui. Prese un accendino e sollevò la fiammella che tremolò quando la donna gli circondò la mano con dita ossute per avvicinare l'accendino alla sigaretta. «Grazie.» Soffiò un sottile filo di fumo verso il soffitto. Quando tornò a
guardarlo, Malerick aveva già pagato il conto e si stava allontanando dal bancone. La donna si accigliò. «Devo andare.» Le sorrise. «Oh, questo puoi tenerlo». Le porse il piccolo accendino di metallo. Lei lo prese e batté le palpebre. Si accigliò ancora di più. Era il suo accendino, che lui le aveva sfilato dalla borsa quando lei si era chinata in avanti. Malerick sussurrò freddamente: «A quanto pare non avevi bisogno che qualcuno ti facesse accendere». Lasciando la donna al bancone, due lacrime che le scendevano sulle guance truccate, Malerick pensò che di tutte le sadiche illusioni che aveva inscenato e programmato per quel weekend — il sangue, la carne tagliata, il fuoco — quella forse sarebbe stata la più soddisfacente. Sentì le sirene quando si trovavano a un paio di isolati dalla casa di Rhyme. La mente di Amelia Sachs le giocò uno di quegli strani tiri: nell'udire l'incalzante ululato elettronico di un veicolo di emergenza, pensò che sembrava si stesse dirigendo proprio verso il palazzo di Rhyme. Naturalmente non poteva essere così, decise. Troppe coincidenze. Ma poi notò che le luci lampeggianti blu e rosse erano davvero lì a Central Park West, dove si trovava la casa di Rhyme. Andiamo, ragazza, si rassicurò, è solo la tua immaginazione. Amelia non riusciva a liberarsi del ricordo di quel sinistro Arlecchino sullo striscione appeso davanti al Cirque Fantastique, degli artisti mascherati, dell'orrore dei delitti del Negromante. La stavano rendendo paranoica. Spettrale... Non ci pensare. Spostando da una mano all'altra il grosso sacchetto che conteneva il piccante cibo cubano, in compagnia di Kara, continuò a percorrere il marciapiede affollato, chiacchierando di genitori, carriere e del Cirque Fantastique. E anche di uomini. Bang, bang... La giovane donna bevve un sorso del suo doppio caffè cubano che, aveva annunciato, era diventato da subito la sua nuova droga. Non solo costava la metà di un caffè di Starbucks, aveva detto Kara, ma era anche due volte più forte. «Non sono sicura di aver fatto bene i conti, ma è almeno
quattro volte più buono», disse. «Sai, amo fare scoperte come questa. Sono i piccoli piaceri della vita, non credi?» Ma Amelia aveva perso il filo della conversazione. Era passata un'altra ambulanza a gran velocità. Pregò che non fosse diretta alla casa di Rhyme. Ma non era così. Il veicolo si fermò bruscamente proprio all'angolo del palazzo accanto al suo. «No», mormorò Amelia. «Che succede?» chiese Kara. «Un incidente?» Con il cuore che le batteva all'impazzata nel petto, Amelia lasciò cadere il sacchetto e si mise a correre verso il palazzo. «Oh, Lincoln...» Kara la seguì versandosi su una mano un po' di caffè bollente mentre lasciava cadere la tazza. Non si fece lasciare indietro dalla donna poliziotto. «Che succede?» Mentre svoltava l'angolo, Amelia contò una mezza dozzina di camion dei vigili del fuoco e di ambulanze. In un primo momento, aveva temuto che Lincoln avesse avuto un attacco di disriflessia. Ma si trattava evidentemente di un incendio. Alzò lo sguardo sul secondo piano e rimase senza fiato nel vedere del fumo che usciva dalla finestra della camera di letto di Rhyme. Gesù, no! Superò il cordone della polizia e corse verso i vigili del fuoco radunati davanti alla porta. Salì con un balzo i gradini, scordandosi in un istante dell'artrite. Poi oltrepassò la porta e per poco non scivolò sul pavimento di marmo. Il corridoio e il laboratorio sembravano intatti, ma una leggera foschia di fumo ammantava tutte le stanze. Due vigili del fuoco stavano scendendo lentamente le scale. I loro volti sembravano rassegnati. «Lincoln!» gridò lei. E cominciò a salire le scale. «No, Amelia!» La voce burbera di Lon Sellitto risuonò nel corridoio. Lei si voltò in preda al panico, pensando che il detective volesse impedirle di vedere il cadavere carbonizzato. Se il Negromante le aveva portato via Lincoln, lei lo avrebbe ucciso. Niente al mondo avrebbe potuto fermarla. «Lon!» Sellitto le fece cenno di avvicinarsi e l'abbracciò. «Lui non è di sopra, Amelia.»
«È...» «No, no, va tutto bene. Sta bene. Thom lo ha portato giù nella camera degli ospiti.» «Grazie a Dio», sussurrò Kara. Si guardò attorno sgomenta mentre altri vigili del fuoco scendevano le scale. Uomini e donne robusti resi ancora più imponenti dalle uniformi e dall'attrezzatura. Thom, scuro in volto, li raggiunse in corridoio. «Lincoln sta bene, Amelia. Nessuna ustione, ha solo inalato un po' di fumo. Ha la pressione alta. Ma gli ho dato le sue medicine. Andrà tutto bene.» «Che cos'è successo?» chiese Amelia. «Il Negromante», borbottò Sellitto. Sospirò. «Ha ucciso Larry Burke. Gli ha rubato l'uniforme. È così che è entrato. In qualche modo è riuscito a salire in camera di Rhyme. Ha acceso un fuoco attorno al suo letto. Noi non ci siamo accorti di niente quaggiù; qualcuno ha visto il fumo dalla strada e ha chiamato il 911. E poi la centrale ha chiamato me. Thom, Mel e io siamo riusciti a spegnere quasi tutte le fiamme prima che arrivassero i pompieri.» Amelia gli chiese: «Suppongo che non lo abbiano preso, il Negromante». Una risata amara. «Tu che cosa dici? È scomparso. Come un fantasma.» Dopo l'incidente che lo aveva lasciato paralizzato, quando Rhyme aveva superato la fase del dolore che lo aveva portato a trascorrere mesi cercando di far muovere le gambe con la semplice forza di volontà, aveva rinunciato all'impossibile e aveva concentrato le sue energie su un obiettivo più ragionevole. Respirare autonomamente. Un quadriplegico C4 come lui — il collo spezzato all'altezza della quarta vertebra dalla base del cranio — è a un passo dall'aver bisogno di un respiratore. I nervi che collegano il cervello ai muscoli del diaframma possono funzionare e possono non funzionare. In principio, i polmoni di Rhyme avevano dato l'impressione di non essere più in grado di funzionare, così i dottori avevano dovuto collegarlo a una macchina impiantandogli un tubo nel petto. Lincoln aveva odiato quell'apparecchio, con i suoi sospiri meccanici e la strana sensazione di non sentire la necessità di respirare anche se sapeva di doverlo fare. (Quel macchinario aveva anche la pessima abitudine di fermarsi all'improvviso, di tanto in tanto.) Ma poi i suoi polmoni avevano cominciato a funzionare spontaneamente
e il criminologo era stato liberato dall'apparecchio bionico. I dottori avevano detto che il miglioramento era dovuto alla naturale stabilizzazione post traumatica del corpo. Ma Rhyme conosceva la vera risposta. Era stato lui. Con la forza di volontà. Poter riempire d'aria i polmoni — miseri respiri all'inizio, certo, ma comunque suoi — era una delle più grandi conquiste della sua vita. Adesso si stava impegnando con quegli esercizi che avrebbero potuto incrementare le sensazioni del proprio corpo e persino permettere qualche movimento alle membra; ma che tanti sforzi avessero successo o meno, sapeva che l'orgoglio che avrebbe provato non sarebbe stato all'altezza di quello che lo aveva invaso quando gli era stato tolto il respiratore per la prima volta. Quella sera, sdraiato nella piccola camera degli ospiti, ripensò al fumo che si era levato dal tessuto, dalla carta e dalla plastica che ardevano attorno a lui nella sua stanza. In preda al panico, aveva pensato non tanto alla possibilità di morire bruciato quanto al fatto che quel terribile fumo che gli stava riempiendo i polmoni come schegge di metallo gli stava per togliere l'unica vittoria nella guerra contro la sua condizione di disabile. Era come se il Negromante avesse deciso di colpirlo nell'unico punto debole. Quando Thom, Sellitto e Cooper erano entrati nella stanza, il primo pensiero di Rhyme non era andato agli estintori che avevano portato i due poliziotti bensì alla bombola verde d'ossigeno che teneva in mano il suo aiutante. Aveva pensato: Salva i miei polmoni! Prima che le fiamme fossero spente, Thom gli aveva posizionato sul volto la mascherina e Lincoln aveva respirato avidamente il dolce ossigeno. Poi i tre lo avevano portato giù e sia i paramedici sia il dottore personale di Rhyme lo avevano visitato, pulendolo, medicandogli qualche piccola bruciatura e cercando con attenzione tagli di rasoio (non ce n'erano, e nel pigiama non vennero nemmeno ritrovate le lamette). Lo specialista della colonna vertebrale aveva dichiarato che i polmoni erano in buone condizioni anche se Thom avrebbe dovuto fargli cambiare posizione più spesso del solito per tenerli sgombri. Solo allora Rhyme aveva cominciato a calmarsi, ma era ancora molto ansioso. L'assassino aveva fatto qualcosa di ben più crudele che ferirlo. L'aggressione gli aveva ricordato quanto fosse precaria la sua vita e quanto fosse incerto il suo futuro. Odiava quella sensazione, quella terribile impotenza, quella vulnerabilità. «Lincoln!» Amelia si precipitò nella camera, si sedette sul vecchio letto
Clinitron e gli abbracciò il petto stringendolo forte. Lui abbassò il volto contro i suoi capelli. Lei stava piangendo. Le aveva visto gli occhi colmi di lacrime forse solo un paio di volte da quando la conosceva. «Niente nomi di battesimo», le sussurrò. «Portano sfortuna, ricordi? E per oggi ne abbiamo già avuta abbastanza.» «Stai bene?» «Sì, sto bene», disse lui in un sussurro, in preda all'illogica paura che se avesse parlato a voce alta, le particelle di fumo in qualche modo gli avrebbero perforato e fatto collassare i polmoni. «I falchi?» domandò, pregando che non fosse accaduto niente di male agli uccelli. Non gli sarebbe dispiaciuto se si fossero spostati su un altro palazzo. Ma sapere che i falchi erano rimasti feriti o uccisi lo avrebbe distrutto. «Thom ha detto che stanno bene. Sono sull'altro davanzale.» Lei lo abbracciò ancora per un attimo, poi Thom comparve sulla porta. «Devo farti cambiare posizione.» La donna poliziotto lo abbracciò ancora una volta, poi si scostò mentre Thom si avvicinava al letto. «Analizza la scena», le ordinò Rhyme. «Dev'essersi lasciato dietro qualcosa. Quel fazzoletto che mi ha messo attorno al collo. E le lamette.» Amelia disse che lo avrebbe fatto e lasciò la stanza. Thom cominciò a praticargli un lavaggio bronchiale. Venti minuti più tardi, Amelia ritornò. Si tolse la tuta di tyvek, la piegò con cura e la ripose nella valigetta per l'analisi della scena del crimine. «Non ho trovato un granché», riferì. «Quel fazzoletto e un paio di impronte. Porta un nuovo paio di scarpe Ecco. Ma non ho trovato nessuna lametta. E qualsiasi cosa gli sia caduta è finita vaporizzata. Ah, c'era anche una bottiglia di scotch. Ma suppongo sia tua.» «Sì, è mia», sussurrò Rhyme. In altre circostanze avrebbe fatto una battuta, dicendo qualcosa a proposito della pena che meritava qualcuno che usava dello scotch invecchiato diciotto anni come combustibile. Adesso non se la sentiva di scherzare. Sapeva che Amelia non avrebbe trovato molte prove. In un incendio di carattere sospetto il massimo che gli indizi possono rivelare è il punto di origine dell'incendio stesso. Ma quello già lo conoscevano. Tuttavia, pensava che dovesse esserci di più. «E il nastro adesivo? Thom me lo ha tolto e lo ha lasciato cadere a terra.» «Niente nastro adesivo.»
«Guarda dietro la testata del letto. Il Negromante era proprio lì. Potrebbe aver...» «Ho già guardato.» «Be', guarda di nuovo. Ti è sfuggito qualcosa. Dev'essere così.» «No», disse semplicemente lei. «Cosa?» «Scordati della scena del crimine. È andata in fumo, per così dire.» «Abbiamo bisogno di fare progressi in questo dannato caso.» «E ne faremo, Rhyme. Dovrò interrogare il testimone.» «C'era un testimone?» borbottò lui. «Nessuno mi ha detto che c'era un testimone.» «Be', è così.» Lei si avvicinò alla porta e chiamò Lon Sellitto chiedendogli di raggiungerli. Il detective entrò annusandosi la giacca e facendo una smorfia. «Un completo da duecentoquaranta fottutissimi dollari. Andato. Cazzo. Cosa c'è, agente?» «Devo interrogare il testimone, tenente. Hai il tuo registratore?» «Sicuro.» Si tolse il registratore dalla tasca e glielo porse. «C'è un testimone?» Rhyme disse: «Lascia perdere i testimoni, Sachs. Sai quanto sono inaffidabili. Concentrati solo sulle prove». «No, scopriremo qualcosa di utile. Me ne assicurerò personalmente.» Un'occhiata in direzione della porta. «Be', allora, chi diavolo è questo testimone?» «Sei tu», disse lei, avvicinando una sedia al letto. 27 «Io? Ridicolo.» «No, non è ridicolo.» «Scordatelo. Percorri di nuovo la griglia. Ti è sfuggito qualcosa. Hai cercato troppo in fretta. Se fossi una novellina...» «Ma non sono una novellina. So come analizzare una scena del crimine velocemente e so quando è ora di smettere di cercare e passare a qualcosa di più produttivo.» Esaminò il piccolo registratore di Sellitto, controllò il nastro, quindi lo accese. «Agente di pattuglia Amelia Sachs del Dipartimento di Polizia di New York, Distintivo numero Cinque Otto Otto Cinque. Interrogatorio di Lin-
coln Rhyme, testimone di un'aggressione dieci-venti-quattro e di un incendio dieci-venti-nove al 3-4-5 di Central Park West. Sabato, venti aprile.» Appoggiò il registratore sul comodino accanto a Rhyme, che lo guardò come se fosse un serpente. «Ora», disse Amelia. «Cominciamo con la descrizione.» «Ho già raccontato a Lon...» «Raccontalo a me.» Un'occhiata sarcastica verso il soffitto. «Corporatura media, tra i cinquanta e i cinquantacinque anni, indossava un'uniforme da poliziotto. Niente barba questa volta. Tessuto cicatriziale e decolorazione sul collo e sul petto.» «Aveva la camicia aperta? Gli hai visto il petto?» «Scusami», disse lui con allegro sarcasmo. «Tessuto cicatriziale alla base del collo e presumibilmente anche sul petto. Il mignolo e l'anulare della mano sinistra erano fusi insieme. Aveva... sembrava avere gli occhi marroni.» «Molto bene, Rhyme. Finora non sapevamo il colore dei suoi occhi.» «E potremmo non conoscerlo anche adesso, visto che è possibile che indossasse delle lenti a contatto colorate», ribatté lui bruscamente, sicuro di aver segnato un punto. «Probabilmente riuscirei a ricordare qualcosa di più con un piccolo aiuto.» Guardò Thom. «Un piccolo aiuto?» «Credo che tu abbia una bottiglia non incenerita di Macallan da qualche parte in cucina.» «Più tardi», disse Amelia. «Ho bisogno che tu sia lucido.» «Ma...» Tormentandosi il cuoio capelluto con un'unghia, lei continuò: «Allora, adesso voglio che mi racconti tutto quello che è successo. Che cos'ha detto il Negromante?» «Non ricordo un granché», rispose lui con impazienza. «Per lo più erano vaneggiamenti senza senso. Non ero esattamente dell'umore di prestare attenzione.» «Forse a te sembravano senza senso. Ma sono sicura che ci sia qualcosa in ciò che ha detto che potrebbe esserci utile.» «Sachs», la ammonì lui sardonico, «non credi che potrei essere stato un tantino spaventato e confuso? Insomma, un tantino distratto?» Lei gli toccò una spalla, un punto in cui Rhyme poteva percepire il contatto. «So che non ti fidi dei testimoni. Ma talvolta possono notare cose
importanti... Questa è la mia specialità, Rhyme.» Amelia Sachs, il poliziotto della comunità. «Ti accompagnerò io nei ricordi. Proprio come tu mi accompagni quando percorro la griglia. Troveremo qualcosa di importante.» Si alzò, andò alla porta e chiamò: «Kara?» Sì, Rhyme non si fidava dei testimoni, anche di quelli che avevano assistito agli eventi da ottimi punti di osservazione e non ne erano stati toccati direttamente. Chiunque fosse coinvolto in un vero crimine — soprattutto la vittima di un atto di violenza — era totalmente inaffidabile. Persino ora, ripensando alla visita del killer, tutto ciò che Rhyme riusciva a vedere era una confusa serie di eventi: il Negromante alle sue spalle, il Negromante davanti a lui, il Negromante che appiccava l'incendio. Le lamette. L'odore dello scotch, le volute di fumo. Non aveva nemmeno un'idea vaga della cronologia degli eventi. Il ricordo, come aveva detto Kara, è solo un'illusione. Un attimo dopo, la giovane entrò nella stanza. «Stai bene, Lincoln?» «Benissimo», borbottò lui. Amelia spiegò che voleva che Kara ascoltasse: avrebbe potuto riconoscere qualcosa tra le parole del killer che poteva risultare utile. La donna poliziotto si sedette di nuovo e avvicinò la sedia al letto. «Torniamo nella tua camera da letto, Rhyme. Dicci cos'è successo. Anche solo in termini generici.» Lui esitò, lanciando un'occhiata al registratore. Poi cominciò a raccontare gli eventi così come li ricordava. Il Negromante che era apparso, che aveva ammesso di aver rubato l'uniforme e poi ucciso l'agente, che gli aveva raccontato del cadavere del poliziotto. Fa già piuttosto caldo... Poi disse: «Era come se stesse fingendo di mettere in scena uno spettacolo e mi considerasse un suo collega artista». Riascoltando mentalmente gli strani vaneggiamenti dell'uomo, continuò: «Tuttavia, c'è una cosa che ricordo. L'assassino soffre d'asma. O almeno sembrava che avesse difficoltà a respirare. È rimasto spesso senza fiato, mi ha parlato sussurrando». «Molto bene», disse Amelia. «Lo avevo notato anch'io alla pozza dopo l'aggressione a Cheryl Marston, ma me n'ero dimenticata. Cos'altro ha detto?» Rhyme fissò il soffitto scuro della piccola camera degli ospiti. Scosse la testa. «Questo è quanto, direi. Ha minacciato di darmi fuoco o di tagliarmi... Ah, hai trovato delle lamette quando hai perquisito la stanza?»
«No.» «Ecco, vedi? È di questo che sto parlando: di prove. So che mi ha lanciato una lametta nei pantaloni della tuta. I dottori non sono riusciti a trovarla. Dev'essere scivolata fuori. Questo è il genere di cose che dovresti cercare.» «Probabilmente la lametta non è mai stata nei tuoi pantaloni», intervenne Kara. «Conosco questa illusione. Ha semplicemente fatto sparire la lametta.» «Be', a mia discolpa posso dire che si tende a non ascoltare con troppa attenzione quando si viene torturati.» «Andiamo, Rhyme, concentrati. Torniamo a qualche ora fa. Kara e io siamo andate a prendere la cena. Tu hai esaminato gli indizi. Thom ti ha portato di sopra. Eri stanco, ricordi?» «No», replicò il criminologo, «non ero stanco. Ma lui mi ha voluto portare di sopra lo stesso.» «Suppongo che la cosa non ti abbia fatto molto piacere.» «No, infatti.» «Allora, tu sei di sopra nella tua stanza.» Ripensò alle luci, alla sagoma dei falchi pellegrini. A Thom che chiudeva la porta. «È tutto tranquillo...» cominciò Amelia. «No, non è tranquillo affatto. C'è quel dannato circo dall'altra parte della strada. Comunque, punto la sveglia...» «A che ora?» «Non lo so. Che differenza fa?» «Un dettaglio può portare ad altri due.» Rhyme aggrottò la fronte. «E questa da dove arriva? Da un biscotto della fortuna?» Lei sorrise. «L'ho inventata io. Ma suona bene, non credi? Potresti usarla nella nuova edizione del tuo libro.» «Non scrivo libri su testimoni, scrivo libri su prove concrete», ribatté Rhyme soddisfatto della risposta. «Come hai fatto a capire che il Negromante era nella camera? Hai sentito qualcosa?» «No, ho percepito una corrente. All'inizio ho pensato che fosse l'aria condizionata. Ma era lui. Stava soffiandomi in faccia.» «Per quale motivo?» «Per spaventarmi, credo. E ha funzionato.» Rhyme chiuse gli occhi, poi annui mentre riaffioravano alcuni ricordi. «Ho cercato di chiamare Lon al
telefono. Ma lui...» un'occhiata a Kara «... ha capito le mie intenzioni. Ha minacciato di uccidermi — no, ha minacciato di accecarmi — se avessi tentato di chiedere aiuto. Ero certo che lo avrebbe fatto. Ma — è strano — sembrava colpito dal mio trucco e mi ha fatto i complimenti per la diversione...» La voce sfumò mentre i ricordi si spegnevano nell'oscurità. «Come ha fatto a entrare?» «È entrato insieme all'agente che portava le prove del tentato omicidio di Grady.» «Merda», disse Sellitto. «Da questo momento in poi, controlleremo l'identità di chiunque oltrepassi quella fottuta porta. E voglio dire chiunque.» «Il Negromante sta parlando della diversione», continuò Amelia. «Ti ha fatto i complimenti. Cos'altro dice?» «Non lo so», mormorò Rhyme. «Niente.» «Niente di niente?» domandò lei in un sussurro. «Non. Lo. So.» Lincoln Rhyme era furioso con Sachs perché lo stava incalzando. Perché non gli lasciava bere qualcosa per calmare il terrore. Ma era furioso soprattutto con se stesso perché la stava deludendo. Ma Amelia doveva capire quanto fosse difficile per lui tornare là — alle fiamme, al fumo che gli scivolava nelle narici e minacciava i suoi preziosi polmoni... Aspetta. Fumo... Lincoln Rhyme disse: «Il fuoco». «Il fuoco?» «Credo che sia ciò di cui abbia parlato di più. Sembrava quasi che ne fosse ossessionato. C'era un'illusione a cui ha accennato. Lo... esatto, lo Specchio che Brucia. È questo il nome. Fiamme ovunque sul palcoscenico, credo. L'illusionista deve sfuggire alle fiamme. Si trasforma nel diavolo, credo. O qualcun altro si trasforma nel diavolo.» Sia Rhyme sia Amelia guardarono Kara che stava annuendo. «Ne ho sentito parlare. Ma è un numero molto raro. Richiede una preparazione complessa ed è piuttosto pericoloso. I proprietari dei teatri, oggigiorno, non permettono agli illusionisti di metterlo in scena.» «Lui ha continuato a parlare del fuoco. A dirmi che è l'unica cosa che non puoi simulare sul palco. Che gli spettatori vedono il fuoco e sperano segretamente che l'illusionista finisca bruciato. Aspetta, mi ricordo anche qualcos'altro. Lui...» «Continua, Rhyme, stai andando benissimo.» «Allora non interrompermi», ribatté lui seccamente. «Ti ho detto che si
comportava come se si stesse esibendo, giusto? Sembrava delirante. Continuava a guardare la parete vuota e a rivolgersi a qualcuno. Diceva una cosa del tipo 'Miei qualcosa spettatori'. Non mi ricordo come li chiamasse di preciso. Farneticava.» «Un pubblico immaginario.» «Esatto. Aspetta... Credo che dicesse 'miei onorati spettatori'. Parlava direttamente con loro. 'Miei onorati spettatori'.» Amelia lanciò un'occhiata a Kara che scrollò le spalle. «Parliamo sempre con il pubblico. Ai vecchi tempi, i maghi dicevano cose come 'Miei stimati spettatori' o 'Gentili signore e signori'. Ma oggi pensano tutti che sia solo un modo di comportarsi pretenzioso e inutile.» «Continua.» «Non lo so, Sachs. Credo di avere finito. Il resto è solo una grande macchia sfuocata.» «C'è dell'altro, ne sono sicura. È come quel frammento di prove sulla scena del crimine. È lì e potrebbe essere la chiave per risolvere il caso. Devi solo pensare in modo diverso a come trovarlo.» Si sporse verso Rhyme. «Diciamo che questa è la tua camera da letto. Tu sei sul letto Flexicair. Lui dov'è?» Il criminologo fece un cenno col capo. «È là. Vicino ai piedi del letto, davanti a me. Alla mia sinistra, vicino alla porta.» «Che cosa fa?» «Che cosa fa? Non lo so.» «Prova.» «È voltato verso di me. Continua a muovere le mani. Come se stesse parlando davanti a un pubblico.» Amelia si alzò e si mise nella posizione indicata da Rhyme. «Qui va bene?» «Più vicino.» Lei obbedì. «Ecco.» Vedere Amelia nella stessa posizione dell'assassino gli riportò alla mente un altro ricordo. «Una cosa... Stava parlando delle sue vittime. Ha detto che quegli omicidi non erano niente di personale.» «Niente di personale?» «Ha detto di averle uccise... sì, adesso ricordo. Ha detto di averle uccise per ciò che rappresentavano!» Amelia stava annuendo e prendeva appunti per completare la registra-
zione. «Rappresentavano?» chiese lei, come riflettendo ad alta voce. «Cosa significa?» «Non ne ho idea. Una musicista, un avvocato, un truccatore. Età, sesso, professione, abitazione diversi, nessun collegamento tra loro. Che cosa potevano rappresentare? Gente di città, stile di vita medio-alto, istruzione superiore... Forse uno di questi elementi è la chiave — la razionalizzazione della scelta dell'assassino. Chi può dirlo?» Amelia si era accigliata. «C'è qualcosa che non va.» «Cosa?» Dopo un attimo lei disse: «Qualcosa a proposito dei tuoi ricordi». «Be', non mi ricordo tutto parola per parola. Purtroppo non avevo una stenografa a mia disposizione.» «No, non è questo che intendo.» Rifletté per qualche lungo istante. Poi annuì. «Stai caratterizzando ciò che ha detto il Negromante. Stai usando il tuo linguaggio, non il suo. 'Stile di vita medio-alto'. 'Razionalizzazione'. Voglio che usi le sue parole.» «Be', non ricordo le sue parole, Sachs. Ha detto che non aveva niente di personale contro le vittime. Punto.» Lei scosse la testa. «No, sono sicura che non abbia detto così.» «Che intendi dire?» «Gli assassini non pensano mai alle persone che uccidono come a vittime. È impossibile. Non li umanizzano mai. Quanto meno non lo farebbe mai un assassino che segue uno schema come il Negromante.» «Queste sono cazzate da accademia di polizia, Sachs.» «No, è il mondo reale. Noi sappiamo che sono vittime, ma i criminali credono sempre che per una ragione o per l'altra meritino di morire. Pensaci. Non ha detto 'vittima', vero?» «Be', che differenza fa?» «Il punto è che lui ha detto che rappresentano qualcosa e noi dobbiamo scoprire cosa. Come si è riferito alle vittime?» «Non me lo ricordo.» «Non ha detto 'vittima'. Ne sono sicura. Ha parlato di qualcuna di loro in particolare? Svetlana, Tony... E Cheryl Marston? L'ha chiamata la donna bionda o forse ha detto l'avvocato? Ha detto la donna con le tette grosse? Sono pronta a giurare che non abbia detto che il suo stile di vita era medioalto.» Rhyme chiuse gli occhi e cercò di tornare indietro con la memoria. Alla fine scosse la testa. «No, mi...»
Poi la parola gli venne in mente. «Cavallerizza.» «Cosa?» «Hai ragione. Non ha detto 'vittima'. L'ha chiamata la 'cavallerizza'.» «Eccellente!» esclamò Amelia. Rhyme si sentì invadere da un'irragionevole ondata di orgoglio. «E per quanto riguarda gli altri?» «No, Cheryl Marston è l'unica a cui abbia accennato.» Rhyme ne era certo. Sellitto disse: «Quindi l'assassino pensa alle sue vittime come a persone che fanno una cosa particolare che potrebbe essere ma potrebbe anche non essere il loro lavoro». «Giusto», confermò Rhyme. «Suonare. Truccare la gente. Andare a cavallo.» «E cosa dobbiamo dedurre da questo?» chiese Sellitto. E proprio come Rhyme le aveva ripetuto tante volte quando era stata lei a porre quella domanda a proposito delle prove raccolte sulla scena di un crimine, Amelia rispose: «Non lo sappiamo ancora, detective. Ma ci siamo avvicinati di un altro passo verso la comprensione dell'assassino». La donna poliziotto consultò gli appunti che aveva preso. «Okay, ha fatto quei giochi di prestigio con le lamette, ha menzionato lo Specchio Che Brucia. Ha parlato ai suoi onorati spettatori. È ossessionato dal fuoco. Ha deciso di uccidere un truccatore, una musicista e una cavallerizza perché rappresentano... quello che rappresentano, qualunque cosa sia. Riesci a ricordarti qualcos'altro?» Rhyme chiuse gli occhi. Si concentrò. Ma continuava a vedere ancora e ancora le lamette, le fiamme, il fumo. «No», disse, tornando a guardare Amelia. «Credo che questo sia tutto.» «Molto bene, Rhyme.» E lui riconobbe il suo tono di voce. Lo riconobbe perché anche lui lo usava spesso. Un tono che significava che Amelia non aveva ancora finito con le domande. Lei sollevò lo sguardo dagli appunti e disse lentamente: «Tu citi sempre Locard». Rhyme annuì. Locard era il detective forense francese che aveva sviluppato un principio a cui in seguito era stato dato il suo nome. Si tratta della regola secondo cui in ogni scena del crimine c'è sempre uno scambio di
prove, per quanto infinitesimale, tra il criminale e la vittima o il luogo stesso. «Be', sto pensando che potrebbe esserci anche uno scambio psicologico. Proprio come lo scambio fisico.» Rhyme scoppiò a ridere nel sentire quell'idea folle. Locard era uno scienziato; si sarebbe indignato nel vedere il suo principio applicato a qualcosa di elusivo come la psiche umana. «Dove vuoi arrivare?» Lei continuò: «Non sei stato imbavagliato per tutto il tempo, vero?» «No, solo alla fine.» «Questo significa che anche tu gli hai comunicato qualcosa. Hai preso parte a uno scambio.» «Io?» «Non è così? Non gli hai detto proprio niente?» «Certo che gli ho detto qualcosa. Ma che significa? Sono le sue parole che contano.» «Stavo pensando che il Negromante potrebbe aver replicato qualcosa quando gli hai parlato.» Rhyme scrutò Amelia con attenzione. Una macchia di fuliggine a forma di falce di luna su una guancia, il sudore che le imperlava il morbido labbro superiore. Si stava sporgendo in avanti sulla sedia e, anche se la sua voce era calma, Lincoln riusciva a intuire l'intensità della sua concentrazione. Lei non poteva saperlo, naturalmente, ma dava l'impressione di provare le stesse emozioni che sentiva lui quando la guidava attraverso una scena del crimine a chilometri di distanza. «Prova a pensarci, Rhyme», gli disse Amelia. «Immagina di essere da solo con un criminale. Non necessariamente il Negromante. Un criminale qualsiasi. Che cosa gli diresti? Che cosa vorresti sapere da lui?» Rhyme emise un sospiro stanco che voleva sembrare in qualche modo cinico. Tuttavia le parole di Amelia avevano risvegliato qualcosa nella sua mente. «Mi ricordo!» esclamò. «Gli ho chiesto chi fosse.» «Ottima domanda. E lui che cos'ha detto?» «Di essere un mago... No, non solo un mago, ma qualcosa di specifico.» Rhyme socchiuse gli occhi cercando di tornare a quei terribili momenti. «Mi ha fatto ripensare al Mago di Oz... La Malvagia Strega dell'Ovest.» Aggrottò le sopracciglia. Poi: «Ecco, ci sono. Ha detto di essere lo Stregone del Nord. Ne sono sicuro». «Questo significa qualcosa per te?» domandò Amelia a Kara. «No.»
«Ha detto di essere in grado di fuggire da qualsiasi luogo, solo che non pensava che sarebbe riuscito a sfuggire a noi. Be', a me, in realtà. Temeva che lo avremmo fermato. È questa la ragione per cui è venuto qui. Ha detto che doveva fermarmi prima di domani pomeriggio. È allora che ricomincerà a uccidere.» «Lo Stregone del Nord», mormorò Amelia, guardando i suoi appunti. «Ora...» Rhyme sospirò. «Penso che non ci sia proprio altro, Sachs. Il pozzo. È. Asciutto.» Amelia spense il registratore e si sporse in avanti con un fazzoletto per asciugare il sudore dalla fronte di Rhyme. «Lo avevo capito. Quello che volevo dire è che adesso sono io che ho bisogno di un drink. Che ne dici?» «A patto che me lo versiate o tu o Kara», rispose Rhyme. «Non lasciategli voce in capitolo.» Con un cenno del capo indicò amaramente Thom. «Ti preparo qualcosa?» chiese Thom a Kara. «Prenderà un Irish coffee, ne sono sicuro... Ma perché da Starbucks non lo mettono nel menu?» rispose Lincoln. Kara declinò l'offerta del liquore ma chiese un Maxwell House o un Folgers. Sellitto chiese se fosse possibile mangiare qualcosa dal momento che il suo tanto desiderato sandwich cubano non era arrivato a casa sano e salvo. Mentre l'assistente svaniva in cucina, Amelia porse a Kara gli appunti che aveva preso e le chiese di aggiungere sulla lavagna qualunque cosa le sembrasse rivelante al profilo dell'assassino come mago. Lei si alzò e andò nel laboratorio. «Sei stata grande», disse Sellitto ad Amelia, «con questo interrogatorio. Non conosco molti sergenti che sarebbero stati capaci di farlo meglio.» Lei annuì senza sorridere, ma Rhyme notò che era felice di quel complimento. Qualche minuto più tardi Mel Cooper entrò nella stanza, il volto sporco di fuliggine proprio come Amelia. In una mano teneva una busta di plastica. «Queste sono tutte le prove ritrovate sulla Mazda.» La busta conteneva quella che sembrava una pagina del New York Times piegata in quattro. Era chiaro che non era stata Amelia a occuparsi della scena del crimine; gli indizi bagnati devono essere conservati in contenitori di carta o di fibra sottile, non nella plastica che accelera il processo di disgregazione. «Non hanno trovato altro?» domandò Rhyme. «Questo è tutto, per ora. Non sono ancora riusciti a recuperare l'auto dal
fiume. È troppo pericoloso.» «Si riesce a leggere la data?» Cooper esaminò il foglio di carta fradicio. «È di due giorni fa.» «Allora dev'essere del Negromante», fece notare Rhyme. «La macchina è stata rubata prima. Perché un assassino dovrebbe conservare un unico foglio di giornale e non tutta la sezione?» Come molte delle domande di Rhyme anche quella era puramente retorica e il criminologo non si prese il disturbo di lasciare che qualcuno provasse a dare una risposta. «Perché su quel foglio c'è un articolo che per lui era importante. E che quindi forse potrebbe essere importante anche per noi. Non possiamo escludere, però, che sia un sessuomane con la passione per le pubblicità del catalogo Victoria's Secret. Ma persino questa potrebbe essere un'informazione utile. Riesci a leggere qualcosa?» «Niente. E non voglio aprire la pagina. La carta è ancora troppo bagnata.» «Mandala al laboratorio documenti. Se non riescono ad aprirla, almeno riusciranno a estrapolare i titoli con gli infrarossi.» Cooper chiamò un agente perché recapitasse il campione al laboratorio della scientifica del Queens, poi chiamò a casa il responsabile del laboratorio documenti per accelerare l'analisi. Scomparve quindi nel laboratorio di Rhyme per trasferire la pagina in un contenitore più adatto. Thom arrivò con i drink, e con un piatto di sandwich che Sellitto assaltò prontamente. Qualche minuto dopo, Kara ritornò nella camera degli ospiti e prese il suo caffè ringraziando l'assistente. Mentre versava dello zucchero nella tazza, si rivolse ad Amelia. «Stavo scrivendo sulla lavagna quelle cose che abbiamo scoperto sull'assassino. E mi è venuta un'idea. Così ho fatto una telefonata. Credo di aver scoperto il suo vero nome.» «Il nome di chi?» chiese Rhyme sorseggiando il suo paradisiaco scotch. «Be', del Negromante.» Il debole tintinnio del cucchiaino di Kara che mescolava il caffè fu l'unico suono che si poteva udire nella stanza. 28 «Hai scoperto il suo nome?» domandò Sellitto. «Chi è?» «Credo che sia un uomo di nome Erick Weir.» «Fai lo spelling», disse Rhyme.
«W-E-I-R.» Altro zucchero nel caffè. Dopo un secondo aggiunse: «Era un mago, un illusionista, alcuni anni fa. Ho telefonato al signor Balzac: nessuno conosce l'ambiente meglio di lui. Gli ho letto il profilo e gli ho riferito alcune delle cose che il Negromante ha detto a Lincoln stasera. Il signor Balzac si è alterato, per non dire che è andato su tutte le furie.» Un'occhiata ad Amelia. «Come stamattina. All'inizio si è rifiutato di aiutarmi, ma alla fine si è calmato e mi ha detto che sembrava la descrizione di Weir.» «Perché?» domandò Amelia. «Be', avrebbe la stessa età del Negromante. Circa cinquant'anni. E Weir era noto per i suoi numeri pericolosi. Giochi di destrezza con lamette e coltelli. Inoltre è uno dei pochi maghi che abbiano mai messo in scena lo Specchio Che Brucia. Ricordate quello che vi ho detto a proposito del fatto che gli illusionisti si specializzano sempre in qualcosa? È davvero insolito trovare un mago che sia bravo nello svolgere così tanti trucchi diversi... illusioni, fughe, trasformismo, destrezza, persino ventriloquio e mentalismo. Be', Weir faceva tutte queste cose. Ed era un esperto di Houdini. Alcune delle cose che il Negromante ha fatto questo weekend sono numeri di Houdini o ispirati a Houdini. «E poi c'è quella cosa che ha detto, quando si è definito uno stregone. C'è stato un mago nell'Ottocento, John Henry Anderson, che si faceva chiamare proprio così: lo Stregone del Nord. Aveva un enorme talento. Ma non aveva fortuna col fuoco. Un paio di volte il suo spettacolo è stato praticamente distrutto dalle fiamme. David mi ha detto che Weir è rimasto gravemente ustionato in un incendio scoppiato in un circo.» «Le cicatrici», disse Rhyme. «L'ossessione per il fuoco.» «E forse la sua difficoltà di parlare non era dovuta all'asma», suggerì Amelia. «Il fuoco potrebbe avergli danneggiato i polmoni o le corde vocali.» «Quando ha avuto l'incidente Weir?» chiese Sellitto. «Tre anni fa. Il tendone del circo in cui stava provando è stato distrutto e la moglie di Weir è morta. Si erano appena sposati. Nessun altro è rimasto ferito gravemente.» Era una buona pista. «Mel!» gridò Rhyme, dimenticandosi le sue preoccupazioni per i polmoni. «Mel!» Un attimo dopo, Cooper entrò nella stanza. «A quanto pare ti senti meglio.» «Ricerca Lexis/Nexis, database del VICAP, dell'NCIC e della polizia di
Stato. Tutto quello che riesci a scoprire su Erick Weir. W-E-I-R. Artista, illusionista e mago. Potrebbe essere il nostro uomo.» Kara aggiunse: «Il nome di battesimo è E-R-I-C-K». «Avete scoperto il suo nome?» domandò il tecnico, impressionato. Amelia indicò Kara con un cenno del capo. «È stata lei a scoprirlo.» «Mio Dio.» Dopo qualche minuto, Cooper tornò con alcuni stampati. Li sfogliò mentre diceva alla squadra: «Non c'è molto. È come se questo tizio avesse tenuto nascosto tutto ciò che lo riguarda. Erick Albert Weir. Nato a Las Vegas nell'ottobre del 1950. Praticamente sui suoi primi anni non ci sono informazioni. Weir ha lavorato per numerosi circhi, casinò, teatri, prima come assistente e poi come illusionista e trasformista. Si è sposato con Marie Cosgrove, tre anni fa. Poco dopo le nozze ha cominciato a esibirsi nel circo di Thomas Hasbro e dei fratelli Keller a Cleveland. Durante le prove per uno spettacolo è scoppiato un incendio. Il tendone è andato distrutto. Weir ha riportato gravi ustioni di terzo grado. E sua moglie è rimasta uccisa. Da allora di lui non si è saputo più niente». «Rintracciamo la famiglia di Weir.» Sellitto disse che avrebbe provveduto. Dal momento che Bedding e Saul erano occupati a tempo pieno, il detective chiamò gli investigatori della task force della omicidi e li mise al lavoro. «Non c'è molto altro», aggiunse Cooper, sfogliando gli stampati. «Un paio d'anni prima dell'incendio, Weir è stato arrestato e condannato nel New Jersey per condotta pericolosa per imprudenza deliberata. Ha scontato trenta giorni di carcere. Uno degli spettatori di un suo spettacolo aveva riportato gravi ustioni quando qualcosa era andato storto sul palco. Poi ci sono state alcune cause civili intentate da diversi teatri per danni ai locali e lesioni subite da alcuni dipendenti. E, per finire, alcune cause per inadempimento di contratto. Il direttore di un teatro aveva scoperto che Weir voleva usare pistole e pallottole vere in uno dei suoi numeri. Weir si era rifiutato di cambiare il numero e così il direttore lo aveva licenziato.» Continuò a leggere, poi riprese: «In uno degli articoli che ho trovato vengono fatti i nomi di due assistenti che lavoravano con lui all'epoca dell'incendio. Uno vive a Reno e l'altro a Las Vegas. Ho avuto i loro numeri dalla Polizia di Stato del Nevada». «In Nevada è ancora presto», fece notare Rhyme, lanciando un'occhiata all'orologio. «Trovami un telefono con vivavoce, Thom.» «No, dopo quello che hai passato stasera hai bisogno di riposo.»
«Devo solo fare due telefonate. Poi farò la nanna, promesso.» L'assistente sembrò indeciso. «Se te lo chiedo per favore e ti ringrazio?» Thom annuì e scomparve. Un momento più tardi tornò con il telefono, lo collegò alla presa e lo sistemò vicino a Rhyme sul comodino. «Solo dieci minuti, poi lo stacco», minacciò con voce così imperiosa che Lincoln decise di credergli. «D'accordo.» Sellitto finì il secondo sandwich e compose il numero del primo assistente sulla lista di Cooper. Fu la voce registrata della moglie di Arthur Loesser a rispondere, dicendo che non erano in casa e chiedendo di lasciare un messaggio. Sellitto lasciò un messaggio e chiamò l'altro assistente. John Keating rispose al primo squillo e Sellitto gli spiegò che dovevano fargli alcune domande in relazione a un caso su cui stavano indagando. Una pausa, poi la voce nervosa di Keating uscì con un fruscio dall'altoparlante. «Uhm. Di cosa si tratta? È la polizia di New York?» «Esatto.» «Be', direi che non c'è problema.» «Lei ha lavorato con un uomo di nome Erick Weir, giusto?» domandò Sellitto. Silenzio per un attimo. Poi Keating rispose incerto: «Il signor Weir? Be', sì. Ho lavorato per lui. Perché?» La voce era tesa e stridula. Sembrava che si fosse appena bevuto una dozzina di tazze di caffè. «Saprebbe dirmi dove si trova in questo momento?» «Insomma, perché mi chiede di Weir?» «Vorremmo parlargli, si tratta di un'indagine criminale.» «Oh, mio Dio... Cos'è successo? Cosa volete chiedergli?» «Dobbiamo solo fargli qualche domanda», rispose Sellitto. «Ha avuto contatti con Erick Weir di recente?» Ci fu una pausa. Rhyme sapeva che quello era il classico momento in cui un uomo nervoso o vuotava il sacco o decideva di non dire più niente. «Signore?» chiese Sellitto. «È veramente strano. Che mi chiediate proprio di lui.» Le sue parole risuonavano come biglie sul metallo. «Ecco, le dirò, non sentivo il signor Weir da anni. Pensavo che fosse morto. C'è stato un incendio nell'Ohio l'ultima volta che abbiamo lavorato insieme. Lui si è ustionato. Gravemente. È scomparso e tutti abbiamo pensato che fosse morto. Ma poi sei o sette settimane fa mi ha telefonato.»
«Da dove?» chiese Rhyme. «Non lo so. Non me l'ha detto. E io non gliel'ho chiesto. Non viene mai in mente a nessuno di chiedere da dove stia telefonando chi ci chiama. Almeno all'inizio. È una di quelle cose a cui non si pensa. Lei lo chiede mai?» Rhyme domandò: «Che cosa voleva?» «Okay, okay. Voleva sapere se mi ero tenuto in contatto con qualcuno che aveva lavorato al circo al tempo dell'incendio. Il Circo Hasbro. Ma a quei tempi eravamo nell'Ohio. Tre anni fa. E l'Hasbro non è nemmeno più in circolazione. Dopo l'incendio il proprietario l'ha chiuso e l'ha trasformato in un circo completamente diverso. Perché avrei dovuto tenermi in contatto con qualcuno di loro? Io vivo qui a Reno. Così gli ho detto di no. E lui l'ha presa male, sa.» Rhyme si accigliò. «Si è arrabbiato?» chiese Amelia. «Eh, già, può dirlo forte.» «Continui», lo incitò il criminologo, cercando di tenere a freno l'impazienza. «Cos'altro le ha detto?» «Nient'altro. Solo quello che le ho appena raccontato. A parte piccole cose. Ha fatto i suoi soliti commenti velenosi. Quel tizio ha gli artigli... Sapete cosa ha fatto quando ha telefonato?» «Che cosa?» lo incoraggiò Rhyme. «Ha detto soltanto 'Sono Erick'. Non ha detto 'Pronto', non ha detto 'Oh, John, come stai? Ti ricordi di me?' No, ha detto 'Sono Erick'. Non ci sentivamo dai tempi dell'incendio. E lui che cosa dice? 'Sono Erick'. Tutti questi anni che ho passato lontano da lui, che ho faticato per lasciarmelo alle spalle... e all'improvviso è stato come se niente fosse cambiato. So che non ho fatto niente di sbagliato. Ma lui è riuscito a far sembrare che fosse tutta colpa mia. È come quando prendi un'ordinazione da un cliente, poi gli porti da mangiare e lui dice che non è quello che ha chiesto. Ma tutti sanno cos'è successo — il cliente ha solo cambiato idea e vuole far sembrare che sia stato tu a capire male. E infatti sei tu quello che finisce nei guai.» Amelia indagò: «Può dirci qualcosa su di lui in generale? Amici, posti che frequentava, hobby?» «Certo», rispose la voce secca. «C'è una sola risposta per tutto: le illusioni.» «Cosa?» domandò Rhyme. «Erano i suoi amici, i posti dove gli piaceva andare, i suoi passatempi.
Capite cosa voglio dire? Non c'era nient'altro per lui. Era totalmente assorbito dalla professione.» Amelia tentò di nuovo: «Be', allora come si comportava con le persone? Cosa pensava? Che opinioni aveva?» Una lunga pausa. «Per cinquanta minuti, due volte alla settimana, per tre anni ho cercato di capirlo e non ci sono riuscito. Per tre anni. Ed è ancora in grado di ferirmi.» Keating emise una strana, ruvida risata. «Quello che volevo dire è che mi ossessiona ancora. Lunedì mattina alle nove avrò qualcosa da raccontare al mio analista. Ancora oggi non ho la più pallida idea di cosa cazzo gli passi per la testa.» Rhyme notò che anche gli altri cominciavano a essere infastiditi dalle divagazioni dell'uomo. «Abbiamo saputo che sua moglie è rimasta uccisa nell'incendio. Sa dirmi qualcosa della famiglia della donna?» «Della famiglia di Marie? So solo che lei e Weir si erano sposati una settimana o due prima dell'incendio. Erano davvero innamorati. Noi pensavamo che lei sarebbe riuscita a calmarlo. A renderlo meno ossessionante. Lo speravamo. Ma non abbiamo fatto in tempo a conoscerla.» «Può indicarci qualcuno che potrebbe sapere qualcosa sul suo conto?» «Art Loesser era il primo assistente. Io ero il secondo. Eravamo i suoi ragazzi. Ci chiamavano 'i ragazzi di Erick'. Ci chiamavano tutti così.» Rhyme disse: «Stiamo aspettando che Loesser ci richiami. Qualcun altro?» «L'unica persona che mi viene in mente è l'uomo che dirigeva il Circo Hasbro al momento dell'incidente. Si chiama Edward Kadesky. Credo che ora lavori a Chicago come impresario.» Sellitto si fece fare lo spelling del nome dell'uomo, poi chiese: «Weir l'ha più richiamata?» «No. Ma non ne aveva bisogno. Cinque minuti di conversazione e aveva già ripreso a ferirmi e a ossessionarmi.» Sono Erick... «Senta, adesso devo proprio andare. Devo stirarmi l'uniforme. Mi hanno dato il turno della domenica mattina. È molto faticoso.» Dopo che ebbero riappeso, Amelia si avvicinò al telefono e lo spense. «Ragazzi», mormorò. «Mi sa che ha bisogno di altri tranquillanti», osservò Sellitto. «Be', almeno abbiamo una pista», disse Rhyme. «Rintracciate questo Kadesky.» Mel Cooper scomparve per qualche minuto e quando tornò aveva lo
stampato di un database di compagnie teatrali. La Kadesky Productions aveva i suoi uffici sulla South Wells Street a Chicago. Sellitto telefonò ma, dato che era sabato notte, com'era prevedibile trovò solo la segreteria telefonica. Lasciò un messaggio. «D'accordo, questo Weir ha incasinato la vita del suo assistente. È un tipo instabile. Ha ferito degli spettatori e adesso è un assassino. Ma cosa lo spinge a uccidere?» si domandò. Amelia alzò lo sguardo. «Telefoniamo a Terry.» Terry Dobyns era uno psicologo del Dipartimento di Polizia di New York. Ce n'erano molti al Dipartimento, ma Dobyns era l'unico che si occupasse di tracciare profili comportamentali, cosa che aveva imparato all'FBI, a Quantico, in Virginia. Grazie alla stampa e alla letteratura popolare, il pubblico sente parlare spesso di profili psicologici, che possono risultare molto utili — ma solo, secondo Rhyme, in una quantità limitata di casi. In genere non c'è niente di misterioso nel funzionamento della mente di un criminale. Ma in casi in cui il movente è un mistero e il prossimo obiettivo è difficile da individuare, un profilo psicologico può rivelarsi fondamentale. Può aiutare gli investigatori a trovare informatori o soggetti che potrebbero conoscere l'indiziato, a prevedere la sua prossima mossa, a organizzare appostamenti nei quartieri giusti, a cercare crimini simili commessi in passato. Sellitto sfogliò l'elenco telefonico speciale del Dipartimento di Polizia di New York e chiamò Dobyns a casa. «Terry.» «Lon. Sento l'eco di un vivavoce. Immagino che ci sia anche Lincoln lì con te.» «Già», confermò Rhyme. Era profondamente affezionato a Dobyns, la prima persona che aveva visto quando si era risvegliato dopo l'incidente in cui si era rotto la spina dorsale. Lincoln ricordava che Terry amava il football, l'opera e i misteri della mente umana quasi con la stessa intensità: appassionatamente. «Scusa per l'ora», disse Sellitto che non sembrava affatto dispiaciuto. «Ma abbiamo bisogno del tuo aiuto per il caso di un pluriomicida. Abbiamo un nome e non molto altro.» «Quello di cui hanno parlato al telegiornale? Quello che ha ucciso la studentessa di musica stamattina? E poi l'agente di pattuglia?» «Esatto. Ha ucciso anche un truccatore e ha tentato di uccidere una cavallerizza. Lo ha fatto per quello che, cito le sue parole, 'rappresentavano'.
Due donne etero e un gay. Nessun tipo di attività sessuale sulle vittime. Siamo a un punto morto. E l'assassino ha detto a Lincoln che ricomincerà a uccidere domani pomeriggio.» «Lo ha detto a Lincoln? Al telefono? In una lettera?» «Di persona», disse Rhyme. «Mmmm. Dev'essere stata una conversazione indimenticabile.» «Non puoi immaginare quanto.» Sellitto e Rhyme lo ragguagliarono sui crimini di Weir e su ciò che finora avevano scoperto su di lui. Dobyns fece molte domande. Poi rimase in silenzio per qualche istante e alla fine disse: «Vedo due forze al lavoro dentro di lui. Ma si potenziano a vicenda e conducono allo stesso risultato... Si esibisce ancora?» «No», rispose Kara. «A quanto pare, non si esibisce più dal giorno dell'incendio.» «L'esibizione in pubblico», spiegò Dobyns, «è un'esperienza intensa, così forte che quando viene negata a qualcuno che ha conosciuto il successo la perdita è molto grave. Gli attori e i musicisti — e, credo, anche i maghi — tendono a definire se stessi per mezzo delle loro carriere. Per cui, il risultato è che l'incendio fondamentalmente ha annientato l'uomo che era.» L'Uomo Scomparso, rifletté Rhyme. «E questo a sua volta significa che adesso è mosso non dall'ambizione o dal desiderio di compiacere il suo pubblico o dalla devozione nei confronti della sua arte ma dalla rabbia. E la rabbia è alimentata dalla seconda forza: il fuoco lo ha reso deforme e gli ha danneggiato i polmoni. Quindi in pubblico le sue deformità lo mettono particolarmente a disagio, ingigantendo esponenzialmente la sua rabbia. Potremmo chiamarla sindrome del Fantasma dell'Opera, direi. L'assassino probabilmente si vede come un mostro.» «Quindi vuole pareggiare i conti?» «Sì, ma non necessariamente in senso letterale. Il fuoco lo ha, tra virgolette, assassinato — ha assassinato la sua vecchia personalità — e così quando uccide qualcuno lui si sente meglio: questo riduce l'angoscia che la rabbia scatena dentro di lui.» «Perché proprio queste vittime?» «Non c'è modo di saperlo. 'Ciò che rappresentavano'. Che cos'hai detto che facevano?» «La prima vittima era una studentessa di musica, il secondo un truccatore e la terza un avvocato, anche se l'assassino si è riferito a lei chiamandola cavallerizza.»
«C'è qualcosa in loro che ha scatenato la sua rabbia. Non so cosa potrebbe essere... non ancora, non senza altri dati. La risposta accademica sarebbe che ciascuno di loro ha dedicato la sua vita a ciò che Weir considera 'momenti cruciali.' Circostanze importanti che cambiano la vita. Forse sua moglie era una musicista o magari si sono conosciuti a un concerto. Quanto al truccatore, potrebbe esserci un nesso col rapporto con la madre. Per esempio, gli unici momenti felici che Weir potrebbe aver vissuto con lei potrebbero essere stati quando, da bambino, la guardava truccarsi. I cavalli? Chi lo sa? Forse lui o suo padre andavano a cavallo e a lui piaceva. La felicità di momenti come questi gli è stata strappata dal fuoco, quindi lui si sta concentrando su persone che gli ricordano quei momenti. O forse potrebbe essere il contrario: associa le vittime a momenti terribili. Avete detto che sua moglie è morta durante una prova. Forse in quel momento qualcuno stava suonando della musica.» «Possibile che faccia tutta questa fatica, che studi le sue vittime e concepisca piani così elaborati per ucciderle?» chiese Rhyme. «Dev'essere stato un lavoro di mesi.» «La mente deve grattare dove le prude», disse Dobyns. «Un'altra cosa, Terry. Sembrava che l'assassino si rivolgesse a un pubblico immaginario... Aspetta, mi pare che dicesse che erano i suoi 'onorati spettatori'. Ma mi sono appena ricordato che l'espressione esatta era 'riveriti spettatori'. Si rivolgeva a loro come se fossero esistiti veramente. 'E ora, riveriti spettatori, faremo questo e quello.'» «'Riveriti'», ripeté lo psicologo. «È molto importante. Dopo che la sua carriera e il suo unico amore gli sono stati tolti, Weir ha trasferito la sua riverenza, il suo amore, a un pubblico: una massa impersonale. Le persone che preferiscono i gruppi o le folle possono essere crudeli con gli altri esseri umani, talvolta persino pericolose. Non solo con gli estranei ma anche con i loro compagni, le loro mogli, i loro figli, i loro familiari.» John Keating infatti, rifletté Rhyme, sembrava proprio un bambino che aveva subito abusi da parte del padre. Dobyns continuò: «E nel caso di Weir, questo schema mentale è ancora più pericoloso perché non sta parlando con un vero pubblico ma solo con i suoi spettatori immaginari. Questo mi fa pensare che le persone reali non abbiano alcun valore per lui. e che potrebbe ucciderne anche un gran numero, senza alcun problema. Questo tizio è veramente un osso duro». «Grazie, Terry.» «Fatemi sapere quando l'avrete preso. Mi piacerebbe fare due chiacchie-
re con lui.» Conclusa la telefonata Sellitto cominciò: «Forse potremmo...» «Andare a letto», concluse Thom. «Eh?» chiese il detective. «E non è un condizionale. Tu devi dormire, Lincoln. E tutti gli altri devono andarsene. Sei pallido e stanco. Non voglio che rischi di avere problemi neurologici o cardiovascolari. Se ti ricordi bene, volevo che andassi a letto già ore fa.» «D'accordo, d'accordo», concesse Rhyme. Era davvero stanco. E, anche se non lo avrebbe mai ammesso, l'incendio lo aveva veramente spaventato. Sellitto e Cooper se ne andarono e si diressero alle rispettive abitazioni. Kara trovò la sua giacca e mentre se la infilava, Rhyme le fece notare che sembrava molto turbata. «Stai bene?» le chiese Amelia. La giovane scrollò le spalle. «Ho dovuto dire al signor Balzac perché avevo bisogno delle informazioni su Weir. E lui si è arrabbiato. Temo che non me la farà passare liscia.» «Gli scriveremo un biglietto», scherzò Amelia affettuosamente. «Una giustificazione per la tua assenza di oggi.» La ragazza fece un debole sorriso. «Al diavolo il biglietto. Se non fosse stato per te, non avremmo la minima idea dell'identità dell'assassino. Digli di telefonarmi. Gli chiarirò le idee!» esclamò Lincoln. Kara rispose con un anemico «Grazie». «Non starai andando in negozio adesso, vero?» domandò Amelia. «Solo per un po'. Il signor Balzac è un disastro con la contabilità. Dovrò registrare tutte le ricevute e mostrargli il mio numero per domani.» Il fatto che Kara obbedisse in quel modo al suo mentore non sorprese affatto Rhyme. Aveva notato che la ragazza lo aveva chiamato signor Balzac. Talvolta lo chiamava «David». Ma non ora. Questo gli ricordò ciò che Terry aveva detto prima: anche se il Negromante aveva quasi distrutto la vita di John Keating, l'assistente si riferiva all'assassino con lo stesso rispettoso appellativo. Il potere dei mentori sui loro apprendisti... «Va' a casa», insistette Amelia. «Insomma, Gesù, oggi sei stata pugnalata a morte.» Un'altra debole risata. «Non mi tratterrò a lungo in negozio.» Kara si fermò per un attimo sulla soglia. «Domani pomeriggio ho quello spettacolo. Ma domani mattina posso tornare, se volete.»
«Lo apprezzeremmo molto», disse Rhyme. «Cercheremo di sbattere Weir al fresco prima dell'ora di pranzo, così non dovrai restare qui per molto.» Thom la accompagnò alla porta. Amelia fece un passo in corridoio e respirò l'aria che sapeva ancora di fumo. Fece una smorfia, poi cominciò a salire le scale. «Mi faccio una doccia», disse. Dieci minuti dopo, Rhyme la sentì tornare al piano inferiore. Tuttavia Amelia non lo raggiunse subito in camera da letto. Da parti diverse della casa giunsero tonfi e scricchiolii, parole attutite tra lei e Thom. Alla fine, Amelia ritornò nella camera degli ospiti. Indossava la sua tenuta da notte preferita — una T-shirt nera e dei boxer di seta — ma aveva due accessori atipici: la Glock e una grossa torcia elettrica. Le appoggiò entrambe sul comodino. «Quel tizio riesce a entrare nei posti un po' troppo facilmente per i miei gusti», disse, sdraiandosi sul letto accanto a lui. «Ho controllato ogni centimetro quadrato della casa, ho sbarrato tutte le porte e ho detto a Thom di avvertirmi se sente qualcosa, ma di stare al riparo. Ho voglia di sparare a qualcuno ma preferirei che non fosse lui.» PARTE SECONDA METODO Domenica 21 aprile «L'effetto magico è come la seduzione. Entrambi vengono elaborati con attenti dettagli comunicati alla mente del soggetto.» SOL STEIN 29 La mattinata di domenica trascorse nella frustrante ricerca di Erick Weir. La squadra scoprì che dopo l'incendio nell'Ohio, l'illusionista era rimasto al reparto ustionati di un ospedale locale per diverse settimane e che in seguito se n'era andato senza firmare i documenti di dimissione. C'era un atto che testimoniava la vendita della sua casa di Las Vegas, vendita avvenuta non molto tempo dopo, ma nessun documento che indicasse che ne aveva acquistata un'altra. Tuttavia, pensava Rhyme, in una città come Las Vegas
non doveva essere difficile comprare una piccola casa nel deserto senza farsi fare troppe domande e senza registrare il passaggio di proprietà. La squadra riuscì a rintracciare la madre della defunta moglie di Weir. Ma la signora Cosgrove non aveva idea di dove si trovasse il genero. Non si era mai messo in contatto con loro dopo l'incidente, nemmeno per fare le condoglianze per la morte della figlia. La donna disse che comunque la cosa non l'aveva sorpresa. Secondo lei Weir era un uomo egoista e crudele, che era caduto preda dell'ossessione nei confronti di sua figlia e che l'aveva praticamente ipnotizzata per convincerla a sposarlo. Nessuno dei suoi parenti aveva più avuto alcun contatto con lui. Cooper fece la lista delle restanti informazioni su Weir ottenute grazie alle ricerche col computer, ma non c'era molto. Nessun rapporto né dal VICAP né dall'NCIC. Non si conoscevano altri dettagli su di lui e gli agenti che stavano cercando di rintracciare i suoi familiari scoprirono soltanto che entrambi i suoi genitori erano morti e che lui non aveva altri parenti prossimi. In tarda mattinata li richiamò da Las Vegas l'altro assistente di Weir, Art Loesser. L'uomo non parve sorpreso nello scoprire che il suo ex capo era ricercato dalla polizia e riferì loro cose che già sapevano: che Weir era uno dei più grandi illusionisti del mondo ma che prendeva il suo lavoro troppo seriamente e che era noto per i numeri pericolosi e per il carattere instabile. Loesser continuava ad avere incubi sul periodo in cui era stato suo apprendista. Mi ossessiona ancora... «Tutti i giovani apprendisti vengono influenzati dai loro maestri», spiegò Loesser alla squadra. «Ma il mio psicanalista dice che nel caso di Weir noi siamo stati mesmerizzati da lui.» Entrambi gli apprendisti sono in terapia. «Dice che Weir ha creato un rapporto simile alla Sindrome di Stoccolma. Sapete di cosa si tratta?» Rhyme confessò che conosceva quella condizione, in cui gli ostaggi formano legami stretti con i loro rapitori, arrivando persino a provare affetto e amore per loro. «Quando lo ha visto per l'ultima volta?» domandò Amelia. L'esercizio di valutazione era finito e ora era in borghese; indossava un paio di jeans e una camicetta verde scuro. «In ospedale, nel reparto ustionati. È stato circa tre anni fa. All'inizio andavo a trovarlo regolarmente, ma lui non parlava d'altro che della sua
idea di pareggiare i conti con tutti quelli che gli avevano fatto del male o che non approvavano il suo tipo di magia. A un certo punto è scomparso e da allora non l'ho più visto.» Ma poi l'ex protégé di Weir spiegò che l'illusionista lo aveva chiamato due mesi prima. Circa nello stesso periodo, rifletté Rhyme, Weir aveva telefonato anche al suo altro assistente. Era stata la moglie di Loesser a rispondere. «Non ha lasciato il suo numero e ha detto che avrebbe richiamato, ma grazie a Dio non l'ha fatto. Vi dirò, non so come avrei fatto ad affrontare una cosa simile.» «Sa dove si trovava quando l'ha chiamata?» «No. L'ho chiesto anch'io a Kathy — avevo paura che fosse tornato in città — ma lei mi ha detto che lui non aveva accennato a niente del genere e che sull'identificatore di chiamata era comparsa la scritta 'Chiamata Interurbana'.» «Weir non ha detto a sua moglie per quale ragione aveva telefonato? Ha qualche indizio su dove potrebbe trovarsi?» «Kathy ha detto che sembrava strano, agitato. Sussurrava, era difficile capire quello che diceva. Ha cominciato a parlare così in seguito all'incendio. Aveva subito lesioni ai polmoni. E quel modo di parlare lo rendeva ancora più spaventoso.» Dimmi di più, pensò Rhyme. «Weir voleva sapere se avevamo più avuto notizie di Edward Kadesky. Kadesky era l'impresario dell'Hasbro all'epoca dell'incendio.» Loesser non aveva altre informazioni utili da riferire e così conclusero la telefonata. Thom accompagnò due donne poliziotto nel laboratorio. Amelia le salutò con un cenno del capo e le presentò a Rhyme. Erano Diane Franciscovich e Nancy Ausonio. Rhyme ricordava che erano state loro a rispondere alla chiamata per il primo omicidio e che erano state incaricate di rintracciare le manette antiche. Franciscovich disse: «Abbiamo parlato con tutti i commercianti che trattano questo tipo di articoli e che ci ha indicato il direttore del museo». Sotto l'uniforme perfetta, sia l'agente alta e bruna che l'agente più bassa e bionda sembravano esauste. A quanto pareva avevano preso molto seriamente il loro incarico ed era probabile che non avessero chiuso occhio tutta la notte. «Le manette sono delle Darby, come avevate detto voi», spiegò Auso-
nio. «Sono molto rare — e costose. Ma abbiamo stilato una lista di dodici persone che...» «Oh, mio Dio, guarda.» Franciscovich stava indicando la tabella delle prove su cui Thom aveva scritto: * Identità dell'assassino: Erick A. Weir Ausonio sfogliò il taccuino che teneva in mano. «Erick Weir ha ordinato per posta un paio di Darby alla Ridgeway Antique Weapons il mese scorso.» «Indirizzo?» domandò Rhyme eccitato. «Una casella postale a Denver. Abbiamo fatto un controllo ma l'affitto era scaduto. E non c'è alcun documento che attesti un indirizzo permanente.» «Né che Weir abbia mai vissuto a Denver.» «Metodo di pagamento?» domandò Amelia. «Contanti», fu la risposta simultanea di Ausonio e Rhyme, che aggiunse: «Non ci aiuterà commettendo stupidi errori. Questa pista è un vicolo cielo. Ma almeno abbiamo la conferma del fatto che Weir è proprio il nostro uomo». Rhyme ringraziò le agenti e Amelia le accompagnò alla porta. Il telefono squillò di nuovo. Il prefisso sull'identificatore di chiamate aveva qualcosa di familiare, ma Rhyme non lo riconobbe. «Comando, rispondi telefono... Pronto?» «Sissignore. Sono il tenente Lansing della Polizia di Stato. Sto cercando di mettermi in contatto con il detective Roland Bell. Mi è stato dato questo numero di telefono come sua postazione di comando temporanea.» «Ehi, Harv», lo salutò Bell, avvicinandosi al microfono. «Sono qui.» A bassa voce disse a Rhyme: «È il nostro contatto sul caso Constable, su a Canton Falls». Lansing continuò: «Abbiamo le prove che ci hai spedito stamattina. I ragazzi della scientifica le stanno esaminando. Abbiamo mandato un paio di detective a parlare con la moglie di Swensen, quel reverendo che avete arrestato ieri sera. La donna non ha detto niente di utile e i miei ragazzi non hanno trovato niente nella casa che colleghi Swensen a Constable o a qualcun altro dell'Alleanza Patriottica». «Niente?» sospirò Bell. «Maledizione! Pensavo che fosse un tipo molto meno cauto.»
«Forse i ragazzi dell'Alleanza sono arrivati prima di noi e hanno ripulito per bene la casa.» «Questo è più che probabile. Amico, ho la sensazione che non avremo molta fortuna lì. Comunque, continua così, Harv, grazie.» «Se dovessimo scoprire qualsiasi altra cosa te lo farò sapere, Roland.» Riappesero. «Il caso Constable non è meno difficile di questo.» Bell indicò con un cenno del capo le lavagne bianche. Qualcuno bussò alla porta d'ingresso. Armata di una grande tazza di caffè, Kara entrò nella stanza. Sembrava più pallida ed esausta di Amelia. Sellitto stava facendo un monologo sulle nuove tecniche per dimagrire quando la sua lezione venne interrotta dall'ennesima telefonata. «Lincoln?» gracchiò una voce dall'altoparlante. «Sono Bedding. Io e Saul pensiamo di aver ristretto le ricerche della chiave a tre hotel. La ragione per cui c'è voluto tanto...» Il suo collega, Saul, lo interruppe: «È venuto fuori che ci sono molti hotel, che affittano camere mensilmente o a lungo termine, che si servono di quel tipo di scheda». «Per non parlare degli alberghi a ore. Ma questo è un altro paio di maniche.» «Abbiamo dovuto controllarli tutti. Comunque, questo è ciò che abbiamo scoperto: probabilmente, e dico probabilmente, l'albergo che cercate è o il Chelsea Lodge o il Beckman oppure il... come si chiama?» «Lanham Arms», disse il suo collega. «Esatto. Sono gli unici che usano questo Modello 42 grigio. Ora siamo al Beckman. Tra la Trentaquattro e la Quinta. Stiamo per provarla.» «Cosa significa che state per provarla?» chiese Rhyme. «Come posso spiegartelo?» rispose Bedding o Saul. «Le chiavi funzionano solo in un modo.» «Cioè?» domandò Bell. «Vedete, solo la serratura che c'è sulle porte delle camere dell'hotel può leggere una chiave. La macchina alla reception che imprime il codice di una stanza su una chiave vergine non può leggerne una che è già stata impressa e dirti che stanza è.» «Perché no? È ridicolo.» «Nessuno ha bisogno di sapere una cosa del genere.» «Tranne noi, naturalmente, ed è per questo che adesso andremo di porta
in porta a provare la chiave.» «Merda», sbottò Rhyme. «Questo riassume egregiamente come ci sentiamo noi», disse uno dei due detective. Sellitto domandò: «Okay. Avete bisogno di altri uomini?» «No. Possiamo comunque provare una sola porta alla volta. Non c'è altro modo. E se c'è un nuovo ospite nella stanza...» «... la carta non sarà comunque più valida. Il che non contribuirà a migliorare il nostro umore.» «Buon giorno, signori», disse Bell nel microfono. «Ehilà, Roland.» «Abbiamo riconosciuto l'accento.» «Avete menzionato il Lanham Arms. Dov'è?» «Settantacinque est. Vicino alla Lex.» «Il nome ha qualcosa di familiare. Non riesco a metterlo a fuoco.» Bell era accigliato e stava scuotendo la testa. «È il prossimo hotel sulla nostra lista.» «Subito dopo il Beckman.» «Che ha seicentottantadue camere. Meglio che ci mettiamo al lavoro.» Lasciarono i Gemelli al loro faticoso compito. Il computer di Cooper emise un «bip» e il tecnico lesse l'e-mail appena arrivata. «Viene dal laboratorio dell'FBI di Washington... Finalmente abbiamo il risultato dell'analisi sulla limatura di metallo trovata nel borsone del Negromante. I segni suggeriscono che la limatura provenga dal meccanismo di un orologio.» «Be' non è un orologio», disse Rhyme. «Ovviamente.» «Come lo sai?» chiese Bell. «È un detonatore», rispose Amelia con aria cupa. «Proprio quello che stavo per dire io», confermò Rhyme. «Una bomba incendiaria?» chiese Cooper, indicando con un cenno del capo il fazzoletto imbevuto di benzina che Weir aveva lasciato a Rhyme come «souvenir». «È probabile.» «Ha una scorta di benzina ed è ossessionato dal fuoco. Sicuramente ha in mente di bruciare viva la sua prossima vittima.» Proprio ciò che era quasi accaduto a lui. Il fuoco lo ha, tra virgolette, assassinato — ha assassinato la sua vecchia personalità — e così quando uccide qualcuno lui si sente meglio:
questo riduce l'angoscia che la rabbia scatena dentro di lui... Rhyme notò che erano quasi le dodici. Di lì a poco sarebbe stato pomeriggio. La prossima vittima sarebbe morta molto presto. Ma quando, alle 12:01 o alle 4 del mattino? Un brivido di rabbia e frustrazione gli attraversò la base del cranio e svanì lungo il suo corpo pietrificato. Avevano talmente poco tempo. Forse non ne avevano affatto. Ma basandosi sulle prove in loro possesso non poteva giungere ad alcuna conclusione. E il giorno si trascinava lento come il gocciolare di una flebo. Arrivò un fax. Cooper lo lesse. «È dell'analista di documenti del Queens. Hanno aperto il giornale trovato nella Mazda. Non ci sono annotazioni a margine e niente è stato sottolineato. Questi sono i titoli degli articoli.» Con un pezzo di nastro adesivo fissò il fax alla lavagna. GUASTO ALLA RETE ELETTRICA CHIUDE STAZIONE DI POLIZIA PER QUASI 4 ORE NEW YORK SI PREPARA PER LA CONVENTION REPUBBLICANA GENITORI PROTESTANO PER LA SCARSA SICUREZZA IN UNA SCUOLA FEMMINILE MILIZIA ACCUSATA DI CONCORSO IN OMICIDIO LUNEDÌ SI APRE IL PROCESSO WEEKEND DI GALA AL MET PER BENEFICENZA DIVERTIMENTO PRIMAVERILE PER ADULTI E BAMBINI INCONTRO TRA IL GOVERNATORE E IL SINDACO PER DISCUTERE IL NUOVO PIANO PER IL WEST SIDE
«Uno di questi titoli è importante», disse Rhyme. Ma quale? Il killer aveva preso di mira la scuola femminile? O forse il galà? La corrente era mancata alla stazione di polizia perché lui aveva usato la rete elettrica per testare un suo gimmick? Il criminologo si sentiva ancora più frustrato all'idea di avere delle nuove prove il cui significato continuava a sfuggirgli. Il cellulare di Sellitto squillò. Lui rispose e tutti lo fissarono, convinti che si trattasse della notizia di un nuovo omicidio. L'orologio segnava 1:03. Era pomeriggio e l'assassino aveva colpito di nuovo. Ma a quanto pareva non si trattava di cattive notizie. Il detective inarcò un sopracciglio come se fosse stato piacevolmente sorpreso e disse: «Esatto... Davvero? Be', non è molto lontano. Non potrebbe venire qui?» Diede l'indirizzo di Rhyme alla persona che aveva chiamato e chiuse la comunicazione. «Chi era?» «Era Edward Kadesky. Il direttore del circo dell'Ohio, quello dell'incidente di Weir. È in città. Ha sentito il messaggio che gli abbiamo lasciato a Chicago e vuole venire a parlare con noi.» L'uomo era tarchiato, di media statura. Aveva la barba e fluenti capelli argentati. Rhyme, che ora era sospettoso dopo la visita di Weir della sera prima, salutò Edward Kadesky e poi gli chiese un documento di identità. «Se non le spiace», aggiunse Sellitto spiegandogli che ultimamente avevano avuto problemi con un criminale che si era travestito per sembrare qualcun altro. Kadesky — un uomo che evidentemente non era abituato a non essere riconosciuto, meno che mai a sentirsi chiedere i documenti — con aria infastidita porse a Sellitto la sua patente di guida dell'Illinois. Senza farsi notare, Mel Cooper controllò la fotografia sulla patente e l'impresario e alla fine guardò Rhyme annuendo. Il tecnico aveva già consultato il database della motorizzazione dell'Illinois e aveva ottenuto gli estremi della patente e una fotografia dell'uomo. Tutto corrispondeva. «Nel messaggio dicevate che si tratta di Erick Weir, giusto?» Il suo sguardo era attento e imperioso. «Esatto.» «Quindi è ancora vivo?»
Il fatto che Kadesky ponesse loro quella domanda fu una grande delusione per Rhyme: significava che probabilmente aveva ancora meno informazioni su Weir di quante ne avevano loro. «Vivissimo. È sospettato di una serie di omicidi commessi qui a New York.» «No! Chi ha ucciso?» «Alcuni civili. E anche un agente di polizia», spiegò Sellitto. «Speravamo che potesse dirci qualcosa che ci aiuti a trovarlo.» «Non lo sento da poco dopo l'incendio. Sapete dell'incendio?» «Non molto», disse Amelia. «Ce ne parli.» «Ha incolpato me dell'incendio, sapete... È successo tre anni fa. Weir e i suoi assistenti si occupavano dell'illusionismo e del trasformismo nel nostro spettacolo. Oh, erano molto bravi. Strabilianti. Ma avevamo continue lamentele. Da parte dello staff e da parte del pubblico. Weir spaventava gli spettatori. Era come un piccolo dittatore. E quei suoi assistenti... noi li avevamo soprannominati gli Alienati. Lui li aveva indottrinati per bene. L'illusionismo per lui era come una religione. Talvolta qualcuno si faceva male durante una prova o durante uno spettacolo, anche gli spettatori che si offrivano volontari. E a Weir non importava assolutamente niente. Pensava che la magia funzionasse meglio quando c'era anche il rischio. Diceva che la magia è come un ferro arroventato che deve marchiare l'anima.» L'impresario emise una risata cupa. «Ma non possiamo permettercelo quando facciamo intrattenimento, giusto? Così ho parlato con Sidney Keller — era il proprietario — e abbiamo deciso di licenziarlo. Una domenica, prima della matinée, ho incaricato il direttore artistico di dirgli di andarsene.» «È stato il giorno dell'incendio?» domandò Rhyme. Kadesky annuì. «Il direttore ha trovato Weir che stava versando del propano sul palcoscenico per una delle sue illusioni. Lo Specchio Che Brucia. Gli ha comunicato la nostra decisione. Ma Weir è come impazzito: ha spinto il direttore giù dalle scale e ha continuato a preparare il trucco. Io sono andato sul palco. Lui mi ha afferrato. Non ci stavamo picchiando veramente, ci stavamo solo azzuffando, ma eravamo vicini a una scia di propano. Siamo caduti su alcune sedie di metallo e una scintilla deve aver dato fuoco al combustibile. Lui è rimasto ustionato e sua moglie è morta. Il tendone è andato completamente distrutto. Abbiamo anche pensato di fargli causa, ma lui se l'è svignata dall'ospedale ed è scomparso.» «Abbiamo trovato un'inchiesta nel New Jersey, una condanna per con-
dotta pericolosa. Sa se è stato arrestato anche da qualche altra parte?» domandò Rhyme. «Non ne ho idea.» Kadesky scosse la testa. «Non avrei mai dovuto assumerlo. Ma se lo aveste visto esibirsi in uno spettacolo, capireste perché lo fatto. Era il migliore. Forse gli spettatori erano terrorizzati e alcuni di loro si sentivano, be', aggrediti, ma compravano comunque il biglietto per vederlo. E avreste dovuto sentire che ovazioni.» L'impresario guardò l'orologio: 1:45. «Sapete, il mio show inizia tra un quarto d'ora... Penso che sarebbe una buona idea mandare qualche altra auto di pattuglia. Con Weir in giro e tutto quello che è successo tra noi...» «Mandarle dove?» domandò Rhyme. «Al mio spettacolo.» Con un cenno del capo indicò Central Park. «Quello è suo? Il Cirque Fantastique?» «Esatto. Pensavo lo sapeste. Siete stati voi a parcheggiare l'auto di pattuglia lì davanti... Lo sapete che il Cirque Fantastique è il vecchio circo Hasbro e Keller, vero?» «Cosa?» chiese Sellitto. Rhyme lanciò un'occhiata a Kara, che stava scuotendo la testa. «Il signor Balzac non me ne ha parlato quando gli ho telefonato ieri sera.» «Dopo l'incendio», disse Kadesky, «ci siamo rinnovati. Il Cirque du Soleil stava avendo un tale successo che ho proposto a Sid Keller di fare qualcosa di simile. Quando abbiamo avuto i soldi dell'assicurazione, abbiamo aperto il Cirque Fantastique.» «No, no, no», sussurrò Rhyme fissando la tabella delle prove. «Cosa c'è, Linc?» chiese Sellitto. «Ecco cosa ci fa Weir qui a New York», annunciò il criminologo. «Il suo vero obiettivo è il vostro spettacolo. Il Cirque Fantastique.» «Cosa?» Rhyme scrutò di nuovo la lavagna. Applicando i fatti alle premesse. Annuì. «I cani!» «Cosa?» domandò Amelia. «Quei dannatissimi cani! Guarda la tabella. Guardala. I peli di animale e il terriccio di Central Park provengono dalla collinetta dei cani! Proprio là fuori.» Con un cenno del capo indicò una delle finestre dell'abitazione che davano sul parco. «Non stava sorvegliando Cheryl Marston sul percorso di equitazione; stava sorvegliando il circo. Il giornale, quello trovato sulla Mazda... guardate il titolo: 'Divertimento per adulti e bambini'. Chiama il giornale, cerca di scoprire se nell'articolo c'è qualche informazione a pro-
posito del circo. Thom, chiama Peter! Subito.» L'aiutante era amico di un reporter del Times, un giovane che li aveva già aiutati in passato. Prese il telefono e compose il numero. Peter Hoddings lavorava alla redazione esteri ma impiegò meno di un minuto a trovare la risposta. Riferì le informazioni a Thom che annunciò: «Nell'articolo si parlava del circo. C'erano dettagli di ogni genere: orari, esibizioni e biografie degli artisti. C'era persino un box sulla sicurezza». «Cazzo», ringhiò Rhyme. «Stava facendo ricerche... E il tesserino da giornalista? Gli sarebbe servito per uscire ad arrivare dietro le quinte.» Fissò la lavagna socchiudendo gli occhi. «Sì! Ora ho capito. Le vittime. Che cosa rappresentavano? Rappresentavano alcuni dei lavori che si fanno in un circo. Un truccatore. Una cavallerizza... E la prima vittima! Sì, era una studentessa, ma che lavoro faceva? Cantava e intratteneva i bambini alle feste di compleanno, proprio come fanno i clown.» «E le tecniche stesse con cui ha commesso gli omicidi», fece notare Amelia. «Erano tutti trucchi di magia.» «Già. Weir vuole colpire il Cirque Fantastique. Terry Dobyns ha detto che il suo movente è prima di ogni altra cosa la vendetta. Maledizione, deve avere nascosto una bomba incendiaria da qualche parte nel circo.» «Mio Dio», disse Kadesky. «Ma ci sono duemila persone lì! Lo spettacolo comincia tra dieci minuti.» Alle due del pomeriggio... «La matinée della domenica», aggiunse Rhyme. «Proprio come nell'Ohio tre anni fa.» Sellitto afferrò il Motorola e chiamò gli agenti che sorvegliavano il circo. Non ottenne risposta. Il detective si accigliò e usò il telefono di Rhyme per fare una chiamata. «Qui agente Koslowsky», rispose l'uomo un attimo dopo. Sellitto si identificò e abbaiò: «Perché non avete la radio accesa, agente?» «La radio? Be', non siamo in servizio, tenente.» «Non siete in servizio? Ma se siete appena entrati in servizio.» «Be', detective, ci è stato detto che potevamo staccare.» «Vi è stato detto cosa?» «Mezz'ora fa è venuto un detective e ci ha detto che non c'era più bisogno di noi. Ha detto che potevamo prenderci il resto della giornata. Io sto andando a Rockaway Beach con la mia famiglia. Posso...» «Me lo descriva.»
«Sulla cinquantina. Barba e capelli castani.» «Dov'è andato?» «Non ne ho idea. Si è avvicinato alla nostra auto, ci ha mostrato il distintivo e poi ha detto che ce ne potevamo andare.» Sellitto interruppe bruscamente la telefonata. «Sta per succedere... Oh, ragazzi, sta per succedere.» Gridò ad Amelia: «Chiama il Sesto, fa' venire la Squadra Artificieri». Poi chiamò la centrale e fece mandare al circo l'Unità Emergenze e alcuni camion dei vigili del fuoco. Kadesky corse verso la porta. «Farò evacuare il tendone.» Bell disse che avrebbe chiamato i Servizi Medici di Emergenza e avrebbe fatto approntare squadre specializzate nel trattamento delle ustioni al Columbia Presbyterian. «Voglio altri agenti in borghese al parco», disse Rhyme. «Molti. Ho la sensazione che il Negromante sarà là.» «E per fare cosa?» chiese Sellitto. «Per godersi l'incendio. Sarà molto vicino. Ricordo i suoi occhi mentre guardava le fiamme nella mia stanza. Adora guardare il fuoco. No, non si perderebbe questo spettacolo per nulla al mondo.» 30 Il fuoco non era la cosa che lo preoccupava di più. Mentre percorreva di corsa la breve distanza che separava l'abitazione di Lincoln Rhyme e il tendone del Cirque Fantastique, Edward Kadesky stava pensando che con i nuovi codici e i fuocoritardanti, anche l'incendio peggiore si sarebbe propagato lentamente in un teatro o in un tendone da circo. No, il pericolo più grave era il panico, erano le tonnellate di muscoli umani, la fuga precipitosa che travolgeva, schiacciava, strappava e soffocava. Ossa rotte, polmoni esplosi, asfissia... Per salvare dal disastro le persone che affollano un circo bisogna farle uscire dal tendone senza che si scateni il panico. Tradizionalmente, per avvertire i clown, gli acrobati e gli altri artisti che è scoppiato un incendio, il direttore di pista faceva un segnale prestabilito al direttore della banda che dava inizio a un'energica esecuzione della marcia di John Philip Sousa, Star and Stripes Forever. A quel punto gli impiegati del circo (o almeno gli impiegati che non decidevano di abbandonare la nave per primi) dovevano mettersi ai posti di manovra e accompagnare con calma gli spettatori verso le uscite designate.
Il brano musicale era stato sostituito nel corso degli anni da procedure di evacuazione del tendone molto più efficienti. Ma se fosse esplosa un bomba incendiaria spargendo fiamme dappertutto? La folla si sarebbe precipitata verso le uscite e un migliaio di persone sarebbero morte schiacciate. Edward Kadesky entrò di corsa nel tendone e vide duemilaseicento persone in trepidante attesa dell'inizio del suo spettacolo. Il suo spettacolo. Era così che lo considerava. Lo spettacolo che lui aveva creato. Kadesky era stato venditore ambulante in spettacoli da quattro soldi, addetto al sipario in teatri di seconda categoria in città di terza categoria e bigliettaio in polverosi circhi regionali. Aveva lottato per anni per regalare al pubblico spettacoli capaci di trascendere gli aspetti più dozzinali e pacchiani del circo. C'era già riuscito una volta in passato con lo spettacolo dell'Hasbro e Keller che Erick Weir aveva distrutto. Poi c'era riuscito di nuovo con il Cirque Fantastique, un circo rinomato in tutto il mondo, che aveva dato legittimità e persino prestigio a una professione così spesso sottovalutata da coloro che andavano a teatro e all'opera e ignorata da coloro che guardavano MTV. Ripensò all'ondata di calore incandescente dell'incendio al tendone dell'Hasbro nell'Ohio. Le particelle di cenere simili a mortali fiocchi di neve grigi. L'ululato delle fiamme — l'incredibile frastuono — mentre il suo circo andava in fumo proprio davanti ai suoi occhi. C'era una differenza, però: tre anni prima, il tendone era deserto. Oggi migliaia di uomini, donne e bambini si sarebbero trovati al centro della deflagrazione. L'assistente di Kadesky, Katherine Tunney, una giovane brunetta che aveva fatto esperienza nel settore organizzativo in un parco a tema della Disney prima di venire a lavorare per lui, notò il suo sguardo turbato e lo raggiunse immediatamente. Quello era uno dei più grandi talenti di Katherine: saper intuire quasi telepaticamente i suoi pensieri. «Cosa c'è?» sussurrò la ragazza. Lui le riferì ciò che Lincoln Rhyme e la polizia gli avevano detto. Gli occhi di lei, proprio come quelli di Kadesky, presero a scrutare angosciosamente il tendone in cerca del possibile nascondiglio della bomba. «Cosa dobbiamo fare?» chiese lei concisa. Lui rifletté per un istante, poi le diede istruzioni. Alla fine aggiunse: «E poi mettiti in salvo».
«Ma tu vuoi restare? Che cosa...?» «Fa' quello che ti ho detto», la interruppe lui con fermezza. Poi le strinse la mano. In tono più dolce aggiunse: «Ti raggiungerò fuori. Andrà tutto bene». Kadesky ebbe la sensazione che lei volesse abbracciarlo, ma il suo sguardo le impose di non farlo. Erano perfettamente visibili dal pubblico e Kadesky non voleva che qualche spettatore pensasse anche solo per un momento che c'era qualcosa che non andava. «Cammina lentamente. Continua a sorridere. Prima di qualsiasi altra cosa siamo artisti, ricordatelo.» Katherine annuì e andò prima dall'addetto alle luci e poi dal direttore della banda per informarli degli ordini di Kadesky. Alla fine, prese posizione accanto all'ingresso principale. Lisciandosi la cravatta e abbottonandosi la giacca, Kadesky lanciò un'occhiata all'orchestra e annuì. Un rullo di tamburi. Comincia lo spettacolo, pensò. Mentre raggiungeva con un ampio sorriso il centro della pista, il silenzio cominciò a calare tra gli spettatori. Quando Kadesky si fermò, il rullo di tamburi si interruppe. Un attimo dopo, due fasci di luce bianca lo illuminarono. Anche se era stato lui a dire a Katherine di chiedere all'addetto alle luci di usare i riflettori principali, per un attimo rimase senza fiato, pensando che le luci brillanti fossero state prodotte dall'esplosione della bomba. Ma il suo sorriso non svanì nemmeno per un istante e lui si riprese subito. Si portò alle labbra un microfono senza filo e cominciò a parlare. «Buon pomeriggio, signore e signori, benvenuti al Cirque Fantastique.» Calmo, gentile, fermo. «Abbiamo uno strepitoso spettacolo per voi, oggi. E per cominciare vi chiederò di essere pazienti. Temo che dovremo arrecarvi un piccolo disturbo ma penso che ne varrà la pena. Abbiamo allestito un numero speciale fuori dal tendone. Vi chiedo scusa... Abbiamo provato a portare qui dentro l'Hotel Plaza, ma la direzione non ce l'ha permesso. Pare che alcuni ospiti non fossero d'accordo.» Una pausa riempita dalle risate. «Quindi vi chiedo di conservare il vostro biglietto e uscire nel parco.» Gli spettatori cominciarono a mormorare chiedendosi di quale numero potesse trattarsi. Lui sorrise. «Trovatevi un posto qui fuori. Se riuscite a vedere gli edifici di Central Park South riuscirete a vedere perfettamente il numero.» Risate ed esclamazioni entusiastiche si levarono dalla folla. Ma di cosa
stava parlando? C'erano forse degli acrobati che stavano per eseguire un numero di equilibrismo tra i grattacieli? «Adesso, prima le file più in basso, spostatevi ordinatamente per favore. Usate pure tutte le uscite vicino a voi.» Le luci si accesero. Kadesky vide Katherine Tunney in piedi vicino alla porta mentre sorrideva e faceva cenno alla gente di uscire. Ti prego, pensò lui, Vattene, esci di qui! Gli spettatori stavano chiacchierando rumorosamente mentre si alzavano — riusciva solo vagamente a vederli nella luce abbagliante. Stavano guardando i loro compagni chiedendosi chi avrebbe dovuto uscire per primo. Da che parte andare. Poi cominciarono a raggruppare i bambini, a raccogliere borse e contenitori di popcorn, a controllare i loro biglietti. Kadesky sorrise vedendo che si alzavano e si avviavano verso le uscite e verso la salvezza. Ma stava pensando: Chicago, Illinois, dicembre 1903. A una matinée di Eddie Foy che stava mettendo in scena il suo famoso numero di vaudeville all'Iroquois Theatre, un riflettore prese fuoco dando inizio a un incendio che rapidamente si propagò dal palco alla platea. Le duemila persone che assistevano allo spettacolo si precipitarono verso le uscite intasandole al punto che i vigili del fuoco non riuscirono a entrare. Più di seicento spettatori persero la vita in modo orribile. Hartford, Connecticut, luglio 1944. Un'altra matinée. Al Circo Ringling Brothers e Barnum & Bailey, proprio mentre la famosa famiglia Wallenda stava cominciando il suo celebre numero di equilibrismo, un piccolo incendio scoppiò nella parte sud-est del tendone che ben presto venne divorato: era stato impermeabilizzato con benzina e paraffina. Nel giro di pochi minuti più di centocinquanta persone morirono carbonizzate, soffocate o schiacciate. Chicago, Hartford e tante altre città. Migliaia di terribili morti in incendi scoppiati in teatri e circhi nel corso degli anni. Era questo che stava per succedere ora? Era così che il Cirque Fantastique, era così che il suo spettacolo sarebbe stato ricordato? Il tendone si stava svuotando a poco a poco — la lentezza era il prezzo da pagare per evitare il panico. C'erano ancora talmente tante persone all'interno. E alcune, a quanto pareva, avevano preferito restare sedute ai loro posti e ignorare lo spettacolo nel parco. Quando la maggior parte degli spettatori avesse lasciato il tendone, avrebbe dovuto dire a quelli che erano rimasti che cosa stava realmente per succedere.
Quando sarebbe esplosa la bomba? Probabilmente non subito. Weir avrebbe dato il tempo ai ritardatari di raggiungere il circo e di prendere posto, per causare il maggior numero possibile di vittime. Adesso erano le 2:10. Forse aveva scelto un orario preciso, le 2:15 o le 2:30. E dove l'aveva nascosta? Kadesky non aveva idea di dove Weir avrebbe potuto lasciare la bomba in modo che causasse il massimo dei danni. Lanciando un'occhiata attraverso il tendone alla folla ammassata all'ingresso principale, scorse la sagoma di Katherine che con la mano gli faceva segno di uscire. Ma lui aveva deciso di restare. Avrebbe fatto tutto ciò che era necessario per far evacuare il tendone, anche prendere le persone per mano e accompagnarle all'uscita, persino spingerle fuori se avesse dovuto, e poi tornare a prenderne altre; anche se il tendone si fosse dissolto in brandelli fiammeggianti attorno a lui. Lui sarebbe stato comunque l'ultimo a uscire. Con un ampio sorriso, ricambiò lo sguardo di Katherine scuotendo la testa, quindi sollevò di nuovo il microfono e continuò a spiegare agli spettatori che magnifica sorpresa li attendesse fuori. All'improvviso la musica lo interruppe. Lui guardò il podio dei musicisti che se n'erano andati proprio come aveva ordinato. Tuttavia il direttore della banda era ancora lì alla consolle che controllava la musica preregistrata di cui talvolta si servivano. I loro sguardi si incrociarono e Kadesky annuì con aria di approvazione. Il direttore, un veterano del circo, aveva messo un nastro e lo stava riproducendo a volume molto alto. Il brano era The Stars and Stripes Forever. Amelia Sachs si fece largo tra la folla che stava uscendo dal Cirque Fantastique e corse al centro del tendone riempito dal fragore della musica, dove Edward Kadesky, parlando in un microfono, stava entusiasticamente invitando tutti a uscire per assistere a uno speciale numero di illusionismo... per evitare il panico, pensò lei. Idea brillante, rifletté Amelia, immaginando il disastro che avrebbe potuto verificarsi se tutta quella gente si fosse precipitata verso le uscite. Amelia fu la prima agente ad arrivare — l'ululato delle sirene le diceva che le squadre di soccorso l'avrebbero raggiunta ben presto — ma non rimase ad aspettare i rinforzi e cominciò immediatamente la ricerca della bomba. Si guardò attorno, cercando di capire quale fosse il posto migliore per nascondere un ordigno incendiario. Per causare il maggior numero di vittime, immaginò, Weir doveva averla nascosta sotto le gradinate vicino a
un'uscita. La bomba — o le bombe — doveva essere di grandi dimensioni. A differenza della dinamite o degli esplosivi al plastico, le bombe incendiarie devono essere grandi per provocare danni significativi. Potevano essere nascoste in scatoloni o contenitori di vario tipo. Forse in un bidone di metallo. Amelia notò un bidone di plastica della spazzatura: era molto grande, da duecento litri circa. Si trovava proprio accanto all'uscita principale e decine di persone vi transitavano accanto mentre uscivano. C'erano venti o venticinque bidoni simili a quello sotto il tendone. I contenitori verde scuro sarebbero stati la soluzione ideale per nascondere delle bombe. Amelia raggiunse di corsa il bidone più vicino e si fermò. Non riusciva a vedervi dentro. Il coperchio aveva la forma di una V rovesciata con l'apertura a spinta, ma lei sapeva che l'apertura non avrebbe fatto scattare il detonatore: i frammenti di ottone indicavano che l'assassino aveva usato un timer. Dalla tasca posteriore dei jeans prese una piccola torcia e la usò per illuminare l'interno maleodorante. Il contenitore era già pieno quasi per metà di cartacce, involucri di snack e bicchieri di carta; non riusciva a vedere il fondo. Spostò leggermente il bidone: era troppo leggero per contenere anche un solo gallone di benzina. Un'altra occhiata al tendone. All'interno c'erano ancora circa seicento persone che si stavano incamminando verso le uscite. E c'erano ancora decine di altri bidoni da controllare. Passò a esaminare il successivo. Poi si fermò e strizzò gli occhi. Sotto le gradinate principali, proprio vicino all'uscita sud del tendone, c'era un oggetto di circa un metro e venti coperto da un telone nero. Amelia pensò immediatamente a come Weir aveva usato un telo per nascondersi. Qualunque cosa ci fosse sotto il telone era virtualmente invisibile e grande abbastanza da contenere centinaia di galloni di benzina. Un folto gruppo di persone era a meno di sei metri da lì. Fuori, le sirene si fecero dapprima sempre più forti, poi tacquero di colpo quando i veicoli di emergenza si fermarono vicino al tendone. Vigili del fuoco e agenti di polizia cominciarono a entrare. Amelia mostrò il distintivo all'agente più vicino a lei. «Gli artificieri sono già arrivati?» «Saranno qui tra cinque o sei minuti.» Lei annuì e disse loro di esaminare con attenzione i bidoni della spazzatura, poi si diresse verso la scatola coperta dal telo. E fu allora che esplose.
Non la bomba. Ma il panico, che sembrò eruttare con la rapidità di una detonazione. Amelia non avrebbe saputo dire che cosa l'avesse scatenato: la vista dei veicoli di emergenza fuori dal tendone e dei vigili del fuoco che entravano probabilmente aveva spaventato alcuni degli spettatori. Poi udì una serie di colpi secchi vicino all'ingresso principale. Riconobbe quei suoni, che aveva già sentito il giorno prima: erano gli schiocchi del grande striscione con l'Arlecchino della Commedia dell'Arte che veniva sospinto dal vento. Ma gli spettatori che stavano uscendo dovevano aver pensato che fossero colpi di pistola e quindi erano tornati dentro in preda al panico, in cerca di altre uscite. All'improvviso il tendone si riempì di una gigantesca voce collettiva, simile al suono di un'enorme bocca che risucchiava aria per la paura. Un mormorio profondo, un ruggito. E poi l'ondata si infranse. Urlando e gridando, la folla si precipitò verso le uscite. Amelia fu spinta da dietro da una massa terrorizzata di persone. Sbatté con uno zigomo contro la spalla di un uomo davanti a lei e il colpo la lasciò stordita. Centinaia di persone gridavano in preda al panico che era scoppiato un incendio, che c'era una bomba, che si trattava di un attacco terroristico. «Non spingete», gridò Amelia. Ma non riuscì a sentire la sua stessa voce. Sarebbe stato impossibile fermare la marea in ogni caso. Mille individui erano diventati un'unica entità. Alcuni tentavano di fermare quel corpo sussultante ma vennero inghiottiti e divennero parte della bestia che continuò ad avanzare disperata verso il bagliore dell'uscita. Amelia riuscì a liberare un braccio incastrato tra due ragazzini, i volti paonazzi per la paura. La testa le venne spinta in avanti e intravide dei brandelli di carne sul pavimento del tendone. Rimase senza fiato pensando che un bambino fosse stato calpestato a morte. Ma, no, erano soltanto i brandelli di un palloncino. Un biberon, un pezzo di tessuto verde, dei pop corn, una maschera da Arlecchino, un lettore CD portatile vennero frantumati dall'enorme peso dei piedi. Se qualcuno fosse caduto sarebbe morto nel giro di pochi secondi. Amelia si sentiva priva di equilibrio e di controllo; le sembrava di essere sul punto di cadere da un momento all'altro. Poi venne letteralmente sollevata da terra, premuta tra due corpi sudati — quello di un uomo robusto che indossava una camicia Izod insanguinata, che teneva un bambino sollevato sopra la testa e una donna che sembrava svenuta. Le urla erano sempre più assordanti, voci di bambini e di adulti mescolate e alimentate dal panico. Amelia si sentì avvolgere dal ca-
lore soffocante e ben presto le fu quasi impossibile respirare. La claustrofobia — la più grande paura di Amelia Sachs — la strinse in una morsa e lei si sentì inghiottire da un intollerabile senso di costrizione. Quando ti muovi non possono prenderti... Ma lei non poteva muoversi. Era tenuta prigioniera da una massa soffocante di corpi potenti e umidi, non più umani ormai, un esercito di muscoli, sudore, pugni, sputi e piedi che calavano sul terreno con crescente violenza. Ti prego, no! Ti prego, lasciami andare! Vammi liberare una mano. Lasciami respirare. Pensò di vedere del sangue. Pensò di vedere della carne martoriata. Forse erano il suo stesso sangue e la sua stessa carne. In preda al terrore e al dolore, senza fiato, Amelia Sachs si sentì sul punto di svenire. No! Non cadere sotto i loro piedi. Non cadere! Ti prego! Non riusciva a respirare. Nemmeno un centimetro cubo d'aria stava entrando nei suoi polmoni. Poi vide un ginocchio vicinissimo al suo volto. Le sbatté su una guancia e rimase lì. Amelia sentì l'odore dei jeans sporchi, vide uno stivale impolverato a pochi centimetri dai suoi occhi. Ti prego, non lasciarmi cadere. E fu in quel momento che si rese conto che forse era già caduta. 31 Con indosso un'uniforme da cameriere, praticamente identica a quelle dei membri dello staff del Lanham Arms Hotel, nell'Upper East Side di Manhattan, Malerick stava percorrendo il corridoio del quindicesimo piano dell'hotel. Con sé aveva un pesante vassoio da servizio in camera su cui si trovavano un piatto coperto e un vaso con un grande tulipano rosso. Ogni suo gesto era in armonia con l'ambiente circostante in modo da non destare alcun sospetto. Malerick era un perfetto cameriere, gentile e deferente. Lo sguardo basso, il sorriso appena accennato, la camminata discreta, il vassoio immacolato. C'era una sola cosa che lo distingueva dagli altri camerieri del Lanham: sotto la cupola di metallo tiepido che si trovava sul vassoio, non c'era un piatto di uova alla Benedict o un club sandwich ma una Beretta automatica carica munita di un silenziatore spesso come un salsicciotto e una busta di
pelle che conteneva il necessario per scassinare una serratura e altri strumenti. «È tutto di vostro gradimento?» chiese a una coppia. L'uomo e la donna risposero di sì, certo, e gli augurarono buon pomeriggio. Lui continuò a salutare con un cenno del capo e a sorridere agli ospiti che facevano ritorno nelle loro stanze dopo il brunch domenicale o che stavano uscendo per fare una passeggiata in quello splendido pomeriggio di primavera. Passò accanto a una finestra, da cui riuscì a vedere un angolo di verde: uno scorcio di Central Park. Si chiese che cosa stesse accadendo in quel preciso momento al Cirque Fantastique, il luogo verso il quale negli ultimi due giorni aveva indirizzato la polizia con indizi che aveva deliberatamente lasciato sulle varie scene del delitto. Il luogo verso il quale li aveva indirizzati con una diversione. La diversione e l'inganno erano essenziali per il successo di un'illusione e nessuno era più bravo a servirsene di Malerick, l'uomo dai mille volti, l'uomo che si materializzava dal nulla e che scompariva come una fiamma spenta all'improvviso. L'uomo capace di far svanire se stesso. Gli agenti dovevano essere in preda al panico, alla ricerca della bomba incendiaria che temevano fosse in procinto di esplodere. Ma non c'era nessun ordigno, nessun rischio per i duemila spettatori del Cirque Fantastique (nessun rischio a parte la possibilità che qualcuno di loro venisse calpestato a morte dalla folla che fuggiva terrorizzata). Arrivato in fondo al corridoio, Malerick si lanciò un'occhiata alle spalle e si accorse di essere solo. Appoggiò il vassoio sul pavimento accanto a una porta e sollevò il coprivivande. Prese la pistola nera e la fece scivolare in una tasca della sua uniforme da cameriere. Aprì la busta di pelle da cui estrasse un cacciavite prima di mettere via anche quella. Con gesti rapidi, svitò il fermo metallico che permetteva alla finestra di aprirsi solo di pochi centimetri (gli esseri umani non si fanno mai scappare la possibilità di suicidarsi, vero?) e la aprì completamente. Ripose con cautela il cacciavite nella busta. Con le forti braccia si sollevò sul davanzale e lo scavalcò, raggiungendo il cornicione a quarantacinque metri da terra. Il cornicione era largo solo cinquanta centimetri — lo aveva misurato dalla finestra della stanza che qualche giorno prima aveva preso in quell'albergo — e anche se non si era mai dedicato più di tanto all'equilibri-
smo, Malerick possedeva il superbo senso dell'equilibrio che hanno tutti i grandi illusionisti. Si mosse sul bordo di pietra calcarea con estrema sicurezza, come se stesse camminando su un marciapiede. Dopo aver percorso circa cinque metri, arrivò all'angolo dell'edificio e si fermò osservando il palazzo che sorgeva accanto al Lanham Arms. Era un condominio sulla Settantacinquesima strada est, non aveva cornicioni ma aveva una scala antincendio a meno di due metri dal punto in cui si trovava Malerick, che dava su un pozzo di ventilazione che risuonava del ronzio dei condizionatori d'aria. Malerick prese una rincorsa infinitesimale e saltò sopra quella voragine senza fondo raggiungendo facilmente la scala antincendio di cui subito scavalcò la balaustra. Salì due rampe e si fermò accanto alla finestra del diciassettesimo piano. Lanciò un'occhiata all'interno. Il corridoio era deserto. Appoggiò la pistola e la busta di cuoio sul davanzale della finestra, quindi si tolse in un lampo la finta uniforme da cameriere sotto la quale portava un semplice completo grigio, camicia bianca e cravatta. Si infilò la pistola nella cintura, quindi usò gli strumenti contenuti nella busta per aprire la serratura della finestra. Con un balzo fu dentro. Rimase immobile per riprendere fiato. Quindi si incamminò lungo il corridoio verso l'appartamento che stava cercando. Si fermò davanti alla porta, dove si inginocchiò e aprì nuovamente la busta di pelle. Nel buco della serratura inserì un tirante e sopra di esso il grimaldello. Nel giro di tre secondi aveva aperto la serratura. In cinque aveva fatto scattare quella di sicurezza. Aprì la porta di qualche centimetro, il minimo indispensabile per vedere i cardini, sui quali spruzzò dell'olio con una piccola bomboletta per renderli perfettamente silenziosi. Un attimo dopo, entrò nel lungo corridoio buio dell'appartamento. Malerick chiuse la porta. Cercò di orientarsi guardandosi attorno. Su una parete c'erano delle riproduzioni di paesaggi surreali di Salvador Dalì, alcune fotografie della famiglia e un goffo acquerello di New York dipinto da una bambina (la firma dell'artista era «Chrissy»). Accanto alla porta c'era un tavolino da quattro soldi, con un pezzo di carta gialla ripiegata infilato sotto una gamba per impedirgli di traballare. Un unico sci, l'attacco rotto, era abbandonato in un angolo. La carta da parati era vecchia e macchiata. Malerick si incamminò lungo il corridoio verso il suono del televisore acceso in soggiorno, ma fece una breve deviazione, entrando in una piccola stanza buia dominata da un pianoforte Kawai nero. Un libro di musica
con appunti annotati a margine era aperto sul leggio. Anche lì compariva il nome «Chrissy», scritto a penna sulla copertina sul libro. Malerick aveva una conoscenza rudimentale della musica ma mentre sfogliava le pagine notò che i brani sembravano piuttosto difficili. Decise che la ragazzina poteva anche essere una pessima pittrice ma di sicuro era una musicista dotata: Christine Grady, la figlia del viceprocuratore distrettuale di New York Charles Grady. L'uomo a cui apparteneva quell'appartamento. L'uomo che Malerick avrebbe dovuto uccidere in cambio di duecentomila dollari. Amelia Sachs sedeva sull'erba fuori dal tendone del Cirque Fantastique, sul volto una smorfia sofferente per il dolore pulsante che provava al rene destro. Aveva aiutato decine di persone a sfuggire alla calca e ora aveva trovato un punto tranquillo dove riprendere fiato. Dall'alto la fissava l'enorme striscione bianco e nero con il volto mascherato di Arlecchino che continuava a sbattere rumorosamente sospinto dal vento. Il giorno prima le era sembrato inquietante; adesso, dopo il panico — che lo striscione stesso aveva causato — l'immagine le sembrava repellente e grottesca. Amelia era riuscita a evitare di essere schiacciata; il ginocchio e lo stivale che l'avevano colpita con violenza appartenevano a un uomo che si era arrampicato sopra le teste e le spalle degli spettatori per raggiungere l'uscita prima degli altri. Ma la schiena, le costole e il volto le pulsavano dolorosamente. Era rimasta seduta lì per quasi quindici minuti, esausta e tormentata da un senso di nausea, in parte per la folla in parte per l'orrenda sensazione di claustrofobia. Solitamente riusciva a sopportare le stanze piccole, persino gli ascensori. Ma il fatto di trovarsi impossibilitata a muoversi le provocava una sofferenza fisica e la faceva cadere preda del panico. Attorno a lei i feriti stavano ricevendo assistenza. Nessuno aveva riportato lesioni gravi, come le aveva detto il capo dei Servizi Medici di Emergenza: per lo più slogature e tagli superficiali. Qualche lussazione e un braccio rotto. Amelia e le persone attorno a lei erano schizzate fuori dall'uscita sud del tendone. Una volta fuori, si era lasciata cadere in ginocchio sull'erba e, strisciando, si era allontanata dalla folla. Non più intrappolati in uno spazio chiuso con una possibile bomba o un terrorista armato, gli spettatori erano diventati dei buoni samaritani e avevano aiutato coloro che non si sentivano bene o che erano rimasti feriti.
Amelia aveva fermato un agente della squadra artificieri guardandolo dal suo letto erboso, gli aveva mostrato il distintivo e gli aveva detto dell'oggetto coperto da un telo sotto le gradinate vicino all'uscita sud. L'uomo era tornato subito dai suoi colleghi all'interno del tendone. Poi la musica che giungeva dal tendone si era fermata ed Edward Kadesky era uscito. Vedendo la squadra artificieri al lavoro, alcuni spettatori si erano resi conto che la minaccia era stata reale e che la trovata di Kadesky li aveva salvati da un panico peggiore, e gli rivolsero un applauso che lui accettò con modestia mentre si aggirava controllando i suoi dipendenti e il pubblico. Altri spettatori — alcuni feriti altri no — furono meno generosi, pretesero di sapere che cos'era successo e si lamentarono del modo in cui il direttore aveva gestito l'evacuazione. Nel frattempo gli artificieri e una decina di vigili del fuoco avevano setacciato il tendone senza trovare alcuna traccia di un ordigno. Il contenitore coperto dal telone era in realtà un mucchio di cartoni pieni di carta igienica. La ricerca fu estesa alle roulotte, e ai camion, ma gli agenti non trovarono niente nemmeno lì. Amelia si accigliò. Si erano sbagliati? Com'era possibile? si chiese. Le prove erano state talmente chiare. Talvolta Rhyme traeva deduzioni azzardate basandosi sugli indizi e poteva sbagliare. Ma nel caso del Negromante, sembrava che tutte le prove indicassero inequivocabilmente che il prossimo bersaglio sarebbe stato il Cirque Fantastique. Amelia si domandò se Rhyme sapesse già che non avevano trovato ordigni. Alzandosi sulle gambe malferme, andò in cerca di qualcuno a cui chiedere in prestito la radio; il suo Motorola, che ora giaceva in pezzi vicino all'uscita sud del tendone, a quanto pareva era stato l'unica vittima del panico. Uscendo silenziosamente dalla stanza della musica dell'appartamento di Charles Grady, Malerick tornò nel corridoio poco illuminato e rimase ad ascoltare le voci che giungevano dal soggiorno e dalla cucina. Si chiese quanto sarebbe stata pericolosa quell'impresa. Aveva preso tutte le precauzioni possibili per evitare che le guardie del corpo di Grady si facessero prendere dal panico e gli sparassero. Due settimane prima, durante il pranzo al Riverside Inn di Bedford Junction, aveva esposto il suo piano a Jeddy Barnes e ad altri due miliziani. Aveva deciso che la cosa migliore sarebbe stata far sì che qualcuno tentasse di uccide-
re il procuratore prima che lui si introducesse nell'appartamento di Grady. La scelta era ricaduta sul reverendo pervertito di Canton Falls, un uomo di nome Ralph Swensen. Barnes si era servito del ricatto per convincerlo ma aveva spiegato a Malerick che non si fidava completamente di lui. Così, dopo la sua fuga dal fiume Harlem il giorno prima, l'illusionista aveva riutilizzato il travestimento da custode e aveva seguito il reverendo dal suo pulcioso hotel fino al Greenwich Village, per assicurarsi che quel buono a nulla non cambiasse idea all'ultimo momento. Il piano di Malerick prevedeva che Swensen fallisse (la pistola che Barnes gli aveva fornito era rotta). Malerick sapeva che la cattura di un assassino avrebbe indotto le guardie del corpo di Grady a rilassarsi e le avrebbe rese psicologicamente meno inclini a reagire con violenza quando avessero visto un secondo killer. Be', almeno in teoria, rifletté a disagio. Ora avrebbe scoperto cosa sarebbe accaduto in pratica. Camminando silenziosamente, passò accanto ad altri brutti dipinti, ad altri ritratti di famiglia, a pile di riviste — riviste di argomento legale, copie di Vogue e del New Yorker — e a squallidi pezzi di antiquariato comprati a qualche mercatino, con cui i Grady avevano pensato di abbellire, senza successo, l'appartamento. Malerick conosceva già l'appartamento; c'era già stato brevemente in un'altra occasione, travestito da operaio, e aveva studiato la struttura dell'abitazione, individuando i punti di entrata e le vie d'uscita. Non aveva notato il lato più personale della vita della famiglia: gli attestati di laurea di Grady e di sua moglie che lavorava come avvocato. Le foto del matrimonio, istantanee di parenti e un'infinità di fotografie della figlia, che aveva nove anni. Ripensò al suo incontro con Barnes e i suoi soci a pranzo. I miliziani si erano persi in un freddo dibattito sull'opportunità di uccidere anche la moglie e la figlia di Grady. Secondo il piano di Malerick sacrificare Swensen aveva senso, ma a che scopo, si era chiesto, uccidere anche la famiglia di Grady? Aveva posto la domanda a Barnes e agli altri mentre gustava un ottimo tacchino arrosto. «Be', signor Weir», gli aveva detto Jeddy Barnes. «È una buona domanda. Io direi che dovrebbe uccidere la donna e la bambina in ogni caso.» E Malerick aveva annuito con espressione pensierosa; sapeva che non bisognava mai apparire condiscendenti agli occhi del pubblico o dei colleghi artisti. «Be', non ho alcun problema a ucciderle», aveva spiegato. «Ma
credo che avrebbe più senso lasciarle vive... sempre che non ci sia il rischio che mi identifichino o che, per esempio, la bambina riesca a prendere il telefono e a chiamare la polizia. Tra l'altro, credo che alcuni dei suoi uomini sarebbero contrari all'omicidio di donne e bambini.» «Be', il piano è suo, signor Weir», aveva replicato Barnes. «Faremo come dice lei.» Tuttavia, Malerick aveva avuto l'impressione che l'idea della pietà avesse lasciato l'uomo vagamente deluso. Si fermò fuori dalla porta del soggiorno dei Grady e si appuntò un finto distintivo del Dipartimento di Polizia di New York, quello che aveva mostrato ai poliziotti vicino al Cirque Fantastique quando era andato a congedarli. Lanciò un'occhiata a uno specchio da mercatino delle pulci che aveva bisogno di essere lucidato. Sì, era entrato nella parte, aveva proprio l'aspetto di un detective venuto a proteggere il procuratore dalle terribili minacce di morte che gli erano state rivolte. Un profondo respiro. Nessuna traccia di nervosismo. E ora, Riveriti Spettatori, si accendano le luci e si alzi il sipario. Il vero spettacolo sta per cominciare... Tenendo le mani con naturalezza lungo i fianchi, Malerick svoltò l'angolo del corridoio ed entrò nel soggiorno. 32 «Ehi, come va?» domandò l'uomo con il completo grigio, facendo trasalire Luis Martinez, il silenzioso, robusto detective che lavorava per Roland Bell. La guardia del corpo era seduta sul divano davanti alla TV, una copia del numero domenicale del New York Times in grembo. «Amico, mi hai spaventato.» Salutò con un cenno del capo e lanciò un'occhiata al distintivo e al documento del nuovo arrivato prima di scrutarlo in volto. «Sei venuto a darmi il cambio.» «Esatto.» «Come hai fatto a entrare? Ti hanno dato una chiave?» «Sì, alla centrale.» Parlava con voce bassa e rauca come se avesse avuto il raffreddore. «Sei stato fortunato», borbottò Luis. «Noi abbiamo dovuto dividercene una. Che gran rottura di palle.»
«Dov'è il signor Grady?» «In cucina. Con sua moglie e Chrissy. Come mai sei arrivato in anticipo?» «Non so cosa dirti», rispose l'uomo. «Mi hanno ordinato di venire a quest'ora.» «La storia della nostra vita, eh?» commentò Luis. Si fece serio. «Non mi sembra di conoscerti.» «Mi chiamo Joe David», si presentò l'uomo. «Di norma lavoro a Brooklyn.» Luis annuì. «Già, è lì che mi sono fatto le ossa anch'io, il Settanta.» «Questo è il mio primo turno. Come guardia del corpo, voglio dire.» Un rumoroso spot pubblicitario alla TV. «Scusa», disse Luis. «Non ho sentito. Hai detto che è il tuo primo turno, giusto?» «Esatto.» Il detective robusto disse: «Bene, e se ti dicessi che sarà anche l'ultimo?» Luis lasciò cadere il giornale e si alzò in un lampo dal divano, sfoderando la Glock e puntandola contro l'uomo che, lo sapeva, in realtà era Erick Weir. Di solito tranquillo, gridò nel suo microfono: «E qui! È entrato... è nel soggiorno!» Gli altri due agenti che erano in cucina — il detective Bell e quel tenente grasso, Lon Sellitto — entrarono da un'altra porta, entrambi con espressioni sbalordite sul volto. Afferrarono Weir per le braccia e gli sfilarono dalla cintura la pistola con il silenziatore. «A terra, subito, subito, subito!» gridò Sellitto con voce rauca e tesa, la pistola premuta contro il volto dell'uomo. E che espressione c'era su quel volto! pensò Luis. Nel corso degli anni aveva visto un gran numero di criminali colti totalmente di sorpresa, ma quel tizio li batteva tutti. Era a bocca aperta ma non riusciva a dire niente. Tuttavia, Luis pensò che non fosse molto più sorpreso di quanto lo fossero i poliziotti. «Da dove diavolo è sbucato?» domandò Sellitto senza fiato. Bell si limitò a scuotere la testa, attonito. Mentre Luis, senza troppi complimenti, faceva scattare due paia di manette attorno ai polsi di Weir, Sellitto si sporse verso il killer. «Sei da solo? Hai dei complici ad aspettarti qua fuori?» «No.» «Non prenderci per il culo!» «Le braccia, mi stai facendo male alle braccia!» ansimò Weir.
«C'è qualcun altro con te?» «No, no, lo giuro.» Bell stava chiamando gli altri con il walkie-talkie. «Che Dio mi aiuti... è riuscito a entrare... non so come.» Due agenti in uniforme assegnati alla squadra Salviamo il Culo al Testimone si precipitarono nell'appartamento dall'atrio dove si erano nascosti, vicino all'ascensore. «Sembra che abbia forzato la finestra di questo piano», disse uno di loro. «La finestra che dà sulla scala antincendio.» Bell lanciò un'occhiata a Weir e capì. «Sei saltato dal cornicione del Lanham, vero?» Weir non disse nulla ma la risposta doveva essere quella. Avevano posizionato agenti nel vicolo tra l'hotel e il palazzo di Grady e anche sui tetti di entrambi gli edifici. Ma a nessuno di loro era venuto in mente che l'assassino potesse spostarsi sul cornicione e saltare sopra il pozzo di ventilazione. Bell domandò agli agenti: «Tracce di eventuali complici?» «Nessuna. Sembra che fosse da solo.» Sellitto indossò i guanti di lattice e lo perquisì. Trovò attrezzi da scasso e vari strumenti di magia. I più strani erano i copridita, incollati perfettamente. Sellitto glieli tolse e li depositò in una busta di plastica trasparente. Se la situazione non fosse stata così snervante — un killer a pagamento era riuscito a introdursi nell'appartamento della famiglia che stavano proteggendo — l'immagine di dieci copridita in un sacchetto sarebbe stata comica. Gli altri guardavano la loro preda mentre Sellitto continuava . con la perquisizione. Weir era muscoloso e in perfetta forma, malgrado i seri danni provocati dall'incendio — le cicatrici lasciate dalle ustioni erano molto estese. «Qualche documento di identità?» domandò Bell. Sellitto scosse la testa. «F.A.O. Schwarz.» Significava che il distintivo e il documento del Dipartimento di Polizia di New York erano imitazioni di bassissima qualità. Poco più che giocattoli. Weir lanciò un'occhiata verso la cucina vuota. Si accigliò. «Oh, i Grady non sono qui», disse Bell, come se fosse stato ovvio. L'uomo chiuse gli occhi e appoggiò la testa al tappeto liso. «Come avete fatto a scoprirmi?» Sellitto diede una specie di risposta: «Be', sai una cosa? C'è qualcuno che vorrebbe spiegartelo di persona. Vieni, ti portiamo a fare un giro».
Guardando il killer ammanettato in piedi sulla porta del laboratorio, Lincoln Rhyme disse: «Bentornato». «Ma... l'incendio.» Sbalordito, l'uomo guardò in direzione delle scale che portavano alla camera da letto del piano superiore. «Scusaci se abbiamo rovinato la tua esibizione», disse freddamente Rhyme. «Alla fine non sei riuscito a sfuggirmi, Weir.» L'assassino tornò a guardare il criminologo e sibilò: «Quello non è più il mio nome». «Lo hai cambiato?» Weir scosse la testa. «Non legalmente. Ma Weir è la persona che ero un tempo. Adesso sono qualcos'altro.» Rhyme ripensò a quando Terry Dobyns aveva detto che l'incendio aveva «assassinato» la vecchia personalità di Weir trasformandolo in una persona diversa. Il killer squadrò Rhyme. «Tu lo puoi capire, vero? Anche tu vorresti dimenticare il passato e diventare qualcun altro, immagino.» «Qual è il nome che ti sei scelto?» «Questo deve restare tra me e i miei spettatori.» Ah, sì, i suoi Riveriti Spettatori. Weir, che indossava ancora il completo grigio da uomo d'affari, aveva i polsi intrappolati da due paia di manette e sul volto un'espressione infuriata e umiliata. La parrucca che aveva portato la sera prima adesso era scomparsa; i suoi veri capelli erano folti, lunghi e biondo scuro. Nella luce del giorno, Rhyme riusciva meglio a scorgere le terribili cicatrici sopra il colletto. «Come hai fatto a trovarmi?» chiese l'uomo con voce affannosa. «Io vi avevo indirizzato...» «Al Cirque Fantastique? Infatti.» Quando Rhyme riusciva a battere un criminale, il suo umore migliorava considerevolmente e gli veniva voglia di chiacchierare. «Ma quella era solo la tua diversione per noi. Vedi, stavo ripensando alle prove e mi sono accorto che tutto il caso sembrava un po' troppo semplice.» «Semplice?» Weir tossì. «Su una scena del crimine si trovano due tipi di indizi. Ci sono gli indizi che sono stati lasciati per sbaglio dal criminale e poi ci sono quelli che sono stati lasciati deliberatamente, che dovrebbero servire a sviare la polizia. «Dopo che tutti erano corsi fuori a cercare le bombe incendiarie al circo,
mi sono reso conto che alcuni degli indizi erano stati lasciati apposta. Sembravano ovvi: le scarpe che hai abbandonato nell'appartamento della seconda vittima avevano sotto le suole peli di cane, terriccio e vegetazione comune a Central Park. Ho pensato che un criminale intelligente avrebbe potuto mettere i peli e il terriccio sotto le scarpe e lasciarle sulla scena del crimine per farcele trovare e indurci a pensare alla collinetta dei cani vicino al circo. E tutti quei discorsi sul fuoco che hai fatto quando sei venuto a trovarmi ieri sera.» Lanciò un'occhiata a Kara. «Diversione verbale, giusto, Kara?» Gli occhi turbati di Weir scrutarono la giovane donna dalla testa ai piedi. «Giusto», disse lei, versando dello zucchero nel caffè. «Ma io ho cercato di ucciderti», disse Weir con il respiro affannoso. «Se ti avessi detto quelle cose per sviarti, non avrei cercato di ucciderti.» Rhyme scoppiò a ridere. «Ma tu non hai cercato affatto di uccidermi. Non ne hai mai avuto intenzione. Volevi soltanto che ne fossimo convinti in modo che prendessimo sul serio le tue parole. La prima cosa che hai fatto dopo aver appiccato il fuoco nella mia camera da letto è stata correre fuori e chiamare il 911 da un telefono pubblico. Ho fatto un controllo con il centralino di emergenza. L'uomo che ha chiamato ha detto che poteva vedere le fiamme dalla cabina telefonica. Solo che la cabina è dietro l'angolo. E da lì non si riesce a vedere la mia stanza. A proposito, è stato Thom a fare una prova. Grazie, Thom», disse Rhyme rivolto all'assistente che stava passando proprio in quel momento di fronte alla porta spalancata. «Nada», fu la frettolosa risposta dell'assistente. Weir chiuse gli occhi, scuotendo la testa mentre si rendeva conto dell'enormità del suo errore. Lincoln socchiuse gli occhi, osservando la lavagna delle prove. «E tutte le vittime avevano lavori o hobby in qualche modo connessi al mondo del circo: la musicista, il truccatore, la cavallerizza. E le tecniche usate per uccidere erano trucchi di magia. Ma se il tuo vero obiettivo fosse stato lo spettacolo di Kadesky, avresti fatto di tutto per sviarci dal Cirque Fantastique e non per indirizzarci proprio lì. Questo significava che stavi cercando di sviarci da qualcos'altro. Ma cosa? Studiai di nuovo le prove. Sulla terza scena del crimine, la riva del fiume, ti abbiamo colto di sorpresa — sei dovuto scappare e non hai avuto il tempo di prendere il giubbotto con il lasciapassare da giornalista e la chiave elettronica dell'hotel, il che significava che quelli non erano indizi lasciati apposta. E con ogni probabilità ave-
vano a che fare con ciò su cui stavi veramente lavorando. «La chiave a scheda poteva provenire solo da tre hotel; uno di questi era il Lanham Arms, al detective Bell quel nome suonava familiare e ha controllato la sua agenda. Ha scoperto che una settimana fa aveva preso un caffè con Charles Grady al bar dell'hotel per discutere dei dettagli della sicurezza della sua famiglia. Roland mi ha detto che il Lanham si trova proprio accanto al palazzo dove vive Grady. E il lasciapassare da giornalista? Ho chiamato il reporter a cui l'hai rubato. Si sta occupando del caso Andrew Constable e ha intervistato Charles Grady più di una volta...» Amelia continuò a raccontare: «E la pagina del New York Times che abbiamo trovato nell'auto caduta nel fiume? C'era un articolo sul circo, sì. Ma c'era anche un articolo sul processo Constable». Con un cenno del capo indicò la lavagna delle prove. MILIZIA ACCUSATA DI CONCORSO IN OMICIDIO LUNEDÌ SI APRE IL PROCESSO Rhyme continuò: «E il conto del ristorante. Avresti dovuto buttarlo via». «Quale conto?» domandò Weir, accigliandosi. «Abbiamo trovato anche quello nel giubbotto. È di due sabati fa.» «Ma quel weekend ero...» si fermò di colpo. «Fuori città, volevi dire?» chiese Amelia. «Sì, lo sappiamo. Il conto era di un ristorante di Bedford Junction.» «Non so di cosa stiate parlando.» «Un poliziotto che sta indagando a Canton Falls sull'Alleanza Patriottica ha chiamato qui per parlare con Roland», disse Rhyme. «Ho riconosciuto il prefisso sull'identificatore di chiamate... era lo stesso del numero di telefono sul conto del ristorante.» Gli occhi di Weir restarono gelidi e Lincoln proseguì. «A quanto pare, Bedford Junction è poco lontana da Canton Falls, dove vive Constable.» «Chi sarebbe questo Constable di cui continui a parlare?» si affrettò a chiedere Weir. Ma Rhyme notò i segni rivelatori della menzogna sul suo volto. «Barnes era una delle persone con cui hai pranzato? Jeddy Barnes?» domandò Sellitto. «Non so di chi stiate parlando.» «Conosci l'Alleanza Patriottica, però.»
«Solo quello che ho letto sui giornali.» «Non ti crediamo.» «Credete pure quello che vi pare», sbottò Weir. Rhyme poteva vedere la rabbia nei suoi occhi, la rabbia che Dobyns aveva previsto. Dopo una pausa, chiese: «Come avete scoperto il mio vero nome?» Nessuno rispose, ma gli occhi di Weir si spostarono alla lavagna, sulle ultime aggiunte che lo riguardavano. Il suo volto si incupì mentre col fiato corto diceva: «Qualcuno mi ha tradito, vero? Qualcuno vi ha raccontato dell'incendio e di Kadesky. Chi è stato?» Ebbe un sorriso crudele mentre il suo sguardo passava da Amelia a Kara e infine tornava su Rhyme. «È stato John Keating? Vi ha detto che l'ho chiamato, vero? Stupido stronzo senza spina dorsale. Non è mai stato alla mia altezza. E lo stesso vale per Art Loesser. Sono tutti dei fottutissimi Giuda. Ma non mi dimenticherò di loro. Mi ricordo sempre della gente che mi tradisce.» Un accesso di tosse. Quando fu passato, stava guardando dall'altra parte della stanza. «Kara... È così che ti ha chiamata lui, giusto? Chi sei?» «Sono un'illusionista», rispose lei coraggiosamente. «Una di noi», scherzò Weir, squadrando la ragazza dall'alto in basso. «Una donna illusionista. E cosa sei, una consulente o cosa? Forse dopo che sarò stato rilasciato verrò a trovarti. Magari ti farò svanire.» Amelia ringhiò: «Oh, ma non sarai rilasciato in questa vita, Weir». La risata affaticata del Negromante le fece venire i brividi. «Allora diciamo quando sarò riuscito a fuggire. Le mura, dopotutto, sono un'illusione.» «Non penso che avrai l'occasione di fuggire», aggiunse Sellitto. «Be', ti ho risposto sul 'come', Weir. O comunque ti faccia chiamare. Che ne diresti di rispondere al mio 'perché', adesso? Pensavamo che fosse per vendetta contro Kadesky. Ma poi si scopre che è Grady il tuo bersaglio. Che cosa saresti? Una specie di sicario-illusionista?» indagò Lincoln. «Vendetta?» chiese Weir furioso. «E a che cazzo serve la vendetta? Potrebbe cancellare le mie cicatrici e rimettermi a posto i polmoni? Potrebbe riportare in vita mia moglie? Voi proprio non capite! L'unica cosa della mia vita, l'unica cosa che abbia mai avuto importanza per me, è esibirmi. L'illusione, la magia. Il mio mentore mi ha preparato alla professione per molti lunghi anni. E l'incendio mi ha portato via tutto questo. Non ho la forza per esibirmi. La mia mano è deformata. La mia voce rovinata. Chi verrebbe mai a vedermi? Quindi non posso più fare l'unica cosa per cui Dio mi ha donato del talento. Se l'unico modo che ho per esibirmi è in-
frangere la legge, allora sono prontissimo a farlo.» La Sindrome del Fantasma dell'Opera... Lanciò un'occhiata al corpo di Rhyme. «Come ti sei sentito tu dopo il tuo incidente, quando hai pensato che non avresti più potuto fare il poliziotto?» Rhyme rimase in silenzio. Ma le parole del killer avevano colpito nel segno. Come si era sentito? Aveva provato la stessa rabbia che animava Erick Weir, sì. E, era vero, dopo l'incidente il concetto di bene e male era svanito completamente. Perché non diventare un criminale? Si era domandato nella follia della furia e della depressione. Poteva trovare prove meglio di chiunque altro sulla faccia della Terra. E questo significa anche che le poteva manipolare. Avrebbe potuto commettere il crimine perfetto... Alla fine, naturalmente, grazie a persone come Terry Dobyns e altri dottori e colleghi poliziotti — e grazie alla sua stessa anima — quei pensieri erano svaniti. Sì, sapeva esattamente di cosa stava parlando Weir. Ma anche nei più cupi momenti di rabbia, non aveva mai preso in considerazione l'idea di uccidere un essere umano — se stesso escluso, naturalmente. «E così hai venduto il tuo talento come un mercenario?» Weir parve rendersi conto di aver perso il controllo per un attimo e di aver detto troppo. Si rifiutò di aggiungere altro. La rabbia ebbe la meglio su Amelia, che si avvicinò alla lavagna e strappò alcune foto delle prime due vittime. Sbattendole in faccia a Weir, ringhiò: «Hai ucciso questa gente solo per creare una diversione? Non significavano niente per te». Weir sostenne il suo sguardo, imperturbabile. Poi si guardò attorno e rise. «Pensate davvero di potermi tenere in una prigione? Sapete che come sfida Harry Houdini si fece spogliare completamente e mettere nel braccio della morte, a Washington, D.C.? Fuggì dalla sua cella così in fretta che ebbe il tempo di aprire tutte le altre porte e di far cambiare cella ai vari prigionieri, prima che le persone che lo avevano sfidato tornassero dal pranzo.» Sellitto intervenne: «Già, be', quello è stato molto tempo fa. Siamo un po' più sofisticati, adesso». Si rivolse a Rhyme e ad Amelia. «Lo porterò alla centrale, così vedremo se ha qualcos'altro da raccontarci.» Ma mentre si dirigevano verso la porta, Rhyme ordinò: «Aspetta». Il suo sguardo era fisso sulla tabella delle prove. «Cosa c'è?» chiese Sellitto. «Quando è sfuggito a Larry Burke, dopo essere scappato dalla fiera, lo
ha fatto togliendosi le manette.» «Esatto.» «Abbiamo trovato della saliva, ricordi? Controllagli la bocca. Potrebbe nasconderci un grimaldello o una chiave.» «Non ho niente. Sul serio», ribatté Weir. Sellitto si mise i guanti di lattice che gli aveva passato Mel Cooper. «Apri la bocca. Se mi mordi, ti farò svanire le palle. Mi hai capito? Un morso e addio alle palle.» «Capito.» Il Negromante aprì la bocca e Sellitto la illuminò con una piccola torcia esaminandola attentamente. «Niente.» Rhyme disse: «C'è un altro posto che dovremmo controllare». Sellitto grugnì. «Mi assicurerò che ci pensino alla centrale, Linc. Ci sono cose che non sono disposto a fare, vista la paga che ricevo.» Mentre il detective conduceva Weir verso la porta, Kara li fermò. «Un momento. Controllategli i denti. Toccateglieli. Soprattutto i molari.» Weir si irrigidì mentre Sellitto si avvicinava. «Non potete farlo.» «Apri la bocca», sbottò il detective corpulento. «Oh, l'avvertimento sulle palle è ancora valido.» Il Negromante sospirò. «Il molare superiore destro. Alla mia destra, voglio dire.» Sellitto lanciò un'occhiata a Rhyme, poi infilò lentamente la mano in bocca al killer. Quando le dita riemersero stringevano un dente finto. All'interno c'era un pezzettino di metallo piegato. Sellitto lo lasciò cadere su un vassoio da analisi e rimise a posto il dente. Il detective disse: «È molto piccolo. Avrebbe davvero potuto usarlo?» Kara esaminò il pezzetto di metallo. «Oh, avrebbe potuto usarlo per aprire un paio di manette regolamentari in circa quattro secondi.» «Ne sai una più del diavolo, Weir, andiamo.» Rhyme ebbe un'idea. «Ehi, Lon.» Il detective gli lanciò un'occhiata. «Non pensi che il fatto che ci abbia aiutati a trovare il dente finto possa essere una piccola diversione?» Kara annuì. «Hai ragione.» Weir fece un'espressione disgustata mentre Sellitto cercava di nuovo. Questa volta controllò ogni dente. Trovò un secondo pezzetto di metallo in un altro dente finto sulla parte sinistra dell'arcata inferiore. «Farò in modo che ti mettano in una cella veramente speciale», disse il detective con aria minacciosa. Poi chiamò un altro agente nella stanza e gli ordinò di chiudere due paia di manette attorno alle caviglie di Weir.
«Così non posso camminare», si lamentò il Negromante, con voce affaticata. «Piccoli passi», disse Sellitto freddamente. «Fa' piccoli passi.» 33 L'uomo prese il messaggio al ristorante sulla Route 244, dove riceveva e faceva tutte le sue telefonate, dato che non aveva né voleva avere un telefono nella sua roulotte — non si fidava dei telefoni. Talvolta trascorreva un po' di tempo prima che passasse a ritirare i messaggi, ma visto che quel giorno stava aspettando una telefonata molto importante, si era precipitato all'Elma's Diner subito dopo la lettura della Bibbia. Hobbs Wentworth era un uomo grande come un orso con una rada barba rossa che gli copriva il volto e i capelli ricci più chiari della barba. Nessuno a Canton Falls, New York, avrebbe mai usato la parola «carriera» in relazione con Hobbs, il che però non significava che non lavorasse come un mulo. Valeva tutto il denaro che costava, a patto che il lavoro fosse all'aperto, non richiedesse troppi sforzi mentali e che il suo datore di lavoro fosse un cristiano bianco. Hobbs era sposato con una donna silenziosa, insignificante, di nome Cindy, che passava la maggior parte del tempo a occuparsi dell'istruzione dei figli, a cucinare, a cucire e a stare in compagnia di amiche che vivevano esattamente come lei. Hobbs trascorreva la maggior parte del tempo a lavorare e a cacciare e passava le serate con gli amici, a bere e a discutere (anche se in realtà non erano vere e proprie discussioni dato che lui e i suoi amici si trovavano quasi sempre d'accordo su tutto). Hobbs viveva da sempre a Canton Falls e amava la sua città. C'erano ottimi posti per cacciare e praticamente nessun controllo. Le persone erano serie e gentili e sapevano distinguere le loro teste dai loro posteriori. Hobbs aveva molte opportunità di fare le cose che gli piacevano. Come insegnare catechismo, per esempio. Non era andato oltre la terza media e non avrebbe mai immaginato che qualcuno potesse pensare di chiedergli di insegnare qualcosa. Ma a quanto pareva aveva talento per insegnare religione ai ragazzini. Non faceva sessioni di preghiera o canti del genere «Gesù-mi-ama-questolo-so...» No, tutto ciò che faceva era raccontare loro storie della Bibbia. Aveva subito colpito nel segno, grazie soprattutto al suo rifiuto di unifor-
marsi. Per esempio, nel suo racconto Gesù, invece di sfamare la folla con due pesci e cinque pani, andava a caccia e uccideva un cervo, lo sventrava e lo cucinava personalmente nella piazza della città. (Per illustrare quel racconto, Hobbs aveva portato il suo arco Clearwater MX Flex in classe e, chunk, aveva conficcato una freccia dalla punta di acciaio temperato nella parete della classe con grande gioia dei ragazzi.) Dopo aver finito proprio una di queste lezioni era entrato all'Elma's. La cameriera gli si avvicinò. «Ehi, Hobbs. Torta?» «No, portami un Vernors e un'omelette al formaggio. Doppio formaggio. Ehi, mi ha cercato qualcuno al tele...» Prima che potesse finire, la cameriera gli diede un foglio di carta su cui erano scritte le parole: Chiamami — JB. «Quello era Jeddy?» chiese lei. «Sembrava proprio lui. Da quando c'è in giro la polizia, non l'ho più visto.» Lui ignorò la domanda borbottando: «Aspetta un minuto con la mia ordinazione». Mentre si avvicinava al telefono pubblico, cercando qualche moneta nelle tasche dei jeans, la sua mente tornò a un pranzo di due settimane prima al Riverside Inn di Bedford Junction. Era stato insieme a Frank Stemple, a Jeddy Barnes di Canton Falls e a un uomo di nome Erick Weir che Barnes in seguito aveva cominciato a chiamare l'Uomo Magico dato che era proprio un prestigiatore professionista. Quel giorno Barnes aveva reso Hobbs felice e orgoglioso, sorridendogli e alzandosi in piedi quando lui era arrivato, dicendo a Weir: «Ecco, signore, le presento il miglior tiratore della contea. Per non parlare della sua abilità con l'arco. Ed è un elemento dannatamente indispensabile». Hobbs era rimasto seduto a mangiare quel fantastico cibo in quel fantastico ristorante, orgoglioso ma anche nervoso (non aveva mai nemmeno osato sognare di mangiare al Riverside, prima di allora), conficcando la forchetta nel piatto del giorno e ascoltando Barnes e Stemple che gli spiegavano come avevano conosciuto Weir. Era una specie di soldato mercenario, cosa di cui Hobbs sapeva tutto dato che era abbonato a Soldato di Ventura. Aveva notato le cicatrici sul collo dell'uomo e le dita deformate e si era chiesto che tipo di combattimento gli avesse causato quei danni. Del Napalm, forse. In un primo momento Barnes era stato riluttante a incontrarsi con Weir, pensando a una trappola. Ma l'Uomo Magico lo aveva messo a suo agio dicendogli di guardare il notiziario in un particolare giorno. La storia di punta era stata l'omicidio di un giardiniere messicano — un immigrato
clandestino — che lavorava per una ricca famiglia di una città poco lontano. Weir aveva portato a Barnes il portafogli della vittima. Un trofeo, come le corna di un cervo. Weir era stato chiaro fin dall'inizio. Aveva detto loro di aver scelto il messicano a causa del punto di vista di Barnes sugli immigrati ma gli aveva precisato che personalmente non credeva nella loro causa — il suo interesse primario era quello di fare soldi con il suo talento. Il che andava benissimo a tutti. Durante il pranzo, l'Uomo Magico aveva esposto il suo piano su Charles Grady, quindi aveva stretto la mano a tutti e tre e se n'era andato. Dopo qualche giorno Barnes e Stemple avevano mandato il depravato reverendo Swensen a New York con il compito di uccidere Grady sabato sera. Come previsto, non era riuscito a portare a termine il suo incarico. Hobbs avrebbe dovuto restare in attesa, aveva detto il signor Weir. «Nel caso ci fosse bisogno di lei.» E a quanto pareva adesso era così. Compose il numero del cellulare usato da Barnes, intestato a qualcun altro, e senti un brusco: «Sì?» «Sono io.» Dal momento che la polizia di Stato stava cercando Barnes in tutta la contea, avevano deciso di ridurre al minimo le conversazioni telefoniche. «Devi fare quello di cui abbiamo parlato a pranzo», disse Barnes. «Uh uh. Devo andare al lago.» «Esatto.» «Devo andare al lago e portare con me l'attrezzatura da pesca?» domandò Hobbs. «Esatto.» «Sissignore. Quando?» «Adesso. Subito.» «D'accordo.» Barnes troncò la comunicazione e Hobbs cambiò la sua ordinazione chiedendo un caffè e un sandwich con uova, bacon e doppio formaggio, da portar via. Quando Jeddy Barnes diceva subito intendeva dire che dovevi fare quello che dovevi fare subito. Quando il cibo fu pronto, Hobbs uscì, mise in moto il pick-up e si diresse velocemente verso l'autostrada. Doveva fare una sola tappa, alla roulotte. Avrebbe preso la sua vecchia Dodge registrata a nome di qualcuno che non esisteva nemmeno e si sarebbe diretto in tutta fretta al «lago», che non era affatto un lago bensì un punto preciso di New York.
Proprio come «l'attrezzatura da pesca» che avrebbe portato con sé non aveva niente a che vedere con la pesca. Di nuovo alle Tombe. Da una parte del tavolo inchiodato al pavimento sedeva un cupo Joe Roth, il paffuto avvocato di Andrew Constable. Dall'altra parte sedeva Charles Grady, affiancato dal suo secondo, Roland Bell. Amelia Sachs era in piedi; lo squallore della stanza degli interrogatori, con le sue finestre itteriche e lattiginose, faceva riaffiorare in lei quell'opprimente senso di claustrofobia che l'aveva atterrita al Cirque Fantastique: nervosa, continuava a dondolarsi avanti e indietro. La porta si aprì e una guardia fece entrare Constable, liberandogli le mani e amanettandogliele di nuovo sul davanti. Quindi tornò in corridoio e richiuse la porta con forza. «Non ha funzionato», fu la prima cosa che disse Grady al prigioniero. Una voce calma, stranamente distaccata, pensò Amelia, soprattutto considerando il fatto che la sua famiglia per poco non era stata sterminata. «Cosa non ha...?» cominciò Constable. «State parlando di quell'idiota di Ralph Swensen?» «No, stiamo parlando di Erick Weir», disse Grady. «Chi?» Sul volto dell'uomo apparve un'espressione di sincera perplessità. Il procuratore raccontò dell'attentato alla sua famiglia messo in atto dall'ex illusionista trasformatosi in killer professionista. «No, no, no... Non avevo niente a che fare con Swensen. E non ho niente a che fare con questo tizio.» L'uomo guardò disperato il malconcio ripiano del tavolo. Accanto alle sue mani c'erano alcuni graffiti incisi nella vernice grigia. Sembravano una A, una C e parte di una K. «Gliel'ho detto fin dall'inizio, Charles, ci sono alcune persone che ho conosciuto in passato che hanno perso il controllo. Vedono lei e lo Stato come nemici — nemici che collaborano con gli ebrei, gli afroamericani o quant'altri — e distorcono le mie parole usandomi come pretesto per prendersela con lei.» A bassa voce aggiunse: «Sono pronto a ripeterglielo. Le giuro che non ho niente a che fare con tutto questo». Roth si rivolse al procuratore. «Non facciamo giochetti qui, Charles. Stai bluffando. Se hai qualcosa che colleghi il mio cliente a quello che è successo nel tuo appartamento, allora...» «Questo Weir ha ucciso due persone ieri, oltre a un agente di polizia. Ri-
schia la pena di morte.» Constable fece una smorfia. Il suo avvocato aggiunse bruscamente: «Be', mi dispiace molto. Ma a quanto posso notare non avete accusato di niente il mio cliente. Perché non avete prove che lo colleghino a Weir, giusto?» Grady ignorò quel commento e continuò: «Proprio in questo momento stiamo negoziando con Weir perché ci fornisca le prove». Constable squadrò Amelia dall'alto in basso. Sembrava disperato, e il suo sguardo suggeriva una richiesta di aiuto. Forse sperava che lei potesse essere la voce femminile della ragione, ma lei rimase in silenzio, proprio come Bell. Il loro compito non era quello di discutere con i criminali. Il detective era lì per tenere d'occhio Grady e per scoprire qualcosa di più sull'attentato e su possibili futuri attentati alla vita del procuratore distrettuale. Amelia era lì nella speranza di scoprire qualcosa di più su Constable e i suoi complici, in modo da poter chiarire meglio la posizione di Weir. Inoltre, era venuta spinta dalla curiosità di conoscere quell'uomo — un uomo che le era stato descritto come l'incarnazione stessa del male e che tuttavia sembrava ragionevole, comprensivo e sinceramente turbato dagli eventi degli ultimi giorni. Rhyme sapeva accontentarsi di studiare solo le prove; non aveva alcun interesse nell'esaminare la mente o l'anima di un sospetto. Amelia, però, era affascinata dalla questione del bene e del male. Quello che stava guardando era un uomo innocente o un nuovo Adolf Hitler? Constable scosse la testa. «Ascolti, non ha alcun senso che io cerchi di ucciderla. Lo Stato la rimpiazzerebbe subito con un altro procuratore distrettuale. Il processo continuerebbe e mi ritroverei anche con un'accusa di omicidio. Perché mai dovrei volere una cosa del genere? Per quale ragione dovrei volere la sua morte?» «Perché lei è un bigotto e un assassino e...» Constable lo interruppe in tono accalorato. «Stia a sentire. Ho sopportato molte cose, signore. Sono stato arrestato, umiliato davanti alla mia famiglia. Ho subito abusi qui dentro e sui giornali. E vuole sapere qual è stato il mio unico crimine?» Fissò Grady negli occhi. «Aver posto domande scomode.» «Andrew.» Roth gli appoggiò una mano sul braccio. Ma con un rumoroso tintinnio di manette, il prigioniero si divincolò. Era indignato e non c'era modo di fermarlo. «In questo momento, in questa stanza, commetterò gli unici crimini di cui mi sia mai macchiato. Primo crimine: le chiederò se non è d'accordo con me sul fatto che il governo stia perdendo il contatto
con la gente. È questo che accade quando ai poliziotti viene concesso il potere di infilare un manico di scopa nel retto di un prigioniero di colore — un prigioniero innocente, per di più.» «Sono stati arrestati», commentò Grady in tono piatto. «Mandare quei poliziotti in galera non restituirà a quel pover'uomo la sua dignità, giusto? E quanti di loro non verranno mai presi... Guardi cos'è successo a Washington. Lasciano che i terroristi entrino nel nostro Paese con l'intenzione di ucciderci e noi abbiamo paura di offenderli, di costringerli a farsi prendere le impronte digitali e a portare documenti di identità... Vuole un altro crimine? Lasci che le chieda perché non ammettiamo che esiste una differenza tra le razze e le culture. Non ho mai detto che una razza sia migliore o peggiore di un'altra. Ho detto che i risultati sono pessimi quando si cerca di mescolarle.» «Ci siamo sbarazzati della segregazione parecchi anni fa», commentò Bell. «È un crimine, sa.» «Era un crimine anche vendere liquori, detective. Era un crimine anche lavorare la domenica. E non era un crimine far lavorare bambini di dieci anni nelle fabbriche. Poi la gente è diventata più saggia e ha cambiato quelle leggi perché non riflettevano la natura umana.» Si sporse in avanti e spostò lo sguardo da Bell ad Amelia. «I miei due amici poliziotti qui... Lasciate che faccia a voi una domanda scomoda. Ricevete una chiamata a proposito di un uomo che ha ucciso qualcuno e l'uomo in questione è un nero o un ispanico. Lo vedete in un vicolo. Be', ditemi, il vostro indice non si stringe un po' più forte attorno al grilletto della pistola di quanto si stringerebbe se fosse un bianco? E nel caso sia un bianco e abbia un'aria intelligente — se ha ancora tutti i denti e non indossa abiti che puzzano di piscio vecchio — be', allora, non impiegate un po' più di tempo a tirare il grilletto? E non lo perquisite un po' meno bruscamente?» Il prigioniero si appoggiò allo schienale della sedia e scosse la testa. «E questo il mio crimine. Niente di più. L'abitudine di porre domande come queste.» Grady disse cinicamente: «Ottima recitazione, Andrew. Ma prima che ti giochi la carta della persecuzione, che cosa mi dici del fatto che Erick Weir ha pranzato due settimane fa con altre tre persone al Riverside Inn di Bedford Junction? A due chilometri dalla sede dell'Alleanza Patriottica di Canton Falls e a cinque da casa sua». Constable batté le palpebre. «Il Riverside Inn?» Guardò fuori dalla fine-
stra talmente sudicia che era impossibile capire se il cielo fosse azzurro, giallo di inquinamento o grigio di pioggia. Grady socchiuse gli occhi. «Cosa c'è? Sa qualcosa a proposito di quel posto?» «Io...» Il suo avvocato gli toccò il braccio per zittirlo. Si scambiarono qualche parola a bassa voce. Grady non riuscì a impedirsi di insistere. «Conosce qualcuno che mangia abitualmente lì?» Constable lanciò un'occhiata a Roth che scosse la testa e il prigioniero rimase in silenzio. Dopo un momento, il procuratore domandò: «Com'è la tua cella, Andrew?» «La mia...» «La tua cella qui.» «Non mi interessa un granché. Come penso che sappia.» «In prigione è peggio. E tu dovrai stare in isolamento perché alla popolazione di colore del carcere piacerebbe molto...» «Andiamo, Charles», disse Roth in tono stanco. «Non ce n'è bisogno.» Il procuratore proseguì: «Be', Joe, ne ho avuto abbastanza. Non ho sentito altro che 'io non ho fatto questo, io non ho fatto quello... Qualcuno sta cercando di incastrarmi, qualcuno mi sta usando'. Be', se è così...» si rivolse direttamente a Constable «... alza il culo e dimostramelo. Dimostrami che non hai avuto niente a che fare col tentato omicidio della mia famiglia e dammi i nomi dei responsabili, e poi potremo parlare.» Un altro breve consulto a bassa voce tra cliente e avvocato. Roth alla fine disse: «Il mio cliente deve fare alcune telefonate. A seconda di quello che scopriremo, potrebbe prendere in considerazione l'idea di collaborare». «Non è abbastanza. Voglio dei nomi, adesso.» Turbato, Constable si rivolse direttamente a Grady. «È così che dev'essere. Devo esserne sicuro.» «Hai paura di dover tradire qualche tuo amico, vero?» chiese freddamente il procuratore. «Be', dici sempre che ti piace porre domande scomode. Lascia che ne faccia io una a te: che razza di amici sono, se sono disposti a mandarti in prigione per il resto dei tuoi giorni?» Si alzò. «Se non avrò tue notizie entro le nove di stasera, domani inizierà il processo, come previsto.»
34 Non era un grande palcoscenico. Quando David Balzac dieci anni prima aveva smesso di esibirsi e aveva comprato lo Smoke & Mirrors, aveva fatto costruire un piccolo teatro nella parte posteriore del negozio. Balzac non aveva una licenza per le esibizioni così non poteva far pagare i biglietti, ma gli piaceva comunque organizzare degli spettacoli lì — ogni domenica pomeriggio e ogni giovedì sera — in modo che i suoi studenti potessero salire su un palcoscenico e fare esperienza. Kara sapeva che fare pratica a casa ed esibirsi in un vero spettacolo erano due esperienze diverse come il giorno e la notte. Quando ci si trova in presenza di un pubblico accade qualcosa di inspiegabile. Trucchi impossibili che a casa sbagli di continuo funzionano alla perfezione grazie a qualche misteriosa adrenalina spirituale che si impossessa delle tue mani e proclama: «Non puoi mandare a puttane questo numero». Al contrario, in un'esibizione potevi sbagliare un trucco semplicissimo, come la caduta della moneta francese, una manovra così elementare che non avresti mai pensato di dover preparare un'uscita nel caso qualcosa andasse storto. Un'alta e larga tenda nera separava la zona del teatro da quella del negozio vero e proprio. Di tanto in tanto veniva mossa da una corrente d'aria, quando la porta d'ingresso si apriva e si richiudeva con un debole «bipbip» emesso dalla fotocellula sullo stipite. Erano quasi le quattro di domenica pomeriggio e gli spettatori stavano entrando nel teatro e prendendo posto — cominciando sempre dal fondo (negli spettacoli di magia e illusionismo, nessuno vuole mai sedersi nelle prime file per paura di essere scelto come «volontario» per un qualche numero). Da dietro il sipario, Kara sbirciò il palco. Le pareti nere erano consumate e segnate e il pavimento di legno quercia imbarcato era coperto di decine di pezzi di nastro di mascheramento lasciati dagli illusionisti per nascondere i loro movimenti durante le prove. Come fondale solo un malconcio telone porpora. E il palco stesso era molto piccolo: tre metri per quattro. Eppure per Kara era la Carnegie Hall o l'MGM Grand, ed era pronta a dare al suo pubblico tutta se stessa. Come gli artisti del vaudeville o i prestigiatori, gli illusionisti di solito si limitano a eseguire una serie di numeri. Per quanto i trucchi possano essere
studiati con cura in modo da far crescere l'eccitazione in attesa del finale, Kara aveva la sensazione che quell'approccio fosse come stare a guardare uno spettacolo di fuochi artificiali — ogni esplosione più o meno spettacolare ma nel complesso poco soddisfacente dal punto di vista emotivo, perché non c'era un vero e proprio tema o una continuità a legare le esplosioni. Lo spettacolo di un illusionista dovrebbe raccontare una storia: ogni trucco pensato in modo da condurre al successivo, i numeri già eseguiti che ritornano nel finale per offrire agli spettatori un'ultima sorpresa capace di lasciarli senza fiato. Ora stavano entrando altre persone. Kara si chiese quanti spettatori ci sarebbero stati quel giorno, anche se per lei non faceva davvero differenza. Amava l'aneddoto a proposito di Robert-Houdin, che una sera era salito sul palco e si era esibito davanti a tre soli spettatori. Non aveva cambiato il suo spettacolo e si era esibito come se il teatro fosse stato pieno... c'era stato solo un piccolo cambiamento nel finale: aveva invitato gli spettatori a cena a casa sua. Kara era sicura dei suoi numeri: il signor Balzac le faceva fare pratica per settimane anche per quelle piccole esibizioni. E ora, negli ultimi minuti che restavano prima che si alzasse il sipario, la giovane non stava pensando ai suoi trucchi ma stava scrutando il pubblico, godendosi quel momento di tranquillità mentale. Sapeva di non avere il diritto di sentirsi così a suo agio. C'erano molte ragioni per cui non avrebbe dovuto essere così soddisfatta: le condizioni di sua madre stavano peggiorando. Così come i suoi problemi economici. La lentezza dei suoi progressi agli occhi del signor Balzac. Il ragazzo del brunch a letto che se n'era andato tre settimane prima promettendole che l'avrebbe chiamata. Davvero. Te lo prometto. Ma il trucco del Ragazzo Scomparso, così come quello dei Soldi Evaporati e della Madre Distrutta, non potevano toccarla in quel momento. Non finché era sul palco. Niente aveva importanza per lei se non la sfida di materializzare una certa espressione sui volti degli spettatori. Kara poteva vederlo chiaramente: un leggero sorriso sulle labbra, gli occhi sgranati per la sorpresa, le sopracciglia aggrottate per la più importante delle domande che ci si pone durante uno spettacolo di illusionismo: Come ha fatto? Nella magia close-up ci sono certi gesti di destrezza noti come «togli e metti». Si crea l'effetto della metamorfosi di un oggetto semplicemente togliendo l'originale e mettendo al suo posto un secondo oggetto, anche se il pubblico crede di aver assistito a una vera e propria trasformazione. E
quella era esattamente la filosofia di Kara nelle sue esibizioni: toglieva la tristezza, la noia e la rabbia al pubblico sostituendole con la gioia, la sorpresa e la serenità, trasformando gli spettatori in persone che avevano il cuore colmo di felicità, per quanto fugace potesse essere. Era quasi ora di cominciare. Kara guardò di nuovo oltre il sipario. I posti erano quasi tutti occupati, notò sorpresa. In belle giornate come quella di solito gli spettatori non erano numerosi. Fu felice quando arrivò Jaynene, l'infermiera della casa di cura; la sua enorme sagoma per un attimo bloccò l'entrata. Con lei c'erano diverse altre infermiere della Stuyvesant Manor. Entrarono nel piccolo teatro e presero posto. C'erano anche altri amici di Kara, alcuni della rivista e altri vicini di casa del suo palazzo di Greenwich Street. Poi, poco dopo le quattro, la tenda nera si scostò ed entrò l'ultimo spettatore... l'ultima persona che Kara si sarebbe mai aspettata di vedere lì. «È accessibile», commentò Lincoln Rhyme seccamente, fermando la sua lucida Storm Arrow a metà del corridoio del teatro dello Smoke & Mirrors. «Nessuna causa per violazione della legge sui diritti dei disabili, oggi.» Un'ora prima aveva sorpreso Amelia e Thom proponendo di recarsi al negozio con il furgone — il Rollx dotato di rampa — per assistere all'esibizione di Kara. Poi aveva aggiunto: «Anche se è un crimine passare al chiuso un così bel pomeriggio di primavera». Quando Amelia e Thom lo avevano fissato sbalorditi — anche prima dell'incidente, era capitato di rado che Rhyme passasse uno splendido pomeriggio di primavera all'aperto — aveva detto: «Sto scherzando. Puoi andare a prendere il furgone, Thom?» «Me lo hai quasi chiesto per favore, incredibile», aveva detto l'assistente. Mentre si guardava attorno nello squallido teatro, notò una grassa donna di colore che lo stava fissando. La donna si alzò lentamente e li raggiunse, andando a sedersi accanto ad Amelia, stringendole la mano e salutando Rhyme con un cenno del capo. Gli chiese se fossero gli agenti di polizia di cui Kara le aveva parlato. Lui rispose di sì e fece le presentazioni. La donna si presentò a sua volta: si chiamava Jaynene ed era un'infermiera che lavorava nella casa di cura e di riabilitazione per persone anziane in cui viveva la madre di Kara.
Jaynene si accorse dell'occhiataccia che le lanciò Rhyme nel sentire quella descrizione, e disse: «Oooops. Ho detto davvero così? Volevo dire 'casa di cura per vecchi'». «Mi sono laureato al CASIT», disse il criminologo. La donna aggrottò le sopracciglia e alla fine scosse la testa. «Non l'ho mai sentito nominare.» Thom spiegò: «È il Centro Alleviamento Sofferenze da Incidente Traumatico». «Io lo chiamo Centro Sostegno Storpi», specificò Lincoln. «Non gli faccia caso, è un provocatore nato», aggiunse Thom. «Ho lavorato in un'unità di riabilitazione per lesioni alla spina dorsale. Ci piacevano i pazienti che ci davano il tormento. Erano quelli sempre silenziosi e di buonumore che ci spaventavano.» Perché, rifletté Rhyme, erano proprio quelli che si facevano versare un centinaio di pastiglie di Seconal nei drink dai loro amici. O che, se avevano ancora l'uso di una mano, versavano acqua sulle luci pilota delle loro stufe e aprivano il gas. Jaynene chiese a Rhyme: «Lei è un C4?» «Esatto.» «Respira autonomamente. Sono contenta per lei.» «La madre di Kara è qui?» chiese Amelia guardandosi attorno. Jaynene si accigliò per un attimo e disse: «Be', no». «Non viene mai a vedere sua figlia?» Cautamente, la donna rispose: «Sua madre non si occupa della carriera di Kara». «Kara mi ha detto che è malata. Sta migliorando?» intervenne Rhyme. «Sì, un po'», rispose la donna. C'era molto altro da aggiungere, Rhyme ne era sicuro, ma il tono dell'infermiera lasciava capire che non aveva intenzione di discutere di faccende riservate con degli sconosciuti. In quel momento le luci si abbassarono e il silenzio calò nel teatro. Un uomo dai capelli bianchi salì sul palco. Malgrado l'età e i segni di una vita dura — un naso da bevitore e una barba macchiata di tabacco — gli occhi erano acuti e vivaci e il portamento elegante mentre si avvicinava al centro del palco con la sicurezza di un artista. Si fermò accanto all'unico oggetto che si trovava in scena — una colonna in stile classico di legno intarsiato. Il teatro era misero ma l'uomo indossava un abito di sartoria, come se la sua regola d'oro fosse quella di apparire sempre al meglio quando si
presentava davanti al pubblico. Ah, dedusse Rhyme, il famigerato mentore, David Balzac. L'uomo non si presentò ma osservò gli spettatori per un attimo, indugiando su Rhyme più a lungo che sugli altri. Qualsiasi cosa stesse pensando, però, restò indecifrabile e Balzac distolse lo sguardo. «Oggi, signore e signori, ho il piacere di presentarvi la mia apprendista più promettente. Kara studia con me da più di un anno ormai. Si esibirà per voi con alcune delle illusioni più esoteriche della storia della nostra professione — così come con alcune di mia invenzione e con alcune create da lei. Non lasciatevi sorprendere...» uno sguardo demoniaco che sembrò diretto proprio a Rhyme «... o choccare da ciò a cui assisterete oggi. E ora, signore e signori... vi presento... Kara.» Lincoln aveva deciso di assistere allo spettacolo in veste di scienziato. Avrebbe tentato di scoprire la meccanica delle illusioni, di notare lo svolgimento dei trucchi, il modo in cui le carte e le monete venivano fatte sparire e come venivano nascosti i costumi per i numeri di trasformismo. Kara aveva ancora numerosi punti di vantaggio su di lui nel gioco Scopri la Mossa che senza alcun dubbio non sapeva nemmeno di stare giocando. La giovane comparve sul palco. Indossava una tuta nera aderente con la sagoma di una falce di luna ricamata sul petto sotto un drappo lucido e trasparente simile a una toga romana. Rhyme non aveva mai considerato Kara attraente, meno che mai sexy, ma quell'abbigliamento era molto sensuale. La ragazza si muoveva come una danzatrice, veloce e aggraziata. Fece una lunga pausa esaminando lentamente il pubblico. Diede l'impressione di osservare gli spettatori a uno a uno. La tensione cominciò a crescere. Alla fine, in tono teatrale disse: «Il cambiamento... come ci affascina. L'alchimia... trasformare i metalli vili in oro...» Sollevò una moneta d'argento. Vi richiuse attorno le dita e quando le riaprì sul palmo c'era una moneta d'oro che lanciò in aria; volteggiando su se stessa la moneta si trasformò in una pioggia di coriandoli dorati. Applausi e mormoni di sorpresa da parte degli spettatori. «La notte...» Le luci si abbassarono all'improvviso fino a spegnersi e un attimo dopo, non più di pochi secondi, si riaccesero «... che diventa giorno.» Kara ora indossava una tuta quasi identica, solo che era dorata e sul petto al posto della luna c'erano delle stelle. Rhyme non poté impedirsi una risata per la rapidità del cambio d'abito. «La vita...» Una rosa rossa apparve nella sua mano «... che diventa morte...» Richiuse le mani attorno alla rosa trasformandola in un fiore giallastro e appassito «... che diventa vita.»
Un bouquet di fiori freschi aveva chissà come sostituito il fiore avvizzito. Kara gettò i fiori a una spettatrice deliziata. Rhyme sentì un sospiro di sorpresa: «Sono veri!» Kara abbassò le mani lungo i fianchi e osservò il pubblico con un'espressione seria sul volto. «C'è un libro», disse, mentre il pubblico seguiva ammaliato le sue parole, «un libro scritto più di duemila anni fa da un autore romano, Ovidio. Si intitola Le Metamorfosi. Come quando un bruco si trasforma in...» Aprì la mano e una farfalla volò via e sparì dietro il palco. Rhyme aveva studiato latino per quattro anni. Si ricordava quanto era stato faticoso tradurre brani del libro di Ovidio. Ricordava che era composto da una serie di quattordici o quindici brevi miti in forma poetica. Che cosa aveva intenzione di fare Kara? Una lezione sulla letteratura classica davanti a un pubblico di donne in carriera e di ragazzi che pensavano alle loro Xbox e ai loro Nintendo (anche se aveva notato che l'attenzione degli adolescenti tra il pubblico era aumentata alla vista del costume attillato di Kara). Kara continuò: «Le Metamorfosi... è un libro sul cambiamento. Che parla di persone che si trasformano in altre persone, in animali, in alberi, in oggetti inanimati. Alcune delle storie di Ovidio sono tragiche, altre sono divertenti, ma hanno tutte una cosa in comune». Una pausa, poi a voce alta: «La magia!» In un'esplosione di luce e di fumo, Kara svanì. Per i successivi quaranta minuti la giovane illusionista intrattenne gli spettatori con una serie di trucchi di destrezza e illusioni basati sulle storie del libro. Rhyme rinunciò quasi subito al suo proposito di capire i trucchi. Certo, ormai era rapito dai suoi racconti. Ma anche quando riusciva a sottrarsi alla magia di Kara e si concentrava sulle sue mani, non era in grado di individuarne i metodi. Dopo una lunga ovazione e un bis, durante il quale Kara si trasformò in una donna anziana per poi tornare normale («Da giovane a vecchia... da vecchia a giovane»), la giovane illusionista lasciò il palco. Cinque minuti dopo riapparve indossando un paio di jeans e una camicetta bianca e scese tra gli spettatori per salutare i suoi amici. Un commesso del negozio aveva preparato su un tavolo qualche caraffa di vino, di caffè e di soda insieme a un vassoio di biscotti. «Niente scotch?» domandò Rhyme, lanciando un'occhiata ai miseri rinfreschi. «Mi dispiace, signore», replicò il giovane con la barba. Amelia, con un bicchiere di vino in mano, fece un cenno a Kara che li raggiunse. «Ehi, è grandioso. Non avrei mai pensato di vedervi qui.»
«Che dire?» fece Amelia. «Semplicemente fantastico.» «Sì, eccellente», fu d'accordo Rhyme, guardando i rinfreschi. «Forse hanno del whisky da qualche parte, Thom.» Thom indicò Rhyme con un cenno e rivolgendosi a Kara: «Sei capace di trasformare il caratteraccio di una persona?» Infilò una cannuccia in uno dei due bicchieri di Chardonnay che aveva appena preso. «O questo o niente, Lincoln.» Il criminologo bevve un sorso e disse: «Mi è piaciuto il finale con la trasformazione da giovane a vecchia. Non me l'aspettavo. Temevo che alla fine ti saresti trasformata in una farfalla. Una scelta scontata». «Dovevi essere preoccupato. Con me bisogna aspettarsi l'inaspettato. Destrezza mentale, ricordi?» «Kara», disse Amelia, «devi fare un provino al Cirque Fantastique.» La giovane donna rise ma non replicò. «No, parlo sul serio... sei veramente molto dotata», insistette Amelia. Rhyme ebbe la sensazione che Kara non volesse parlarne. La ragazza disse in tono leggero: «Non c'è fretta. Molti miei colleghi commettono l'errore di fare il passo più lungo della gamba». «Andiamo a mangiare qualcosa», propose Thom. «Sto morendo di fame. Jaynene, perché non viene anche lei?» La donna grassa disse che le sarebbe piaciuto e propose un nuovo ristorante vicino alla Jefferson Market, all'incrocio tra la Sesta e la Decima. Kara invece declinò l'offerta dicendo che doveva restare a fare pratica con alcuni numeri che non aveva svolto alla perfezione durante lo spettacolo. «Non se ne parla nemmeno, ragazza», disse l'infermiera, accigliandosi. «Davvero devi lavorare?» «Solo un paio d'ore. Quell'amico del signor Balzac farà uno spettacolo privato stasera, e chiuderemo prima il negozio per assistere.» Kara abbracciò Amelia e la salutò. Si scambiarono i numeri di telefono insieme alla promessa di tenersi in contatto. Rhyme la ringraziò di nuovo per il suo aiuto nelle indagini sul caso Weir. «Non saremmo mai riusciti a prenderlo senza di te.» «Verremo a vedere i tuoi spettacoli a Las Vegas», disse Thom. Rhyme incominciò a dirigere la Storm Arrow verso la parte anteriore del negozio. In quel momento, lanciò un'occhiata alla sua sinistra e notò che Balzac lo stava ancora fissando. Poi l'illusionista si rivolse a Kara che lo aveva raggiunto. In sua presenza, la giovane cominciò a comportarsi come
se fosse stata un'altra persona, timida e imbarazzata. Metamorfosi, pensò Lincoln, e guardò Balzac chiudere lentamente la porta dello Smoke & Mirrors, isolandosi dal resto del mondo insieme alla sua apprendista. 35 «Te lo ripeto. Se vuoi, puoi avere un avvocato.» «L'ho capito», rispose in un sussurro affannoso. Erano nell'ufficio di Lon Sellitto alla centrale di polizia. Era una stanza piccola, quasi completamente grigia e decorata con — avrebbe detto il detective stesso scrivendo un rapporto — «una fotografia di un neonato, una fotografia di un bambino, una fotografia di una donna, una fotografia di un lago di un qualche luogo indeterminato, una pianta — morta». Sellitto aveva interrogato centinaia di sospetti in quell'ufficio. L'unica differenza tra quelli e questo particolare indiziato era che Weir era bloccato da due paia di manette fissate alla sedia grigia dall'altra parte della scrivania. In piedi alle sue spalle c'era un poliziotto armato. «Hai capito?» «Ho detto di sì», ribadì Weir. E così ebbe inizio l'interrogatorio. A differenza di Rhyme che era specializzato nell'analisi scientifica delle prove, il detective Lon Sellitto era un investigatore nel vero senso della parola. «Investigava» la verità usando tutte le risorse che il Dipartimento di Polizia di New York e le altre agenzie gli mettevano a disposizione, oltre alla sua tenacia e all'esperienza che aveva guadagnato sul campo. Era il miglior lavoro del mondo, diceva spesso Sellitto. Un lavoro che ti chiedeva di essere un attore, un politico, un giocatore di scacchi e talvolta un pistolero. E una delle parti migliori era il gioco dell'interrogatorio, far confessare i sospetti o far loro rivelare i nomi dei complici o il luogo in cui era stato nascosto il bottino o il cadavere di una vittima. Ma era stato subito chiaro che quel cazzone non aveva intenzione di rivelare nemmeno un brandello di informazione. «Allora, Erick, che cosa sai dell'Alleanza Patriottica?» «Come ho già detto, solo quello che ho letto sui giornali», rispose Weir, grattandosi il mento su una spalla come meglio poteva. «Non potrebbe liberarmi da queste manette solo per un attimo?»
«No, non se ne parla nemmeno. Hai soltanto letto dell'Alleanza?» «Esattamente.» Weir tossì. «Dove?» «Sul Time, credo.» «Eppure sei un tipo colto, uno che sa parlare. Non sembri il genere di persona che abbraccia la loro filosofia.» «Naturalmente no», ansimò lui. «Mi sembrano solo un branco di rabbiosi bigotti.» «Quindi se non credi nelle loro idee l'unica ragione che potevi avere per uccidere Charles Grady erano i soldi. Cosa che hai ammesso a casa di Rhyme. Quindi mi piacerebbe sapere esattamente chi ti ha assoldato.» «Mi avete frainteso.» «Cosa c'è da fraintendere? Ti sei introdotto nel suo appartamento con un'arma carica.» «Senta, mi piacciono le sfide. Mi piace scoprire se riesco a entrare nei posti considerati inaccessibili da tutti. Non avrei mai fatto del male a qualcuno.» Quell'ultima affermazione era stata fatta metà a Sellitto e metà alla malconcia telecamera puntata sul suo volto. «Dimmi un po', com'era il polpettone? O hai preso il tacchino arrosto?» «Il cosa?» «A Bedford Junction. Al Riverside Inn. Secondo me tu hai preso il tacchino mentre gli uomini di Constable hanno mangiato il polpettone, la bistecca e il piatto del giorno. Che cosa ha ordinato Jeddy?» «Chi? Ah, quell'uomo di cui mi avete già chiesto. Quel Barnes. Sta parlando di quella ricevuta, giusto?» ansimò Weir. «La verità è che l'ho solo trovata. Avevo bisogno di un pezzo di carta su cui prendere un appunto e così l'ho raccolta da terra.» Possibile che fosse la verità? si chiese Sellitto. Va bene. «Avevi bisogno di prendere un appunto?» Riprendendo fiato a fatica, Weir annuì. «E dov'eri?» insistette Lon Sellitto, sempre più annoiato. «Dov'eri quando hai avuto bisogno di prendere quell'appunto?» «Non lo so. Credo da Starbucks.» «In quale?» Weir strinse gli occhi. «Non me lo ricordo.» Ultimamente i criminali avevano preso a citare spesso lo Starbucks per costruirsi un alibi. Sellitto pensava che lo facessero perché la catena aveva moltissime caffetterie tutte uguali: i criminali potevano sembrare sincera-
mente confusi a proposito di quella in cui erano stati in un particolare momento. «Perché non c'era scritto niente?» continuò Sellitto. «Dove?» «Dietro la ricevuta. Se l'hai raccolta per prendere un appunto, perché alla fine non hai scritto niente?» «Oh. Non sono riuscito a trovare una penna.» «Allo Starbucks hanno le penne. La gente usa spesso le carte di credito e le penne servono per firmare gli scontrini.» «La cameriera era impegnata. Non volevo disturbarla.» «Che appunto volevi prendere?» «Uhm», fu la risposta ansimante, «l'orario di un cinema.» «Dov'è il cadavere di Larry Burke?» «Chi?» «L'agente di polizia che ti ha arrestato sull'Ottantottesima strada. Ieri notte hai detto a Lincoln Rhyme di averlo ucciso e di aver nascosto il suo cadavere da qualche parte sulla West Side.» «Stavo solo cercando di convincerlo che avrei attaccato il circo, stavo cercando di sviarlo. Dandogli false informazioni.» «E quando hai ammesso di aver ucciso anche le altre vittime? Anche quelle erano false informazioni?» «Esattamente. Io non ho ucciso nessuno. È stato qualcun altro che sta cercando di addossarmi la colpa.» Ah, la più vecchia difesa del mondo. La più banale. La più imbarazzante. Tuttavia a volte funzionava, Sellitto lo sapeva... tutto dipendeva dall'ingenuità della giuria. «Chi sta cercando di incastrarti?» «Non lo so. Ma ovviamente è qualcuno che mi conosce.» «Certo, perché ha avuto libero accesso ai tuoi vestiti, alle tue fibre, ai tuoi capelli eccetera per poterli lasciare sulle scene del crimine.» «Proprio così.» «Bene. Allora la lista non può essere molto lunga. Dammi qualche nome.» Weir chiuse gli occhi. «Non mi viene in mente nessuno.» Abbassò la testa. «È davvero molto frustrante.» Sellitto non avrebbe saputo trovare un'espressione migliore. Il gioco si protrasse per un'altra noiosa mezz'ora. Alla fine, il detective si
arrese. Era furioso al pensiero che di lì a poco lui sarebbe tornato a casa dalla sua fidanzata e che a cena, ironia della sorte, avrebbero mangiato proprio tacchino, uno dei piatti che erano stati sul menu del Riverside Inn di Bedford Junction, ma che l'agente Larry Burke non sarebbe mai più tornato a casa da sua moglie. Abbandonò la maschera del poliziotto amichevole ma testardo e borbottò: «Per oggi ne ho avuto abbastanza di te». Sellitto e l'altro agente scortarono il prigioniero fino al Centro di Detenzione di Manhattan dove sarebbe stato incarcerato con le accuse di omicidio, tentato omicidio, aggressione e incendio doloso. Il detective informò gli agenti del Centro dell'abilità dell'uomo nella fuga e loro gli assicurarono che Weir sarebbe stato rinchiuso nel settore di Detenzione Speciale che era praticamente a prova di evasione. «Oh, detective Sellitto», lo chiamò Weir con voce rauca e ansimante. Il detective si voltò. «Le giuro su Dio che non ho fatto niente», disse la sua voce che riecheggiava di rimorso apparentemente sincero. «Forse dopo che mi sarò riposato un po' riuscirò a ricordarmi qualcosa che vi aiuti a trovare il vero assassino. Sul serio, voglio aiutarvi.» Giù nelle Tombe, i due agenti che tenevano saldamente il prigioniero per le braccia lo accompagnarono all'ufficio per la registrazione. Non mi sembra così spaventoso, pensò l'agente del Dipartimento Carcerario Linda Welles. Era un uomo forte, di questo era sicura, ma di certo non come alcuni animali che avevano processato lì, quei ragazzini di Alphabet City o di Harlem con corpi talmente perfetti che nemmeno enormi quantità di crack, eroina e whisky riuscivano a indebolire. No, l'agente Welles non capiva perché avessero sollevato un simile polverone per quel tizio magrolino e non più giovanissimo, Weir, Erick A. «Non perdetelo mai di vista, tenetegli sempre d'occhio le mani. Non levategli mai le manette.» Era stato questo l'avvertimento del detective Sellitto. Ma il sospetto sembrava soltanto triste e stanco e aveva difficoltà a respirare. L'agente Welles si chiese che cosa gli fosse successo alle mani e al collo, come si fosse procurato quelle cicatrici. Un incendio o dell'olio bollente. Il pensiero del dolore che doveva aver provato la fece rabbrividire. Welles si ricordava ciò che il prigioniero aveva detto al detective Sellitto. Sul serio, voglio aiutarvi. Weir le era sembrato uno scolaretto che aveva deluso i suoi genitori.
Malgrado le preoccupazioni del detective Sellitto, al prigioniero vennero prese le impronte e scattate le foto segnaletiche senza alcun problema e ben presto gli vennero riammanettati i polsi e le caviglie. Welles e Hank Gresham, un robusto agente del Centro di Detenzione, lo presero per le braccia e imboccarono il lungo corridoio che portava alle celle. Welles aveva trattato con migliaia di criminali e pensava di essere immune alle loro implorazioni, alle loro proteste e alle loro lacrime. Ma qualcosa nella triste promessa che Weir aveva fatto al detective Sellitto l'aveva commossa. Forse era davvero innocente. Non aveva affatto l'aria dell'assassino. Il prigioniero fece una smorfia e Welles allentò leggermente la presa attorno al suo braccio. Un attimo dopo, Weir gemette e si abbandonò contro di lei. Il suo volto era una maschera di dolore. «Cosa c'è?» chiese Hank. «Un crampo», ansimò il prigioniero. «Fa male... Oh, Dio.» Emise un debole grido. «Le manette!» Aveva la gamba sinistra rigida come un pezzo di legno e scossa da violenti tremiti. Hank chiese a Welles: «Dobbiamo liberarlo?» Lei esitò. «No.» Si rivolse a Weir. «Sdraiati, mettiti su un fianco. Ti aiuterò io.» Appassionata di jogging, Welles sapeva bene come trattare i crampi. Probabilmente il prigioniero non stava fingendo — la sua agonia sembrava troppo sincera e i suoi muscoli erano duri come rocce. «Oh, Gesù», gridò Weir in preda al dolore. «Le manette!» «Dobbiamo togliergliele», disse Hank. «No», ripeté Welles con fermezza. «Facciamolo sdraiare. Ci penso io.» Fecero sdraiare Weir sul pavimento e Welles prese a massaggiargli la gamba irrigidita. Hank rimase in disparte a guardarla. Poi a un certo punto Welles sollevò lo sguardo e vide che i polsi ammanettati di Weir ancora dietro la schiena del prigioniero si erano spostati su un fianco e che le manette erano scese di qualche centimetro. Guardò meglio. Notò che un cerotto gli si era staccato dall'anca e che sotto di esso... ma che diavolo era quella roba? L'agente si rese conto che aveva un taglio nella pelle. Fu allora che il palmo della mano del prigioniero la colpì proprio al naso spaccando la cartilagine. Un'esplosione di dolore le avvolse la faccia lasciandola senza fiato.
Una chiave! Doveva aver avuto una chiave o un grimaldello nascosto in quel piccolo taglio nella pelle sotto il cerotto. Hank fece per avvicinarsi ma Weir si alzò rapidissimo e gli assestò una gomitata alla gola. L'uomo cadde ansimando e stringendosi il collo, tossendo e tentando disperatamente di respirare. Weir richiuse le dita attorno al calcio della pistola di Welles e cercò di toglierla dalla fondina. Lei tentò di impedirglielo con entrambe le mani, facendo appello a tutte le sue forze. Cercò di urlare ma il sangue le inondò la gola e per poco non soffocò. Stringendo la pistola, il prigioniero allungò la mano sinistra e nel giro di pochi secondi si liberò le gambe. Poi con entrambe le mani cercò di strapparle la Glock. «Aiuto!» gridò Welles tossendo sangue. «Qualcuno mi aiuti!» Weir riuscì a prenderle la pistola ma Welles, pensando ai suoi figli, gli afferrò il polso. La canna della pistola si agitò nel corridoio vuoto oltre Hank, che era a terra a quattro zampe e vomitava cercando di respirare. «Aiuto! Un agente a terra! Aiuto!» gridò Welles. Udì dei movimenti in fondo al corridoio mentre una porta veniva aperta e qualcuno arrivava di corsa. Ma il corridoio sembrava lungo chilometri e Weir stava rinsaldando la presa sull'impugnatura della pistola. Lui e Welles caddero a terra, gli occhi disperati del prigioniero a pochi centimetri da quelli dell'agente, la canna della pistola che lentamente si spostava su di lei. Finì tra di loro. Senza fiato, lui cercò di circondare il grilletto con l'indice. «No, ti prego, no, no», gemette lei. Weir sorrise crudele mentre l'agente fissava l'occhio nero dell'arma a pochi centimetri dal suo volto, pronta a fare fuoco. Vide i suoi figli, vide il padre della bambina, vide sua madre... No, cazzo, pensò Welles furiosa. Piantò un piede contro la parete e spinse con forza. Weir rotolò a faccia in su e lei cadde sopra di lui. La pistola esplose un colpo e la violenza del rinculo le ferì un polso, il fragore dello sparo l'assordò. Uno schizzo di sangue sulla parete. No, no, no! Ti prego, fa' che Hank stia bene! pregò. Ma Welles vide che il suo compagno stava ancora cercando di rimettersi in piedi. Era illeso. Poi si rese conto di aver smesso di lottare per riprendersi l'arma. Era lei a impugnarla; Weir aveva perso la presa. Scossa da violenti brividi, si alzò in piedi e fece un passo indietro.
Oh, mio Dio... La pallottola aveva colpito il prigioniero proprio su un lato della testa, lasciando una ferita orribile. Sul muro dietro di lui c'era uno schizzo di sangue, materia cerebrale e frammenti d'osso. Weir giaceva sulla schiena, gli occhi che fissavano vitrei il soffitto, il sangue che gli scorreva dalla tempia raccogliendosi in una pozzanghera sul pavimento. Tremando, Welles gridò: «Dannazione, guarda cos'ho fatto! Oh, cazzo! Aiutatelo, qualcuno lo aiuti!» Una decina di altri agenti arrivò sulla scena, lei si voltò e li vide fermarsi di colpo e assumere la posizione di tiro. Welles rimase senza fiato. C'era un altro criminale alle sue spalle? Si voltò di colpo e vide che il corridoio era deserto. Tornò a guardare gli agenti ancora accovacciati, che tenevano le mani in alto, allarmati. Che gridavano. Ancora assordata dallo sparo, Welles non riusciva a capire cosa stessero dicendo. Alla fine sentì: «Gesù, la tua arma, Linda! Mettila via! Guarda dove la stai puntando!» Si rese conto che, in preda al panico, stava agitando la Glock verso il soffitto, verso il pavimento, verso di loro, come una bambina con una pistola giocattolo. Welles rise istericamente. Mentre metteva via la pistola sentì qualcosa di duro sulla cintura e lo tolse. Si trattava di una scheggia insanguinata del cranio di Weir. «Oh», disse, lasciandola cadere. E rise come faceva sua figlia quando le faceva il solletico. Si sputò su una mano e cominciò a sfregarsi il palmo sui pantaloni. Sfregò sempre più forte finché la risata non si interruppe e lei alla fine cadde in ginocchio scossa da violenti singhiozzi. 36 «Avresti dovuto esserci, mamma. Li ho lasciati senza parole.» Kara sedeva sul bordo della sedia, una tiepida tazza di caffè di Starbucks tra le mani, il calore della carta perfettamente identico alla temperatura della pelle umana... la temperatura della pelle di sua madre, per esempio, ancora così rosea, così luminosa. «Ho avuto il palco tutto per me per quarantacinque minuti. Che ne dici?» «Tu...?» Quella parola non faceva parte di un dialogo immaginario la donna era sveglia e le aveva parlato con voce ferma.
Tu. Tuttavia Kara non aveva idea di cosa intendesse dire. Avrebbe potuto significare: Tu, cosa mi hai appena detto? Oppure: Chi sei tu? Perché vieni nella mia stanza e ti siedi qui come se ci conoscessimo? Oppure: Ho sentito la parola «tu» una volta ma non so più cosa significhi e sono troppo imbarazzata per chiederlo. È importante, lo so, ma non riesco a ricordare. Tu, tu, tu... Poi sua madre guardò fuori dalla finestra, l'edera sul davanzale, e disse: «È andato tutto bene. Ce la siamo cavata bene». Kara sapeva che sarebbe stato inutilmente frustrante tentare di portare avanti una conversazione con lei quando era in quelle condizioni. Nessuna delle frasi che diceva era collegata alle altre. Talvolta perdeva il filo dei suoi pensieri a metà di una frase e la sua voce si spegneva in un silenzio confuso. Così Kara continuò a raccontarle dello spettacolo, a parlarle delle Metamorfosi e dei numeri che aveva eseguito. Poi, ancora più eccitata, raccontò a sua madre di come aveva aiutato la polizia a catturare un assassino. Per un attimo, le sopracciglia di sua madre si inarcarono come se avesse capito e il cuore di Kara prese a battere più forte. Si sporse in avanti. «Ho trovato la latta. Pensavo che non l'avrei rivista mai più.» Sua madre tornò ad appoggiare la testa sul cuscino. Le mani di Kara si strinsero a pugno. Il suo respiro si fece affannoso. «Sono io, mamma! Io! Non mi riconosci?» «Tu?» Maledizione! imprecò Kara mentalmente, odiando con tutta se stessa il demone che possedeva quella povera donna offuscandole l'anima. Lasciala stare! Ridammela! «Ehilà.» La voce femminile dalla soglia fece trasalire Kara, che prima di voltarsi si asciugò senza farsi notare alcune lacrime dalle guance con la stessa grazia con cui avrebbe eseguito un gioco di prestigio. «Ehi», disse ad Amelia Sachs. «Mi hai trovata.» «Sono un poliziotto, è questo che facciamo.» Entrò nella stanza tenendo due tazze di caffè di Starbucks. Lanciò un'occhiata al contenitore che Kara teneva tra le mani. «Mi dispiace. È stato un regalo inutile.» Kara scosse il bicchiere di carta. Il caffè era quasi finito. Con un'espressione grata accettò la seconda tazza. «La caffeina non va mai sprecata se ci sono io nei paraggi.» Cominciò a sorseggiare la bevanda. «Grazie. Voi ra-
gazzi vi siete divertiti?» «Ci puoi scommettere. E poi Jaynene è incredibile. Thom è innamorato di lei e lei è riuscita a far ridere persino Lincoln.» «Fa sempre questo effetto», disse Kara. «È un'ottima persona.» Amelia disse: «Balzac ti ha trascinata via molto in fretta alla fine dello spettacolo. Volevo soltanto ringraziarti di nuovo. E chiederti quanto ti dobbiamo per il tempo che ci hai dedicato». «Non pensarci nemmeno. Mi hai fatto scoprire il caffè cubano. È più che sufficiente come pagamento.» «No, insisto. Mandami la tua parcella e farò in modo che il comune ti paghi.» «Ho fatto parte di una squadra speciale», ribatté Kara. «Sarà una storia che racconterò ai miei nipotini. Ehi, ho il resto della settimana libero... il signor Balzac è fuori con il suo amico. Avevo in mente di andare a trovare degli amici a SoHo. Vuoi venire con me?» «Certo», rispose la donna poliziotto. «Potremmo...» Guardò oltre la spalla di Kara. «Salve.» Kara si lanciò un'occhiata alle spalle e vide sua madre che osservava Amelia incuriosita. «Non è veramente con noi in questo momento.» «È stato durante l'estate», disse la donna anziana. «In giugno, ne sono sicura.» Chiuse gli occhi e si abbandonò contro il cuscino. «Sta bene?» «È un problema temporaneo. Molto presto si rimetterà completamente. La sua mente gioca qualche scherzo di tanto in tanto.» Kara accarezzò un braccio all'anziana donna, poi chiese ad Amelia: «E i tuoi genitori?» «Credo di avere una situazione abbastanza simile alla tua. Mio padre è morto. Mia madre vive vicino a me, a Brooklyn. Forse un po' troppo vicino. Ma abbiamo raggiunto un... un equilibrio.» Kara sapeva che gli equilibri tra madre e figlia erano complessi quanto trattati internazionali e non chiese ad Amelia di spiegarsi meglio, non subito comunque. Avrebbe avuto occasione di farlo in futuro. Un acuto «bip» riempì la stanza ed entrambe le donne controllarono i rispettivi cercapersone. Vinse Amelia. «Ho spento il cellulare quando sono entrata qui. C'era un cartello nell'atrio che diceva che non si possono usare. Ti dispiace?» Con un cenno del capo indicò il telefono sul comodino. «No, fa' pure.» Amelia sollevò il ricevitore e compose il numero; Kara si alzò per risistemare le coperte sul letto della madre. «Ricordi quel bed & breakfast do-
ve ci siamo fermate a Warwick, mamma? Quello vicino al castello.» Ti ricordi? Dimmi che ti ricordi! La voce di Amelia: «Rhyme? Sono io». La conversazione unilaterale di Kara venne interrotta pochi secondi dopo quando udì la voce dell'agente chiedere seccamente: «Cosa? Quando?» Voltandosi a guardare la donna poliziotto, Kara aggrottò le sopracciglia. Amelia la stava guardando scuotendo la testa. «Arrivo subito... Sì, sono con lei. Glielo dico subito.» Riagganciò. «Cos'è successo?» chiese Kara. «A quanto pare non potrò venire con te, stasera. Dev'esserci sfuggito un grimaldello o una chiave. Weir si è tolto le manette e ha cercato di prendere la pistola di qualcuno. È stato ucciso.» «Oh, mio Dio.» Amelia si diresse verso la porta. «Devo andare ad analizzare la scena del crimine.» Si fermò e si voltò a guardare Kara. «Sai, ero preoccupata all'idea di dover sorvegliare Weir al processo. Quell'uomo era davvero troppo infido. Ma a quanto pare ogni tanto viene fatta giustizia. Ah, quella parcella? Qualunque fosse la cifra che intendevi chiedere, raddoppiala.» «Constable ha qualche informazione.» La voce dell'uomo giunse chiara attraverso il telefono. «Ha giocato a fare il detective, a quanto pare», disse Charles Grady in tono secco. Secco, ma non sarcastico. Il procuratore non aveva niente contro Joseph Roth, il quale — nonostante difendesse pura feccia — era un avvocato che cercava di non lasciarsi contaminare dalla viscida scia lasciata dai suoi clienti e trattava il procuratore distrettuale e i poliziotti con onestà e rispetto. Che Grady ricambiava. «Infatti, è così. Ha fatto qualche telefonata a Canton Falls e ha messo una paura del diavolo a un paio di membri dell'Alleanza Patriottica. Che hanno fatto qualche domanda in giro. A quanto pare alcuni ex patrioti hanno perso il controllo.» «Chi? Barnes? Stemple?» «Non siamo entrati nel dettaglio. Tutto quello che so è che Constable è molto preoccupato. Continua a dire 'Giuda, Giuda, Giuda' ancora e ancora.» Grady non riusciva a provare molta comprensione. Disse all'avvocato: «Spero che il tuo cliente sappia che non ho intenzione di lasciarlo andare
impunito». «Lo capisce, Charles.» «Sai che Weir è morto?» «Sì... e devo dirti che Andrew è stato molto contento quando l'ha saputo. Credo davvero che non avesse niente a che fare con il tentato omicidio, Charles.» A Grady non servivano le opinioni dell'avvocato difensore, nemmeno quando erano opinioni dirette come quelle di Roth. «Le informazioni di Constable sono affidabili?» chiese. «Sì, certo.» Grady gli credeva. Roth era un uomo che semplicemente non si poteva ingannare; se pensava che Constable fosse disposto a consegnargli alcuni dei suoi uomini, allora era questo che sarebbe accaduto. Il risultato del processo che sarebbe seguito era un altro paio di maniche, naturalmente. Ma se Constable avesse dato informazioni relativamente circostanziate e se gli agenti nelle loro indagini avessero trovato una pista decente che conducesse a un arresto, il procuratore era certo che sarebbe stato in grado di far condannare i criminali. Grady, inoltre, si sarebbe assicurato la collaborazione di Lincoln Rhyme per la parte scientifica delle indagini. Grady provava sentimenti contrastanti circa la morte di Weir. Pubblicamente, aveva espresso preoccupazione per la fine dell'uomo e aveva promesso che se ne sarebbe occupato in un'indagine ufficiale, ma in cuor suo era felice che qualcuno avesse tolto di mezzo quel figlio di puttana. Era ancora sconvolto e infuriato al pensiero che un assassino fosse entrato nell'appartamento in cui vivevano sua moglie e sua figlia, deciso a uccidere anche loro. Guardò il bicchiere di vino che avrebbe tanto voluto sorseggiare, ma si rese conto che quella telefonata gli precludeva l'alcool. Il caso Constable era troppo importante e lui aveva bisogno di restare assolutamente lucido. «Vuole incontrarti», disse Roth. Il vino era un Cabernet Sauvignon Grgich Hills. Del 1997, nientemeno. Vigneto eccezionale, annata eccezionale. Roth continuò: «Tra quanto puoi arrivare al Centro di Detenzione?» «Tra mezz'ora. Esco subito.» Grady riappese e annunciò a sua moglie: «La notizia buona è che non ci sarà nessun processo». Luis, la guardia del corpo dagli occhi imperturbabili, disse: «Vengo con lei».
Dopo la morte di Weir, Sellitto aveva ridotto la scorta a un unico elemento. «No, resta qui con la mia famiglia, Luis. Mi sentirò più tranquillo.» «Se la notizia buona è che non ci sarà alcun processo, qual è quella cattiva?» chiese sua moglie cautamente. «È che mi perderò la cena», rispose il procuratore, che si mise in bocca una manciata di cracker Goldfish e mandò giù il boccone con un lungo sorso di ottimo vino, pensando: Dannazione, bisogna pur festeggiare. La semidistrutta Camaro gialla di Amelia Sachs si fermò davanti al numero 100 di Centre Street. Mise sul cruscotto il contrassegno del Dipartimento di Polizia di New York e scese. Salutò con un cenno del capo i membri della squadra della scientifica che erano in piedi accanto al loro furgone. «Dov'è la scena?» «Al primo piano sul retro. Il corridoio che porta alle celle.» «È già stata sigillata?» «Sì.» «A chi appartiene l'arma?» «A Linda Welles. Dipartimento carcerario. È piuttosto scossa. Lo stronzo le ha rotto il naso.» Amelia afferrò una delle valigette, la appoggiò su un carrellino portabagagli e si diresse verso l'ingresso del tribunale. Gli altri tecnici della scientifica fecero lo stesso e la seguirono. Quella scena sarebbe stata uno scherzetto, naturalmente. Una sparatoria accidentale che aveva coinvolto un'agente e un sospetto che aveva tentato di fuggire non era che un pro forma. Ma si trattava comunque di un omicidio e richiedeva un rapporto completo sulla scena del crimine per la commissione interna e per qualunque indagine ne fosse seguita. Amelia Sachs avrebbe analizzato quella scena del crimine con l'attenzione di sempre. Una guardia controllò i loro documenti e li condusse attraverso un labirinto di corridoi fino al seminterrato. Alla fine arrivarono a una porta chiusa dal nastro giallo della polizia. Lì Amelia trovò un detective che stava parlando con un'agente in uniforme, che aveva il naso bendato e del cotone nelle narici. Amelia si presentò e spiegò che avrebbe analizzato la scena del crimine. Il detective si fece da parte e lei chiese a Linda Welles che cosa fosse successo. Con voce incerta e nasale, la guardia spiegò che dopo che gli erano state
prese le impronte digitali, il prigioniero era riuscito in qualche modo a liberarsi dalle manette. «Gli saranno bastati due o tre secondi. Se le è tolte tutte. In un attimo erano aperte. Non mi ha preso la chiave.» Si indicò il taschino della camicia dove presumibilmente teneva la chiave. «Aveva un grimaldello o una chiave o qualcos'altro sul fianco.» «In tasca?» domandò Amelia accigliandosi. Ricordava che lo avevano perquisito con grande attenzione. «No, nella pelle. Vedrà lei stessa.» Con un cenno del capo indicò il corridoio dove giaceva il cadavere di Weir. «Ha un taglio nella pelle. Sotto un cerotto. È successo tutto così in fretta.» Amelia immaginò che Weir si fosse tagliato per creare un nascondiglio per i suoi strumenti. Quell'idea la disgustò. «Poi ha afferrato la mia arma e abbiamo lottato. È partito un colpo. Non volevo tirare il grilletto. Non volevo davvero. Ma... ho cercato di mantenere il controllo e non ci sono riuscita. È partito un colpo.» Controllo... È partito un colpo. Quelle parole erano forse un tentativo di proteggersi dal senso di colpa che doveva provare. Non avevano niente a che fare col fatto che un assassino fosse morto o che la sua vita fosse stata in pericolo o che una decina di altri agenti era stata coinvolta da quell'uomo; no, il fatto era che la donna aveva fatto un passo falso. Le donne al Dipartimento di Polizia di New York mirano sempre molto in alto e ogni loro caduta è molto più rovinosa. «Noi lo abbiamo arrestato e perquisito», disse Amelia dolcemente. «E la chiave è sfuggita anche a noi.» «Già», mormorò l'agente. «Ma se ne parlerà lo stesso.» All'inchiesta sulla sparatoria, intendeva dire. Sì, se ne sarebbe parlato. Be', Amelia decise di fare un lavoro particolarmente accurato per dare all'agente il maggior sostegno possibile. Welles si toccò con cautela il naso. «Oh, che male.» Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Che cosa diranno i miei figli? Mi chiedono sempre se faccio un lavoro pericoloso e io dico loro di no. E adesso...» Infilandosi i guanti di lattice, Amelia chiese alla donna la sua Glock. La prese, tolse il caricatore e il colpo in canna. Mise tutto in una busta di plastica. Adottando i suoi modi da sergente, disse: «Può chiedere un periodo di riposo, sa». Welles non la sentì nemmeno. «È un partito un colpo», ripeté con voce priva di espressione. «Non volevo farlo. Non volevo uccidere nessuno.»
«Linda?» la chiamò Amelia. «Può chiedere un periodo di riposo. Una settimana o anche dieci giorni.» «Davvero?» «Parli con il suo supervisore.» «Certo. Già. Potrei.» Welles si alzò e andò dal paramedico che si stava occupando del suo compagno. Questi aveva un brutto livido sul collo ma niente di più. La squadra della scientifica si installò davanti alla porta del corridoio dove era avvenuta la sparatoria, aprendo le valigette e disponendo l'attrezzatura per raccogliere le prove e le scanalature di frizione, le videocamere e le macchine fotografiche. Amelia indossò la tuta di tyvek bianca e si infilò degli elastici attorno alle scarpe. Si mise l'auricolare e chiese un collegamento con il telefono di Lincoln Rhyme. Strappò il nastro della polizia e aprì la porta pensando: Un taglio nella pelle per nascondere grimaldelli e chiavi per manette? Tra tutti i criminali che lei e Lincoln avevano affrontato, il Negromante era... «Oh, dannazione», esclamò. «Ciao anche a te, Sachs», disse Rhyme, asciutto. «O almeno credo che sia tu. La ricezione è pessima.» «Non ci posso credere, Rhyme. Il medico legale ha portato via il cadavere senza aspettare che lo esaminassi.» Amelia stava guardando il corridoio insanguinato ma vuoto. «Che cosa?» chiese lui bruscamente. «Chi gli ha dato l'autorizzazione?» Una delle regole dell'analisi della scena del crimine voleva che il personale medico di emergenza potesse avervi accesso per salvare un ferito, ma che in caso di omicidio il cadavere non venisse toccato da nessuno, compreso il medico di turno dell'ufficio del medico legale, finché non fosse stato analizzato da qualcuno della scientifica. Quella era una procedura fondamentale e la carriera di chiunque avesse permesso che fosse portato via il cadavere del Negromante adesso era in pericolo. «C'è qualche problema?» chiese uno dei tecnici dalla soglia. «Guarda», disse lei con rabbia indicando il corridoio con un cenno del capo. «Il medico legale ha preso il cadavere prima che potessimo esaminarlo. Cos'è successo?» Il giovane tecnico con i capelli a spazzola si accigliò. Lanciò un'occhiata al suo compagno, poi disse:» Uhm, be', il medico di turno è qui fuori. Era il tizio con cui stavamo parlando quando sei arrivata. Quello che stava
dando da mangiare ai piccioni. Stava aspettando che avessimo finito per spostare il cadavere». «Cosa sta succedendo?» ringhiò Rhyme. «Sento delle voci, Sachs.» Rivolgendosi al criminologo Amelia riferì: «La squadra dell'ufficio del medico legale è qui fuori, Rhyme. A quanto pare non hanno preso il corpo. Cosa...» «Oh, Gesù Cristo. No!» Il gelo le raggiunse immediatamente l'anima. «Rhyme, non penserai...» «Che cosa vedi, Sachs? Com'è la macchia di sangue?» abbaiò lui. Amelia raggiunse di corsa il punto dove era avvenuta la sparatoria e studiò la macchia di sangue sulla parete. «Oh, no. Non sembra quella causata da un normale colpo di pistola, Rhyme.» «Materia cerebrale, frammenti d'osso?» «Materia grigia, sì. Ma c'è qualcosa che non quadra. Ci sono dei frammenti d'osso. Ma non molti, per uno sparo da distanza ravvicinata.» «Fai un'analisi preliminare del sangue. Ci toglierà ogni dubbio.» Lei tornò di corsa alla porta. «Cosa sta...?» chiese uno dei tecnici, ma non aggiunse altro quando la vide frugare freneticamente nelle valigette. Amelia prese il kit per l'analisi del sangue Kastle-Meyer, quindi tornò in corridoio e prese un campione dalla parete. Trattò il campione con la fenolftaleina e un attimo dopo ebbe la risposta. «Non so cosa sia ma decisamente non si tratta di sangue.» Lanciò un'occhiata alle macchie rossastre sul pavimento. Quelle sembravano autentiche. Analizzò un altro campione che diede risultato positivo. Poi notò una lametta insanguinata nell'angolo. «Cristo, Rhyme, ha simulato la sparatoria. Si è tagliato per sanguinare davvero e ingannare le guardie.» «Chiama la sicurezza.» Amelia gridò: «C'è stata un'evasione. Bloccate tutte le uscite!» Il detective corse in corridoio e guardò il pavimento. Linda Welles lo raggiunse, gli occhi sgranati. Il sollievo che provò nello scoprire che non aveva ucciso nessuno sfumò immediatamente quando si rese conto delle gravi conseguenze di ciò che era successo. «No! Era proprio lì. Aveva gli occhi sbarrati. Sembrava morto.» La sua voce era acuta, isterica. «Voglio dire, la sua testa... era tutta sporca di sangue. Ho visto... ho visto la ferita!» Hai visto l'illusione di una ferita, pensò amaramente Amelia. «Le guardie di tutte le uscite sono state messe in allarme. Ma, Cristo, questo non è il corridoio di massima sicurezza. Dev'essersi alzato appena abbiamo richiuso le porte», urlò il detective. «Potrebbe essere ovunque
ormai. Probabilmente in questo momento sta rubando una macchina o forse è già sulla metropolitana diretto nel Queens.» Amelia Sachs cominciò a dare ordini. Quale che fosse il suo grado, il detective era così scosso dall'evasione che non pensò nemmeno di mettere in dubbio la sua autorità. «Faccia una comunicazione urgente», disse. «A tutte le agenzie dell'area metropolitana. Federali e statali. E non dimentichi l'ufficio della motorizzazione. L'uomo si chiama Erick Weir. Maschio, bianco, circa cinquant'anni. Avete la foto segnaletica.» «Che cosa indossa?» chiese il detective a Welles e al suo collega. I due agenti cercarono di ricordare e diedero una descrizione approssimativa. Amelia stava pensando, però, che non aveva una grande importanza. Sicuramente aveva già indossato degli altri vestiti. Scrutò i quattro tentacoli di corridoi bui che poteva vedere da dove si trovava e scorse le sagome di decine di persone. Guardie, custodi, poliziotti... Forse il Negromante si era travestito ed era uno di loro. Ma per il momento lasciò agli altri il problema della cattura e tornò a dedicarsi alla sua specialità: la scena del crimine, la cui analisi avrebbe dovuto essere una breve formalità ma che ora era diventata una questione di vita o di morte. 37 Avanzando cautamente nel seminterrato del Centro Detenzione di Manhattan, Malerick rifletté sulla propria fuga, esponendola ai suoi Riveriti Spettatori. Lasciate che condivida con voi un segreto dell'illusionismo. Per ingannare davvero la gente non è sufficiente una diversione durante l'illusione. Questo accade perché, quando si trova di fronte a un fenomeno che sfugge alla logica, la mente umana continua a tentare di capire cos'è successo. Noi illusionisti la chiamiamo «ricostruzione» e, a meno che non abbiamo studiato il nostro trucco con grande astuzia, un pubblico intelligente e sospettoso può essere ingannato solo brevemente e può scoprire il nostro metodo quando il numero è finito. Ma allora come possiamo riuscire a ingannare il pubblico? Usiamo il metodo più implausibile che riusciamo a trovare, un metodo assurdamente semplice o eccessivamente complesso. Un esempio: un famoso illusionista sembra aver fatto sparire un'intera piuma di pavone in un fazzoletto. Gli spettatori difficilmente riusciranno a
capire che tipo di trucco di destrezza ha usato per dare l'impressione che la piuma sia effettivamente penetrata nel tessuto. Qual è il segreto? È che penetra nel tessuto. C'è un buco nel fazzoletto! Gli spettatori prendono in considerazione questa idea all'inizio, ma inevitabilmente decidono che è troppo semplice per un grande artista. E cominciano a pensare che abbia usato un metodo molto più elaborato. Un altro esempio: un illusionista si incontra a cena con alcuni amici in un ristorante e gli viene chiesto di mostrare qualche trucco. All'inizio è restio ma alla fine accetta. Prende una tovaglia, la tiene sospesa davanti al tavolo a cui siedono due innamorati e in un secondo fa svanire la coppietta e il loro tavolo. Gli amici sono sbalorditi. Come può esserci riuscito? Non possono immaginare che, pensando che probabilmente sarebbe stato invitato a esibirsi, l'illusionista si è messo d'accordo con il maître per far preparare un tavolo pieghevole e ha assunto un attore e un'attrice che interpretassero la coppietta. Quando ha sollevato la tovaglia, i due sono scomparsi come d'accordo. Ricostruendo la scena a cui hanno appena assistito, gli amici rifiutano questa ipotesi che ritengono troppo improbabile per un'esibizione apparentemente improvvisata. Ed è questo che è accaduto con l'illusione di cui siete appena stati testimoni, l'illusione che ho chiamato il Prigioniero Colpito. Ricostruzione. Molti illusionisti si dimenticano di questo processo psicologico. Ma Malerick non se ne dimenticava mai. E lo aveva preso attentamente in considerazione mentre pianificava la sua fuga dal Centro di Detenzione. Gli agenti che lo stavano scortando lungo il corridoio credevano di aver visto un prigioniero togliersi le manette, afferrare una pistola e morire per un colpo partito accidentalmente davanti ai loro occhi. Avevano provato choc, stupore e orrore. Ma persino in momenti così estremi la mente fa ciò che deve e, prima che il fumo si fosse diradato, gli agenti avevano già cominciato ad analizzare gli eventi e a prendere in considerazione le possibili modalità di intervento. Come un qualsiasi pubblico, si erano impegnati nella ricostruzione e, sapendo che Erick Weir era un illusionista molto dotato, indubbiamente si erano chiesti se l'incidente fosse stato simulato. Ma le loro orecchie avevano sentito un vero sparo partito da una vera pistola. I loro occhi avevano visto una testa esplodere all'impatto con la pallottola e un attimo dopo un corpo senza vita dagli occhi vitrei accasciato sul
pavimento sporco di sangue e frammenti d'osso. La ricostruzione aveva portato alla conclusione che era decisamente implausibile che un uomo mettesse in scena qualcosa di così elaborato come un falso incidente. Così, certi che fosse morto, lo avevano lasciato solo, in corridoio, libero dalle manette mentre loro si occupavano di chiedere aiuto via radio. E qual è stato il mio metodo, Riveriti Spettatori? Mentre percorrevano il corridoio, Malerick si era tolto il cerotto che aveva sull'anca e dal piccolo taglio che aveva nella pelle aveva preso una chiave universale per manette. Una volta libero dalle manette, aveva colpito al volto la donna e alla gola l'altro agente, quindi aveva cercato di prenderle la pistola. Una colluttazione... e alla fine aveva puntato l'arma su un punto dietro la sua testa e premuto il grilletto. Nello stesso momento aveva messo in funzione il circuito di un piccolo petardo che si era applicato a una parte rasata del cranio e che era rimasto nascosto dai suoi lunghi capelli, facendo esplodere una piccola sacca di sangue finto, di frammenti di spugna grigia e di schegge di osso di manzo. Per aggiungere credibilità alla messinscena aveva usato una lametta — nascosta nell'anca insieme alla chiave — per tagliarsi il cuoio capelluto, una parte del corpo che sanguina copiosamente ma senza eccessivo dolore. Poi si era lasciato cadere a terra, dove era rimasto come una bambola di stracci, respirando il più silenziosamente possibile. I suoi occhi erano rimasti aperti perché li aveva bagnati con un collirio viscoso che produceva una patina lattiginosa che gli aveva permesso di non sbattere le palpebre. Dannazione, guarda cos'ho fatto! Oh, cazzo! Aiutatelo, qualcuno lo aiuti! Ma, agente Welles, era troppo tardi per aiutarmi. Ero morto come un cervo investito da una macchina. Ora attraversò il labirinto di corridoi che univano i sotterranei dei due edifici governativi fino a raggiungere il ripostiglio in cui diversi giorni prima aveva nascosto il suo nuovo travestimento. All'interno della piccola stanza si spogliò e poi nascose l'attrezzatura con cui aveva simulato la ferita, i suoi vecchi vestiti e le sue scarpe in alcune scatole. Dopo aver indossato nuovi abiti ed essersi truccato, impiegò meno di dieci secondi a entrare nella parte. Un'occhiata fuori dalla porta. Il corridoio era deserto. Uscì e si affrettò a raggiungere le scale. Era quasi arrivato il momento del gran finale.
«È stata un'uscita», disse Kara. La giovane era tornata a casa di Lincoln Rhyme pochi minuti prima. «Un'uscita?» chiese il criminologo. «Di cosa si tratta?» «È un piano alternativo. Tutti i migliori illusionisti ne hanno uno o due per ciascuno dei numeri che mettono in scena. Se sbagli qualcosa o il pubblico scopre le tue mosse, devi avere uno stratagemma per salvare il trucco. Il Negromante deve aver immaginato che era possibile che venisse arrestato, così ha architettato un'uscita per riuscire a fuggire.» «E come ci è riuscito?» «Doveva avere un petardo e una sacca di sangue nascosti tra i capelli. Lo sparo? Probabilmente è stato prodotto da una pistola finta», suggerì Kara. «La maggior parte degli illusionisti che mettono in scena il trucco della pallottola vagante usano pistole finte. Sono pistole che hanno una seconda canna. O, se usano pistole vere, sono caricate a salve. Potrebbe aver sostituito la pistola dell'agente che lo stava portando alla sua cella.» «Ne dubito», disse Rhyme, guardando Sellitto. Il poliziotto era d'accordo con lui. «Già, non capisco come potrebbe aver sostituito una pistola d'ordinanza. O averla scaricata e ricaricata con pallottole finte.» Kara disse: «Be', potrebbe aver semplicemente finto lo sparo. Aver sfruttato l'angolazione, il punto di vista». «E allora i suoi occhi?» chiese Rhyme. «I testimoni hanno affermato che aveva gli occhi aperti. Non ha mai sbattuto le palpebre e gli occhi sembravano vitrei.» «Ci sono decine di gimmick che si possono usare per simulare la morte. Potrebbe essersi servito di un collirio per lubrificare la cornea. Puoi tenere gli occhi aperti per dieci o quindici minuti. E poi ci sono lenti a contatto autolubrificanti. Danno uno sguardo vitreo come quello di uno zombie.» Zombie e sangue finto... Cristo, che casino. «Come ha fatto a passare attraverso lo stramaledetto metal detector?» «Non erano ancora nell'area di massima sicurezza», spiegò Sellitto. «Era lì che si stavano dirigendo quando è successo.» Rhyme sospirò. E poi bruscamente chiese: «Dove diavolo sono le prove?» Spostò lo sguardo dalla porta a Mel Cooper come se lo snello tecnico potesse far materializzare a comando gli indizi raccolti al Centro di Detenzione. Si scoprì che c'erano due scene del crimine: una era il corridoio dov'era avvenuta la finta sparatoria. L'altra era nel sotterraneo dell'edificio, per la precisione in un ripostiglio. Una delle squadre di ricerca aveva tro-
vato gli strumenti usati per simulare la ferita, i vestiti e alcuni altri oggetti nascosti in una borsa nello stanzino. Suonarono alla porta e Thom andò ad aprire. Un attimo dopo, Roland Bell entrò nel laboratorio. «Non ci posso credere», disse senza fiato, i capelli incollati alla fronte. «È tutto confermato? Se l'è filata?» «Certo», borbottò Rhyme cupamente. «L'UE sta setacciando il palazzo. C'è anche Amelia là. Ma finora non hanno trovato nemmeno una pista.» «Probabilmente se l'è data a gambe, ma credo che sarebbe meglio portare Charles e la sua famiglia in un luogo sicuro finché non scopriamo cos'è successo», disse Bell. Sellitto approvò. «Assolutamente.» Il detective prese il cellulare e fece una telefonata. «Luis? Sono Roland. Ascolta, Weir è fuggito... No, no, non era affatto morto. È stata solo una messinscena. Voglio che Grady e la sua famiglia siano portati in un luogo sicuro finché non riacciuffiamo il nostro uomo. Manderò una... cosa?» Al suono di quell'unica sconvolta parola, l'attenzione di tutti i presenti si focalizzò su Bell. «Chi c'è con lui?... È solo? È questo che mi stai dicendo?» Rhyme stava scrutando il volto di Bell, l'espressione cupa e criptica sul volto che di solito era invece serafico. Ancora una volta, come era accaduto così spesso in quel caso, Lincoln aveva la sensazione che eventi apparentemente imprevedibili fossero stati programmati molto tempo prima del loro effettivo svolgersi. Bell si rivolse a Sellitto. «Luis mi ha detto che hai telefonato e hai richiamato tutta la scorta tranne lui.» «Telefonato a chi?» «A casa di Grady. Hai detto a Luis di mandare a casa il resto della squadra.» «Perché avrei dovuto fare una cosa del genere?» chiese Sellitto. «Cazzo, l'ha fatto di nuovo. Proprio come quando ha mandato a casa gli agenti che sorvegliavano il circo.» Bell annunciò alla squadra: «Ci sono altre cattive notizie. Grady sta andando in centro da solo per discutere con Constable un patteggiamento». Parlo nel ricevitore. «Non perdere di vista la famiglia, Luis. E richiama il resto della squadra. Di' loro che devono tornare immediatamente. Non lasciar entrare nessuno nell'appartamento a meno che non si tratti di qualcuno che conosci. Cercherò di trovare Charles.» Riagganciò e compose subito un altro numero. Rimase ad ascoltare per un lungo istante. «Non rispon-
de nessuno.» Lasciò un messaggio. «Charles, sono Roland. Weir è fuggito e non sappiamo dove possa essere o che cosa abbia in mente. Non appena senti questo messaggio, trova un agente armato che conosci personalmente e telefonami.» Gli lasciò il suo numero e poi fece un'altra telefonata, a Bo Haumann, il capo dell'Unità Emergenze. Lo avvertì che Grady si stava dirigendo al Centro di Detenzione e che non aveva alcun tipo di scorta. L'uomo con due pistole riappese e scosse la testa. «Ci siamo proprio fatti fregare.» Fissò la tabella delle prove. «Allora, che cos'ha in mente il nostro uomo?» «Di una cosa sono sicuro», disse Rhyme. «Non ha intenzione di lasciare la città. Si sta divertendo.» L'unica cosa della mia vita, l'unica cosa che abbia mai avuto importanza per me, è esibirmi. L'illusione, la magia... «Grazie, signore. Grazie.» La guardia esitò leggermente nel sentire quelle parole gentili mentre faceva entrare l'uomo che le aveva pronunciate, Andrew Constable, nella stanza degli interrogatori in cima alle Tombe, a Manhattan. Il prigioniero sorrise come un predicatore intento a ringraziare i suoi fedeli per le loro offerte. La guardia liberò le mani di Constable dietro la schiena e gliele riammanettò davanti. «Il signor Roth è già arrivato?» «Siediti e sta' zitto.» «Certo.» Constable si sedette. «Sta' zitto.» Obbedì. La guardia se ne andò e il prigioniero, solo nella stanza, guardò la città oltre il vetro sudicio della finestra. Era un ragazzo di campagna ma sapeva apprezzare New York. Si era sentito stordito e incredibilmente furioso dopo la tragedia dell'11 settembre. Se lui e la sua Alleanza Patriottica avessero potuto fare a modo loro, quell'incidente non sarebbe mai accaduto perché coloro che volevano colpire lo stile di vita americano sarebbero stati stanati e smascherati. Domande scomode... Un attimo dopo la pesante porta di metallo si aprì e la guardia fece entrare Joseph Roth.
«Ciao, Joe. Grady è pronto a negoziare?» «Certo. Dovrebbe essere qui tra dieci minuti. Dice che vuole informazioni concrete da te, Andrew.» «Oh, le avrà.» L'uomo sospirò. «E dall'ultima volta che ci siamo parlati ho scoperto che c'è dell'altro. Ti dirò. Joseph, sono desolato per quello che sta succedendo su, a Canton Falls, ed è da più di un anno che questa storia va avanti sotto il mio naso. Quella faccenda di cui continuava a parlare Grady... il progetto di uccidere i poliziotti. Ero convinto che fossero tutte assurdità. Ma invece no, c'è della gente che ha davvero in mente di fare una cosa simile.» «Hai dei nomi?» Constable rispose: «Ci puoi scommettere. Sono miei amici. Buoni amici. O almeno lo erano. Ricordi quel pranzo al Riverside Inn? Alcuni di loro hanno davvero assoldato quel tizio, Weir, per assassinare Grady. Ho nomi, date, luoghi, numeri di telefono. E c'è dell'altro. Un sacco di Patrioti saranno disposti a collaborare. Non preoccuparti». «Bene», disse Roth con aria sollevata. «All'inizio non sarà facile trattare con Grady. È questo il suo stile. Ma penso che andrà tutto per il verso giusto.» «Grazie, Joe.» Constable squadrò il suo avvocato. «Sono felice di essermi rivolto a te.» «Devo dirti la verità, Andrew. All'inizio il fatto che avessi assunto un avvocato ebreo mi ha stupito. Sai, con quello che si dice in giro sul tuo conto.» «Ma poi hai avuto modo di conoscermi.» «Poi ho avuto modo di conoscerti.» «A proposito, Joe, volevo chiederti: quando è la Pasqua ebraica?» «Scusa?» «La vostra Pasqua. Quand'è?» «È stata circa un mese fa. Ricordi quella sera che me ne sono andato prima?» «Certo.» Annuì. «Che significato ha per voi?» «Quando i primogeniti degli egiziani furono uccisi, Dio risparmiò le case degli ebrei e i loro figli. E a quel punto gli egiziani si convinsero a liberare gli ebrei dalla schiavitù.» «Oh. Comunque, scusa se non ti ho fatto gli auguri.» «Lo apprezzo molto, Andrew.» Poi lo guardò negli occhi. «Se le cose vanno come spero, forse l'anno prossimo tu e tua moglie potrete venire a
cena a casa nostra per festeggiare il Seder. È una cena, una celebrazione. Ci saranno una quindicina di persone, non tutte ebree. È un bel modo per stare insieme.» «Puoi considerare accettato l'invito.» I due uomini si strinsero la mano. «Un'altra buona ragione per uscire di qui. Quindi mettiamoci al lavoro. Ripetimi quali sono i capi d'accusa e su quali punti pensi che possiamo convincere Grady.» Constable si stiracchiò. Era bello non essere ammanettato dietro la schiena e avere le caviglie libere. Era così bello che trovò quasi divertente ascoltare il suo avvocato che gli elencava le ragioni per cui la gente dello Stato di New York riteneva che non fosse adatto a vivere nella società. Quel monologo però venne interrotto pochi istanti dopo, quando la guardia aprì la porta e fece cenno a Roth di uscire. Quando rientrò, l'avvocato sembrava turbato. Disse: «È successo un imprevisto. Weir è fuggito». «No! Grady è al sicuro?» «Non lo so. Avrà delle guardie del corpo che si occupano di proteggerlo.» Il prigioniero sospirò, disgustato. «Sai su chi ricadrà la colpa? Su di me, ecco su chi. Ne ho abbastanza di tutte queste stronzate. Devo scoprire dov'è Weir e cos'ha in mente di fare.» «Tu? E come?» «Chiamerò i miei amici a Canton Falls e li metterò alle calcagna di Jeddy Barnes. Forse riusciranno a convincerlo a dirci dov'è Weir e cosa sta facendo.» «Aspetta un attimo, Andrew», disse Roth a disagio. «Voglio che resti tutto entro i limiti della legalità.» «Non ti preoccupare. Ci penserò io.» «Sono sicuro che Grady lo apprezzerà molto.» «Che resti tra noi, Joe, ma non me ne frega un cazzo di niente di Grady. Tutto questo è per me. Voglio consegnargli la testa di Weir e di Jeddy su un piatto d'argento, così forse alla fine tutti si convinceranno che non c'entro niente. E adesso facciamo qualche telefonata per risolvere questo casino.» 38 Hobbs Wentworth non si allontanava molto spesso da Canton Falls. Travestito da custode, mentre spingeva un carrello su cui si trovavano
scope, stracci e la sua «attrezzatura da pesca» (ovvero il suo fucile d'assalto semiautomatico Colt AR-15), Hobbs Wentworth si rese conto che la vita nella grande città era molto cambiata negli ultimi vent'anni, ossia dall'ultima volta che era stato lì. E notò che tutto ciò che aveva sentito a proposito del lento cancro che stava divorando la razza bianca era vero. Oh, mio Signore, guarda: c'erano più giapponesi o cinesi o quello che erano — chi poteva dirlo? — lì che a Tokio. E gli ispanici erano ovunque in quella parte di New York, come zanzare. E tutti quegli arabi... ma perché non li arrestavano e non li fucilavano dopo quello che avevano fatto alle Torri Gemelle? Una donna che indossava uno di quegli abiti da musulmani che la copriva dalla testa ai piedi stava attraversando la strada. Hobbs provò l'improvviso impulso di ucciderla perché avrebbe potuto conoscere qualcuno che a sua volta avrebbe potuto conoscere qualcuno che aveva attaccato il suo Paese. E quegli indiani e quei pakistani che avrebbero dovuto essere rispediti nei rispettivi Paesi, perché Hobbs non riusciva a capire un cazzo di quello che dicevano, per non dire del fatto che non erano cristiani. Era furioso per ciò che aveva fatto il governo aprendo le frontiere e lasciando entrare quegli animali, permettendo loro di impadronirsi del Paese e costringendo la gente perbene a rifugiarsi in piccole isole di sicurezza — luoghi come Canton Falls — che giorno dopo giorno diventavano sempre più anguste. Ma Dio aveva strizzato l'occhio a Hobbs Wentworth, elemento dannatamente indispensabile, e gli aveva affidato il ruolo benedetto del combattente per la libertà. Perché Jeddy Barnes e i suoi amici sapevano che Hobbs aveva un altro talento oltre a quello di saper raccontare ai bambini le storie della Bibbia. Sapeva uccidere. E lo sapeva fare molto, molto bene. Talvolta la sua attrezzatura da pesca era un coltello K-bar, talvolta una garrota, talvolta il suo dolce Colt, talvolta l'arco. Le oltre dieci missioni che aveva portato a termine negli ultimi anni erano andate nel migliore dei modi. Uno schifoso portoricano in Massachusetts, un politico di sinistra ad Albany, un negro a Burlington, un medico abortista in Pennsylvania. E adesso alla sua lista avrebbe aggiunto anche un procuratore. Continuò a spingere il carrello attraverso il parcheggio sotterraneo semideserto che si trovava vicino a Centre Street e si fermò vicino a una delle porte, in attesa. Aveva un'aria apatica, sembrava proprio un custode che non aveva alcuna voglia di cominciare il turno di notte. Dopo qualche mi-
nuto la porta si aprì e Hobbs salutò gentilmente con un cenno del capo la donna che uscì, una donna di mezza età con una valigetta, che indossava dei jeans e una camicetta bianca. Lei gli sorrise ma si richiuse con forza la porta alle spalle e disse che le dispiaceva ma che per problemi di sicurezza non poteva lasciarlo entrare. Lui le disse che, certo, non c'era problema, capiva perfettamente. E le sorrise di nuovo. Un minuto più tardi, lasciò cadere nel suo carrello il corpo della donna che si stava contorcendo e le prese il tesserino di identificazione. Lo fece scorrere attraverso un lettore elettronico e la porta si aprì con un «clic». Prese l'ascensore fino al terzo piano, continuando a spingere il carrello, il corpo della donna nascosto da sacchetti neri della spazzatura. Hobbs trovò l'ufficio che il signor Weir gli aveva detto di usare. Da lì c'era un'ottima visuale sulla strada e, dal momento che apparteneva al Dipartimento delle Statistiche Autostradali, era improbabile che vi capitasse qualcuno in seguito a una qualche emergenza, la domenica sera. La porta era chiusa a chiave ma l'uomo robusto l'aprì semplicemente con un calcio. (Il signor Weir aveva detto che non c'era tempo per insegnargli a forzare una serratura.) All'interno dell'ufficio, Hobbs prese il fucile dal carrello, montò il mirino telescopico e lo puntò sulla strada. Una posizione perfetta. Non poteva sbagliare. Per la verità, però, si sentiva a disagio. A turbarlo non era l'idea di far fuori Grady; si sarebbe preso senza difficoltà quel trofeo. Ma era l'idea della fuga che sarebbe seguita a preoccuparlo. Gli piaceva vivere a Canton Falls, gli piaceva raccontare ai bambini le storie della Bibbia, gli piaceva andare a caccia e a pesca e passare il tempo con gli amici. Persino Cindy era divertente qualche sera, con la luce giusta e la giusta quantità di liquore in corpo. Ma il piano dell'Uomo Magico prevedeva la fuga. Quando Grady fosse apparso, Hobbs gli avrebbe sparato cinque colpi uno dopo l'altro attraverso la finestra chiusa. La prima pallottola avrebbe mandato in mille pezzi il vetro e forse sarebbe stata deviata, ma le altre avrebbero sicuramente ucciso il procuratore. Poi, aveva spiegato il signor Weir, Hobbs avrebbe dovuto aprire una delle porte antincendio, ma non per fuggire da lì. Sarebbe stata una diversione per convincere la polizia che era scappato da quella parte. In realtà, lui sarebbe tornato al parcheggio sotterraneo. Avrebbe spostato la sua vecchia Dodge in un posto riservato
agli handicappati e si sarebbe nascosto nel baule. A un certo punto — forse quella notte stessa o forse il giorno dopo — l'auto sarebbe stata portata via per divieto di sosta. La legge impediva agli addetti alla rimozione forzata di aprire le portiere e i bagagliai delle auto che portavano via, e così la macchina sarebbe stata trasportata fuori dal garage, oltre qualsiasi possibile blocco, senza che nessuno si accorgesse che a bordo c'era un passeggero. Quando fosse stato certo di essere al sicuro, Hobbs avrebbe aperto il bagagliaio dall'interno e sarebbe fuggito a Canton Falls. Nel bagagliaio c'erano dell'acqua e del cibo e anche un barattolo vuoto, nel caso dovesse urinare. Era un piano brillante. E, in quanto elemento dannatamente indispensabile, Hobbs avrebbe fatto del suo meglio per svolgerlo alla perfezione. Prendendo la mira su passanti scelti a caso per acquistare confidenza con quel punto di osservazione, Hobbs pensò che il signor Weir doveva fare spettacoli di magia maledettamente incredibili. Si chiese se una volta che tutto fosse finito sarebbe riuscito a convincerlo a tornare a Canton Falls per fare uno spettacolo per i bambini del catechismo. O almeno, decise Hobbs, avrebbe inventato qualche storia sul fatto che Gesù era stato un grande mago e aveva usato giochi di prestigio per far sparire i romani e i pagani. Brividi. Amelia Sachs stava rabbrividendo per il sudore freddo che le scorreva lungo la schiena e lungo i fianchi. E stava rabbrividendo anche per la paura. Cerca con cura... Imboccò un altro corridoio poco illuminato del palazzo dei tribunali, pronta a sfoderare la Glock. ... ma guardati le spalle. Ah, ci puoi scommettere, Rhyme. Mi piacerebbe molto. Ma da chi devo guardarmi? Da un cinquantenne dal volto sottile che potrebbe avere la barba ma potrebbe anche non averla? Da una donna anziana che indossa la divisa di una caffetteria? Da un custode, da un secondino del Centro di Detenzione, da un uomo delle pulizie un poliziotto un medico un cuoco un vigile del fuoco un'infermiera? Una qualsiasi delle decine di persone che quella domenica avevano tutto il diritto di trovarsi lì. Chi, chi, chi?
La sua radio gracchiò. Era Sellitto. «Sono al terzo piano, Amelia. Ancora niente.» «Io sono nel seminterrato. Ho visto una decina di persone. Tutti i tesserini di identificazione coincidono ma, dannazione, Weir potrebbe anche aver programmato la sua fuga da settimane ed essersi preparato un documento falso.» «Vado su al quarto.» Conclusa la trasmissione, Amelia continuò la sua ricerca. Lungo altri corridoi. Decine di porte. Tutte chiuse a chiave. Ma, naturalmente, delle semplici serrature non significavano niente per un uomo come Weir. Avrebbe potuto aprirne una in pochi secondi e nascondersi in un ripostiglio buio. Avrebbe potuto entrare nell'ufficio di un giudice e restare nascosto fino a lunedì. Avrebbe potuto intrufolarsi in una delle prese d'aria che portavano ai tunnel della manutenzione dai quali avrebbe avuto accesso a metà degli edifici di Manhattan oltre che alla metropolitana. Amelia svoltò un angolo e imboccò un altro corridoio buio. Mentre controllava le maniglie delle porte, ne trovò una aperta. Se lui si trovava lì dentro doveva averla sentita — il «clic» della maniglia, il rumore dei suoi passi — e quindi non aveva altra scelta che quella di entrare velocemente. Spalancò la porta con in pugno la torcia elettrica, pronta a gettarsi sulla sinistra se avesse scorto un'arma puntata contro di lei (si ricordò che i destrorsi hanno la tendenza, quando sparano in preda al panico, a mirare a sinistra, ossia alla destra del bersaglio). Ad Amelia sembrò che le sue ginocchia artritiche si frantumassero quando accennò ad accovacciarsi, esaminando la stanza rischiarata dal fascio luminoso della torcia. Qualche scatolone e alcuni schedari. Nient'altro. Tuttavia, quando si voltò per andarsene, si ricordò che il Negromante si era confuso con l'oscurità usando un semplice pezzo di tessuto nero. Osservò la stanza con maggior attenzione. In quel momento sentì qualcosa sfiorarle il collo. Rimase senza fiato e si voltò di scatto sollevando la pistola e mirando al centro della polverosa ragnatela che le aveva accarezzato la pelle. Tornò in corridoio. Altre porte chiuse. Altri vicoli ciechi. Passi che si avvicinavano. Un uomo le passò accanto — era calvo, sulla sessantina e indossava un'uniforme da guardia con tanto di tesserino. Le rivolse un cenno. Era più alto di Weir, così lei lo lasciò passare senza dedi-
cargli più di uno sguardo. Ma poi pensò che per un esperto di trasformismo come lui non doveva essere difficile cambiare anche la propria statura. Si voltò di scatto. L'uomo era scomparso; Amelia vide solo il corridoio deserto. O il corridoio apparentemente deserto. Ripensò ancora una volta alla seta sotto cui il Negromante si era nascosto per uccidere Svetlana Rasnikov, allo specchio dietro cui si era nascosto per uccidere Tony Calvert. Il suo corpo era un nodo di tensione., Prese l'arma nella fondina e si diresse verso il punto in cui la guardia — o almeno quella che le era sembrata una guardia — era scomparsa. Dove? Dov'era Weir? Mentre percorreva Centre Street, Roland Bell si guardò attorno. Auto, camion, venditori di hot dog in piedi accanto al metallo fumante dei loro baracchini, giovani professionisti che lavoravano per studi legali o banche, ubriachi, persone che portavano a spasso il cane, o andavano a fare shopping, decine di abitanti di Manhattan che affollavano le strade in giornate belle e in giornate grigie semplicemente perché l'energia della città li spingeva a uscire. Dove? Bell pensò a quanto vivere e sparare si assomigliassero. Era cresciuto nel North Carolina, nella zona di Albemarle Sound, dove le armi da fuoco erano una necessità, non una fissazione, e dove gli era stato insegnato a rispettarle. Questo richiedeva concentrazione. Anche i colpi più semplici — quando si sparava a una sagoma di cartone, a un serpente a sonagli o a un cervo — potevano essere pericolosi se non si rimaneva concentrati sul bersaglio. Be', la vita era proprio così. E Bell sapeva che qualunque cosa stesse accadendo alle Tombe in quel momento, doveva restare concentrato sul suo unico obiettivo: proteggere Charles Grady. Amelia Sachs lo chiamò e gli riferì che stava controllando ogni essere umano che incontrava nell'edificio dei tribunali, di qualsiasi età, razza o taglia fosse (aveva appena controllato l'identità di una guardia calva, un uomo che era molto più alto di Weir e che non assomigliava per niente all'assassino ma che aveva superato l'esame perché, si era scoperto, aveva conosciuto il suo defunto padre). Amelia aveva finito di ispezionare un'ala del seminterrato e stava per cominciare con l'altra.
Le squadre agli ordini di Sellitto e Bo Haumann stavano ancora perquisendo i piani superiori dell'edificio e alla caccia si era unito il personaggio più impensato, ossia Andrew Constable, che stava cercando a Canton Falls piste che conducessero a Weir. Be', pensò Bell, sarebbe stato veramente incredibile se l'uomo che per primo era stato accusato di tentato omicidio fosse riuscito a scoprire dove si trovava il vero responsabile. Controllò le auto accanto alle quali passava, guardò i camion, scrutò nei vicoli, le pistole pronte ma non ancora sfoderate. Aveva deciso che la scelta più logica per loro fosse quella di colpire Grady sulla strada prima che entrasse nell'edificio dove avrebbe avuto maggiori possibilità di mettersi in salvo. Non pensava che quella gente avesse tendenze suicide — non coincideva con il loro profilo. L'assassino avrebbe tentato di colpirlo nel lasso di tempo tra il momento in cui Grady avesse parcheggiato la macchina e quello in cui le pesanti porte dell'edificio dei tribunali si fossero richiuse alle sue spalle. E sarebbe stato un colpo facile: praticamente non c'erano ripari, lì. Dov'era Weir? E, cosa altrettanto importante, dov'era Grady? Sua moglie aveva detto che aveva preso la loro auto privata, non quella governativa. Bell aveva fatto una richiesta urgente di localizzazione della Volvo del procuratore, ma non c'erano state segnalazioni. Si voltò lentamente, scrutando la scena come un faro. Spostò lo sguardo sul palazzo dall'altra parte della strada, un edificio governativo di nuova costruzione che ospitava degli uffici. Decine di finestre davano su Centre Street. Bell era stato in quell'edificio durante un sequestro che si era concluso quasi subito e sapeva che ora, di domenica, doveva essere praticamente deserto. Il luogo perfetto per nascondersi e aspettare Grady. Ma anche la strada sarebbe stata una scelta possibile... per sparare da un'auto in corsa, per esempio. Dove, dove? Roland Bell tornò con la mente a quella volta in cui era andato a caccia con suo padre nella Grande Palude Lugubre, nella Virginia meridionale. Erano stati attaccati da un cinghiale selvatico e suo padre aveva ferito superficialmente l'animale che era scomparso nella vegetazione. L'uomo aveva sospirato e aveva detto: «Dobbiamo prenderlo. Non possiamo lasciare in giro un animale ferito». «Ma ci ha attaccati», aveva protestato il giovane Roland. «Be', figliolo, siamo stati noi a invadere il suo mondo. Non è stato lui a
invadere il nostro. Ma non è una questione di giustizia. Dobbiamo trovarlo, anche se dovessimo impiegarci tutto il giorno. Non sarebbe giusto nei suoi confronti e per di più adesso che è ferito, è due volte più pericoloso per chiunque dovesse imbattersi in lui.» Guardandosi attorno nel fitto della vegetazione e nell'erba alta che si estendeva per chilometri e chilometri, il giovane Roland aveva detto: «Ma potrebbe essere dovunque, papà». Suo padre aveva riso cupamente: «Oh, non preoccuparti. Non saremo noi a trovare lui. Sarà lui a trovare noi. Tieni il pollice su quella sicura, figliolo. Quel fucile potrebbe servirti da un momento all'altro. Sei tranquillo?» «Sissignore.» Ora Bell con lo sguardo esaminò ancora una volta i veicoli, i vicoli e i palazzi sul lato opposto del tribunale. Niente. Nessuna traccia di Charles Grady. Nessuna traccia di Erick Weir o dei suoi complici. Bell toccò il calcio di una delle sue pistole. Oh, non preoccuparti. Sarà lui a trovare noi. 39 «Sto facendo una ricerca porta a porta, Rhyme. Sono nell'ultima ala del seminterrato.» «Lascia che se ne occupi l'UE.» Rhyme si accorse di aver chinato il capo in avanti per la tensione mentre parlava nel microfono. «Abbiamo bisogno di tutti», sussurrò Amelia. «È un edificio dannatamente grosso.» Adesso era nelle Tombe e stava esaminando i corridoi. «Ed è anche molto inquietante. Come la scuola di musica.» Sempre più misteriosa... «Un giorno o l'altro dovrai aggiungere al tuo libro un capitolo su come analizzare scene del crimine in luoghi spettrali», scherzò nervosa. «Okay, resterò in silenzio per un po' adesso. Ti richiamo.» Rhyme e Cooper tornarono a studiare le prove. Nel corridoio che conduceva alle celle, Amelia aveva trovato una lametta e alcuni frammenti di ossa bovine e di spugna grigia — che l'assassino aveva fatto passare per frammenti di cranio e materia cerebrale — oltre ad alcuni campioni di sangue finto: sciroppo di glucosio con colorante alimentare rosso.
Weir aveva usato la giacca o la camicia per pulire il suo vero sangue come meglio aveva potuto ma Amelia aveva analizzato la scena, come sempre, con estrema cura e ne aveva recuperato abbastanza per poterlo analizzare. L'assassino aveva portato con sé la chiave o i grimaldelli che aveva usato per aprire le manette. Oltre a quelle non c'erano altre prove utili sulla scena del crimine del corridoio. Il ripostiglio al piano inferiore dove Weir si era cambiato aveva rivelato qualcosa di più — un sacchetto di carta in cui aveva nascosto il petardo insanguinato, il contenitore per il sangue finto e i vestiti che indossava quando era stato arrestato a casa di Grady: un completo grigio e la camicia bianca che aveva utilizzato per pulire il sangue, e un paio di scarpe Oxford da uomo d'affari. Cooper aveva trovato tracce evidenti su quegli oggetti: residui di lattice e cosmetici, frammenti di cera adesiva per maghi, macchie di inchiostro simili a quelle che erano già state rinvenute, spesse fibre di nylon e altre macchie secche di sangue artificiale. Scoprirono che le fibre appartenevano a una moquette grigio ferro. Il sangue finto era vernice. I database a cui avevano accesso non fornirono alcuna informazione su quei due materiali, così il tecnico mandò l'analisi della composizione chimica e alcune foto all'FBI con una richiesta urgente di identificazione. A quel punto a Rhyme venne un'idea. «Kara», chiamò, vedendo la ragazza che, seduta accanto a Mel Cooper, si faceva dondolare una moneta da un quarto di dollaro sopra le nocche mentre fissava l'ingrandimento di una delle fibre sullo schermo del computer. «Potresti aiutarci con una cosa?» «Certo.» «Potresti andare al Cirque Fantastique e trovare Kadesky? Raccontagli dell'evasione e cerca di scoprire se ricorda qualcos'altro a proposito di Weir. Illusioni che gli piacevano particolarmente, suoi personaggi o travestimenti ricorrenti, che tipo di numeri ripeteva più spesso... qualunque cosa ci possa dare un'idea di che aspetto potrebbe avere ora.» «Magari Kadesky ha qualche vecchia fotografia di Weir con un costume di scena», suggerì lei mettendosi a tracolla la borsa zebrata. Rhyme le disse che era una buona idea e poi tornò a scrutare la tabella delle prove, una testimonianza tangibile di ciò che già aveva pensato in precedenza: più scoprivano, meno sapevano. Mancava un'ora allo spettacolo serale e il Cirque Fantastique stava pren-
dendo vita. Kara oltrepassò lo striscione con Arlecchino e notò un'auto della polizia che Lincoln Rhyme aveva mandato dopo lo spavento di quel pomeriggio. Provando un senso di cameratismo dovuto al fatto che anche lei stava giocando a fare il poliziotto, la ragazza sorrise e salutò gli agenti che, anche se non la conoscevano, risposero al saluto. Non c'era ancora nessuno a sorvegliare l'ingresso e a prendere i biglietti, così Kara entrò e raggiunse il backstage. Notò un ragazzo che stava spostando una lavagna. Aveva un lasciapassare fissato alla cintura. «Scusa», disse Kara. «Sì?» rispose lui con un pesante accento francese o francocanadese. «Sto cercando il signor Kadesky.» «Non c'è. Sono uno dei suoi assistenti.» «Dov'è?» «Non è qui. Tu chi sei?» «Lavoro con la polizia. Il signor Kadesky è stato da noi, prima. Dobbiamo fargli qualche altra domanda.» Il giovane le guardo il petto, forse, anche se non necessariamente, in cerca di un distintivo. «Uh uh. Ah. Polizia. Be', sta cenando. Tornerà tra poco.» «Sai dov'è andato a mangiare?» chiese lei. «No. Adesso devi andartene. Non puoi stare qui.» «Ho solo bisogno di vederlo...» «Hai il biglietto?» «No, io...» «Allora non puoi stare qui ad aspettarlo. Devi andartene. Non ha detto niente a proposito della polizia.» «Be', ho davvero bisogno di vederlo», disse lei con fermezza al ragazzo dall'aspetto gallico e dall'atteggiamento gelido. «Sul serio, te ne devi andare. Puoi restare fuori ad aspettarlo.» «Potrei non vederlo passare.» «Se non te ne vai, chiamerò le guardie», minacciò lui con il suo pesante accento. «Puoi credermi.» «Comprerò un biglietto», disse lei. «Sono esauriti. E anche se ne comprassi uno non potresti tornare qui dietro. Ti accompagno fuori.» La scortò fino all'ingresso dove ora i bigliettai erano al lavoro. Una volta fuori, Kara si fermò e indicò una roulotte su cui era scritto BIGLIETTE-
RIA. «È lì che posso comprare un biglietto?» Un vago sogghigno apparve sul volto dell'assistente. «Sì, quella è la biglietteria. Ma come ti ho detto, non ci sono più biglietti. Puoi chiamare l'ufficio del signor Kadesky se hai bisogno di chiedergli qualcosa.» Quando il ragazzo se ne fu andato, Kara rimase ad aspettare qualche istante, poi girò dietro il tendone e raggiunse l'entrata degli artisti. Sorrise alla guardia e lui ricambiò il suo sorriso, lanciando solo un breve sguardo alla sua cintura a cui adesso era fissato il lasciapassare dell'assistente franco-canadese, che Kara senza alcuna difficoltà gli aveva sfilato dalla cintura quando gli aveva posto quella domanda stupida, ma utile ai fini della diversione, sulla biglietteria. Ecco una regola d'oro: mai fare lo stronzo con una prestigiatrice. Nella parte del tendone riservata al backstage, nascose il lasciapassare in una tasca e trovò un'impiegata più gentile. La donna, Catherine Tunney, annuì con fare comprensivo quando Kara le spiegò la ragione della sua presenza lì e le raccontò che secondo la polizia un ex illusionista ricercato per omicidio era, un artista con cui il signor Kadesky aveva lavorato molto tempo prima. La donna aveva sentito parlare degli omicidi e invitò Kara ad aspettare finché l'impresario non fosse tornato dalla cena. Catherine le diede un lasciapassare per la zona VIP e se ne andò promettendo che avrebbe detto alle guardie di mandarle il signor Kadesky non appena fosse tornato. Mentre si dirigeva nell'area riservata, il suo cercapersone emise un «bip» insistente. Kara trasalì quando vide chi la stava chiamando e corse a una schiera di telefoni pubblici provvisori. Con mano tremante, compose il numero. «Stuyvesant Manor», disse una voce. «Jaynene Williams, per favore.» Un'attesa interminabile. «Pronto?» «Sono io. Kara. Mia madre sta bene?» «Sì, sta bene, ragazza mia. Non voglio che tu ti faccia illusioni, potrebbe non essere niente, ma qualche minuto fa si è svegliata e mi ha chiesto di te. Sa che è domenica sera e si ricordava che oggi sei passata a trovarla.» «Vuoi dire che ha chiesto di me, proprio di me?» «Sì, ha detto il tuo nome. Poi si è accigliata un attimo e ha detto 'a meno che non continui a usare quel suo assurdo nome d'arte, Kara'.» Mio Dio... possibile che fosse tornata in sé? «Mi ha riconosciuta e mi ha chiesto dov'eri. Ha detto che doveva dirti
qualcosa.» Il cuore prese a batterle più velocemente. Dirmi qualcosa... «Dovresti venire qui il più presto possibile, tesoro. Potrebbe durare ma potrebbe anche non durare. Sai come vanno queste cose.» «Adesso sono molto impegnata, Jaynene, ma verrò appena mi sarà possibile.» Conclusa la conversazione, agitata, Kara tornò a sedersi. La tensione era insopportabile. In quel momento, forse, sua madre stava chiedendo dove fosse sua figlia. Triste e delusa perché la ragazza non era lì con lei. Ti prego, pensò, guardando di nuovo in direzione dell'ingresso, sperando di vedere Kadesky. Niente. Avrebbe voluto avere una bacchetta magica per poter far materializzare l'impresario sulla soglia. Ti prego, pensò di nuovo, puntando verso la porta la sua bacchetta immaginaria. Ti prego... Ancora niente. Poi entrarono alcune persone. Nessuna di loro era Kadesky, però. Erano tre donne che indossavano costumi medievali e maschere le cui espressioni sconsolate erano smentite dall'allegria con cui gli attori si stavano preparando alla loro esibizione di quella sera. Roland Bell era in piedi in uno dei canyon del centro di Manhattan: Centre Street, tra il cupo edificio del tribunale incoronato dal Ponte dei Sospiri e l'anonimo palazzo di uffici dall'altra parte della strada. Ancora nessun segno della Volvo di Charles Grady. Ancora una volta ruotò lentamente su se stesso come la luce di un faro. Dove, dove, dove? Un colpo di clacson poco lontano, nella direzione dell'accesso al ponte. Un grido. Bell si voltò e fece qualche passo di corsa verso quei suoni, chiedendosi se fosse possibile che si trattasse di una diversione. No, era solo un litigio tra automobilisti. Tornò sui suoi passi, verso l'ingresso dell'edificio del tribunale, e si ritrovò a fissare Charles Grady che stava tranquillamente percorrendo il marciapiede, a un isolato di distanza da lui. Il procuratore camminava tenendo la testa bassa, perso nei suoi pensieri. Il detective gli corse incontro gridando: «Charles! Sta' giù! Weir è evaso».
Grady si fermò, accigliato. «Giù!» gridò Bell senza fiato. L'uomo, allarmato, si accovacciò sul marciapiede tra due macchine parcheggiate. «Cos'è successo?» gridò. «La mia famiglia!» «Ho mandato degli agenti a casa tua», disse il detective. Poi, rivolgendosi ai pedoni: «Allontanatevi dalla strada! È un'azione di polizia». I passanti si sparpagliarono immediatamente. «La mia famiglia!» gridò Grady disperato. «Sei sicuro?» «Stanno bene.» «Ma Weir...» «Ha simulato la sparatoria al Centro di Detenzione. È riuscito a scappare e adesso è da qualche parte qui attorno. Sta arrivando un furgone blindato.» Si voltò di nuovo e socchiuse gli occhi, osservando la scena. Alla fine raggiunse Grady e si fermò davanti a lui, dando le spalle alle finestre buie dell'edificio governativo dall'altra parte della strada. «Resta dove sei, Charles», disse Bell. «Andrà tutto bene.» Quindi si tolse il walkie-talkie dalla cintura. Ma cosa stava succedendo? Hobbs Wentworth guardò il suo bersaglio sotto di lui — il procuratore — che si accucciava sul marciapiede dietro un uomo in giacca sportiva, chiaramente un poliziotto. Il reticolo del mirino telescopico di Hobbs accarezzò la schiena dell'agente cercando senza successo Grady. Il procuratore era accovacciato, il poliziotto in piedi. Hobbs pensò che se avesse sparato attraverso la schiena dell'agente, probabilmente avrebbe colpito Grady al petto, considerando la sua posizione. Ma il rischio era che il colpo venisse deviato e che Grady restasse solo ferito e cercasse protezione dietro una macchina. Be', doveva fare qualcosa, e alla svelta. Il poliziotto stava parlando alla radio. Sarebbero arrivati un centinaio di altri agenti di lì a poco. Andiamo, elemento indispensabile, si disse, che cosa vuoi fare? Sotto di lui, il poliziotto si stava guardando attorno e continuava a coprire Grady, accucciato come una femmina di retriever intento a urinare. D'accordo. Decise che avrebbe sparato al poliziotto colpendolo alla coscia. In quel modo, molto probabilmente, l'agente sarebbe caduto all'indietro lasciando scoperto il procuratore. Il Colt semiautomatico poteva spara-
re cinque colpi in due secondi. Forse non era un piano perfetto ma era il migliore a cui Hobbs riuscisse a pensare. Decise di dare al poliziotto qualche altro istante per farsi da parte. Aveva entrambi gli occhi aperti e col destro guardava attraverso il mirino, dipingendo la schiena del detective con il reticolo e pensando che una volta tornato a Canton Falls avrebbe inventato un racconto della Bibbia basato su quegli avvenimenti. Gesù avrebbe interpretato il suo ruolo e sarebbe stato armato con un arco strepitoso e avrebbe teso un'imboscata a un gruppo di soldati che avevano torturato dei cristiani. Giulio Cesare si sarebbe nascosto dietro uno dei soldati pensando di essere al sicuro ma Gesù avrebbe scoccato una freccia trapassando il soldato e uccidendo quel figlio di puttana. Un'ottima storia. I bambini l'avrebbero adorata. Il poliziotto continuava a coprire il procuratore. Be', adesso ne ho abbastanza, pensò Hobbs, facendo scattare la sicura del grosso Colt. Il tempo è scaduto. Bruciate all'inferno, romani assassini di Cristo. Spostò il reticolo sulla parte posteriore della coscia del poliziotto e cominciò a premere il grilletto pensando che gli dispiaceva soltanto che l'agente fosse un bianco e non un nero. Ma se c'era una cosa che Hobbs Wentworth aveva imparato era che bisognava sempre colpire i propri bersagli ogni volta, quali che fossero. 40 Roland Bell avvertì l'inconfondibile odore di plastica/sudore/metallo del Motorola che si era portato al viso. «UE Quattro, siete pronti, passo?» disse nel microfono. «Roger, passo», rispose uno dei membri della squadra. «Okay, ora...» E fu allora che risuonarono gli schiocchi attutiti di alcuni colpi attraverso il canyon della strada. Bell trasalì. «Spari!» gridò Charles Grady. «Ho sentito degli spari! Ti hanno colpito?» «Resta giù», ordinò Bell accovacciandosi. Girò su se stesso sollevando la pistola e fissando l'edificio governativo dall'altra parte della strada. Stava contando freneticamente.
«Ho localizzato il punto», disse nella radio. «Terzo piano, quinto ufficio dall'estremità nord del palazzo.» Poi esaminò il vetro. «Ouch.» «Puoi ripetere, passo?» disse uno degli agenti. «Ho detto'ouch'.» «Uhm. Roger. Chiudo.» Grady, sdraiato sul marciapiede, domandò: «Cosa sta succedendo?» Fece per alzarsi. «Resta dove sei», gli impose il detective, alzandosi in piedi cautamente. Spostò lo sguardo dalla finestra ed esaminò il marciapiede attorno a loro. Era possibile che ci fossero altri cecchini nelle vicinanze. Un attimo dopo, un mezzo blindato dell'Unità Emergenze si fermò sul ciglio della strada e nel giro di cinque secondi Bell e Grady furono fatti salire a bordo. Il veicolo si allontanò con uno stridore di pneumatici, riportando il procuratore nell'Upper East Side dalla sua famiglia. Bell si lanciò un'occhiata alle spalle e vide altri agenti dell'UE che entravano di corsa nel palazzo di fronte al tribunale. Non preoccuparti... sarà lui a trovare noi. Be', dannazione: li aveva trovati. Bell aveva concluso che il modo migliore per colpire Grady sarebbe stato sparargli dal palazzo di uffici dall'altra parte della strada. Era del tutto probabile che il killer si introducesse in uno degli uffici dei piani inferiori che si affacciavano su quella parte. Era improbabile che decidesse di sparare dal tetto, monitorato da decine di telecamere a circuito chiuso. Bell era rimasto all'aperto per fare da esca perché, grazie all'azione a cui aveva partecipato, conosceva un particolare di quell'edificio: le finestre, come in molti dei nuovi palazzi governativi, non potevano essere aperte ed erano di vetro infrangibile a prova di bomba. C'era stato un piccolo margine di rischio che il cecchino potesse essere munito di pallottole perforanti che avrebbero potuto trapassare il vetro spesso quasi tre centimetri. Ma Bell si era ricordato un'espressione che aveva sentito durante le indagini su un caso un paio di anni prima: «Dio non regala certezze». Aveva corso il rischio di attirare il cecchino portandolo a sparare, nella speranza che la pallottola incrinasse la finestra rivelando così la posizione dell'uomo. E la sua idea aveva funzionato... ma con una variazione, come aveva spiegato alla squadra dell'UE. Ouch... «UE Quattro a Bell. Sono Haumann. Avevi ragione, passo.»
«Continua, passo.» Il comandante tattico continuò: «Siamo dentro. La scena è sicura. Solo, come chiamano quel premio? Il Premio Darwin? Sai, quello che danno ai criminali che fanno cose stupide, passo». «Roger», rispose Bell. «Dove si è ferito, passo?» Bell aveva localizzato il cecchino non grazie al vetro incrinato ma a causa di una grande chiazza di sangue che era comparsa sulla finestra. Il capo dell'UE spiegò che l'uomo aveva sparato contro Bell pallottole rivestite di rame che erano rimbalzate sul vetro, si erano frantumate e avevano colpito il cecchino stesso in una mezza dozzina di punti, ma soprattutto all'inguine dove, a quanto pareva, avevano reciso un'arteria o una vena. L'uomo era già svenuto per la perdita di sangue quando gli agenti dell'UE erano arrivati nell'ufficio. «Dimmi che è Weir, passo», disse Bell. «No. Mi dispiace. È un uomo che si chiama Hobbs Wentworth. Abita a Canton Falls.» Bell fece una smorfia rabbiosa. Quindi Weir e forse altri che lavoravano con lui erano ancora in circolazione. «Avete trovato qualche indicazione su ciò che ha in mente Weir o su dove potrebbe essere?» «Negativo», rispose il comandante dalla voce rauca. «Solo i suoi documenti. E, tieniti forte, un libro di storie della Bibbia per bambini.» Ci fu una pausa. «Mi spiace dirtelo ma abbiamo un'altra vittima, Roland. Wentworth a quanto pare ha ucciso una donna per introdursi nel palazzo... Okay, sigilleremo il posto e continueremo a cercare Weir. Chiuso.» Il detective scosse la testa; si rivolse a Grady: «Non c'è traccia di Weir». E, naturalmente, era quello il problema. Forse avevano trovato diverse tracce di Weir, forse avevano trovato persino Weir stesso — travestito da poliziotto, da paramedico, da agente dell'UE, da reporter, da detective in borghese, da passante o da barbone — e semplicemente non lo sapevano. Dalla finestra ingiallita della stanza degli interrogatori, Andrew Constable poteva vedere il volto severo di una grossa guardia di colore che lo stava fissando. Il volto scomparve quando l'uomo si allontanò dalla porta. Constable si alzò e passò accanto al suo avvocato, avvicinandosi alla finestra. Guardò fuori e vide le guardie nel corridoio che parlavano tra di loro con aria cupa. D'accordo. «Che cosa c'è?» domandò Joseph Roth al suo cliente.
«Niente», rispose Constable. «Non ho detto niente.» «Oh, mi sembrava che avessi detto qualcosa.» «No.» Tuttavia si chiese se non avesse detto veramente qualcosa, fatto un qualche commento, mormorato una preghiera. Tornò al tavolo di metallo e l'avvocato sollevò lo sguardo da un blocco di fogli gialli su cui era scritta una decina di nomi e numeri di telefono che gli uomini di Constable a Canton Falls avevano appena fornito in risposta alle loro domande su ciò che Weir potesse avere in mente e su dove potesse trovarsi. Roth sembrava a disagio. Avevano appena scoperto che qualche minuto prima un uomo armato di fucile aveva tentato di sparare a Grady dall'edificio di fronte al tribunale. Ma non si trattava di Weir, che non era ancora stato individuato. «Temo che Grady sarà troppo spaventato per trattare con noi. Penso che dovremmo chiamarlo a casa e dirgli cosa abbiamo trovato», disse picchiettando con un dito sui fogli. «O almeno dare questa roba a quel detective. Come si chiama? Bell, giusto?» «Esatto», concordò Constable. Scorrendo con un dito paffuto la lista di nomi e numeri, Roth aggiunse: «Pensi che qualcuna di queste persone potrà dirci qualcosa di più specifico sul conto di Weir? È questo che vogliono: qualcosa di più specifico». Constable si sporse in avanti e guardò la lista. Quindi spostò lo sguardo sull'orologio dell'avvocato. Scosse lentamente la testa. «Ne dubito», rispose. «Ne... ne dubiti?» «Già. Vedi il primo numero?» «Sì.» «È quello della lavanderia a secco di Harrison Street a Canton Falls. E quello sotto è il numero del supermarket. E il successivo è quello della chiesa battista. E quei nomi?» continuò il prigioniero. «Ed Davis, Breet Samuels, Joe James Watkins?» «Esatto», disse Roth. «I complici di Jeddy Barnes.» Constable emise una risatina. «Dio, no. Sono tutti inventati.» «Cosa?» Roth si accigliò. Sporgendosi verso di lui, il prigioniero fissò il suo sguardo confuso. «Sto dicendo che quei nomi e quei numeri sono falsi.» «Non capisco.» Constable sussurrò: «Naturalmente non capisci, patetico ebreo del caz-
zo», e colpì con i pugni l'avvocato ai lati della testa senza lasciargli il tempo di sollevare le braccia per proteggersi. 41 Andrew Constable era un uomo forte, che si era tenuto in forma andando a caccia e a pesca in territori sperduti, scuoiando cervi, segando ossa e tagliando legna. Il paffuto Joe Roth non poté niente contro di lui. L'avvocato tentò di alzarsi e chiedere aiuto ma Constable lo colpì con violenza alla gola. Il grido dell'uomo si trasformò in un suono gorgogliante. Il prigioniero lo trascinò a terra e cominciò a tempestarlo di pugni. Nel giro di pochi istanti, Roth aveva perso i sensi, il volto gonfio come un melone. Constable lo trascinò fino al tavolo e lo sistemò sulla sedia con la schiena rivolta alla porta. Se una delle guardie avesse lanciato un'occhiata dentro la stanza avrebbe avuto l'impressione che Roth stesse leggendo, il capo chino su alcuni documenti. Constable si accovacciò, tolse all'avvocato una scarpa e un calzino che usò per pulire il sangue dal tavolo come meglio poté, quindi coprì il resto delle macchie con fogli e documenti. Avrebbe ucciso l'avvocato più tardi. Per il momento, almeno per qualche minuto, avrebbe avuto bisogno di quella scena apparentemente innocente. Qualche minuto... poi sarebbe stato libero. Libertà... La sua libertà era lo scopo ultimo del piano di Erick Weir. Il migliore amico di Constable, Jeddy Barnes, il secondo in comando dell'Alleanza Patriottica, aveva assoldato Weir non per uccidere Grady ma per far fuggire il prigioniero dal sorvegliatissimo Centro di Detenzione di Manhattan attraverso il Ponte dei Sospiri e fargli raggiungere le foreste del New England, dove l'Alleanza avrebbe potuto riprendere la sua missione, la sua guerra contro gli impuri, i corrotti e gli ignoranti. Per liberare l'America dai neri, dai gay, dagli ebrei, dagli ispanici, dagli stranieri... da «Quelli» contro cui Constable si scagliava nei suoi discorsi settimanali all'Alleanza Patriottica e sui suoi siti web segreti frequentati da migliaia di cittadini benpensanti di tutto il Paese. Constable si alzò in piedi, raggiunse la porta e guardò fuori. Le guardie non avevano idea di ciò che era accaduto nella stanza degli interrogatori. Al prigioniero venne in mente che avrebbe dovuto procurarsi un'arma di qualche tipo, così dalla camicia insanguinata dell'avvocato prese un porta-
mine di metallo e ne avvolse la parte inferiore nel calzino insanguinato per proteggersi la mano. La punta affilata sarebbe stata perfetta per colpire qualcuno. Poi tornò a sedersi di fronte a Roth e ad aspettare, pesando al piano messo a punto da Weir, l'«Uomo Magico» come lo chiamava Barnes. Era un capolavoro composto da decine di trucchi da illusionista. Finte e doppie finte, tempi calcolati alla perfezione, astute diversioni. All'inizio Weir avrebbe abilmente convinto la polizia che fosse in atto una cospirazione per uccidere Grady. Il reverendo Ralph Swensen sarebbe stato usato proprio a questo scopo. L'attentato fallito avrebbe rafforzato la convinzione dei poliziotti che vi fosse un piano per assassinare il procuratore e avrebbe sviato l'attenzione degli agenti da altri crimini: come l'evasione da quella prigione, per esempio. Weir si sarebbe fatto intenzionalmente catturare durante un secondo attentato alla vita di Grady e sarebbe stato portato al Centro di Detenzione. Nel frattempo, Constable avrebbe dovuto architettare qualche diversione. Avrebbe convinto i suoi carcerieri con la voce della ragione dichiarandosi innocente e offrendosi di consegnare loro Barnes e gli altri cospiratori. Constable avrebbe persino cercato di aiutare gli agenti a individuare l'illusionista, convincendo ulteriormente la polizia della sua buonafede e guadagnandosi così l'opportunità di comunicare un messaggio in codice riguardo alla sua esatta posizione nel Centro di Detenzione, che Barnes avrebbe riferito a Weir. Quando Grady fosse arrivato, Hobbs Wentworth avrebbe cercato di ucciderlo, ma che ci riuscisse o meno non aveva alcuna importanza; ciò che contava veramente era che avrebbe sviato l'attenzione della polizia dal Centro di Detenzione. Quindi Weir — che, dopo avere simulato la propria morte, si stava aggirando liberamente nell'edificio travestito da guardia — avrebbe raggiunto Constable e lo avrebbe liberato. C'era un'altra parte del piano, un aspetto su cui Constable aveva riflettuto per settimane. Jeddy Barnes gli aveva detto che avrebbe dovuto occuparsi del suo avvocato prima dell'arrivo di Weir nella stanza degli interrogatori. «Che cosa significa?» «Weir ha detto che devi decidere tu. Ha detto solo che devi occuparti di Roth in modo che non vi stia tra i piedi.» Ora, guardando il sangue che gocciolava dagli occhi e dalla bocca dell'avvocato, pensò: Be', mi sono occupato dell'ebreo. Constable si stava chiedendo che metodo avrebbe usato Weir per uccide-
re le guardie, che tipo di travestimento aveva preparato per lui, quale via di fuga avrebbe scelto, quando, con tempismo perfetto, sentì l'inconfondibile ronzio della porta esterna che si apriva. Ah, il suo carro della libertà era arrivato. Trascinò Roth in un angolo della stanza e lo abbandonò lì, afflosciato su se stesso. Pensò di ucciderlo subito, schiacciandogli la carotide con un calcio. Ma si disse che probabilmente Weir aveva una pistola dotata di silenziatore. Oppure un coltello. Avrebbe potuto usare una delle sue armi. Sentì il «clic» di una chiave che entrava nella serratura della stanza degli interrogatori. La porta si spalancò. Per una frazione di secondo pensò: Incredibile! Weir era riuscito a trasformarsi in una donna. Ma subito dopo si ricordò di lei: era l'agente dai capelli rossi che aveva visto in compagnia del detective Bell il giorno prima. «C'è un ferito, qui», gridò la donna guardando Roth. «Serve un dottore, subito!» Alle spalle della donna, una guardia afferrò un telefono e un'altra premette un pulsante rosso sulla parete, facendo scattare un rumoroso allarme che riecheggiò nel corridoio. Cosa stava accadendo? Constable non riusciva a capire. Dov'era Weir? Quando tornò a guardare la donna vide che impugnava una bomboletta di spray al pepe — la sola arma permessa all'interno del Centro di Detenzione. Pensò in fretta e prese una decisione. Cominciò a gemere disperato, tenendosi le mani sul ventre. «Qualcuno è entrato qui! Un altro prigioniero. Ha cercato di ucciderci!» Nascondendo la matita appuntita, si strinse la mano insanguinata sullo stomaco. «Sono ferito. Sono stato accoltellato!» Una rapida occhiata oltre la porta. Dell'Uomo Magico ancora nessuna traccia. La donna si accigliò e osservò rapidamente la cella mentre Constable si accasciava sul pavimento, pensando: Quando si avvicinerà, la colpirò in faccia. Magari riuscirò a cavarle un occhio. Le avrebbe portato via lo spray, glielo avrebbe spruzzato in bocca o negli occhi. Puntandole la matita contro la schiena, forse sarebbe riuscito a convincere le guardie che aveva una pistola e a farsi aprire la porta. Weir doveva essere vicino... forse proprio ora stava attraversando le porte di sicurezza.
Andiamo, tesoro. Avvicinati ancora un po'. Probabilmente ha un giubbotto antiproiettile, rifletté Constable; mira al suo bel faccino. «Il suo avvocato?» chiese la donna, chinandosi su Roth. «Anche lui è stato accoltellato?» «Sì! È stato un prigioniero di colore. Ha detto che sono un razzista e che voleva darmi una lezione.» Aveva il capo chino ma riusciva a sentire che la donna si stava avvicinando. «Joe ha una brutta ferita. Dobbiamo salvarlo.» Ancora pochi passi... E nel caso sia un bianco e abbia un'aria intelligente — se ha ancora tutti i denti e non indossa abiti che puzzano di piscio vecchio — be', allora, non impiegate un po' più di tempo a tirare il grilletto? Constable gemette. La donna era molto vicina. Lei disse: «Mi faccia vedere la ferita». Lui strinse saldamente la matita. Si preparò a scattare. Alzò lo sguardo e vide il suo bersaglio. Ma vide anche la bomboletta di spray al pepe a trenta centimetri dai suoi occhi. La donna premette il pulsante e il getto lo colpì in pieno volto. Un centinaio di aghi arroventati gli trapassarono la bocca, il naso e gli occhi. Constable urlò mentre l'agente gli strappava la matita di mano e gli sferrava un calcio alla schiena. «Ma perché lo ha fatto?» gridò lui, sollevandosi su un gomito. «Perché?» La donna rifletté un attimo sulla risposta e alla fine lo colpì con un alto getto di spray infuocato. 42 Amelia Sachs ripose la bomboletta di spray al pepe. Il futuro sergente dentro di lei era un po' turbato per il secondo e gratuito spruzzo sul viso di Constable. Ma avendo notato il coltello a quattordici carati seminascosto nella mano dell'uomo, Amelia, il poliziotto di strada, fu felice nel sentire quello schifoso bigotto squittire come un maiale mentre gli spruzzava di nuovo lo spray. Si fece da parte per lasciar passare le due guardie del piano, che afferrarono il prigioniero e lo trascinarono fuori dalla stanza. «Un dottore! Ho bisogno di un dottore. I miei occhi! Ho diritto a un dot-
tore.» «Te lo ripeto, sta' zitto.» Le guardie lo trascinarono lungo il corridoio. Constable cercò di divincolarsi. Le due guardie si fermarono, gli ammanettarono le caviglie e poi insieme al prigioniero sparirono dietro l'angolo. Amelia e altre due guardie si occuparono di Joseph Roth. Respirava ancora ma aveva perso i sensi ed era ferito gravemente. Amelia decise che sarebbe stato meglio non spostarlo. I paramedici non tardarono ad arrivare e, dopo che lei ebbe controllato i loro documenti, si misero al lavoro sull'avvocato liberandogli le vie respiratorie e mettendogli un collare attorno al collo, e alla fine lo spostarono su una barella. Lo portarono fuori dall'area di massima sicurezza per trasportarlo in ospedale. Amelia fece un passo indietro e osservò la stanza e il corridoio per assicurarsi che Weir non fosse entrato di nascosto. No, era certa che non fosse lì. Poi uscì, e solo quando l'agente all'ingresso le restituì la Glock cominciò a sentirsi più a suo agio. Chiamò Rhyme per raccontargli l'accaduto. Quindi aggiunse: «Constable lo stava aspettando, Rhyme». «Stava aspettando Weir?» «Penso di sì. Mi è sembrato talmente sorpreso quando ho aperto la porta. Ha cercato di nasconderlo, ma ho capito subito che stava aspettando qualcuno.» «Quindi è questo il vero scopo di Weir, far evadere Constable.» «Suppongo di sì.» «Dannate diversioni», borbottò il criminologo. «Ci ha fatti concentrare sul piano per uccidere Grady. Non ho pensato nemmeno per un attimo che il suo obiettivo fosse un'evasione.» Poi aggiunse: «A meno che la fuga non sia una diversione e il compito di Weir sia davvero uccidere Grady». Amelia rifletté per un istante. «Anche questo avrebbe senso.» «Nessuna traccia di Weir?» «No, nessuna.» «Okay. Sto ancora studiando le prove che hai raccolto al Centro di Detenzione, Sachs. Torna qui e le analizzeremo insieme.» «Non posso, Rhyme», rispose lei scrutando il corridoio occupato da decine di persone incuriosite da ciò che era accaduto nell'area di massima sicurezza. «Weir dev'essere qui da qualche parte. Continuo la caccia.» Il metodo Suzuki per insegnare ai bambini a suonare il pianoforte è basato sullo studio di una serie di libri di musica sempre più complessi che contengono circa una decina di pezzi ciascuno. Quando uno studente com-
pleta uno dei libri con successo, spesso i genitori organizzano una piccola festa a cui partecipano amici, familiari e l'insegnante di musica, che possono così assistere a una sua esibizione. La festa per Christine Grady in occasione del completamento del terzo volume del metodo Suzuki si sarebbe tenuta di lì a una settimana e la bambina si stava esercitando per il suo mini concerto. Ora era seduta nella stanza della musica dell'appartamento dove viveva con la sua famiglia e stava finendo il Cavaliere Selvaggio di Schumann. La stanza era piccola e poco luminosa ma a Chrissy piaceva molto. C'erano alcune sedie, scaffali pieni di spartiti e un bellissimo, lucido pianoforte a coda. Con qualche difficoltà, suonò il movimento andante della Sonatina in Do di Clementi, quindi si premiò eseguendo la Sonatina di Mozart, uno dei suoi brani preferiti. Non pensava di essere ancora molto brava, però. Era distratta dagli agenti di polizia che erano nell'appartamento. I poliziotti erano tutti molto gentili e le chiedevano con sorrisi carini di Guerre Stellari, Harry Potter o dei giochi della X-box. Ma Chrissy sapeva che non stavano sorridendo davvero; stavano solo cercando di farla sentire a suo agio. Solo che tutti quei falsi sorrisi servivano solo a spaventarla ancora di più. Perché, anche se gli agenti non dicevano nulla, il fatto che la polizia fosse lì significava che qualcuno stava cercando di fare del male al suo papà. Chrissy non aveva paura che qualcuno volesse fare del male a lei. La cosa che la terrorizzava era l'idea che un uomo cattivo volesse portarle via il suo papà. Le sarebbe piaciuto che papà abbandonasse il lavoro che stava facendo in tribunale. Una volta aveva trovato il coraggio di chiederglielo. Ma lui le aveva risposto: «Quanto ti piace suonare il piano, tesoro?» «Un sacco.» «Be', per me è lo stesso con il mio lavoro.» «Oh. Va bene», aveva detto lei. Tuttavia non andava bene per niente. Perché se suonavi il piano le gente non ti odiava e non cercava di ucciderti. Chrissy strinse gli occhi e si concentrò. Sbagliò un passaggio e lo provò nuovamente. E ora aveva scoperto che sarebbero dovuti andare a vivere in un altro posto per un po'. Solo per un giorno o due, aveva detto mamma. Ma se invece avessero dovuto restarci di più? E se avessero dovuto cancellare la sua festa? Preoccupata, smise di suonare, chiuse lo spartito e fece per metterlo nella cartella. Ehi, guarda qui!
Sul leggio c'era un cioccolatino alla menta. Non era nemmeno uno di quelli piccoli, ma uno di quelli che vendevano al Food Emporium. Si domandò chi l'avesse lasciato lì. A sua madre non piaceva che si mangiasse nella stanza della musica e a Chrissy non era permesso mangiare caramelle o dolciumi appiccicosi mentre suonava. Forse era stato il suo papà. Sapeva che era preoccupato per lei per via di tutti i poliziotti che c'erano in casa e che era dispiaciuto che non fosse riuscita a prendere parte allo spettacolo alla Neighborhood School la sera prima. Sì, doveva essere proprio così: un regalo segreto del suo papà. Chrissy si voltò e lanciò un'occhiata attraverso la porta socchiusa. Vide delle persone che camminavano avanti e indietro. Sentì la voce calma di quel gentile poliziotto del North Carolina, che aveva due figli che voleva farle conoscere. Sua madre stava portando una valigia fuori dalla camera da letto. Aveva un'espressione infelice e stava dicendo: «È una follia. Perché non riuscite a trovarlo? Lui è un uomo solo. Voi siete centinaia. Non capisco». Chrissy si appoggiò allo schienale della sedia, aprì la carta stagnola e mangiò lentamente il dolcetto. Quando ebbe finito, si controllò con cura le dita. Sì, era sporca di cioccolato. Sarebbe andata in bagno a lavarsi le mani. E ne avrebbe approfittato per buttare nel water la carta del cioccolatino, così sua madre non l'avrebbe trovata. Si sarebbe «sbarazzata delle prove», un'espressione che aveva imparato guardando CSI, una serie che i suoi genitori le avevano proibito ma che lei di tanto in tanto riusciva a vedere. Roland Bell era tornato sano e salvo insieme a Charles Grady nell'appartamento del procuratore, dove la moglie e la figlia stavano facendo le valigie per trasferirsi in una casa sicura del Dipartimento di Polizia di New York, nella zona di Murray Hill. Il detective aveva chiuso tutte le tende e aveva detto ai Grady di tenersi lontani dalle finestre. Notò che quell'ordine aveva aumentato il loro disagio. Ma il suo compito non era quello di tranquillizzarli, bensì di proteggerli da un killer astuto e spietato. Il suo cellulare si mise a squillare. Era Rhyme. «Tutto tranquillo lì?» volle sapere il criminologo. «Tranquillissimo», rispose Bell. «Constable è in una cella di massima di sicurezza.» «E noi sappiamo chi sono le sue guardie, vero?» domandò Bell. «Amelia ha detto che Weir potrà anche essere molto bravo, ma non sa-
rebbe mai capace di trasformarsi in due sosia di Shaquille O'Neal.» «Benissimo. Come sta l'avvocato?» «Roth? Se la caverà. Ma è stato pestato davvero duramente. Io...» Rhyme fu interrotto da qualcun altro nella stanza che si era messo a parlare. Bell ebbe l'impressione di riconoscere la voce pacata di Mel Cooper. Poi il criminologo riprese. «Sto ancora analizzando ciò che Amelia ha trovato sulle scene del crimine al Centro di Detenzione. Non ho ancora una pista precisa, ma abbiamo trovato qualcos'altro di cui ti volevo parlare. Bedding e Saul alla fine sono riusciti a trovare la stanza del Lanham Arms corrispondente alla chiave.» «A nome di chi è registrata?» «A qualcuno che ha dato nome e indirizzo falsi», spiegò Rhyme. «Ma l'addetto alla reception ha detto che l'ospite corrispondeva perfettamente alla descrizione di Weir. Quelli della scientifica non hanno trovato molto, a parte una siringa caduta dietro la cassettiera. Non sappiamo se sia stato Weir a lasciarla lì. Ma parto dal presupposto che fosse sua. Nell'ago, Mel ha trovato tracce di cioccolato e saccarosio.» «Saccarosio... sarebbe zucchero, giusto?» «Esatto. Invece nel serbatoio della siringa sono state ritrovate tracce di arsenico.» Bell disse: «Quindi ha iniettato il veleno in un dolce». «Pare di sì. Chiedi ai Grady se hanno ricevuto scatole di cioccolatini ultimamente.» Bell girò la domanda al procuratore e a sua moglie che scossero la testa, sbalorditi. «No, non teniamo dolci in casa», disse la moglie del procuratore. Allora il criminologo disse a Bell: «Hai detto che il Negromante vi ha sorpresi introducendosi nell'appartamento di Grady, oggi pomeriggio». «Già. Pensavamo di catturarlo nell'atrio, nel seminterrato o sul tetto. Non ci saremmo mai aspettati che entrasse dalla porta principale.» «Una volta dentro, dov'è andato?» «Si è presentato in soggiorno. Ci ha fatto prendere un bello spavento.» «Quindi potrebbe aver avuto il tempo di lasciare delle caramelle o dei dolci in cucina.» «No, non può essere entrato in cucina», spiegò Bell. «C'eravamo Lon e io, lì.» «In quali altre stanze potrebbe essere entrato?» Bell pose quella domanda a Grady e sua moglie.
«Che succede, Roland?» chiese il procuratore. «Lincoln ha trovato nuove prove e pensa che Weir potrebbe aver cercato di mettere del veleno da qualche parte, qui in casa. Probabilmente in un dolce. Non ne siamo sicuri ma...» «Un dolce?» chiese una vocina alle loro spalle. Bell, i Grady e altri due poliziotti assegnati alla protezione del procuratore si voltarono e videro Chrissy che fissava il detective con gli occhi sgranati per la paura. «Chrissy?» chiese sua madre. «Cosa c'è?» «Un dolce?» disse la bambina con un filo di voce. Un involucro di carta stagnola le scivolò da una mano, e la piccola cominciò a singhiozzare. Con le mani madide di sudore, Bell osservò i passanti che stavano camminando sul marciapiede davanti al palazzo dove viveva Charles Grady. Decine di persone. Weir era uno di loro? O qualcun altro di quella stramaledetta Alleanza Patriottica? L'ambulanza si fermò li davanti e due paramedici scesero di corsa. Prima che varcassero la soglia di casa, il detective controllò con attenzione i loro documenti. «Ma cosa sta succedendo?» chiese uno dei due, offeso, Bell lo ignorò e scrutò le auto ferme sul ciglio della strada, i passanti, le finestre dei palazzi vicini. Quando fu certo che non ci fossero pericoli, fece un fischio e il silenzioso Luis Martinez, accompagnato dalla signora Grady, portò fuori la bambina e la fece salire sull'ambulanza. Chrissy non mostrava sintomi di avvelenamento, eppure sembrava pallida e singhiozzava spaventata. Aveva mangiato un cioccolatino alla menta che si era misteriosamente materializzato nella stanza della musica. Far del male ai bambini era un gesto di una malvagità inconcepibile, e anche se per un attimo Bell aveva creduto alle suadenti parole di Constable, quell'orribile fatto sottolineava l'assoluta depravazione dei membri dell'Alleanza Patriottica. Differenze tra culture? Differenze tra razze? Nossignore. C'è un'unica differenza. Ed è quella tra il bene e la giustizia e il male. Se la bambina fosse morta, Bell si sarebbe impegnato con tutte le sue forze per fare in modo che Weir e Constable ricevessero una punizione adeguata a ciò che era stato fatto a Chrissy: un'iniezione letale.
«Non preoccuparti, tesoro», disse alla bambina mentre uno dei paramedici le controllava la pressione. «Andrà tutto bene.» Chrissy rispose con deboli singhiozzi. Il detective guardò la signora Grady che sul volto aveva un'espressione di tenerezza che però non riusciva a mascherare una furia ancora più grande di quella di Bell. Il detective chiamò la centrale via radio e si fece mettere in comunicazione con il pronto soccorso dell'ospedale dove si stavano dirigendo a tutta velocità. Disse al supervisore: «Saremo in accettazione tra due minuti. Adesso mi stia a sentire: voglio la zona e il percorso che porta al Centro Controllo Veleni completamente sgombri. Non voglio un'anima, lì, a meno che non abbia un tesserino di identificazione con tanto di fotografia». «Be', detective, non possiamo farlo», rispose la donna. «È uno dei punti più trafficati dell'ospedale.» «Non transigo su questo punto, signora.» «Ah, davvero?» «C'è un criminale armato che sta dando la caccia a questa bambina e alla sua famiglia. E se vedrò qualcuno senza tesserino nelle vicinanze, lo ammanetterò senza tanti complimenti.» «Questo è un pronto soccorso, detective», ribatté la donna stizzita. «Sa di quante persone mi sto occupando in questo momento?» «No, signora, non lo so. Ma sappia che finiranno tutte legate o ammanettate se non saranno fuori dai piedi per quando saremo lì. E, a proposito, arriveremo tra meno di due minuti.» 43 «I casi cambiano colore.» Charles Grady sedeva chino in avanti su una sedia di plastica arancione in una delle sale d'aspetto del reparto di terapia intensiva, e fissava il linoleum verde del pavimento consumato dai passi di migliaia di persone disperate. «I casi criminali, voglio dire.» Roland Bell sedeva accanto a lui. Il vigile e robusto Luis era fermo sulla soglia e poco lontano, all'ingresso del corridoio affollato, c'era un altro agente della squadra di Bell, Graham Wilson, un detective bello e prestante con occhi attenti e duri, talmente abile nell'individuare se una persona aveva addosso delle armi da sembrare dotato della vista a raggi X. La moglie di Grady aveva accompagnato Chrissy nel pronto soccorso
vero e proprio insieme a Luis e a un altro agente. «Alla facoltà di legge avevo un professore», continuò Grady, immobile come un pezzo di legno. «Era stato procuratore e poi giudice. Una volta durante una lezione ci ha raccontato che in tutti quegli anni di lavoro non aveva mai visto un caso in cui tutto fosse rigorosamente bianco o nero. C'erano solo diverse sfumature di grigio. Talvolta c'erano sfumature di grigio dannatamente scure e altre volte dannatamente chiare. Ma comunque si trattava sempre e solo di grigio.» Bell scrutò il corridoio in direzione della sala d'attesa improvvisata che l'infermiera di turno aveva dovuto allestire per skater e ciclisti feriti. Come aveva chiesto Bell, la «loro» parte dell'ospedale era stata sgombrata. «Ma diceva anche che quando si viene coinvolti in un caso, questo cambia colore e tutto diventa davvero bianco o nero. Che tu lavori per l'accusa o la difesa, il grigio scompare. La tua parte diventa buona al cento per cento. E la parte opposta diventa cattiva al cento per cento. Giusto o sbagliato. Secondo lui, questa era una cosa da evitare. Non bisogna mai dimenticarsi che tutti i casi in realtà sono grigi.» Bell notò un infermiere. Il giovane ispanico sembrava del tutto inoffensivo, tuttavia il detective fece un cenno a Wilson, che lo fermò e controllò i suoi documenti. Quindi rivolse un cenno di assenso a Bell. Chrissy era in sala operatoria ormai da quindici minuti. Possibile che nessuno fosse ancora venuto a informarli sulla situazione? Grady continuò: «Sai, Roland, in tutti questi mesi, da quando abbiamo scoperto la cospirazione di Canton Falls, ho continuato a considerare il caso Constable bianco e nero. Non l'ho mai considerato grigio, nemmeno per un istante. Ho usato contro di lui tutto quello che avevo». Una risata triste. Tornò a guardare il corridoio e il suo cupo sorriso svanì. «Dove diavolo è quel dottore?» Chinò di nuovo la testa. «Forse se l'avessi visto grigio, se non mi fossi accanito così contro di lui, se avessi accettato qualche compromesso, Constable non avrebbe assoldato Weir. Forse non avrebbe...» Con un cenno indicò la sala operatoria dove si trovava sua figlia in quel momento. Un singhiozzò gli spezzò la voce e il procuratore pianse in silenzio per qualche istante. «Penso che il tuo professore avesse torto, Charles. Almeno quando si tratta con persone come Constable. Chiunque sia capace di fare ciò che ha fatto lui, be', non si merita alcuna sfumatura di grigio», lo consolò Bell. Grady si asciugò le lacrime.
«I tuoi ragazzi, Roland. Sono mai stati in ospedale?» Solo quando erano andati a trovare la madre, verso la fine, fu il primo pensiero del detective. Ma Bell non disse niente in proposito. «Qualche volta. Ma mai per qualcosa di serio, solo per quei piccoli incidenti che possono capitare giocando a softball.» «Be'», disse Grady, «è una cosa che ti distrugge.» Un'altra occhiata verso il corridoio deserto. «Ti distrugge.» Pochi minuti dopo il detective notò un movimento nel corridoio. Un dottore con un camice verde vide Grady e si avvicinò lentamente a lui e a Bell. Il detective non riuscì a interpretare l'espressione sul suo volto. «Charles», mormorò. Ma, anche se aveva il capo chino, Grady si era accorto che il dottore si stava avvicinando. «Bianco e nero», sussurrò. «Dio mio.» Si alzò per parlare con il dottore. Lincoln Rhyme stava guardando fuori dalla finestra il cielo della sera, quando squillò il telefono. «Comando, risposta telefono.» Clic. «Sì?» «Lincoln? Sono Roland.» Mel Cooper si voltò e lo guardò con aria grave. Sia lui che il criminologo sapevano che Bell era in ospedale con Christine Grady e la sua famiglia. «Dimmi tutto.» «La bambina sta bene.» Cooper chiuse gli occhi per un istante, e un protestante non fu mai così vicino a farsi il segno della croce. Anche Rhyme provò un'ondata di sollievo. «Niente veleno?» «No, niente. Era un semplicissimo cioccolatino. Nemmeno l'ombra di una tossina.» «Così anche questa era una diversione», rifletté il criminologo ad alta voce. «Sembra proprio di sì.» «Ma cosa diavolo significa?» domandò Rhyme a bassa voce, la domanda rivolta non tanto a Bell quanto a se stesso. Il detective suggerì: «Il fatto che Weir continui a portarci verso i Grady
mi fa pensare che abbia intenzione di tentare qualcos'altro per far evadere Constable. Adesso è nel tribunale, da qualche parte». «State andando alla casa protetta?» «Sì. Io e tutta la famiglia. Usciremo di là solo quando avrete preso il nostro uomo.» Quando? E perché non se? Riappesero. Rhyme si allontanò dalla finestra e pilotò la Storm Arrow fino alla tabella delle prove. La mano è più veloce dell'occhio. Solo che non è così. Che cosa aveva in mente Erick Weir, il grande illusionista? Con i muscoli del collo dolorosamente tesi, il criminologo guardò fuori dalla finestra e rifletté sull'enigma che dovevano risolvere. Hobbs Wentworth, il sicario, era morto e Grady e la sua famiglia erano al sicuro. Era chiaro che Constable si era preparato a fuggire dalla stanza degli interrogatori alle Tombe ma Weir non aveva compiuto alcun tentativo evidente di aiutarlo nell'evasione. Quindi a quanto pareva i piani di Weir stavano andando a monte. Ma Rhyme non poteva accettare conclusioni così ovvie. Con il finto attentato alla vita di Christine Grady, Weir aveva distolto la loro attenzione dal Centro di Detenzione e Rhyme ora propendeva per la conclusione di Bell secondo la quale ben presto ci sarebbe stato un nuovo tentativo di far evadere Constable. O forse stava per succedere qualcos'altro, forse Weir avrebbe tentato di uccidere Constable per impedirgli di testimoniare. Il criminologo si sentì invadere dalla frustrazione. Aveva accettato da molto tempo ormai il fatto che a causa delle sue condizioni non avrebbe mai potuto catturare fisicamente un criminale. Ma aveva fatto in modo di compensare quella perdita con la forza della mente. Seduto sulla sedia a rotelle o sdraiato sul letto, Rhyme poteva sconfiggere con l'intelligenza i criminali a cui dava la caccia. Solo che con Erick Weir, il Negromante, non c'era riuscito. Quello era un uomo la cui anima era votata completamente all'inganno. Rhyme si chiese se vi fosse qualcos'altro che avrebbe potuto fare per trovare le risposte alle impossibili domande sollevate da quel caso. Amelia, Sellitto e l'UE stavano setacciando il tribunale e il Centro di Detenzione. Kara era al Cirque Fantastique ad aspettare Kadesky. Thom stava
telefonando a Keating e a Loesser, gli ex assistenti del killer, per scoprire se l'uomo avesse tentato di mettersi in contatto con loro nelle ultime ventiquattr'ore o se uno dei due fosse riuscito a ricordare qualche altro particolare che avrebbe potuto tornare utile. Una squadra della scientifica presa in prestito dall'FBI stava analizzando l'ufficio in cui Hobbs Wentworth si era sparato e i tecnici di Washington stavano analizzando le fibre e la vernice trovate da Amelia al Centro di Detenzione. Cos'altro avrebbe potuto fare Rhyme per scoprire quale sarebbe stata la prossima mossa di Weir? Una cosa sola. Decise di provare a fare qualcosa che non faceva da anni. Rhyme cominciò a percorrere alcune griglie. Iniziò la ricerca sulla scena del crimine insanguinata al Centro di Detenzione, poi continuò lungo i corridoi tortuosi illuminati da una debole fluorescenza simile a quella delle alghe. Svoltando angoli consumati dagli anni. Entrando in ripostigli e sotterranei. Cercando di seguire i passi — e di comprendere i pensieri — di Erick Weir. Ovviamente percorse la griglia tenendo gli occhi chiusi e viaggiando solo con la mente. Tuttavia gli sembrava appropriato condurre una ricerca immaginaria, dato che la preda a cui stava dando la caccia era un Uomo Scomparso. Il semaforo diventò verde e Malerick accelerò lentamente. Stava pensando ad Andrew Constable, che a modo suo era una specie di illusionista, a sentire Jeddy Barnes. Come un mentalista, Constable riusciva a inquadrare un uomo in pochi secondi e ad assumere un atteggiamento che lo avrebbe messo a proprio agio. Parlando in modo divertente, intelligente, comprensivo. Prendendo posizioni razionali e sensate. Vendendo la medicina agli ingenui. E ce n'erano molti, naturalmente. Sarebbe stato logico aspettarsi che la gente scoppiasse a ridere davanti alle idiozie predicate da gruppi come l'Alleanza Patriottica. Ma come aveva fatto notare P.T. Barnum, il più grande impresario dell'arte di Malerick, la madre dei cretini era sempre incinta. Mentre avanzava nel traffico della domenica sera, Malerick pensò divertito a quanto dovesse essere sconvolto Constable in quel momento. Una parte del piano di fuga richiedeva che lui mettesse fuori combattimento il suo avvocato. Due settimane prima, nel ristorante di Bedford Junction,
Jeddy Barnes gli aveva detto: «Be', signor Weir, il fatto è che Roth è ebreo. Andrew si divertirà un sacco a fargli del male». «Per me non fa alcuna differenza», aveva risposto Malerick. «Se vuole può anche ucciderlo. Questo non ha alcuna rilevanza nel mio piano. Voglio solo che sia messo fuori combattimento. Che non mi intralci.» Barnes aveva annuito. «Immagino che questa sarà una buona notizia per il signor Constable.» Ora Malerick poteva solo immaginare il panico crescente e il senso di confusione che Constable doveva provare mentre sedeva sopra il cadavere freddo del suo avvocato, in attesa che arrivasse Weir armato di pistole e travestimenti per portarlo fuori dall'edificio... un evento che naturalmente non si sarebbe mai verificato. Si sarebbe aperta la porta della stanza degli interrogatori e una decina di uomini avrebbe riportato il prigioniero nella sua cella. Il processo sarebbe andato avanti e Andrew Constable — confuso quanto Barnes e Wentworth e gli altri componenti del loro club di uomini di Neanderthal — non avrebbe mai capito in che modo era stato usato. Fermo a un altro semaforo, Malerick si chiese quali esiti stesse avendo l'altra diversione che aveva architettato. Il numero della Bambina Avvelenata (melodrammatico, se non sfacciatamente scontato, ma Malerick nel corso degli anni aveva imparato che il pubblico preferiva ciò che era ovvio). Naturalmente non era la migliore diversione del mondo; non era affatto sicuro che i poliziotti avrebbero trovato la siringa nella sua camera al Lanham Arms. Né poteva essere certo che la ragazzina o qualcun altro al posto suo avrebbe mangiato il cioccolatino. Ma Rhyme e i suoi erano talmente in gamba che Malerick era certo che avrebbero tratto l'orribile conclusione che quello fosse un ennesimo attentato alla vita del procuratore e della sua famiglia. E ben presto avrebbero scoperto che nel dolce non c'era alcun tipo di veleno. Che cosa avrebbero pensato a quel punto? Si sarebbero chiesti se non vi fossero altri cioccolatini avvelenati? O avrebbero pensato che si trattasse dell'ennesima diversione per allontanarli dal Centro di Detenzione di Manhattan dove Malerick forse aveva progettato un'altra evasione per Constable? In breve, anche la polizia si sarebbe persa in quel mare di confusione e nessuno sarebbe più stato in grado di capire che cosa effettivamente stesse accadendo. Be', ciò che sta accadendo da ormai da due giorni, Riveriti Spettatori, è
una sublime messinscena, una combinazione di diversioni fisiche e psicologiche. Fisiche — per spostare l'attenzione degli agenti sull'appartamento di Charles Grady e sul Centro di Detenzione. Psicologiche — per allontanare i sospetti da ciò che davvero Malerick stava facendo e far concentrare gli investigatori sui due moventi credibili che Lincoln Rhyme pensava di aver scoperto: l'omicidio a pagamento di Grady e l'organizzazione della fuga di Andrew Constable. Quando la polizia aveva tratto questa deduzione, le menti degli investigatori avevano smesso di cercare altre spiegazioni che potessero rivelare il vero piano di Malerick. Il che non aveva assolutamente niente a che fare con il caso Constable. Tutti gli indizi che aveva lasciato così apertamente — le aggressioni con trucchi da illusionista ai danni delle prime tre vittime che rappresentavano vari aspetti della vita del circo, la scarpa con i peli di cane e il terriccio riconducibili a Central Park, i riferimenti all'incendio nell'Ohio e il collegamento con il Cirque Fantastique... tutto questo aveva convinto gli investigatori che il suo intento non potesse essere davvero quello di vendicarsi di Kadesky perché, come gli aveva detto Lincoln Rhyme, era troppo ovvio. Doveva trattarsi di qualcos'altro. Ma non era così. Ora, con indosso un'uniforme da paramedico, guidò l'ambulanza attraverso l'entrata di servizio del tendone che ospitava il Celebre Inimitabile Favoloso Cirque Fantastique. Parcheggiò sotto una delle gradinate, scese e chiuse a chiave il veicolo. Nessuno gli prestò attenzione, né gli artisti né i poliziotti né gli addetti alla sicurezza. Dopo l'allarme bomba di quel giorno era perfettamente normale che un'ambulanza venisse parcheggiata lì — perfettamente naturale, avrebbe pensato un illusionista. Ecco, Riveriti Spettatori, questa è la vostra illusione, il cui fulcro è ancora completamente nascosto. Il fulcro è l'Uomo Scomparso, presente ma invisibile. Nessuno degnò di uno sguardo il veicolo che non era una normale ambulanza bensì un falso. Al posto delle attrezzature mediche c'era una decina di taniche di plastica che contenevano tremila litri di benzina collegate a un semplice detonatore che ben presto avrebbe dato fuoco al liquido eruttando una mortale vampata di fuoco sulle gradinate, sul tendone e sugli oltre duemila spettatori che affollavano il circo.
E tra di loro ci sarebbe stato anche Edward Kadesky. Signor Rhyme, ricordi la nostra conversazione? Ti sei lasciato ingannare dalle mie parole. Kadesky col suo Cirque Fantastique ha distrutto la mia vita e il mio amore e adesso io distruggerò lui. Alla fine, si tratta solo di vendetta. Ignorato da tutti, l'illusionista lasciò il tendone camminando con aria tranquilla e si inoltrò nel parco. Si sarebbe tolto l'uniforme da paramedico e si sarebbe infilato un nuovo travestimento per ritornare col favore delle tenebre e diventare una volta tanto uno spettatore. Avrebbe trovato un buon punto di osservazione e si sarebbe goduto il gran finale del suo spettacolo. 44 Famiglie, gruppi di amici, coppie e bambini stavano entrando lentamente nel tendone, cercando i loro posti, riempiendo le gradinate, trasformandosi poco alla volta da individui nella creatura chiamata pubblico, il tutto molto diverso dalla somma delle parti. Metamorfosi... Kara distolse lo sguardo da quello spettacolo e fermò un addetto alla sicurezza. «È da un po' che sto aspettando. Sa dirmi quando tornerà il signor Kadesky? È molto importante.» No, né l'uomo né le altre due persone a cui Kara si rivolse seppero risponderle. Un'altra occhiata all'orologio. Si sentì stringere il cuore in una morsa. Immaginò sua madre che si guardava attorno nella sua camera alla Stuyvesant Manor, trafitta dall'improvvisa lucidità mentale mentre si chiedeva dove fosse sua figlia. Kara avrebbe voluto piangere per la frustrazione che sentiva nell'essere intrappolata lì. Sapeva che doveva restare, che doveva fare tutto ciò che poteva per fermare Weir, tuttavia desiderava disperatamente raggiungere sua madre. Tornò a guardare l'interno dell'enorme tendone rischiarato da mille luci. Gli artisti, che indossavano le loro strane maschere da commedia dell'arte, attendevano in disparte e si preparavano per il numero di apertura. Anche molti bambini tra il pubblico avevano delle maschere, costosi souvenir comprati ai baracchini davanti al circo. Nasi schiacciati e adunchi, becchi. Si guardavano attorno, eccitati e quasi storditi. Ma alcuni di loro, notò Kara, sembravano a disagio. Le maschere e le strane decorazioni probabil-
mente facevano apparire il circo come una scena di un film dell'orrore ai loro occhi. Lei amava esibirsi per i bambini ma sapeva che bisognava fare molta attenzione; la loro realtà era molto diversa da quella degli adulti e un illusionista avrebbe potuto facilmente distruggere il precario senso di sicurezza dei più piccoli. Kara faceva solo illusioni divertenti nei suoi spettacoli per bambini e spesso, alla fine dell'esibizione, faceva dare loro un'occhiata dentro il cappello a cilindro, spiegando i trucchi che aveva usato. Osservò tutta la magia che la circondava, sentì l'emozione, l'eccitazione... aveva le mani sudate come se fosse stata lei a doversi esibire. Oh, che cosa avrebbe dato per poter essere una degli artisti del Cirque Fantastique. Contenta, soddisfatta eppure tesa, il cuore che batteva sempre più forte nel petto mentre le lancette si avvicinavano all'ora dell'inizio dello spettacolo. Nessun'altra sensazione al mondo era paragonabile a quella. Rise tristemente tra sé e sé. Be', in fondo era riuscita ad arrivare al Cirque Fantastique. Ma in qualità di consulente della polizia. Si domandò: Sono davvero brava abbastanza? Nonostante ciò che diceva David Balzac, talvolta Kara pensava di esserlo. Brava quanto Harry Houdini ai suoi esordi... le uniche fughe durante i suoi primi spettacoli erano state quelle degli spettatori che se n'erano andati annoiati o imbarazzati nel guardarlo sbagliare semplici trucchi di destrezza. Robert-Houdin era stato così goffo nelle sue prime esibizioni che aveva finito per offrire al pubblico numeri con automi come il turco meccanico che giocava a scacchi. Mentre osservava il backstage, le centinaia di artisti che vivevano nel mondo del circo fin da quando erano bambini, la voce ferma di Balzac riecheggiò nella sua mente: Non ancora, non ancora, non ancora... Nel sentire quella parola provò sia delusione sia una sorta di conforto. Balzac aveva ragione, concluse. Lui era l'esperto, lei l'apprendista. Doveva fidarsi di lui. Ancora un anno o due. L'attesa non sarebbe stata vana. Inoltre c'era sua madre... Sua madre, che forse in quel momento era seduta sul letto e stava chiacchierando con Jaynene chiedendosi dove fosse sua figlia... la figlia che l'aveva abbandonata proprio la sera in cui avrebbe dovuto essere con lei. L'assistente di Kadesky, Catherine Tunney, comparve in cima alla gradinata e le fece cenno di avvicinarsi. Kadesky era forse arrivato? Ti prego... Ma la donna disse: «Ha appena telefonato. Dopo mangiato ha dovuto fa-
re un'intervista con una stazione radio e quindi è in ritardo. Arriverà presto. Quello è il suo posto. Perché non lo aspetta là?» Kara annuì e, scoraggiata, raggiunse il posto che Catherine le aveva indicato, si sedette e tornò a osservare il tendone. Vide che la trasformazione magica era stata finalmente completata; ogni posto era occupato. I bambini, gli uomini e le donne adesso erano un pubblico. Thud. Kara trasalì quando un potente colpo di tamburo riecheggiò sotto il tendone. Le luci si abbassarono, spegnendosi quasi completamente, creando un'oscurità spezzata solo dalle luci rosse delle uscite di emergenza. Thud. Il pubblico si zittì in un istante. Thud... Thud... Thud. Il tamburo continuò a battere lentamente. Si potevano sentire le vibrazioni addirittura nel petto. Thud... Thud... La luce brillante di un riflettore illuminò il centro della pista, dove Arlecchino attendeva con il suo costume a scacchi bianchi e neri. Teneva tra le mani un lungo scettro sollevato in aria e si guardava attorno con aria maliziosa. Thud. Fece un passo avanti e prese a marciare lungo il perimetro della pista mentre alle sue spalle si materializzava una processione di artisti: altri personaggi della commedia dell'arte, ma anche spiriti, fate, principesse e principi, stregoni. Alcuni camminavano, altri danzavano, altri avanzavano al rallentatore come se fossero stati sott'acqua, o camminavano sui trampoli in modo molto più aggraziato di quanto la maggior parte della gente cammini lungo un marciapiede, o procedevano su bighe o carri decorati con tulle, piume, merletti e piccole luci colorate. E tutti si muovevano in perfetta sintonia col ritmo del tamburo. Thud... Thud... Volti mascherati, volti dipinti di bianco, di nero, d'argento o d'oro, volti scintillanti di brillantini. Mani che facevano roteare sfere luminose, mani che portavano torce, candele, lanterne, mani che lanciavano in aria coriandoli simili a fiocchi di neve luccicante. Solenni, regali, spiritosi, grotteschi. Thud...
Quel corteo allo stesso tempo medievale e futuristico era ipnotico. E il suo messaggio era inconfondibile: qualsiasi cosa esistesse al di fuori del tendone, lì dentro non aveva più alcun valore. Ci si poteva dimenticare di tutto ciò che si era imparato sulla vita, sulla natura umana, persino sulle leggi della fisica. Adesso il cuore degli spettatori stava battendo a ritmo con il tamburo e le loro anime erano state rapite dall'irreale parata che avanzava con passo sicuro entrando nel mondo delle illusioni. 45 Siamo quasi arrivati al gran finale del nostro spettacolo, Riveriti Spettatori. È giunta l'ora di presentarvi la nostra illusione più famosa e più controversa. Una variazione del celeberrimo Specchio Che Brucia. Negli ultimi due giorni, durante il nostro spettacolo, avete assistito a illusioni create da grandi maestri come Harry Houdini, ET. Selbit e Howard Thurston. Ma nemmeno loro avrebbero mai tentato un numero come lo Specchio Che Brucia. Il nostro artista è intrappolato in una rappresentazione dell'inferno, circondato da fiamme che si avvicinano inesorabilmente... e l'unica via d'uscita è una minuscola porta protetta da una parete di fuoco. Anche se, naturalmente, la porta potrebbe non essere affatto una via d'uscita. Potrebbe essere solo un'illusione. Devo avvertirvi, Riveriti Spettatori, che l'ultimo tentativo di eseguire questo trucco è finito in tragedia. Lo so, ero presente. Quindi, per favore, per il vostro bene, passate qualche istante a guardarvi attorno nel tendone e chiedetevi che cosa fareste se dovesse accadere qualcosa di terribile... Ma pensandoci bene, no, è troppo tardi. Forse la cosa migliore che vi resta da fare a questo punto è semplicemente pregare. Malerick era tornato a Central Park ed era in piedi sotto un albero a circa cinquanta metri dal luccicante tendone bianco del Cirque Fantastique. Ora aveva di nuovo la barba e indossava una tuta da ginnastica e un maglione a collo alto. Ciocche di capelli biondi spuntavano da sotto un berretto commemorativo di una maratona di beneficenza. Finte chiazze di sudore — nient'altro che acqua da una bottiglia — completavano il quadro del
personaggio che stava interpretando: un responsabile finanziario di secondo piano di una banca importante, intento a fare la sua corsa della domenica sera. Si era appena fermato per riprendere fiato e con aria distratta stava guardando il tendone del circo. Era tutto perfettamente naturale. Si accorse di essere stranamente calmo. Quella serenità gli fece tornare in mente i momenti immediatamente successivi allo scoppio dell'incendio al Circo Hasbro, nell'Ohio, prima che le conseguenze inevitabili del disastro divenissero chiare. Anche se avrebbe dovuto gridare, aveva provato una sensazione di distacco, una sorta di coma emotivo. E si sentiva così anche ora mentre ascoltava la musica, le note basse amplificate, a quanto pareva, dalla forma stessa del tendone. Gli applausi, le risate, le esclamazioni di sorpresa. Negli anni in cui si era esibito, era stato colto molto raramente dal panico da palcoscenico. Quando conoscevi alla perfezione il tuo numero perché lo avevi provato e riprovato, di cosa dovevi preoccuparti? Era così che si sentiva adesso. Ogni cosa era stata pianificata così attentamente che Malerick sapeva che il suo spettacolo si sarebbe svolto come previsto. Mentre scrutava il tendone nei suoi ultimi minuti di esistenza sulla Terra, notò due sagome ferme davanti all'entrata di servizio che aveva usato per portare dentro l'ambulanza. Erano un uomo e una giovane donna. Stavano parlando, le teste molto vicine per riuscire a sentirsi al di sopra del fragore della musica. Sì! L'uomo era Kadesky. Aveva temuto che l'impresario potesse non essere presente al momento dell'esplosione. La giovane donna era Kara. Kadesky indicò l'interno del Cirque Fantastique e lui e Kara entrarono. Malerick calcolò che dovevano essere a circa tre metri dall'ambulanza. Un'occhiata all'orologio. Era quasi giunto il momento. E ora, amici miei, miei Riveriti Spettatori... Esattamente alle nove in punto una fiammata eruttò dall'ingresso del tendone. Un attimo dopo l'enorme sagoma del muro di fuoco si stagliò contro la superficie del tendone, mentre le gradinate, il pubblico e le decorazioni venivano divorati dalle fiamme. La musica si fermò bruscamente e venne sostituita dalle grida degli spettatori, e spire di fumo scuro presero a innalzarsi dal tendone. Malerick si sporse in avanti, ipnotizzato dall'orrore di quello spettacolo. Altro fumo, altre grida. Sforzandosi di non far affiorare sulle proprie labbra un sorriso innatura-
le, recitò una preghiera di ringraziamento. Malerick non credeva in alcuna divinità, tuttavia rivolse quelle parole di gratitudine allo spirito di Harry Houdini, il suo idolo, il santo patrono dei maghi. Le persone attorno a lui che si trovavano a passare per il parco furono prese dal panico, alcune cominciarono a urlare, altre corsero in cerca d'aiuto. Malerick attese ancora per qualche istante ma sapeva che ben presto i poliziotti sarebbero arrivati in forze nel parco. Con aria preoccupata, si tolse di tasca il cellulare per fingere di chiamare i vigili del fuoco e nel frattempo si incamminò verso il marciapiede. Tuttavia non poté impedirsi di fermarsi ancora una volta. Si voltò e vide, oscurati dal fumo, i grandi striscioni appesi davanti al tendone. Su uno di essi campeggiava un Arlecchino mascherato che tendeva in avanti le mani vuote. Guardate, Riveriti Spettatori, nelle mie mani non c'è niente. Solo che, come ogni buon prestigiatore, il personaggio aveva qualcosa in mano... qualcosa che non si poteva vedere. E solo Malerick sapeva cos'era. Nelle mani, lo sfuggente Arlecchino teneva la morte. PARTE TERZA NEL CAPPELLO A CILINDRO Da domenica 21 aprile a mercoledì 25 aprile «Per essere dei grandi maghi bisogna essere in grado di presentare un'illusione in modo tale che la gente non solo sia sbalordita ma anche profondamente commossa.» S.H. SHARP 46 La Camaro di Amelia Sachs percorse la West Side Highway a centocinquanta chilometri all'ora diretta a Central Park. A differenza della FDR Drive, che è una superstrada ad accesso controllato, la strada che ora stava percorrendo Amelia era punteggiata di stop e, all'altezza della Quattordicesima, svoltava in una brusca curva che fece slittare pericolosamente la Chevrolet danneggiata, mandandola a sfregare contro le barriere di cemento. E così l'assassino li aveva ingannati ancora una volta con un colpo da maestro. L'obiettivo di Weir non era né la morte di Charles Grady né la fu-
ga di Andrew Constable: queste erano semplicemente diversioni. Il bersaglio del killer era proprio quello che il giorno prima avevano scartato ritenendolo troppo ovvio: il Cirque Fantastique. Nel seminterrato del Centro di Detenzione, mentre con la Glock in pugno si apprestava a perquisire uno degli ultimi possibili nascondigli rimasti, Amelia aveva ricevuto una chiamata da Rhyme che le aveva spiegato la situazione. Lon Sellitto e Roland Bell si stavano dirigendo al circo e anche Mel Cooper li stava raggiungendo per dare una mano. Anche Bo Haumann e diverse squadre dell'UE erano diretti lì. C'era bisogno di tutti gli uomini disponibili e Rhyme voleva che lei lo raggiungesse il prima possibile. «Arrivo», aveva detto lei spegnendo il telefono. Si era voltata, pronta ad abbandonare di corsa il seminterrato, ma poi si era fermata, era tornata alla porta e l'aveva comunque aperta con un calcio. Non si poteva mai sapere. La stanza era completamente vuota, completamente immersa nel silenzio: l'unico suono era stato quello della risata sprezzante dell'assassino nella mente di Amelia. Cinque minuti più tardi stava già guidando la Camaro a tutta velocità. Il semaforo della Ventitreesima strada era rosso ma non c'era molto traffico, così Amelia passò lo stesso, confidando nel volante piuttosto che nei freni o nella disponibilità dei cittadini a farsi da parte vedendo il lampeggiante blu. Una volta attraversato l'incrocio, cambiò rapidamente la marcia, premette l'acceleratore a tavoletta e il motore malconcio la portò a centotrenta chilometri all'ora. Amelia trovò a tastoni il Motorola e chiamò Rhyme per dirgli dove si trovava e chiedergli cosa voleva che facesse esattamente. Malerick si allontanò lentamente dal parco, incrociando un gran numero di persone che correvano nella direzione opposta, verso l'incendio. «Cosa sta succedendo?» «Gesù!» «La polizia... Qualcuno ha chiamato la polizia?» «Hai sentito quelle grida? Le hai sentite?» All'angolo di Central Park West attraversò la strada e andò a sbattere contro una giovane donna orientale che guardava preoccupata verso il parco e che gli domandò: «Sa dirmi cos'è successo?» Malerick pensò Sì, certo che lo so: l'uomo e il circo che hanno distrutto la mia vita stanno morendo. Invece si accigliò e con tono grave rispose:
«Non lo so, ma la situazione sembra seria». Continuò a camminare verso ovest, dando inizio al suo tortuoso percorso di ritorno all'appartamento durante il quale avrebbe cambiato travestimento diverse volte, assicurandosi di non essere seguito. Il suo piano prevedeva che restasse tutta la sera nell'appartamento. Il mattino seguente sarebbe partito per l'Europa dove, dopo diversi mesi passati a esercitarsi, avrebbe ripreso a esibirsi, con il suo nuovo nome. A parte i suoi Riveriti Spettatori, nessuno al mondo conosceva «Malerick», e sarebbe stato così che si sarebbe presentato al pubblico d'ora in avanti. Aveva un unico rimpianto, il fatto che non avrebbe potuto mettere in scena il suo numero preferito, lo Specchio Che Brucia: ormai troppe persone lo collegavano a lui. Inoltre avrebbe dovuto rinunciare a molti altri trucchi. Avrebbe abbandonato il ventriloquio, il mentalismo e molti giochi di prestidigitazione. Il suo vastissimo repertorio — così com'era accaduto quel weekend — avrebbe potuto rivelare la sua identità. Malerick procedette verso Broadway, quindi tornò indietro, in direzione del suo appartamento. Continuò a controllare le strade alle proprie spalle e attorno a sé. Nessuno lo stava seguendo. Entrò nell'atrio, da dove rimase a scrutare la strada per cinque lunghi minuti. Un uomo anziano — Malerick lo riconobbe, era un suo vicino di casa che abitava dall'altra parte della strada — che portava fuori il cane. Un ragazzino sui rollerblade. Due ragazze che mangiavano dei coni gelato. Nessun altro. La strada era deserta: il giorno dopo, lunedì, per tutti sarebbe ricominciato il lavoro o la scuola. Le persone erano a casa a stirarsi i vestiti, ad aiutare i bambini a fare i compiti... e a guardare alla TV, sintonizzata sulla CNN, la terribile tragedia che si stava consumando a Central Park. Si affrettò a entrare nel suo appartamento, dove spense tutte le luci. E ora lo spettacolo è finito, Riveriti Spettatori, com'era inevitabile. Ma è la natura della nostra arte, e ciò che sembra vecchio oggi sarà nuovo e innovativo da qualche altra parte, domani o dopodomani. Sapevate, amici miei, che quando gli artisti tornano sul palco alla fine dello spettacolo non è per ricevere altri applausi dal pubblico, ma per avere l'opportunità di ringraziare gli spettatori, tutte le persone che sono state così gentili da concedere la loro attenzione durante l'esibizione? E così sono io ad applaudire voi, adesso, perché mi avete onorato con la vostra presenza durante il mio modesto spettacolo. Spero di avervi dato gioia ed eccitazione. Spero di aver portato la meraviglia nei vostri cuori mentre mi seguivate nel mondo sotterraneo in cui la vita si trasforma in
morte, la morte in vita e ciò che è reale in ciò che è irreale. Mi inchino davanti a voi, Riveriti Spettatori... Malerick accese la candela e si sedette sul divano. Tenne lo sguardo fisso sulla fiamma. Stanotte, lo sapeva, si sarebbe mossa, stanotte avrebbe ricevuto un messaggio. Si sporse in avanti, sentendosi avvolgere dalla soddisfazione per la vendetta compiuta e prese a dondolarsi avanti e indietro, in modo ipnotico, respirando lentamente. La fiamma della candela tremolò. Sì! Parla con me. Muoviti ancora... E infatti, meno di un minuto dopo, la fiamma tremolò di nuovo. Ma quel movimento non era un messaggio dallo spirito soprannaturale di una persona amata e scomparsa da tanto tempo, bensì un alito della fresca brezza della sera di aprile che riempì la stanza quando una decina di poliziotti armati fino ai denti abbatté la porta con un ariete. Gli agenti gettarono a terra l'illusionista senza fiato, e una di loro — la donna poliziotto dai capelli rossi che Malerick ricordava di aver visto a casa di Lincoln Rhyme — gli puntò la pistola alla nuca e con voce ferma gli lesse i suoi diritti. 47 Con le braccia che tremavano per lo sforzo di sollevare Lincoln Rhyme e la sua sedia a rotelle Storm Arrow, due agenti dell'UE portarono il loro fardello su per le scale dell'edificio e depositarono il criminologo nell'atrio. A quel punto Rhyme pilotò la sedia fino all'appartamento del Negromante, dove si fermò accanto ad Amelia Sachs. Mentre gli agenti dell'Unità Emergenze controllavano le altre stanze, Rhyme guardò Bell e Sellitto che perquisivano con estrema attenzione il killer attonito. Rhyme aveva proposto di prendere in prestito un dottore dell'ufficio del medico legale che li aiutasse in quel compito. Il medico arrivò un attimo dopo e fece ciò che gli era stato chiesto. Era stata una buona idea: trovò diversi tagli nella pelle dell'uomo che somigliavano a piccole cicatrici ma potevano essere aperti e contenevano minuscoli strumenti di metallo. «Fategli delle radiografie all'infermeria della prigione», disse Rhyme. «Anzi, no, fategli una TAC. Controllatelo dalla testa ai piedi.»
Quando i polsi del Negromante furono immobilizzati da tre paia di manette e le sue caviglie da due, una coppia di agenti lo tirò su, facendolo sedere sul pavimento. Il criminologo stava esaminando la camera da letto che conteneva una vasta collezione di attrezzature per maghi. Le maschere, le mani finte e gli accessori di lattice davano un'aria strana a quel luogo, certo, ma Rhyme avvertì soprattutto un profondo senso di tristezza nel vedere quegli oggetti raccolti lì, pronti a essere usati per gli orrendi scopi dell'assassino invece che in uno spettacolo per intrattenere e divertire centinaia o migliaia di persone. «Come hai fatto?» sussurrò il Negromante. Rhyme notò il suo sguardo sconvolto e sgomento. Il criminologo assaporò quella sensazione. Tutti i cacciatori dicono che l'inseguimento è la parte migliore del gioco. Ma nessun cacciatore può considerarsi davvero grande se non prova un intenso piacere quando finalmente cattura la sua preda. «Come hai fatto a capire?» ripeté l'uomo con il suo respiro asmatico. «Che il tuo vero obiettivo era il Circo?» Rhyme lanciò un'occhiata ad Amelia. Lei disse: «Non c'erano molti indizi, ma tutti suggerivano...» «'Suggerivano', Sachs? Io direi che gridavano.» «Suggerivano», continuò lei impassibile, «ciò che avevi davvero intenzione di fare. Nel ripostiglio nel seminterrato del tribunale, abbiamo trovato la borsa con il tuo cambio d'abiti e la finta ferita.» «Avete trovato la borsa?» Lei continuò: «C'erano anche delle macchie secche di vernice rossa sulle scarpe e sul completo. E fibre di moquette». «Ho pensato che fosse sangue finto.» Rhyme scosse la testa, arrabbiato con se stesso. «Era la deduzione più logica, ma avrei dovuto prendere in considerazione anche altre fonti. Il database delle vernici dell'FBI l'ha identificata come vernice per veicoli della Jenkin Manufacturing. Il colore era rosso-arancione, una tinta che viene usata esclusivamente per i veicoli di emergenza. Quella particolare formula viene venduta in piccoli barattoli usati per lo più per fare dei ritocchi. Anche le fibre provenivano da un veicolo: erano quelle della moquette che veniva messa sulle ambulanze GMC fino a otto anni fa.» Amelia disse: «Così Lincoln ha dedotto che avevi comprato o rubato una vecchia ambulanza e che l'avevi rimessa a posto. Avrebbe potuto servirti per la fuga o per un altro attentato alla vita di Charles Grady. Ma poi Lin-
coln si è ricordato dei frammenti di ottone... e se fossero stati davvero frammenti di un timer, come avevamo pensato all'inizio? E visto che avevi usato della benzina a casa di Lincoln, be', era possibile che avessi deciso di nascondere una bomba incendiaria dentro una finta ambulanza». «A quel punto ho semplicemente usato la logica...» aggiunse il criminologo. «In realtà vuole dire che ha avuto un'intuizione», commentò Bell. «Le intuizioni», disse bruscamente Rhyme, «non hanno alcun senso. Solo la logica ne ha. La logica è la spina dorsale della scienza e la criminologia è pura scienza.» Sellitto guardò Bell e alzò gli occhi al cielo. Ma l'insubordinazione nei ranghi non appannò l'entusiasmo di Rhyme. «Stavo dicendo che ho usato la logica. Kara ci ha spiegato come si indirizza l'attenzione del pubblico proprio dove non si vuole che esso guardi.» I migliori illusionisti sanno eseguire un trucco indicando chiaramente il metodo che stanno usando, spiegando ciò che hanno intenzione di fare. Ma il pubblico non crede mai alle loro parole. Gli spettatori guardano nell'altra direzione. Quando questo accade, il gioco è fatto. Il pubblico ha perso e l'illusionista ha vinto. «Ed è questo che hai fatto tu. E devo dire che è stata davvero un'idea brillante. Non è un complimento che faccio spesso, vero, Sachs?... Volevi vendicarti di Kadesky per l'incendio che ha rovinato la tua vita. E così hai creato un numero che ti avrebbe permesso di raggiungere il tuo scopo e fuggire, proprio come avresti creato un'illusione per uno spettacolo, con diversi strati di diversioni.» Rhyme rimase a riflettere per un attimo socchiudendo gli occhi. Poi continuò: «La prima diversione: ci hai 'forzati'. Kara ci ha detto che è il termine che usate voi illusionisti, giusto?» Il killer non aprì bocca. «Sono sicuro che abbia usato questo termine. Per prima cosa, ci hai forzati a pensare che avresti distrutto il circo per vendetta. Solo che io non ti ho creduto... era troppo ovvio. E i nostri sospetti ci hanno condotti alla diversione numero due: ci hai fatto trovare il giornale con l'articolo su Grady, la ricevuta del ristorante, il tesserino del giornalista e la chiave dell'hotel per farci giungere alla conclusione che volevi ucciderlo... Oh, e che dire della giacca vicino al fiume Hudson? L'hai lasciata deliberatamente, vero? Era una prova che volevi farci trovare.» Il Negromante annuì. «Sì, è vero. Ma ha funzionato meglio, perché i tuoi agenti mi hanno sorpreso ed è sembrato più naturale che l'abbandonassi
nella fuga.» «A quel punto», continuò il criminologo, «abbiamo pensato che fossi un sicario a pagamento che aveva deciso di servirsi dell'illusionismo per avvicinarsi a Charles Grady e ucciderlo... Abbiamo pensato di aver scoperto le tue intenzioni. Era quella la direzione in cui abbiamo diretto i nostri sospetti... Fino a un certo punto.» Il Negromante fece un debole sorriso. «'Fino a un certo punto'», ansimò. «Sai, quando si usa la diversione per ingannare qualcuno — qualcuno di intelligente — i sospetti non spariscono mai del tutto.» «E così, ci hai colpiti con la diversione numero tre. Per continuare a tenere la nostra attenzione lontana dal circo, ci hai indotti a pensare che ti eri fatto arrestare intenzionalmente per riuscire a entrare nel Centro di Detenzione. Ma non allo scopo di uccidere Grady, bensì per far fuggire Constable di prigione. A quel punto ci eravamo dimenticati completamente del circo e di Kadesky. Mentre in realtà a te non importava niente né di Constable né di Grady.» «Erano solo strumenti, diversioni che ho usato per ingannarvi», ammise. «L'Alleanza Patriottica non sarà molto felice di scoprirlo», borbottò Sellitto. L'assassino indicò le manette con un cenno del capo. «Direi che è l'ultima delle mie preoccupazioni, non le pare?» Tuttavia Rhyme non ne era troppo sicuro, ora che sapeva di cosa erano capaci Constable e l'Alleanza. Bell indicò il Negromante e chiese a Rhyme: «Ma perché si è preso tutto il disturbo di inscenare il suo piano per la fuga di Constable?» Sellitto rispose: «È ovvio: per allontanare la nostra attenzione dal circo, così sarebbe stato più facile per lui sistemare la bomba». «In realtà, no, Lon», disse lentamente Rhyme. «È stato per un'altra ragione.» Nell'udire quelle parole, o forse cogliendo il tono enigmatico nella voce di Rhyme, il killer si voltò verso il criminologo, che per la prima volta quella sera vide nei suoi occhi autentica preoccupazione se non persino paura. Ti ho beccato, pensò Rhyme. «Vedete, c'è stata una quarta diversione», disse. «Quattro?» chiese Sellitto. «Esatto... Perché lui non è Erick Weir», annunciò Rhyme con un tono che, doveva ammetterlo, risultò eccessivamente melodrammatico.
48 Con un sospiro, l'assassino appoggiò la schiena a una gamba di una sedia, chiudendo gli occhi. «Non è Weir?» domandò Sellitto. «È questo», continuò Rhyme, «il vero fulcro di tutto ciò che ha fatto durante il weekend. Voleva vendicarsi di Kadesky e del Circo Hasbro, che ora è diventato il Cirque Fantastique. Be', è molto facile vendicarti se non ti interessa fuggire. Ma lui...» un cenno del capo per indicare il Negromante «... voleva fuggire, voleva evitare la prigione, voleva continuare a esibirsi. Così ha usato il trasformismo per cambiare la sua stessa identità. È diventato Erick Weir, si è fatto arrestare questo pomeriggio, si è fatto prendere le impronte e poi è fuggito.» Sellitto annuì. «Così una volta che avesse ucciso Kadesky e distrutto il circo, tutti avrebbero cercato Weir e non lui.» Si accigliò. «Ma lui chi diavolo è?» «È Arthur Loesser, l'apprendista di Weir.» L'assassino rimase a bocca aperta mentre l'ultimo brandello di anonimato — insieme alla sua ultima speranza di fuggire — spariva definitivamente. «Ma Loesser ci ha telefonato», obiettò Sellitto. «Ci ha chiamati dal Nevada.» «No, non era in Nevada. Ho controllato i tabulati telefonici. Sull'identificatore di chiamata è comparsa la scritta 'Nessun Numero' perché ha telefonato con un servizio prepagato per chiamate interurbane. In realtà, stava chiamando da un telefono pubblico sull'Ottantasettesima strada. Non ha una moglie. Il messaggio della sua casella vocale a Las Vegas era falso.» «Ed è stato sempre lui a chiamare l'altro assistente, Keating, fingendo di essere Weir, giusto?» chiese Sellitto. «Già. E ha fatto domande sull'incendio nell'Ohio e ha fatto in modo di sembrare strano e minaccioso. Per confermare la nostra tesi: che Weir era a New York per vendicarsi di Kadesky. Doveva lasciare delle prove che dimostrassero che Weir era riapparso. Così ha ordinato le manette Darby usando il nome di Weir. E ha fatto lo stesso quando ha comprato la pistola.» Rhyme guardò il killer. «Come va la voce?» domandò in tono ironico. «Vanno meglio adesso i polmoni?» «Sai benissimo che non ho problemi ai polmoni», ribatté seccamente
Loesser. Il tono ansimante e affaticato era scomparso. Non aveva i polmoni danneggiati. Era stata solo un'altra messinscena per convincerli che fosse Weir. Con un cenno del capo Rhyme indicò la camera da letto. «Ho visto alcuni bozzetti per manifesti promozionali. Suppongo che li abbia disegnati tu. Su tutti c'era il nome 'Malerick'. È così che ti fai chiamare adesso?» Il killer annuì. «Quello che ti ho detto ieri è vero... odiavo il mio vecchio nome, odiavo tutto ciò che ero stato prima dell'incendio. Era troppo doloroso ripensare ai quei tempi. Adesso penso a me stesso come a Malerick... Come hai fatto a capire?» «Dopo che è stato sigillato il corridoio del Centro di Detenzione hai usato la tua camicia per pulire il pavimento e le manette», spiegò Rhyme. «Ma quando ci ho pensato non sono riuscito a capire perché lo avessi fatto. Non aveva senso che cercassi di pulire il sangue. No, l'unica risposta che sono riuscito a darmi è stata che volevi liberarti delle tue impronte digitali. Ma ti erano appena state prese le impronte: perché avresti dovuto preoccuparti di quelle che avevi lasciato nel corridoio?» Rhyme scrollò le spalle come se la risposta fosse stata dolorosamente ovvia. «Perché le tue vere impronte erano diverse da quelle che erano appena state prese e catalogate.» «Ma come cazzo ci è riuscito?» chiese Sellitto. «Sulla scena Amelia ha trovato tracce di inchiostro fresco. Era l'inchiostro che era stato usato per prendergli le impronte. La traccia non era importante in sé. Il particolare significativo era che l'inchiostro coincideva con quello che avevamo trovato nella borsa usata per l'aggressione a Cheryl Marston. Questo significava che era venuto in contatto con quel tipo di inchiostro prima di oggi. Ho immaginato che avesse rubato una scheda per le impronte digitali e che a casa vi avesse impresso le impronte di Erick Weir. Ha usato quella cera adesiva per nascondersi la scheda nella giacca — stavamo cercando armi e chiavi, non pezzi di cartone — e quando i tecnici gli hanno preso le impronte, lui li ha distratti e ha sostituito le schede. Probabilmente ha buttato in un water quella nuova o l'ha fatta sparire in qualche modo.» Loesser fece una smorfia rabbiosa che confermò la deduzione di Rhyme. «Il Centro di Detenzione ci ha inviato la scheda che avevano in archivio e Mel l'ha analizzata. Le impronte erano di Weir, ma le impronte latenti erano di Loesser. Era registrato nel database del SAIID da quando era stato arrestato con Weir per quell'accusa di condotta pericolosa. Abbiamo con-
trollato anche la Glock dell'agente del Centro di Detenzione. La donna l'ha tenuta con sé dopo il finto incidente e lui non ha avuto il tempo di cancellare le sue impronte. Che infatti a loro volta combaciavano con quelle di Loesser. Ah, tra l'altro, siamo riusciti a rilevare un'impronta parziale sulla lametta.» Rhyme lanciò un'occhiata al piccolo cerotto sulla tempia di Loesser. «Ti sei dimenticato di portarla via.» «Non sono riuscito a trovarla», ribatté seccamente l'assassino. «Non ho avuto il tempo di cercarla.» «Ma Loesser», disse Sellitto rivolgendosi a Rhyme, «dovrebbe essere più giovane di Weir.» «Infatti è più giovane di Weir.» Indicò il volto di Loesser con un cenno del capo. «Quelle rughe sono di lattice. Come le cicatrici: sono tutte finte. Weir è nato nel 1950. Loesser ha vent'anni meno di lui e ha dovuto invecchiarsi artificialmente.» Poi, abbassando la voce, continuò: «Questo mi è proprio sfuggito. Avrei dovuto capirlo prima. Ricordi quelle tracce di lattice e di cosmetici che Amelia ha trovato sulle varie scene del crimine? Ho pensato che fossero state lasciate dai copridita indossati dal killer. Ma non aveva alcun senso. Nessuno si trucca le dita. Il trucco non durerebbe. No, le tracce provenivano dagli altri accessori». Scrutò le guance e la fronte del killer. «Il lattice dev'essere fastidioso.» «Ci si abitua in fretta.» «Sachs, vediamo che faccia ha veramente.» Con una certa difficoltà, Amelia staccò la barba e i lembi di finta pelle rugosa attorno agli occhi e al mento. Il volto che emerse era appiccicoso di adesivo ma, sì, era chiaramente quello di un uomo molto più giovane. E anche la struttura del viso era differente. Non assomigliava quasi per niente all'uomo che aveva impersonato. «Non è come quelle maschere di Mission Impossible, eh? Quelle che si infilano e si tolgono in un batter d'occhio.» «No, i veri accessori non sono affatto così.» «E anche le dita.» Con un cenno, Rhyme indicò la mano sinistra dell'assassino. Per rendere più credibile l'effetto delle dita fuse insieme, Loesser se le era legate con una benda che poi aveva ricoperto con uno spesso strato di lattice. Le dita erano raggrinzite, intorpidite e praticamente bianche, ma a parte questo erano del tutto normali. Amelia le esaminò. «Stavo proprio per chiedere a Rhyme perché non te ne sei liberato quando eri alla fiera — dopotutto noi stavamo cercando un uomo con la mano sinistra deforme.»
Ma anche senza il lattice, le dita ridotte in quel modo lo avrebbero tradito comunque. Rhyme guardò il killer e disse: «Un crimine quasi perfetto: un assassino che è riuscito a fare in modo che accusassimo qualcun altro. Eravamo certi che il colpevole fosse Weir. Lo avevamo identificato. Ma all'improvviso lui sarebbe svanito nel nulla. Loesser sarebbe andato avanti con la sua vita e il fuggitivo, cioè Weir, sarebbe scomparso per sempre. L'Uomo Scomparso». Anche se Loesser aveva scelto le vittime del giorno prima solo per sviare le indagini della polizia e non per una profonda spinta psicologica, la diagnosi di Terry Dobyns era ancora perfettamente valida: la ricerca della vendetta dopo che l'incendio aveva ucciso una persona cara. L'unica differenza era che la tragedia non era stata quella della fine della carriera e della morte della moglie di Weir; era stata la perdita del mentore di Loesser, Weir stesso. «Ma c'è un problema», fece notare Sellitto. «L'unico risultato che avrebbe ottenuto sostituendo le schede delle impronte digitali sarebbe stato quello di farci dare la caccia al vero Weir. Perché mai avrebbe dovuto fare una cosa simile al suo mentore?» Rhyme disse: «Perché pensi che mi sia fatto trasportare da quei poveri giovani agenti su per le scale, in questo luogo estremamente inacessibile, Lon?» Si guardò attorno nella stanza. «Volevo percorrere di persona la griglia.» Pilotando la sedia a rotelle con il touchpad, si spostò all'interno della stanza. Si fermò vicino al caminetto e alzò lo sguardo. «Penso che abbiamo appena trovato il nostro colpevole, Lon.» Sulla mensola del caminetto c'erano una candela e una scatola intarsiata. «Quello è Erick Weir, vero? Sono le sue ceneri.» A bassa voce, Loesser ammise: «Esatto. Sapeva che non gli restava molto tempo. Voleva lasciare il reparto ustionati dell'Ohio e tornare nella sua casa di Las Vegas prima di morire. Una notte l'ho fatto uscire e l'ho accompagnato a casa. È riuscito a sopravvivere ancora per qualche settimana. Ho corrotto un inserviente di un'agenzia di pompe funebri e l'ho fatto cremare». «E le impronte?» domandò Rhyme. «Sei riuscito a riprodurre le sue impronte digitali dopo la sua morte. Hai realizzato uno stampo delle sue impronte?» L'uomo annuì. «Quindi ti stavi preparando da anni.»
Con voce colma di passione, Loesser disse: «Sì! La sua morte... è come un'ustione che non ha mai smesso di farmi male». «E hai corso tutti questi rischi solo per vendicarti? Per il tuo capo?» domandò Bell. «Capo? Era molto di più di un semplice capo per me», ringhiò Loesser follemente. «Voi non potete capire. Penso a mio padre non più di un paio di volte all'anno... e lui è ancora vivo. Ma al signor Weir penso ogni ora di ogni giorno. Da quando è entrato nel negozio di Las Vegas dove mi stavo esibendo... il Giovane Houdini, era così che mi facevo chiamare... allora avevo quattordici anni. Che giornata indimenticabile! Il signor Weir mi ha detto che mi avrebbe dato la visione necessaria per diventare un grande illusionista. Il giorno del mio quindicesimo compleanno sono scappato di casa per andare via con lui.» La voce gli tremò e tacque per un istante. Poi continuò: «Sì, certo, il signor Weir a volte mi picchiava, mi gridava contro e rendeva la mia vita un inferno, ma era capace di vedere cosa c'era dentro di me. Mi voleva bene. Mi ha insegnato a essere un illusionista...» Si rannuvolò. «E poi mi è stato portato via. Per colpa di Kadesky. Lui e il suo fottuto circo hanno ucciso il signor Weir... e hanno ucciso anche me. Anche Arthur Loesser è morto in quell'incendio.» Guardò la scatola e sul suo volto comparve un'espressione di dolore e speranza — e allo stesso tempo di amore — così strana che Rhyme sentì un brivido percorrergli il collo e svanire nel suo corpo insensibile. Loesser tornò a guardare Rhyme ed emise una risata gelida. «Be', mi avrete anche preso. Ma il signor Weir e io abbiamo vinto. Non siete riusciti a fermarci in tempo. Il circo è distrutto, Kadesky è morto. E se anche non è morto, la sua carriera è rovinata per sempre.» «Ah, sì, il Cirque Fantastique, l'incendio.» Rhyme scosse la testa con aria grave. «Tuttavia...» Loesser si accigliò guardandosi attorno, cercando di capire a cosa alludesse il criminologo. «Cosa c'è? Cosa vuoi dire?» «Torna un attimo indietro con la memoria. Torna a questa sera. Sei a Central Park, stai guardando le fiamme, il fumo, la distruzione e stai ascoltando le grida... decidi che è meglio lasciare il parco: molto presto noi cominceremo a cercarti. Stai tornando qui. Quando incroci una persona... una giovane donna orientale in tuta da ginnastica. Scambiate qualche parola su quanto sta succedendo nel parco. Poi ciascuno va per la sua strada.» «Di cosa diavolo stai parlando?» chiese Loesser. «Controlla il cinturino del tuo orologio», disse Rhyme.
Facendo tintinnare le manette, l'assassino si guardò l'orologio. Sul cinturino c'era un minuscolo dischetto nero. Amelia lo staccò. «È un segnalatore satellitare. Lo abbiamo usato per rintracciarti e siamo arrivati fin qui. Non sei rimasto sorpreso quando abbiamo buttato giù la porta?» «Ma chi? Un momento! È stata quell'illusionista, la ragazza! Kara! Non l'ho riconosciuta.» Con fare provocatorio, Rhyme chiese: «Be', non è questo il fulcro dell'illusionismo? Ti abbiamo individuato al parco ma temevamo che riuscissi a fuggire. Questo è un tuo brutto vizio. Così ho chiesto a Kara di travestirsi. È molto in gamba, sai. Persino io ho stentato a riconoscerla. Quando ti ha incrociato, ha fissato il sensore al cinturino del tuo orologio». Amelia continuò: «Avremmo potuto arrestarti quando eri ancora in strada, ma sei un po' troppo abile nel far perdere le tue tracce. E comunque volevamo scoprire il tuo nascondiglio». «Ma questo significa che avevate capito tutto prima dell'incendio.» «Oh», disse Rhyme con noncuranza, «la tua ambulanza? La squadra artificieri l'ha trovata subito e l'ha resa inoffensiva in meno di sessanta secondi. Due agenti sono saliti e l'hanno portata via sostituendola con una seconda ambulanza in modo da non farti capire che ti avevamo scoperto. Sapevamo che saresti rimasto a guardare l'incendio. Abbiamo posizionato nel parco tutti gli agenti in borghese che avevamo a disposizione in cerca di un uomo con la tua corporatura che restasse fermo a guardare l'incendio per qualche istante prima di andarsene. Un paio di agenti ti hanno notato, così abbiamo mandato Kara a metterti il sensore. E, abracadabra...» Fece un sorriso. «Eccoci qua.» «Ma l'incendio... Io l'ho visto.» Rhyme si rivolse ad Amelia: «Vedi perché ti dico sempre che le prove sono più importanti dei testimoni? Lui ha visto l'incendio e quindi l'incendio doveva essere reale». Poi guardò Loesser. «Ma non era reale, sai.» Amelia spiegò: «Quello che hai visto era il fumo di un paio di granate della guardia nazionale che abbiamo montato con una gru in cima al tendone. E le fiamme venivano da un bruciatore al propano posizionato vicino al punto in cui avevi lasciato l'ambulanza. Abbiamo fatto accendere un altro paio di bruciatori al centro della pista e proiettato le ombre delle fiamme sull'altro lato del tendone». «Ma ho sentito gridare», sussurrò Loesser. «Oh, quella è stata un'idea di Kara. Ha pensato di chiedere a Kadesky di dire al pubblico che avrebbero dovuto interrompere lo spettacolo per un
po' per permettere a una troupe cinematografica di girare una scena nel tendone... la scena dell'incendio in un circo. Così ha chiesto a tutti di mettersi a gridare a un suo segnale. Gli spettatori si sono divertiti tantissimo. Lo hanno considerato una specie di extra.» «No», sussurrò il Negromante. «È stata solo...» «... Un'illusione», gli disse Rhyme. «È stata tutta un'illusione.» La destrezza della mente dell'Uomo Immobilizzato. «È ora che esamini la scena del crimine», disse Amelia indicando la stanza con un cenno e accigliandosi. «Certo, certo, Sachs. Ma cosa mi è preso? Siamo rimasti qua seduti a chiacchierare e a contaminare una scena del crimine.» Immobilizzato dalle manette e scortato da due agenti, il killer, molto meno arrogante dell'ultima volta che era stato arrestato, venne condotto fuori. Mentre due agenti dell'UE si apprestavano a riportare fuori Rhyme, il cellulare di Lon Sellitto si mise a squillare. «Sì, è proprio qui...» Un'occhiata ad Amelia. «Vuoi parlarle...?» Poi scosse la testa e rimase ad ascoltare un attimo con aria grave. «Okay, glielo dirò.» Interruppe la comunicazione. «Era Marlow», disse poi ad Amelia. Il capo dei Servizi di Pattuglia. Ma cosa stava succedendo? Si domandò il criminologo notando l'espressione cupa sul volto di Sellitto. Il detective continuò, rivolgendosi ad Amelia: «Vuole vederti in centrale domani mattina alle dieci. Si tratta della tua promozione». Si accigliò. «Mi ha detto di dirti qualcosa del tuo punteggio nel test. Che cos'era?» Scosse la testa, fissando il soffitto, chiaramente a disagio. «Che cos'ha detto?» Amelia lo guardò impassibile, ma Rhyme si accorse che aveva preso a tormentarsi con un'unghia una pellicina del pollice. Poi il detective schioccò le dita. «Oh, già, adesso mi ricordo. Ha detto che il tuo è il terzo punteggio più alto nella storia del Dipartimento.» Fece una smorfia e guardò Lincoln. «Lo sai cosa significa, vero? Che Dio abbia pietà di noi! D'ora in avanti questa ragazza sarà insopportabile.» Una corsa a perdifiato. Il corridoio sembrava lungo un chilometro. Mentre correva sul linoleum grigio, Kara aveva una sola cosa in mente: non il defunto Erick Weir né il suo folle assistente, Arthur Loesser, non la perfetta riuscita dell'illusione dell'incendio al Cirque Fantastique. No, l'u-
nica cosa che stava pensando era: sarò ancora in tempo? Percorse il corridoio poco illuminato. I suoi passi che riecheggiavano attorno a lei. Oltrepassando porte chiuse e porte aperte. Frammenti di programmi televisivi e di musica, di conversazioni tra pazienti e familiari che si preparavano ad andarsene alla fine dell'orario di visita della domenica. Ascoltando il rumore sordo dei suoi stessi passi. Si fermò davanti alla stanza di sua madre. Trasse una decina di profondi respiri quindi entrò, più nervosa di quanto fosse mai stata prima di entrare in scena. Una pausa. Poi: «Ciao, mamma». Sua madre distolse lo sguardo dal televisore. Batté le palpebre sorpresa e sorrise: «Ma guarda chi c'è. Ciao, tesoro». Oh, mio Dio, pensò Kara, guardando il suo sguardo luminoso. È tornata! È tornata davvero. La raggiunse e l'abbracciò forte, poi avvicinò una sedia al letto. «Come ti senti?» «Sto bene. Fa un po' freddo stasera.» «Aspetta, ci penso io.» Kara si alzò e chiuse la finestra. «Temevo che non ce l'avresti fatta, tesoro.» «Sono stata molto impegnata. Devo assolutamente raccontarti quello che mi è successo, mamma. Stenterai a credermi.» «Non vedo l'ora.» Entusiasta, Kara chiese: «Vuoi una tazza di tè, qualcos'altro?» Moriva dalla voglia di raccontarle tutto ciò che le era capitato negli ultimi sei mesi. Ma si disse di fare con calma; se avesse esagerato, avrebbe potuto confondere sua madre che in quel momento sembrava ancora immensamente fragile. «No, niente, grazie, tesoro... Potresti spegnere la TV? Preferisco parlare con te. Il telecomando è lì. Non riesco mai a farlo funzionare. A volte penso che qualcuno venga qui di nascosto a cambiare posto ai pulsanti.» «Sono contenta di essere arrivata qui prima che ti mettessi a dormire.» «Sarei rimasta sveglia ad aspettarti.» Kara le sorrise. Poi sua madre disse: «Stavo pensando a tuo zio, tesoro. Mio fratello». Kara annuì. Il defunto fratello di sua madre era stato la pecora nera della famiglia. Si era trasferito all'ovest quando Kara era ancora molto piccola e non si era tenuto in contatto con nessuno della famiglia. La madre e i non-
ni di Kara si erano rifiutati di parlare di lui e a tutte le riunioni di famiglia era stato proibito persino nominarlo. Ma naturalmente sul suo conto erano circolate le voci più diverse: era gay, era etero e si era sposato ma aveva una relazione clandestina con una zingara, aveva sparato a un uomo in una disputa per una donna, non si era mai sposato ed era un musicista jazz alcolizzato... A Kara sarebbe piaciuto sapere la verità su di lui. «Raccontami, mamma. «Sei sicura?» «Oh, ci puoi scommettere: dimmi tutto», rispose sporgendosi in avanti e appoggiandole una mano sul braccio. «Be', vediamo, quando sarà stato? Credo nel maggio del 70 o forse del 71. Non sono sicura dell'anno ma sono sicura che fosse maggio. Tuo zio e alcuni suoi compagni d'armi erano appena tornati dal Vietnam.» «Era un soldato? Non lo sapevo.» «Oh, era bellissimo in uniforme. Be', avevano passato dei momenti davvero terribili laggiù.» La sua voce si fece più seria. «Il suo migliore amico era stato ucciso proprio sotto i suoi occhi. Gli era morto tra le braccia. Era un uomo di colore grande e grosso. Be', Tom e un altro soldato decisero di mettersi in affari per aiutare la famiglia del loro amico morto. Così andarono al Sud e comprarono una barca. Te lo immagini tuo zio su una barca? Era la cosa più strana che potessi immaginare. Fecero fortuna con la pesca dei gamberi.» «Mamma», mormorò Kara con un filo di voce. Sua madre sorrise e scosse la testa. «Una barca... Be', comunque, la loro società ebbe un grande successo. E molta gente fu sorpresa perché, be', Tom non era mai stato troppo sveglio.» Gli occhi le si illuminarono. «Ma sai cosa diceva sempre tuo zio quando gli davano dello stupido?» «Che cosa, mamma?» «'Stupido è chi lo stupido fa.'» «È un'ottima espressione...» «Oh, avresti adorato tuo zio, Jenny. Sai che una volta ha persino incontrato il presidente degli Stati Uniti? E che ha giocato a ping pong in Cina?» Senza accorgersi che la figlia aveva cominciato a piangere sommessamente, l'anziana donna continuò a raccontare a Kara il resto della trama di Forrest Gump, il film che stava guardando alla TV quando lei era arrivata. Lo zio di Kara in realtà di chiamava Gil ma nella fantasia di sua madre era diventato Tom — probabilmente perché la star del film era Tom Hanks. E persino Kara era diventata Jenny, la ragazza di Forrest.
No, no, no, pensò Kara disperata, non sono arrivata in tempo. L'anima di sua madre era riapparsa e se n'era andata, lasciandosi dietro solo un'illusione. Il racconto della donna si fece ingarbugliato e si spostò dalla pesca dei gamberi a una barca da pesca nel Nord Atlantico che rimaneva intrappolata in una «tempesta perfetta» a un transatlantico che affondava mentre suo fratello in smoking suonava il violino sul ponte. Pensieri, immagini e scene di una decina di altri film e libri si mescolavano a ricordi autentici. Ben presto, lo «zio» di Kara svanì completamente insieme a qualunque traccia di coerenza. «È da qualche parte là fuori», disse la donna con aria decisa. «So che è là fuori.» Chiuse gli occhi. Kara si sporse in avanti sulla sedia e le accarezzò con delicatezza un braccio finché sua madre non si addormentò. Pensò: Ma prima doveva essere in sé. Altrimenti Jaynene non mi avrebbe mai chiamato. E se era accaduto una volta, concluse con determinazione, poteva accadere ancora. Alla fine si alzò e uscì nel corridoio buio pensando che malgrado tutto il talento che poteva avere come illusionista, c'era una capacità di cui sentiva disperatamente la mancanza: quella di trasportare magicamente sua madre in un luogo in cui i cuori colmi d'amore continuavano a battere per tutti gli anni che Dio aveva deciso di donare loro. Dove le menti ricordavano alla perfezione ogni capitolo delle ricche storie delle famiglie. Dove la separazione tra persone che si vogliono bene alla fine non è altro che un'illusione passeggera. 49 Gerald Marlow, un uomo dai capelli folti e crespi, era il capo della Divisione Servizi di Pattuglia del Dipartimento di Polizia di New York. I suoi modi decisi erano frutto di vent'anni di pattugliamento delle strade e di altri quindici passati a compiere un lavoro ancora più rischioso, ovvero quello di supervisore degli agenti di pattuglia. Ora, lunedì mattina, Amelia Sachs era in piedi davanti a lui, più o meno sull'attenti, e stava cercando di convincere le proprie ginocchia a ignorare l'artrite che le trafiggeva come una lama acuminata. Erano nell'ufficio di Marlow alla centrale di polizia. Marlow alzò lo sguardo dal fascicolo che stava leggendo e osservò la di-
visa di Amelia perfettamente stirata. «Oh, si sieda, agente. Mi scusi. Si sieda... E così, lei è la figlia di Herman Sachs.» Amelia si sedette e disse: «Esatto». «Sono venuto al funerale di suo padre.» «Mi ricordo.» «È stata una bella cerimonia.» Per essere un funerale. Guardandola negli occhi, la schiena perfettamente dritta, Marlow disse: «Okay, agente. Vengo subito al punto. Lei è nei guai». Quelle parole la colpirono come un pugno. «Mi perdoni, signore?» «Sabato, una scena del crimine, vicino al fiume Harlem. Un'auto che era finita in acqua. L'ha esaminata lei?» Dove la Mazda del Negromante aveva distrutto la baracca di quello strafatto di crack di Carlos ed era andata a farsi una nuotatina. «Sì, esatto.» «Ha arrestato una persona su quella scena», continuò Marlow. «Oh, quel tizio. Sì. Non è stato un vero e proprio arresto. C'era un uomo che ha ignorato il nastro giallo della polizia e si è messo a frugare in una zona sigillata. Ho chiesto ad alcuni agenti di allontanarlo e trattenerlo.» «Trattenere, arrestare. Il punto è che è rimasto in custodia per un po'.» «Certo, avevo bisogno che qualcuno me lo tenesse fuori dai piedi. Era una scena attiva.» Amelia stava cominciando a capire cos'era successo. Quell'uomo odioso si era lamentato. Accadeva ogni giorno. Nessuno prestava troppa attenzione a cazzate simili. Amelia si rilassò. «Be', sa chi era quel tizio? Victor Ramos.» «Sì, penso che me lo abbia detto.» «Victor, del Congresso.» Il sollievo svanì in un attimo. Il capitano aprì una copia del Daily News di New York. «Vediamo un po', vediamo un po'. Ah, ecco qua.» Sollevò il giornale e le mostrò una delle pagine centrali su cui campeggiava una foto di Ramos ammanettato sulla scena del crimine. Il titolo diceva: VICTOR «IN PANCHINA». «Ha detto agli agenti sulla scena di tenerlo in panchina?» «Ma stava...» «È questo che ha detto?» «Credo di sì, signore, sì.» Marlow disse: «Ramos ha dichiarato che stava cercando dei superstiti».
«Superstiti?» abbaiò lei, poi scoppiò a ridere. «Era una baracca abusiva di tre metri per tre che è crollata quando l'auto del sospetto è finita nel fiume. Parte di una delle pareti è caduta e...» «Si sta scaldando un po' troppo, agente.» «... e penso che abbia squarciato un dannato sacchetto pieno di vuoti di bottiglia. Quello è stato l'unico danno. I paramedici hanno controllato la baracca e io ho sigillato la scena. Le uniche cose vive lì dentro erano i pidocchi.» «Uh uh», disse Marlow in tono piatto, a disagio per la reazione di Amelia. «Ramos ha detto che voleva solo essere sicuro che qualcuno non fosse rimasto intrappolato lì sotto.» Amelia, senza più preoccuparsi di misurare il sarcasmo, disse: «I proprietari della casa si sono messi in salvo senza il suo aiuto. Nessuno si è fatto male. Anche se mi è stato raccontato che uno di loro si è procurato un livido su una guancia quando ha resistito all'arresto». «Quale arresto?» «Quel barbone ha tentato di rubare la torcia a un vigile del fuoco e gli ha urinato addosso.» «Oh. Ragazzi...» Amelia borbottò: «Stavano tutti bene, erano solo degli stronzi strafatti. Ed erano quelli i cittadini per cui Ramos era tanto preoccupato?» La smorfia del capitano, allo stesso tempo cauta e comprensiva, scomparve. L'emozione venne sostituita da una stolida espressione da burocrate. «Ha qualche prova che dimostri che Victor Ramos ha distrutto degli indizi utili alla cattura del sospetto?» «Non ha alcuna importanza che ci fossero o meno degli indizi, signore. È la procedura che conta.» Stava facendo di tutto per restare calma, per parlare in tono tranquillo. Dopotutto, Marlow era il capo del capo del suo capo. «Sto cercando di capire come sono andate le cose, agente Sachs», disse lui seccamente. Chiese di nuovo: «Sa per certo che sono state distrutte delle prove?» Lei sospirò. «No.» «Per cui il fatto che Ramos si sia trovato sulla scena è stato irrilevante.» «Io...» «È stato irrilevante?» «Sissignore.» Amelia si schiarì la gola. «Eravamo sulle tracce di un uomo che aveva ucciso un poliziotto, capitano. Questo non conta?» chiese
amaramente. «Conta per me. Conta per un sacco di gente, certo. Ma non conta per Ramos.» Lei annuì. «Di che genere di guaio stiamo parlando?» «Sul posto c'erano alcune troupe televisive, agente. Non ha visto i notiziari ieri sera?» No, pensò lei, ero impegnata a catturare un assassino. Tuttavia rispose: «Nossignore». «Be', il filmato di Ramos che veniva portato via in manette ha avuto molto risalto.» «Sappiamo benissimo entrambi che l'unica ragione per cui si trovava lì era per farsi riprendere mentre rischiava la vita per cercare qualche sopravvissuto... Mi dica, signore, sono curiosa: Ramos si è candidato per essere rieletto?» Sarebbe stato sufficiente riferire un commento del genere per essere costretti al pensionamento anticipato. O a rinunciare del tutto alla pensione. Marlow non disse niente. «Qual è la...» «La conclusione?» Marlow strinse le labbra. «Mi dispiace, agente. Lei è fuori. Ramos ha voluto vendicarsi. Ha scoperto del suo esame per diventare sergente. Ha fatto qualche telefonata. E l'ha fatta bocciare.» «Ha fatto cosa?» «L'ha fatta bocciare. Ha parlato con gli esaminatori.» «Il mio è stato il terzo punteggio più alto della storia del Dipartimento», disse Amelia con una risata amara. «Vero?» «Vero... nei test a risposta multipla e agli orali. Ma deve passare anche l'esercizio di valutazione.» «È andato bene.» «I risultati preliminari erano buoni. Ma nel giudizio finale è stata bocciata.» «Impossibile. Cos'è successo?» «Uno degli agenti esaminatori l'ha giudicata non idonea.» «Non idonea? Ma io...» La sua voce si spense quando le tornò alla mente il bell'agente con il fucile che era sbucato da dietro il cassonetto. L'uomo che lei aveva respinto. Bang, bang... Il capitano lesse da un foglio di carta. «Ha detto che lei, cito le sue parole, non dimostra il giusto rispetto nei confronti dei supervisori. E inoltre ha
dimostrato con il suo comportamento una mancanza di rispetto verso i colleghi che potrebbe condurre a situazioni potenzialmente pericolose.» «E così Ramos ha contattato tutti quelli che volevano escludermi e gli ha fatto imparare a memoria questa valutazione. Mi dispiace, capitano, ma pensa veramente che un poliziotto di strada parli così? 'Situazioni potenzialmente pericolose'? Andiamo.» Be', papà, pensò, come vedi non mi tengo nessun peso sullo stomaco. Era affranta. Scrutò con attenzione Marlow. «Cos'altro c'è, signore? Perché c'è dell'altro, vero?» Lui sostenne il suo sguardo e disse: «Sì, agente. C'è dell'altro. E temo che sia anche peggio». Sentiamo un po' cosa esattamente potrebbe essere peggio, papà. «Ramos sta cercando di farla sospendere.» «Sospendere? Stronzate.» «Vuole che sia aperta un'inchiesta.» «Quell'uomo è solo un vendicativo...» Non disse ad alta voce «figlio di puttana» perché lo sguardo di Marlow le ricordò che era stato proprio quel tipo di atteggiamento a metterla nei guai. Il capitano aggiunse: «Devo dirglielo, Ramos è abbastanza infuriato da... Be', comunque chiederà la sospensione dal servizio senza stipendio». Quella punizione di solito veniva riservata agli agenti che venivano accusati di gravi crimini. «Perché?» Marlow non rispose. Non ce n'era motivo, naturalmente. Amelia lo sapeva: per rafforzare la sua credibilità, Ramos doveva dimostrare che la donna che lo aveva umiliato mettendolo in panchina non era altro che una mina vagante. E l'altra ragione era che Victor Ramos era un vendicativo figlio di puttana. «Quali sarebbero le accuse?» «Insubordinazione e incompetenza.» «Non posso perdere il mio distintivo, signore.» Amelia si sforzò di non mostrare la propria disperazione. «Non posso fare niente per il risultato del suo esame, Amelia. La commissione ha già deciso. Ma cercherò di impedire la sospensione. Naturalmente non posso prometterle niente. Ramos ha molti amici. In tutta la città.»
Amelia si portò una mano ai capelli. Si grattò il cuoio capelluto finché non sentì dolore. Abbassò la mano, sentendola sporca di sangue. «Posso parlare liberamente, signore?» Marlow si abbandonò leggermente contro lo schienale della sedia. «Gesù, agente, certo. Voglio che sappia che questa storia non mi piace affatto. Dica quello che vuole. E non deve stare sull'attenti anche quando è seduta. Non siamo nell'esercito.» Amelia si schiarì la gola. «Se Ramos chiederà la mia sospensione, signore, chiamerò immediatamente gli avvocati dell'ADAP. Questo caso non passerà inosservato. Andrò fino in fondo.» E parlava sul serio. Anche se sapeva che i poliziotti che combattevano contro la discriminazione o la sospensione con l'aiuto dell'Associazione per la Difesa degli Agenti di Pattuglia venivano ufficiosamente emarginati. Le carriere di molti di loro venivano bloccate permanentemente anche quando raggiungevano vittorie tecniche. Marlow la guardò negli occhi e disse: «Capisco, agente». Quindi era giunto il momento dell'azione. Era un'espressione di suo padre. Riguardava il mestiere del poliziotto. Amie, devi capire che qualche volta è come una corsa, qualche volta puoi fare la differenza e qualche volta è noioso. E qualche volta, anche se non troppo spesso, grazie a Dio, è il momento dell'azione. Pugno contro pugno. Sei sola e non c'è nessuno ad aiutarti. E non parlo soltanto dei criminali. Qualche volta ti troverai a lottare contro il tuo capo, o persino contro i tuoi amici. Se vuoi essere un poliziotto, devi essere pronta a essere sola. È inevitabile. «Be', per il momento lei resta in servizio attivo.» «Sissignore. Quando saprò qualcosa?» «Tra un giorno o due.» Amelia si diresse alla porta. Si fermò, si voltò. «Signore?» Marlow alzò lo sguardo come se fosse stato sorpreso nel vederla ancora lì. «Ramos era al centro della mia scena del crimine. Se al suo posto ci fosse stato lei o il sindaco o il presidente in persona, mi sarei comportata esattamente nello stesso modo.» «Lei è veramente figlia di suo padre, agente. E suo padre sarebbe fiero di lei.» Marlow sollevò il ricevitore del telefono. «Spero che andrà tutto per il meglio.»
50 Thom fece entrare Lon Sellitto nell'atrio principale dove Lincoln Rhyme sedeva sulla sua Storni Arrow rosso squillante borbottando agli operai di fare attenzione al parquet mentre portavano al piano inferiore i detriti dei lavori di riparazione in corso nella camera da letto danneggiata dall'incendio. Mentre si dirigeva in cucina per preparare il pranzo, Thom gli disse: «Lasciali in pace, Lincoln. Non potrebbe importartene meno del parquet». «È una questione di principio», ribatté il criminologo. «Si tratta del mio parquet e della loro goffaggine.» «È sempre così quando un caso è concluso», disse l'aiutante a Sellitto. «Non hai una bella rapina o un omicidio da affidargli? O un buon paciere?» «Non mi serve un paciere», ribatté bruscamente Rhyme mentre l'assistente scompariva in cucina. «Ho bisogno di gente che stia attenta al pavimento!» «Ehi, Linc, dobbiamo parlare», disse Sellitto. Il criminologo si accorse del tono usato dal detective e dell'espressione dei suoi occhi. Lui e Sellitto lavoravano insieme da anni e Rhyme era in grado cogliere anche la più piccola emozione trasmessa dal poliziotto, soprattutto quando era turbato. E adesso cosa c'è? si domandò. «Ho appena parlato con il capo dei Servizi di Pattuglia. Si tratta di Amelia.» Sellitto si schiarì la gola. Il cuore di Rhyme certamente accelerò i battiti. Lui non poté sentirlo, ma percepì un aumento della pressione al collo, alla testa e al volto. Pensò: Una pallottola, un incidente d'auto. In tono tranquillo, a voce più bassa disse: «Continua». «È stata bocciata. All'esame per diventare sergente.» «Che cosa?» «Già.» In un istante il caldo sollievo che Rhyme aveva provato lasciò il posto al dispiacere per Amelia. Il detective continuò: «Non è ancora ufficiale. Ma ne sono sicuro». «Chi te lo ha detto.» «Il radar dei poliziotti. Un fottuto uccellino. Non lo so. Amelia è una specie di star. Quando succede una cosa come questa, se ne parla in giro.»
«Che ne è stato del suo punteggio all'esame?» «È stata respinta nonostante il suo punteggio all'esame.» Rhyme pilotò la Storm Arrow nel laboratorio. Il detective, che quel giorno sembrava particolarmente arruffato, lo seguì. Lincoln scoprì che Amelia aveva ordinato a qualcuno di allontanarsi da una scena del crimine attiva e quando l'uomo si era rifiutato, lei lo aveva fatto ammanettare. Tipico. «Purtroppo, l'uomo in questione era Victor Ramos.» «L'uomo del Congresso.» Lincoln Rhyme non si era mai interessato al governo locale ma conosceva Ramos: era un politicante opportunista che aveva trascurato i suoi elettori della parte spagnola di Harlem fino a poco tempo prima, quando il nuovo clima politicamente corretto gli aveva fatto capire che avrebbe potuto aspirare a cariche più alte. «Possono davvero bocciarla?» «Andiamo, Linc. Possono fare tutto il cazzo che vogliono. Stanno parlando persino di una sospensione.» «Amelia può ribellarsi. E si ribellerà.» «Sai cosa succede ai poliziotti di strada che si ribellano ai capi. È quasi certo che, anche se dovesse spuntarla, la manderanno a East New York. O peggio, la inchioderanno dietro una scrivania a East New York.» «Cazzo», ringhiò il criminologo. Sellitto camminò avanti e indietro per la stanza, scavalcando i cavi e guardando le lavagne del caso del Negromante. Alla fine si lasciò cadere su una sedia che scricchiolò sotto il suo peso. Si massaggiò con una mano il rotolo di grasso che gli sporgeva dalla vita dei pantaloni; il caso del Negromante aveva seriamente compromesso la sua dieta. «C'è una cosa, però», disse a bassa voce, in tono vagamente cospiratorio. «Cosa?» «Conosco un tizio. È quello che ha ripulito il Diciotto.» «Quando il crack e l'eroina continuavano a sparire dall'archivio delle prove, qualche anno fa?» «Già. Proprio così. Ha molti amici alla centrale. Il capo della commissione sarà disposto ad ascoltarlo e lui sarà disposto ad ascoltare me. Mi deve qualche favore.» Poi indicò con un gesto vago della mano le tabelle delle prove. «E, cazzo, guarda cosa abbiamo appena fatto. Abbiamo inchiodato un criminale pericolosissimo. Lascia che gli telefoni. Che tiri qualche filo per aiutare Amelia.» Anche gli occhi di Rhyme scrutarono le tabelle e poi l'attrezzatura, i ta-
voli per le analisi, i libri — tutto lì dentro era finalizzato all'analisi delle prove che Amelia aveva raccolto sulle scene del crimine nel corso degli anni passati a lavorare insieme. «Non lo so», disse alla fine. «Che problema c'è?» «Se diventasse sergente in questo modo, be', non ce l'avrebbe fatta con le sue sole forze.» Il detective replicò: «Questa promozione significa molto per lei, lo sai, Linc». Sì, lo sapeva. «Ascolta, non stiamo facendo altro che giocare con le regole di Ramos. Se vuole giocare sporco, noi faremo altrettanto. È solo un modo per combattere ad armi pari.» Sellitto era soddisfatto della propria idea. Aggiunse: «Amelia non lo scoprirà mai. Dirò al mio uomo di tenere la bocca chiusa. E lui lo farà». Questa promozione significa molto per lei, lo sai... «Allora, che ne pensi?» domandò il detective. Per un attimo Rhyme non disse nulla e cercò la risposta nel silenzio delle apparecchiature scientifiche che lo circondavano e poi nella verde nebbia di primavera degli alberi di Central Park. I segni sul parquet erano stati ripuliti e tutte le tracce erano state fatte «scomparire», come disse Thom — piuttosto astutamente, pensò Rhyme. Nella stanza aleggiava ancora un denso odore di fumo ma, dal momento che gli ricordava quello di un ottimo scotch, non era un problema. Adesso era mezzanotte e la stanza era immersa nell'oscurità. Rhyme era sdraiato sul letto Flexicair e stava guardando fuori dalla finestra. Notò un rapido movimento quando un falco, una delle più aggraziate creature di Dio, si posò sul davanzale. A seconda della luce, e del loro grado di all'erta, gli uccelli sembravano talvolta più grandi talvolta più piccoli. Quella sera sembravano più grandi di quanto sarebbero apparsi nella luce del giorno, le sagome imponenti. E anche minacciose: non erano affatto felici dei rumori che giungevano da Central Park e dal Cirque Fantastique. E nemmeno Rhyme lo era. Si era appisolato una decina di minuti prima ma era stato svegliato da una fragorosa esplosione di applausi. «Qualcuno dovrebbe imporgli un coprifuoco», borbottò ad Amelia, che era sdraiata sul letto accanto a lui. «Posso sempre sparare al loro generatore», disse lei con voce chiara. A quanto pareva non aveva chiuso occhio nemmeno per un attimo. Aveva la
testa appoggiata sul cuscino accanto a lui, le labbra contro il suo collo, su cui Rhyme poteva sentire la lieve carezza dei capelli e della pelle di lei. Ma c'erano anche i suoi seni contro il suo petto, il suo ventre contro il suo fianco, la sua gamba sopra la sua gamba. Poteva solo «vedere» quel contatto, tuttavia questo non gli impediva di godersi la sensazione della vicinanza. Amelia rispettava sempre la regola di Rhyme che impediva a chi percorreva la griglia di usare profumi. Infatti un profumo avrebbe potuto nascondere tracce di carattere olfattivo presenti sulla scena del crimine. Ma in quel momento Amelia non era in servizio e Lincoln percepì sulla sua pelle un piacevole miscuglio di profumi tra i quali riuscì a riconoscere gelsomino, gardenia e olio sintetico per motori. Erano soli nell'appartamento. Thom era andato al cinema con il suo amico Peter e Lincoln e Amelia avevano passato la serata ad ascoltare qualche nuovo CD, mangiando caviale sevruga e cracker Ritz, accompagnando il tutto con dell'ottimo Moët, benché non fosse molto facile bere champagne con una cannuccia. Adesso, nella semioscurità, Rhyme stava pensando alla musica, a quanto un semplice sistema meccanico di tonalità e ritmo potesse assorbire completamente l'ascoltatore. Quell'idea lo affascinava. Più ci pensava, più si convinceva che l'argomento potesse essere meno misterioso di quanto sembrasse. La musica aveva, dopotutto, salde radici nel suo mondo: nella scienza, nella logica e nella matematica. Come avrebbe fatto se avesse voluto scrivere una melodia? Se gli esercizi fisici a cui si stava dedicando prima o poi avessero avuto qualche effetto... sarebbe veramente riuscito a premere le dita su una tastiera? Mentre rifletteva, notò che Amelia lo stava osservando. «Hai saputo del mio esame?» gli chiese. Un'esitazione. Quindi, Rhyme rispose: «Sì». Aveva scrupolosamente evitato di sollevare l'argomento per tutta la sera; quando Amelia era pronta a parlare di qualcosa, lo faceva. Fino a quel momento, però, l'argomento non esisteva. «Sai cos'è successo?» gli chiese lei. «Non conosco i dettagli. Credo che si tratti della classica faccenda di politico ambizioso e semicorrotto contro eroica agente della scientifica oberata di lavoro. Dico bene?» Lei rise. «Più o meno.» «Ci sono passato anch'io, Sachs.» La musica del circo continuava a martellare in sottofondo, suscitando re-
azioni contraddittorie. In qualche modo si aveva la sensazione di essere infastiditi dall'intrusione di quelle note, ma allo stesso tempo non si riusciva a resistere al ritmo. Quindi lei domandò: «Per caso Lon ti ha detto che vuole aiutarmi in qualche modo? Fare qualche telefonata a suoi amici del comune?» Amelia non lo scoprirà mai. Dirò al mio uomo di tenere la bocca chiusa... Lui ridacchiò. «Sì, sai com'è fatto Lon.» La musica si interruppe. Poi un altro scroscio di applausi riempì la notte, seguito dal debole ma evocativo suono della voce del maestro di cerimonie. Amelia riprese: «Ho sentito che potrebbe far archiviare questa storia. Scavalcando Ramos». «È probabile. Lon ha molti amici importanti.» Amelia chiese: «Tu che cosa gli hai detto?» «Tu che cosa pensi che gli abbia detto?» «Te lo sto chiedendo.» «Ho detto di no. Gli ho detto di non farlo.» «Davvero?» «Certo. Gli ho detto che avresti voluto ottenere la promozione con le tue sole forze.» «Dannazione», mormorò lei. Lui la guardò, allarmato per un attimo. Aveva forse sbagliato nel giudicarla? «Sono incazzata con Lon, non avrebbe nemmeno dovuto pensare una cosa simile.» «Era in buonafede.» Rhyme immaginò che il braccio con cui lei gli circondava il petto lo stringesse più forte. «Quello che gli hai detto, Rhyme, per me ha più importanza di tutto il resto.» «Lo so.» «Le cose potrebbero mettersi male. Ramos vuole chiedere la mia sospensione. Dodici mesi, niente paga. Non so cosa farò.» «Farai la consulente. Con me.» «Un civile non può percorrere la griglia, Rhyme. Se non potrò muovermi, impazzirò.» Quando ti muovi non possono prenderti... «Ce la caveremo, vedrai.»
«Ti amo», sussurrò lei. Lui reagì respirando il suo profumo di fiori e di Quaker State e dicendole che anche lui l'amava. «Ragazzi, c'è troppa luce.» Amelia guardò la finestra illuminata dai riflettori del circo. «Dove sono finite le tende?» «Sono bruciate, ricordi?» «Pensavo che Thom ne avesse comprate di nuove.» «Ha cominciato ad appenderle ma stava diventando insopportabile. Non faceva altro che misurare e rimisurare tutto. L'ho sbattuto fuori e gli ho detto di pensarci più avanti.» Lei si alzò e andò a prendere un lenzuolo che appese davanti ala finestra, schermando la luce. Tornò a letto, si rannicchiò accanto a lui e ben presto si addormentò. Ma Lincoln Rhyme rimase sveglio. Mentre ascoltava la musica e la voce ammaliante del maestro di cerimonie, alcune idee cominciarono a formarsi nella sua mente e il sonno gli passò del tutto. Ben presto fu completamente sveglio, perso nei suoi pensieri. Che, cosa non proprio sorprendente, riguardavano il circo. Nella tarda mattinata del giorno dopo, Thom entrò in camera da letto e scoprì che Rhyme non era solo. «Ciao», disse a Jaynene Williams che sedeva accanto al letto del criminologo su una delle sedie nuove. «Thom.» Lei gli strinse la mano. L'assistente, che era stato fuori a fare compere, era chiaramente sorpreso di vedere qualcuno lì. Grazie al computer, alle unità di controllo ambientale e alle telecamere a circuito chiuso, naturalmente, Rhyme era del tutto in grado di telefonare a qualcuno, invitarlo a casa e farlo entrare. «Non fare quella faccia scioccata», disse Rhyme caustico. «Ho invitato qui delle persone altre volte.» «Sì, qualche secolo fa.» «Penso che assumerò Jaynene per sostituirti.» «Perché non ci tieni tutti e due? Sarebbe più facile sopportare i tuoi capricci.» Rivolse un sorriso alla donna. «Non preoccuparti, non ti farei mai una cosa del genere.» «Mi è capitato di peggio.» «Gradisci un caffè? Oppure un tè?» Rhyme si scusò: «Mi dispiace... Ma che fine hanno fatto le mie buone maniere? Avrei dovuto pensarci prima».
«Un caffè andrà benissimo.» «Per me uno scotch», disse Rhyme. Quando Thom lanciò un'occhiata all'orologio, il criminologo aggiunse: «Solo una piccola dose, a scopo terapeutico». «Caffè per tutti», decise l'aiutante uscendo dalla stanza. Quando Thom se ne fu andato, Rhyme e Jaynene chiacchierarono brevemente dei pazienti con lesioni alla spina dorsale e degli esercizi a cui il criminologo si stava dedicando con tutto se stesso. Poi, impaziente come sempre, Rhyme ritenne di essere stato un ospite abbastanza gentile e, abbassando la voce, disse: «C'è un problema, un pensiero che mi tormenta. Penso che tu mi possa aiutare. O almeno lo spero». Lei lo guardò cautamente. «Può darsi.» «Potresti chiudere la porta?» La donna grassa guardò la porta, poi si alzò e fece come lui le aveva chiesto. Quindi tornò a sedersi. «Da quanto tempo conosci Kara?» chiese lui. «Kara? Da poco più di un anno. Da quando sua madre è arrivata alla Stuyvesant Manor.» «È una casa di cura costosa, vero?» «Terribilmente. I costi sono proibitivi. Ma d'altronde è sempre così per questo tipo di case di cura.» «Sua madre ha un'assicurazione?» «Solo quella del servizio sanitario. È Kara a sobbarcarsi la maggior parte delle spese.» Poi aggiunse: «Fa quello che può. Al momento è in pari, ma molto spesso resta indietro coi pagamenti». Rhyme annuì lentamente. «Devo farti un'altra domanda. Rifletti bene prima di rispondere. Ho bisogno che tu sia completamente sincera.» «Be'», disse l'infermiera, incerta, fissando il pavimento laccato di fresco. «Farò del mio meglio.» Quel pomeriggio Roland Bell si trovava nel soggiorno di Rhyme. Con un pezzo jazz per pianoforte di Dave Brubeck come colonna sonora, Bell e il criminologo stavano parlando delle prove del caso Andrew Constable. Charles Grady e il procuratore generale dello Stato avevano deciso di posticipare il processo in modo da includere le ulteriori accuse contro Constable — il tentato omicidio dell'avvocato Roth e il concorso in omicidio e in altri gravi crimini. Non sarebbe stato semplice collegare Constable a Barnes e agli altri cospiratori dell'Alleanza Patriottica, ma se c'era qual-
cuno in grado di riuscirci, quel qualcuno era Charles Grady. Il procuratore avrebbe chiesto inoltre la pena di morte per Arthur Loesser per l'omicidio dell'agente di pattuglia Larry Burke, il cui cadavere era stato rinvenuto in un vicolo dell'Upper West Side. Proprio in quel momento, Lon Sellitto era nel Queens al funerale del poliziotto. Amelia Sachs entrò nella stanza. Aveva un'aria stanca. Aveva trascorso tutta la mattina con gli avvocati dell'Associazione per la Difesa degli Agenti di Pattuglia per discutere della sua possibile sospensione. Avrebbe dovuto essere lì già da un'ora e vedendo la sua espressione Rhyme dedusse che i risultati del colloquio non erano stati buoni. Anche lui aveva alcune novità — novità che riguardavano il suo incontro con Jaynene e ciò che era accaduto dopo — e aveva cercato di mettersi in contatto con lei ma non c'era riuscito. Adesso, però, non c'era tempo per aggiornarla perché era comparso anche un altro ospite. Thom fece entrare nel soggiorno Edward Kadesky. «Signor Rhyme», disse salutandolo con un cenno del capo. Si era dimenticato il nome di Amelia ma la salutò con un altro cenno. Strinse la mano a Roland Bell. «Ho ricevuto il suo messaggio. Diceva che ci sono delle novità a proposito del caso.» Rhyme annuì. «Questa mattina ho svolto alcune ricerche per tentare di chiarire alcuni punti oscuri.» «Quali punti oscuri?» chiese Amelia. «Punti che non sapevo fossero oscuri. Punti oscuri sconosciuti.» Lei si accigliò. Anche l'impresario sembrava turbato. «L'assistente di Weir, Loesser, non sarà fuggito, vero?» «No, no. È ancora in prigione.» Suonarono alla porta. Thom scomparve e un attimo dopo Kara entrò nella stanza. La ragazza si guardò attorno, passandosi una mano tra i corti capelli che avevano perso la sfumatura viola e che ora erano rosso carota. «Ciao a tutti», disse al gruppo, battendo le palpebre sorpresa nel vedere Kadesky. «Posso portarvi qualcosa?» chiese Thom. «Potresti lasciarci da soli per qualche minuto, Thom? Per favore.» L'aiutante lanciò un'occhiata a Rhyme e, notando il suo tono deciso e allo stesso tempo turbato, annuì e lasciò la stanza. Il criminologo si rivolse a Kara. «Grazie per essere venuta. Ho bisogno di riesaminare alcuni aspetti del caso.» «Certo.»
Punti oscuri... Rhyme spiegò: «Vorrei conoscere qualche altro dettaglio a proposito dell'altra sera, quando il Negromante ha parcheggiato l'ambulanza-bomba nel circo». La giovane annuì, facendo ticchettare le unghie laccate di nero. «Se c'è qualcosa che posso fare per aiutarvi, ne sarò felice.» «Lo spettacolo doveva cominciare alle otto, vero?» chiese Rhyme a Kadesky. «Esatto.» «Lei non era ancora tornato dalla cena e dall'intervista alla radio quando Loesser ha parcheggiato l'ambulanza all'interno del tendone?» «No.» Rhyme si rivolse a Kara. «Ma tu eri là, vero?» «Certo. Ho visto entrare l'ambulanza. Ma sul momento la cosa non mi è sembrata strana.» «Dove ha parcheggiato esattamente Loesser?» «Sotto una delle gradinate», rispose la giovane. «Non vicino all'area riservata ai VIP?» chiese Rhyme a Kadesky. «No», rispose l'uomo. «Quindi era vicino all'uscita di emergenza principale, quella che avrebbe usato la maggior parte degli spettatori in caso di necessità.» «Esatto.» Bell domandò: «Lincoln, dove vuoi arrivare?» «Loesser ha parcheggiato l'ambulanza in modo che causasse il massimo dei danni ma che allo stesso tempo lasciasse un'ultima possibilità di mettersi in salvo alle persone che sedevano nell'area riservata. Come faceva a sapere esattamente dove parcheggiarla?» «Non lo so», rispose l'impresario. «Probabilmente aveva già fatto un sopralluogo e aveva deciso che quello era il punto migliore — voglio dire, il migliore dal suo punto di vista. Il peggiore dal nostro.» «È possibile che abbia fatto un sopralluogo», disse Rhyme. «Ma è più probabile che fosse riluttante al pensiero di essere visto nelle vicinanze del circo, perché era sorvegliato dai nostri agenti.» «È vero.» «Quindi, non è verosimile pensare che sia stato qualcuno all'interno a dirgli di parcheggiare lì?» «All'interno?» chiese Kadesky accigliandosi. «Intende dire un complice? No, nessuno dei miei dipendenti farebbe mai una cosa simile.»
«Rhyme», disse Amelia, «dove vuoi arrivare?» Lui la ignorò e tornò a guardare Kara. «Verso che ora ti ho chiesto di andare al tendone a parlare col signor Kadesky?» «Penso che fossero le sette e un quarto circa.» «E tu eri nell'area riservata?» Lei annuì e il criminologo continuò: «In uno dei posti vicino all'uscita?» La giovane si guardò intorno disorientata. «Credo di sì. Sì.» Guardò Amelia. «Perché mi sta facendo tutte queste domande?» Fu Rhyme a rispondere. «Ti sto facendo tutte queste domande perché mi sono ricordato di una cosa che ci hai detto proprio tu, Kara. A proposito delle persone che collaborano con l'illusionista che sta mettendo in scena il suo numero. Ci hai detto che c'è l'assistente — la persona che aiuta il mago sul palco. Poi c'è il volontario che viene scelto tra il pubblico. E poi c'è qualcun altro: il complice. Una persona che aiuta il mago ma che apparentemente non ha nulla a che fare con lui. I complici di solito fingono di essere attrezzisti o volontari.» «Molti illusionisti si servono di complici», osservò Kadesky. Rhyme guardò Kara e disse in tono aspro: «Ed è proprio questo che sei stata per tutto il tempo, vero?» «Che cosa?» domandò Bell, il suo accento del Sud reso più pesante dalla sorpresa. La giovane rimase a bocca aperta e scosse la testa. «Ha lavorato con Loesser fin dall'inizio», spiegò Rhyme ad Amelia. «No!» esclamò Kadesky. «Lei?» Rhyme continuò: «Ha un disperato bisogno di denaro e Loesser le ha dato cinquantamila dollari perché lo aiutasse». Disperata, Kara gridò: «Ma io e Loesser non c'eravamo mai visti prima della sua cattura!» «Non hai avuto bisogno di incontrarlo di persona. È stato Balzac l'intermediario. C'è dentro anche lui.» «Kara?» sussurrò Amelia. «No. Non posso crederci. Non lo farebbe mai!» «Ne sei proprio sicura? Che cosa sai di lei? Ti ha mai detto il suo vero nome?» «Io...» Lo sguardo turbato di Amelia si spostò sulla giovane. «No, non me lo ha mai detto.» Kara, in lacrime, scosse la testa. Alla fine disse: «Amelia, mi dispiace tanto... ma non puoi capire... Il signor Balzac e Weir erano amici. Si sono
esibiti insieme per anni e per lui è stato un colpo terribile quando Weir è morto nell'incendio. Loesser ha raccontato al signor Balzac quello che aveva intenzione di fare e io sono stata costretta ad aiutarlo. Ma, mi devi credere, non sapevo che avrebbero fatto del male a qualcuno. Il signor Balzac mi ha detto che il loro scopo era solo l'estorsione... per pareggiare il conto con il signor Kadesky. Quando mi sono resa conto che Loesser stava ammazzando della gente ormai era troppo tardi. Loro mi hanno detto che se non avessi continuato ad aiutarlo avrebbero dato il mio nome alla polizia. Che sarei finita in prigione per il resto dei miei giorni. E anche il signor Balzac...» Si asciugò le lacrime. «Non potevo fargli questo.» «No, certo, non potevi fare questo al tuo riverito mentore», disse Rhyme amaramente. Con gli occhi colmi di terrore, la giovane donna scivolò tra Amelia e Kadesky e corse verso la porta. «Fermala, Roland!» gridò Rhyme. Bell scattò in avanti e la placcò. I due rotolarono a terra in un angolo della stanza. Kara era forte, ma Bell riuscì a bloccarla a terra e ad ammanettarla. Si alzò col fiato corto per la fatica e prese il Motorola dalla cintura per chiedere che fosse mandata una macchina a prelevare un prigioniero. Poi, con aria disgustata mise via la radio e lesse a Kara i suoi diritti. Rhyme sospirò. «Ho cercato di avvertirti prima, Amelia, ma non sono riuscito a mettermi in contatto con te. Vorrei che non fosse vero. Ma le cose sono andate così. Lei e Balzac hanno collaborato con Loesser fin dall'inizio. Ci hanno ingannati come se fossimo stati il loro pubblico.» 51 In un sussurro, la donna poliziotto disse: «Ma io... Non capisco come abbia fatto». Rhyme si rivolse a Bell. «Ha manipolato la prove, ci ha mentito, ha disseminato falsi indizi... Roland, vai alla tabella. Ti mostrerò quali sono.» «Kara ha disseminato false prove?» domandò Amelia, sbalordita. «Oh, sì, puoi scommetterci. Ed è stata anche dannatamente brava. Ha cominciato dalla prima scena del crimine, prima ancora che tu la trovassi. Mi hai detto che è stata lei a farti capire che voleva parlarti in privato. Erano d'accordo fin dall'inizio.» Bell si fermò accanto alla lavagna e per ciascun indizio che indicò, Rhyme spiegò come Kara li aveva ingannati.
Un attimo dopo, Thom annunciò: «C'è un'agente qui». «Falla entrare.» Una donna poliziotto entrò nella stanza e raggiunse Amelia, Bell e Kadesky, guardandoli da dietro occhiali dalla montatura elegante, un'espressione incuriosita sul volto. Salutò Rhyme con un cenno e, con un marcato accento ispanico, chiese a Bell: «Ha chiamato per il trasporto di un prigioniero, detective?» Bell, con un cenno del capo, indicò un angolo della stanza. «È laggiù. Le ho già letto i suoi diritti.» La donna guardò la sagoma di Kara e disse: «Okay, la porto in centrale». Esitò. «Ma avrei una domanda, prima.» «Una domanda?» chiese Rhyme accigliandosi. «Di cosa sta parlando, agente?» chiese Bell. Ignorando il detective, l'agente squadrò Kadesky. «Posso vedere un suo documento, signore?» «Cosa?» chiese l'impresario. «Sissignore. Vorrei vedere la sua patente di guida.» «Volete vedere di nuovo i miei documenti? Ve li ho già mostrati l'altro giorno.» «Signore, la prego.» Controvoglia, da una tasca dei pantaloni, l'uomo prese il portafogli. Solo che non era il suo. Kadesky fissò il malconcio portafogli zebrato. «Un momento, io... non so di chi sia questo.» «Non è suo?» chiese la donna poliziotto. «No», rispose lui turbato. Prese a controllarsi le altre tasche. «Non so proprio...» «Vede, è proprio questo che temevo», disse l'agente. «Mi dispiace, signore. Lei è in arresto per furto. Ha il diritto di rimanere in silenzio...» «Sono tutte stronzate», borbottò Kadesky. «Dev'esserci un errore.» Aprì il portafogli e lo fissò per un istante. Poi scoppiò in una risata stupefatta, mostrando a tutti la patente di guida che vi aveva trovato dentro. Era quella di Kara. All'interno c'era un biglietto scritto a mano che scivolò fuori. Kadesky lo raccolse. «Dice 'Sorpresa!'», riferì socchiudendo gli occhi e studiando con più attenzione la donna poliziotto. Poi guardò la patente. «Un attimo, ma questa è lei?» L'«agente» scoppiò a ridere e si tolse gli occhiali, il cappello da poliziot-
to e la parrucca scura, rivelando i suoi corti capelli rossi. Con l'asciugamano che le porse Roland Bell, che ora stava ridendo di gusto, la giovane si tolse dal volto il fondotinta scuro, quindi si staccò le folte finte sopracciglia e le finte unghie rosse sotto cui aveva nascosto le sue vere unghie laccate di nero. Poi prese il portafogli dalle mani dello sbalordito Edward Kadesky e gli restituì il suo, che gli aveva tolto di tasca quando era passata tra lui e Amelia durante la sua «fuga» verso la porta. Amelia stava scuotendo la testa, troppo stupefatta per dire qualcosa. Sia lei che Kadesky fissarono il corpo a faccia in giù sul pavimento. La giovane illusionista raggiunse l'angolo e sollevò un leggero manichino che indossava una corta parrucca rossa, un paio di jeans e una giacca a vento simili a quelli che aveva indossato Kara quando Bell l'aveva ammanettata. Le mani del manichino erano di lattice ed erano intrappolate dalle manette di Bell da cui Kara si era liberata e che aveva richiuso attorno ai polsi finti. «È un falso», annunciò Rhyme indicando il manichino. «Una finta Kara.» Quando Amelia e gli altri si erano voltati — distratti da Rhyme che li aveva indotti a guardare la lavagna delle prove — Kara si era liberata dalle manette, aveva srotolato il manichino e silenziosamente era scivolata fuori dalla porta per cambiarsi in corridoio. Kara ripiegò il manichino speciale, che poteva essere compresso fino a raggiungere le dimensioni di un piccolo cuscino — lo aveva nascosto sotto la giacca quando era arrivata. Il manichino non avrebbe potuto passare un esame più attento ma, nella penombra, il pubblico ignaro e distratto da una diversione non si era accorto che non si trattava della ragazza. Kadesky stava scuotendo la testa. «È riuscita a fuggire e a travestirsi da agente in meno di un minuto?» «In quaranta secondi.» «Come ha fatto?» «Ha visto l'effetto», gli disse Kara. «Quanto al metodo, preferisco tenerlo per me.» «Il punto, suppongo», borbottò Kadesky in tono cinico, «è che vuole un'audizione.» Kara esitò e Rhyme le lanciò un'occhiata per spronarla. «No, il punto è che era questa l'audizione. Quello che voglio è un lavoro.» Kadesky la guardò con attenzione. «Lei mi ha mostrato un trucco. Ne ha
altri in repertorio?» «Sì, molti altri.» «Quanti travestimenti riesce a cambiare durante uno spettacolo?» «Quarantadue. Trenta personaggi. Nel corso di un numero che dura trenta minuti.» «Quarantadue trasformazioni in mezz'ora?» chiese l'impresario, inarcando le sopracciglia. «Esatto.» L'uomo rimase a riflettere per qualche secondo. «Venga a trovarmi la prossima settimana. Non ho intenzione di tagliare le esibizioni in pista dei miei artisti. Ma potrebbero aver bisogno di un'assistente e di un'apprendista. E forse potrebbe fare qualche esibizione durante i nostri spettacoli invernali in Florida.» Rhyme e Kara si scambiarono un'occhiata. Lui annuì con decisione. «Okay», disse la giovane a Kadesky, stringendogli la mano. Lui guardò il manichino ripiegato che lo aveva tratto in inganno. «Lo ha costruito lei?» «Sì.» «Le consiglio di brevettarlo.» «Non ci avevo pensato. Grazie. Credo che lo farò.» Kadesky la squadrò di nuovo. «Quarantadue cambi in trenta minuti.» Quindi, annuendo, lasciò la stanza. Sia lui sia Kara avevano l'aria di due persone che avevano appena acquistato una splendida macchina sportiva a un prezzo stracciato. Amelia scoppiò a ridere. «Dannazione, me l'avete proprio fatta.» Lanciò un'occhiata a Rhyme. «Tutti e due.» «Ehi», disse Bell, fingendosi offeso. «Non dimenticarti di me. Io sono quello che l'ha ammanettata.» Amelia scosse di nuovo la testa. «Quando l'avete architettato?» Rhyme spiegò che aveva iniziato a pensarci la notte prima a letto, mentre ascoltava la musica del Cirque Fantastique, la voce attutita del direttore di pista, gli applausi e le risate della folla. Aveva pensato a Kara, a quanto fosse stata brava nella sua esibizione allo Smoke & Mirrors. E aveva ripensato alla sua mancanza di fiducia in se stessa e all'influenza che Balzac esercitava su di lei. Poi gli era tornato in mente ciò che gli aveva detto Amelia circa le gravi condizioni in cui versava la madre di Kara. La cosa lo aveva spinto a invitare Jaynene la mattina dopo.
«Devo farti un'altra domanda», le aveva chiesto Rhyme. «Rifletti bene prima di rispondere. Ho bisogno che tu sia completamente sincera.» La domanda era stata: «Le condizioni della madre di Kara potranno migliorare?» Jaynene aveva replicato: «Mi stai chiedendo se tornerà mai in sé?» «Esatto. Si riprenderà?» «No.» «Quindi Kara non andrà con lei in Inghilterra?» Una risata amara. «No, no, no. Quella donna non andrà da nessuna parte.» «Kara ha detto che non può lasciare il suo lavoro perché deve continuare a mantenere sua madre alla Stuyvesant.» «Sua madre ha bisogno di essere accudita, certo. Ma non da noi. Kara sta pagando la riabilitazione e le terapie mediche. Tutte cure a breve termine. La madre non sa nemmeno in che anno siamo. Potrebbe trovarsi in un posto qualsiasi. Mi dispiace dirlo, ma la sola cosa di cui abbia bisogno a questo punto è di essere accudita, non riabilitata.» «Che cosa le accadrà se verrà trasferita in una clinica per lungodegenze?» «Continuerà a peggiorare fino alla fine. Ovvero esattamente la stessa cosa che le accadrebbe se rimanesse con noi. L'unica differenza è che Kara non sarebbe costretta a indebitarsi fino al collo.» A quel punto, Jaynene e Thom erano andati a pranzo insieme, senza dubbio anche per scambiarsi racconti di guerra sulle persone di cui si occupavano. Rhyme aveva telefonato a Kara. Lei lo aveva raggiunto e avevano fatto una chiacchierata. La conversazione era stata un po' goffa; il criminologo non era mai stato un esperto di questioni personali. Affrontare un killer senza cuore era molto più facile che avere a che fare con i delicati equilibri della vita di un'altra persona. «Non conosco molto bene la tua professione», le aveva detto. «Ma domenica, quando ho visto la tua esibizione al negozio, sono rimasto molto impressionato. E non è facile impressionarmi. Sei stata dannatamente brava.» «Brava per un'apprendista», aveva risposto lei con noncuranza. «No», aveva ribattuto lui in tono fermo, «brava per un'artista. Dovresti esibirti.» «Non sono ancora pronta. Ma ci arriverò, prima o poi.» Dopo una lunga pausa, Rhyme aveva detto: «Il problema è che se conti-
nui così, con questo atteggiamento, non ci arriverai». Con un'occhiata si era guardato brevemente il corpo. «A volte intervengono... dei fattori. E scopri di aver perso qualcosa di importante. Che ti mancherà per sempre.» «Ma il signor Balzac...» «Ti sta frenando. È ovvio.» «Sta solo pensando a ciò che è meglio per me.» «No, non è vero. Non so a cosa stia pensando, ma la cosa certa è che non sta pensando a te. Pensa a Weir e Loesser. E a Keating. I mentori possono mesmerizzare i loro apprendisti. Ringrazia Balzac per ciò che ha fatto, restate amici, mandagli i biglietti per la tua prima esibizione alla Carnegie Hall. Ma va' via da lui ora... finché sei in tempo.» «Io non sono mesmerizzata», aveva ribattuto Kara ridendo. Rhyme non aveva ribattuto e si era reso conto che la ragazza per la prima volta stava valutando fino a che punto quell'uomo la dominasse. Quindi aveva continuato: «Kadesky è in debito con noi, dopo tutto quello che abbiamo fatto per lui. Amelia mi ha detto quanto ami il Cirque Fantastique. Credo che dovresti chiedere un'audizione». «Anche se lo facessi, ho un grave problema personale. Mia...» «Madre», l'aveva interrotta Rhyme. «Esatto.» «Ho fatto due chiacchiere con Jaynene.» La giovane era rimasta in silenzio. Rhyme aveva ripreso: «Lascia che ti racconti una storia». «Una storia?» «Ho diretto il Dipartimento della scientifica qui a New York. Dovevo occuparmi anche di un sacco di stronzate burocratiche, come puoi immaginare. Ma ciò che amavo di più — e ciò in cui ero davvero bravo — era analizzare le scene del crimine, così, anche quando sono stato promosso, andavo sul campo il più spesso possibile. Be', qualche anno fa c'era uno stupratore seriale che agiva nel Bronx. Ti risparmio i dettagli, ma la situazione era terribile e io volevo inchiodare quel criminale. A tutti i costi. A un certo punto ho ricevuto una chiamata da una pattuglia che mi avvertiva che c'era stata un'altra aggressione, solo mezz'ora prima, e sembrava che ci fossero delle buone prove. Sono andato sul posto per esaminare la scena di persona. «Non appena sono arrivato ho scoperto che il mio secondo in comando — un caro amico — aveva avuto un attacco di cuore. Una cosa seria. Ero sconvolto. Era un ragazzo giovane, in buona forma. Comunque, ha chiesto
di vedermi.» Rhyme aveva cercato di tenere a bada quel doloroso ricordo e aveva continuato: «Ma io sono rimasto a esaminare la scena del crimine, ho compilato i documenti di custodia e solo allora sono andato in ospedale. Sono arrivato là il prima possibile ma comunque troppo tardi. Il mio amico era morto mezz'ora prima. Non ero orgoglioso di ciò che avevo fatto. E anche oggi, dopo tutti questi anni, è un ricordo che mi fa ancora molto male. Ma non avrei mai potuto comportarmi diversamente». «Così, quello che mi stai dicendo è che dovrei mettere mia madre in una merdosa casa di cura», aveva detto lei amaramente. «Un posto meno costoso. Per poter essere felice.» «Naturalmente no. Sistemala in un posto che le dia tutto ciò di cui ha bisogno — dove potrà essere accudita, avere compagnia. Non ciò di cui tu hai bisogno. Non in un centro di riabilitazione che ti sta rovinando economicamente... Quello che voglio dirti è che se c'è qualcosa che sai che devi fare nella vita, questo deve avere la priorità su tutto il resto. Cerca di ottenere un posto al Cirque Fantastique o da qualche altra parte. Ma devi sbrigarti.» «Lo sai come sono alcune di quelle case di cura?» «Be', allora il tuo compito sarà trovarne una che vada bene sia a te sia a tua madre. Scusami se sono così brusco, ma te l'ho detto fin dall'inizio che la delicatezza non è la mia specialità.» Kara aveva scosso la testa. «Ascolta, Lincoln, anche se decidessi di farlo, sai quanta gente sarebbe disposta a fare qualsiasi cosa per un posto al Cirque Fantastique? Ricevono un centinaio di curricula alla settimana.» Finalmente lui aveva sorriso. «Be', ho pensato anche a questo. L'Uomo Immobilizzato ha avuto un'idea per un numero che credo dovremmo provare a mettere in scena.» Rhyme finì di raccontare ad Amelia cos'era successo. Kara precisò: «Pensavamo di chiamare il trucco il Sospetto Che Scappa. Lo aggiungerò al mio repertorio». Amelia si rivolse a Rhyme. «E la ragione per cui non me ne hai parlato prima sarebbe...?» «Mi dispiace. Eri alla centrale. E non sono riuscito a contattarti.» «Be', il trucco avrebbe funzionato meglio se me ne avessi parlato. Avresti potuto lasciarmi un messaggio.» «Mi. Dispiace. Ecco. Ti ho chiesto scusa. Sai che non lo faccio molto spesso. Dovresti apprezzarlo. Anche se, ora che hai sollevato la questione, non capisco proprio come avrebbe potuto funzionare meglio. L'espressione
sul tuo volto è stata qualcosa di impagabile. Ha dato un tocco di credibilità in più.» «E Balzac?» domandò Amelia. «Lui non conosceva Weir? Non era davvero coinvolto?» Con un cenno del capo Rhyme indicò Kara. «Pura finzione. Abbiamo scritto il copione insieme, io e lei.» Amelia guardò la giovane. «Prima ti fai pugnalare a morte quando la tua sicurezza è affidata a me. Poi ti trasformi nella complice di un assassino.» La donna poliziotto sospirò, esasperata. «La nostra potrebbe essere un'amicizia difficile.» Kara si offrì di andare a prendere qualcosa da mangiare al takeaway cubano dal momento che la loro cena dell'altra sera era saltata... anche se Rhyme sospettava che fosse solo una scusa per potersi bere un altro di quei densi caffè. Ma prima che potessero decidere cosa ordinare, furono interrotti dallo squillo del telefono. Il criminologo disse: «Comando, risposta telefono». Un attimo dopo la voce di Sellitto risuonò nell'altoparlante. «Linc, sei impegnato?» «Dipende», borbottò lui. «Cosa succede?» «Non c'è riposo per i dannati... Abbiamo ancora bisogno del tuo aiuto. C'è stato uno strano omicidio.» «L'ultimo era 'bizzarro', se non ricordo male. A volte penso che tu usi espressioni del genere per catturare la mia attenzione.» «No, davvero non riusciamo a capire che cosa sia successo.» «Va bene, va bene», tagliò corto il criminologo, «dammi i dettagli.» Tuttavia, il vero significato del comportamento scontroso di Rhyme era che il criminologo era felice di scoprire che la noia sarebbe stata tenuta a bada da qualcosa ancora per un po'. Kara era ferma davanti allo Smoke & Mirrors e si stava accorgendo di cose che non aveva mai notato nell'anno e mezzo in cui aveva lavorato lì. Un buco nell'angolo in alto a sinistra della vetrina causato forse da una pallottola vagante. Un piccolo ghirigoro fatto con la vernice spray sulla porta. Un polveroso libro su Houdini in vetrina, aperto alla pagina in cui si parlava del tipo di corda che il grande mago preferiva usare nei suoi numeri. Vide una luce baluginare nel negozio: il signor Balzac che si accendeva una sigaretta. Un profondo respiro. Facciamolo, pensò, ed entrò nel negozio. Lui sedeva dietro il bancone con il suo amico che aveva trascorso il
weekend in città, un illusionista che viveva in California. Balzac la presentò come sua apprendista e l'uomo di mezza età le strinse la mano. Chiacchierarono brevemente dello spettacolo che l'uomo aveva fatto la sera prima, di altri loro colleghi che stavano per esibirsi in città... i tipici pettegolezzi a cui si dedicano gli artisti in ogni parte del mondo. Alla fine l'uomo prese la valigia. Era diretto all'aeroporto Kennedy dove avrebbe preso il volo per tornare a casa ed era passato in negozio per restituire alcuni strumenti che aveva preso in prestito. Abbracciò Balzac, salutò Kara con un cenno del capo e uscì dal negozio. «Sei in ritardo», le disse il mago in tono scontroso. Poi notò che la giovane non aveva ancora messo la borsa dietro il bancone come era solita fare. Le guardò le mani. Niente tazza di caffè. Quello naturalmente era un segno. Si accigliò. «Cosa c'è?» domandò, aspirando una boccata di fumo. «Dimmi tutto.» «Ho deciso di andarmene.» «Hai...» «Ho parlato con Ed Kadesky e ho un lavoro al Cirque Fantastique.» «Con quella gente? Kadesky? No, no, no — non va assolutamente bene per te. Quella non è magia. Quella è...» «È ciò che voglio fare.» «Ne abbiamo parlato decine di volte. Non sei pronta. Sei brava. Ma non sei ancora grande.» «Non ha importanza», ribatté lei con decisione. «La cosa più importante è salire sul palco. È esibirsi.» «Se avrai troppa fretta...» «Ma quale fretta, David? Quale fretta? E quando sarò pronta? L'anno prossimo? Tra cinque anni?» In circostanze normali, Kara avrebbe avuto difficoltà a sostenere lo sguardo di Balzac; ma ora, fissandolo dritto negli occhi, disse: «Quando mi lascerai andare?» Una pausa, mentre Balzac riordinava alcune carte e le appoggiava sul bancone malconcio percorso da crepe. «Kadesky», disse con disprezzo. «E che cosa farai per lui?» «All'inizio l'assistente. Poi in inverno potrò fare qualche spettacolo, in Florida. Poi... chissà?» Lui spense la sigaretta. «È uno sbaglio. Sprecherai il tuo talento. Quello che fa lui non è il tipo di illusionismo che ti ho insegnato io.» «Ho ottenuto quel lavoro grazie a quello che mi hai insegnato tu.»
«Kadesky», ripeté lui. «La nuova magia.» «Sì, proprio così. Ma farò anche i numeri che mi hai insegnato. La metamorfosi, ricordi? Ciò che è vecchio che diventa nuovo.» Balzac non sorrise, tuttavia lei si accorse che quella citazione gli aveva fatto piacere. «David, voglio continuare a studiare con te. Quando tornerò in città voglio prendere altre lezioni. Ti pagherò.» «Non credo che funzionerebbe. Non puoi servire due padroni», mormorò. Poiché Kara non reagiva, aggiunse sbuffando: «Staremo a vedere. Potrei non avere tempo per te. Probabilmente non ne avrò». Lei si sistemò meglio la borsa sulla spalla. «Adesso?» chiese lui. «Te ne vai adesso?» «Sì. Credo che sia la cosa migliore.» Lui annuì. «Allora», disse Kara. L'illusionista si limitò a un formale «Allora addio» e non aggiunse altro. Tentando di tenere a bada le lacrime, Kara si avvicinò alla porta. «Aspetta», disse lui mentre lei stava per uscire. Balzac scomparve per un attimo nel retro del negozio, poi tornò da Kara. In una mano aveva qualcosa che fece scivolare in quella di lei. Era la scatola di sigari che conteneva i tre fazzoletti di seta colorati di Tarbell. «Tieni. Voglio che li abbia tu... Mi è piaciuto come hai eseguito il trucco l'ultima volta. Sei stata molto brava.» Kara ripensò al complimento che aveva ricevuto allora. Ah... Fece un passo avanti e lo abbracciò, pensando che quello era il primo contatto fisico che avevano avuto da quando, diciotto mesi prima, lei gli aveva stretto la mano presentandosi. Lui la abbracciò goffamente, poi fece un passo indietro. Kara uscì dal negozio, si fermò e si voltò per salutarlo di nuovo, ma Balzac era già scomparso nei bui recessi dello Smoke & Mirrors. La giovane si infilò la scatola con i fazzoletti nella borsa e si incamminò verso la Sesta strada e il suo appartamento. 52 Era davvero uno strano delitto. Un duplice omicidio in una zona deserta di Roosevelt Island — quella stretta striscia di condomini, ospedali e spettrali rovine nell'East River. Dal
momento che la linea tranviaria si ferma non lontana dalle Nazioni Unite a Manhattan, molti diplomatici e impiegati dell'ONU vivono sull'isola. Ed erano proprio due di questi ultimi — giovani emissari venuti dai Balcani — che erano stati trovati assassinati. Entrambi avevano ricevuto due colpi di pistola alla nuca e avevano le mani legate. C'erano diversi dettagli curiosi che Amelia Sachs aveva notato quando aveva analizzato la scena del crimine. Aveva trovato cenere di un tipo di sigaretta non registrata in nessun database del tabacco, né in quello statale né in quello federale; tracce di una pianta che non era indigena dell'area metropolitana e impronte di una pesante valigia che era stata appoggiata a terra e apparentemente aperta accanto alle due vittime dopo l'omicidio. Ma la cosa più strana di tutte era che a ciascuno dei due uomini era stata tolta la scarpa destra. E delle scarpe mancanti non c'era alcuna traccia. «A entrambi è stata levata la destra, Sachs», disse Rhyme guardando la lavagna delle prove davanti a cui era seduto, mentre lei camminava avanti e indietro nella stanza. «Che cosa dobbiamo dedurre?» Ma la domanda venne lasciata temporaneamente in sospeso perché il cellulare di Amelia si mise a squillare. Era la segretaria del capitano Marlow che le chiese di recarsi alla centrale e di recarsi nel suo ufficio. Erano trascorsi diversi giorni dalla chiusura del caso del Negromante, diversi giorni da quando aveva scoperto dell'azione di Victor Ramos contro di lei. Da allora non si era più parlato della sospensione. «Quando?» chiese Amelia. «Be', adesso», rispose la donna. Amelia concluse la comunicazione e, rivolgendo un'occhiata e un sorriso teso a Rhyme, disse: «Ci siamo. Devo andare». Si guardarono negli occhi per qualche istante. Poi Rhyme annuì e Amelia uscì dalla stanza. Mezz'ora più tardi, Amelia era nell'ufficio del Capitano Gerald Marlow e sedeva davanti all'uomo, che stava leggendo uno dei suoi immancabili fascicoli. «Un secondo, agente.» Continuò a leggere il documento che lo stava assorbendo tanto, qualsiasi cosa fosse, prendendo qualche appunto. Amelia rimase ad aspettare. Tormentandosi una pellicina, poi un'unghia. Trascorsero due lunghi minuti. Oh, Gesù Cristo, pensò lei, e alla fine chiese: «Okay, signore. Cos'è successo? È tornato sui suoi passi?» Marlow mise un segno sul foglio che stava leggendo e sollevò lo sguardo. «Chi?» «Ramos. A proposito del mio esame da sergente.»
E magari anche quell'altro vendicativo figlio di puttana, quel viscido poliziotto dell'esercitazione. «Se è tornato sui suoi passi?» domandò Marlow. Sembrava sorpreso dall'ingenuità di Amelia. «Be', agente, questa non è mai stata una possibilità.» Quindi restava un'unica spiegazione per quel faccia a faccia, una certezza che l'attraversò con l'affilata chiarezza del primo colpo di pistola sparato all'aperto. Quel primo colpo... prima che i tuoi muscoli e le tue orecchie e la tua pelle vengano intorpiditi dalla ripetizione degli spari. C'era una sola ragione per cui Marlow l'aveva chiamata lì. Il capitano avrebbe preso in consegna la sua arma e il suo distintivo. Era stata sospesa. Merdamerdamerda... Amelia si morse l'interno della bocca. Chiudendo il fascicolo, Marlow la guardò con aria paterna, cosa che la infastidì; era come se il capitano pensasse che la punizione che le era stata inflitta fosse così severa che le sarebbe servita un po' di bonaria gentilezza paterna. «Le persone come Ramos, agente, non si possono battere. Non sul loro campo da gioco. Lei ha vinto una battaglia, ammanettandolo su quella scena del crimine. Ma lui ha vinto la guerra. Le persone come lui vincono sempre la guerra.» «Intende dire le persone stupide? Le persone superficiali? Le persone avide?» Ancora una volta, il corredo genetico del poliziotto in carriera gli impedì di prendere anche solo in considerazione quella domanda. «Guardi questa scrivania», disse lui, osservando il ripiano invaso da fogli, pile di documenti e memorandum. «E pensare che quando ero un agente di pattuglia mi lamentavo delle troppe scartoffie.» Rovistò in una delle pile di fogli cercando qualcosa. Rinunciò. Provò con un'altra pila. Trovò alcuni documenti che non erano quelli che stava cercando e con grande calma li risistemò prima di ricominciare con la ricerca. Oh, papà, non ho mai pensato che sarei stata davvero sospesa. Poi, nel suo cuore, il dolore e la delusione si trasformarono in una roccia. E Amelia pensò: Okay, è così che vogliono giocare? Forse io sto andando a fondo ma loro la pagheranno. Ramos e tutti gli stronzi come Ramos dovranno sputare sangue. Il momento dell'azione... «Ecco», disse il capitano che finalmente aveva trovato ciò che stava cercando, una grossa busta a cui era fissato un pezzo di carta con una graffetta. Lesse velocemente il foglio. Lanciò un'occhiata all'orologio a forma di
timone che aveva sulla scrivania. «Accidenti, come vola il tempo. Sbrighiamoci, agente. Mi consegni il suo distintivo.» Col cuore stretto in una morsa, Amelia prese il distintivo dalla tasca. «Quanto tempo?» «Un anno, agente», rispose Marlow. «Mi dispiace.» Sospesa per un anno, pensò Amelia disperata. Aveva immaginato che alla peggio sarebbe stata sospesa per tre mesi. «Non sono riuscito a fare di più. Un anno. Mi dia il distintivo.» Marlow scosse la testa. «Mi dispiace per la fretta. Ho una riunione tra pochi minuti. Le riunioni... mi fanno diventare pazzo. Questa è per un'assicurazione. I civili credono che non facciamo altro che catturare i criminali. O, più probabilmente, che non facciamo altro che non catturare i criminali. Invece metà del nostro lavoro sono solo idiozie burocratiche.» Tese la mano verso di lei. Affranta, soffocata dalla disperazione, Amelia gli porse il malconcio portadocumenti di pelle che conteneva il distintivo d'argento e il tesserino di riconoscimento. Distintivo Numero Cinque Otto Otto Cinque... Che cosa avrebbe fatto? Sarebbe diventata una fottutissima guardia giurata? Un telefono si mise a squillare alle spalle del capitano che si voltò e rispose. «Marlow... Sissignore... Abbiamo già predisposto le misure di sicurezza.» E mentre continuava a parlare con la persona che lo aveva chiamato di qualcosa che aveva a che fare con il processo Constable, a quanto pareva, il capitano si appoggiò in grembo la busta. Tenne il ricevitore tra la mascella e la spalla e continuò la sua conversazione mentre staccava la linguetta rossa che teneva chiusa la busta. Il processo, le nuove accuse contro Constable e gli altri membri dell'Alleanza Patriottica, le perquisizioni a Canton Falls. Amelia notò il perfetto equilibrio del tono usato dal capitano, il modo in cui giocava abilmente il gioco della deferenza. Forse stava parlando con il sindaco o con il governatore. O magari con Ramos. Giochi di potere, giochi di politica... È davvero questo il punto del lavoro di poliziotti? Quell'idea era talmente estranea alla sua natura che Amelia si chiese che senso avesse per lei continuare a essere un poliziotto. Idiozie burocratiche...
Quell'idea la lacerava. Oh, Rhyme. Che cosa faremo? Ce la caveremo, le aveva detto lui. Ma la vita non era solo cavarsela. Cavarsela equivaleva a perdere. Marlow, che teneva ancora il ricevitore tra orecchio e spalla, continuava a blaterare nella lingua del governo. Alla fine riuscì ad aprire la busta e vi lasciò cadere dentro il distintivo di Amelia. Poi infilò la mano nella busta e tirò fuori qualcosa avvolto nella carta velina. «... Non c'è tempo per una cerimonia. Faremo qualcosa più avanti.» Quell'ultimo messaggio venne sussurrato e Amelia ebbe l'impressione che fosse rivolto a lei. Cerimonia? Il capitano le lanciò un'occhiata. Ancora un sussurro con la mano a coprire il ricevitore. «Questa rogna dell'assicurazione. Ma chi ci capisce qualcosa? Sono costretto a studiare tabelle di mortalità, vitalizi, risarcimenti danni...» Marlow aprì il foglio di carta velina mettendo in mostra un distintivo dorato del Dipartimento di Polizia di New York. Riprendendo a parlare con il suo tono normale, disse al suo interlocutore telefonico: «Sissignore, terremo sotto controllo la situazione. Abbiamo degli agenti anche a Bedford Junction. E a Harrisonburg. Siamo in azione». Si rivolse di nuovo ad Amelia sussurrando: «Può tenere il suo vecchio numero, agente». Sollevò il distintivo che luccicava giallo brillante. I numeri erano gli stessi di quello vecchio: Cinque Otto Otto Cinque. Fece scivolare il distintivo nel suo portadocumenti di pelle. Poi dalla busta gialla pescò qualcos'altro: un tesserino temporaneo che infilò nel portadocumenti. Infine lo porse ad Amelia. Il tesserino la identificava come Amelia Sachs, detective di terzo grado. «Sissignore, lo abbiamo saputo e la nostra valutazione è che siamo in grado di gestire la situazione... Bene, signore.» Marlow riappese e scosse la testa. «Preferirei cento processi come quello di Constable a un solo giorno di riunioni per questioni assicurative. Bene, agente, dovrà farsi fare una fotografia per il tesserino definitivo.» Rifletté un istante, poi cautamente aggiunse: «Non è un fatto sciovinista e non voglio che lo interpreti nel modo sbagliato, ma sarebbe meglio che si raccogliesse i capelli quando farà la foto. Non li tenga sciolti... be', così sciolti. Penso che le darebbero anche un'aria più dura. È un problema per lei?» «Ma non sono sospesa?»
«Sospesa? No, è stata promossa detective. Non l'hanno chiamata? O'Connor avrebbe dovuto avvertirla. O il suo assistente o qualcun altro.» Dan O'Connor, capo del Detective Bureau. «Non ho ricevuto nessuna telefonata. Tranne quella della sua segretaria.» «Oh, be'. Avrebbero dovuto chiamarla.» «Cos'è successo?» «Le ho detto che ho fatto tutto quello che ho potuto. E parlavo sul serio. Voglio dire, guardiamo in faccia la realtà... non avrei mai permesso che venisse sospesa. Non possiamo permetterci di perdere un elemento valido come lei.» Esitò, guardando la marea di fascicoli. «Per non parlare del fatto che sarebbe stato un incubo avere a che fare con un ricorso dell'ADAP. Sarebbe stata una brutta faccenda.» Amelia pensò: Oh, sissignore, sarebbe stata brutta. Bruttissima. «Ma quell'anno? Ha parlato di un anno, prima.» «Io stavo parlando del suo esame da sergente. Non potrà sostenerlo di nuovo prima del prossimo aprile. È un servizio civile e non ho potuto fare proprio niente in proposito. Ma la sua assegnazione al Detective Bureau è insindacabile. Ramos non ha potuto impedirlo. D'ora in avanti sarà agli ordini di Lon Sellitto.» Amelia guardò lo scudo dorato. «Non so cosa dire.» «Può dire 'La ringrazio tanto, capitano Marlow. È stato un piacere lavorare con lei nei Servizi di Pattuglia per tutti questi anni. E mi dispiace non poter restare'.» «Io...» «Stavo scherzando, agente. Ho ancora il senso dell'umorismo, malgrado ciò che si dice in giro. Oh, forse avrà notato che è di terzo grado, adesso.» «Sissignore.» Amelia cercò di impedirsi un sorriso di trionfo. «Io...» «Lasci che le dia un consiglio: se vuole arrivare a essere di primo grado ed essere promossa sergente, d'ora in avanti farà meglio a riflettere bene su chi fa arrestare — o trattenere — sulla scena di un crimine. E, già che ci siamo, anche come si rivolge e a chi.» «Certo, signore.» «E adesso, mi perdoni, agente... volevo dire, detective. Ho solo cinque minuti per imparare tutto quello che c'è da sapere sulle assicurazioni.» Lasciato il palazzo di Centre Street, Amelia si avvicinò alla Camaro esaminando i danni alla fiancata e alla parte posteriore che l'auto aveva ri-
portato in seguito alla collisione con la Mazda di Loesser, a Harlem. Ci sarebbe voluto molto lavoro per rimettere in sesto la sua povera macchina. Le auto erano il suo forte, però, e Amelia conosceva l'esatta posizione, così come il tipo e la forma, di ogni vite e ogni bullone. E probabilmente aveva tutti gli attrezzi di cui avrebbe avuto bisogno per riparare personalmente la maggior parte dei danni nel suo garage di Brooklyn. Eppure ad Amelia non interessava la carrozzeria. La trovava noiosa — come aveva trovato noioso fare la modella e come aveva trovato noioso uscire con poliziotti belli, spacconi e arroganti. Forse non era il caso che si cercasse uno strizzacervelli, ma c'era decisamente qualcosa in lei che la spingeva a diffidare di tutto ciò che era estetico, superficiale. Per Amelia Sachs la vera essenza delle auto era nei loro cuori e nelle loro calde anime: il furioso battito di bielle e pistoni, il lamento delle cinghie, il perfetto bacio delle marce che trasformava una tonnellata di metallo, pelle e plastica in pura velocità. Decise che avrebbe portato l'auto in un'officina di Astoria, nel Queens, un'officina di cui si era già servita in passato dove i meccanici erano in gamba, più o meno onesti, e provavano un sincero senso di riverenza per potenti capolavori come la sua auto. Scivolò dietro il volante e accese il motore il cui ruggito raschiante attirò l'attenzione di una decina tra poliziotti, avvocati e uomini d'affari che stavano passando nelle vicinanze. Mentre lasciava il parcheggio della centrale, Amelia prese un'altra decisione. Alcuni anni prima, dopo aver tolto la ruggine, aveva deciso di far ridipingere l'auto che in origine era stata nera. Aveva scelto un giallo vibrante. Era stata una scelta impulsiva, ma perché no? Non era forse vero che i capricci erano fatti apposta per cambiare il colore delle unghie, dei capelli e dei veicoli? Ma ora pensò che dal momento che l'officina avrebbe dovuto sostituire un quarto della carrozzeria della Chevy, e che avrebbe comunque dovuto far ridipingere la macchina, avrebbe scelto un colore nuovo. Decise subito per il rosso fuoco. Quella scelta aveva un doppio significato per lei. Non solo era il colore che secondo suo padre avrebbero dovuto avere tutte le macchine veloci, ma era anche lo stesso del veicolo sportivo di Rhyme, la sedia a rotelle Storm Arrow. Quella era proprio la tipica manifestazione d'affetto verso cui il criminologo avrebbe ostentato indifferenza ma che in realtà gli avrebbe fatto segretamente piacere. Sì, rifletté Amelia, sarebbe stata rossa.
Pensò di lasciare subito la Chevy all'officina ma cambiò idea e decise di aspettare. Avrebbe potuto guidare un'auto malconcia per qualche altro giorno; da ragazza ne aveva guidata una per anni. In quel momento voleva solo tornare da Lincoln Rhyme, raccontargli tutto dell'alchimia che aveva trasformato il suo distintivo da argento a oro... e rimettersi al lavoro, per districare i complessi misteri che li attendevano: due diplomatici assassinati, una pianta che non si poteva trovare in quella città, delle strane impronte sul terreno fangoso e due scarpe scomparse. Due scarpe destre. RINGRAZIAMENTI Ringrazio Jane Davis che pratica un genere di magia inimitabile occupandosi del mio sito web, mia sorella (e collega autrice) Julie Reece Deaver, il mio caro amico e straordinario autore di thriller John Gilstrap, e Robby Burroughs, che mi ha portato a vedere lo spettacolo del Big Apple Circus da cui è nata l'idea iniziale per questa storia. Nel corso della stesura di questo romanzo ho trovato estremamente utili le seguenti fonti: The Creative Magician's Handbook, di Marvin Kaye; The Illustrated History of Magic, di Milbourne e Maurine Christopher; The Magie and Methods of Ross Bertram, di Ross Bertram; Magicians and Illusionists, di Adam Woog; The Annotated Magic of Slydini, di Slydini e Gene Matsuura; The Tarbell Course in Magie, di Harlan Tarbell; Houdini on Magie, a cura di Walter B. Gibson e Morris N. Young, e Magie in Theory di Peter Lamont e Richard Wiseman. FINE