NICCI FRENCH MEMORY (The Memory Game, 1997) a Edgar, Anna, Hadley e Molly. CAPITOLO 1 Chiudo gli occhi. È tutto qui, nel...
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NICCI FRENCH MEMORY (The Memory Game, 1997) a Edgar, Anna, Hadley e Molly. CAPITOLO 1 Chiudo gli occhi. È tutto qui, nella mia testa. La foschia che segue i contorni del prato. Una folata fredda che mi punge le narici. Devo fare uno sforzo di volontà se voglio ricordare cos'altro accadde il giorno in cui trovammo i resti, i suoi restì. Il puzzo di foglie bagnate, marroni. Mentre mi allontanavo dal casale scendendo la breve china, che era erbosa e sdrucciolevole, vidi gli operai. Erano pronti a cominciare. Fumavano, stringevano tazze di tè fra le mani e il loro alito caldo e umido produceva una nuvola di vapore che si levava dai loro volti. Sembravano un vecchio falò spento dalla pioggia. Eravamo solo in ottobre, ma era mattina presto e per il momento c'era appena una promessa di sole, da qualche parte dietro le nubi, oltre la boscaglia sulla collina più lontana. Portavo la tuta da lavoro infilata negli stivaloni di gomma con un po' troppa meticolosità. Gli uomini, naturalmente, si ostinavano a indossare la tradizionale tenuta da proletari rurali: jeans, maglioni sintetici e sudici stivali di cuoio. Battevano i piedi per riscaldarsi e ridevano per una barzelletta che non ero riuscita a sentire. Scorgendomi, si zittirono. Ci conoscevamo da una vita, e adesso che ero il loro capo non sapevano come comportarsi. Io, tuttavia, non ero imbarazzata. Ero abituata agli operai dei cantieri edili, anche a quelli dei minuscoli cantieri residenziali come quello dell'umido appezzamento di mio suocero nello Shropshire, la Fattoria, un assurdo nomignolo nato come una burla autoironica sui gentiluomini di campagna che era diventata seria nel corso degli anni. «Ciao, Jim» esordii, tendendogli la mano. «Non hai resistito alla tentazione di venire. Mi fa piacere.» Jim Weston apparteneva alla Fattoria quanto la capanna sull'albero o la cantina con il suo dolce profumo di mele che aleggiava nell'aria persino a Pasqua. Era legato a quasi tutti gli oggetti della proprietà: aveva sostituito e verniciato i telai delle finestre e trascorso torride giornate di agosto sul
tetto, riparando le tegole a torso nudo. Si verificava un imprevisto (un allagamento, un'interruzione di corrente, una chiazza di muffa su una parete) e Alan chiamava Jim a Westbury. Jim si rifiutava di aiutarlo. «Sono troppo occupato» diceva. Poi, un'ora dopo, imboccava il vialetto con il suo furgone sgangherato. Controllava il danno, vuotando la pipa e scuotendo la testa con espressione triste, e borbottava qualcosa riguardo al ciarpame moderno. «Vedrò che cosa posso fare» dichiarava. «Cercherò di sistemarlo.» Secondo una leggenda locale, Jim Weston non comprava mai niente a prezzo di listino, e non comprava del tutto se riusciva a ottenere ciò che gli serviva mediante favori, baratti o mezzi ancor meno puliti, dando il suo contributo all'economia sommersa dello Shropshire. Quando aveva esaminato il mio progetto per la nuova costruzione, si era incupito più del solito, quasi il disegno di un architetto fosse una stramba invenzione per sciocche viziate come me, che arrivavano da Londra e non si sporcavano mai le mani. In silenzio, avevo ringraziato il Cielo che non avesse visto la mia idea iniziale. Il villino - uno spazio aggiuntivo per la Fattoria dove ospitare tutti i figli, i nipoti, le ex mogli e via discorrendo che si ritrovano durante i raduni dei Martello - era il dono più grande che avrei mai fatto alla famiglia, e così avevo progettato per loro la casa da sogno che avrei voluto per me. Avevo sfruttato la posizione relativamente riparata dell'area originale per concepire una struttura di assoluta essenzialità, nient'altro che travi, putrelle, tubi e lastre di vetro, un sogno funzionalista, l'oggetto più incantevole che avessi mai disegnato. Avevo mostrato gli schizzi a Claud, il mio futuro ex marito, e lui aveva aggrottato le sopracciglia e si era passato le dita tra i radi capelli castani, bofonchiando che era un'idea davvero molto interessante e intelligente, il che non significava un bel niente, perché quella era stata la sua reazione a quasi ogni cosa, compreso l'annuncio della mia decisione di divorziare. Mi ero illusa che almeno Theo, suo fratello, avrebbe compreso il mio intento. Aveva commentato che il fabbricato assomigliava a uno dei suoi vecchi Meccano, al che avevo replicato: «Sì, esatto, è splendido, vero?», ma per lui il paragone voleva essere un insulto. Poi avevo presentato i progetti al Grand'uomo in persona, Alan Martello, mio suocero, il patriarca della Fattoria, ed era stata una catastrofe. «Che cos'è questa? L'ossatura metallica? Dov'è la roba che ci costruirai intorno? Non puoi disegnare anche quella?» «È quello l'edificio, Alan.» Aveva sbuffato attraverso la barba brizzolata. «Non voglio qualcosa che
ci attiri addosso orde di critici svedesi. Voglio un posto dove vivere. Porta via questo pezzo di carta e costruisci quel coso a Helsinki o in qualche altro posto sperduto. Sono certo che un comitato finanziato da fondi pubblici ti assegnerà un premio. Se proprio dobbiamo avere una maledetta costruzione in questo giardino (cosa di cui sono tutt'altro che convinto), allora avremo un cottage inglese, con mattoni, muri a secco o qualche decoroso materiale del posto.» «Che fine ha fatto il giovane e arrabbiato Alan Martello?» avevo domandato con dolcezza. «Nuovi stili architettonici, orientamenti inediti: non è questo il genere di cose che hai sempre apprezzato?» «Mi piacciono i vecchi stili architettonici. Non sono giovane. E non sono più arrabbiato, tranne che con te. Sostituisci questo orrore strutturalista con qualcosa che sia degno di essere chiamato casa.» Quello era Alan nella sua versione più burbera, provocante e affascinante, e gli ero riconoscente per avermi rimproverata nel solito modo affettuoso sebbene stessi per divorziare da suo figlio. Così, ovviamente, me n'ero andata e avevo progettato un'impeccabile costruzione rurale, con tanto di abbaini. L'avevo messa insieme come si mette insieme il contenuto del carrello mentre si gironzola per un supermercato. L'armatura prefabbricata era norvegese, anche se prodotta in Malesia. Se non altro, Alan sarebbe stato contento di sapere che probabilmente l'estrazione delle materie prime avrebbe richiesto la distruzione di un fazzoletto di foresta pluviale. «Che cosa c'è quassù, signora Martello?» aveva domandato Jim Weston, picchiettando sul foglio con la pipa. «Per favore, Jim, dammi del tu. Quelli sono i colmi, posati nella malta.» «Mmmh.» Si era infilato di nuovo la pipa in bocca con determinazione. «Perché vuoi armeggiare con la malta?» «Jim, non possiamo discuterne adesso. Ormai è deciso. Abbiamo comprato e pagato tutto quanto. Dobbiamo soltanto imbastirlo.» «Mmmh» aveva ripetuto. «Scaveremo qui, solo qualche metro...» «Solo» aveva mugugnato. «Poi le fondamenta, qui e qui, poi l'anima dura, poi lo strato impermeabile e la membrana isolante, quindi il calcestruzzo e infine il pianterreno piastrellato. Il resto è solo questione di assemblare il tutto.» «Strato impermeabile?» aveva domandato, dubbioso. «Sì, purtroppo esiste una legge sulla salute pubblica approvata nel 1875, perciò temo che dovremo rispettarla.»
Ora, all'inizio del primo giorno dei lavori, Jim sembrava più una pianta del giardino che un uomo venuto a supervisionare, o a fingere di supervisionare, gli operai. Il suo viso era rimasto esposto a qualsiasi condizione meteorologica, acquisendo il colorito del didietro di un rospo. Dal naso e dalle orecchie gli spuntavano peli simili a muschio su una roccia preistorica. Ormai era piuttosto anziano e il suo compito consisteva nell'impartire ordini al figlio e al nipote, che puntualmente ignoravano le sue istruzioni. Strinsi la mano anche a loro. «Cos'è questa storia che vuoi essere tu a scavare?» domandò Jim, sospettoso. «Soltanto una vangata. Ho solo detto che mi piacerebbe dare la prima vangata, se nessuno ha nulla in contrario. Ci tengo molto.» Ormai faccio l'architetto da quasi quindici anni, e ogni volta che lavoro a un edificio seguo una regola, quasi una superstizione, secondo cui devo assistere alla prima vangata. È un momento di puro piacere sensuale, dico sul serio, e ogni tanto vorrei poter scavare io, a mani nude. Dopo mesi, e talvolta anni, trascorsi a preparare i progetti e il capitolato, a ottenere gli appalti, a calmare i nervi del cliente e a negoziare con qualche burocrate dell'ufficio Urbanistica, dopo tutti i compromessi e i litigi sulla carta, è piacevole uscire e rammentare che tutto si riduce al terriccio, ai mattoni e alla necessità di collegare i tubi in modo che non si crepino durante l'inverno. I miei preferiti sono gli scavi di dieci o quindici metri che precedono i fabbricati più grandi. Sei in piedi sul bordo di un cantiere nella City di Londra e abbassi lo sguardo sui frammenti lasciati da due millenni di altre vite. Talvolta s'intravedono le tracce di un antico edificio, e più volte ho udito raccontare di imprenditori edili che versano di nascosto il calcestruzzo su preziosi pavimenti romani per evitare la scocciatura di dover aspettare l'autorizzazione a procedere degli archeologi. Edifichiamo gli spazi destinati alla nostra esistenza sui resti ridotti in polvere dei nostri predecessori dimenticati, e di qui a duecento o duemila anni ne sorgeranno altri sopra le nostre putrelle arrugginite e il nostro cemento sgretolato. Sopra i nostri morti. Al confronto quella sarebbe stata una buca minuscola, una scalfittura della superficie. John, il figlio di Jim, mi porse una vanga. Il giorno prima avevo misurato l'area e l'avevo delimitata con una corda, ora mi piazzai al centro del rettangolo e spinsi l'attrezzo nel terreno, appoggiandomici sopra e conficcandolo tra le zolle erbose. «Attenta alle unghie, figliola» mi punzecchiò Jim alle spalle.
Tirai il manico. Il suolo si spaccò crepitando e comparve un appagante cuneo di terra e argilla. «Bella soffice» commentai. «Saranno i ragazzi a finire, allora» disse Jim. «Se sei d'accordo.» Una mano sulla spalla mi fece trasalire. Era Theo. Il Theo Martello della mia infanzia è un diciassettenne dai capelli lunghi con la scriminatura nel mezzo, la pelle morbida e diafana, e le labbra piene e sporgenti, ad arco di Cupido, che emanano un lieve odore di tabacco bruciato. Alto e magro, indossa un cappotto delle forniture militari. Trovo difficile conciliare la figura dei miei ricordi con questo... oh, mio Dio... ultraquarantenne dai lineamenti scarni e cesellati, dalla barba corta e ispida, dai capelli grigi a spazzola e dalle profonde rughe intorno agli occhi. Ha raggiunto la mezza età. Abbiamo raggiunto la mezza età. «Non ci siamo incrociati ieri sera» esordì. «Siamo arrivati tardi.» «E io sono andata a letto presto. Che cosa ci fai in piedi a quest'ora?» «Volevo vederti.» Mi tirò a sé e mi abbracciò a lungo. Strinsi forte il mio cognato preferito. «Oh, Theo» dissi quando mi lasciò. «Mi dispiace. Mi dispiace per Claud.» Sorrise. «Non dispiacerti. Fa' quel che devi fare. Sei stata coraggiosa a venire qui e ad affrontarci tutti nel covo di famiglia. A proposito, chi ci sarà?» «Tutti, naturalmente. Tutti i Martello. E anche tutti i Crane, per quanto possiamo valere. Mio padre, mio fratello e la sua tribù non si sono ancora fatti vivi, ma quando arriveranno, credo che ci saranno ventiquattro persone. La famiglia reale starà anche cadendo a pezzi, e avremo anche scordato il significato del Natale, ma la riunione annuale dei Martello per la raccolta dei funghi continua imperterrita.» Inarcò le sopracciglia. Le rughe intorno agli occhi e alla bocca gli si piegarono in un sorriso. «Mi prendi in giro.» «No. Sono nervosa, suppongo. Dio, Theo, ricordi quando, anni fa, un traghetto stava affondando e una barca di soccorso gli si è accostata, ma le donne e i bambini non riuscivano a passare dall'altra parte? Un uomo si è steso tra le due imbarcazioni, e i passeggeri gli hanno camminato sopra.» Scoppiò a ridere. «Eri tu il ponte umano sfinito, vero?» domandò. «È così che mi sono sentita in alcuni momenti. O almeno quello era il nostro ruolo: mio e di Claud. Il debole legame che teneva uniti i Crane e i Martello.»
La sua espressione si indurì. «Ti sopravvaluti, Jane. Siamo uniti. Siamo un'unica famiglia. E comunque, se esiste un legame, è stata l'amicizia tra i nostri padri a generarlo, prima che noi nascessimo. Riconosciamo loro almeno questo merito.» Sorrise di nuovo. «Tu sei stata tutt'al più un anello secondario. Una mortasa di supporto o qualcosa del genere.» Non potei fare a meno di ridacchiare. «Ho sentito un termine tecnico? Che cos'è, di grazia, una mortasa di supporto?» «D'accordo, d'accordo, sei tu la costruttrice. Non mi sono mai occupato di carpenteria. E sono contento che tu sia venuta, anche se sei dovuta passare sotto le Forche Caudine.» «Dovevo pur sovrintendere a tutto questo, no? Adesso credo che macchierò i miei disegni piangendoci sopra.» Entrammo in cucina attraverso la portafinestra e prendemmo due caffè. Quando fummo di nuovo fuori, il rumore di corpi che si muovevano, tazze che tintinnavano e sciacquoni che venivano tirati ci raggiunse da dietro. «Chiudete la porta, cazzo» urlò qualcuno da dentro. «Si gela.» «Okay, okay, sto solo uscendo.» Era Jonah, il fratello di Theo. «Ciao, Fred» lo salutò Theo. Jonah annuì, cogliendo la battuta trita e ritrita dei Martello. Il punto era che Jonah e Alfred, il suo gemello, erano sempre stati impossibili da distinguere, almeno da bambini. Secondo quanto mi aveva raccontato Theo in passato, si erano scambiatì spesso le fidanzate (senza che le dirette interessate se ne accorgessero), cosa a cui avevo stentato a credere finché non avevo osservato il loro comportamento da adulti. «Se vuoi riconoscerci, Theo» disse Jonah, «Fred è quello con il naso rosso e senza tintarella.» «Sì, vedo che sei abbronzato, Jonah. Dove sei stato questa volta?» «A Tucson, in Arizona. Una conferenza di cosmesi.» «Interessante?» «C'erano alcune possibilità niente male nell'aria.» Jonah notò il sorriso di Theo. «Adesso che tutti hanno denti così sani, dobbiamo escogitare qualche altra novità.» Chinandosi, Theo annusò il vapore che saliva dalla tazza del fratello. «Si direbbe che tra quelle possibilità ci fosse l'idea di un dentifricio sotto forma di bevanda calda» osservò. «E tè alla menta piperita» lo informò Jonah. «Non mi piace iniziare la giornata con uno stimolante artificiale.» Quindi si voltò verso di me, e la sua espressione innocente si sciolse in una specie di sorriso mesto. Dio,
avevano tutti intenzione di sorridermi così quel week-end? «Jane, Jane» disse, stringendomi in un abbraccio il cui calore fu appena ostacolato dalla necessità di tenere contemporaneamente in equilibrio la tazza. «Se c'è qualcosa che posso fare, devi soltanto dirlo. Quello» proseguì, indicando il trambusto sull'erba lì davanti, «quello sì che è un passo molto positivo. È bellissimo che tu abbia fatto tutto questo per noi, per la famiglia. Sono sicuro che è anche terapeutico.» «Oh, sì, Jonah» ribattei, «nel momento del bisogno è stato molto rilassante consultarmi con Alan, Claud e Theo, poi rifare tutto da capo e infine spiegare ogni cosa a Jim con il linguaggio dei segni. Vorrei che ci fossimo attenuti al progetto originale.» «Una foruncolosi sarebbe meglio che rivivere la notte scorsa con Meredith e i bambini, che non hanno mai dormito per più di tre minuti di fila. E di fianco c'erano Fred e i membri della sua famille che non sono chiusi in un collegio. A quanto ne so, le uniche coppie a ricevere una stanza tutta per sé sono stati Alan e Martha e tuo figlio e la sua piccioncina.» Quell'ultima frecciata era diretta a me. «Alan ha insistito affinché Jerome e Hana avessero una camera tutta loro» protestai. «Penso che gli abbia procurato una sorta di piacere indiretto e rapace. Non so neppure dove sia finito il mio secondogenito.» «O con chi» aggiunse Jonah. «E lungi da me infrangere la tradizione inviolabile che ti assegna la stanza di Natalie. Sembra una farsa piccante.» Tornai in cucina con Theo e Jonah, ma non avevo voglia di mangiare né di unirmi a quella che ormai era quasi una folla intenta a litigare per l'accesso al frigorifero o ai fornelli. Non c'era traccia di nessuno dei miei figli. Alan e Martha avrebbero esercitato il privilegio dei padroni di casa e sarebbero scesi tardi, ma quasi tutti gli altri sembravano essersi già alzati. Claud, patetico e scarmigliato dopo la nottata sul divano, mescolava le uova in un grande tegame sopra il fuoco. La colazione è l'unico pasto della giornata che non mi è mai interessato molto preparare, ma, poiché è una questione tanto culinaria quanto organizzativa, Claud è sempre stato bravissimo. Mi rivolse un cortese cenno del capo mentre serviva le uova a Fred su un grosso piatto. Era trascorso un anno esatto da quando avevo visto i quattro fratelli insieme nella stessa stanza. Lì, con la loro tenuta da tempo libero (vecchi jeans e maglioni o camicie da boscaiolo), parevano tornati studenti, se non addirittura scolaretti, impegnati a ridere e a canzonarsi. Tutti tranne Claud, che non era mai a suo agio in abiti informali. Aveva bisogno di una divisa
e di regole severe. I gemelli, con la carnagione scura e gli zigomi alti, sarebbero apparsi più sexy e dissoluti dopo una nottata su un divano scomodo. Claud doveva invece dormire otto ore e infilarsi un completo di buona fattura per essere al meglio, ma il suo meglio era eccellente. Rubai una banana dalla fruttiera e sgattaiolai di nuovo fuori con il caffè. La foschia andava disperdendosi negli anfratti. Ora il cielo era azzurro, e non erano ancora le otto. Sarebbe stata una giornata splendida ma gelida, e la mia tuta non era abbastanza pesante. Quasi tutti, credo, abbiamo un paesaggio della mente, quello che vediamo quando chiudiamo gli occhi: quel mosaico ondulato di prati e boschi era il mio. Ogni albero, ogni sentiero, ogni recinto aveva associazioni che si fondevano in uno strato di ricordi accumulati in lunghe settimane estive e brevi weekend di neve, o di alberi spogli o di fiori appena sbocciati, tra cui era ormai impossibile distinguere i vari anni, e persino i decenni. La Fattoria era tutt'altro che antica (la pietra sopra il portone recava l'iscrizione «1909 - P.R.F. DE BEER», il nome dell'uomo che l'aveva fatta costruire), ma a noi era sempre parsa vecchia. Il portone principale, benché non l'avessimo mai considerato tale, sì apriva dall'altra parte dell'edificio, e il vialetto conduceva da lì alla B8372, che si dirigeva verso il Galles se svoltavi a sinistra e verso Birmingham se svoltavi a destra. Da dove mi trovavo ora, al di là di una piccola depressione di fronte a Pullam Wood, potevo ammirare la vera facciata del casale, gli usci che conducevano in cucina e in salotto e, più in alto, le finestre della camera di Alan e Martha e delle stanze degli ospiti; ancora più in alto, su un piano tutto suo, lo studio di Alan, il suo rifugio, con la sua assurda e minuscola guglia di legno in cima. La costruzione era grande ma aveva un'aria accogliente; era solida, ma i pavimenti di legno erano malconci e le pareti sottili come carta. Raggiunsi il limitare del bosco (in cui non mi avventuro mai) e presi a destra, allontanandomi da Pullam Farm e avviandomi verso il punto in cui gli uomini armeggiavano con l'escavatore. Udii arrivare un'automobile, l'inconfondibile Saab extralusso di Paul, magnifica ma non abbastanza da tradire un qualche principio politico. Papà scese con cautela dal lato più lontano. Non notandomi, si incamminò verso la casa strascicando i piedi. Poi sbucò Erica, anche lei dallo stesso lato. Doveva aver viaggiato sul sedile posteriore e portava in braccio la piccola Rosie, sprofondata in un sonno quasi teatrale. Si affrettò a entrare. Paul mi scorse, e ci scambiammo un cenno di saluto. Non c'era nessun altro da aspettare.
Verso le dieci tutti si riunirono sul prato per la grande spedizione alla ricerca di funghi, l'inviolabile tradizione autunnale dei Martello. Il gruppo era così numeroso che, con qualche giubba scarlatta e una muta di cani, sarebbe sembrato pronto per la caccia alla volpe. Tutti i fratelli e le loro famiglie e, nel caso di mio fratello Paul, l'ex famiglia e la famiglia attuale. Pensai a uno di quei capitoli illeggibili dell'Antico Testamento. Alan generò Theo, Claud, Jonah e Fred. E Chris generò Paul e Jane. Contai venti persone, esclusi me e gli operai di Jim, intenti a chiacchierare e a camminare qua e là senza meta. La comitiva fu trattenuta dall'assenza di alcuni rappresentanti della generazione più giovane, cioè le tre figlie che Paul aveva avuto da Peggy, la sua prima moglie. Finalmente, verso le dieci e dieci, le ragazze comparvero, noncuranti del ritardo e tutte vestite di nero, con gli stivaloni, i capelli lunghi e un'espressione sarcastica che pareva essersi allargata da uno all'altro dei loro visi incantevoli. Tenendomi leggermente in disparte con l'intenzione di rimanere a supervisionare i lavori, ebbi l'opportunità di osservare l'intera scena. Cristo, che famiglia. Tutti gli altri erano un caos di jeans e vecchi pullover, ma Alan e Martha erano inappuntabili. Quella era la loro giornata. Per l'occasione, Alan portava una giacca ridicola, così lunga che gli avrebbe impedito di bagnarsi persino sotto le cascate del Niagara. Aveva sempre un atteggiamento da gigione, da persona che era stata mandata giù al reparto costumi con l'ordine di travestirsi da scrittore avanti negli anni impegnato a condurre una vita da gentiluomo di campagna. Aveva addirittura un bastone che assomigliava a quello usato da Errol Flynn per combattere sugli alberi caduti sopra i torrenti. Martha, invece, era bellissima: capelli candidi, snella quanto le tre ragazzine, e con indosso più o meno lo stesso genere di abiti neri, ma senza gli anfibi. Aveva una giacca che si era logorata durante vere passeggiate e un cestino di vimini adatto a disporvi i funghi senza mescolarli né schiacciarli. Quasi tutti gli altri avevano optato per i sacchetti di plastica. Una volta avevo cercato di spiegare a Martha che, contrariamente a quanto si pensava, i sacchetti di plastica erano perfetti se avevi intenzione di mangiare i funghi il giorno stesso, come facevamo sempre noi, perché li ammorbidivano come selvaggina lasciata a frollare. Ma non mi aveva dato retta. Alan picchiettò il bastone sul terreno. Mi aspettai quasi di sentire un tuono. «In marcia» disse. Se le avesse pronunciate chiunque altro, quelle parole sarebbero parse
comiche. Poi tutto sembrò accadere in fretta. Rientrai e sedetti al tavolo della cucina in attesa che fuori avessero ancora bisogno di me. Leggiucchiai il giornale, risolsi qualche definizione del cruciverba. Poi udii un colpetto alla finestra, alzai gli occhi e vidi la faccia di Jim attraverso il vetro della porta. Stavo per urlargli qualcosa, ma appariva pallido e allarmato. Mi chiamò con un gesto, e io avvertii un attimo di riluttanza, il desiderio di non andare. Mentre uscivo, Jim tornò a passo strascicato verso la buca. Notai che era quasi finita e mi domandai se la sua fosse soltanto una maniera pedante per comunicarmelo. Gli uomini erano riuniti intorno all'escavatore. Il gruppetto si separò quando mi avvicinai. «Abbiamo trovato una cosa» annunciò il nipote di Jim. Sembrava quasi agitato. Abbassai lo sguardo. In un primo momento non mi parve che ci fosse granché da vedere. Terreno argilloso dalla consistenza di una caramella mou, qualche piastrella rotta. Da dove arrivavano? Oh, sì, quello doveva essere il punto in cui sorgeva il vecchio barbecue. Sembrava che fosse passata un'eternità. E, così bianche da fare impressione, alcune ossa seghettate che spuntavano fra la terra. Guardai gli operai. Volevano forse che, in qualche modo, assumessi il comando? «Potrebbe trattarsi di un animale?» domandai stupidamente. «Un cane o un gatto sotterrato?» Jim scosse adagio la testa, inginocchiandosi. Non volevo essere costretta a guardare. «Qui ci sono dei frammenti di tessuto» affermò. «Piccoli frammenti. E una fibbia. Dev'essere lei, vero? Dev'essere la loro bambina, Natalie.» Fui costretta a guardare. Avevo visto un solo cadavere in vita mia. Ero rimasta seduta a stringere la mano di mia madre negli ultimi istanti dei suoi anni di dolore. Avevo visto la morte che le cancellava l'espressione dal volto e il suo corpo straziato che si accasciava sul letto. Le avevo premuto le labbra contro il viso ancora caldo. Il giorno dopo l'avevo toccata di nuovo all'impresa di pompe funebri. Era cerea e fredda, i capelli spazzolati, i vestiti buoni, una patetica borsettina nella sinistra. E quelli, dopo un quarto di secolo, erano i resti di Natalie, la mia cara, carissima amica, condannata ad avere per sempre sedici anni. Mi inginocchiai, sforzandomi di esaminare le ossa con attenzione. Grosse e spesse, dovevano essere quelle
delle gambe. C'erano tracce di stoffa nera, coperta da un fitto strato di sudiciume. A un tratto mi sentii curiosa e distaccata. Niente carne, ovviamente. Niente tendini. Le ossa che erano emerse dal terreno erano tutte disgiunte. La terra in cui giacevano era più scura di quella circostante. Chissà se i capelli si erano putrefatti. Il cranio era ancora sepolto. Ricordai il suo corpo esile. Abbronzato, quell'estate. Ricordai il neo sulla sua spalla destra, e le lunghe dita scimmiesche dei suoi piedi. Come avevo potuto dimenticarla così a lungo? «Sarebbe meglio chiamare qualcuno.» «Sì, Jim, sì. Provvedo subito. Non credo che dovremmo continuare a scavare. C'è una centrale di polizia a Westbury?» Non c'era. Consultai l'elenco telefonico e dovetti contattare quella di Kirklow. Mi sentii piuttosto sciocca mentre spiegavo a uno sconosciuto che avevamo trovato delle spoglie, che risalivano a parecchio tempo prima, circa venticinque anni, e che probabilmente appartenevano a Natalie Martello, scomparsa nell'estate del 1969. Quelli, tuttavia, presero la faccenda molto sul serio, ed entro breve arrivarono due auto della polizia, seguite da una vettura civile e infine da un'ambulanza, o meglio da una specie di station wagon. Era strano usare un'ambulanza per raccogliere ossa così vecchie che avrebbero potuto essere riposte in una scatoletta di cartone. Un agente mi pose alcune domande esitanti su cui faticai a concentrarmi. Non portarono subito via i restì. Innalzarono una specie di leggero padiglione in miniatura sopra gran parte della buca. Cadeva una pioggerella leggera. Non volevo andare a vedere che cosa stavano facendo, ma non riuscii ad allontanarmi, perciò sedetti su una panca accanto alla porta della cucina, fissando il tendone e il bosco più in là. Mi domandai se gli altri sarebbero tornati presto. Pur avendo l'orologio, non ricordavo a che ora erano partiti, e non ricordavo neppure quanto tempo richiedevano di solito le spedizioni in cerca di funghi, anche se vi avevo partecipato spesso. Mi limitai a restare lì immobile, e finalmente scorsi un gruppetto che sbucava tra gli alberi. Durante quelle escursioni ci separavamo sempre e tornavamo ciascuno al suo ritmo. Dovevano aver visto le auto della polizia e quell'assurdo tendone, ma non riuscii a stabilire se erano sorpresi. Mi alzai per andare a spiegare loro l'accaduto, ma all'improvviso gli occhi mi si riempirono di lacrime, e non riuscii a riconoscerli. Potevano essere chiunque. CAPITOLO 2
Il coltello scivolò attraverso gli strati spugnosi fino alla polpa beige. Rimossi un po' di scorza fangosa e lasciai cadere un pezzo commestibile di porcino in una grossa scodella. Peggy entrò con un altro secchio colmo; odorava di bosco, di terra fradicia. Si era macchiata i pantaloni cachi, ed essendosi tolta gli stivali nell'ingresso, camminava senza fare rumore con spessi calzettoni grigi. «Eccoti qui» disse. Con le punte delle dita, sollevai delicatamente i gallinacci gialli senza lamelle che giacevano in cima al mucchio come fiori di cera, e avvicinai il naso a quelle forme tondeggianti simili a trombe. Albicocche. «Chi li ha trovati?» domandai. «Theo, naturalmente. Tutto bene, Jane?» «Per Claud, intendi?» «No, per oggi.» «Non lo so.» Nel secchio c'erano vesce bulbose e bitorzolute, prataioli con un lieve profumo di anice e fragili coprini dai bordi sfrangiati. La stanza sapeva di funghi e umidità; mazze di tamburo mangiucchiate dai vermi intasavano il lavello, brandelli di gambi legnosi invadevano i piani di lavoro. Mi pulii sul grembiule le mani ancora tremanti e mi tirai indietro i capelli. Il locale era ben illuminato, ma niente mi sembrava del tutto reale... Né l'orrore in giardino né quella parodia di normalità con il disordine della cucina dei Martello, il cuore della loro grande dimora. Che fossimo tutti pazzi, una casa piena di persone sconvolte e prigioniere del rituale? Cercavo di distrarmi dandomi da fare. «Sei stato bravo» mi complimentai con Paul, che stava attraversando la stanza stringendosi al petto qualche polverosa bottiglia di vino rosso. «Avresti dovuto vedere quanti ce n'erano: avremmo potuto raccoglierne il doppio. Alcuni sono immangiabili, però.» Uscendo, lanciò un'occhiata furtiva a Peggy. Pareva che qualcosa lo tormentasse. Ciascuno di noi era solo con le sue paure e i suoi pensieri e lui doveva anche sopportare il peso di essere bloccato in un casale con l'ex moglie, la seconda moglie e una sorella che stava per divorziare dal suo migliore amico. Non bisognava pensarci troppo. Cominciai a sminuzzare i funghi in fettine sottili; la polpa aveva un'elasticità gommosa. Li ruotai e li tagliai senza difficoltà in senso longitudinale. Le pentole gorgogliavano. Lo sforzo della coordinazione mi calmò. A-
prii lo sportello del forno e con una forchetta sfiorai i peperoni rossi e unti; la buccia era costellata di bolle. Trassi un profondo respiro. «Jane? Claud mi ha pregato di darti queste.» Mio padre mi allungò tre teste d'aglio grassocce. Voltandosi (probabilmente per tornare al cruciverba accanto al fuoco), aggiunse a un tratto: «Andrà tutto bene, vero?» e notai che aveva gli occhi gonfi, come se avesse pianto. Gli diedi una strizzatina alla spalla. «Si sistemerà tutto» lo rassicurai. Una frase insignificante. Sbucciai sei spicchi d'aglio e li schiacciai in un grosso tegame sul fornello. Peggy, china sopra il lavello e intenta a togliere con pazienza gli strati spugnosi dai porcini rimasti, intonò il verso di una canzone sottovoce, per poi osservare all'improvviso: «Mi dispiace davvero tanto. Dev'essere stato terribile per te trovarle... trovarla». «Sì» confermai. «Credo di sì. Ma, in realtà, non è stato più raccapricciante di quanto lo sarebbe stato per chiunque altro.» Non avevo voglia di parlare. Cercavo di risparmiare le emozioni, non volevo consumarle lì, mentre preparavo la cena. Non con Peggy, ma la mia ex cognata era inarrestabile. «Siete tutti molto coraggiosi. È veramente strano; per la prima volta mi sento esclusa da questa famiglia. Sapete tutti come comportarvi l'uno con l'altro.» Mi girai, prendendole la mano. «Peggy» replicai in tono stanco, «ti sbagli. Sai che non escludiamo mai nessuno. Siamo la grande famiglia allargata che inizia da Alan e Martha e non finisce da nessuna parte.» «Lo so, forse è solo perché non ho mai conosciuto Natalie.» «È stato tanto tempo fa.» «Sì» riprese, «un capitolo della meravigliosa, idilliaca e leggendaria infanzia dei Martello. Vi accomuna tutti, vero? Mi ricorda sempre...» Si interruppe, scorgendo qualcosa fuori della finestra. «Guardale! Le ucciderei! Perché Paul non se ne occupa? Si presume che sia il loro padre.» Si precipitò fuori. Attraverso il vetro distinsi le tre ragazze che fumavano con aria cospiratrice dietro un cespuglio. Dovevano aver pensato di essere invisibili. Peggy avanzò in silenzio nella loro direzione, ancora scalza. Quando Jerome e Robert erano più giovani, fumavano in camera loro con le finestre spalancate, poi scendevano al piano di sotto profumando di dentifricio, e io non fiatavo. Quando non riuscivo a dormire perché rimuginavo sulla mia vita, anch'io davo qualche tiro di nascosto in giardino a tarda notte. In seguito avevano iniziato a fumare in mia presenza, offrendomi
persino il pacchetto. Era dalla mattina presto che morivo dalla voglia di una sigaretta, mi ero mossa nervosamente sull'orlo della buca, vagando qua e là intorno alla casa, aspettando che tutti tornassero e scoprissero quanto avevo scoperto io. Mescolai l'aglio che si stava tingendo di un giallo pallido. Un breve arco di tempo a mia disposizione, un'opportunità per programmare la serata che mi attendeva. «Come va, mamma? Ti secca cucinare tutto da sola?» Robert, il mio bellissimo e altissimo figlio, torreggiava sopra di me. I capelli flosci e tinti di biondo gli pendevano diritti davanti a uno dei suoi occhi chiari. Indossava jeans strappati, una vecchia felpa blu che era diventata quasi grigia e, sopra, una camicia a quadri tutta sbottonata, compresi i polsini. Era a piedi nudi. Stava benissimo. «Nessun problema. Anzi, mi è di aiuto. Potresti lavare la lattuga?» «Non a digiuno» rispose, aprendo il frigo e sbirciandovi dentro. «C'è qualcosa da mettere sotto i denti?» «No. Che cosa stanno combinando gli altri?» domandai. «Dio, da dove comincio?» Prese a contare sulle dita con aria teatrale e sarcastica. «Theo gioca a scacchi con nonno Chris; papà coordina la disposizione dei posti a sedere e dà istruzioni sulla collocazione dei piatti; Jonah, Alfred e Meredith sono andati a fare una passeggiata, con molta probabilità per cercare di sbirciare dentro quella specie di tenda; Hana e Jerry sono nella vasca da bagno, nella stessa vasca da bagno; e molto, molto altro ancora. Non ho visto il nonno e la nonna. Devono essere in camera loro.» Ci fu una pausa. Robert aveva un'espressione trepidante. Versai i funghi nell'olio bollente. Aspettava qualcosa. «Sì?» lo incoraggiai. Le ginocchia mi tremavano e lo stomaco mi si contrasse all'improvviso. Robert avvicinò alla bocca le mani piegate a coppa e iniziò a parlare come attraverso un megafono; la sua voce riecheggiò nella cucina, amara e rabbiosa. «Ehilà, ehilà, c'è qualcuno là fuori? Sono Rob Martello, un ospite arrivato dal mondo reale. Vorrei annunciare che sono state rinvenute delle ossa nella proprietà. L'unica figlia femmina del signore e della signora Martello era sepolta da venticinque anni in giardino, a un metro dalla porta di servizio e sotto circa cinque centimetri di terra. La direzione si scusa perché, a causa di tale scoperta, può darsi che la cena venga servita con uno o due minuti di ritardo. Ci auguriamo che questo non interferisca con i vostri programmi per la serata.»
Non riuscii a trattenere una risata esausta. «Robert!» Era Claud. Era entrato senza far rumore, ma sorrideva anche lui. «So che è imbarazzante...» cominciò, ma Robert lo interruppe subito. «Come? Imbarazzante? Tua sorella dissotterrata in giardino? Perché mai dovrebbe essere imbarazzante? E comunque, ormai è passata qualche ora, vero? E la polizia ha portato via le ossa. Forse, già che c'erano, Alan avrebbe dovuto pregarli di riempire la buca prima di andarsene. Così com'è, c'è il rischio che domattina qualcuno ci cada dentro e ricordi tutto. Magari mentre partecipa a un'altra maledetta raccolta di funghi.» Claud cercò di assumere un'espressione severa, ma riuscì solo ad abbozzare un sorriso rassegnato. «Hai ragione, Rob, probabilmente non stiamo gestendo la faccenda molto bene, ma...» «Ma bisogna salvare le apparenze. Non vogliamo certo che i resti di un cadavere rovinino un grandioso week-end dei Martello. Altrimenti potrebbe capitare qualcosa di grave. Sai, come servire il vino sbagliato con i funghi.» Claud si fece serio. «Robert, adesso smettila. La scomparsa di Natalie risale a prima della tua nascita, per te è difficile capire. Ci siamo abituati pian piano all'idea della sua morte. Tua nonna, mia madre, non ci è mai riuscita del tutto. Si è sempre sforzata di credere che Natalie fosse scappata e che un giorno o l'altro si sarebbe rifatta viva.» Essendo abbastanza alto da arrivarci, cinse le spalle di Robert con un braccio. «Oggi è una brutta giornata per lei. Lo è per tutti noi, ma per lei in particolare, perciò dobbiamo essere forti e sostenerla. Se non altro, è positivo che sia accaduto quando eravamo insieme. Possiamo confortarci a vicenda. E soprattutto confortare Martha. Ci sono molte cose di cui discutere, Robert. Non solo riguardo a Natalie, ma riguardo a tutto. E ne discuteremo, te lo prometto. Ma forse oggi dovremmo limitarci a restare uniti. Ricorda che non è ancora stata identificata ufficialmente.» «E non è bello poter mangiare tutti insieme?» intervenni. «Vieni qui, tesoro» lo tirai a me per abbracciarlo forte. «Ti arrivo solo al mento, mi sento una nanerottola.» «Allora mi aiuterai, Rob?» chiese Claud. «Sì, sì, papà, va bene» rispose Robert. «Dobbiamo comportarci da persone mature. Magari dovremmo trasformare la buca in un'attrazione. Mamma, perché non riprogetti il cottage intorno alla fossa come hai fatto quella volta con l'albero?» «È un sì o un no?» domandò Claud con quella sfumatura d'acciaio di cui
la sua voce sapeva tingersi di colpo. Robert levò le mani in un gesto di resa scherzosa. «È un sì. Farò il bravo» promise, uscendo a ritroso dalla cucina. Io e Claud scrollammo le spalle impotenti. Andavamo più d'accordo così di quando stavamo insieme. Mi resi conto di dovermi guardare dalle insidie della nostalgia. «Grazie» dissi. «Te la sei cavata brillantemente.» Si chinò sopra una casseruola scoppiettante. «Che profumino» commentò. «Per usare le tue parole, siamo ancora buoni amici, vero?» «Non fare così.» «Nessun sottinteso.» Tacque. «Ho detto a tutti che avremmo mangiato alle nove. Ce la farai?» Mi squadrò. Indossavo i pantaloni di una tuta e una camicia da uomo che un tempo era appartenuta a Jerome. Dopo una doccia bollente, mi ero infilata i primi indumenti che avevo trovato. Avevo tentato di lavare via ogni cosa: le lacrime, il sudore della fatica, il terreno fangoso che aveva contenuto le ossa. «Sì, purché metta subito la carne in forno.» Sbriciolai il rosmarino sull'agnello e infornai l'arrosto. Poi alzai la fiamma sotto i cannellini e versai il riso nella pentola dei funghi, mescolando con vigore. Come sempre, Claud aveva molto da fare, ma ora sembrava restio ad andarsene. Appoggiandosi al piano di lavóro, giocherellò con quanto rimaneva di una mazza di tamburo che avevo scartato. «Ci considerano pazzi, sai?» «Chi?» «Le persone qui intorno. Mangerebbero soltanto funghi identici a quelli delle scatole che compri al supermercato. Ma capisci che cosa genera la repulsione della gente, vero? Assomigliano un po' alla carne morta, non credi? Non sono proprio salutari.» Prese un prataiolo e lo accarezzò con un dito. «Non hanno clorofilla, sai? Non sono in grado di produrre carbonio. Possono soltanto nutrirsi di altro materiale organico.» «Non è quello che fanno tutte le piante?» «Qualche volta mi impensierisce che tu dica cose simili» osservò nel tono contrito di cui, mi venne in mente all'improvviso, non dovevo più preoccuparmi. «Come sta Martha? L'hai vista?» «La mamma sta reagendo bene» replicò. La sua voce aveva un accento di esclusione che mi raggelò, ed ero sul punto di rispondergli per le rime, quando Peggy irruppe in cucina, le guan-
ce arrossate, le solette dei calzettoni di lana sporche di nero. Afferrati un bicchiere e una bottiglia di whisky, uscì di nuovo. «Peggy» le gridò Claud dopo che si fu dileguata, «ricorda che si mangia tra un'ora o giù di lì e che ci sarà un bel po' di vino.» «Claud!» sibilai con una punta di rimprovero, ma Peggy sapeva difendersi da sola. Sbuffò, salendo le scale a passi pesanti. Tornando a voltarsi verso di me, Claud mi domandò con molta gentilezza: «Tutto bene, Jane? C'è qualcosa che posso fare per te?» Erica si materializzò nella stanza, tutta profumo, unghie viola e riccioli ramati. «Claud, eccoli qui. Theo vuole che lo aiuti a spostare dei letti al piano di sopra. Jane, angelo, come posso esserti utile?» Si era già cambiata per la cena, la gonna con lo spacco che le strisciava per terra, la camicetta di seta color melanzana che le si gonfiava sui seni prosperosi (be', più prosperosi dei miei), i braccialetti che le tintinnavano al polso e i lunghi orecchini che le pendevano dai lobi vistosi. Ridacchiò, e rammentai quanto mi piacesse, nonostante tutto, la giovane moglie di Paul, che pareva un fiore esotico in confronto alla sciatteria stanca e pretenziosa di Peggy. «Ho appena intravisto le figlie di Peggy che si intrufolavano nella dépendance. Oh, magari avessi ancora quindici anni e potessi nascondermi a fumare in un capanno. Cristo, che giornata orribile e inquietante. Povera Natalie. Be', sempre che sia Natalie, e non un qualche reperto archeologico. Ma dev'essere lei, e tu hai tutte le ragioni per sentirti uno straccio. La mia opinione sulla morte dei bambini è cambiata radicalmente dopo Rosie, sai. Non che sia mai stata fatalista, ci mancherebbe altro. Io mi suiciderei, credo. Frances e Theo ritengono che probabilmente sia stato un sollievo per Martha, ma mi domando se sia davvero così.» Affondò le dita simili ad artìgli in una ciotola di olive, lanciandosene distrattamente qualcuna in quella vorace bocca rossa. Claud cominciò a stappare il vino con metodicità, e allineò in fila otto bottìglie aperte. Grattugiai il parmigiano sul tegame fumante di risotto ai funghi e aggiunsi una morbida noce di burro non salato, che non avevo tolto dal frigo ma dalla dispensa, il luogo più adatto per conservarlo. Avevo sempre desiderato una dispensa. Theo e sua moglie Frances passarono accanto alla finestra, impettiti ed eleganti. Lei parlava con concitazione, gli occhi duri, ma non riuscii a decifrare le sue parole né a vedere il volto di Theo. Poi mio cognato girò la testa e mi guardò dritto negli occhi. Mi par-
ve di tornare indietro negli anni. Accennò un sorriso impacciato, ma Frances aggiunse qualcosa. Theo si voltò di nuovo verso di lei e continuarono a camminare. Quando vado alla Fattoria, alloggio nella camera che occupo da quando ero bambina. Più come sorelle che come migliori amiche, Natalie e io litigavamo per il letto più vicino alla finestra e di solito vinceva lei. Quelli erano la sua casa, la sua stanza, il suo materasso. Dopo la sua scomparsa, non ero riuscita a dormire dalla sua parte. Restavo distesa sull'altro lato del locale, sotto il tetto spiovente, ascoltando la pendola in fondo al corridoio e talvolta le strida dei gufi che nidificavano nei boschi. Ogni tanto mi svegliavo nel cuore della notte e per qualche secondo, finché mi tornava in mente tutto quanto, credevo di intravedere la sua sagoma sotto le coperte. Martha non si era mai sbarazzata delle sue cose, continuando a sperare che ricomparisse. Ogni anno, quando andavamo lì in vacanza, avevo pertanto dovuto sistemare i miei vestiti tra quelli di Natalie, che, mummificati nel cellophane, mi erano diventati sempre meno familiari, finché mi ero resa conto che appartenevano a una ragazza da cui mi ero allontanata quando ero diventata adulta. Un giorno erano spariti. Ora scostai le tendine e scrutai il giardino, che stava per dissolversi nella notte. La foschia della sera si levava come fumo dall'erba umida. Il cielo era quasi buio, ma l'orizzonte era rosa. Domani sarà una bella giornata, pensai, fissandolo. Mucchi di foglie giacevano sul prato in forme bizzarre, in attesa di essere bruciati. Più lontano, sulla destra, distinsi un'altra forma, più bassa, il tendone della polizia. Da qualche parte esiste forse un'azienda che produce teloni destinati a coprire le zone in cui vengono rinvenuti dei cadaveri? Deve esistere. Tutto era immerso nel silenzio. Le figlie di Paul, sul limitare del bosco, sedevano in un triangolo con aria cospiratrice, ormai poco più che un'ombra a tre punte nell'oscurità. Dal piano di sotto provenivano delle voci, anche se non capivo che cosa dicevano. Un tubo gorgogliò, uno scroscio risuonò in un canale di scolo esterno, alcuni passi superarono la mia porta e immaginai Jerome e la stupenda Hana, rossa come un gambero, che correvano lungo il corridoio avvolti negli asciugamani. Credetti di sentire un lieve singhiozzo. Aprii la valigia ed estrassi una giacca sciancrata, collo alto e polsi stretti, austera e sexy al contempo. Indossarla mi calmò un pochino. Mi tamponai il profumo dietro i lobi e mi misi gli orecchini. Ripensai alla Natalie di quell'ultima estate, mentre provava il rossetto viola e si rimirava allo spec-
chio come una gatta, gli occhi azzurri simili ai miei. Ripensai ai patetici frammenti d'osso che avevo intravisto nell'argilla quel mattino. Che cosa ci facevo in quel casale insieme a Claud, da cui stavo divorziando, insieme ai suoi genitori, che stavo facendo soffrire, e insieme a Theo, con cui scambiavo occhiate d'intesa attraverso la finestra della cucina come un'adolescente? «Jane, Hana, Martha e Alan.» Era Claud che ci chiamava dai piedi delle scale. «Sbrigatevi. Sto per stappare lo champagne.» CAPITOLO 3 Martha e Alan fecero il loro ingresso come ospiti di riguardo. Alan entrò nel bel mezzo di una conversazione, le grosse mani che gesticolavano, la pancia che sporgeva generosa da sopra la cintola, la barba incolta e i capelli grigi che gli sfioravano il colletto liso. La cravatta era tuttavia abbastanza sgargiante da essere alla moda e la giacca di tweed era impeccabile. Il solito bohémien che non si curava dell'abbigliamento, ma un bohémien ricco. Abbracciò Frances, che si trovava accanto alla porta, e diede una calorosa pacca sulla schiena a Jerome. Quest'ultimo, i capelli rasati alla Keanu Reeves, indossava un paio di jeans e una T-shirt nera, e appariva depresso e a disagio. Parlava solo con Hana. Anche lei era tutta vestita di nero, colore che dava risalto ai suoi tratti slavi. Jerome scoccò un'occhiataccia ad Alan, che non se ne accorse. «Eccoci tutti qui, allora» tuonò Alan. «Muoio dalla voglia di un drink.» Accanto a lui, Martha era pallida, più magra di quanto ricordassi, i lineamenti addolciti dall'età. Era chiaro che aveva pianto senza sosta; aveva quell'aria fragile, spaurita. Jonah andò a baciarla sulla guancia. Era un tipo affascinante, pensai, con i capelli scuri e gli occhi azzurri. Perché lui e Fred non mi erano parsi attraenti quanto Theo durante quella lunga e torrida estate? La famosa estate. Forse ciascuno di loro sembrava solo un mezzo uomo; li riassumevo ancora in un unico nome, Jonah-Fred, i gemelli. E consideravo ancora un tantino comico, o assurdo, il loro aspetto identico. Ormai erano un po' stempiati, e la loro avvenenza aveva cominciato a incrinarsi. Non sarebbero invecchiati bene, riflettei. Nemmeno case, mogli, lavori e famiglie diverse erano riusciti a evidenziare le differenze tra le loro personalità. Mi domandai se architettassero ancora scherzi ai danni del prossimo. Claud iniziò a estrarre il primo turacciolo, e tutti levarono i calici, impa-
zienti. Udii un mormorio nell'orecchio. Peggy era in piedi accanto a me. «Non credo che lo champagne sia adatto alle circostanze» commentò. Le risposi con una scrollata di spalle che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa. Ci fu un acuto tintinnio. Ci voltammo tutti. Alan stava picchiettando l'accendino contro il bicchiere. Una volta ottenuta la nostra attenzione, avanzò fino al centro della stanza. Tacque a lungo, assumendo un'espressione meditabonda. Se non l'avessi conosciuto, forse quel silenzio esagerato mi avrebbe allarmata o imbarazzata. Rammentai tuttavia un documentario su Adolf Hitler, un altro showman megalomane, che cominciava sempre i suoi pomposi discorsi con quelle interminabili pause di timidezza per suscitare la totale curiosità del pubblico. Quando Alan parlò, al principio tenne la voce così bassa che dovemmo piegarci in avanti per sentirlo. «Sapete che amo accogliervi tutti qui con una o due battute spiritose, ma la situazione è diversa da quella che avevamo previsto. Forse vi interesserà sapere che ho appena finito di parlare al telefono con il commissario Clive Wilks, il capo della Divisione investigazioni criminali di Kirklow. È stato cauto, com'è giusto che sia, ma quando gli ho domandato se i resti potevano appartenere a una sedicenne, mi ha risposto di sì. Il che, naturalmente, non mi sorprende.» Abbozzò un sorriso. «E temo che per il momento il meraviglioso villino di Jane dovrà aspettare. «Questa cena è una nostra tradizione. È molto importante per me, la riunione delle nostre due famiglie, di tutti i loro figli e i loro cari.» A quel punto il gruppo fremette, inquieto. Che cosa stava per dire? «Ma la cena di questa sera, la ricorderò per il resto dei miei giorni. Venticinque anni fa, nostra figlia Natalie è scomparsa. Per qualche tempo abbiamo creduto, o ci siamo sforzati di credere» pronunciò quell'ultima frase rivolgendo un'occhiata a Martha, tremante e sull'orlo delle lacrime, «che fosse scappata e sarebbe tornata da noi. Quella speranza si è affievolita, ma non è mai morta. Aspettare qualcuno che non arriva è una cosa terribile, una cosa terribile. Oggi l'abbiamo trovata, e finalmente possiamo piangerne la morte e commemorarne la vita come si deve. Possiamo seppellirla. Sento di dovervene parlare. Di doverla descrivere, la mia unica figlia. Non so da dove iniziare.» A un tratto sembrava un vecchio triste e indifeso. Udii un sussurro alticcio nell'orecchio. «Che maledetto attore. Ci sguazza dentro, vero?» Era Fred, già ubriaco fradicio. Gli ordinai di chiudere il becco.
«Era giovane, intelligente e bellissima; la sua esistenza era appena cominciata.» Sentii un singhiozzo soffocato, ma non capii da chi proveniva. «Era testarda e ribelle.» Ora Alan aveva il volto rigato di lacrime; proseguì con decisione, senza disturbarsi ad asciugarle. «Ha sempre detestato gli addii. Anche quando era piccolissima, mi spingeva via se cercavo di abbracciarla davanti alla scuola. Non mi faceva mai ciao dall'autobus; guardava sempre dritto davanti a sé. Era fatta così, la mia bambina, non si voltava mai indietro. Ma adesso possiamo dirle addio.» Abbassò gli occhi sul bicchiere, poi continuò, più composto. «Questo è un nuovo capitolo della nostra vita.» Cinse con il braccio le scarne spalle di Martha, rigide contro il dolore. «Forse non riuscirò più a scrivere un libro decente» aggiunse con una mezza risata. «A ogni modo, volevo dirvi che sono contento di avervi qui oggi. Volevate tutti bene a Natalie, e Natalie ne voleva a voi.» Levò il calice, le bollicine che scintillavano alla luce del fuoco. «Vorrei proporre un brindisi. A Natalie.» Ci scambiammo un'occhiata. Non era di cattivo gusto? «A Natalie.» Prima di riuscire ad accostarmi lo champagne alle labbra, ne versai metà perché Fred mi strinse a sé con veemenza. «Mi dispiace per il tuo matrimonio, Jane» disse con voce impastata, «e mi dispiace per il tuo progetto. Non ho mai visto uno dei tuoi edifici, ed ero ansioso di dormire là dentro. Ma adesso sarà infestato per sempre da un fantasma, vero?» «Io non direi.» «Io sì. Altroché» replicò. «Ma la vera domanda è questa.» Tacque così a lungo che pensai avesse terminato. Mi sarei allontanata se non mi avesse trattenuta per la manica. «La domanda è: sì tratta di un fantasma felice o di un fantasma triste?» «Non saprei» risposi, cercando una via di fuga. «E quali segreti ha da svelarci?» «Già, ma adesso è ora di cena» annunciai, alzando la voce. «Tutti a tavola.» Era finita. Riso scotto con funghi gommosi, agnello crudo agli aromi, soufflé al cioccolato sgonfi. Il lume di candela ammorbidiva i lineamenti di tutti; le voci salivano e scendevano come note musicali. Persino i giovani, impegnati a giocare al Paroliere accanto al caminetto, parlavano piano. Non alzò la voce neppure Alan, intento a giocherellare con lo stelo del bic-
chiere e a sproloquiare sullo stato del romanzo contemporaneo (pessimo, naturalmente, in sua assenza). Fred mi aveva bloccata di nuovo e mi aveva consigliato di rivolgermi a sua moglie Lynn per il divorzio, ma il suo piano fallì quando Lynn intuì che cosa stava succedendo e lo accompagnò a letto. «Mi reggo in piedi, non ti preoccupare» affermò Fred mentre lei lo conduceva su per le scale con aria severa. «Sta bene?» le domandai quando tornò giù, da sola. Era una bella donna sicura di sé, elegantissima in una gonna e una giacca di velluto scuro. «L'hanno incaricato della ristrutturazione dell'azienda» mi informò. «Una cosa piuttosto stressante.» «Licenziamenti?» «Ridimensionamento» precisò. Speravo che si spiegasse meglio, ma cominciò a mostrarsi compassionevole e persi interesse. Appena potei, la piantai in asso per raggiungere Hana e Jerome, che era ancora imbronciato e rispose alle mie domande a monosillabi. Mi avvicinai a Theo, occupato a fissare il fuoco. Quando gli sfiorai la spalla, trasalì. «Scusa» dissi. Si voltò, ma parve non vedermi. «Mi sono tornati in mente i particolari più sciocchi» osservò. «Quando era più piccola, undici o dodici anni, in estate facevamo le ruote tra l'erba secca. Io ci riuscivo solo se mi muovevo in fretta. Lei mi scherniva, dicendo che non avevo le gambe abbastanza lunghe. Quando toccava a lei, la gonna o il vestito le ricadevano all'ingiù, talvolta sopra la testa, e noi ragazzi la prendevamo in giro. Ma sapeva farle piano, come andrebbero fatte. Prima appoggi le mani, quindi sollevi una gamba con lentezza e poi sollevi l'altra, come i raggi di una bicicletta. Infine le abbassi entrambe. Le sue ruote erano perfette, ma eravamo troppo orgogliosi per ammetterlo.» «Non credo le importasse» lo rassicurai. «Sapeva in che cosa era brava.» «E rammento quando leggeva seduta laggiù, sulla panca sotto la finestra. Sembrava sempre corrucciata. Ecco come appariva quando si concentrava. Corrucciata. Era bizzarro.» Annuii, incapace di parlare. Non ero ancora pronta. «Hai presente il vecchio cliché secondo cui torni da scuola e ti rendi conto che la tua sorellina è diventata una donna? Era più o meno così quando aveva quattordici, quindici, sedici anni. Tornavo da scuola per le
vacanze, e lei usciva con i suoi ex compagni di giochi. E poi Luke, ricordi?» Assentii. «Ho provato una strana sensazione. Sgradevole, in un certo senso. Per la prima volta in vita mia mi ero reso conto che stavamo crescendo tutti quanti. E che avrei visto Natalie trasformarsi in un'adulta, in una madre e tutto il resto, ma non è mai accaduto.» Si girò verso di me. Aveva gli occhi lucidi. Gli presi la mano. «Rammento quell'espressione corrucciata» replicai a bassa voce. «Quell'orribile estate in cui pioveva senza sosta, e lei ha passato ogni santo giorno con tre di quei maledettissimi sacchetti di fagioli, o qualunque cosa fossero, perché voleva imparare a fare giochi di abilità. Aveva quell'aria corrucciata e la lingua che le spuntava da un angolo della bocca, giorno dopo giorno, e alla fine ce l'ha fatta.» Ormai ero a pochi centimetri da Theo. Ci sussurravamo all'orecchio come due innamorati. «La ricordo sdraiata davanti a questo caminetto. Le fiamme negli occhi. Ero accanto a lei, vicinissima. E ridacchiavamo se qualcuno ci rivolgeva la parola. Dio, dovevamo essere irritanti.» Sorrise per la prima volta. «Hai ragione.» L'incantesimo si spezzò. Claud era più in là, da qualche parte, impegnato a stappare una bottiglia di Porto. Il denso liquido viola gorgogliò piano nei bicchieri disposti su un vassoio. Levò una mano, e il brusio nella stanza cessò. «Alla cuoca» disse, sorridendomi mesto sopra gli avanzi del pasto. Quella cena acquistò di colpo il sapore di un addio. Mi domandai che cosa sarebbe successo, ed ebbi paura del futuro. «A Jane» gli fecero eco gli altri. «Ad Alan e Martha» aggiunse mio padre. Dalla dolcezza della sua voce, di solito aspra, capii che era un po' brillo. «E a Claud, che ha organizzato tutto» urlò Jonah, sovrastando il frastuono. «A Theo, che ha trovato i gallinacci» gridò qualcuno dal fondo. Quella parentesi tenera e melanconica si era interrotta. «A tutti noi» interloquì Alan. «A tutti noi.» CAPITOLO 4 La mia automobile non partì subito. Era una mattinata fredda, e il motore soffiò e morì varie volte prima di accendersi tossicchiando. Abbassai il finestrino. I miei figli erano là fuori, con un colorito smorto. Robert sareb-
be venuto con me. «Ciao, Jerome. Ciao, Hana. Chiamatemi quando arrivate a Londra. Guidate con prudenza.» Hana si avvicinò per baciarmi attraverso il finestrino. Mandai un bacio a Rosie, che puntò l'indice verso di me prima di infilarselo in una narice. Paul stava caricando in auto un'incredibile quantità di bagagli. Quando lo chiamai, agitò la mano nella mia direzione. Alan e Martha mi salutarono restando in piedi l'uno accanto all'altra. Sporgendomi, presi le dita di Alan e gliele strinsi. «Alan» domandai, «ci vediamo la prossima volta che vieni a Londra?» Mi sentii in imbarazzo, quasi gli stessi domandando se potevo tenermi in contatto con lui. Mi scompigliò i capelli come se fossi ancora un'adolescente. «Jane» rispose, «sarai sempre nostra nuora. Vero, Martha?» «Certo» confermò lei, abbracciandomi. Aveva un odore inconfondibile: cipria, lievito e legno bruciato. Era sempre riuscita ad apparire insieme abbastanza sexy da essere splendida e abbastanza semplice da essere rassicurante. Aveva gli occhi colmi di lacrime quando mi baciò, e per un attimo desiderai solo disfare tutto quello che avevo iniziato: la separazione da suo figlio, i maledettissimi progetti per il villino che avevano riesumato i resti di Natalie. Poi mi strizzò la mano. «A essere sinceri, Jane, per me sei più una figlia che una nuora.» Esitò prima di aggiungere: «Non deludermi, mia cara». Che cosa intendeva? Come avrei potuto deluderla? Claud uscì di casa con una bella valigia. Si avviò verso di noi, quindi si arrestò. Avrebbe affrontato la situazione con atteggiamento dignitoso. Ma non si arrenderà, pensai, guardandolo: una figura così familiare. Sapevo dove aveva comprato i jeans, e in quale ordine aveva preparato i bagagli. Sapevo quale musica avrebbe ascoltato in auto, ero certa che non avrebbe superato i centodieci chilometri orari e immaginai che, una volta giunto nel suo nuovo appartamentino di Primrose Hill, mi avrebbe innanzitutto telefonato per accertarsi che fossi arrivata sana e salva, quindi si sarebbe versato un whisky e cucinato un'omelette. Robert sedeva accanto a me, teso e taciturno. Il suo viso liscio e pallido aveva un'espressione vacua. Posai una mano sulla sua per un attimo, poi la sollevai per salutare Claud, che rispose con un cenno del capo. «Ciao, Jane» urlò, salendo sulla sua utilitaria.
Lasciammo la Fattoria insieme e per chilometri, mentre attraversavo la campagna dello Shropshire, scorsi la sua piccola vettura blu e la sua testa scura nello specchietto. Quando raggiungemmo l'autostrada, Robert accese la radio a tutto volume, io schiacciai l'acceleratore, e distaccammo Claud di un bel po'. Le sigarette sono meravigliose. Ogni mattina facevo la doccia e scendevo in vestaglia al piano di sotto, dove macinavo qualche chicco di caffè, versavo un po' di succo d'arancia fresco in un bicchiere e me ne accendevo una. Studiavo i disegni del nuovo progetto con una sigaretta tra le dita. Fumavo ogni volta che sollevavo il telefono. Fumavo in automobile... Dio, Claud l'avrebbe detestato. Spesso fumavo al buio, al termine della giornata, osservando la punta incandescente che tracciava linee nell'aria. I miei giorni erano scanditi da piccoli cilindri di nicotina. Fumavo tutte le mattine mentre sfogliavo i quotidiani per controllare se ci fossero altri accenni alla scoperta dei resti di Natalie, ora che l'avevano identificata mediante le radiografie dentali. La figlia sventurata di un giovane arrabbiato, annunciava il «Guardian». La tragedia dei Martello, riferiva il «Mail». Alan concedeva interviste, di solito accompagnate da immagini di repertorio in cui appariva più aitante e sbarazzino. Tornai a Londra quella domenica, e alla fine della settimana ricevetti la chiamata di un tizio della Divisione investigazioni criminali di Kirklow. Volevano interrogarmi solo per rispetto della prassi. No, non sarei dovuta andare a Kirklow, un paio di poliziotti sarebbero venuti a Londra la settimana successiva. Concordammo l'orario, e il seguente martedì mattina, alle undici e mezzo in punto, c'erano due detective accomodati nel mio salotto. Erano il sergente investigativo Helen Auster, che fu l'unica a parlare, e l'agente investigativo Turnbull, un omone dai capelli rossi appiattiti contro il cranio, che sedeva con un bloc-notes aperto senza prendere appunti. Preparai il caffè, e io e Turnbull fumammo una sigaretta. Auster indossava una gonna e una giacca di flanella grigia molto sobrie. Aveva i capelli castano chiaro e stupefacenti occhi gialli, che sembravano puntati su qualcosa dietro la mia testa. Portava la fede nuziale ed era giovane, quasi dieci anni più giovane di me, calcolai. Sorseggiando il caffè, pronunciammo osservazioni banali sulle dimensioni di Londra. Non pareva che avessero fretta di andare al sodo, e fui io ad affrontare l'argomento. «State facendo il giro dei parenti da queste parti?» Helen Auster sorrise, guardando un taccuino. «Abbiamo appena parlato
con suo padre, il signor Crane» mi informò. Aveva un lieve accento di Birmingham. «Dopo pranzo abbiamo appuntamento con Theodore Martello nel suo ufficio all'Isle of Dogs, poi andremo al centro televisivo della BBC per incontrare suo fratello Paul.» «Trascorrerete quasi tutta la giornata imbottigliati nel traffico» commentai, compassionevole. «Pretendete che le persone ricordino qualcosa dopo tutto questo tempo?» «Abbiamo alcune domande da porvi.» «Tratterete la morte di Natalie come un omicidio?» «È una possibilità.» «Perché è stata sepolta, suppongo.» «No, perché alcuni elementi fanno pensare a uno strangolamento.» «Come avete fatto a dedurlo dalle semplici ossa?» Si scambiarono un'occhiata. «È solo un dettaglio tecnico» spiegò Helen. «Lo strangolamento frattura quasi sempre l'osso ioide, che si trova alla base della lingua. L'osso ioide della defunta è fratturato. Ma naturalmente è rimasto sotto terra a lungo.» «Qualcuno deve aver seppellito il cadavere» osservai. «Già» confermò Austen «Ed è stata la stessa persona che l'ha uccisa?» «Può darsi. Per ora stiamo soltanto cercando di raccogliere informazioni. Come probabilmente sa, tutti hanno creduto per molto tempo che Natalie Martello fosse scappata di casa. L'ultimo avvistamento documentato risale al pomeriggio del 27 luglio 1969.» «Sì, il giorno dopo la grande festa» la interruppi. «Le deposizioni risalgono solo ad alcuni mesi dopo, e l'inchiesta non è andata molto lontano. Natalie Martello ha continuato a figurare tra le persone scomparse.» Ci fu una pausa, che, come al solito, mi affrettai a riempire. «Temo che ormai gli indizi scarseggino. Come farete a scoprire qualcosa?» «Vogliamo soltanto invitarvi a riferirci qualunque particolare ricordiate, anche il più insignificante.» «Sì, certo.» Abbassò di nuovo gli occhi sul taccuino. «L'ultimo a vedere Natalie è stato un abitante della zona, Gerald Francis Docherty. L'ha scorta lungo il fiume che costeggia la proprietà dei suoi suoceri. Inutile specificare che vorremmo indagare su eventuali avvistamenti successivi.» «Credo che ce l'abbiano domandato anche allora. Io non l'ho vista dopo
il party.» «Mi parli della festa.» «Ve l'avrà già detto mio padre. Era il ventesimo anniversario di matrimonio di Alan e Martha. Erano stati in crociera da qualche parte, e quel giorno papà è andato a prenderli al porto di Southampton e li ha accompagnati dritti nello Shropshire. La famiglia aveva organizzato i festeggiamenti in grande stile. C'erano tantissimi ospiti e molti si sono fermati per la notte, nel casale o nelle abitazioni vicine. Molti hanno dormito sul pavimento, nei sacchi a pelo, immagino. Ricordo perlopiù i preparativi. Io e Claud ci eravamo occupati delle commissioni, lo rammento bene... recuperando varie cose, come cibo o bicchieri. Natalie avrà fatto lo stesso, suppongo. Era una magnifica serata, molto calda, con la sensazione di afa che si prova al termine di una giornata estiva. Abbiamo cucinato sul barbecue. Se n'era occupato Claud, con l'aiuto di Paul; perché gli uomini vogliono sempre pensare al barbecue, maneggiando tutta quella carne morta? Natalie indossava un abito nero senza maniche, mi pare. Si era vestita di nero per tutta l'estate; io la imitavo, e anche Luke. Era il suo ragazzo, come certo saprete. Erano molto alla moda; erano, per così dire, magrissimi e imbronciati. Mi facevano sentire rozza e campagnola benché fossi io quella che abitava a Londra. Sto saltando di palo in frasca. Che cosa vuole che le racconti?» Helen Auster assunse un'espressione un po' vacua e imbarazzata. Non credo sapesse davvero cosa voleva che le raccontassi. «Ricorda com'era Natalie durante il party?» «Che cosa intende?» «Sembrava depressa? Arrabbiata? Euforica?» Avvampai. Quando ripensavo alla festa, non era Natalie che mi tornava in mente, bensì Theo. «Non ricordo di averla vista granché. È stato un grande evento, sa. Ci sarà stato un centinaio di persone.» «Credevo che fosse la sua migliore amica.» «Sì, ma è molto difficile ricordare quando c'è tanta gente, non trova?» «Già» assenti. «Che cosa è successo il giorno dopo?» «I festeggiamenti sono proseguiti, penso. Molti ospiti si erano fermati, o sono tornati. Alcuni sono andati a fare una passeggiata o cose del genere, poi, a mezzogiorno, tutti hanno cominciato a bere champagne.» «Era presente tutta la famiglia?» «Alla festa vera e propria, sì. Dopo aver organizzato tutto come sempre,
Claud è partito domenica mattina prima dell'alba ed è venuto a Londra con Alec, il suo migliore amico, per prendere un aereo diretto a Bombay. Ha trascorso due mesi a gironzolare per l'India con venti sterline in tasca. Io e Claud abbiamo sempre desiderato visitarla insieme. Adesso pare improbabile. Forse dovrei precisare che abbiamo chiesto il divorzio.» «Mi dispiace.» «Va tutto bene. Sono stata io a volerlo. La gente si è sparpagliata qua e là per tutto il giorno. Immagino che sarebbe impossibile ricostruire i movimenti esatti di ciascuno in un dato momento di quella giornata.» «A eccezione di Natalie, accanto al fiume, poco prima dell'una. C'era una ragione particolare per cui avrebbe dovuto trovarsi lì?» «Non che io sappia. Insomma, nessun motivo specifico, anche se non è strano che ci sia andata. Mi rincresce, non credo di esservi di grande aiuto.» «Non si preoccupi. Comunque ho saputo che, pur senza volerlo, è stata responsabile del ritrovamento dei resti. Perché voleva costruire il villino proprio lì?» Le spiegai che in origine avrei voluto edificare il cottage (solo che allora non doveva essere un cottage, bensì una struttura avveniristica) più giù lungo il versante della collina, ma avevo modificato il progetto quando avevo scoperto che un piccolo affluente del fiume scorreva sotto quell'area. Il drenaggio sarebbe stato difficile e costosissimo. Le raccontai degli scavi, e di come avevamo disseppellito le ossa di Natalie. «Perché ha dato per scontato che fossero di Natalie?» domandò. «Non lo so» risposi, leggermente spiazzata. «Forse solo perché Natalie era scomparsa, e io avevo sempre pensato che fosse morta, sebbene Martha si rifiutasse di crederlo. Così, quando sono saltate fuori delle spoglie vicino alla casa, ecco...» Sentendo la mia voce che sfumava, riprovai. «Avevo sempre immaginato che un giorno o l'altro ci saremmo imbattuti nel cadavere di Natalie. Perciò, in un certo senso, me l'aspettavo, e magari ce l'aspettavamo tutti. Ma non avevo mai pensato che... be', che potessero averla uccisa. Avevo ipotizzato che fosse rimasta vittima di un incidente o qualcosa di simile. Così, trovarla è stato orribile, non solo perché era lei, ma anche perché qualcuno doveva averla sepolta. Anzi, è quello che volevo domandarvi. Non credete che sia un posto insolito per sotterrare Natalie... in giardino, a un tiro di schioppo da dove viveva?» Auster sorrise al suo collega. «Ce lo siamo domandati anche noi, vero, Stuart? Potremmo considerarlo un nascondiglio geniale per un cadavere.
La maggior parte degli assassini non è molto brava a occultare i corpi. Distese sperdute di boscaglia o brughiera sembrano l'ideale, ma sono zone di scarso passaggio, ed è facile notare un punto scavato. Invece, un giardino viene vangato in continuazione.» «Ma parecchie persone hanno accesso a un giardino» protestai. «Già» convenne con palese disinteresse. Evidentemente non aveva voglia di discutere le varie teorie con me. «Come ripeto, se le viene in mente qualcosa che potrebbe esserci utile, ci contatti.» Consultando l'orologio, mi domandò se c'era un pub nelle vicinanze. Quando gliene indicai uno in fondo alla via, mi invitò a pranzare con loro. Odio i pub e non avevo appetito, ma risposi che avrei bevuto volentieri qualcosa. Turnbull annunciò che voleva passare per Oxford Street sulla strada per l'Isle of Dogs, così io e Helen ci incamminammo verso il Globe Arms, dove lei ordinò una pinta di birra amara e una porzione di lasagne, e io giocherellai con un succo di pomodoro fumando senza sosta. Entrammo in confidenza, tanto che iniziammo a darci del tu. Mi parlò del lavoro di poliziotta, dei colleghi maschilisti e di suo marito, che coordinava le consegne per i supermercati Sainsbury dello Shropshire. Mi domandò del divorzio, e le confidai qualche banalità. Quando fu. quasi ora di salutarci, tornai all'indagine: «È troppo tardi, vero?» dissi. «Non scoprirete niente.» «Ci sono una o due possibilità, ma sarà difficile.» «A quanto pare, sei stata sfortunata.» «All'inizio lo pensavo anch'io. Ora comincio a credere che i Martello siano una famiglia interessante.» Mi porse un biglietto da visita dopo avervi scritto il numero del suo interno. Quando ci separammo, sul marciapiede di Highgate Road, la esortai a chiamarmi la prossima volta che fosse venuta a Londra e lei promise di telefonarmi. Era possibile che diventassi amica di una poliziotta? «Non pensi che sia ora di smettere?» Kim era a tavola di fronte a me; una candela sulla tovaglia di carta proiettava ombre sul pallido triangolo del suo viso. Infilzò un pezzetto di pescespada con la forchetta, buttandolo giù con una sorsata di vino. «Quante ne fumi adesso? Trenta al giorno?» Avevo finito il mio pasto, o meglio l'avevo spinto via senza quasi toccarlo, e ora sedevo in uno stato di stordimento soddisfatto, soffiando fumo azzurro sopra gli avanzi. Chiamai il cameriere italiano con un cenno, indicando la bottiglia vuota.
«Un'altra di queste, per favore.» Scossi la sigaretta nel posacenere. «Più di trenta, temo. Smetterò presto. Davvero. Il problema è che mi piace così tanto. Non mi fa stare male o cose simili.» Il cameriere si avvicinò, stappò una bottiglia di liquido ambrato e ne versò un po' nel bicchiere perché lo assaggiassi. «Ho smesso senza difficoltà in passato. Ci riuscirò di nuovo.» «Ieri ho esaminato il referto di una donna cui avevo prescritto una radiografia del torace. Aveva una tosse ostinata e lievi dolori al petto. L'anno prossimo, a quest'ora, sarà morta. Ha quarantaquattro anni e tre figli adolescenti.» «Parliamo d'altro.» «Come procede il pensionato?» «Parliamo d'altro.» Il pensionato non procedeva affatto. Era un puntino su un pezzo di carta, una conversazione in ufficio, un argomento durante le riunioni municipali, qualcosa per cui chiedere la licenza edilizia. Al lavoro, avevo decine di grandi fogli di carta millimetrata su cui avevo abbozzato le mie proposte: disegni geometrici, quadretto per quadretto, con matite ben temperate. Aspettavo solo che mi autorizzassero ad andare avanti. Nel frattempo qualcuno aveva accennato alla necessità di consultare gli abitanti della zona, un'idea che non mi piaceva per niente. «Okay, non parliamo del pensionato» riprese Kim. «Parliamo di te. Che cosa ne sarà di te adesso che sei sola?» Mi accesi un'altra sigaretta e mi versai un altro bicchiere di vino. «Sono diventata una single disponibile» risposi. «Comincerò a ritrovarmi seduta accanto al divorziato di turno durante le cene. A te capita spesso?» Scosse le spalle. «Non più.» «Di solito non ho granché da dirgli» continuai. «Poi ci sono amici che non si fanno sentire da un'eternità e mi chiamano all'improvviso, tutti dispiaciuti per la separazione da Claud, e non posso fare a meno di pensare che alcuni siano contentissimi di potermi compatire. Ma a essere sincera, adoro vivere da sola.» La fermezza della mia voce mi sorprese. «Guardo i film alla TV nel bel mezzo della giornata, vado alle mostre e frequento persone che avevo perso di vista. Posso essere disordinata. La casa mi sembra troppo grande, però. Ci abbiamo abitato in quattro per un sacco di tempo, e adesso ci sono soltanto io. Ci sono stanze in cui non entro mai.
Suppongo che un giorno o l'altro dovrò venderla.» La casa non mi sembrava solo troppo grande, mi sembrava anche deserta. Ora vi trascorrevo il minor tempo possibile, benché in passato avessi apprezzato i momenti in cui Claud e i ragazzi erano fuori e mi lasciavano in pace. Per quasi vent'anni ero andata al lavoro ogni giorno feriale ed ero rientrata di corsa in un'enorme abitazione chiassosa, piena di caos, rumore e figli che reclamavano la mia attenzione a forza di strilli. Avevo stirato e passato l'aspirapolvere, cucinato e fatto il bucato, e quando Jerome e Robert erano cresciuti li avevo scorrazzati avanti e indietro tra impegni sociali sempre più allarmanti. Avevo organizzato cene per i colleghi, miei e di Claud. Avevo assistito a spettacoli teatrali sotto Natale e a giornate dello sport durante l'estate, e avevo messo insieme pranzi al sacco nonostante il frigo vuoto. Avevo giocato a Monopoli, che detesto, e a scacchi, dove perdo sempre, sognando per tutto il tempo un libro davanti al caminetto. Avevo preparato torte per la vendita di beneficenza scolastica, infornandole a tarda notte per sentirmi una brava madre, soprattutto dopo che la mia era morta. Avevo sopportato gli assordanti dischi dei gruppi più in voga, con l'impressione di essere una donna di mezza età quando avevo poco più di trent'anni. Avevo supervisionato l'acne, i compiti e i musi lunghi. Ero rimasta in camera nostra quando i ragazzi avevano dato delle feste. Mi ero seduta, sera dopo sera, a sorseggiare un Gin tonic con Claud prima di cena. Mi ero destata notte dopo notte con la testa colma di liste, svegliandomi la mattina con un'emicrania dovuta alla stanchezza e coricandomi la sera con la consapevolezza di avere avuto una giornata così frenetica da non trovare un attimo per me stessa. Ora non c'erano più bronci, musica a tutto volume né chiamate da una cabina telefonica all'una di notte: «Mamma, ho perso il passaggio per tornare a casa, puoi venire a prendermi?» Se n'erano andati tutti, e potevo fare quel che mi pareva: il mio tempo era solo mio, una cosa che mi era sempre mancata. Ma non sapendo che cosa farmene di tutto quel tempo, lo riempivo. Mi trattenevo per lunghe ore in ufficio, spesso fino alle otto di sera. E poi uscivo con una certa regolarità. È vero che ricevevo molti inviti da persone ansiose di trovare una donna in più per la loro tavolata o convinte di dovermi tirare su di morale. Mi infilavo nei cinema, talvolta a orari illeciti, nel bel mezzo della giornata. Quando rincasavo, bevevo un bicchiere di vino, fumavo una sigaretta e andavo a letto con un giallo. I lunghi romanzi vittoriani che mi ero ripromessa di leggere avrebbero dovuto aspettare. Nei week-end guardavo le
matinée cinematografiche e passeggiavo sull'Heath. Gli autunni erano sempre stati così umidi? Una domenica mi ero recata a casa di papà per cucinargli il pranzo, e dopo mangiato gli avevo domandato se potevo dare un'occhiata alle vecchie fotografie. Volevo trovare un'istantanea di Natalie, perché non ne avevo neppure una. Senza rendercene conto, io e Claud l'avevamo cancellata dalla nostra esistenza. Ora la rivolevo indietro. Sfogliai i vecchi album, cercando il suo volto. Spesso era soltanto una macchia indistinta sul bordo, oppure un viso appena riconoscibile nelle foto di gruppo per cui avevamo posato ogni estate: undici facce che fissavano l'obbiettivo immobile. C'erano Alan e Martha, felici, giovani e affascinanti, e la mamma, sempre in disparte e con lo sguardo rivolto altrove (aveva sempre detestato farsi fotografare). Dopo la sua morte, papà ne aveva cercato un ritratto perfetto tra tutti quegli anni di ricordi, ma lei aveva sempre la testa girata da un'altra parte. C'erano molte immagini di me e Paul (minuscoli, con la pancia paffuta e le gambe nude, solenni a sei o sette anni, impacciati a tredici), catturati dalla macchina fotografica e incollati nell'album di papà, sopra la sua calligrafia arrotondata. Ne avevo recuperata una di me e Natalie a otto anni, mano nella mano davanti alla Fattoria, lo sguardo fisso. Ci assomigliavamo molto all'epoca, sebbene io sfoderassi un sorriso inquieto e lei lanciasse occhiatacce da sotto le sopracciglia ispide. Natalie aveva sorriso di rado, mai per accontentare gli altri. Avevo portato via quella foto, e un'altra che doveva risalire solo a una settimana o giù di lì prima della sua scomparsa. Indossava una canottiera e jeans tagliati, e leggeva un libro sul prato del casale. Era immersa nel volume, le gambe nude e smilze rannicchiate sotto di sé, un unico riccio nero che le ricadeva sul volto pallido. Le nostre ultime parole erano state amichevoli, mi ero domandata, oppure avevamo litigato? Non ricordavo. Che cosa ricordavo? Ricordavo di averla accompagnata a una festa a Forston, poco distante da Kìrklow, quando avevamo circa quattordici anni. Le avevo raccontato di un tipo bruno che ero impaziente di incontrare. Come si chiamava? Aveva i capelli scuri, con la riga in mezzo. Dopo un po' Natalie era sparita. In seguito, gironzolando qua e là, avevo sorpreso lei e il ragazzo moro avvinghiati sul pavimento. Erano stati insieme per tutta la festa. Mi era sembrato che le ore non passassero mai. Alan era venuto a prenderci alle undici con la sua Rover. Avevo preso posto sul sedile posteriore, distrutta, e Natalie era scivolata verso di me. Senza fiatare, mi aveva abbracciata e tenuta stretta. Avevo avvertito il profumo di patchouli del
giovanotto tra i suoi capelli. Ero stata io a perdonare lei o lei a perdonare me? Una sera, il mese successivo al ritrovamento dei resti, avevo presenziato a un vernissage di pittura e avevo conosciuto William, avvocato ed ex marito di una donna con cui avevo perso i contatti da tempo. Era un uomo alto e biondo, dalla bellezza vaga e levigata. Lo rammentavo snello, ma aveva messo su una bella pancia. Avevamo gironzolato per la stanza con i calici colmi di prosecco, studiando grandi tele prive di originalità. Il vino mi aveva rilassata. Gli avevo parlato del divorzio, e mi aveva domandato che cosa mi avesse spinta a piantare Claud. Non avevo voglia di addentrarmi in quell'argomento. «Suppongo» avevo risposto con lentezza «di non essere più riuscita a tollerare il pensiero che quella fosse la mia vita. È difficile spiegarlo.» Mi aveva informata che si era separato da sua moglie Lucy sette anni prima e che vedeva la figlia a week-end alterni. Avevano rotto perché aveva intrecciato una relazione con una collega. «Non so perché l'ho fatto» aveva aggiunto. «È stato come un attacco di follia, come una frana a cui non ho potuto resistere.» Quando avevo replicato che avevo già sentito quella scusa, aveva accennato un sorriso afflitto. «Dio, Jane, lo so. Quando Lucy se n'è andata, ho guardato l'altra e, naturalmente, non ho avvertito neppure un fremito di desiderio per lei: niente di niente. Ho distrutto il mio matrimonio e perso la mia unica figlia.» Aveva scrutato un ghirigoro arancione (settecentocinquanta sterline, secondo il catalogo). «Mi odio per averlo fatto» dichiarò. Non mi era sembrato che si odiasse così tanto. Mi aveva portata in un'enoteca sotterranea e aveva ordinato una bottiglia di bianco secco e qualche sandwich al pollo. Mi aveva detto di avermi riconosciuta appena mi aveva scorta all'inaugurazione e di avermi sempre trovata attraente. Ormai ero un po' brilla, ma al tempo stesso stranamente lucida. Posso farla franca, avevo pensato. William non era il tipo da lasciare molte tracce. Tuttavia, mi ero agitata. Avevo fumato, mi ero arrotolata i capelli intorno al dito, avevo masticato il pollo asciutto e salato, avevo bevuto un altro po' di vino. Quando avevamo finito la bottiglia, mi aveva domandato se ne volevo un'altra, e avevo udito me stessa ribattere: «Perché non vieni da me per un drink? Ci vogliono solo dieci minuti in taxi». A casa, avevo tirato tutte le tende, avevo messo su un po' di musica e
avevo persino abbassato le luci. Dopo aver versato due bicchieri di vino, mi ero accomodata sul sofà accanto a William. Avevo la bocca riarsa e sentivo il cuore pulsarmi nelle orecchie. Quando il mio ospite mi aveva posato una mano sul ginocchio, avevo fissato quelle dita grosse, sconosciute; con la coda dell'occhio, avevo intravisto la spia della segreteria telefonica che lampeggiava. Avevo dimenticato di chiamare papà. Mi ero voltata verso William, e ci eravamo baciati. Aveva l'alito un po' acido. Avevo avvertito la sua mano sotto la gonna e lungo la coscia fasciata dal collant, e mi ero domandata con quale frequenza facesse quel genere di cose. Ritraendomi, avevo detto: «Sono fuori allenamento; ho dimenticato come si fa». Scuotendo la testa, mi aveva baciata ancora. «Dov'è la camera da letto?» aveva bisbigliato. Dopo essersi tolto le scarpe, ci aveva infilato dentro i calzini con meticolosità. Mi ero levata la giacca, cominciando a sbottonarmi la camicia. Si era slacciato la cintura e si era sfilato i pantaloni, piegandoli con accuratezza e appoggiandoli su una sedia. Avevo provato un lampo di ribrezzo nei suoi confronti, ma allo stesso tempo una punta di desiderio. Avevo la pelle gelata quando mi ero liberata della camicia; il mio corpo si sentiva goffo, inesperto. Avevo intravisto la mia immagine nello specchio mentre mi sganciavo il reggipetto: avevo lievi smagliature sul seno, e la cicatrice del taglio cesareo che avevo subito quando era nato Jerome mi raggrinziva il ventre. Ero dimagrita da ottobre; le braccia erano scarne, e i polsi ossuti. Mi ero girata verso William, che era rimasto in mutande. «Che cosa devo fare adesso?» avevo domandato. «Sdraiati sul letto e lasciati guardare. Sei bellissima, sai.» Dopo essermi sbarazzata dello slip, mi ero distesa sul materasso con gli occhi chiusi. Un misto di eccitazione e timidezza imbarazzata mi aveva pervasa mentre le mani di William iniziavano il loro lento viaggio lungo il mio corpo. Avevo udito lo squillo del telefono, poi la segreteria che si accendeva. La voce mi era giunta dalle scale con molta nitidezza: «Mamma, ciao, sono io, Robert, ed è giovedì sera. Volevo solo essere sicuro che stessi bene. Fammi sapere che cosa stai combinando». Che cosa stavo combinando? mi ero domandata. Non riferii granché di William a Kim, limitandomi a borbottare che avevo fatto sesso con qualcuno di diverso da Claud per la prima volta dopo vent'anni e che era stato gradevole, anche se un po' esasperante. «Continuavo a immaginare di sentire la porta che si apriva e Claud che entrava.»
«Ti è piaciuto?» Mi guardò con un'espressione indecifrabile. «In un certo senso, sì. Insomma, lui è stato gentile, ho raggiunto l'orgasmo. Più o meno. Ma, ecco, suppongo di essermi sentita un po' strana il giorno dopo. Mi sento ancora un po' strana, come se fosse successo a qualcun altro.» «Forza, Jane.» Si alzò. «Ti accompagno a casa.» Mentre preparavo il caffè, Kim si occupò del fuoco. Aveva sempre amato accendere il caminetto, anche quando eravamo studentesse. Avevamo abitato insieme durante il mio secondo anno di università, e spesso lei aveva trascorso ore a osservare le fiamme, alimentandole con la legna, talvolta persino con vecchi temi, come in una versione provinciale della Bohème. Quasi mi avesse letto nel pensiero, disse: «Ti rendi conto, Jane, che ci conosciamo da oltre metà della nostra vita?» Cercai di rispondere, ma mi zittii. Accovacciandosi accanto alla mia sedia, Kim mi prese le mani, scrutandomi. «Guardami, Jane» ordinò. Fissai i suoi intelligenti occhi grigi. Dopo aver estratto un fazzoletto dalla tasca, mi asciugò le lacrime che mi scorrevano lungo le guance. «Ti si è sbavato tutto il mascara» constatò. «Non attirerai gli uomini con quella faccia, a meno che tu non voglia uscire con una zebra.» «Non so perché sto piangendo» singhiozzai. Avevo un peso doloroso nel petto e il naso che gocciolava. «È solo che mi sento così stanca. Davvero, sono solo stanca, Kim, sono state settimane intense.» «Mia cara Jane» replicò, «ascoltami adesso. Non mangi più. Fumi una sigaretta dietro l'altra. Bevi più del solito. Lavori dieci, dodici ore al giorno. Non dormi bene. Esci ogni sera come se volessi scappare. Guardati allo specchio: non sei stanca, sei del tutto esausta. Hai lasciato Claud, i tuoi figli hanno lasciato te, hai trovato i resti di Natalie in una buca. Nel giro di qualche settimana, tutta la tua esistenza è stata rivoluzionata, ed è più di quanto tu possa sopportare, perciò non sforzarti così tanto di sopportarlo. Non essere così coraggiosa. Se fossi una mia paziente, ti consiglierei di rivolgerti a uno specialista.» «Che cosa intendi?» «Credo che ti farebbe bene consultare uno psicologo» rispose. «Sei sotto shock. Forse ti aiuterebbe parlare con qualcuno.» Dopo che mi fui soffiata il naso, asciugata la faccia e accesa un'altra sigaretta, sedemmo con una teiera e qualche frollino e giocammo una partita di scacchi da cui uscii sconfitta, naturalmente. Poi piansi ancora, profondi
singhiozzi di infelicità, e frignai che mi mancava Claud, che mi mancavano i miei figli, che non sapevo che cosa fare della mia vita, e finalmente Kim mi mise a letto come una bambina e mi sedette accanto finché mi addormentai. CAPITOLO 5 Era più giovane di quanto immaginassi. Ed era una lei. Non devo essere riuscita a dissimulare molto bene lo stupore. «Tutto a posto?» domandò. «Mi scusi» risposi. «Probabilmente mi aspettavo un uomo anziano con la barba bianca e l'accento viennese.» «Un ebreo, intende?» «No, non era quello che volevo dire.» «Si sente a disagio con una donna?» «Be', non ho neppure avuto il tempo di sedermi, dottoressa Prescott.» La dottoressa Prescott era alta almeno un metro e ottanta, il che contribuiva a dare risalto a un'immagine già molto appariscente. Era pallida, dalla pelle quasi diafana, con un naso lungo, sottile, artistico. I capelli ondulati erano acconciati con abilità, cosicché solo qualche ciocca castana le svolazzava intorno al collo, facendola assomigliare a una delle sorelle Brontë. Una sorella Brontë sana e robusta. Una sorella Brontë sana e robusta con un look inappuntabile. Arrivavo dal supermercato, diretta alla sede proposta per il pensionato, e mi vergognai un po' di fronte al suo completo impeccabile. E poi mi vergognai molto di essermi vergognata. Avevo forse pensato che le terapiste indossassero stamigna e accendessero bastoncini d'incenso? «Devo compilare un modulo o qualcosa di simile?» «Jane... Le dispiace se la chiamo Jane?» Mi tese la mano e strinse la mia come se volesse soppesarla. «Per lei è importante trasformare questo incontro in un'occasione formale?» «Questo fa parte della terapia?» «In che senso?» Tacqui a lungo, respirando con lentezza per avere modo di riflettere. Ero ancora in piedi. La mia nuova analista mi stringeva ancora la mano. «Mi rincresce molto, dottoressa Prescott» mi scusai con calma studiata. «Conduco una vita piuttosto caotica in questo periodo. E una mia amica, che fa il medico e di cui mi fido più di chiunque altro al mondo, ritiene che
stia attraversando un momento di crisi. Ed è caotica anche questa giornata. Sono andata a fare la spesa appena hanno aperto, quindi mi sono precipitata a casa per scaricare tutto, anche se, ora che ci penso, non ho messo il gelato nel freezer, e poi sono corsa qui. Quando avremo finito, dovrò raggiungere la sede di un edificio che ho ideato. Incontrerò un funzionario dell'ufficio Urbanistica e mi sentirò dire che devo apportare delle modifiche al disegno usando soldi che non sembrano avere alcuna intenzione di arrivare, e questo è solo l'inizio di un progetto che mi sta molto a cuore e mi renderà molto infelice. «Ora sono qui nel suo studio, e speravo sarebbe stato una specie di rifugio da quelli che considero i miei problemi. Suppongo di aver pensato che avremmo potuto cominciare decidendo il tipo di terapia adatto a me. Che avremmo fissato le regole di base, stabilito gli argomenti da affrontare, cose di questo genere. Ma in questo momento voglio soltanto sedermi e iniziare in maniera sensata.» «Allora si sieda, Jane.» Mi indicò il lettino malconcio, sopra il quale era drappeggiato un tappeto dall'aria orientale. Mi guardai rapidamente intorno. Era evidente che ogni dettaglio della stanza era stato pianificato. C'era una poltrona all'estremità del lettino. Al muro era appeso un poster di Mark Rothko, che sarebbe stato invisibile per il paziente disteso. Sul davanzale della finestra, dietro la poltrona, era collocata una piccola scultura astratta attraversata da un buco e scolpita, credo, nella steatite. Il soffitto era tinteggiato con quello che, ipotizzai, doveva essere un bianco neutro. Non c'era nient'altro. «Devo sedermi o sdraiarmi?» «Come preferisce.» «È un lettino.» «Faccia pure come crede.» Sbuffando, mi stesi e fissai i pannelli di carta da parati in rilievo, il prodotto di una scadente ristrutturazione degli anni Ottanta. Dio solo sapeva che cosa c'era là sotto. Se la dottoressa Prescott aveva comprato il locale dopo il 1987, ci aveva rimesso. Prese posto dietro la mia spalla sinistra. «Non possiamo avere una transazione diretta?» «Perché ha scelto il termine "transazione"?» «No, no, no, no, no, non voglio parlare del perché ho scelto il termine "transazione". Dottoressa Prescott, ho l'impressione che siamo partite con il piede sbagliato. Di questo passo trascorreremo un'ora senza esserci neppure dette: "Buongiorno".»
«Che cosa ha voglia di fare?» Avvertii un formicolio agli angoli degli occhi, come se stessi per piangere. «Vorrei fumare una sigaretta. Le spiace?» «Sì, ho paura di sì.» «Perché ha paura?» «È solo un modo di dire.» Nonostante una fitta di dolore, torsi il collo per incrociare i suoi occhi. «Solo un modo di dire?» Non lo trovò divertente. «Jane, che cosa vuole?» «Forse immaginavo che mi avrebbe domandato quale fosse il mio problema, che le avrei parlato delle mie preoccupazioni, delle pressioni cui sono sottoposta, e che saremmo partite da lì.» «Allora me ne parli.» «Dottoressa Prescott, posso domandarle una cosa?» «Può dirmi, o domandarmi, qualsiasi cosa.» «Ha un po' di esperienza in questo campo? Mi trovo in uno stato pietoso, vulnerabile. Magari dovremmo discutere di come posso fidarmi di lei.» «Perché ha bisogno di fidarsi?» «Se dovessi lasciare la mia auto in un'officina per una riparazione, vorrei essere sicura che i meccanici fossero competenti. Prima di intraprendere questo processo terapeutico, devo avere un'idea dei benefici che ne trarrò.» «Jane, questo è il processo terapeutico. In questa stanza non c'è nulla fuorché il processo terapeutico. L'unico modo per fidarsi è abbandonarsi, lasciarsi andare.» Intorno al tavolo ridevano tutti. In quel momento mi era parso un incubo, ma mentre lo descrivevo qualche ora dopo, si mescolò chissà come con il vino, la crème brûlée e infine il formaggio, prendendo una piega comica. «Avevo la sensazione di non potercela fare» proseguii, «avevo un disperato bisogno di sicurezza e sono finita in un corso di recupero per decostruzionisti. Non riuscivo a metterla alle strette. Ogni volta che le ponevo una domanda, era come Macavity, il gatto criminale di Cats. Non ci cascava. Diventava elusiva e ripeteva che l'argomento da approfondire era il perché avevo avvertito l'esigenza di rivolgerle quel quesito. Mi sarebbe servita una Magnum calibro .45 per convincerla a dirmi l'ora.» Era quella la terapia di cui necessitavo. Ero nella lussuosa dimora di Paul ed Erica in Westbourne Grove, la pittoresca via di Londra dove non mi sentivo mai veramente a mio agio. Intorno alla tavola apparecchiata per
la cena c'erano Crispin (uno dei registi di «Surplus Value», il quiz di Paul) e Claire, la sua ragazza. E c'era Gus, l'immancabile scapolo appetibile nella cui direzione mi spingevano tutti. Era carino, ma mi sentivo molto più attratta dagli altri due uomini, due imprenditori edili australiani di nome Philip e Colin, che sarebbero stati una scelta molto migliore di Come-diavolosi-chiamava per la mia disperata avventura di una notte. Ma, oltre a essere gay, purtroppo erano anche conviventi. La loro competenza tecnica non mi interessava granché, ma avevano tratto altri vantaggi dal tempo trascorso a spostare oggetti pesanti sotto il sole. «Allora non sei mai riuscita a comunicare con lei?» domandò Paul. «Sì, altroché. Alla fine c'era un'unica cosa da fare. Mi sono alzata e ho annunciato: "Me ne vado, nel senso che esco dallo studio e non ci torno più". Al che ha replicato, anche se stenterete a crederci: "A che cosa sta tentando di resistere?" All'improvviso mi sono vista intrappolata in quella conversazione per il resto della mia vita, come qualcuno che viene inghiottito da un vortice. Perciò mi spiace dover ammettere che l'ho mandata a fare in culo e mi sono precipitata (è questo il termine giusto) fuori dal suo studio.» Bevvi un sorso di vino e diedi una voluttuosa boccata alla sigaretta. «E poi mi sono ritrovata qui a raccontarvi questo episodio.» «Avresti dovuto gettarle addosso un secchio d'acqua» osservò Paul. «Probabilmente si sarebbe dileguata nel nulla. Complimenti, comunque.» «Ma perché sei stata così ostile?» Tutti tacquero. A parlare era stato Gus, l'insegnante fino ad allora taciturno. «Prego?» domandai. «Non ci hai nemmeno provato» spiegò. «La tua giovane terapista non aveva tutti i torti. Se uno dei miei alunni comincia a domandarmi perché dobbiamo studiare la Storia, gli ordino di chiudere il becco. Il fatto stesso che sia così giovane e non conosca la Storia significa che non capirebbe nulla di quanto potrei dirgli. Riuscirà a rispondere al quesito solo studiando la Storia.» «Be', va' a fare in culo anche tu» lo rimbeccai. Calò un silenzio imbarazzato, ma poi Gus sorrise e scoppiò a ridere, facendomi apparire spiritosa anziché isterica e sgarbata. Seguì una discussione abbastanza civile sulla terapia, con Erica e Gus cautamente favorevoli, e Paul impegnato a sostenere che «qualcuno» aveva dimostrato che chi non si rivolgeva allo psicologo guariva dai sintomi nevrotici prima degli altri. Crispin e la sua ragazza confabulavano tra loro dall'altra parte del ta-
volo. Feci per ritirare i piatti, ma Paul, seduto alla mia sinistra, mi invitò a stare comoda e mi parlò sottovoce. «Stai bene?» «Sì» risposi, prudente. «Hai visto Claud?» «Sì» disse. «Abbiamo giocato a squash questa mattina.» «E?» «E mi ha battuto tre a uno.» «Non intendevo quello.» «Che cosa vuoi che ti dica? È dura per lui.» Rifletté per un attimo, quindi si lasciò andare e mi disse: «Jane, mia cara, te lo dirò una sola volta. O meglio, ti dirò due o tre cose e non voglio che tu controbatta. Primo, sei mia sorella, ti voglio bene e avrò sempre fiducia in quello che fai. Claud è il mio migliore amico. Lo è sempre stato e lo sarà sempre. Perciò è un po' complicato dal mio punto di vista, ma questo è un problema irrilevante. Secondo, non voglio sottintendere che Claud sia un uomo distrutto, ma si sente davvero confuso per quanto accaduto alla sua esistenza. Non capisce proprio perché hai interrotto questo matrimonio da sogno dopo ventun anni». Levò la mano per zittirmi. «Per favore, non dire niente. Non ti sto accusando né criticando in alcun modo. Non ci penso nemmeno. Non dovrai mai giustificarti con me. Terzo...» Ora tacque e mi prese la mano. Pensai che stesse per piangere, ma quando parlò la sua voce era tranquilla. «La famiglia... le nostre due famiglie, Natalie e quelle estati... hanno significato così tanto per me che fatico a esprimerlo. Come si intitolava quella poesia, quella che Dennis Potter ha usato per Blue Remembered Hills, il film per la TV in cui gli adulti interpretavano la parte di bambini? Come fa? Aspetta.» Alzatosi, si fiondò giù per la scala a una velocità tale che il pavimento tremò sotto i nostri piedi. Rimasi un po' in sospeso, isolata dalla conversazione che si svolgeva intorno a me. Gus si accingeva ad accomiatarsi. Mi sentii alquanto spregevole. Non ce ne saremmo andati insieme. Non ci saremmo neppure scambiati i numeri di telefono. Chinandosi sopra il tavolo, mi tese la mano. «Piacere di averti conosciuta, Jane» disse. «Già» replicai. «Mi rincresce di averti mandato a fare in culo. Di solito non mi comporto così alle cene.» «Il che peggiora le cose» ribatté, scherzoso. Probabilmente era molto simpatico. Paul ricomparve, rivolse un cenno del capo a Gus che scendeva i gradini, e dedicò troppo tempo a sfogliare un libro. «Eccola qui» annunciò. «"Questa è la terra della gioia perduta, chiaro
come la luce ora m'appare, le felici contrade che percorsi alle quali non posso ritornare." È così che mi sento.» «Ma puoi tornarci. Ci vai quasi ogni estate. Ci siamo appena stati.» «Sì, ma mi riferisco all'infanzia e cose simili. Ecco che cosa ricordo quando ci penso. E quando penso al ritrovamento di Natalie, ovviamente.» Mi prese la mano, e io tacqui. Fu lui a rompere il silenzio. «Oh, e c'è dell'altro.» All'improvviso parve nervoso. La sua nonchalance sembrava calcolata. «Quel week-end mi ha colpito moltissimo. Mi è parso uno di quegli istanti capaci di rivoluzionarti la vita. Ho pensato che forse potrei realizzare un documentario sulla famiglia.» «Paul, dici sul serio?» «Certo. L'idea mi è venuta quando Alan ha pronunciato il suo discorso. È la cosa giusta da fare in questo momento. Ritengo di dover sviscerare la questione.» «Tu, forse... Ma dobbiamo sviscerarla anche noi?» «No, non preoccuparti. E sarà anche un bel lavoro. Voglio tornare dietro la telecamera, riprendere a girare documentari. Lo desidero davvero.» «Stanco di fare soldi, eh?» lo punzecchiai. Non considerava mai divertente l'argomento «denaro». «Ascolta, ormai "Surplus Value" se la cava da solo. Domandalo a Crispin. È una formula collaudata. Richiede soltanto un po' di incoraggiamento di quando in quando. Ho bisogno di stimoli.» Si riempì di nuovo il bicchiere. Aveva già bevuto abbastanza per quella sera. Ridusse la voce a un sussurro. «È successo tutto quando abbiamo rinvenuto Natalie. Significava moltissimo per me. Significa ancora moltissimo. Per me rappresenta l'innocenza perduta, tutto quello che ti scivola tra le dita quando cresci, tutte le cose che credevi di dover essere e che non sei riuscito a diventare.» «È una bella responsabilità» commentai, cauta. L'ultima cosa che volevo era litigare per stabilire chi teneva di più a Natalie, ma Paul si limitò ad abbassare con solennità lo sguardo sul bicchiere. Gli ospiti iniziarono a cambiarsi di posto, e Claire sedette alla mia destra, sorridendomi. Una via di mezzo tra Louise Brooks e un componente dei Beatles, aveva i capelli castani tagliati alla maschietta e una feccia tonda simile a quella di un orsacchiotto, ulteriormente accentuata dagli occhiali. «Quando nascerà?» domandai. «Dio, è così evidente?» «No, non proprio. All'inizio non ho osato accennarvi. Ho vissuto una delle esperienze peggiori della mia esistenza quando mi sono congratulata
con una donna per il bimbo in arrivo e ho scoperto che era soltanto grassa. Ma se la donna che sembra un po' incinta indossa una salopette morbida, non fuma o non beve per tutta la sera e non tocca il formaggio, posso correre il rischio di congratularmi.» «Cazzo, non sapevo di aver trascorso una serata seduta di fronte a Sherlock Holmes. Che cos'altro sai di me?» «Niente. A eccezione che sei in forma smagliante.» «Temo che ti sottrarrò un punto per questo. Vomito ogni giorno. Credevo che avrei smesso dopo il primo trimestre.» «Non è detto» sorrisi. «Una mia amica ha sofferto di nausee mattutine anche durante il travaglio.» «Grazie tante» ribatté. «Questo sì che mi fa venire la nausea.» Si accostò un po' di più. «Ascolta, mi dispiace davvero per tua cognata e tutte le altre cose che ti sono capitate. Dev'essere terribile.» «Sto bene, ma grazie comunque.» «E il tuo racconto riguardo all'analista è stato molto divertente, ma quella donna mi è parsa disgustosa.» «Non saprei, ma non è quello di cui ho bisogno in questo momento. Suppongo che occorra essere in perfette condizioni psicologiche per affrontare la dottoressa Prescott.» «A me sembri forte, Jane. Ti serve solo qualcuno con cui parlare. Ascolta, non mi conosci molto bene, e per favore ignora quanto sto per dirti se ti sembra che voglia impicciarmi, ma abbiamo un amico che è un terapista e un uomo squisito. Potrebbe essere proprio la persona che cerchi.» Devo aver assunto un'aria scettica, perché Claire si allarmò. «Alex non è un guru né un sostenitore della medicina alternativa. Non usa i cristalli. È un vero medico, con tanto di titoli prima del nome e tutto il resto. La cosa più importante è che è fantastico, una persona veramente affabile. Lascia che ti dia il suo numero. Che non ho, naturalmente. Crisp, amore, hai il telefono di Alex Dermot-Brown?» Crispin, che stava discutendo di un dettaglio tecnico con Paul, udì la domanda solo quando Claire la ripeté. «A che cosa ti serve?» «Non credi che potrebbe fare al caso di Jane?» Crispin rifletté per un istante, poi sorrise. «Sì, suppongo di sì. Ma sii gentile con lui. È un vecchio amico.» Aveva l'agenda aperta sul tavolo; la sfogliò e trovò il nominativo. «Ecco qui.» Mi porse un foglietto. «Naturalmente, se la tua missione
dovesse fallire, Jane, negheremo di conoscerti.» CAPITOLO 6 Il mattino dopo scrissi una lettera a Rebecca Prescott, allegando un assegno per la seduta e comunicandole che avevo deciso di non continuare. Poi, sentendomi stupida, chiamai il numero che mi aveva dato Crispin. Qualcuno rispose pronunciando qualcosa di inintelligibile. «Pronto, posso parlare con il dottor Alexander Dermot-Brown, per favore?» Altre parole inintelligibili. «Pronto, ci sono mamma o papà?» Quell'interrogativo sortì un effetto, se non altro perché i borbottii si trasformarono nel comprensibile: «Papino, papino». A quanto pareva, qualcuno aveva strappato la cornetta al mio primo interlocutore, che aveva lanciato uno strillo acuto. «Sta' buono, Jack. Pronto, c'è qualcuno in linea?» «Pronto, vorrei parlare con il dottor Alexander Dermot-Brown.» «Sono io.» «Lei fa il terapista.» «Sì, lo so.» Si udì un acciottolio in lontananza, e Dermot-Brown urlò qualcosa. «Mi scusi, siamo nel bel mezzo della colazione.» «Sono desolata, cercherò di essere breve. Mi hanno dato il suo numero Crispin Pitt e Claire mmmh...» «Claire Swenson, sì.» «Potrei fissare un appuntamento con lei?» «D'accordo.» Tacque. «Va bene alle dodici?» «Oggi, intende?» «Sì. Un altro paziente ha annullato la seduta. Altrimenti dobbiamo rimandare alla settimana prossima. O a quella successiva.» «No, alle dodici è perfetto.» Mi diede il suo indirizzo di Camden Town, vicino al mercato. Dio, un'altra assenza dal lavoro. Non che importasse granché. Per me, «lavoro» significava l'ufficio della CFM all'ultimo piano di un vecchio magazzino color melassa affacciato sul canale e sul bacino di Islington. C (Lewis Carew) era morto di AIDS nel 1989. Ora c'eravamo soltanto io e F, Duncan Fowler, e dopo gli anni della recessione stavamo entrando in un periodo in cui le commissioni bastavano per entrambi. Purché presenziassi a tutti gli
incontri riguardanti il «mio» pensionato, aggiornassi le scartoffie e mi facessi viva regolarmente, non ci sarebbero stati grossi problemi. Andai comunque alla CFM. Esaminai la corrispondenza e chiacchierai con Gina, la nostra assistente (a essere sincera, è la nostra segretaria, ma la chiamiamo assistente per compensare lo stipendio da fame). Duncan arrivò alle undici, rilassato come sempre. È un tipo robusto, piuttosto basso, con la testa pressoché calva bordata di ricciuti capelli rossi e una barba troppo folta. Gli parlai di alcune nuove complicazioni relative al pensionato, e lui mi parlò di un incarico della cooperativa edilizia che ci avrebbe fruttato ancor meno. Non c'era tuttavia nulla di cui preoccuparsi. Non devo pagare il mutuo, ed è perlopiù Claud a mantenere i ragazzi. Duncan non deve pagare il mutuo ed è divorziato, senza figli e senza alimenti. L'ufficio era di nostra proprietà. Come mi aveva ripetuto Duncan nei giorni bui dei primi anni Novanta, prima di dichiarare bancarotta avremmo pur dovuto ricevere qualche incarico. Riferii a Duncan che avrei incontrato il mio secondo terapista di lì a un'ora, notizia cui reagì con una risata e un abbraccio, quindi inforcai la bicicletta. Ero incline a trovare simpatico Alexander Dermot-Brown perché potevo percorrere quasi tutto il tragitto dalla CFM a casa sua pedalando lungo il canale. Dovetti soltanto attraversare Upper Street, farmi strada tra il deserto di gasometri e rotaie ferroviarie accanto al deposito dell'ufficio postale e abbandonare l'alzaia una volta giunta a Camden Lock. Dopo altri duecento metri o giù di lì legavo la bici alla ringhiera. Alexander Dermot-Brown indossava jeans, scarpe da tennis e un leggero maglione logoro con i gomiti bucati che lasciavano intravedere una camicia a scacchi. Aveva occhi scurissimi, capelli castani appena punteggiati di grigio e la mascella pronunciata quasi come Clark Kent nei vecchi fumetti. «Il dottor Dermot-Brown, presumo.» Sorrise, tenendomi la mano. «Jane Martello?» Dopo che gliela ebbi stretta, mi invitò a entrare e a scendere in cucina, nel seminterrato. «Gradisce un caffè?» «Volentieri, ma non dovrei trovarmi in uno studio e sdraiarmi sopra un lettino?» «Be', se proprio non può farne a meno, probabilmente riusciremo a scovare un lettino da qualche parte. Pensavo che prima avremmo dovuto fare quattro chiacchiere e vedere come la pensiamo.» Con il pavimento di ceramica, i pannelli e i pensili di legno marezzato, il
locale sarebbe stato elegante se fosse stato vuoto. C'erano tuttavia giocattoli sparpagliati per terra e le pareti erano tappezzate di poster, cartoline e disegni infantili fissati a casaccio con colla, scotch e puntine. I muri non erano meno ingombri della bacheca, uno spazio piuttosto grande e rivestito da quadrati di sughero sopra uno dei piani di lavoro, dove inviti, istantanee, comunicazioni scolastiche e menu di ristoranti della zona sembravano formare una nutrita serie di strati. Dermot-Brown notò che mi guardavo intorno. «Spiacente, avrei dovuto riordinare.» «Nessun problema. Ma pensavo che gli analisti dovessero lavorare in un ambiente neutro.» «Questo è un ambiente neutro in confronto al mio studio.» Estrasse i chicchi di caffè dal freezer e li macinò, trasferendoli in una grossa caffettiera e aggiungendo acqua bollente. Frugò in un armadietto. «Dovrei offrirle qualche biscotto, ma ho soltanto queste crostatine alla marmellata. Se ne tengo da parte una per ogni bambino, ne avanza una per lei. Le va?» «No, grazie. Prendo solo il caffè. Nero, per favore.» Lo versò in due tazze e sedemmo su lati opposti del tavolo di pino lucidato. Un sorriso gli aleggiava sul volto come se trovasse qualcosa di comico in quell'incontro, come se stesse soltanto fingendo di essere adulto. «Ora, Jane... Le spiace se la chiamo Jane? E lei mi chiami pure Alex... Perché ritiene di aver bisogno della terapia?» Dopo aver bevuto un sorso di caffè, avvertii il solito desiderio irrefrenabile. «Posso fumare?» Sorrise di nuovo. «Be', Jane, considero la terapia una specie di gioco, e se vogliamo che funzioni, dobbiamo stabilire alcune regole fondamentali. Una di queste è il divieto di fumare. Ci sono dei bambini in casa. Inoltre, anche se non dovesse ottenere nessun risultato dalle sedute, le garantirà almeno un beneficio. L'altro vantaggio di questa regola è che per me è molto facile rispettarla, perché non fumo. Ci sono buone probabilità che io sia rilassato e tranquillo mentre lei soffre le pene dell'astinenza da nicotina, e questo è un altro aspetto positivo, almeno per me.» «D'accordo, resisterò.» «Bene, ora mi parli di lei.» Traendo un profondo respiro, tratteggiai la mia situazione, lì, davanti alla tazza che Alex mi riempì per la seconda volta, in quella cucina, con i gomiti su un tavolo piuttosto appiccicoso. Gli raccontai della separazione e
della scoperta delle spoglie di Natalie. Gli descrissi a grandi linee la famiglia Martello, quel gruppo compatto e magnifico che avrebbe dovuto farci sentire privilegiati per il semplice fatto di appartenervi. Accennai alla mia vita da single a Londra e alle sue insoddisfazioni, anche se tralasciai la mia scappatella sessuale. Mi occorse parecchio tempo e quando ebbi finito Alex aspettò un po' prima di reagire. La prima cosa che fece fu offrirmi altro caffè. Mi sentii un po' avvilita. «No, grazie. Se ne bevo troppo, comincio a tremare tutta.» Fece scorrere il dito lungo il bordo della tazza con un certo nervosismo. «Jane, non ha risposto alla mia domanda.» «Sì che ho risposto. Le ho detto che non ne voglio più.» Rise. «No, non intendevo quello. Perché crede di aver bisogno della terapia?» «Non è ovvio?» «Non per me. Ascolti, deve imparare a vivere da sola dopo... quanto? Ventun anni di matrimonio. Ha mai vissuto per conto suo?» Scossi il capo. «Bene arrivata nel mondo dei single» disse, ironico. «Sa, ogni tanto penso a come sarebbe se non fossi sposato e non avessi dei figli. La sera potrei decidere di punto in bianco di andare al cinema o a bere un drink in un bar. Di quando in quando conosco una donna a una festa e penso che, se fossi single, potrei avere un'avventura con lei, sarebbe così eccitante. Ma se mi ritrovassi single all'improvviso, non sarebbe affatto così. Forse attraverserei un momento di euforia iniziale. Potrei persino avere una o due esperienze sessuali. Ma dubito che sarebbe divertente come avevo immaginato. E poi tutte le cose a cui sono abituato, il senso di sicurezza che provo vedendo la mia famiglia quando torno a casa, scomparirebbero. Sarebbe dura.» «Credevo di dover essere io a parlare.» Rise di nuovo. «Chi l'ha detto? Probabilmente ha letto troppo Freud. Se fossi in lei, non presterei troppa attenzione a un uomo che psicoanalizzava se stesso e sua figlia. Comunque, non deve solo affrontare tutto questo, ma sta anche vivendo un'innegabile tragedia familiare. Ha tutto il diritto di essere infelice per un po'. Vuole che agiti la bacchetta magica e faccia sparire tutto quanto?» «Non mi tenti.» «Mi permetta di pronunciare una diagnosi molto spiccia, Jane. Offre la casa. Penso che lei sia una donna forte e che non le piaccia avere l'impres-
sione di non farcela; non vuole la commiserazione altrui. È questo il problema. Il mio parere è: la vita è dolorosa. Dia a se stessa la possibilità di accettarlo. Potrebbe parlare con me, naturalmente, ma potrebbe anche spendere i suoi soldi in altro modo. Potrebbe concedersi un massaggio alla settimana, consumare pasti deliziosi al ristorante, andare in vacanza in un posto caldo.» Ora toccò a me ridere. «Adesso sì che mi sta tentando.» Sorridemmo entrambi, e ci fu una pausa piuttosto imbarazzante. Era il genere di pausa che forse, in altre circostanze, avrei interrotto baciando Alex. «Alex, detesto dire: "Scherzi a parte"... Ma, scherzi a parte, ieri sera ho cenato con mio fratello (che, tra parentesi, ha avuto la folle trovata di realizzare un documentario sulla famiglia, dunque è probabile che lei venga a conoscenza di tutti i miei problemi guardando la BBC2), e Paul, mio fratello, appunto, ha menzionato la nostra splendida infanzia. Anch'io ho sempre conservato l'idea della nostra splendida infanzia, ma mentre lui la descriveva con quel tono nostalgico, qualcosa dentro di me diceva no, no, no. Negli ultimi giorni sono stata ossessionata da un'immagine. Deve avere a che fare con il ritrovamento di Natalie. Ma continuo a pensare alla mia splendida, splendida infanzia e a vederci un buco nero nel mezzo, però non riesco a decifrarlo e non so che cosa sia. È lì, chissà come, sempre ai bordi della scena, ma quando mi volto per guardarlo direttamente scompare, torna a dissolversi. Mi scusi, con molta probabilità tutto questo non ha senso. Non ha senso neppure per me. Non so se riesce a comprendere, ma ascoltare me stessa parlare è un modo per tentare di capire. Forse la sto pregando di credermi se le dico che, a mio avviso, tutto questo nasconde qualcosa che vale la pena cercare.» Mentre pronunciavo quell'interminabile discorso sconclusionato, avevo tenuto gli occhi fissi sul tavolo, e quando ebbi terminato, li alzai, quasi intimorita al pensiero di incrociare lo sguardo di Alex. Aveva la fronte corrugata, con un'espressione di concentrazione vigile che non gli avevo ancora visto. «Può darsi che abbia ragione» commentò, quasi parlando tra sé. Prese le tazze e le ripose nel lavello. Anziché tornare alla sua sedia, cominciò a camminare su e giù. Non sapevo se dire qualcosa, ma decisi di no. Alla fine si risedette. «Probabilmente ha idee sbagliate riguardo al processo terapeutico. Magari ha visto dei film in cui il problema psicologico del protagonista veniva
risolto in quattro e quattr'otto. Magari ha degli amici che sono dipendenti dall'analisi e le hanno raccontato che quest'ultima li ha aiutati a superare le loro difficoltà, rendendoli molto più felici. Forse è vero, ma se hai sprecato tre ore la settimana per cinque anni e hai speso ventimila sterline, non puoi affermare il contrario.» «Be', perché...» Levò una mano per zittirmi. «Il suo caso mi interessa, Jane. Penso che potremmo ottenere qualche risultato. Credo tuttavia che prima dovremmo mettere in chiaro alcune cose. Questo processo non sarà come andare dal medico con un'infezione o una gamba rotta. Forse mi domanderà se la farò stare meglio, e poi forse sosterremo una noiosa conversazione filosofica sulla mia capacità di aiutarla e su che cosa significa farla stare meglio.» «Non sono alla ricerca di risposte facili.» «Ne sono convinto. Perciò mi consenta di essere il più schietto possibile riguardo a quanto potrebbe o non potrebbe accadere. Come molti altri, potrebbe avere l'impressione che non ci sia nulla di più piacevole di trascorrere due o tre ore la settimana facendo una bella chiacchierata sui suoi problemi, sputandoli fuori tutti quanti. Secondo la mia esperienza, non è quasi mai così. Può darsi che il processo sia sgradevole. Come posso descriverlo?» Si guardò intorno, sorridendo. «Probabilmente la confusione di questo locale la spaventa. Senza dubbio deprime me e manda mia moglie su tutte le furie. Quindi perché non riordiniamo? Be', anche se sembra orribile, ormai ci abbiamo fatto il callo e riusciamo a trovare in un batter d'occhio quasi tutto quello che ci serve. Se cominciassi a rimettere a posto, tutto diventerebbe ancor più caotico per un po', perché dovrei svuotare anche tutti i pensili. Ci sarebbe un periodo in cui la situazione peggiorerebbe, con l'ulteriore rischio di perderci d'animo e di lasciare tutto in quello stato disastroso. Continuerebbe ad aggravarsi finché avessimo finito di ripulire, e nemmeno allora la cucina sarebbe comoda come prima. E anche se, in teoria, la nuova sistemazione potrebbe essere più funzionale, perché basata sulla razionalità, in pratica non riusciremmo probabilmente a trovare le cose più in fretta, perché saremmo ancora abituati alla vecchia irrazionalità. Perciò, come può vedere, sono il primo a sostenere che bisogna lasciare le cose come stanno. «Può darsi addirittura che non tragga alcun beneficio. Non voglio illuderla che dopo... non so... sei mesi o un anno sarà più felice o più brava ad affrontare i problemi concreti. Vivrà ancora in un mondo in cui la gente muore o ha conflitti insanabili. Ma posso almeno garantirle una cosa. Al
momento, la sua vita può sembrare un'accozzaglia di appunti e impressioni approssimativi. Forse posso aiutarla a trasformarli in un racconto coerente. Questo la spingerà ad assumersi la responsabilità della sua esistenza, e magari anche ad averne un maggiore controllo. «È pur sempre qualcosa, ed è il minimo che possiamo sperare. Ci sono anche altre possibilità. Mi permetta di citare un esempio teorico. Mi incuriosisce il modo in cui parla di sua cognata sepolta lì, al centro del paesaggio della sua infanzia. È un'immagine significativa. Alcuni di noi hanno dei cadaveri nascosti nella mente, in attesa di essere scoperti.» «Che cosa vuol dire?» «Non si preoccupi, è solo una riflessione, una metafora.» «E per quanto riguarda gli aspetti pratici? Che cosa facciamo in concreto?» «Bene. Veniamo al sodo. Voglio vederla due volte la settimana per un'ora che, in realtà, durerà cinquanta minuti. Il mio onorario è di trentotto sterline a seduta, da pagare in anticipo all'inizio di ogni settimana. Come ripeto, sarebbe del tutto comprensibile se decidesse di non entrare in terapia. Le posso assicurare quasi al cento percento che, tra un anno o giù di lì, si sentirà molto meglio anche senza alcuna analisi o alcun trattamento. Il dolore per la ricomparsa di sua cognata si attenuerà, e lei si abituerà alle nuove circostanze. Se sceglie di andare avanti, come mi auguro che faccia, deve impegnarsi. In altre parole, le sedute sono sacre e non possono essere annullate per motivi di lavoro, malattia, disillusione, stanchezza, opportunità sessuali o cose del genere. Se si rompe una gamba, si fermi qui mentre va al pronto soccorso. Ovviamente, è liberissima di interrompere la terapia in qualsiasi momento, ma credo che dovrebbe imporsi di seguirla per quattro o cinque mesi come minimo. E anche ripromettersi di concederle una possibilità. Dal punto di vista emotivo e intellettivo, intendo. So che è sveglia e che con molta probabilità ha letto Freud più recentemente di me. Se verrà qui intenzionata a discutere del transfert, un concetto in cui non credo in ogni caso, perderemo tempo entrambi, e lei butterà via i suoi soldi. Ecco tutto. Qualche domanda?» «Sarà sempre così?» domandai. «Resteremo seduti nella sua cucina a chiacchierare e a bere caffè?» «No. Come ha appena detto, questa è solo una chiacchierata, e stiamo stabilendo le regole. Quando inizieremo, dovremo, per così dire, scendere in campo e cominciare a giocare. A mio parere, se vogliamo che il trattamento funzioni, dobbiamo ritualizzarlo, tramutarlo in qualcosa di estraneo
alla sua consueta vita sociale. Perciò, se desidera continuare, la prossima volta sarà diversa. Useremo la stanza destinata alla terapia.» Pronunciò la parola «terapia» come se fosse un termine ingombrante che qualcuno gli aveva rifilato. «Non sarà una visita di cortesia. Non berremo caffè, non chiacchiereremo nel vero senso del termine. Si sdraierà sul lettino, non perché sia parte dell'arredo psicoanalitico, ma proprio perché non dovremo sentirci come oggi, a nostro agio, capaci di andare d'accordo, di guardarci in faccia. Ora, voglio che rifletta su come vuole procedere e che poi mi telefoni.» «So come voglio procedere, voglio continuare. Se non sarò soddisfatta di come andranno le cose, le assicuro che mi fermerò.» Sorrise, allungandomi la mano. «Suppongo sìa l'unica promessa che riuscirò a strapparle. Va bene, affare fatto.» CAPITOLO 7 Durante una giornata fredda e limpida, dopo aver firmato i documenti del divorzio in triplice copia nello studio del mio avvocato e aver scartato l'idea della consulenza matrimoniale, pedalai per Londra verso nord, diretta alla sede del mio pensionato, il cui solo pensiero bastava a causarmi una fitta di dolore. Il progetto originale prevedeva una struttura nuova di zecca che avrebbe ospitato quindici paragrafi 117, cioè pazienti con disturbi psichiatrici che erano stati dimessi dall'ospedale ma necessitavano ancora di un qualche tipo di controllo, se non altro per accertarsi che prendessero i medicinali. Avevo creato una costruzione elegante, funzionale ed economica che, senza troppo stupore, avevo visto respingere immediatamente. Se la mia carriera fosse continuata così, ben presto avrei disegnato tanti edifici irrealizzati quanti Piranesi o Hitler. Il piano B consisteva nel restaurare un ex alloggio abusivo che aveva trascorso gli ultimi due anni senza tetto. Quando arrivai, c'erano già due uomini e una donna in completo. Jenny, la mia amica dei Servizi sociali, appariva esausta come al solito. Mi presentò il signor Whittaker dell'autorità sanitaria locale e il signor Brady dell'ufficio Edilizia. «Quanto tempo avete?» domandai. «Meno di dieci minuti» rispose Jenny. «D'accordo, faremo il giro corto. A proposito, le cose sarebbero più faci-
li se non vedessi facce nuove a ogni incontro.» Li condussi fin dove non c'era il tetto e li accompagnai dalle presunte capriate semplici al sotterraneo sgomberato, descrivendo la ricostruzione primaria, le riparazioni di base, la scala antincendio sul rialzo posteriore e gli abili adattamenti che avevo apportato ai corridoi e agli spazi comuni per regalare al fabbricato un piano aggiuntivo. «Ecco qui» conclusi mentre eravamo sulla soglia, «non solo un capolavoro di genialità e praticità, ma anche un capolavoro di genialità e praticità che ammortizzerà i suoi costi quasi da solo.» Brady sorrise, impacciato. «Forse ha ragione, e vorrei solo che i calcoli dei revisori tenessero in considerazione le sue argomentazioni.» «Non si preoccupi, signor Brady» replicai, «saremo ricompensati il Giorno del Giudizio.» I due uomini si scambiarono un'occhiata. È sconcertante quando i funzionari dell'Urbanistica cominciano a sembrare più chic e più giovani di te. «Jane, è una proposta interessante. Siamo molto colpiti. C'è un solo problema: un taglio del quindici percento su tutti i fronti, che dovremo applicare uniformemente a tutti i progetti, quindi ci auguriamo che tu riesca a ridurre le spese. A parte questo, è del tutto soddisfacente.» «Come sarebbe a dire "a parte questo"? Avete già un disegno a prezzo stracciato. Avete accettato la nostra offerta d'appalto.» «Già, salvo che... eccetera eccetera.» Assunsi il mio tono ufficiale. «Signor Whittaker, confermerà senza dubbio che questo pensionato permetterà di risparmiare parecchi soldi, impedendo che quindici persone alla volta vadano in un bed&breakfast o occupino un letto per lunghi periodi.» «Sa quanto me, Jane, che questo è vero sotto il profilo teorico, ma irrilevante in termini contabili.» «Devo lasciare fuori il tetto per il prossimo esercizio fiscale? Dopotutto la primavera non è poi così lontana. Anzi, perché disturbarsi a costruire un alloggio? Potrei sistemare un vagonetto ribaltabile sulla strada qui davanti. Se avanza qualche soldo, potreste dipingerci sopra il nuovo logo del municipio, e i malati di mente potrebbero soggiornare lì dentro. Potreste spedire loro i farmaci via posta. Che cosa ne pensi tu, Jenny?» Sembrava seccata. Mi accorsi che mi stavo comportando come uno dei suoi assistiti. «Jane, fare così non servirà a niente» intervenne Brady. «È inutile cercare di segnare punti contro di noi. Siamo tutti sulla stessa barca. Il fatto puro
e semplice è che la scelta non è tra realizzare la sua idea originale e una versione di compromesso. È tra il compromesso e niente, e anche quello potrebbe essere complicato. Dovrebbe vedere che cosa succede negli altri uffici. Può darsi che la scuola elementare Tressell apra soltanto quattro giorni la settimana il prossimo trimestre.» «D'accordo, applicherò i tagli e mi assicurerò anche di scappare a gambe levate dal distretto qualora mi venisse un attacco di schizofrenia. Dunque, quando ci rincontreremo noi quattro, o rappresentanti debitamente nominati di noi quattro?» «Chiamerò la sua segretaria, Jane» rispose Brady. «Grazie per essere stata relativamente ragionevole.» Inforcai la bicicletta e pedalai il più in fretta possibile finché sentii i muscoli delle cosce che bruciavano, cancellando mentalmente particolari e piccoli dettagli dal mio disegno. Il successivo compito ingrato durante quella giornata di compiti ingrati fu fare visita a mio padre, che voleva mostrarmi alcuni progetti. Non ci sarei andata da sola. Avevo parlato dell'invito a Paul al telefono, e lui aveva insistito per accompagnarmi con il pretesto di vedere come stava papà, ma sospettavo che avesse qualcosa a che fare con il documentario. Se non altro, mi avrebbe dato un passaggio. Riportai la bicicletta a casa e lo aspettai, approfittando dell'attesa per fumare due sigarette. Ci dirigemmo quindi verso Stockwell, con Paul che ripeteva senza sosta che quello era l'orario peggiore per spostarsi verso sud e che avremmo fatto prima con la Northern Line. Quando replicai che la Northern Line non era affatto più veloce, calò un silenzio che si protrasse fino al Blackfriars Bridge. Mio padre è nato nel 1925. Ha sessantanove anni. È anziano. Ne sono consapevole sul piano intellettivo, ma di solito non ho questa sensazione. Dopotutto, quando uscì Sergeant Pepper, non era più vecchio di quanto lo sia io adesso, e non mi sembra che sia trascorso tanto tempo. Avevo quindici anni. Sarei rimasta vergine ancora per poco. Ai miei occhi ha sempre avuto la stessa età. Ma quando aprì la porta a me e Paul, ebbi la netta impressione che tra noi si stesse spalancando un abisso, che apparisse più fragile e grigio, che avesse le spalle più rigide e che le macchie marroni sulle mani fossero molto più evidenti. Abbracciandolo e guardandolo meglio, mi accorsi tuttavia che era ancora bello. Aveva più capelli di suo figlio, e gli coprivano anche una parte più estesa della testa. Ci passai in mezzo le dita, pettinandoglieli con quello che mi auguravo sembrasse un gesto affettuoso.
«Tè per tutti e due?» domandò. «Andate a sedervi, ci penso io» risposi. «Ho portato un vasetto di marmellata di limoni, perciò, se hai un po' di pane, possiamo tostarlo e spalmarcela sopra.» Papà e Paul si spostarono in salotto, un locale ingombro di libri e giornali tra quattro pareti vermiglie. La cucina assomigliava tuttavia a una chiesa quacchera, con l'intonaco grezzo, i muri imbiancati e scomode panche di legno. Una nota stonata era introdotta dai faretti a bassa tensione sul soffitto, che, secondo la mia esperienza, si utilizzano perlopiù nei locali a uso commerciale e non sono per nulla adatti a una cucina, soprattutto se l'impianto elettrico è fatiscente come quello di papà. Dacché ricordo, da molto prima che morisse la mamma, mio padre aveva intenzione di dare un'occhiata al cablaggio, ma le implicazioni di quanto potrebbe trovare sono sempre state troppo inquietanti. Così continua a potenziarlo. Ovunque ci si volti, c'è un groviglio di cavetti elettrici attaccati alla parete. Quando portai il vassoio in salotto, papà sedeva sulla sua poltrona, e Paul, appollaiato su uno sgabello, era chino verso di lui con aria cospiratrice. L'oscurità in cui erano immersi era un altro prodotto della strategia d'illuminazione di mio padre, risalente alla metà degli anni Settanta e basata sul concetto secondo cui non si illuminano le stanze, si illuminano gli «spazi». Il risultato era che i cavetti erano stati rimossi dai rosoni da soffitto di ogni locale e orribili lampade al cromo erano state fissate negli angoli. L'abitazione era ormai costituita da spazi di luce e spazi di buio, e papà e Paul occupavano ora uno di questi ultimi. Quando fui abbastanza vicina da vederli, riconobbi una scintilla di determinazione negli occhi di mio fratello: stava conducendo una ricerca. Aveva persino un bloc-notes che gli spuntava dal taschino della giacca. «Paul ti ha informato che vuole realizzare un documentario sulla famiglia, papà?» domandai in tono allegro, sbattendo il vassoio sul tavolino. Paul raddrizzò la schiena, accigliandosi. «Stavo per dirglielo, Jane» sbottò. «Dammi il tempo.» Una striscia gialla si allungò sul mento di papà. «Perché?» domandò. «Che cosa abbiamo di tanto interessante?» Paul trasse un profondo respiro, posando la sua fetta di pane tostato. «Questa sì che è una bella domanda» commentò, e papà parve leggermente stupito. «Parlando della mia famiglia (un argomento che mi sta a cuore, naturalmente), offrirei allo spettatore anche una nuova visione della sua famiglia, della sua infanzia. Ogni famiglia è diversa, ma ogni famiglia è
simile.» «È una citazione?» borbottai. Mi ignorò. «Parlando della nostra famiglia (di te, di me, di Jane e della mamma) e parlando dei Martello, perché, ovviamente, non posso tralasciarli, quali sono gli aspetti che tratterò?» Intuendo che non aspettava una risposta, presi il suo pane tostato e lo addentai con voracità. Non avevo pranzato. «La nostalgia. L'affiatamento e la disaffezione. La possessività e la gelosia. L'idillio dell'infanzia. Il dolore di crescere. Le speranze che i genitori accarezzano per i figli. I risentimenti che i figli provano verso i genitori. Analizzando un'unica famiglia, si possono esaminare tutti questi elementi e altri ancora. Spero che mi aiuterai.» «Basta con queste sciocchezze» ribatté papà. «Bevi il tè, Paul, voglio mostrare una cosa a tua sorella. Vieni qui, Jane.» Mi condusse verso la scrivania nell'angolo, invasa da alte pile di disegni e vecchi libroni. «Come va il tuo progetto?» domandò. «Quale?» «Non quello della Fattoria, quello del pensionato.» «Sta diventando una tortura.» «Mi rincresce, Jane. Posso fare qualcosa per aiutarti?» «Sì, uccidi tutti quelli dell'ufficio Edilizia.» «Sarebbe già metà dell'opera» affermò, distratto. «Ti ho invitata qui con un secondo fine. Ho pensato che potresti dare un'occhiata a questo.» «Che cos'è?» «Sarà il progetto della mia vecchiaia. Intendo ristrutturare l'interno di questa casa.» «In che modo?» «Secondo l'ordine decorativo e architettonico che aveva all'inizio, quando è stata concepita verso il 1885. Come vedi, ho preparato qualche schizzo preliminare. Comunque, la struttura di base è originale. Il grosso del lavoro consisterà nel ripristinare il tramezzo in questa stanza e al primo piano.» Ora Paul era in piedi dietro di noi, intento a sbirciare da sopra la mia spalla. «In altre parole, ricostruirai i muri che hai abbattuto negli anni Sessanta» osservò. Gli sferrai un calcio, ma papà continuò come se non l'avesse sentito. «Occorrerà ricostruire le cornici e alcuni rosoni, naturalmente, ma per fortuna possiamo usare gli stampi di quelli ancora esistenti.»
«Sono sbalordita» ammisi. «Ma non sarà piuttosto costoso?» «Farò tutto io.» «Non se ne parla nemmeno.» «E invece sì. Pat Wheeler ha promesso di darmi una mano.» Non sapevo che cosa dire, ma non ebbi bisogno di dire niente, perché mio padre parlava con vivacità. Sfogliò il capitolato e i disegni preliminari. Blaterò di isolanti, pulegge multiple e piastre metalliche per caminetti, di serramenti, angolari paraspigoli e punzoni per intonaco. Le Corbusier rinato nei panni di William Morris. Paul gli domandò in tono canzonatorio se intendeva usare l'illuminazione a gas ed eliminare il riscaldamento centralizzato. Io ero confusa, non solo per l'inattuabilità del piano, ma anche perché avevo l'impressione che mio padre volesse estraniarsi sistematicamente da casa sua. Alla fine della ristrutturazione, se mai ci fosse stata una fine, l'interno sarebbe stato privato di tutti gli ideali e i principi sui quali aveva improntato la sua vita. Borbottai qualcosa riguardo al rispetto per il passato, e scoppiò in una risata carica di sarcasmo. «Abbiamo ciascuno un atteggiamento differente verso il passato. Io spero di ricostruirlo e conservarlo. Non è meglio che dedicargli un documentario per la TV?» Lanciò un'occhiata penetrante a Paul, che arrossì. «Mi sorprende vederti così romantico nei confronti di un restauro» ribatté mio fratello. «Hai sempre scritto degli edifici nel loro contesto sociale. A che cosa serve ricreare una dimora vittoriana negli anni Novanta? Comincerai anche ad andare in giro a cavallo? Il mio atteggiamento verso il passato consiste nel riesaminarlo in chiave moderna.» «Natalie» disse papà, reciso. «Come?» domandò Paul. «Sai benissimo a cosa mi riferisco» lo rimbeccò. «Natalie è stata dissotterrata, e tu vuoi trasformare questo fatto in un documentario, e vuoi che ti descriviamo i nostri sentimenti, vero? Suppongo che mi esorterai a parlare anche della morte di tua madre. Chi altri interverrà? Le tue due mogli? Il povero vecchio Claud abbandonato?» Ora toccò a me avvampare per la collera e l'umiliazione. «E che cosa mi dici di Alan e Martha? Martha non parlerà molto, si è sempre tenuta dentro il dolore; ma Alan (riesco già a vederlo), quel vecchio arrabbiato che si guarda indietro e passa in rassegna la sua esistenza. Si calerà perfettamente nella parte. È questo che vuoi, Paul, una famiglia di personaggi televisivi?» Mio fratello assunse un'espressione esterrefatta, ma anche euforica. Aveva immaginato come avrebbe potuto essere la sua trasmissione. «Il fil-
mato verrà realizzato con il massimo rispetto e la massima onestà» assicurò nel suo miglior tono da autore di programmi. Papà gli voltò le spalle ed espresse l'intenzione di aprire e ricostruire una canna fumaria quadrata di mattoni intonacati a grezzo. Gli domandai se i rivestimenti d'argilla non sarebbero stati più pratici, ma liquidò la mia domanda con un gesto della mano. «Non intendo rinunciare solo per le fisime di un vecchio. Hai mai sentito niente di più ridicolo di questa ristrutturazione del cavolo? Che papà si sia rimbambito?» Paul sembrava furioso mentre sedeva nel pub giocherellando con il suo bicchiere da mezza pinta, ma sapevo che si sentiva in colpa. «Non guardarmi in cagnesco, Jane. Ho tutti i diritti di ispirarmi alla mia esperienza per il mio lavoro, e si dà il caso che la mia esperienza si componga delle nostre due famiglie. Il fatto che "Surplus Value" sia un successo non significa che io possa ideare soltanto quiz.» Tacqui. «Be', non è così?» Mi strinsi nelle spalle. «Non importa quello che penso io. Non sarò io a finanziare il documentario.» «Ci tengo molto. Da quel week-end non faccio altro che pensare a Natalie. Girare un filmato su di lei e su di noi sarebbe utile a tutti. Sarebbe un modo per affrontare l'accaduto.» «Terapia televisiva» dissi. «Be', probabilmente non è peggio di qualunque cosa tu stia facendo al momento. Entrambi stiamo solo cercando di superarlo. Che cosa c'è di male in questo?» Gli posai la mano sul braccio, ma la scrollò via con stizza. «Paul» replicai, «vuoi che gli altri ti parlino della loro vita, ma quasi nessuno di noi conosce la propria vita. Quello che vuoi fare è rischioso. Potresti calpestare i sogni e i ricordi altrui proprio nell'istante in cui sono più fragili. E si tratta di persone con cui devi continuare a vivere. Non voglio che Claud riveli al mondo i suoi sentimenti verso di me. La televisione è così seducente: gli individui confidano alle telecamere cose che non oserebbero mai confidare ai loro migliori amici.» Spensi la sigaretta e presi il cappotto. «Sarà soltanto un programma sincero. Non farò nulla che non sia degno della memoria di Natalie, te lo prometto.»
«Questa risparmiala per il "Radio Times", Paul» lo rimbeccai, avvertendo una punta di rimorso e ignorandola. Ci separammo senza salutarci. CAPITOLO 8 La mia prima seduta (la mia prima vera seduta) con Alex fu come il primo giorno in una nuova scuola. Ero tesa. Scelsi i vestiti con attenzione insolita e poi non ne fui soddisfatta. Persino la casa di Alex mi parve diversa, ma non scesi tra il disordine rassicurante della cucina buia e calda, bensì andai di sopra, in una stanzetta sul retro del primo piano. Entrai per prima mentre Alex saliva un'altra rampa di scale per recuperare un blocnotes. Mi accostai alla finestra, posando la mano sul vetro freddo. Si affacciava su un giardino lungo e stretto che conduceva a un altro giardino lungo e stretto, appartenente all'edificio di fronte, un'immagine speculare di quello in cui mi trovavo. Qualcuno aveva potato gli alberi in attesa della primavera, cosa in cui lessi un rimprovero per il mio cortile abbandonato. Quando udii la porta che si chiudeva, trasalii, e voltandomi vidi Alex. «Prego» mi invitò, «si sdrai.» Non avendo osservato bene il locale, non avevo idea del contenuto, della moquette o dell'arredamento. Scorsi soltanto la poltrona e, lì accanto, il lettino. Stendendomi, udii il cigolio delle molle mentre Alex si accomodava alle mie spalle, dove non potevo vederlo. «Non so da dove cominciare» ammisi, esitante. «Perché si trova qui? Inizi da quello e si muova in qualunque direzione desideri» mi incoraggiò. «Benissimo. Ai primi di settembre ho detto a Claud, mio marito, che avevo deciso di separarmi e divorziare. È accaduto all'improvviso, e Claud e l'intera famiglia sono rimasti davvero sconcertati.» «Che cosa intende per l'intera famiglia?» «Intendo l'intera famiglia allargata. Ogni volta che parlo della "mia" famiglia, non mi riferisco al piccolo clan dei Crane, bensì alla grande, meravigliosa e invidiabile tribù dei Martello.» «Il suo tono sembra un po' ironico.» «Solo un pochino. Forse ho qualche riserva, ma so che è meravigliosa. Siamo tutti molto fortunati. È quella la parola che usava sempre mio padre. Quando ha lasciato l'Esercito e si è trasferito a Oxford poco dopo la guerra, ha conosciuto Alan il primissimo giorno. Naturalmente, ormai tutti abbiamo letto The Town Drain e sappiamo che cosa aspettarci, dunque è dif-
ficile immaginare come dev'essere stato per un tipo come mio padre (un ragazzo molto sveglio, molto timido, che aveva tirato avanti con le borse di studio per tutta la vita) arrivare a Oxford, confuso e impaurito, e poi incappare nel prototipo di Billy Belton. E se pensa all'effetto che Alan ha esercitato sulla gente nei panni dell'eroe di un libro, si figuri di persona, incredibilmente eccentrico, sprezzante verso tutto quello per cui bisognava avere rispetto. All'epoca stavano per innamorarsi entrambi, credo. «Si sono sposati nel giro di un paio d'anni, e le due famiglie erano quasi una cosa sola. Alan si è arricchito quando The Town Drain è diventato prima un bestseller, poi un film e tutto il resto, e ha acquistato il casale e la proprietà nello Shropshire, il luogo dove trascorrevamo le vacanze. Era il classico posto perfetto, e quando ci portavi qualcuno restava abbagliato da quella famiglia straordinaria e dai suoi quattro bellissimi figli... e dalla sua splendida figlia, ovviamente. Era il centro della mia esistenza. Natalie era mia sorella e la mia migliore amica. Theo è stato il mio primo amore. E quando ho sposato Claud, è sembrato naturale, dinastico.» «Theo era il fratello maggiore?» «Claud è il più grande, poi vengono Theo, Natalie e infine i più giovani, Jonah e Alfred. Sono gemelli.» «Come hanno reagito quando ha piantato Claud?» «Difficile da dire. Il week-end durante il quale abbiamo rinvenuto Natalie era stato organizzato, tra le altre cose, per dimostrarmi che facevo ancora parte della famiglia.» «Giudicava importante ottenere la loro approvazione?» «Non proprio la loro approvazione. Non volevo pensassero che intendessi distruggere la famiglia.» «Le hanno domandato come mai l'ha fatto?» «Non direttamente.» «Be', perché l'ha fatto?» «Sa, ci ho riflettuto su venendo qui. Sapevo che avrei dovuto rispondere a questa domanda e non ci riesco. Non è strano? Eccomi qui, ho quarantun anni e ho sposato Claud a venti, quando frequentavo ancora l'università. Ho buttato via tutto quanto. Altroché se mi hanno domandato come mai. Claud era distrutto, i miei figli erano sconvolti e arrabbiati e pretendevano una risposta logica (per avere qualcosa a cui aggrapparsi, immagino), ma io non sono riuscita a dargliela. Non che avessi un motivo di cui non volevo parlare. Avrei potuto solo dire che credevo di aver fatto qualcosa alla cieca, e quando mi ero svegliata da un lungo sonno e mi ero guardata in-
torno, e quando Jerome e Robert erano cresciuti e se n'erano andati di casa, avevo deciso che dovevo uscirne. Mi dispiace per il discorso prolisso e probabilmente non molto comprensibile.» Ci fu un lungo silenzio, e scoppiai a piangere. Ero furibonda con me stessa, ma non riuscii a trattenermi, e le lacrime mi rigarono le guance. Mi meravigliai di sentire la mano di Alex sulla spalla. «Mi perdoni» farfugliai tra i singhiozzi. «È solo che mi sento in colpa per le mie azioni e adesso mi comporto da persona debole e stupida. Le chiedo scusa.» Alex attraversò la stanza e tornò con una manciata di Kleenex. «Tenga» disse. Mi soffiai il naso e mi asciugai la faccia. Alex mi stupì accovacciandosi davanti a me anziché tornare sulla poltrona. Quando il pianto smise di velarmi gli occhi, notai che mi scrutava con grande concentrazione. «Voglio dirle un paio di cose» annunciò. «Sa già che non c'è niente di male nel piangere qui dentro. Anzi, può fare tutto quello che vuole, purché non macchi il lettino. C'è anche dell'altro, qualcosa di più importante. Durante tutti i nostri incontri cercherò di essere il più aperto e schietto possibile. Voglio iniziare dicendole che non la giudico debole e che non deve sentirsi in colpa perché non riesce a fornire un motivo bell'e pronto per aver lasciato suo marito. Ci vuole coraggio. Anzi, se mi esponesse una ragione superficiale per quello che ha fatto, il nostro primo passo sarebbe sbarazzarcene e scoprire che cosa c'è dietro. Non sta cercando di discolparsi, e questo è un buon segno. Sta meglio adesso?» Dopo essermi rizzata a sedere per soffiarmi il naso, appallottolai il fazzolettino e, a disagio, me lo infilai in tasca. Annuii. Alex mi diede un rassicurante colpetto sulla spalla, quindi cominciò a camminare avanti e indietro, come faceva sempre, avevo notato, quando era immerso nei suoi pensieri. Dopo aver preso una decisione, o almeno così mi parve, si risedette. «Non inizierò certo a snocciolare risposte. Quello sarà compito suo. Io devo soltanto stabilire la direzione in cui muoverci. Se non è soddisfatta della strada su cui tento di spingerla, be', deve avvisarmi, ma vorrei che si fidasse di me, se le è possibile. La mia prima impressione è che non solo abbia appena posto fine al suo matrimonio, ma che si sia anche staccata da una parte importante del suo passato e della sua infanzia. In una situazione come la sua, molti avrebbero provato l'impulso di fuggire dalla famiglia, e sono ansioso di capire perché lei ha avuto l'istinto di tornare e cercare la
loro approvazione. Ritengo che non dovremmo tanto concentrarci sui dettagli del suo divorzio quanto accantonarli e soffermarci sulla famiglia. È d'accordo?» Tirai su con il naso. Mi sentivo di nuovo tranquilla e in grado di parlare. «Se questo è il suo parere...» «Perché, Jane, una delle cose che voglio fare per lei è prendere le varie forze da cui si è lasciata travolgere e riportarle sotto il suo controllo. Uno dei metodi per raggiungere questo traguardo è cercare gli schemi nascosti e tentare di individuarli. È venuta da me, Jane, sostenendo di voler parlare del suo divorzio, ed è un argomento importante di cui discuteremo, ma uno dei problemi fondamentali è capire che cosa desidera, e io vorrei farle notare una cosa. A mio avviso, non è una coincidenza che abbia deciso di chiedere aiuto, di dissotterrare il suo passato, di riesumare il suo segreto proprio quando la sua migliore amica, quasi una gemella, è stata scoperta sepolta nel terreno, dissotterrata e riesumata. Le pare sensato, Jane?» Sulle prime rimasi sbigottita e un po' sconcertata. «Non lo so. Ovviamente è stato un colpo terribile per tutti noi. Ma è soltanto un tragico avvenimento esterno. Non vedo che cosa ci sia da analizzare.» Restò calmo e irremovibile. «Mi incuriosiscono le parole che usa. È stato un colpo per "tutti noi". Eppure è stato un avvenimento "esterno". È stato davvero esterno? Sa, qualche volta penso che gli argomenti di cui le persone non vogliono parlare siano spesso il punto di partenza migliore. Il divorzio è questione di opinioni, emozioni, atteggiamenti. La morte di Natalie è un fatto. La sua scoperta e la sua riesumazione sono fatti. Credo che dovremmo cominciare da qui.» Avevo sempre diffidato degli sproloqui terapeutici sulle emozioni, della sfiducia verso la realtà degli avvenimenti, e rimasi molto colpita dal senso pratico di Alex. Mi convinse. «Sì, sono d'accordo. Suppongo che abbia ragione.» «Bene, Jane. Mi racconti della scomparsa di Natalie.» Mi sdraiai di nuovo, riflettendo su come iniziare. «È tremendo ma, anche se è stata una tragedia terribile e ogni dettaglio dovrebbe essere indimenticabile, molti elementi sono vaghi e sfocati. Dopotutto è accaduto venticinque anni fa, nell'estate del 1969. Natalie è sparita poco dopo una grande festa alla Fattoria, il casale dei Martello nello Shropshire. L'avevamo organizzata per il ventesimo anniversario di matrimonio di Alan e sua moglie Martha. Forse dipende dal fatto che non si è verificato alcun evento
improvviso capace di imprimermi tutto nella memoria, come la scoperta di un cadavere o qualcosa di simile. Ricordo con chiarezza che Natalie è stata vista per l'ultima volta il giorno dopo il party, da un abitante della zona.» Tacqui. «Il particolare bizzarro è che c'ero anch'io.» «Che cosa intende?» «Ecco, non ero proprio lì, naturalmente, ma ero poco lontano. Dovevo essere la persona più vicina a lei, a parte l'uomo che l'ha vista e, forse, chi l'ha... be', lo sa.» «Chi l'ha uccisa.» «Sì. Magari dovrei descriverle il posto. Va bene?» «Certo.» «Natalie è stata avvistata per l'ultima volta accanto al Col, un piccolo fiume o un grosso ruscello che scorre lungo un confine del podere. C'è un angusto sentiero che proviene da Westbury, il villaggio più vicino, e attraversa il Col, per poi sbucare nel terreno di Alan e Martha e passare accanto alla casa. L'uomo percorreva il viottolo per consegnare o ritirare qualcosa alla Fattoria, non ricordo, e ha scorto Natalie accanto all'acqua in fondo alla china di Cree's Top. Le ha persino rivolto un cenno di saluto, ma lei non si è accorta della sua presenza. Quella è stata l'ultima volta che qualcuno ha visto Natalie viva.» «Dov'era lei?» «Dall'altra parte di Cree's Top. Dal nome sembrerebbe la vetta di un monte o qualcosa di simile, ma in realtà è soltanto un'area rialzata attorno a cui serpeggia il ruscello.» Chiusi gli occhi. «Non ci torno più da quel giorno, non ne sopporto neppure l'idea, non mi avventuro mai in quella parte della proprietà, ma riesco a vedere ogni dettaglio. Se Natalie si fosse allontanata dal ponte, lungo il viottolo che si snoda parallelamente alla sponda meridionale del Col, la sponda di Alan e Martha, si sarebbe ritrovata sulla stradina sassosa che zigzaga tra alcuni alberi sulla sommità e poi mi avrebbe intravista dall'alto. Non eravamo a più di due o tre minuti di distanza a piedi.» «Che cosa ci faceva lì?» «Questo me lo ricordo bene. Ogni particolare. Ero una sedicenne volubile. Non penso che le sarei piaciuta molto. Ero un po' innamorata e un po' sconsolata, e quell'estate passavo il mio tempo con Natalie (anche se non quanto prima, per vari motivi), con Theo oppure da sola. Quel giorno, era primo pomeriggio, mi sentivo particolarmente depressa. Così ho preso l'u-
nica copia esistente delle poesie d'amore che avevo scritto in quelle settimane e sono scesa fino al Col, dove mi sono distesa proprio sulla riva, contro un masso all'inizio della china di Cree's Top. Sono rimasta lì per un paio d'ore, leggendo le poesie e componendone una nuova. Poi, d'impulso, ho strappato le pagine del quaderno una alla volta, le ho accartocciate cosicché assomigliassero a piccoli garofani bianchi, le ho gettate nell'acqua e le ho osservate mentre galleggiavano via fino a scomparire. Ascolti, penso che sia mutile continuare così.» «Per favore, Jane, mi accontenti.» «Se proprio insiste... Il problema di questo processo, l'aspetto di cui non mi fido, è l'impressione di essere incoraggiata ad assecondare, se non addirittura ad alimentare, emozioni che non sono particolarmente positive o giustificate.» «Quali emozioni?» «Non mi riferivo ad alcuna emozione specifica. Ma prendiamo la situazione che le ho appena descritto. Per anni ho provato un profondo rimorso pensando che avrei potuto fare qualcosa per impedire l'accaduto. Ero così vicina, e se le cose fossero state solo un tantino diverse, se avessi deciso di salire fino a Cree's Top, forse non sarebbe mai capitato, forse avrei salvato Natalie. Allo stesso tempo sono sempre stata consapevole che era un'idea ridicola e che si potrebbe fare il medesimo ragionamento per qualsiasi altra cosa, o quasi.» «Ha provato un profondo rimorso.» «Sì.» «Bene, credo che ci fermeremo qui.» Mi aiutò ad alzarmi. «È stata bravissima» commentò. Mi sentii avvampare come quando gli insegnanti mi elogiavano in classe, e avvertii una punta di fastidio per la mia emotività. CAPITOLO 9 C'erano ossa tra le ossa. Natalie era incinta quando l'avevano strangolata. La polizia lo riferì ad Alan e Martha, Alan chiamò i suoi figli e Claud avvisò me il giorno prima delle esequie. All'inizio non riuscii ad assimilare quello che la sua voce dolce mi diceva. Come sempre quando Claud adottava i suoi modi calmi e professionali, diventavo così irrazionale da farneticare. Ragionavo soltanto per domande confuse. «Com'è possibile che fosse incinta?»
«È difficile per tutti noi, Jane.» «Chi può essere il padre?» «Jane, l'ho appreso soltanto ora, ne so quanto te» rispose, stanco e spazientito. «Il funerale non si farà, vero?» «Sì, invece. La polizia ci ha consegnato i resti.» «Ma non c'è qualche analisi che possano eseguire? Non potrebbero scoprire chi è il padre con i test del DNA e cose simili? Sei un medico, devi saperlo.» Lo considerò un invito ad assumere il suo tono pedagogico. «Sono sicuro che la scientifica ha prelevato dei campioni, Jane. Ma a quanto ne so, non riusciranno a tracciare il profilo del DNA. Credo che siano necessari sangue o liquidi corporei.» «Non si può ricavare il DNA dalle ossa?» «Ti sembra il momento adatto, Jane? Le cellule delle ossa hanno un nucleo, perciò è ovvio che contengono il DNA, ma quest'ultimo si degrada negli scheletri, e se è stato sepolto nel terreno, i filamenti si sbriciolano e si contaminano. Ma non è il mio campo. Devi rivolgerti alle autorità preposte, come si suol dire.» «A quanto pare, non c'è via d'uscita.» «Le prospettive non sono rosee.» Incinta. Fui assalita dalla nausea, e il brutto presentimento che mi aveva pervasa assomigliava a un pugno chiuso intorno al mio cuore martellante. «Oh, Cristo, Claud, Claud. Che cosà faremo?» Mi accasciai sulla vecchia poltroncina verde accanto al telefono, dondolandomi leggermente avanti e indietro. «Che cosa faremo?» ripeté. «Resteremo uniti come una famiglia, come abbiamo sempre fatto, e supereremo anche questa. So che è dura per tutti noi, ma dobbiamo aiutarci a vicenda. Ed è dura soprattutto per Alan e Martha. Per loro è molto importante che tu assista alle esequie domani.» La sua voce si addolcì. «Non abbandonarci, Janie. Ci siamo dentro tutti quanti. Ci sarai domani, vero?» «Sì.» Chiamai l'interno di Helen Auster, ma era troppo indaffarata per parlare a lungo. Si limitò a informarmi che sarebbe stata a Londra di lì a qualche giorno e propose di incontrarci. In ogni caso, che cosa avrei potuto domandarle?
La bara era sottile, e il cielo grigio. Non c'erano foglie sugli alberi, ma c'erano fiori vivaci sulle lapidi nuove e lustre con la loro ghiaia verde sintetica e le loro iscrizioni da cartolina illustrata. Non c'erano vasi accanto alle belle pietre sepolcrali vecchie e consunte. Alzai lo sguardo verso la chiesa. «Romanico settentrionale» mi sussurrò qualcuno all'orecchio. Claud, naturalmente. Se dopo avessi avuto tempo, mi consigliò, avrei dovuto dare un'occhiata al fonte battesimale normanno. Le campane furono così compassionevoli da soffocare la sua voce. La tomba di Natalie era una ferita aperta nel terreno. Ben presto vi avrebbero calato dentro il fagotto d'ossa e vi avrebbero gettato sopra il fango. Di lì a un anno, l'erba sarebbe spuntata sulla cicatrice. Sarebbe diventata un luogo in cui recarsi di tanto in tanto, in cui portare qualche fiore. A Natale ci saremmo andati con l'agrifoglio, e in primavera avremmo raccolto zagare e giunchiglie. Alla fine, la tomba non sarebbe più apparsa nuova e livida. Si sarebbe fusa con il paesaggio melanconico, e i bambini avrebbero giocato lì accanto. Il gruppetto di fedeli della domenica l'avrebbe oltrepassata senza notarla. Un giorno non ci sarebbe più stato nessuno a visitare il punto in cui riposava Natalie. Gli estranei si sarebbero fermati accanto alla lapide e avrebbero fatto scorrere le dita sulle date incise. È morta giovane, avrebbero commentato. Quando scorsi Martha, credetti che mi si spezzasse il cuore. Era invecchiata di dieci anni nel giro di qualche settimana. Il viso recava i segni del dolore, i capelli erano più che bianchi. Stava ritta tra le raffiche gelide, senza piangere. Mi domandai se le fosse rimasta qualche lacrima. Non credeva in Dio, ma ero certa che sarebbe venuta ogni settimana per sedere accanto alla tomba di sua figlia. Per la prima volta, mi domandai quanti anni le restassero. Mi era sempre parsa immortale, e ora sembrava fragile e sfinita. Anche Alan era distrutto. Ebbi l'impressione che fosse rimpicciolito all'improvviso, curvo nel cappotto, le mani che stringevano il bastone. I quattro figli erano alti e immobili, eleganti nei loro completi scuri. Noialtri (mogli ed ex mogli, amici e nipoti) ci tenemmo in disparte. Jerome («Ho una lezione») e Robert («No, detesto i funerali») non erano intervenuti, ma Hana mi aveva sorpresa presentandosi alla mia porta alle sette del mattino, indossando una lunga gonna color malva e portando un thermos, un panino alla pancetta e un mazzo di anemoni simili a gemme. «Se non vuoi che ti accompagni, devi soltanto dirmelo» aveva dichiarato, ma volevo che mi accompagnasse. Ero contenta di averla al mio fianco, intenta a tenermi la mano mentre il vento le arrossava il naso e le faceva
svolazzare i vestiti assurdi. Qualche metro più in là, un uomo di mezza età con un viso vagamente familiare (adunco e assorto) si soffiò forte il naso in un fazzoletto enorme. Non sì udivano altri suoni. Gli uccelli non cantavano. Il vicario pronunciò le sue goffe parole di morte e resurrezione nell'aria pungente. Depositarono il feretro nella fossa con il suo duplice fardello penoso. Martha avanzò con estrema lentezza e vi lanciò sopra un'unica rosa gialla. Un singhiozzo sommesso si levò alle mie spalle. Tutti gli altri tacquero. Martha tornò al suo posto e prese la mano di Alan; anziché guardarsi, fissarono la buca che andava riempiendosi. Claud fece un passo avanti con un mazzo di fiori, e lo imitammo a uno a uno. Ben presto la nuda terra fu nascosta da un mucchio di tìnte sgargianti. La ferita di famiglia fu medicata con cerotti dai colori vivaci. La Fattoria pareva diversa ai miei occhi doloranti e infiammati. Da bambina la consideravo la casa più accogliente del mondo. La ricordavo come un luogo in cui tornare dopo le lunghe passeggiate al crepuscolo: pietra scintillante, il bagliore delle finestre, i fili di fumo che uscivano dal camino, il promettente calore dell'interno. Ora sembrava abbandonata. Le finestre erano buie. Le erbacce crescevano accanto alla porta d'ingresso. Il salice piangente che si protendeva sopra il vialetto sembrava trascurato e grondante di umidità. Jane Martello, la cuoca ultrarapida, aveva portato meringhe, un plumcake con i canditi e paffute focaccine con burro non salato e la marmellata che avevo preparato un anno prima. La notte prima delle esequie avevo spadellato fino alle ore piccole: il profumo dell'essenza di vaniglia e della scorza di limone aveva invaso la cucina. Mentre il dolce lievitava nel forno, avevo richiamato Claud. «Chi verrà?» avevo domandato. «Non lo so con esattezza» aveva risposto, elencando alcuni nomi. «Luke! Ci sarà anche Luke?» «Be', perché no, Jane?» aveva replicato in tono un po' stizzito, e consultando l'orologio alla parete mi ero resa conto che la mezzanotte era passata da un pezzo; probabilmente l'avevo svegliato. «Ma Luke era il suo ragazzo. Natalie era incinta e Luke era il suo ragazzo.» «Buonanotte, Sherlock, ci vediamo domani.» Mentre disponevo il mio banchetto sul lungo tavolo di quercia nella cu-
cina della Fattoria, mi resi conto che a soffiarsi il naso al camposanto era stato Luke. Di lì a qualche minuto sarebbe arrivato con tutti gli altri e avremmo chiacchierato con educazione. L'intenso dolore del cimitero si sarebbe dissolto tra la noia dei sandwich e dei discorsi monotoni. Avremmo dovuto andarcene ognuno per conto suo, portare via la nostra paura e la nostra sofferenza e conviverci per un po'. Infornai le focaccine per scaldarle, e Hana entrò con le meringhe. Non fiatammo. Sapeva sempre quando restare in silenzio. «Jane, mia cara. Hana.» Era Alan, ma un Alan senza alcuna ampollosità. La barba pareva tagliata male, o forse non l'aveva spazzolata. Non avevo mai permesso a Claud di farsela crescere. «Martha è di sopra, ma scenderà tra un attimo. Posso fare qualcosa?» «No, Alan. Niente.» «In tal caso...» fece un vago gesto con la mano e uscì strascicando i piedi. Lasciando Hana a distribuire il cibo nei piatti, andai in giardino. Il mio respiro si arricciò nell'aria ancor prima che accendessi una sigaretta. Distinsi gruppetti di persone che avanzavano alla spicciolata lungo il vialetto. Non essendo ancora in grado di affrontarli, varcai il cancello laterale e girai intorno al casale per evitarli. I miei manicaretti potevano sostituirmi per un po'. «Allora che cosa fai adesso?» Era proprio quello che avevo temuto. Guardavo un uomo rispettabile con un completo sobrio, mal stirato e non molto pulito. Probabilmente lo indossava ogni tanto per lavorare. In realtà, vedevo tuttavia un ragazzo snello con una folta chioma castana e gli. occhiali rotondi dalla montatura di metallo, intento a baciare Natalie, a consumarla, a cullarle la nuca tra due mani premurose. Il ragazzo di Natalie. La mia domanda parve sconcertarlo senza motivo. «L'insegnante» rispose. «A Sparkhill. In una scuola media.» Luke era alto e magro. Parlando, si chinava su di me, e con quel naso lungo assomigliava un po' a un uccello melanconico. Gli occhi, tuttavia, erano penetranti. Dissi meccanicamente quel che dicevo sempre agli insegnanti, che la loro era la professione più utile del mondo eccetera eccetera. Bla, bla, bla. «Ti do l'indirizzo» aggiunse, «così puoi abbonarti al nostro opuscolo.» Un barlume del vecchio Luke sfrontato, ma non si era impegnato molto.
«Ascolta, Jane, possiamo fare due chiacchiere?» Afferrandomi per il gomito, mi guidò tra i capannelli di ospiti verso la porta. «Adesso va meglio» osservò con un rapido sussurro, come se avesse fretta e qualcuno potesse origliare. Mentre parlava, guardava sopra la mia spalla, come fanno gli invitati alle feste quando cercano qualcuno di più interessante. «Ho scoperto (me l'ha riferito Theo) che Natalie è stata uccisa. Be', sorpresa, sorpresa. Ma poi Theo mi ha spiegato che era incinta. E allora mi sono reso conto che non sarei stato il benvenuto se fossi tornato all'ovile dopo tutti questi anni. Martha non mi ha nemmeno salutato. Theo, tutti quanti, pensano che sia stato io.» «Pensano che sia stato tu a fare cosa?» Mi sentii dura e spietata. Tutti gli spigoli del suo volto si ammorbidirono, ed estrasse ancora il fazzoletto. Ebbi un ricordo breve e improvviso di lui che singhiozzava da ragazzo, ma quell'immagine svanì. Riflettendoci, fra tutti gli uomini della vita di Natalie, lui era stato il primo che avevo visto piangere per lei. «La amavo. So che ero soltanto uno stupido adolescente, ma la amavo. Era così dolce e così... così crudele.» «Come fai a essere sicuro di non averla messa incinta?» domandai, raccogliendo gli aggettivi che aveva appena usato e tenendoli da parte per dopo. Aveva smesso di piangere. Mi guardava dritto negli occhi. «Non l'abbiamo mai fatto» rispose. «Lei non voleva. Dev'esserci stato qualcun altro.» «Chi? Quando?» «Come faccio a saperlo? Ti assicuro che ho tentato di ricordare tutto, qualsiasi cosa. Una volta, Dio solo sa dove eravamo, ci stavamo baciando, stavo baciando Natalie. Pur essendo bruna, aveva quella magnifica peluria bionda sulle guance. Rammento di averla sentita sulle labbra. Allora ho cominciato a toccarla, ad accarezzarla, e lei mi ha spinto via dicendo: "Sei solo un moccioso, sai". Avevo un anno più di lei. Stentavo a crederci, ma era nel suo stile. Lo sai. La conoscevi meglio di chiunque altro.» Non volevo sostenere quella conversazione. «Okay, allora perché raccontarmelo?» «Ma mi credi?» «A chi importa che cosa credo?» «A me» dichiarò, borbottando poi qualcosa di incomprensibile. Fece uno
sforzo palese per ricomporsi. «Si tratta di questo, vero? State tutti serrando le file. Posso capire che vi faccia comodo.» Voltandomi, mi allontanai. «Vedi, vi state facilitando le cose» insistette. Lo ignorai. CAPITOLO 10 «Tieni, questi sono tutti tuoi.» Cominciai a riporre i dischi negli scatoloni. Quando io e Claud ci eravamo conosciuti, lui possedeva una straordinaria collezione di LP, classificati in ordine alfabetico all'interno delle varie categorie tematiche. Io ne avevo cinque: due di Miles Davis e tre di Neil Young, tutti troppo graffiati per suonare sul piatto del suo stereo. Tanto li aveva anche lui. Aveva acquistato dischi per tutta la durata del matrimonio: musica classica, jazz, soul, punk. Era dotato di un entusiasmo infinito, di una tolleranza infinita. Quando Jerome e Robert avevano voluto ribellarsi, avevano portato a casa l'ultima moda in fatto di baccano: house, tedino, grange. Non avevo mai capito come distinguerli e avevo assecondato i ragazzi con la mia ignoranza e il mio disgusto. Claud, invece, aveva imparato ad apprezzare tutto. I suoi brani rap sull'assassinio di alcuni poliziotti avevano sbigottito persino Robert. Si era espresso con pomposità sull'importanza di estendere la libertà di parola a persone come Iced Tea, o comunque si chiamasse. Claud era stato tanto indulgente da mettermi su i Guns N' Roses mentre i suoi figli lo guardavano imbronciati e io osservavo una copertina che raffigurava una donna violentata da un robot. Ogni volta che i suoi fratelli erano venuti a trovarci, avevano sfogliato la collezione, tirando fuori questo o quell'altro cimelio, uno spaventoso assolo di tamburo della durata di quindici minuti che aveva risvegliato il ricordo proustiano di un vecchio party o di una povera ragazza illusa. «E anche questi.» Ammucchiai i CD in pile ordinate accanto agli scatoloni. Claud mi fissò, gli occhi lucidi. Non reagii. «Ho passato in rassegna quasi tutti i libri, ma naturalmente dovresti controllare anche tu, per sicurezza. Per alcuni è un po' difficile decidere. Li ho raggruppati tutti su questa mensola.» «Venice di James Morris.» La voce di Claud era intrisa di tristezza. «Ricordi il periodo trascorso a Venezia?» Altroché se lo ricordavo. Era stato in febbraio. La città era umida, neb-
biosa e semideserta. Avevamo percorso chilometri di vicoli grigi, ignorando il fetore dolciastro dell'acqua, lanciando esclamazioni davanti alle facciate verdi e scrostate degli antichi palazzi, entrando in chiese in cui fioriva un'arte opulenta. Avevamo fatto l'amore su duri letti di legno con i guanciali alla francese, accompagnati dal cigolio delle persiane. «I funghi d'Europa, Il declino e la caduta dell'Impero romano, un libro di Auden, le poesie di Hardy, Gli uccelli della Gran Bretagna.» Diede dei colpetti con il dito lungo il ripiano. «Come divertirsi da single. Questo fa al caso mio. Credo che lo prenderò.» Estrasse una sottile guida Shell sulle chiese della campagna inglese e la gettò nello scatolone. «Possiamo regalare i libri comuni a Jerome e Robert. Chissà perché mi sembra la cosa giusta da fare. E ora posso avere un drink?» «Jerome e Robert non leggono libri. Ci mancano ancora i quadri e le porcellane; molti mobili sono tuoi.» «Jane, posso avere un drink? Non avere tanta fretta di cancellare ogni traccia di me dalla casa.» Sedemmo al tavolo della cucina e versai due bicchieri di vino rosso economico. Mi accesi una sigaretta, aspirando a fondo il fumo cancerogeno nei polmoni. All'inizio chiacchierammo dei ragazzi, poi di Natalie... E con mia sorpresa, la conversazione fu obiettiva e rilassata. Avevo sentito troppe espressioni di affetto nostalgico. Claud accennò alla malizia di Natalie, alle sue punzecchiature, alla sua capacità di scoprire segreti e stringere alleanze. Era quella la vera Natalie, non l'adolescente idealizzata nella sicurezza della morte. Avevo dimenticato quella Natalie. Il dialogo mi rinfrescò la memoria. Io e Claud ci scambiammo i ricordi e riempimmo di nuovo i bicchieri. Era difficile ricostruire la sequenza degli avvenimenti, ma in quelle ultime settimane non era stata tanto spesso con Luke. Aveva cominciato ad annoiarsi e l'aveva tenuto a distanza, suscitandone l'ira e la perplessità. Lui telefonava o si presentava alla Fattoria, e finiva per chiacchierare con me o con Martha. Ci soffermammo sulla famosa festa, sui ricordi sfocati che avevo del giorno successivo e sul ricordo nitidissimo che Claud aveva del volo Air India per Bombay con Alec, e dei due mesi trascorsi a vagabondare qua e là con venti misere sterline in tasca (potevano davvero essere soltanto venti?). Droga, polvere e dissenteria. Avevo sempre desiderato visitare quel Paese. In quell'istante rammentai che io e Claud avevamo progettato di ripetere il suo viaggio (in una forma più salubre) e sperai che non vi alludesse. Giocherellai con un piattino antico sul tavolo. Costava una fortuna per-
ché l'aveva realizzato un artista famoso: uno dei due l'aveva regalato all'altro, ma avevo scordato chi. Non era stata una buona idea. Claud sollevò il bicchiere con un sorriso sardonico, e io ebbi l'impressione di tornare indietro nel tempo, perché avvertii un'irrefrenabile fitta di desiderio per quell'uomo. Prima di separarci, spesso eravamo andati d'accordo soprattutto in compagnia di altre persone. Lo osservavo dall'altra parte della stanza e mi rendevo conto di quanto fosse affascinante, oppure guardavo una donna attraente stringergli un braccio o ridere di una sua battuta che non ero riuscita a sentire e riconoscevo di essere fortunata. Quasi tutte le mie amiche lo adoravano e mi invidiavano per il suo bell'aspetto, le sue premure, la sua fedeltà. Non notava mai quando una signora civettava o ci provava con lui, il che lo rendeva ancor più disarmante. Mi resi conto che ci eravamo impantanati in un silenzio pericoloso. Previdi quel che stava per accadere. «So che non dovrei dirlo» iniziò, facendomi intuire che era sul punto di pronunciare un discorso preparato «ma questo, tutto questo» indicò il caos lì intorno «sembra così sbagliato. Un minuto prima stavi parlando dei nostri problemi, e un minuto dopo mi sono ritrovato in un monolocale da qualche parte. Credo che dovremmo ritentare.» Adesso c'era un'impazienza lucida e terribile nella sua voce. «Detesto ammetterlo, ma forse dovremmo ricorrere a un consulente matrimoniale.» Non potei fare a meno di commuovermi: Claud aveva sempre disprezzato qualsiasi tipo di processo psicoterapeutico. «No, Claud.» Mi costrinsi a fermarmi, a non dilungarmi in una spiegazione che avrebbe potuto contestare. «Ma non sei felice» insistette. «Guardati: fumi una sigaretta dietro l'altra, sei diventata magra e pallida. Sai di aver commesso un errore.» «Non ho mai detto di essere felice» replicai. «Ma devo convivere con la mia scelta.» «Dove ho sbagliato? Che cosa ho fatto per spingerti a scegliere questo?» Altri gestì. Verso la stanza. Verso di me. «Non hai fatto niente. Non ho voglia di discuterne. Non servirebbe a nulla.» «C'è dell'altro, qualcosa che non vuoi dirmi?» domandò, disperato. «Si tratta di Theo? Ecco, l'ho detto. Non mi sono dimostrato all'altezza della visione romantica che hai di lui?» «Non fare così, Claud, ti rendi ridicolo.» «Ci sono cose che potrei raccontarti di Theo, cose che ha fatto...»
«Non credo, Claud. E comunque, non c'entrano con noi.» Parve accasciarsi all'improvviso. «Sono desolato» si scusò. «Mi dispiace tanto, ma mi manchi da morire.» Si prese il volto tra le mani e sbirciò attraverso la gabbia delle dita. Sedendo al tavolo della cucina con Claud come avevo fatto per tanti anni, osservando le lacrime che gli gocciolavano dal viso senza fare nulla per consolarlo, non ricordavo perché mai avevo posto fine al nostro matrimonio. Non mi riconoscevo in quella collera, in quel vortice di panico e frustrazione, in quella sensazione del tempo che scorreva via. Desideravo soltanto una casa, qualche amicizia, un po' di serenità, una vita abitudinaria. Avevo costruito la mia esistenza mattone dopo mattone, poi, un giorno del settembre precedente, me l'ero fatta crollare addosso. Mi sentivo vecchia, stanca e sconfitta. Per un attimo pensai di andare a inginocchiarmi accanto alla sedia di Claud, di abbracciarlo finché avesse smesso di piangere sommessamente, di affondare la testa tra le sue ginocchia, di sentire le sue mani che mi accarezzavano i capelli e di avere la certezza del suo perdono. Ma non mi mossi, e quell'istante svanì. Dopo uno o due minuti Claud si alzò. «Verrò a prendere questa roba un'altra volta.» Avevo ancora il piattino tra le dita. «E questo?» Glielo porsi. «Questo? È nostro.» Lo prese con entrambe le mani, e senza manifestare alcuna emozione palese o almeno mutare espressione, lo spezzò in due, allungandomene metà. Ero troppo sgomenta per muovermi o anche solo per parlare, ma notai che si era procurato un profondo taglio al dito. «Porto via soltanto questi.» Depose il frammento di porcellana in uno scatolone. Quando gli aprii la porta, una raffica di pioggia entrò nell'ingresso. «Mi deludi, Jane» commentò. Scrollai le spalle. In camera, mi sfilai i jeans e il cardigan grigio, mi tolsi gli orecchini, mi spazzolai i capelli e mi avvolsi in una vestaglia. Mi venne un'idea. Andai in bagno e mi sfregai la saponetta intorno all'anulare. Tirai con forza, e l'anello scivolò oltre la nocca. Dopo averlo sciacquato, lo portai nel mio studio, la vecchia stanza di Jerome, ora ingombra di cavalietti, corrispondenza inevasa e fogli di carta millimetrata. Aprii il cassettino della scrivania dove conservavo i braccialetti che i bambini avevano indossato in ospedale quando erano nati, il tappo dello champagne con la parola Laureata scritta a biro, l'ultima lettera di mia madre (la calligrafia era tremolante a causa del dolore) e le fotografie di Natalie che avevo recuperato di recente. Vi
riposi la fede e lo richiusi. Quindi mi coricai e restai distesa a lungo, aspettando l'oblio. CAPITOLO 11 «La turba?» «Altroché se mi turba» risposi. «Non credo di riuscire neppure a descriverle le mie sensazioni.» «Me le descriva» ordinò Alex. Ridacchiai. «Sì, è per questo che sono qui, vero? Mi scusi, mi sono espressa per cliché. Ho soltanto ripetuto meccanicamente quel che si dice di solito riguardo alle emozioni forti. Che sono indescrivibili. È tutto fin troppo descrivibile. Suppongo di sentirmi ingannata, sebbene ingannata sia un eufemismo, perché l'accaduto dimostra che Natalie aveva un altro lato, a me sconosciuto. Posso essere ancora più chiara. Eravamo legate da un'amicizia infantile, io e Natalie, che era quasi come un gioco. Ci consideravamo migliori amiche e sorelle. C'erano così tanti maschi in giro, e noi eravamo le uniche due femmine. Parlavamo di tutto, specialmente la notte, in camera sua. Quell'estate, nel 1969, le cose hanno cominciato a cambiare. Avevamo già avuto delle storie con qualche ragazzo, ma la sua relazione con Luke sembrava diversa, qualcosa che io non potevo condividere. E allo stesso tempo ero davvero cotta di Theo.» «Mi racconti di Theo.» «Quale Theo? Quello di allora o quello di adesso?» «Quello che preferisce.» «Theo è ancora fantastico. Lo adoro. Se dovesse conoscerlo oggi, le garantisco che lo troverebbe simpatico. È alto e bello e ormai sta diventando calvo, ma calvo come un artista, non come un direttore di banca con ciuffi di capelli tirati da una parte all'altra della testa.» «Questo sì che è interessante» commentò, ridendo. «Dobbiamo approfondire la sua avversione per i direttori di banca.» «Mi piace il direttore della mia banca» protestai. «È stato molto gentile con me nonostante tutte le mie provocazioni.» Malgrado la notìzia deprimente, quella seduta con Alex fu più rilassata della prima. Percepii un'atmosfera amichevole, se non addirittura civettuola. Mi sentii libera. Sapevo di poter dire qualsiasi cosa. «Comunque, Theo non è un direttore di banca, e nemmeno un artista. Si colloca in una vaga area intermedia, ed è difficilissimo definire con esat-
tezza che cosa fa. Fornisce consulenza sulla gestione delle informazioni. Sì, so che è insolito. Dirige una società con sede a Zurigo e insegna anche come professore ospite nelle università più disparate. È tutto molto moderno, postmanageriale, profumatamente retribuito nonché un po' astratto e filosofico, e lui è sempre in viaggio per assistere a un convegno a Toronto o per sovrintendere a una fusione in un castello della Baviera. Chi, come me, vive in un unico posto e lavora poco lontano da casa sembra molto fuori moda. È abbagliante, lo è sempre stato. «Per un paio d'anni avevo visto Theo di rado prima di quell'estate del '69. Lui era stato via per studiare, e io avevo frequentato un giovanotto che non solo possedeva una motocicletta, ma la sapeva anche smontare e rimontare senza dimenticare neppure un pezzo, e in un certo senso era affascinante. Poco a poco siamo andati tutti quanti alla Fattoria a fine luglio per la festa di Alan e Martha, e Theo mi ha fatto girare la testa. Era alto un metro e novanta, aveva i capelli lunghi, ed era all'ultimo anno del liceo, impegnato in circa dodici esami finali di scienze, ma leggeva anche Rimbaud e Baudelaire in lingua originale e sapeva suonare la chitarra, suonarla davvero, non solo strimpellare, bensì produrre singole note che ricordavano la musica melanconica di Leonard Cohen. Mi ha presa completamente. Perlopiù sul piano spirituale. «Scusi, mi sono lasciata trasportare. Il punto è che quella è stata l'estate in cui, da un certo punto di vista, io e Natalie siamo cresciute. La disaffezione, per quanto si possa parlare di disaffezione, ci ha condotte a diventare persone separate, a crearci una vita privata indipendente. Come posso descriverlo? Mi torna in mente un episodio, circa una settimana prima che lei scomparisse. Ero andata in una città vicina, Kirklow, probabilmente a comprare qualcosa per il party. Ho scorto un gruppo di giovani seduti fuori di un pub, nella piazza, intenti a bere e fumare. C'era anche Natalie. Aveva i capelli tirati indietro, rideva per una battuta e, ridendo, si è guardata intorno e ha incrociato i miei occhi. Mi ha accennato un sorriso e ha distolto lo sguardo, allora ho capito che non ero autorizzata ad avvicinarmi e unirmi a loro. Ripensando a quell'estate, credo che la terribile tragedia della sua morte sia stata ancor più dolorosa perché ha coinciso con il momento in cui ho dovuto smettere di essere una bambina ed entrare nella confusione dell'età adulta.» Dopo che ebbi finito, calò un lungo silenzio che non mi venne istintivo interrompere. Ormai non avevo più paura di quei vuoti. «Be', questo è quanto, allora» osservò Alex, sbalordendomi con il suo
tono sarcastico, impertinente. «Come sarebbe a dire "questo è quanto"?» domandai. «È stata molto precisa, Jane. Ha imbastito bene ogni cosa. È riuscita ad affrontare la morte di Natalie e ad associarla a uno sviluppo positivo della sua vita. La sua amica è morta, lei è cresciuta ed è diventata architetto. Eccoci qui. Analisi terminata. Congratulazioni.» Ero esterrefatta. «Perché è così velenoso, Alex? È orribile.» «Le piace leggere, Jane?» «Di che cosa sta parlando?» «Scommetto che le piacciono i romanzi. Scommetto che quando va in vacanza legge un romanzo al giorno.» «A essere sincera, no. Sono una lettrice piuttosto lenta.» «Le è mai venuta voglia di scrivere un romanzo?» «Mi sta prendendo in giro, Alex? Si limiti a dire quello che vuole dire senza menarmi per il naso.» «No, sul serio, Jane, credo che debba prendere in considerazione l'idea. Scommetto che sarebbe bravissima. Ma non lo faccia qui con me. È una donna intelligente, Jane, e quanto mi ha appena raccontato non è affatto un resoconto poco plausibile della sua esperienza. È questa la sua dote. Sono sicuro che potrebbe entrare nel mio studio domani, propinandomi un'altra versione della sua vita e interpretandola in un altro modo, e sarebbe altrettanto convincente. Se fosse davvero soddisfatta della sua esistenza e tutto funzionasse alla perfezione, potrebbe esserne fiera. Lo facciamo quasi tutti, anche se probabilmente nessuno è abile quanto lei. Inventa interpretazioni accurate della sua vita come una seppia spruzza una nuvola di inchiostro prima di scappare via. Sono forse ingiusto, Jane?» Mi sentii disorientata, come se andassi alla deriva. «Non saprei. Non so che cosa dire.» Avanzò fino a entrare nella mia visuale, inginocchiandosi accanto a me. Pareva più divertito che contrariato. «Sa una cosa, Jane? Sospetto che a casa abbia tutte le edizioni Penguin di Freud e che, pur essendosi ripromessa di leggerle, non ne abbia mai avuto il tempo, ma vi si sia immersa qua e là. E ha letto anche uno o due libri sulla terapia. Tra le altre cose, ha imparato che l'analisi orbita intorno al dialogo e all'interpretazione. Non c'entra con le cose e i fatti, solo con il valore che attribuiamo loro. O sbaglio?» «Non ne ho idea» ribattei. Non volevo dargliela vinta. Sembrava così si-
curo. «Voglio che dimentichi tutta quella roba» proseguì. «Voglio guarirla, almeno per un po', dalla straordinaria capacità di trasformare la sua esistenza in uno schema. Voglio che afferri le cose della sua vita, le cose che sono successe davvero. Rimandiamo l'interpretazione a un secondo momento, d'accordo?» «Mi stupisce che, secondo lei, esistano fatti distinti dalle interpretazioni, dottore.» «E io so che non ci crede davvero. Posso sparare un sacco di stronzate sugli avvenimenti più succosi, e se è quello che vuole, possiamo stare seduti qui a fare giochetti un paio d'ore la settimana, cavillando sul significato del significato. È questo che desidera?» «No, certo che no.» «Finora mi ha rifilato lo stereotipo della storia d'amore estiva adolescenziale.» Rialzatosi, tornò alla sua poltrona. «Mi racconti alcuni degli avvenimenti spiacevoli e imbarazzanti.» «Non le basta che Natalie fosse incinta e che l'abbiano assassinata? Ha bisogno di altre spiacevolezze?» «Ma Jane, mi ha parlato di quell'estate idilliaca e meravigliosa trascorsa con la famiglia che tutti adoravano. Dove sono i presupposti dell'omicidio?» «Perché dovrebbero esserci dei presupposti? Potrebbe averla uccisa qualcuno che non aveva nulla a che vedere con la famiglia, qualcuno che non abbiamo mai nemmeno sentito nominare.» «Quali sono le sue opinioni in proposito, Jane?» «Le mie emozioni, intende?» «No, le sue opinioni. Le sue idee.» Tacqui a lungo. «A dire il vero, ne ho una sola. Forse sono soltanto stupida (probabilmente è così che mi ha giudicata la poliziotta con cui ho parlato), ma continuo a scontrarmi con l'ovvio, il problema di dove è stata rinvenuta Natalie. Poiché i resti sono rimasti sepolti per venticinque anni e poi sono venuti alla luce solo per caso, il giardino era chiaramente un nascondiglio quasi perfetto, ma mi sembra così inconsueto. Non so nulla degli assassini o di cosa fanno delle loro vittime, ma immagino che le sotterrino in foreste sperdute oppure le abbandonino in un fossato o tra la brughiera. Natalie è stata avvistata per l'ultima volta accanto al fiume. Avrebbero potuto semplicemente buttarcela dentro. Invece l'hanno seppellita sotto il nostro naso il giorno dopo un'enorme festa, quando l'intera zona era
piena di ospiti. Per me non ha alcun senso, ma l'unica cosa di cui sono certa è che non è stato un vagabondo di passaggio ad aggredirla e sotterrarla quasi davanti alla casa.» «E allora? Che cos'altro ha da dirmi? Deve pur esserci qualcosa» mi esortò Alex. «Oh, non lo so. È passato così tanto tempo. Ho l'impressione che, anche solo parlando di queste cose, diamo loro più importanza di quanta ne meritino in realtà.» «Mi metta alla prova.» Mi aggrappai al lettino, le dita simili ad artìgli. «C'erano dei problemi, come in tutte le famiglie. In un certo senso, forse i nostri erano più accentuati perché eravamo così uniti e ci vedevamo così spesso.» «La smetta di tergiversare e venga al sodo.» «Si trattava di sciocchezze. Deve tenere conto dell'età che avevamo. Eravamo ancora abbastanza giovani perché quelle lievi differenze contassero parecchio. Natalie aveva solo sedici anni, e Paul ne aveva diciotto, stava per andare a Cambridge ed era totalmente ossessionato da lei.» «Avevano una relazione?» «Natalie lo snobbava su tutti i fronti. Adesso è difficile immaginarlo, ma Paul era un adolescente molto timido, anzi tanto timido da essere aggressivo. Riuscivo quasi a vederlo mentre si faceva coraggio per avvicinarsi a Natalie, e una o due volte, a tarda notte, ha cercato di fare cose come metterle un braccio intorno alle spalle, ma lei si è mostrata molto scontrosa.» «Scontrosa senza motivo?» «Non lo so. Come si fa a giudicare queste cose? Se mi è concesso di azzardare un'interpretazione, a volte sembrava che l'attrazione di Luke verso Natalie fosse quasi uno strumento per far soffrire Paul. E quando Natalie si è allontanata da Luke, ha giocato con Paul per tormentare Luke.» «Qual è stata la sua reazione?» «Mentre guardavo la mia migliore amica che umiliava il mio fratello maggiore, intende? Ero arrabbiata, forse meno di quanto avrei dovuto. Perlopiù imbarazzata. E forse un po' gelosa; tutti (be', almeno i ragazzi) notavano Natalie. Lei pareva così indifferente nei loro confronti, anche se non lo era, naturalmente. Non si truccava come tutte le altre, non rideva alle loro battute e non flirtava se non in maniera ironica. Anzi, spesso sembrava sprezzante, ma nessuno ci faceva caso. Paul non era alla sua altezza. Ma vede, l'adolescenza è una fase turbolenta, vero? Sto già facendo di una mo-
sca un elefante.» «Quali erano i sentimenti di Paul?» «Non me ne ha mai parlato, se non come parte della splendida gioventù che ora vuole trasformare in un documentario per la televisione.» «Crede che sia davvero questo il suo stato d'animo?» «Forse è il suo stato d'animo attuale. Non penso che fosse molto contento all'epoca, almeno non durante quell'estate.» «Tutto qui?» «Sì.» Udii un sospiro spazientito alle mie spalle. «Jane, mi ha gettato un osso. Ma non è questo che voleva dirmi.» Rammentai la volta che, da bambina, ero su un trampolino altissimo, e l'unico modo per osare tuffarsi era saltare senza indugio o preparazione. «Il momento critico di quell'estate (ci sono stati molti momenti critici, ma quello lo è stato in particolare) è stata l'infedeltà di Alan.» «Sì?» Be', che importanza aveva? «È un segreto di Pulcinella che Alan avesse l'abitudine di tradire Martha. È il vecchio cliché noioso. Alan ama Martha e dipende da lei in tutto e per tutto. Ma, a quanto ne so, ha iniziato ad avere delle avventure quasi subito dopo il matrimonio. Suppongo che si sarebbe comportato così in ogni caso, ma quando è uscito The Town Drain e Alan è diventato famoso, è stato necessario respingere con le maniere forti le donne giovani e disponibili degli ambienti letterari.» «Martha sapeva di quelle scappatelle?» «Credo di sì, in teoria. Non era qualcosa di palese. Succedeva e basta, una volta dopo l'altra. Nessuno menzionava quelle storie. Non erano importanti. Penso che fosse quella la versione ufficiale.» «Martha ne era addolorata?» «Credo che tutti lo sarebbero, non trova? Martha è una donna saggia, e suppongo abbia capito subito com'era Alan e si sia resa conto di non poterlo cambiare. Ma forse è stata troppo saggia e non abbastanza vendicativa. Sono sicura che ha sempre sofferto molto.» «Ne eravate tutti a conoscenza?» «Non proprio. Ripensandoci, alcune cose sono diventate chiare solo quando abbiamo mangiato la foglia. Forse per lei sarà difficile da comprendere, ma è possibile sapere e non sapere una cosa al tempo stesso. Capisce che cosa intendo?»
«Altroché.» «Comunque, la verità sul comportamento di Alan è diventata innegabile. Per riassumere questa sordida storia, abbiamo scoperto che l'estate precedente era stato a letto con un'amica mia e di Natalie. Aveva la nostra età. Si chiamava Chrissie Pilkington, era figlia di una famiglia del posto, buoni amici dei Martello, ed era una compagna di scuola di Natalie. È stato terribile.» «Come l'avete scoperto?» «La ragazza l'ha raccontato a Natalie. Natalie l'ha raccontato a me. È stata una cosa davvero insolita, perché abbiamo trascorso un intenso pomeriggio a parlarne. Penso di essere rimasta più esterrefatta di Natalie... Non pareva sorpresa, ma pareva, be', disgustata, suppongo. Ha fatto commenti molto crudeli su di lui, sulla sua pancia e sul suo alito puzzolente di birra. Ricordo che lo imitò da ubriaco. Ma poi, in seguito, non ha mai più accennato all'argomento, e nemmeno io. Credo di aver intuito che era vietato.» «Ha detto qualcosa ad Alan? O a Martha?» «No, a essere sincera, non sembrava mai il momento giusto. Ma l'ho riferito a Theo. Immagino che noi giovani lo sapessimo quasi tutti.» «Che cosa è successo? Come ha reagito lei, Jane?» «Che cosa è successo? Veramente, non saprei, si è perso tutto nel caos della scomparsa di Natalie. I flirt di Alan non duravano mai a lungo, e probabilmente ha sfruttato la tragedia per darci un taglio.» «E che cosa ha provato lei?» «Diverse emozioni. È sempre stato così nei confronti di Alan. A volte lo considero soltanto un orribile stronzo opportunista, capace di fare qualsiasi cosa purché sia quello che desidera in un dato momento. A volte lo considero soltanto patetico e debole, qualcuno da accudire e sopportare. E a volte lo considero persino come lo considera chi non lo conosce di persona: il buon vecchio Alan, incorreggibile, un po' irriverente e chiassoso, ma inimitabile, siamo fortunati ad averlo. Quando mi sento solidale con Martha, provo parecchia ostilità, ma lei ha un atteggiamento molto stoico.» Tacqui. Avevo la mente vuota. Ero esausta. Alex rifletteva. «Mi perdoni se sono stato burbero, Jane» si scusò. «In effetti, è stato un po' burbero.» Alzatosi, trascinò la poltrona davanti al lettino. Scorsi i solchi delle rotelle nella moquette. Era forse la prima volta che qualcuno la spostava? «Jane, abbiamo quasi finito, e so che è spossata, ma vorrei fare un esperimento. Avevo intenzione di riservarlo alle sedute successive, ma forse
vale la pena tentare subito.» «Di che cosa si tratta?» «Abbia un attimo di pazienza, Jane. Voglio che sia lei a guidare il processo. Voglio seguire gli indizi che mi fornisce. Ora, parleremo di molte cose, mi auguro, ma ho la sensazione che il buco nero al centro di tutto sia il giorno della scomparsa di Natalie, quella concomitanza, o quasi concomitanza, in cui non vi siete incontrate per un soffio.» «Sì. E allora?» «È un argomento su cui vorrei tornare.» «Temo che non ci sia granché su cui tornare. È capitato tanto tempo fa.» «Sì, me ne rendo conto. Ma tentiamo ugualmente. Le farà bene in ogni caso. Proviamo una specie di esercizio. Vorrei che si stendesse, che si stendesse per bene, e chiudesse gli occhi, e vorrei che rilassasse ogni parte del suo corpo, a partire dai piedi e dalle gambe, su fino al busto, alle braccia e infine al viso e alla testa. Che cosa gliene pare?» «Mmmh.» Ormai la voce di Alex era quasi un brusio lontano, come il ronzio delle api fuori da una finestra. «Ora, Jane, senza aprire gli occhi, visualizzi la scena lungo il fiume il giorno in cui Natalie è sparita. Non voglio che la descriva, non voglio che la guardi. Vorrei che immaginasse se stessa lì, seduta sulla riva. Si inserisca in quel contesto. Ci riesce?» «Sì.» «Ora si trova lì, con la collina alle sue spalle, vero?» «Sì.» «Me la descriva.» «Sento le rocce di Cree's Top dietro di me. A destra c'è il bosco. Il bosco che si stende tra il ruscello e la Fattoria. Il Col è alla mia sinistra. Lo vedo scorrere via da me. Lo so grazie ai pezzi di carta appallottolati che vi butto dentro. Si allontanano, e appena imboccano l'ansa cominciano a sobbalzare tra le piccole rapide, be', a dire il vero nell'acqua poco profonda costellata di sassi, quindi scompaiono.» «Com'è il tempo?» «Caldo. Molto caldo. Metà pomeriggio. Sono all'ombra sotto un filare di olmi che si allungano alla mia destra segnando il confine del bosco. La roccia dietro di me è fresca.» «Sta facendo qualcosa?» La mente mi si svuotò, e balbettai qualche parola.
«Basta così Jane, apra gli occhi. Ci fermiamo qui.» Feci per alzarmi. «A proposito» aggiunse, «dovrei sapere perché il romanzo di Alan Martello si intitola The Town Drain? È una citazione o qualcosa di simile?» «Non l'ha letto?» «È sulla mia lista.» «Credevo che l'avessero letto tutti. Il titolo deriva da una frase che il reverendo Spooner avrebbe detto a uno dei suoi studenti. Era celebre per la sua abitudine di storpiare le parole, e una volta, riferendosi al treno che porta da Oxford a Londra, disse town drain anziché down train.» «Suppongo che la battuta funzioni solo se si è letto il libro.» «Non è proprio una battuta, dovrebbe rappresentare una specie di disillusione alla Brideshead, come nel romanzo di Evelyn Waugh.» «Be', grazie per la lezioncina, Jane. Forse dovrei essere io a pagare lei.» Inarcai un sopracciglio. «Questa è una battuta» si affrettò ad aggiungere. CAPITOLO 12 Quando eravamo piccole, a otto o nove anni, io e Natalie restavamo stese a letto nell'oscurità e fantasticavamo su come saremmo state da grandi. Riesco ancora a vederla, che si abbraccia le ginocchia coperte dalla camicia da notte. Saremmo state entrambe bellissime e venerate, e avremmo avuto tanti bambini. Saremmo sempre state amiche e ci saremmo fatte visita a vicenda nelle rispettive case di campagna. Tutto era possibile. Quando dichiaravo di voler fare la cantante, non mi sfiorava neppure l'idea di avere una voce simile al gracidio di una rana. Un gracidio stonato. Mia madre mi suonava qualche nota sul malconcio pianoforte verticale che papà avrebbe venduto dopo la sua morte, e io cercavo di riprodurle. Quando l'espressione di incoraggiamento sul suo viso scarno non vacillava, bensì restava lì come un'allegra bandiera che segnalava pazienza, capivo di aver fallito. Avevo rinunciato alle aspirazioni canore, iniziando a concentrarmi sulle cose in cui ero brava: il disegno, la scrittura, i numeri. Che cosa potevo fare con i numeri? Prima di compiere dieci anni, avevo deciso di diventare architetto, come mio padre. Costruivo modelli con vecchi scatoloni e disegnavo progetti impossibili sulla carta millimetrata che sgraffignavo dalla sua scrivania. Creavo palazzi futuristici con le scatole vuote dei fiammiferi. Quello era diventato il mio territorio, il luogo che nessun altro poteva
invadere. All'inizio Natalie aveva affermato di voler fare la ballerina classica, poi l'attrice, poi l'annunciatrice televisiva. Voleva che gli altri la vedessero, la guardassero. Crescendo, aveva trascorso lunghe ore a rimirarsi davanti agli specchi, a fissare il suo volto pallido, a essere spettatrice di se stessa. La sua non era tanto una manifestazione di vanità quanto un'autovalutazione distaccata che appariva snervante a un tipo come me, per cui gli specchi erano fonte di rimprovero o sporadica consolazione. Pensai a Natalie mentre sceglievo che cosa indossare. Il sergente investigativo Auster sarebbe venuto a trovarmi in ufficio. Poi avrei pranzato con Paul. Mi sarebbe dispiaciuto, mi aveva domandato con nonchalance, se ci fosse stata anche un'assistente alle ricerche? Avevano accettato la sua proposta, il documentario per la TV procedeva, il direttore commerciale gli stava con il fiato sul collo e aveva già trovato uno spazio nella programmazione primaverile. Mi misi un gilet nero sopra una camicetta di seta bordeaux, mi infilai un paio di pantaloni neri attillati e rovistai alla ricerca degli stivali neri. Sì, mi dispiaceva. Il panico mi tormentava da quando avevo saputo della gravidanza di Natalie. Talvolta faticavo a respirare. Pedalavo lungo le strade di Londra, pensando: «Vedendomi, nessuno immaginerebbe che vivo oppressa dal terrore». Il mio era un travestimento. Quando, in piedi nella sua anticamera, avevo raccontato a Kim della gravidanza di Natalie, gli occhi le si erano riempiti di lacrime. «Povera piccola» aveva commentato, e la sua compassione spontanea mi aveva stupita e colmata di vergogna. Avevo tentato di risolvere un problema tecnico. Ma avevo davvero preso in considerazione la mia amica d'infanzia? Avevo provato a immaginare che cosa doveva aver passato? Kim aveva interrotto la mia fantasticheria. «Sai, c'è stato un periodo in cui ho cercato di rimanere incinta. Quando stavo con Francis.» «Non lo sapevo.» «Ci sembrava una buona idea. Non abbiamo concluso niente. Abbiamo sperimentato qualche metodo, ci siamo sottoposti entrambi a esami che si sono rivelati inutili. Comunque, ormai è sposato e ha due figlie. Buffo, vero?» «Perché non me l'hai mai detto, Kìm?» «Te lo sto dicendo adesso. Voglio assicurarti che puoi appoggiarti a me perché puoi stare certa che io mi appoggerò a te.» «Ma non ti sei appoggiata a me.»
«Non essere sciocca, Jane, sono sempre dipesa da te.» Ci eravamo abbracciate e l'avevo lasciata sulla soglia notando il suo indecifrabile sorriso impacciato, ma non ero soddisfatta della nostra conversazione. Avevo ripensato alla nostra amicizia fatta di pranzi, lunghe passeggiate, week-end fuori città e tazze di tè in bar senza pretese. Aveva ragione lei? Mi ero domandata se la nostra relazione fosse consistita nella mia ricerca di conforto e nella sua disponibilità a offrirmelo. Persino la sua rivelazione, tanto tempo dopo che aveva cessato di essere importante, mi era sembrata una concessione per incoraggiarmi a dipendere da lei. Pedalando lungo l'alzaia del canale, immaginai una versione del nostro rapporto in cui io ero sempre quella che sbagliava e aveva bisogno d'aiuto, e Kim era sempre lo spirito libero indistruttibile. Era così che funzionavano anche le amicizie più intime? Uno che dava e uno che prendeva? Questa volta Helen Auster era sola. Salì le scale dello studio con un'aria così imbarazzata da fare tenerezza, ansimando per lo sforzo e il peso della sua voluminosa tracolla. Dopo averle stretto la mano, la accompagnai fino alla mia scrivania. Restò subito colpita dalla vista: le indicai la banchina più giù, accanto al canale, mostrandole la direzione di casa mia, quindi la condussi sull'altro lato per additare la torre sopra l'Isle of Dogs, che, osservai, bastava chissà come a rendere frivolo l'orizzonte di Londra. «Mi piace» disse. Versai due caffè e sedemmo al mio tavolo. «Di che cosa vuoi discutere?» domandai. «Parlare con la polizia mi fa sempre sentire in colpa.» «Non penso che questo sarà un incontro di quel genere» replicò. «Dev'essere difficile riaprire le indagini su un omicidio dopo un vuoto di venticinque anni.» «Detto tra noi» confessò, «stiamo ricominciando da capo. All'epoca la Divisione investigazioni criminali aveva continuato a considerare Natalie una fuggitiva. Perciò» diede un colpetto alla borsa strapiena «adesso abbiamo cambiato ottica.» Dopo aver aperto la cerniera ed estratto una sottile cartellina, mi allungò due serie di fogli fermati da punti metallici. «Queste sono due liste di nomi» spiegò. «La prima elenca le persone presenti alla festa per Alan e Martha Martello sabato 26 luglio 1969. La seconda, le persone presenti (cioè alloggiate nel casale o nei dintorni, oppure semplicemente in visita per quella giornata) l'indomani, domenica,
quando Natalie è stata avvistata per l'ultima volta.» Diedi una scorsa agli elenchi. Erano lunghi pagine e pagine. «È straordinario» commentai. «Come avete fatto a risalire a tutti questi nomi? C'era una lista degli invitati?» «No, abbiamo interrogato vari membri della famiglia. Ci è stato di aiuto soprattutto Theodore Martello. L'ho già incontrato diverse volte. Ha una memoria da elefante.» Era arrossita? «Su questo non c'è dubbio. Qui compaiono persone che avevo completamente dimenticato. Non credo di aver più visto William Fagles dopo il party. Qui c'è scritto che ora i Courtney vivono a Toronto. Erano i genitori di una delle migliori amiche di Natalie. Posso avere una copia di queste liste?» «Sono quelle le tue copie. Se potessi dare un'occhiata, magari ti rinfrescherebbero la memoria. Noterai che alcuni degli ospiti sono stati identificati solo con il nome di battesimo, e magari sarai in grado di aggiungere il cognome. Forse te ne verranno in mente anche altri.» «Be', tanto per cominciare, questo Gordon dev'essere Gordon Brooks. Era amico dei gemelli.» «Non ho ancora esaminato l'elenco con loro. Ma scrivilo pure.» «Sembra un lavoro noiosissimo.» «È più emozionante di quello che stanno facendo alcuni dei miei colleghi, te lo garantisco.» «Hai già parlato con Alan?» «Sì, certo» rispose. «Ti mostro che cosa sto leggendo.» Infilò la mano nella borsa e tirò fuori un'edizione Penguin nuova fiammante di The Town Drain. «Ti piace?» «È meraviglioso. Non che capisca granché di letteratura... ma lo trovo molto bizzarro. Oggi Alan Martello è talmente misurato che è difficile immaginarlo mentre scrive qualcosa di così... be', irrispettoso.» «Non penso che sia poi tanto misurato.» «È stato piuttosto aspro con me quando gli ho domandato che cosa sta scrivendo al momento. Siete una famiglia particolare, vero?» «A quanto pare, è quello che credono tutti. Se hai intenzione di leggere tutti i libri scritti dai membri della famiglia, dovrai prendere un'aspettativa dalla polizia. Tanto per cominciare, ci sono tutti i volumi per ragazzi illustrati da Martha. Alcuni sono davvero magnifici. Martha ha lavorato con costanza e serenità per tutto il tempo in cui Alan è stato affetto dal suo
chiassoso e teatrale blocco dello scrittore.» «Credo che per adesso mi limiterò ad Alan Martello. Gli altri suoi libri sono altrettanto belli?» «Ha pubblicato solo un altro romanzo e un paio di antologie di racconti. Niente dello spessore di The Town Drain. Ma non azzardarti a spifferargli che te l'ho detto.» Per qualche istante chiacchierammo di altri argomenti. Helen mi domandò dell'architettura, e io le domandai perché era entrata nella polizia. Mi raccontò di aver studiato fisica all'università, di aver immaginato una vita trascorsa in un laboratorio di ricerca e di esservisi ribellata all'improvviso. La ammirai per quella decisione. Bevve quanto rimaneva del suo caffè. «È meglio che tolga il disturbo» annunciò. «Dopo che avrai dato un'occhiata a quei fogli, possiamo rivederci, se ti va. Vengo a Londra piuttosto spesso in questo periodo.» «A tuo marito non dispiace?» «Lui lavora più di me.» La accompagnai fino alle scale. Non potei fare a meno di dire qualcosa. «Helen, ventìcinque anni sono tanti. Ha senso tutto questo?» «Certo.» «Pensavo che sareste riusciti a effettuare un test del DNA sul... sai, sul bambino, ma Claud dice che è impossibile dopo tutto questo tempo.» Sorrise. «È vero.» «Quindi non ci sono prove legali.» «Esiste un altro paio di possibilità. Ma, come ci ripete sempre il nostro capo, niente sostituisce le buone vecchie indagini di polizia. Ciao, Jane, a presto.» Mio padre si rifiutava di avere a che fare con il documentario. Paul l'aveva supplicato e minacciato, e aveva persino mandato Erica a perorare la sua causa con il pretesto di portargli qualche bulbo per il giardino. Io, invece, non ero neppure stata sfiorata dall'idea di piantare in asso mio fratello. Pedalai velocemente tra l'aria umida che andava trasformandosi in pioggerella fino al ristorante di Soho scelto da Paul. L'assistente alle ricerche era una giovane di nome Bella, molto alta e magra, con una nuvola di capelli rossi e grandi occhi adoranti, truccati con l'ombretto e sempre puntati su Paul. Fumava acri sigarette, accendendone una con la precedente, beve-
va acqua minerale e piluccava un'insalata. Davanti a una porzione di uova in camicia, domandai a Paul chi altri intendeva vedere. «Sai che papà non vuole parlarmi?» Annuii. «Alan, invece, è stato grandioso. L'ho già incontrato due volte. Mio Dio, lui sì che ci sa fare con le parole. Si è fatto crescere barba e capelli, sai, e ha un aspetto sparuto e selvaggio. Ha citato qualche verso poetico e si è dilungato sul fatto che i più deboli sono i più forti, o qualcosa di simile, e quando ha descritto le nostre estati insieme, è stato come sentir leggere un romanzo ad alta voce.» Feci una smorfia. «È così che ha trascorso gli ultimi vent'anni, cianciando del suo libro in pub e ristoranti.» Paul, impegnato a intingere il pane integrale nel tuorlo e a bere una sorsata di vino rosso, mi ignorò. «Non si è soffermato a lungo su Natalie, ma mi ha dato alcune fotografie. Martha non ha detto chiaro e tondo di non volermi parlare, ma quando ho acceso il registratore e le ho fatto qualche domanda, si è limitata a sorridermi (quel suo sorriso triste e sfuggente) e a scuotere la testa. Non ha l'aria di una donna felice, Jane.» «Sta male» replicai. «E gli altri?» «Contribuiranno tutti quanti. Tutti vogliono apparire in televisione. Theo si considera molto telegenico. Alfred e Jonah non stanno più nella pelle. Claud si è mostrato disponibile.» Mi lanciò un'occhiata di traverso, e anche Bella mi guardò con curiosità. «Sarà interessante, Jane. E anche fantastico, credo. Saremo come i Walton.» «Penso che berrò un po' di quel vino» dissi. «Allora, che cosa vuoi domandarmi?» Bella si piegò in avanti, azionando il registratore. «Non le dispiace?» fece, ma era una domanda retorica. Sarei apparsa in TV. Perché avrei dovuto oppormi? È strano, anzi preoccupante, essere disposti a parlare con un registratore e con un potenziale pubblico formato da milioni di estranei innocui e non essere disposti, o capaci, di parlare con un amico o un fidanzato. O un fratello. Paul mi interrogò sui miei ricordi della Fattoria («Esponili a caso, come ti vengono in mente» mi invitò) e, mentre il nastro girava e la penna di Bella graffiava con foga il bloc-notes, ripescai immagini che non sapevo di aver conservato. Il croquet sul prato, le partite di rimpiattino, le spedizioni nei boschi capeggiate da Claud, i banchetti segreti a mezzanotte con il cibo rubacchiato dalla generosa dispensa del casale. Il cane da riporto dei Martello (si chiamava Candy?) che, con la sua bocca flaccida e gocciolan-
te, correva goffamente nel fiume a recuperare i bastoncini. I lamponi che raccoglievamo sotto una rete verde nei pomeriggi torridi, i giorni trascorsi a preparare le marmellate (more, prugne, fragole, mirtilli, damaschine, uva spina), il sole cocente che ci costringeva a spalmarci la crema sulle spalle a vicenda, i pranzi rumorosi durante i quali tutti ci davamo delle arie e Alan ci incoraggiava. Rammentai le aurore, quando la rugiada copriva ancora l'erba, e le lunghe serate, quando gli adulti cenavano e noi udivamo il tintinnio dei coltelli sui piatti e il brusio delle conversazioni, poi ci infilavamo gli stivaloni di gomma sulle gambe nude e correvamo in giardino fino all'altalena sotto l'enorme faggio rosso. In quei flash noi bambini ci muovevamo in gruppo, i grandi restavano sempre sullo sfondo, e c'era sempre il sole. Non era proprio quel che cercava Paul. «È curioso» commentò «che ricordi soltanto la prima infanzia. Ma che cosa mi dici di quando eri adolescente?» A un tratto il vino mi si inacidì in bocca. Perché lo assecondavo? Volevo smettere. «Preferisci discutere dell'estate in cui è scomparsa Natalie? È questo l'aspetto su cui vuoi concentrarti?» «Parlane solo se ti va.» «Rammento il tuo dolore, Paul. Rammento di averti osservato mentre lei ti umiliava, di essermi domandata che cosa fare e...» «Di che cosa stai blaterando?» mi interruppe, brusco, e Bella spense il registratore e posò la penna. «Che cosa credi di fare, Jane?» «Che cosa intendi?» «Non fingere di cadere dalle nuvole. Sai benissimo che cosa intendo. Stai distruggendo il ricordo di proposito. Non è vero?» «No» risposi. Spinsi via il piatto, sorseggiai dell'altro vino e mi accesi una sigaretta. Ormai ero un po' meno vulnerabile, un po' meno sedotta dalla tenue luce dorata del mio passato immaginario. «Vuoi ignorare la tua cotta per Natalie e la sua crudeltà nei tuoi confronti? È stato complicato, vero? C'eravate tu e Natalie, e poi Natalie e Luke, io e Theo, e poi io e Claud, e c'erano i gemelli con tutte le loro stranezze e i loro scherzi sciocchi, e c'era Alan che si scopava le ragazzine mentre Martha ci cucinava i pasti e ci incerottava le ginocchia, e c'era la mamma con la sua infelicità, e chissà come si sentiva nostro padre. «E poi ricordo» ormai non riuscivo più a fermarmi, le parole mi sfuggivano dalle labbra «ricordo che quando io avevo sedici anni e tu diciotto Natalie è sparita. La definisci la fine della nostra innocenza. Forse è un'ottima trovata televisiva. Ma ci credi davvero?»
A un certo punto Paul aveva riavviato il registratore. Notai che era dibattuto tra la confusione personale e l'interesse professionale. Benissimo, non avevo disatteso le sue aspettative. Quindi dissi qualcosa di terribile. Le parole mi uscirono di bocca e restarono sospese tra noi come una spada prima ancora che le pensassi: «E tu, Paul, quando hai visto Natalie per l'ultima volta?» Per mia sorpresa, non reagì con ostilità. Mi guardò per qualche secondo, studiandomi, poi si appallottolò un po' di mollica tra le dita prima di chinarsi verso l'apparecchio e parlarvi direttamente dentro: «Non ricordo. È stato tanto tempo fa». Ordinammo il caffè, e io e Bella fumammo un'altra sigaretta. Paul rimase seduto tra due nuvole di fumo azzurrino, ponendomi altre domande, ma la vera intervista era finita. Ben presto indossai la giacca di pelle, baciai mio fratello sulla guancia, rivolsi un cenno di saluto a Bella e uscii. Londra era grigia e deprimente tra le raffiche umide, e i marciapiede erano costellati di cartacce. Una donna con un bambino mi chiese l'elemosina, e quando le diedi cinque sterline, ne pretese dieci. Che mondo schifoso. CAPITOLO 13 «Una piccola parte di Alan adora tutto questo.» Preparavo la cena per Kim, che era arrivata esausta dall'ambulatorio con due bottiglie di vino e alcune confezioni di formaggio molliccio. Il purè era pronto, l'insalata era condita, e un mazzo di fiori freschi troneggiava sul tavolo: avevo qualcuno per cui cucinare. Kim si era tolta le scarpe e camminava per la cucina in una sorta di torpore, sollevando i coperchi dei tegami e sbirciando nel frigorifero. Poiché ero stata al supermercato tornando dal lavoro, il frigo era abbastanza rifornito: finocchi, pasta fresca, vasetti di yogurt, una lattuga dal nome strambo, una bella fetta di parmigiano, una confezione di salmone affumicato, pomodori con sfumature rosse dall'aria sospetta. Avevo deciso di fare la brava. Basta con quelle cene che andavano soltanto accese e aspirate. Quasi tutte le mattine andavo a nuotare mentre mi recavo in ufficio; quasi tutte le sere consumavo un pasto come si doveva. «In che senso?» Stappò una bottiglia e versò due bicchieri di vino. Ne bevvi una sorsata, quindi gettai qualche cipolla tagliuzzata in una padella e cominciai a estrarre la disgustosa poltiglia di un calamaro con il dito.
«Be', suppongo che sia distrutto. Ma hai letto l'intervista sul "Guardian"? Che roba! E Paul mi ha telefonato poco fa per dirmi che l'hanno appena fotografato per una rivista femminile. Vogliono pubblicare un importante servizio sui figli morti dei personaggi famosi.» «Non ci sono problemi» commentò, sarcastica. «Solo opportunità.» «È la storia che propini ai tuoi pazienti, vero? Allora l'opportunità più allettante di tutte è quella di domani sera presso l'Istituto di arti contemporanee, parte della stagione sui "Vecchi arrabbiati"; un dibattito tra Alan Martello e Lizzie Judd. Sai, la docente universitaria che è diventata celebre grazie al volume Sitting Uncomfortably, un clamoroso attacco contro C.S. Lewis, Roald Dahl e altri scrittori per l'infanzia. È una belva inferocita.» «Hai intenzione di andarci?» «Certo. È come una corrida, giusto? Si dice che valga la pena vederne almeno una nella vita. Non so se Alan si presenterà in versione gentiluomo galante o rivelatore di verità sbalorditive, ma entrambe saranno disastrose.» «Non preoccuparti, Jane, la gente si divertirà. Assomiglierà a un combattimento tra cani e orsi in chiave moderna, proprio il genere di cose per cui Alan va matto.» «Non sarà altrettanto spassoso per la nuora dell'orso.» Kim aveva conosciuto un uomo, appresi davanti al piatto di calamari. Si chiamava Andreas. Aveva sei anni meno di lei e faceva il musicista. Era basso, attraente e romantico, e il loro primo appuntamento era durato un intero week-end, interrotto solo quando Kim era stata buttata giù dal letto per una visita a domicilio. Avevo sempre invidiato la sua vita sessuale; la varietà, l'entusiasmo, i numeri puri e semplici. Una delle sue qualità più interessanti come amica era la disponibilità a descrivere quello che faceva in concreto sotto le lenzuola con quei tizi. Avevo sempre avuto così poco con cui contraccambiare. Quando ipotizzai con scarsa convinzione che potesse tramutarsi in qualcosa di serio, liquidò come sempre il mio commento agitando la mano. «Ti manca Claud?» domandò, mangiando il formaggio. Che cosa potevo rispondere? Sapevo che Kim non avrebbe usato la mia confusione contro di me. «Mi manca una parte della mia vita, ma al tempo stesso volevo anche liberarmi di quella vecchia intimità. Forse sono un po' spaventata da quello che ho fatto, ma in un certo senso sono anche emozionata.» Tacqui per raccogliere le idee. «Ho l'impressione che stia accadendo qualcosa di deci-
sivo nella mia esistenza, ma al momento mi sembra di trovarmi nel posto sbagliato. Vorrei quasi seguire la polizia passo passo, collaborare. Sento di dover fare qualcosa per scoprire com'è morta Natalie. Devo sapere che cosa è successo.» «Ma dev'essere stato l'ex fidanzato, giusto?» «Ti riferisci a Luke?» «Sì, e la polizia lo tiene d'occhio.» «Lo stanno interrogando.» «Allora ho ragione io. Luke l'ha messa incinta, hanno litigato e lui l'ha uccisa, magari per errore. Poi l'ha sotterrata.» «Nel giardino di Alan e Martha. Proprio accanto alla casa.» «La gente non compie azioni logiche dopo aver ammazzato qualcuno. Ti ho mai raccontato di quel mio paziente che ha fatto fuori la moglie? Ha smembrato il cadavere e ha spedito i pezzi alle filiali della Barclays Bank di tutto il mondo.» «Sembra una trovata geniale.» «Solo che ha scritto il suo indirizzo sulla dichiarazione della dogana.» «Perché?» «Secondo il suo psichiatra, voleva che lo catturassero.» «Questa storia è vera?» «Certo. A ogni modo, l'inverosimiglianza non discolpa Luke né nessun altro. Qualcuno deve pur averla seppellita lì.» «Già» ammisi. «Solo che così tutti i possibili indiziati sono meno probabili.» Si dice spesso che, se le impiccagioni pubbliche venissero reintrodotte, attirerebbero le moltitudini. L'Istituto di arti contemporanee era gremito. Gli spettatori erano perlopiù giovani. Gli operatori sistemavano le telecamere vicino al palco, e un omone con occhiali rotondi dalla montatura metallica come quelli di Bertolt Brecht camminava qua e là con un portablocco. Mi feci strada lungo la fila verso i due posti liberi al centro. Theo non era ancora arrivato. Il tizio seduto accanto a me era quasi nascosto da un enorme cappotto di tweed. Gli schiacciai un piede, inciampando in un sacchetto di plastica sul pavimento. «Mi scusi» dissi con stizza, e lui mi rivolse un breve cenno del capo prima di tornare a fissare il soffitto. Theo arrivò. Con il completo nero e la ventiquattrore appariva formale e fuori luogo. Mi baciò sulla guancia, mormorando: «Ho appena visto Alan.
È ubriaco». «Ubriaco?» ripetei con voce strozzata. «Pieno d'alcol fino al buco del culo.» «Come sarebbe a dire, ubriaco? Il dibattito inizia tra circa un minuto.» «Riesce ancora a parlare» replicò. «La signora Judd faticherà a zittirlo.» Gemetti. Perché ero venuta? Uno o due minuti dopo le otto, Lizzie Judd salì sul palco con decisione, una donna dalla bellezza austera con indosso un aderente tailleur grigio. Si era tirata indietro i capelli biondi, non aveva trucco né gioielli e non si era portata alcun appunto. Si accomodò su una delle due sedie e si versò un bicchiere d'acqua. Poi Alan fece il suo ingresso con passo baldanzoso, come se stesse per partecipare a un talk show. «Come si è vestito, Theo?» bisbigliai. Conoscevo già la risposta. Alan portava una giacca da camera di velluto che talvolta usava a casa la sera. Sulla testa brizzolata sfoggiava un cappello di feltro. Mi rammentava un poster di Toulouse-Lautrec che avevo appeso alla parete di uno dei miei monolocali da studentessa. Avvertii un'ondata di affetto per quel vecchio truce e privo di dignità. Non molti applaudirono, anche se il tipo accanto a me si unì al battimani. Alan si lasciò cadere sulla sedia vuota di fianco a Lizzie Judd. Teneva in mano un bicchiere pieno per tre quarti di un liquido color whisky. Sorseggiandolo, lasciò scorrere lo sguardo sulla sala. Lizzie Judd espresse il suo rammarico («e, ne sono certa, anche quello del pubblico») per la scoperta dei resti di Natalie. Fece un riassunto sbrigativo di The Town Drain («Antiromantico... la tradizione del realismo comico... ceto mediobasso... essenzialmente maschile»). Elencò i suoi successori, molto meno noti, in un'unica frase e concluse annunciando che più tardi avremmo senz'altro discusso del lungo silenzio editoriale di Alan. «Signor Martello» esordì. «Mi chiami Alan» la interruppe. «D'accordo, Alan. John Updike sostiene che non c'è alcun bisogno di scrivere romanzi divertenti. Qual è il suo parere?» «Chi è John Updike?» domandò Alan. La donna sembrò un po' sbalordita. «Prego?» «È americano?» «Sì.» «Questo spiega tutto.»
«È questa la sua risposta?» Quando Lizzie formulò quella domanda, Alan era appoggiato allo schienale (notai che aveva i calzini di colori diversi). Si raddrizzò piano, bevve qualche sorso di whisky e si chinò verso la sua interlocutrice. «Ascolti, Lizzie, ho scritto un ottimo romanzo, cazzo. Un ottimo romanzo, cazzo. Ne ha portata una copia? No?» Si rivolse al pubblico. «Qualcuno ce l'ha?» Nessuno rispose. «Aprite tutti quanti la vostra copia di The Town Drain alla pagina del copyright, e vedrete che è stato ristampato anno dopo anno dopo anno. Pare che faccia ridere la gente. Perché mi dovrebbe interessare l'opinione di un ipocrita americano?» Lizzie Judd conservò una calma glaciale. «Forse dovremmo proseguire» decise. «Di recente i suoi romanzi hanno suscitato alcune critiche femministe.» Alan sbuffò. «Prego?» domandò lei. «No, è tutto a posto, continui.» «Qualcuno ha affermato che nella sua narrativa le donne compaiono come bisbetiche o come prosperosi oggetti dell'attenzione sessuale dei protagonisti. Persino alcuni dei suoi ammiratori sostengono che, a distanza di quarantacinque anni, il sessismo dei suoi romanzi resta un problema.» Alan ingollò una lunga sorsata di liquore che gli impedì di parlare per un bel pezzo. «Perché dovrebbe essere un problema?» domandò dopo aver deglutito per l'ultima volta. «Sono contento che siano ancora sexy. C'è qualcosa di male nel giudicare sexy le donne prosperose? Questa sì che è bella.» Mi presi la testa fra le mani. Udii un risolino soffocato accanto a me. Non proveniva da Theo, bensì dall'uomo sull'altro lato. Alan aveva taciuto, probabilmente per godersi quel silenzio imbarazzato. Lizzie non fiatò, trepidante. «Stavo solo scherzando, Lizzie. Non devo parlare di cose come le donne prosperose, vero? Non è permesso. Sta dicendo che odio le donne, Lizzie cara?» «Perché crede che voglia dire questo?» «È quello che dicono le persone come lei. Stiamo parlando di me o stiamo parlando dei miei libri, Lizzie? Io adoro le donne. Adoro scopare. O almeno lo adoravo, quando ce la facevo ancora. È questo che voleva sentire? Ora, possiamo passare al mio romanzo?» Ormai avevo la testa tra le ginocchia, e cominciai a pensare di tapparmi
le orecchie. Udii uno scalpiccio. Che Alan si stesse alzando? «L'ho scritto con il cuore.» Un pugno batté contro un petto. Amplificato fino all'inverosimile dal microfono, sembrò un ariete contro la porta di un castello. «L'ho scritto quando ero giovanissimo, e non me ne frega un cazzo di chi lo usa per rimuginare su quello che Alan Martello pensa delle donne. Cazzo, sono stufo, stufo e ancora stufo delle discussioni secondo cui un romanzo è migliore di un altro perché è più educato.» Il pubblico fu percorso da un brusio nervoso. Alzando lo sguardo, mi ritrovai nel bel mezzo di una foresta di braccia alzate. Lizzie Judd indicò una giovane donna seduta di lato. «Allora, secondo lei, la moralità non ha nulla a che vedere con il merito letterario?» «Oh, vaffanculo» la rimbeccò Alan. «Questo non è un dibattito della stramaledetta Oxford Union, vero? Pensavo fossimo qui per discutere dei miei libri. Oppure vogliamo parlare di sesso? Lizzie, vuole dirci che cosa fa a letto, e semmai con chi?» Ora si levarono urla da varie parti della sala. Lizzie Judd mantenne la calma mentre invitava al silenzio come l'arbitro di una partita di tennis. «Signor Martello, desidera proseguire questa conversazione?» Alan sollevò il bicchiere, quasi nel tentativo bizzarro e inopportuno di proporre un brindisi. «Io sì» rispose. Le mani si agitavano nell'aria. Un giovanotto pallido e snello si alzò, la sciarpa avvolta intorno al collo così tante volte da nascondergli quasi il viso. «Sono un uomo anch'io, signor Martello» esordì. «Davvero?» fece Alan, dubbioso. «Ma non appartengo alla sua generazione» continuò l'altro con voce tremante. «A mio avviso, le donne sono spesso state danneggiate dall'affetto che lei afferma di nutrire per loro, dalla sessualità predatrice che lei descrive con compiacimento. Il mondo cambierà mai se persone come lei, con una voce che gli altri ascoltano, conservano uno sciovinismo travestito da libertà letteraria?» Mormorii di approvazione attraversarono l'auditorio. La luce dei riflettori era caldissima. Alan sudava; Lizzie Judd era fresca come una rosa. «Razza di cretino borioso» lo insultò Alan, biascicando. «Se le donne si affidano a lei per essere difese, devono essere nei guai. Lei le incoraggia solo a essere delle vittime. A denunciare stupri e molestie a ogni piè so-
spinto. Maledizione.» «Bastardo» gridò una spettatrice dal fondo. L'indifferenza di Lizzie Judd era inquietante. «Questa è la sua posizione sulla questione dello stupro, giusto, signor Martello?» Dopo aver finito il whisky, Alan posò il bicchiere mancando di poco il tavolo, e il recipiente cadde frantumandosi sul palco. «Non diciamo stupidaggini» ribatté. «Balle! Le donne amano gli uomini forti e un po' di violenza. Si lamentano solo dopo. Lamentarsi le aiuta a stare meglio. Non sono disposte ad ammettere che a loro piace scopare come conigli. Non ho mai sentito una donna lamentarsi. Ma non dovremmo dirlo, vero? Non è politicamente corretto, giusto?» «Questa è la sua posizione di romanziere rispettato, allora?» domandò Lizzie Judd, mostrando qualche segno di preoccupazione per quanto stava scatenando. «Non sono un romanziere rispettato, cazzo» sbraitò Alan, farfugliando. «Non finisco un maledetto romanzo da trent'anni. Ma sì, non siamo assistenti sociali. Lavoriamo in un mondo in cui gli uomini insospettabili sono assassini e le donne vogliono essere scopate o violentate ma non conoscono la differenza. È il mondo dell'immaginazione, cazzo.» «Alcuni potrebbero affermare che esiste un continuum tra le fantasie volgari descritte in una narrativa come la sua e l'effettiva violenza subita dalle donne.» Alan si alzò sulle gambe malferme. «Vuole vedere un continuum? Glielo mostro io un continuum, cazzo.» Come un albero vacillante, si abbatté su Lizzie Judd, le mise una mano sul seno e la baciò rumorosamente sulla bocca stupefatta. Dovevano averle attaccato il microfono vicino al viso, perché lo schiocco riecheggiò forte per tutto l'auditorio. Registrai varie immagini simultanee. Le telecamere in azione. Le urla della folla. La gente che balzava in piedi e correva avanti. Alan che veniva strappato via da Lizzie Judd. Si scrollò di dosso qualcuno e iniziò a gridare: «Credete che non sappia nulla dello stupro? Mia figlia è stata stuprata e uccisa, e il colpevole è stato rilasciato. Si è appellato al diritto di non parlare, cazzo, si è rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda, e la polizia ha liberato uno stupratore e un assassino. Adesso potete crocifiggermi, cazzo». Continuò ad agitarsi e ad abbaiare frasi incomprensibili finché gli spettatori, che ormai affollavano gran parte del palco, lo bloccarono. Theo si
precipitò da quella parte, facendosi strada tra la calca verso suo padre. Lizzie Judd venne aiutata ad alzarsi, i capelli arruffati, il volto imbrattato di rossetto. Con una mano si copriva un occhio. Solo io restai al mio posto. Non riuscivo a muovermi. «Gesù Cristo» imprecai ad alta voce. «Un completo disastro, maledizione.» «Non è andata poi così male.» Mi girai, sbalordita. A parlare era stato il tizio accanto a me. «Aspetti un attimo. Ho appena visto mio suocero difendere lo stupro e aggredire una famosa femminista in presenza di un pubblico pagante. Per me non sarebbe potuta andare peggio di così.» «Stavo soltanto cercando di dire...» «Se ne vada.» Obbedì, lasciandomi sola. CAPITOLO 14 Scuola media Neville Chamberiain di Sparkhill. Un mostro di calcestruzzo grigio. Probabilmente costruita non più di vent'anni prima, ma già macchiata di umidità, come un'ascella sudata. Un centro per gli interrogatori di polizia della Germania orientale catapultato in un mondo di palazzi, tangenziali e tozzi edifici di mattoni rossi. Ero uscita di casa quando era ancora buio e adesso, mentre parcheggiavo lì davanti, non erano ancora le otto. Non c'era nessuno. L'abitacolo dell'auto, appannato e sempre più freddo, era deprimente. Non avendo nulla da leggere a parte un «A-z», attraversai la strada verso un minuscolo bar di fronte al cancello principale dell'istituto. Ordinai pancetta, uova fritte, pomodori grigliati e una tazza di tè color mogano. Quasi tutti i tavoli erano occupati da uomini in giaccone, e l'aria era umida e fumosa. Sbirciai la prima pagina del «Sun» tra le mani del tizio di fronte a me, domandandomi se la stampa si fosse occupata del fiasco di Alan. Alle otto e venti ero già fuori, intenta a camminare su e giù lungo il marciapiede per scaldarmi. Dieci minuti dopo lo vidi, in bicicletta. Nonostante il casco, i guanti pesanti e il lungo cappotto, il viso sottile e pallido di Luke era inconfondibile. Avvicinandosi al cancello, gettò la gamba destra oltre la sella con agilità e coprì gli ultimi metri in equilibrio sul pedale sinistro, sfrecciando tra i capannelli di studenti sempre più numerosi. Dovetti raggiungere di corsa l'altro lato della via per intercettarlo. Quando lo chiamai,
si voltò. Abbozzò un sorriso leggermente sarcastico, senza sembrare sorpreso. Toltosi il casco, si passò una mano guantata tra i lunghi capelli striati di grigio. «Non devi andare al lavoro?» Durante il tragitto, mi erano turbinati nella mente tutti i quesiti da porre a Luke. Ora che mi trovavo lì, era difficile trovare qualcosa da domandargli. «Possiamo parlare?» domandai. «Che cosa ci fai qui? Che cosa vuoi?» «Insomma, possiamo parlare in privato?» Una vena gli pulsava sulla tempia. Avvampò intensamente, e pensai che stesse per inveire contro di me, ma poi si guardò intorno e fece uno sforzo palese per controllarsi. «Seguimi» ordinò. «Posso concederti cinque minuti.» Incatenò la bicicletta a una rastrelliera e mi condusse oltre una pesante porta a battente. Percorremmo un corridoio riecheggiante la cui grigia aridità era attenuata dai dipinti e dai collage alle pareti. «Hai visto i quotidiani di oggi?» domandò senza girarsi. «No.» «Potrei citare Alan, sai.» «Forse perderesti.» Reagì con una risata asciutta e mi accompagnò in una stanza così angusta che, quando fummo entrambi seduti, per poco non ci toccavamo. Eravamo circondati da mensole di eserciziari nuovi fiammanti e risme di carta da disegno. «Allora?» fece. «Hai collaborato con la polizia?» Rise di nuovo, apparendo sollevato. «Tutto qui?» domandò. «Non hai niente in mano, vero?» «Be', hai collaborato oppure no?» «La polizia mi ha interrogato, il mio nome è comparso sui giornali. Temo di non essere molto interessato a discutere di questo argomento con te. Ascolta, non so che cosa stai tentando di scoprire, ma se intendi dimostrare qualcosa in base ad alcune fantasie infantili riguardo a Nat, scordatelo.» «Se il bambino non era tuo, di chi poteva essere?» Sembrava che non mi ascoltasse. «Mi sei sempre piaciuta, Jane. Gli altri, i fratelli di Nat, mi guardavano dall'alto in basso. Sono stato tanto ingenuo da credere che tu fossi diver-
sa.» «Mi intimidivi» replicai. «Parevi così sofisticato.» «Avevo un anno in più.» «Luke, dammi un motivo valido per convincermi che non sei stato tu.» «Perché dovrei?» Consultò l'orologio. «I cinque minuti sono terminati. Spero di non esserti stato utile. L'uscita, trovala da sola.» Sedetti in auto per qualche istante, quindi mi avviai piano verso l'autostrada finché scorsi una cabina telefonica. Chiamai Helen Auster a Kirklow e le domandai se potevo incontrarla subito, appena fossi riuscita a raggiungerla. Sembrò perplessa, ma accettò. La giornata si schiarì mentre mi dirigevo verso ovest da Birmingham, e, quando entrai nello Shropshire e filai tra le cime delle colline, il mio umore migliorò leggermente. La centrale di polizia era un imponente edificio moderno poco distante dalla piazza del mercato. Helen, che indossava un lungo cappotto, mi accolse alla reception e propose di fare una passeggiata. Parlando, vagammo tra le bellissime costruzioni di pietra tenera del centro. Faceva molto freddo, e non sapevo come mai fossi lì. «Tutto bene?» domandò Helen. «Sono appena stata da Luke McCann» risposi. «Dove?» «Alla sua scuola di Sparkhill.» «Perché?» «Hai letto i giornali? Hai visto che cosa ha combinato Alan all'Istituto di arti contemporanee?» Accennò un sorriso. La pelle chiara delle sue guance era arrossata per il freddo. «Sì, l'ho visto.» «È stato terribile, ma ritengo che Alan abbia ragione, e non so che cosa pensare di tutta la vicenda.» «Di Luke, vuoi dire.» «Sì» ammisi. «Ecco perché l'ho affrontato. Non avevo idea di che cosa gli avrei detto, ma mi è parso sconvolto.» «Non è naturale?» «Ascolta, Helen, so che non esiste un metodo scientifico capace di dimostrare la paternità di Luke, ma mi sono scervellata per trovare il modo di stabilire un legame. Ho pensato che potrei esaminare la lista degli invitati con te e individuare chi poteva conoscere Luke. Magari ha parlato con
qualcuno. Hai interrogato i genitori? Forse hanno qualcosa da dire.» Si guardò intorno. «Entriamo qui» suggerì, guidandomi in una sala da tè deserta dove ordinammo entrambe un caffè. Quando arrivò, lo sorseggiammo per un istante in silenzio, stringendo le mani gelate intorno alle tazze. Helen mi fissò con aria interrogativa, poi abbozzò un sorriso e disse: «Sì, hai ragione. Una delle basi del DNA si ossida, e i filamenti si sbriciolano. E il DNA estratto dalle ossa recuperate era contaminato al novantanove percento». «Non so di che cosa tu stia parlando.» «Non importa. L'impronta genetica è inutilizzabile in questo caso, ma esiste un'altra tecnica chiamata "reazione polimerasica a catena".» «Per me è arabo.» «È una tecnica per amplificare piccolissime quantità di residui umani. Naturalmente, i filamenti di DNA sono sempre spezzati, ma vi sono moltissime ripetizioni nella sequenza. E queste piccole ripetizioni sono caratteristiche ed ereditarie.» «Che cosa significa?» «Significa che Luke McCann non è il padre del bambino di Natalie.» Mi sentii avvampare. «Sono desolata, Helen. Mi sono comportata da stupida.» «No, Jane, è del tutto comprensibile. Il signor McCann non è mai stato arrestato, e nemmeno interrogato in stato di fermo. Perciò non è mai stato rilasciato ufficialmente, e dunque non abbiamo reso noti i risultati del test. Alla luce degli avvenimenti successivi, abbiamo deciso di fare un annuncio oggi pomeriggio.» «Il test è affidabile?» «Sì.» «Oh, Dio. Luke avrebbe dovuto dirmelo. Ma è stata tutta colpa mia.» Bevemmo il caffè. Helen insistette per pagare il suo. Poi attraversammo la piazza verso la centrale. Ci fermammo là davanti, e mi accinsi a salutarla. Indugiò, quindi parlò con una certa esitazione: «Tu e Theodore Martello uscivate insieme quell'estate, vero?» «Si può dire di sì.» «Perché... Insomma, com'è finita?» «Male.» «Theo parla spesso di te, Jane.» «Come fai a saperlo?» «Oh, vedi, quando l'ho incontrato. Te l'avevo già detto, l'ho interrogato a
lungo. A più riprese.» Sembrava imbarazzata ma entusiasta, e un'idea (un'idea terribile) mi balenò nella mente. La fissai e lei arrossì. Tuttavia non distolse lo sguardo. Sapevo, e lei sapeva che io sapevo; volevo dire qualcosa, metterla in guardia o raccomandarle di non comportarsi da sciocca. Ma poi, facendo una smorfia, si voltò con una certa goffaggine e si allontanò. Avevo un'altra ora di parcheggio pagato e la sfruttai vagando per il centro di Kirklow, del tutto indifferente a quanto mi circondava. CAPITOLO 15 Mi accorsi che la mia vita stava scivolando in un tran tran quasi piacevole. I solidi argini tra cui scorrevano tutti gli obblighi, le abitudini e gli appuntamenti erano costituiti dalle sedute con Alex Dermot-Brown. Erano diventate regolari e automatiche come mangiare e dormire. Le pedalate mattutine lungo il canale e la strada tortuosa attraverso il mercato fino a casa sua erano ormai meccaniche. Quegli incontri si accumularono nella mia memoria, diventando così indistinti da essere rassicuranti. Seduta dopo seduta, ripercorsi quelli che mi parevano tutti gli aspetti della mia esistenza. Descrissi la mia adolescenza, Paul e i miei genitori, ma naturalmente la storia continuava a tornare sui Martello, quasi i Martello fossero la mia storia. Avevo sempre avuto la sensazione che fossero al centro dei suoi momenti migliori. Parlai ad Alex dei giochi infantili durante l'estate. Altre persone avevano una visione nostalgica e mitizzata dei loro primi anni di vita: la nostra infanzia comune era stata davvero splendida. Accennai al mio affiatamento con Natalie e Theo, e mi dilungai su Claud, come se stessi cercando di ricreare la nostra relazione nella mia mente, magari in un modo che giustificasse la mia decisione di lasciarlo. Raccontare il nostro rapporto era difficile, perché il nostro matrimonio non si era tanto spezzato quanto indebolito. Non potevo aggrapparmi ad alcun motivo concreto. Non c'era stata nessuna infedeltà, sicuramente nessuna violenza, e neppure una trascuratezza palese. Non era nello stile di Glaud. Da molti punti di vista ammiravo Claud più che mai. Traducendolo in parole, lì nello studio di Alex, temetti di farlo apparire quasi irresistibile, dando l'impressione di voler tornare sui miei passi. Claud aveva circa trentacinque anni quando l'avevano nominato primario del St. David, e si era dimostrato eccezionale di fronte alle nuove responsabilità e ai doveri imposti dall'appartenenza al consiglio direttivo.
Davvero eccezionale. A parte la chirurgia, la ginecologia è da sempre la branca della medicina più dominata dagli uomini, e io e Claud avevamo avuto di continuo lievi screzi in merito. Ma, avrebbe potuto ribattere sebbene l'avesse sempre evitato, che cosa poteva fare un aiuto medico se non compiere gesti inutili e ostacolarsi la carriera? I medici che creano problemi da giovani sono quelli che, chissà come, non ottengono le promozioni. Quando Claud era diventato primario, era cambiata ogni cosa. Naturalmente, trattandosi di Claud, era sembrato tutto cupo e banale, e soprattutto i suoi oppositori avevano impiegato del tempo per capire che cosa stava accadendo. Aveva istituito un comitato sul ruolo delle ginecologhe nella professione. Quando gli altri avevano mangiato la foglia, era esplosa una vera e propria bufera. C'era stata una causa legale, c'era stato un editoriale sul «Daily Telegraph» o qualche altro quotidiano, ma Claud aveva tenuto testa a tutti. Quando eravamo bambini, era sempre Claud a sapere quale cavo andava in un dato punto della spina, a che ora partiva l'ultimo treno e tutte le cose di cui nessun altro si preoccupava, e aveva dimostrato la stessa attenzione per i dettagli anche in ospedale. Gli altri sbuffavano mentre Claud non apriva quasi bocca, ma al momento decisivo era sempre lui a essersi già rivolto ai membri giusti del consiglio o ad aver fissato irrevocabilmente l'ordine del giorno secondo un'arcana regola di cui nessun altro era a conoscenza. Dunque, negli ultimi sette anni, il St. David aveva assunto solo ginecologi di sesso femminile. Claud era diventato un eroe. Ed era anche stato furbo, perché aveva sostenuto una moda prima che prendesse piede. Aveva messo in moto il carrozzone prima di saltarci sopra. Il particolare bizzarro era che non era mai venuto da me pronunciando le parole: «Te l'avevo detto». Non mi aveva mai rivelato di aver tenuto asciutte le polveri per tutti quegli anni in modo da poterle usare quando fossero state efficaci. Vorrei che l'avesse fatto, ma era sempre stato razionale e modesto riguardo ai suoi successi, ribadendo che la ginecologia sprecava le sue risorse e che lui faceva solo la cosa più logica. Con il nuovo sistema contrattuale, aveva aggiunto, le ginecologhe erano inoltre più collaborative e flessibili. Forse Claud è il tipo di persona che attua riforme radicali, un conservatore istintivo che accetta il cambiamento per salvare quanto più possibile del vecchio regime. Forse. Durante le serate non c'era tuttavia alcuna differenza sensibile tra il Claud che, contro ogni probabilità, aveva persuaso un intero reparto della validità delle sue proposte e un Claud che aveva fallito. Quel distacco gli era stato utilissimo nel corso degli anni, ma
aveva finito per ripugnarmi. I trionfi di Claud avevano contribuito a determinare i miei sentimenti nei suoi confronti. Se non provavo niente per lui dopo quel che era riuscito a ottenere, il nostro matrimonio doveva proprio essere in crisi, avevo pensato. Come fa un matrimonio ad andare a rotoli? Vorrei quasi poter affermare di averlo sorpreso a letto con la sua segretaria o con una delle sue interne adoranti. Claud non mi avrebbe mai tradita, e sapevo che sarebbe stato un marito fedele finché uno dei due fosse morto, se non altro perché, il 28 maggio 1973, alcuni testimoni l'avevano visto firmare un documento contenente quella promessa in un ufficio di Stato Civile. Tutto si riduceva a piccole cose e alla mancanza di piccole cose. Il sesso, naturalmente. Vedi «mancanza di». Subito dopo sposati, avevamo avuto un'appassionata vita sessuale, e Claud aveva dimostrato una raffinata abilità in quell'ambito. Non mi riferisco soltanto alla manipolazione tattile, ma al fatto che pareva aver compreso a fondo come funzionavano certe cose. Più di qualunque altro uomo con cui ero stata a letto (un numero piuttosto esiguo, che si potrebbe contare sulle dita di due mani), Claud considerava il sesso non solo un impulso, ma anche una componente dell'affetto, dell'amicizia, dell'umorismo, della tenerezza, della sollecitudine. Adoravo fare l'amore con lui. Per gran parte della mia adolescenza, Claud era stato quello che Jerome e Robert avrebbero definito uno sfigato. Aveva cominciato a portare gli occhiali quando aveva circa tre anni ed era sempre stato il fratello serio, privo del carisma che Theo e, più tardi, i gemelli avrebbero sfoggiato senza difficoltà. Era caparbio, scrupoloso, ma non era mai stato la star. Poi, durante il terribile anno o giù di lì dopo la scomparsa di Natalie, quando era sembrato che la famiglia Martello venisse schiacciata dal dolore, ci eravamo avvicinati. Era stato caparbio anche in quella circostanza. Si era prefisso di stregarmi, e i suoi sforzi erano stati trasparenti ma efficaci. Essere attratti da una persona è un buon modo per indurla a essere attratta da te, ma può anche avere l'effetto contrario. Claud aveva raggiunto il suo scopo. Non c'era stato nulla di carnale per un bel po'. Io uscivo con vari ragazzi, e lui era diventato un ottimo amico. Ci eravamo scritti mentre frequentava la facoltà di Medicina, lettere lunghe e interessanti, e mi ero ritrovata con stupore a rivelargli cose che avevo nascosto agli altri. Non avevamo accampato pretese l'uno sull'altra, non ci eravamo sbilanciati, e così, durante il primo anno di università, ero rimasta un po' sconcertata accorgendomi che era il mio miglior amico. Aveva iniziato a uscire con una
certa Carol Arnott (la prima vera fidanzata che avesse mai avuto, come aveva confessato a me e a nessun altro), e mi ero meravigliata quando avevo provato una punta di gelosia. Correva il 1971, e rammento quel periodo soprattutto in termini di abiti: velluto sgualcito, pantaloni a zampa di elefante, camicette di stamigna con i polsini a balza come quelli dei menestrelli medievali, sfumature di viola che non avrei osato indossare ancora fino ai primi anni Novanta. Io avevo diciotto anni, Claud ne aveva venti, e avevo deciso con freddezza di rubarlo alla povera Carol, intento in cui ero riuscita senza alcuna fatica. La nostra prima notte insieme era stata nel più angusto dei letti singoli in un monolocale di Finsbury Park che Claud divideva con altri due studenti di Medicina. Con un processo così automatico che doveva esserci sembrato inevitabile, avevamo stabilito di sposarci, cosa che avevamo fatto al termine del mio secondo anno. Mi domando se avessimo avuto la sensazione di guarire la frattura della famiglia. Nel 1975 avevo ormai avuto Jerome e Robert, e pur essendo ancora bambini a nostra volta, avevamo dovuto comportarci da adulti e destreggiarci tra il tirocinio, la carriera e la cura dei bimbi. Ripensandoci, vedo vent'anni di panico e frenesia culminanti nel pomeriggio autunnale in cui accompagnai Robert al college per il suo primo trimestre. Avevo avuto un attimo per riflettere, e il mio primo pensiero era stata la ferma convinzione di dover piantare Claud. Niente discussioni, niente consulenza, niente separazione giudiziaria, soltanto una riga tirata sotto la mia vita. Ecco. Ecco che cosa riferii ad Alex. Ecco dove mi trovavo ora, agitata, confusa, in lacrime. Come avrebbe usato quelle informazioni? Pur essendomi imposta di evitarlo, mi ero già sorpresa a preoccuparmi del suo giudizio su quanto dicevo. Forse stavo addirittura cercando di fare colpo su di lui. Divenni curiosa riguardo alla sua vita. Notavo il suo abbigliamento, le differenze da un giorno all'altro. Mi piacevano sia gli occhiali cerchiati di metallo che portava di tanto in tanto, sempre con un'aria di noncuranza, quasi se li fosse ritrovati addosso, sia i capelli lunghi che continuava a scostarsi dal viso con le mani. Talvolta era severo con me. Mi meravigliò disapprovando le mie scorribande investigative. «Pensavo volesse che affrontassi i fatti» protestai, un po' offesa. «Esatto» replicò «ma i fatti che ci interessano al momento sono quelli dentro la sua testa. C'è parecchio lavoro da sbrigare su questo fronte, duro lavoro. Tra le cose che mi sta raccontando, dobbiamo distinguere quelle vere da quelle false. Poi ci sono le cose vere e le cose false che non mi sta
raccontando. Quello sarà più difficile.» «Niente di quanto le sto raccontando è falso. Di che cosa sta parlando?» «Sto parlando di questa storia dell'infanzia splendida. Ascolti, Jane, le ho detto sin dall'inizio che avrei cercato di essere franco riguardo alle mie opinioni, perciò forse dovrei descriverle un po' le mie sensazioni di questo istante.» Tacque per riflettere. Pareva sempre meditare con attenzione prima di parlare, non come me, che cianciavo senza sosta. Faceva quasi sembrare il pensiero una questione tecnica, un talento pratico. «Mi ha detto due cose contraddittorie, Jane. Si aggrappa alla sua infanzia meravigliosa come se fosse un talismano contro qualcosa. Allo stesso tempo ha accennato ai resti sepolti lì in mezzo. Ora, io potrei semplicemente dire che i due elementi sono slegati. Qualcuno può arrivare dall'esterno e assassinare un membro della famiglia più felice. Il mondo è pieno di malasorte crudele. Ma non è quello che dice lei. E lei a insistere che è impossibile.» «Che cosa intende, Alex? Che cosa vuole che faccia?» «Sta tentando di sollevare due grossi pesi e non ce la fa. Deve mollarne uno, Jane, e affrontare le conseguenze. Deve pensare alla sua famiglia.» Era uno di quei momenti delle sedute in cui mi sentivo come un animale braccato. Trovavo un rifugio da qualche parte e mi illudevo di essere al sicuro, poi Alex mi stanava e mi trascinava fuori di nuovo. Quando gli descrissi quell'immagine, si sbellicò dalle risate. «Non sono sicuro di essere contento dell'idea che lei sia una bella volpe mentre io sono un brutale signorotto paonazzo a cavallo. Se significa che posso impedirle di rimpiattarsi in un finto Paradiso, suppongo tuttavia di poterla accettare. A lei, ora. Anche se è solo un esperimento, Jane, voglio che getti via la visione da libro illustrato della sua famiglia. Cominci a considerarla una famiglia in cui possa avere luogo un omicidio, e vediamo che cosa succede.» «Come sarebbe a dire? Che cosa significa "una famiglia in cui possa avere luogo un omicidio"?» Quando rispose, colsi un tono più duro del solito. «Io mi sono limitato ad ascoltarla, Jane. Deve assumersi la responsabilità di quello che mi riferisce.» «Non ho accennato a nessun assassino all'interno della famiglia.» Avvertii un sapore acido e nauseabondo in fondo alla bocca. Alex fu irremovibile. «È stata lei, non io, ad affermare che le ossa di Natalie sono state rinvenute in un luogo inconsueto.» «Sì, be', è inconsueto, non le pare?»
«Che cosa voleva sottintendere se non alludeva in qualche modo alla sua famiglia?» «Ma non alludevo alla mia famiglia.» «D'accordo, si calmi.» «Sono calmissima.» «No, intendo che, anche se quest'idea la sconvolge, dovrebbe considerarla un esperimento.» «In che senso, un esperimento?» «È semplice, Jane. Talvolta, durante la terapia, queste idee possono essere trattate come ipotesi. Immagini, se ci riesce, di non provenire da una famiglia inappuntabile che tutti ammiravano e invidiavano. Immagini che fosse una famiglia pericolosa.» Avevo forse desiderato che Alex pronunciasse quelle parole, che le pronunciasse al posto mio? Feci un tentativo formale di protestare, ma mi interruppe e proseguì. «Non le sto chiedendo di formulare accuse o essere sleale. È soltanto un modo per trovare un nuovo orientamento, per concedersi una nuova libertà.» Era uno di quegli istanti in cui avevo una voglia matta di fumare per ragionare con lucidità. Invece, raccontai ad Alex della serata all'Istituto di arti contemporanee e del comportamento atroce, orribile, indecente e vergognoso di Alan. Se sei la nuora di Alan Martello, sei a metà dell'opera. È famoso da quando aveva poco più di vent'anni e, a prescindere dai suoi sforzi, è sempre stato un simbolo versatile. Una volta gli appiccicarono l'etichetta del radicalismo giovanile, ma ora è stata sostituita da quella, altrettanto stramba, del conservatorismo anarchico. In varie occasioni, spesso nella medesima occasione, è stato un ribelle, un liberatore, un reazionario, un provinciale, un conformista, uno scocciatore, uno sfruttatore sessista, uno scrittore di satire, un guerriero di classe, un iconoclasta di professione. Talvolta mi domando come reagirei se lo incontrassi per la prima volta, ma ho sempre nutrito per lui un'adorazione confusa. L'ho visto mettersi nelle posizioni più indifendibili, ho assistito oppure sentito parlare di azioni che deploravo con tutta me stessa, so che ha ferito tante persone con noncuranza, soprattutto la mia amata Martha, ma mi sono schierata dalla sua parte. Era a capo della magnifica famiglia Martello, la sua vitalità la alimentava, ne era il centro, l'emblema. Era quello l'unico motivo per cui non riuscivo a respingerlo? Persino all'Istituto di arti contemporanee, nel bel mezzo di tutto quel casino, avevo avvertito una lealtà perversa nei suoi confronti,
anche se quella volta mi era sembrata perversa nel vero senso della parola. Alex non approfondì gli argomenti che credevo gli interessassero. Talvolta pareva quasi una questione di orgoglio, come se dovesse dimostrare la sua indipendenza. Ascoltò con attenzione la descrizione del mio atteggiamento vacillante verso Alan, ma poi tornò ancora sui miei ricordi, o non ricordi, del pomeriggio in cui Natalie era stata vista per l'ultima volta. In quell'occasione mi mostrai davvero un po' spazientita. Lui insistette. «Ascolterò qualunque cosa voglia dirmi» promise. «Ma vorrei che mi togliesse una curiosità. Una delle frasi che ha pronunciato all'inizio, durante la nostra prima seduta, ha suscitato il mio interesse. Ha detto: "C'ero anch'io".» «Non rammento le parole esatte che ho usato, ma non era niente di importante. Intendevo solo che mi trovavo sulla riva del fiume vicino al punto in cui Natalie era stata avvistata per l'ultima volta. Non ci leggo granché.» «Non ci sto leggendo niente. La sto ascoltando. È per questo che mi paga. "C'ero anch'io. C'ero anch'io." Interessante scelta di vocaboli, non crede?» «A essere sincera, no.» «Secondo me, sì.» Si alzò e misurò la stanza a grandi passi, come faceva ogni volta che era in preda a un'esaltazione teatrale. In istanti come quello, stare dietro di me, dove non potevo vederlo, non era abbastanza. Voleva essere più alto di me, voleva dominarmi. «È confusa solo perché ci occupiamo di parole ed emozioni. Non sarebbe così nel suo lavoro, vero? Se avesse il progetto di una casa larga venti metri e un cantiere largo quindici, non costruirebbe l'edificio sperando che le cose si aggiustassero in corso d'opera. Ridisegnerebbe il fabbricato cosicché entrasse nello spazio disponibile. Forse basterà eliminare le contraddizioni dal suo resoconto. Mi ha raccontato di venire da una famiglia felice e perfetta, eppure un membro della famiglia è stato assassinato, e lei sostiene che non può essere stata una persona esterna. Come possiamo conciliare queste affermazioni? Mi ha raccontato che c'era anche lei, ma anche che non c'era. Che senso ha? Non c'era davvero, oppure devo portarcela io?» «Come sarebbe a dire, "portarcela io"?» «Mi ha narrato una storia con strani buchi neri, con muri in cui occorre aprire una breccia. Facciamo un patto, Jane. Smetterò di fare il prepotente,
glielo prometto. Almeno per il momento discuteremo delle cose di cui vuole discutere. Tuttavia» sollevò l'indice «ci sarà un'eccezione. Voglio che ci soffermiamo su quella scena accanto al fiume, voglio che ci entri di nuovo, che la abiti, che la esplori.» «Alex, le ho detto tutto quello che ricordo di quel giorno.» «Sì, lo so. E se la sta cavando bene, forse meglio di quanto creda. Adesso voglio che smetta di provare a ricordare. Può liberarsi di tutte quelle immagini. Vorrei ripetere l'esperimento dell'altro giorno.» Così ritentammo. Chiusi gli occhi e mi rilassai mentre Alex mi parlava con dolcezza, e cercai di tornare sul fiume, appoggiata alla roccia, durante quel pomeriggio estivo. Ormai ero diventata brava. Prima la scena mi era apparsa come una di quelle cosiddette fotografie tridimensionali. Ti regalano l'illusione della profondità, ma non è una profondità in cui puoi infilare la mano. Ora era diverso. Riuscii ad abbandonarmi. Ero in uno spazio che potevo attraversare, in un mondo in cui potevo perdermi. La voce di Alex pareva giungere dall'esterno. Gli descrissi le mie azioni. Ero seduta, la schiena appoggiata alla roccia asciutta e muscosa ai piedi di Cree's Top, il ruscello alla mia sinistra che scorreva via, gli ultimi fogli appallottolati che superavano l'ansa davanti a me. Alla mia destra, gli olmi sul confine del bosco. La voce lontana di Alex mi chiese di alzarmi, e io lo feci senza difficoltà. Mi domandò se potevo girarmi. Sì, certo. Gli dissi che ora avevo il fiume sulla destra, che l'acqua fluiva nella mia direzione allontanandosi alle mie spalle e che gli olmi e il bosco erano alla mia sinistra. Quindi alzai lo sguardo verso la collinetta di Cree's Top. La voce di Alex mi invitò a non muovermi e a non fare niente. Voleva soltanto sapere se vedevo il sentiero. Altroché se lo vedevo. Era fiancheggiato da folti cespugli su un lato, e di quando in quando scompariva serpeggiando lungo la china, ma lo distinguevo quasi per intero. Benissimo, commentò. Infine mi esortò a voltarmi e a risedermi nella posizione originaria. Nessun problema. Benissimo, ripeté. Benissimo. CAPITOLO 16 Le giornate trascorrevano fra alti e bassi, ma stupii me stessa superandoli. Prendete un esempio tipico, un soleggiato lunedì mattina all'inizio di dicembre. Era una di quelle giornate, che mi capitano ogni tanto, in cui volevo portarmi una delle mie nipoti al lavoro, forse per far sembrare
meno allarmante la mia professione. Ero sicura che qualunque donna avesse esaminato la mia vita lavorativa si sarebbe sentita invogliata a fare la casalinga a oltranza, ma decisi che dovevo fare almeno un tentativo. Così chiamai Peggy, che mi sembrava sempre di non chiamare mai abbastanza spesso. Evidentemente Emily, la secondogenita nata dal precedente matrimonio di Paul (aveva quasi sedici anni), fu la più lenta a inventare una scusa plausibile, e mi venne offerta per tutto il giorno. Poco dopo le nove percorse il vialetto con andatura ciondolante. Alle sue spalle Peggy agitava la mano in un vano cenno di saluto. Emily era vestita di nero come una vedova greca, anche se era improbabile che qualcuno la credesse tale per via dei piercing al naso. Scivolò sul sedile del passeggero, spense Start the Week, e ci avviammo verso est da Kentish Town. Le domandai di Peggy, e lei mugugnò qualcosa e mi domandò di Robert. Bofonchiai una risposta evasiva, affermando che pareva andare d'accordo con la sua nuova ragazza. Mi sento protettiva verso le mie nipoti quando c'è di mezzo il mio rapace figlio minore, e ho parlato con lui, e anche con Jerome, del loro dovere di badare alle cuginette. Ero irritabile, soprattutto perché, in condizioni normali, avrei fumato, ma probabilmente Emily avrebbe voluto imitarmi, perciò avevo deciso in anticipo di lasciar perdere per quella mattina. Voglio bene ai miei figli, ma talvolta, durante la loro crescita, la casa assomigliava allo spogliatoio di una palestra. Forse è per questo che ho sempre nutrito un affetto particolare per le tre piccole ribelli Crane. A volte temevo di esagerare e di allontanarle da me, ma quando ci fermammo e ci avviammo lungo laYork Way, Emily chiacchierò con quella che (almeno per lei) era un'insolita loquacità. Le domandai se aveva saputo del documentario di Paul. Alzò gli occhi al cielo, come faceva in reazione a quasi tutto quello che riguardava suo padre. «Che trovata sciocca» osservò. Mi sentii in dovere di difenderlo. «No, Emily, sono certa che sarà molto interessante.» «Vuoi comparire in televisione, vero? Così tutti sapranno della tua famiglia.» «No, non proprio.» «Ci siamo rifiutati tutti quanti. Papà aveva un diavolo per capello. Cath l'ha definito un voyeur.» «Be', se non altro Paul sarà contento di aver sentito usare una parola francese. Peccato che non l'abbia definito un auteur.»
Ridacchiammo insieme. In ritardo come sempre, arrivammo al pensionato, dove ci aspettavano due rappresentanti del Consiglio comunale che non avevo mai visto prima. Pandora Webb, un funzionario di grado intermedio incaricato di valutare l'idoneità dei trattamenti. E Carolyn Salkin, responsabile della Sezione disabili. Su una sedia a rotelle. Ai piedi dei ripidi gradini di calcestruzzo che conducevano al portone. I capelli cortissimi le conferivano l'aspetto di un folletto dispettoso. Era il tipo di persona che avrei preso subito in simpatia se non l'avessi conosciuta davanti al mio prezioso progetto. Andò al sodo senza tante cerimonie. «Evidentemente i suoi disegni non prevedono un ingresso per le sedie a rotelle, signora Martello.» «Per favore, mi chiami Jane» ansimai. «E questa è mia nipote Emily.» «Non c'è un ingresso per le sedie a rotelle, Jane.» «La questione non è mai stata sollevata davvero» replicai con incredibile fiacchezza, ma era lunedì mattina, e mi sentivo in imbarazzo di fronte a Emily. «La sto sollevando ora.» Avevo bisogno di andarmene e pensarci su, ma pareva impossibile. «Stando alle istruzioni, questo è un pensionato in cui alloggeranno, per brevi periodi e sotto una blanda supervisione, soggetti appena dimessi e in gran parte autosufficienti. Concordo con lei, Carolyn, nell'affermare che ogni edificio dovrebbe avere un ingresso per le sedie a rotelle, ma dopo le mie modifiche questa è ormai diventata un'angusta costruzione a quattro piani. Sarebbe senz'altro meglio che i pazienti o i funzionari disabili venissero indirizzati a locali più adatti.» Le due donne si scambiarono un'occhiata. Sembravano ironiche, sprezzanti. Era chiaro che Pandora non stava dalla mia parte, ma era altrettanto chiaro che era contenta di lasciar parlare Carolyn. «Jane» riprese quest'ultima, «non sono venuta per discutere le politiche riguardanti i disabili sul marciapiede. E nemmeno per negoziare. Sono qui solo per accertarmi che conosca la filosofia comunale riguardo all'abbattimento delle barriere architettoniche nei nuovi edifici. Dovrebbe esserne già informata.» «Che cosa devo fare?» domandai in tono stanco. «Nello specifico, intendo.» «Glielo mostrerei io stessa se riuscissi ad accedere alla struttura» ribatté, glaciale. «Dovrà prendere appuntamento con un altro membro del mio ufficio.»
«Chi finanzia le apparecchiature aggiuntive?» «Chi finanzia la scala antincendio, Jane?» domandò di rimando, sarcastica. «Chi finanzia i doppi vetri?» Avvertii un moto di rabbia di fronte a un trattamento tanto ingiusto. «Se fossi Mies van der Rohe, non mi costringereste a collocare rampe in ogni angolo.» «Io sì, se stesse progettando un fabbricato in questo distretto» mi rimbeccò. «Chi è Mies van der Vattelappesca?» domandò Emily dopo che firmino rimontate in auto. «Probabilmente è il motivo principale per cui sono diventata architetto. Le sue costruzioni si basavano su un'assoluta chiarezza matematica: vetro, metallo e linee rette. La sua maggiore creazione è stata un edificio di Barcellona destinato a ospitare una mostra negli anni Venti. Aveva una forma così pura che Mies non volle neppure una parete su cui appendere i quadri per non rovinarne la perfezione.» «Poco pratico per una mostra» constatò Emily. «Già» riconobbi. «Non credo che avrebbe avuto più successo di me con questo pensionato. Quando ho cominciato a studiare Architettura, pensavamo ancora che potesse essere uno strumento per trasformare la vita della gente. Non sembra andare molto di moda al momento.» «Che cosa farai?» «Credo di essere troppo vecchia per diventare avvocato e difendere le libertà civili.» «No, intendevo riguardo al pensionato.» «Oh, il solito. Aggiungerò qualcosa, toglierò qualcos'altro. Perderò un altro po' della mia ispirazione originaria. La speranza è l'ultima a morire. Ridurmi il budget è il loro modo di dimostrare che vogliono ancora far costruire la struttura.» In ufficio, presentai Emily a Duncan, che le insegnò ad alzare e abbassare il suo tavolo da disegno. Dettai un paio di lettere che avrebbero richiesto meno tempo se le avessi battute da sola. Preparammo il caffè, e descrissi a Emily la professione e quel che ricordavo del tirocinio, quindi spettegolammo per un po' e la riaccompagnai a Kentish Town poco dopo pranzo. Entrai con lei e bevvi un caffè con Peggy, che era sempre preoccupata per qualcosa. Stavolta per il documentario di Paul, con cui si rifiutava di avere
a che fare. Era preoccupata per Martha, e non ebbi nulla da ridire in proposito. Era preoccupata per la figuraccia di Alan, ma le assicurai che non ne valeva la pena. Ed era persino un po' preoccupata per me. Paul le aveva riferito della terapia, e voleva discuterne. «Come sai, sono stata a lungo in analisi dopo che Paul se n'è andato» affermò. «Dopo circa due anni, mi sono fatta coraggio, mi sono voltata, e il mio psicanalista dormiva.» «Sì, me l'avevi già detto, Peggy» replicai. «Credo sia piuttosto frequente.» «È stato comunque uno spreco di soldi. Ho deciso che le pillole sarebbero state più pratiche ed economiche. Mi hanno prescritto il Prozac, ho superato la crisi e ho portato le ragazze a Kos. Ho calcolato che la vacanza mi sarebbe costata meno di tre mesi di sedute. Mentre ero lì, mi sono resa conto che avrei avuto bisogno di altri tre anni di terapia per riprendermi, visto il modo in cui le ragazze si comportavano con tutti quei camerieri che ronzavano loro intorno come api sul miele.» «Che cosa vuoi dire, Peggy? Credi che stia solo perdendo tempo?» «No, suppongo di essere solo stupita. Tu sei sempre stata quella forte. Inoltre, senza offesa, non capisco che cosa stai facendo. Sei stata tu a decidere di mollare Claud su due piedi. Era distrutto, ed è tuttora disperato. Adesso ti senti in colpa e cerchi aiuto. Per giunta, Paul mi ha riferito che te ne vai in giro indagando su Natalie. Non capisco che cosa stai facendo, Jane, non lo capisco proprio.» Avvertii un doloroso crampo di rabbia allo stomaco ed ebbi voglia di schiaffeggiarla o inveire contro di lei, ma, per quanto le abbia sempre invidiate, non sono mai stata brava nelle esternazioni emotive di tipo mediterraneo. E, in un certo senso, ritenevo che Peggy avesse ragione. Reagii con calma glaciale. «Forse non capisco nemmeno io che cosa sto facendo, Peggy. Forse è quello che sto tentando di scoprire.» Il bicchiere da cocktail nel freezer, insieme con la caraffa e il cucchiaio. Naturalmente, il gin dev'essere lì da un paio di giorni, affinché assuma una consistenza viscosa. Ecco perché è indispensabile il Gordon di esportazione, quello con l'etichetta gialla che si acquista nei duty-free. Qualcosa di più leggero, come il Gordon nazionale nella bottiglia verde, ghiaccerà, vanificando ogni tentativo. Qualche goccia (magari un cucchiaino, non di più) di vermut secco, poi una spruzzata di gin nella caraffa così fredda da
impedirti quasi di toccare il manico. Una mescolata rapidissima. Una bella scorza di limone, schiacciata per liberare parte del succo, e infine l'aggiunta del liquido aspro, gelato. Se resta qualcosa nella caraffa, potete rimetterlo nel freezer per il bis. Qualche ora dopo, strappai il cellophane da un nuovo pacchetto di sigarette e sciacquai il posacenere nel lavello. Aprii una scatola di olive nere e le trasferii in una piccola ciotola. Erano snocciolate. Non avevo voglia di concentrarmi su niente quella sera. Le presi, insieme con il mio Martini secco, così ghiacciato che fumava come la pozione di una strega, e mi accomodai davanti al televisore. Lo accesi su un canale qualsiasi e fissai lo schermo senza prestare attenzione. Il drink fece effetto fin quasi dal primo sorso, e mi sentii pervadere da un piacevole intorpidimento. Ho le mie trovate più geniali mentre siedo tra il pubblico di un concerto per orchestra, mentre vago per una galleria fingendo di ammirare i quadri o, come in quel caso, mentre sono mezza sbronza e guardo un programma senza seguirlo veramente. Le parole di Peggy mi avevano scossa. Sono un tipo che ama essere palesemente nel giusto, voglio sempre fare la cosa giusta, e mi ero accorta che (agli occhi di Peggy e degli altri) dovevo sembrare una persona incline a fare la cosa sbagliata tanto per soddisfare i propri capricci. Sfruttavo la tolleranza di Duncan quando trascuravo il mio lavoro. Sfruttavo le sedute con Alex Dermot-Brown per alleggerire la responsabilità della decisione che avevo preso. Conducevo un'indagine improvvisata sulla famiglia Martello... Perché? Per vendicarmi? Avevo delle cose da fare e delle cose da cercare. Ma non sapevo che cosa fossero. Sarebbe forse stato meglio lasciar perdere tutto, tornare alla mia vita e concentrarmi su quella con lo stoicismo di cui mi ero sempre vantata? Andai al freezer e vuotai quanto rimaneva del drink nel bicchiere ormai umido e tiepido. Smisi di rimuginare e la trasmissione televisiva cominciò a prendere forma, come un'immagine messa a fuoco. Una donna (piuttosto avvenente, a parte le sopracciglia troppo sottili) parlava della famiglia come base della società. «Proprio come avere una casa piena di spifferi è sempre meglio che non avere affatto una casa» dichiarò, «un matrimonio imperfetto è sempre meglio di un matrimonio fallito. Il problema sociale più distruttivo della nostra epoca è il comportamento egoista e irresponsabile dei genitori che antepongono il loro interesse al futuro dei propri figli.» Vi fu un caloroso applauso.
«Vaffanculo» urlai allo schermo. «Sir Giles» intervenne il presentatore. Sir Giles era un tizio con un completo grigio. «Jill Cavendish ha perfettamente ragione» asserì «e nessuno di noi dovrebbe vergognarsi di affermare con perentorietà che questa è una questione morale. E se i leader della nostra Chiesa non sono disposti a intervenire, siamo noi politici a dover entrare in azione. Come sappiamo, ci sono adolescenti che restano incinte di proposito per ottenere un alloggio comunale in tempi rapidi e senza difficoltà. Scelgono volontariamente la disoccupazione a nostre spese. Di conseguenza, intere generazioni di bambini crescono senza orientamento morale, senza un padre che li guidi. Non mi meraviglia che si trasformino in criminali. «A mio parere, signori e signore, è giunto il momento che gli uomini e le donne normali di questo Paese si alzino in piedi e dicano ai socialisti: "Ecco dove ci avete condotti, ecco il risultato logico delle vostre politiche, dell'indifferenza verso la moralità e la famiglia cui abbiamo assistito negli anni Sessanta". Ci esortano a comprendere la situazione difficile di queste donne incoscienti. Se volete la mia opinione, dovremmo comprendere un po' meno e punire un po' di più. Quand'ero giovane, un'adolescente sapeva che, se fosse rimasta incinta, si sarebbe ritrovata in mezzo alla strada come una reietta. Forse dobbiamo prendere esempio da quei tempi. Vi dico una cosa: se le teenager sapessero di non poter contare su un alloggio e sul sussidio di disoccupazione, ci sarebbero molte ragazze madri in meno, accidenti.» «Mezza sega» lo insultai, scagliando il pacchetto di sigarette contro il televisore e mancandolo di parecchio. L'applauso del pubblico fu ancora più entusiastico di prima, e il presentatore faticò a sovrastarlo. «Abbiamo con noi anche il dottor Caspar Holt, che, oltre a essere un filosofo, è un padre single, affidatario di una bambina piccola. Dottor Holt, qual è la sua risposta a Sir Giles?» La telecamera inquadrò il volto nervoso di un uomo di mezza età che mi pareva di aver già visto da qualche parte. «A essere sincero, non sono sicuro di averne una» ammise. «Diffido delle risposte semplici ai problemi sociali complessi. Se Sir Giles Whittell crede davvero che le giovani restino incinte per una questione di calcolo economico, dovrebbe tuttavia domandarsi chi abbia creato questa cultura individualista in cui tutto è letteralmente inintelligibile a eccezione della
lotta egoistica per il massimo profitto finanziario. Inoltre... ecco... mi diverte l'idea che i ricchi possano essere incoraggiati solo dando loro più soldi, mentre i poveri vadano incoraggiati sottraendo loro i soldi.» Cominciai a battere le mani. «Senti, senti.» Non vi furono altri applausi, e l'oratore fu subissato di fischi da tutte le parti. Poi ricordai chi era. Era l'uomo che mi sedeva accanto durante la scenata di Alan all'Istituto di arti contemporanee. Ebbi l'impressione di essere stata sgarbata con lui. Sentii una punta di rimorso. Mi avvicinai alla scrivania nell'angolo e frugai tra una pila di cartoline. Un nudo grottesco di George Grosz. Troppo esplicito. L'Annunciazione del Beato Angelico. Troppo austera. Acquerelli di topolini britannici. Troppo leziosi. Lo scorticamento di Marsia di Tiziano. Troppo simile al mio stato d'animo. Il reverendo Robert Walker sui pattini Quello andava bene. Capovolsi la cartolina e staccai alcuni frammenti di adesivo secco, segno che un tempo era stata attaccata alla parete lì sopra. «Caro signor Holt» (bloccandomi, mi voltai verso lo schermo, dove il filosofo stava borbottando qualcosa riguardo all'istruzione negli asili e veniva zittito a forza di urla) «sono la donna che è stata maleducata con lei all'Istituto di arti contemporanee. Le scrivo dopo aver ammirato il suo coraggio e la sua assennatezza in TV. Mi rincresce di non essermi comportata molto bene l'unica volta che ci siamo incontrati. Mi rendo conto che il mio ragionamento è un po' ingarbugliato, ma lei sta dicendo le cose che vorrei dire anch'io e che, tuttavia, non riesco mai a farmi venire in mente al momento giusto. Cordiali saluti, Jane Martello.» Trovai un francobollo nel portamonete e uscii subito per imbucare la cartolina. Avevo bisogno di una boccata d'aria. Nella misura in cui riuscii a sentirlo, il freddo della sera mi fece bene. CAPITOLO 17 «Ricordi che venivi qui a giocare?» Nonostante il freddo pungente, Martha aveva insistito affinché facessimo una passeggiata in giardino insieme. Eravamo accanto all'enorme quercia nel cui grosso tronco cavo ci nascondevamo da bambini. Accarezzai la corteccia muscosa. «Questo è il punto in cui Claud, Theo e Paul hanno inciso le loro iniziali. Pensavamo che sarebbero durate quanto l'albero. Invece sono quasi scomparse.»
Proseguimmo in silenzio. Avevo la sensazione di ripercorrere la mia infanzia. L'orto, i granai, gli alberi caduti, i rami scheletrici, gli arbusti striminziti, i muri di pietra, la piatta radura dove una volta c'era un'altalena. Quando il vento appiattì la giacca contro il corpo di Martha, mi resi conto di quanto fosse dimagrita. «Stai bene, Martha?» Si chinò con grazia per strappare un'erbaccia. «Ho il cancro, Jane.» Levò la mano per zittirmi. «Lo so da parecchio tempo. All'inizio era circoscritto al seno, ma poi si è diffuso.» Presi la sua mano gelata nella mia e gliela accarezzai. Le raffiche ci aggredirono da oltre la cima del colle. «Che cosa dicono i medici? Che cosa stanno facendo?» «Non molto. Insomma, non dicono granché, lasciano che tragga da sola le mie conclusioni. E non intendo sottopormi alla chemioterapia, alla radioterapia o cose simili, tranne gli antidolorifici, naturalmente. Ho sessantasette anni, Jane, è un buon momento per ammalarsi di cancro: la malattia progredisce con maggiore lentezza.» Rise. «Probabilmente morirò di ictus a novantatré anni.» Poi, rabbuiandosi: «Me lo auguro. Non penso che Alan se la caverebbe molto bene da solo». «Mi dispiace. Mi dispiace così tanto, Martha. Vorrei poter fare qualcosa.» Ci riavviammo verso la casa mano nella mano. «Martha» domandai all'improvviso, «vorresti che non avessimo mai rinvenuto i resti?» Mi guardò con un'espressione indecifrabile. «È una domanda senza senso» rispose finalmente. «Abbiamo trovato Natalie, ecco tutto. Se vuoi sapere se fossi più serena prima, la risposta è sì, altroché. A volte sono persino stata felice. Quando Natalie è stata dissotterrata, ho dovuto ricominciare a piangerla. Quella vecchia ferita sanguinante.» Spinse la porta di servizio. «Ti preparo una tazza di tè.» «Ci penso io» mi offrii. «Non sono ancora moribonda, Jane; accomodati.» Sedendo al tavolo della cucina, notai che Martha ci aveva impilato sopra tutti i libri per l'infanzia da lei illustrati nel corso degli anni. Ce n'erano a decine. Cominciai a sfogliarli. Le figure erano familiari, naturalmente (i miei figli erano cresciuti guardandole), ma sempre magnifiche: divertenti,
affollate e molto variopinte. Le piaceva disegnare famiglie numerose: nonne arzille, genitori dall'aria esausta e orde di bambini minuscoli con le ginocchia sbucciate e i capelli arruffati. C'era un sacco di cibo nelle sue illustrazioni, il genere di cibo di cui i piccini sono golosi: torte al cioccolato appiccicose, tremolanti gelatine viola sormontate da crema di un giallo vivace, montagne di spaghetti che vacillavano sui vassoi. E le piaceva raffigurare bimbi scatenati: su un paginone, una fila di microscopici frugoletti panciuti marciava calzando stivaloni rossi; su un altro, alcuni visetti infantili spuntavano gioiosi tra i rami degli alberi. Mi soffermai sull'illustrazione di una ragazzina che teneva in mano una ghirlanda di margherite mentre un meraviglioso sole arancione tramontava alle sue spalle. Era insolito che Martha rappresentasse i bambini da soli; il più delle volte surclassavano gli adulti per numero e vitalità. «Prima che ritrovassimo Natalie, Martha, è mai passato un intero giorno senza che pensassi a lei?» Era la domanda sbagliata, lo sapevo e conoscevo già la risposta, ma sapevo anche che dovevamo parlare di Natalie. Versò l'acqua bollente sulle foglie di tè e tirò giù dalla mensola una grande scatola di latta. «Secondo te?» Posò sul tavolo un coltello e un dolce allo zenzero. «Mi sono sentita a lungo in colpa. Non solo perché se n'è andata, è morta, o qualunque altra cosa le sia successa. Anche per quello, ovviamente. Ma soprattutto per la nostra relazione.» Aspettai. Riempì due tazze e sedette di fronte a me. «Il mio ultimo ricordo di Natalie è l'immagine di lei che mi urla contro.» Abbassando lo sguardo sul tè, aggiunse: «No, non è proprio così. Il mio ultimo ricordo è l'immagine di me che urlo contro di lei. Naturalmente, litigavamo spesso per motivi banali, l'alito che le puzzava di fumo e cose simili. E lei mi mandava su tutte le furie rivolgendomi quel sorriso leggermente distante che sfoderava sempre quando la rimproveravano. È il tipo di litigi che tutti i genitori devono affrontare, ma quella volta non abbiamo fatto pace. Talvolta mi domando se sia morta odiandomi». Abbozzò un sorriso mesto. «Quando io e Alan siamo tornati da quell'orribile crociera e siamo arrivati alla grande festa, volevo parlare con Natalie, ma avevo così tante persone da salutare che non ne ho avuto il tempo, e poi è stato troppo tardi.» «È comprensibile che tu accusi te stessa e ti senta in colpa, Martha» osservai, «ma non dovresti farlo.» Rammentai di aver provato una versione attenuata del medesimo senti-
mento quando era morta mia madre. Nelle settimane dopo il funerale ero sprofondata nell'agonia del lutto, ricordando tutte le volte che l'avevo criticata, che ero stata sprezzante nei suoi confronti, che non l'avevo apprezzata, che non l'avevo ringraziata abbastanza, che avevo rimandato la resa dei conti definitiva, durante la quale avremmo potuto cancellare in qualche modo tutte le asperità e le imperfezioni del nostro rapporto. «Devi tenere presente tutta la vita, Martha, e non solo le ultime settimane o gli ultimi giorni» dissi debolmente. «Lo so. Ma quell'ultimo bisticcio riassume in qualche maniera tutto quello che non andava tra noi.» Mi guardò con fermezza. «Non l'ho mai rivelato a nessuno, Jane.» «Rivelato cosa?» «Non ho mai raccontato a nessuno del mio ultimo battibecco con Natalie.» «Perché avevate litigato?» Prese il coltello e tagliò due fette di torta. Doveva averla preparata quando le avevo annunciato la mia visita. «Bevi il tè, Jane, altrimenti si raffredda.» Obbediente, lo sorseggiai. «Per me e tuo padre, Jane. Per la nostra storia.» Continuai a bere, ma le mie mani mi parvero molto grandi e goffe intorno alla tazza. La appoggiai con delicatezza per evitare di spanderne il contenuto. «Va' avanti.» «Avevo avuto una breve avventura con tuo padre durante l'anno precedente. Lui e tua madre non andavano molto d'accordo, e sai bene com'era Alan. Era stato in America per gran parte dell'estate. Mi sentivo sola; i ragazzi stavano crescendo, e avevo l'impressione che la mia esistenza scivolasse via.» Si interruppe, facendo un brusco gesto con la mano. «Basta così, non voglio giustificarmi. Non ne vado fiera, e non è durata a lungo. Non l'abbiamo mai confessato a nessuno. Christopher non ha informato tua madre; io non ho mai informato Alan. E siamo stati molto riservati. Non abbiamo mai voluto ferire nessuno.» Diede un piccolissimo morso preciso al dolce. «Natalie aveva trovato una lettera che Christopher mi aveva scritto. Doveva aver frugato nei miei cassetti. Me l'aveva sbattuta in faccia: non era tanto furiosa quanto trionfante, è questo il particolare strano. Aveva detto che fingevo di essere migliore di Alan, ma in realtà ero come lui. Aveva
minacciato di spifferare tutto ad Alan e a tua madre. Aveva affermato» concluse con voce asciutta «che era suo dovere.» Tacque, e il silenzio calò sulla cucina mentre aspettava che parlassi. «L'aveva riferito a qualcuno?» «Non penso. Non che io sappia.» «Ma forse l'aveva spiattellato ad Alan.» «Chissà.» «Perché me lo dici ora, dopo tutti questi anni?» Si strinse stancamente nelle spalle. «Forse perché è un buon momento per svelare i segreti di famiglia. Forse perché morirò tra non molto e, avendo bisogno di confessarlo a qualcuno, ho pensato che tu potessi capirmi. Forse perché sei quella che va in giro alla ricerca della verità.» Non replicai. Non sapevo che cosa dire, e non sapevo che cosa stavo pensando. Cercai di immaginare mio padre con Martha, ma riuscii solo a figurarmeli com'erano ora: anziani, con le macchie scure, le abitudini radicate e la pelle di carta. Martha sfogliò le pagine fino al disegno della bambina e del tramonto. «Questa è Natalie» spiegò. «So che non assomiglia a Natalie, a eccezione della bocca, forse. Ma è come la immagino sempre. Era un tipo solitario, sai. Ficcanasava nella vita della gente, aveva tanti ragazzi, andava ai party, ma era sempre sola. Ero sua madre, ma a volte avevo l'impressione che fosse un'estranea. I ragazzi, oh, fingevano di essere grandi e indipendenti, mi ignoravano o erano scortesi con me quando arrivavano i loro amici, ma avevano bisogno di me ed erano sempre così trasparenti. Natalie, invece... Mi sentivo spesso rifiutata da Natalie. Avevo sempre creduto che avremmo avuto una relazione di complicità, due donne in una famiglia di uomini.» Alzatasi, portò via i piatti. «Fa' le telefonate a cui hai accennato; io vado a prendere quelle talee per il tuo giardino.» Infilandosi la giacca, afferrò un paio di cesoie e scomparve oltre la soglia. Le obbedii meccanicamente, consultando la mia agenda finché mi imbattei nel nome di Judith Parsons (nata Gill, una delle mie migliori amiche ai tempi della scuola). Fu sorpresa ed entusiasta di sentire la mia voce: come mi trovavo a Londra, come stavano i miei figli, non è terribile come volano gli anni? Sì, sarebbe stato fantastico incontrarci... A volte lei e Brendon venivano a Londra, e allora mi avrebbe senz'altro chiamata. Quando stavamo per salutarci, le domandai, con un misto di rimorso e di-
sinvoltura, se per caso aveva il numero di Chrissie Pilkington. Avrei lavorato vicino a casa sua per qualche giorno e mi avrebbe fatto piacere rivederla. L'euforia di Judith si attenuò lievemente. Sì, ce l'aveva, ma adesso si chiamava Christina Colvin. Scribacchiai i dati nel taccuino e composi il numero. Christina Pilkington in Colvin non fu altrettanto felice di sentirmi. Non potevo darle torto. Erano passati venticinque anni da quando ci eravamo viste per l'ultima volta. Risvegliai ricordi che avrebbe senza dubbio preferito cancellare. Tuttavia, accettò con riluttanza di ricevermi quel pomeriggio per un tè. Annotai le indicazioni e, poco prima che riagganciassi, affermò all'improvviso: «Ci sarà anche mio marito, Jane». Martha caricò le talee nel bagagliaio della mia auto, quindi indicò la pila di volumi sul tavolo. «Sono per i tuoi nipoti, Jane. Un giorno.» E poi, finalmente, ci abbracciammo. I Colvin abitavano poco distante da Oxford, in una grande casa neoTudor, tutta legno e finestre romboidali, con una piscina in giardino e un viale di rododendri. Ho sempre detestato i rododendri. Fiori vivaci, foglie lucide, e nulla che viva lì sotto. Non avrei mai riconosciuto Chrissie. Quando l'avevo conosciuta, era alta e magra, con splendidi capelli biondi puntati in cima alla testa. Ora pareva più bassa, oppure pareva più bassa perché era molto più larga. Il suo corpo robusto era strizzato in una camicia verde e in un elegante paio di pantaloni bianchi, in bilico su due tacchi alti. La sua bellezza scarna e selvaggia era sparita. Notai la sua espressione irrequieta sotto il trucco. Ci stringemmo la mano; nessuna delle due si risolse a baciare l'altra sulla guancia, e mentre esitavamo, un uomo corpulento con un completo grigio uscì dall'edificio, mi abbracciò con calore e reagì alle tiepide presentazioni di Chrissie con un: «Mi fa piacere che Chrissie riveda una vecchia compagna di scuola. Ho sentito tanto parlare di te, Jane». Ne dubitavo. «Tè? O preferisci qualcosa di più forte?» «Il tè andrà benissimo, grazie.» «D'accordo. Allora, belle signore, vi lascio chiacchierare in pace. Avrete un mucchio di cose da raccontarvi.» «Ian amministra una società» mi informò Chrissie, come se quello spiegasse tutto. Entrammo. Udii il diligente trillo di un pianoforte provenire dal piano superiore. «Mia figlia, Chloe. Leonore è da un'amica.» Ci accomodammo in salotto, tra cuscini sprimacciati e stampe di fiori e
paesaggi. Chrissie non mi offrì il tè. «Qual è il vero motivo della tua visita?» domandò. «Hai saputo di Natalie?» Annuì. «È per questo che sono venuta.» Si guardò nervosamente intorno, come se suo marito potesse essere sulla soglia. «Non ho niente da dire, Jane. È successo più di vent'anni fa, e non voglio neppure pensarci, figurati parlarne.» «Venticinque anni fa.» «Ventìcinque anni fa. Per favore, Jane.» «Quando hai visto Alan per l'ultima volta?» «Ti ho detto che non voglio parlarne. Non voglio pensarci.» «Tuo marito sa che quando avevi quindici anni hai avuto una relazione sessuale con Alan Martello? Si è mostrato comprensivo al riguardo?» Trasalì, guardandomi negli occhi. Mi dispiaceva per lei, ma provai anche una sensazione di trionfo perché intuii che avrebbe parlato con me. Scrollò le spalle. «Non vedo Alan da quando Natalie è scomparsa. Non pretendo che tu capisca, ma era così... affascinante, se riesci a crederci. Io ero solo una ragazzina, e lui era un uomo famoso che mi copriva di regali e complimenti.» Scoppiò in una risata amara. «Sembra bizzarro ora, vero? Quando ha insistito per venire a letto con me, non ho avuto scelta.» Abbassò lo sguardo sulle sue impeccabili unghie scarlatte, quindi aggiunse, quasi compiaciuta: «Mi ha quasi rovinato la vita. Perché non te la prendi con Alan, anziché con me?» «Dài, Chrissie, non esagerare. Era soltanto sesso. Non ti è piaciuto neanche un po'?» «Non lo so. Evito di pensarci.» «Allora perché l'hai spifferato a Natalie?» Parve sorpresa. «Non gliel'ho spifferato. Una volta ci ha seguiti nei boschi. E ci ha visti, sai.» Aveva un'aria di trionfo affettato. «Vi siete accorti che era lì?» «Sì.» «Allora che cosa è accaduto?» «Che cosa vuoi che sia accaduto? Alan ha cominciato a piagnucolare. Ha strisciato fino a Natalie e ha iniziato a tirarle la gonna, ripetendo che
era la sua cara bambina, domandandole se avrebbe mai potuto perdonare il suo vecchio papà e dicendo che gli uomini erano fatti così e che Martha ne avrebbe sofferto. A essere onesta, è stato molto sgradevole.» «Che cosa ha fatto Natalie?» «Si è allontanata.» «E Alan?» Mi guardò dritta in faccia. Per la prima volta scorsi l'espressione provocatoria e menefreghista della Chrissie adolescente. «Mi ha spinta di nuovo a terra e mi ha scopata. Credo che l'episodio l'avesse eccitato. Però quella è stata l'ultima volta.» Calò un silenzio glaciale. «Adesso puoi raccontare tutto a mio marito.» «In seguito sei uscita con Theo, vero?» «Domandalo a lui.» «E riguardo a Natalie? Sai che era incinta, vero?» «Ho letto i giornali.» «Chi pensi possa essere il padre?» «Non saprei. Come si chiamava... Luke McCann, suppongo.» Mentre uscivo, il suo intraprendente marito mi rivolse un allegro cenno di saluto. «Torna presto, Jane, è sempre bello vedere le vecchie amiche di Chrissie.» Dall'auto, scorsi Chrissie, una donna di mezza età con troppo rossetto, e scorsi quella che doveva essere Chloe, l'aspirante pianista, a una finestra del piano di sopra. Assomigliava come una goccia d'acqua alla Chrissie di venticinque anni prima. Per la mia ex compagna di classe doveva essere stato difficile accettarlo. Partii con una sgommata imbarazzante, e per tutto il tragitto verso Londra meditai sul sesso, sulle sue stranezze e sulle sue complicazioni. CAPITOLO 18 Contro ogni aspettativa, avevo l'impressione che l'analisi mi rendesse meno incline a giudicare gli altri. Anziché rimuginare su Martha e Chrissie, o condurre uno sterile dibattito sull'intera vicenda nella mia mente, potevo discuterne con Alex. Non si scandalizzava per quanto gli raccontavo, non era animato da alcuna curiosità morbosa, e sebbene mi rimproverasse, a volte anche con asprezza, non dovevo mai chiedergli scusa. In sintesi, credevo che stesse dalla mia parte. Mi fidavo di lui. Be', di chi altri mi sarei potuta fidare?
Il giorno dopo essere tornata a Londra, arrivai a casa sua con gli acquisti di Natale, come un viaggiatore di passaggio. Appoggiai i sacchetti al lettino. Di tanto in tanto, parlando, facevo scorrere le dita sulla plastica spiegazzata, una sensazione di normalità. Ne avevo bisogno. Quando gli raccontai di Martha e di mio padre, temetti quasi che scoppiasse a ridere, tanto quella relazione pareva patetica, sordida e inopportuna. Ma non rise e non esternò alcuna stupida compassione. Quando gli descrissi l'incontro con Chrissie, ebbi paura che quel nuovo esempio del mio lavoro investigativo dilettantistico lo irritasse. Assunsi un tono un po' dispiaciuto e difensivo mentre ripetevo quello che la mia amica mi aveva riferito riguardo all'increscioso episodio con Alan e Natalie, e mi meravigliai di vederlo solo annuire con interesse. «Non riuscirò a dissuaderla dall'indagare come un segugio, vero?» Aveva un accento esasperato nella voce, ma nulla di preoccupante. «Non sto indagando come un segugio, Alex. Mi sto solo baloccando, davvero. Ho la sensazione di cercare qualcosa. Solo che non so con esattezza che cosa sia.» «Già.» Assunse un'espressione meditabonda. «Mi domando se magari stia guardando nel posto sbagliato.» «Che cosa intende?» «Lei mi incuriosisce, Jane. Ha la tecnica di un illusionista. Quando mi indica una direzione, ho l'impressione che sia un gioco di prestigio e il fatto saliente accada da un'altra parte.» «Non sono così abile.» «Naturalmente, inganna anche se stessa. Qualcosa si profila all'orizzonte, e lei vuole trovarlo, ma allo stesso tempo non vuole.» «Che cosa vuol dire, Alex? Pensa che sia sulla strada giusta?» Seguì un'altra delle sue lunghe pause. Sentivo il mio respiro e il mio cuore, simile a una palla che mi rimbalzava nel petto. Alex stava per dire qualcosa. Quando parlò, lo fece con grande fermezza. «A mio parere, Jane, è sulla strada giusta nel senso che c'è qualcosa di preciso da scoprire. Ma lo sta cercando nel luogo sbagliato. Va a parlare con persone che non riusciranno mai a risolvere il suo problema. Il posto in cui dovrebbe guardare davvero è qui dentro.» Sentendo la sua mano fresca sulla fronte, per poco non sobbalzai sul lettino. Non era la prima volta che mi toccava, ma fu un gesto sorprendentemente intimo. Mi aveva senz'altro fraintesa. «Alex, non nego che la sua terapia sia utile e importante. Ma quando
parlo con le persone, cerco qualcosa di specifico, anche se nel mio modo patetico e confuso. Sto tentando di trovare qualcosa che è là fuori, la verità riguardo a un avvenimento concreto.» «Ho forse detto qualcosa di diverso, Jane?» «Che cosa vuole insinuare? Crede che conosca già la risposta? Che sappia chi ha ucciso Natalie?» «Sapere è una parola complicata.» Avvertii un improvviso formicolio sulla pelle. «Mi sta accusando di qualcosa?» Rise, conciliante. «No, Jane, certo che no.» «Ma se lo sapessi, be', io... mmmh, me ne accorgerei, no? Me ne ricorderei.» «Davvero? Aspetti un secondo.» Si alzò e uscì, per poi tornare con una malconcia cartellina gialla e un quaderno ad anelli. «Mi permetta di prendere l'iniziativa per un attimo» disse, risedendosi. «Voglio porle alcune domande su di lei.» «È una specie di esame?» «Non si preoccupi. Si limiti a rispondere. Solo se lo desidera, naturalmente, ma credo che la aiuterà.» «D'accordo.» «Le domanderò parecchie cose. Potrà darmi risposte molto concise. Anche un semplice sì o no, se preferisce. Okay?» Prese la penna e cominciò. Dopo ogni risposta, scribacchiava una breve annotazione. «Ha paura del buio, Jane?» «Sì.» «Fa spesso incubi?» «Credo di sì. Non li ricordo molto bene.» «Si vergogna mai del suo aspetto fisico? Ci sono delle parti del suo corpo che non le piacciono?» «Sì, certo, come capita a tutti quanti.» Era divertente. Mi rammentava quegli irresistibili test della personalità nelle riviste. «Ha mai avuto disturbi ginecologici?» «Ho sofferto spesso di cistite. Non so se conta.» «Artrite? Mal di testa?» «Niente artrite, ma il mal di testa mi viene spesso. Soffrivo di emicranie. Per anni ne ho avuta una ogni venerdì dopo cena. A meno che non uscissimo per andare da qualche parte. In quel caso, mi veniva il sabato sera.»
«Ha mai evitato di guardarsi allo specchio?» «Sì, ecco, vedi la precedente risposta riguardo al corpo.» «Ha mai desiderato cambiare nome?» «Sta scherzando? L'ho cambiato. Di recente ho accarezzato l'idea di tornare a quello di prima, ma ormai è un po' tardi. Tutte quelle etichette e quegli ordini fissi che andrebbero modificati.» «Indossa mai quella che potrebbe sembrare una quantità eccessiva di capi d'abbigliamento?» «Soffro di cattiva circolazione, perciò talvolta ho freddo anche se c'è il sole. Dunque, sì, suppongo di sì. È un crimine?» «Ha qualche fobia?» «No. Non mi disturbano i posti alti, e i ragni mi piacciono. Gli spazi angusti sono accoglienti. Ora che mi ci fa pensare, provo un odio irrazionale verso i cereali per la colazione e ho trascorso gran parte dell'infanzia dei miei figli tentando di tenerli fuori da casa mia. E detesto la festa della mamma, i menu turistici e tutte le altre invenzioni dei pubblicitari.» «Qualche disturbo dell'alimentazione?» «No.» «Qualche problema con la droga o l'alcol?» «Nemmeno uno.» «Si è mai astenuta ossessivamente dal farne uso?» «Non proprio. Bevevo un po' meno nei giorni precedenti gli esami finali e cose simili. La droga non mi è mai piaciuta più di tanto. Forse per via della cultura e del ciarpame che la accompagnavano. E avevo paura di essere arrestata. Non credo di aver avuto un atteggiamento puritano al riguardo.» «Qualche esempio di comportamento compulsivo?» «Oh, a bizzeffe.» «Ha mai provato il desiderio di essere invisibile?» «Se mai l'ho provato, è stato esaudito per gran parte del mio matrimonio. Mi scusi. La risposta sincera è che non ho mai avuto questa tentazione, neppure sotto forma di fantasia.» «Ha mai sofferto di depressione?» «Sì.» «Scarsa autostima?» «Oh, sì.» «Piange mai senza motivo?» «È quasi una domanda filosofica, ma a occhio e croce direi di sì.»
«Qualche impulso o pensiero suicida?» «Niente di serio.» «Ha mai sentito la necessità di essere molto buona o, al contrario, perfida?» «Capisco che cosa intende. Conosco quello stato d'animo.» «Ha mai avuto l'impressione di essere una vittima?» «Solo nei momenti di maggiore debolezza. Spero di non essermi mai considerata davvero una vittima.» «Ha mai avuto la sensazione di essere a conoscenza di un segreto? Magari con il bisogno di rivelarlo e il timore che nessuno le avrebbe creduto?» «Non sono certa di aver capito la domanda. Penso di no.» «Ha mai corso grossi rischi?» «No. Talvolta vorrei averli corsi.» «Si è mai sentita incapace di correre rischi?» «Sì.» «Sogna mai a occhi aperti?» «Come ha detto? Ero lontana anni luce. Scusi. Stavo scherzando. Qualche volta, forse.» «Pensa di aver mai rimosso un periodo della sua vita, soprattutto da giovane?» «Non lo so. È difficile stabilirlo. Ovviamente ci sono tante cose che non ricordo.» «Si preoccupa mai di essere rumorosa? Mi riferisco a situazioni come il sesso, le occasioni sociali e persino il gabinetto.» «Adesso sì che andiamo sul personale, vero? D'accordo, non mi vergogno, risponderò. Procediamo per ordine. Credo di essere piuttosto disinibita sul piano sessuale, perciò suppongo di gemere e gridare. Mi irritano le persone che urlano e sghignazzano alle cene, e probabilmente risulto molto riservata in pubblico. Faccio del mio meglio per essere silenziosa sul water quando c'è qualcun altro nelle vicinanze. Non lo fanno quasi tutti?» «Ha mai pensato che il sesso fosse sconcio?» «No, non di per sé.» «Le ha mai dato fastidio essere toccata?» «Durante i rapporti sessuali, intende?» «Non necessariamente.» «Talvolta mi dà fastidio che mi palpeggino, ma, per quanto possa sembrare ingiusto, dipende tutto dall'uomo. Ci sono state occasioni in cui non
avevo voglia di fare sesso e l'ho detto chiaro e tondo.» «E se a toccarla è un ginecologo?» «Non mi andava di essere visitata da un uomo. Quando avevo, oh, poco meno di trent'anni, Claud mi ha trovato una dottoressa molto in gamba, e da allora mi sono sempre rivolta a lei. Non ho alcun problema con Sylvia.» «Prova repulsione per particolari atti sessuali?» «Ce ne sono uno o due che non mi piacciono granché, suppongo.» «Ce ne sono altri per cui prova una forte attrazione?» «Oh, sì.» «È mai stata promiscua in modo compulsivo?» «No. Forse sarebbe stato divertente per un po', e immagino che il college sarebbe stato il luogo adatto per fare qualche esperimento in tal senso, ma mi sono legata a Claud molto presto.» «Si è mai astenuta dal sesso in modo compulsivo?» «No.» «È mai ossessionata dall'idea del sesso?» «Non so che cosa intenda per ossessionata. Ci penso di tanto in tanto.» «Prova mai l'impulso di tenere sotto controllo le emozioni?» «Non mi piace perdere il controllo sul piano emotivo.» «Avverte l'esigenza di manipolare le situazioni?» «Qualche volta ci provo.» «Tenta ossessivamente di controllare cose che non sono importanti?» «A volte mi viene la mania dell'ordine o dell'organizzazione. In confronto a Claud, ero una vera casinista.» «Trova difficile essere felice?» «L'ho provato sulla mia pelle.» «Trova difficile rilassarsi?» «Sì.» «Trova difficile lavorare?» «Ultimamente è stato un problema.» «Crede mai di essere pazza?» «Sì.» «Ha mai inventato mondi immaginari? O relazioni immaginarie?» «Non da quando ero bambina.» «Ha mai avuto l'impressione di essere reale e che tutto il resto fosse una finzione?» «Capisco che cosa intende, ma francamente non posso rispondere di sì. Sono sempre stata tanto razionale da essere noiosa. Con molta probabilità
ho provato quella sensazione da piccola, come tutti.» «O viceversa?» «In altre parole, se ho mai creduto di essere io la finzione? Questo è più probabile. Talvolta ho l'impressione che tutti gli altri siano veri adulti e che finga di esserlo anch'io sebbene, in realtà, sìa ancora una bambina.» «Ha paura di raggiungere i suoi obiettivi?» «Ogni tanto.» «Determinati cibi o sapori la spaventano o la disgustano?» «No, ma le confesserò un segreto. Non mi sono mai davvero piaciuti i cavolfiori e i cavolini di Bruxelles.» «Prova mai un senso di condanna?» «Sì.» Tacque a lungo, ma scrisse con foga sul suo taccuino, talvolta tornando indietro di qualche pagina. Dopo alcuni dolorosi istanti, lo chiuse. «Com'è andata? Sono stata promossa?» Quando rispose, il suo tono era più serio che mai. «Se il soggetto risponde di sì a più di sei o sette domande, significa che nasconde un trauma latente.» «Che cosa significa "latente"?» «Un evento, o una serie di eventi, che si è costretta a dimenticare.» «Dài, Alex, i quesiti di quella lista sono applicabili a chiunque. Chi mai non risponderebbe di sì ad alcune di quelle domande?» «Non cerchi di sminuirle, Jane. Finora è stata molto coscienziosa. I quesiti sono pensati per scoprire eventuali sintomi d'ansia che potrebbero indicare qualcosa di più profondo. Non sto facendo una diagnosi, ma è una cosa su cui dovremmo riflettere. Mi dica, Jane, si è ricollocata nel paesaggio in cui Natalie era scomparsa. L'ha fatto con grande impegno. Sono molto colpito. Ma come la fa sentire quel paesaggio? Le trasmette un senso di paura? Crede che contenga qualcosa? Qualcosa di nascosto?» Lì, distesa sul lettino, all'improvviso ebbi freddo, come mi capita sempre quando resto sdraiata a lungo, anche in una casa ben riscaldata come quella di Alex. Di nuovo la mia cattiva circolazione. «Sì, mi spaventa. Qual è l'aspetto che le interessa, Alex?» «Ho sempre cercato di lasciarmi guidare da lei, Jane. Le ho domandato della scomparsa di Natalie, e lei mi ha descritto un paesaggio. Voglio mandarla in quel paesaggio e vedere che cosa scopre. Crede che valga la pena tentare?» «Sì, d'accordo.»
Così ci apprestammo a mettere in atto il solito rituale. Ero contenta dell'approvazione di Alex, quasi stessi diventando la sua allieva preferita. Mi parlò con dolcezza. Il mio corpo si rilassò, chiusi gli occhi e tomai a immaginarmi accanto al Col. Seduta dopo seduta, diventava sempre più facile, e il mondo in cui mi ritrovavo era ogni volta più vivido. Ero seduta, la schiena appoggiata alla roccia asciutta e muscosa ai piedi di Cree's Top, il ruscello che scorreva via alla mia sinistra, gli ultimi fogli appallottolati che superavano l'ansa, gli olmi sul confine dei boschi alla mia destra. Riuscii ad alzarmi e a girarmi senza alcuna esortazione. Ora avevo il fiume sulla destra, l'acqua fluiva nella mia direzione allontanandosi alle mie spalle, gli olmi e i boschi erano alla mia sinistra. Guardai il sentiero che zigzagava su per la salita di Cree's Top. Era fiancheggiato da folti cespugli su un lato, e di quando in quando scompariva serpeggiando lungo la china, ma lo distinguevo quasi per intero. Era tutto più nitido di prima. Le foglie erano più verdi e definite contro la luce del sole che le illuminava dall'alto. Ruotando la testa, visualizzai ognuno dei dettagli circostanti e mi addentrai nella scena, fino ai sassolini del viottolo, spinti sui bordi dal passaggio di piedi che avevano anche lisciato il terreno, esponendo le pietre più grosse e le radici degli alberi. Quasi d'impulso, cominciai ad avanzare lungo la pista. Abbassando lo sguardo, notai che calzavo scarpe da ginnastica nere, un modello che non possedevo dai tempi della scuola. Ormai avevo percorso un discreto tratto, risalendo la collina e scostandomi dal punto in cui ero seduta prima. Voltandomi a destra, vidi il fiume in fondo alla discesa. Voltandomi a sinistra, vidi i boschi in direzione della Fattoria. A un tratto si fece buio. Quando guardai su, una pesante nube nera passò sopra di me. L'aria si raffreddò, e sentendomi attraversare da un brivido, mi lanciai di corsa giù dal colle. Sedetti con cura nella posizione originaria, la roccia crostosa contro la mia spina dorsale. Spiegai ad Alex che cosa era successo. «Perché non ha proseguito?» «Avevo paura.» «Le bambine grandi non devono avere paura.» CAPITOLO 19 «Pronto?» «Può passarmi Jane Martello, per favore?»
«Sono io, chi parla?» Non ero di buon umore. Quella mattina era la quarta volta che qualcuno del municipio mi telefonava per le modifiche al pensionato. L'indomani il consiglio si sarebbe riunito per dare l'okay (o l'alt) al budget decurtato da destinare a un edificio già così alterato, impoverito e compromesso che non volevo più associarvi il mio nome. «Jane, sono Caspar, Caspar Holt.» «Chi?» «Non era necessario, ma grazie per la cartolina.» Era il filosofo. Sedetti, respirando a fondo. «Oh, sì, ecco, volevo scusarmi per il mio comportamento di quella sera.» «Date le circostanze, credo che si sia comportata con aplomb. Mi domandavo se le andasse di incontrarci.» Oh, Dio, un appuntamento. «Mmmh, d'accordo, insomma, quando le farebbe comodo?» «Che cosa ne dice di subito?» «Subito?» «Be', tra mezz'ora, allora.» Dovevo definire gli ultimi dettagli per la riunione del giorno dopo, dovevo andare in ufficio, dovevo assolutamente lavarmi i capelli. Non era la giornata ideale; era la giornata perfetta per un lavoro affannoso e un umoraccio acido. «Mi conceda un'ora. Dove ci vediamo?» «Al numero tredici di Lincoln's Inn Fields. La aspetto fuori.» Non riuscii a definire i dettagli per la riunione né ad avvertire l'ufficio. Ma mi lavai i capelli. Mi attendeva fuori con lo stesso ingombrante cappotto di tweed che aveva indossato all'Istituto di arti contemporanee. Poiché era assorbito da un libro tascabile, ebbi modo di osservarlo prima che mi scorgesse. I capelli biondo cenere erano lunghi, ricciuti e tirati indietro sopra la fronte. Aveva occhiali tondi dalla montatura metallica. «Il museo di Sir John Soane» dissi. «È qui che di solito porta le ragazze per il primo appuntamento?» Alzò lo sguardo, sorpreso. «Sì, probabilmente spiega la mia fortuna con le donne. Ma è gratuito, ed è come camminare nel cervello di un uomo.»
«E questo è un bene?» Mi posò una mano delicata sulla spalla mentre varcavamo il portone ed entravamo in quell'edificio bizzarro, lo spazio che si allargava verso i piani superiori e giù verso il seminterrato. Mi guidò in una stanza tinteggiata di uno scuro rosso ruggine. C'erano oggetti strampalati, strumenti antichi, frammenti architettonici, opere d'arte eccentriche su ogni superficie. «Guardi quello» suggerì Caspar, indicando qualcosa di informe. «È un fungo di Sumatra.» «Un cosa?» «In sostanza, è una spugna.» Percorremmo corridoi così angusti da essere improbabili, che sfociavano all'improvviso in viste ancor più improbabili, su e giù, ogni ripiano coperto da una sconcertante serie di oggetti. «Ciascuna stanza è come una singola parte della mente che l'ha progettata» spiegò. Notai che aveva le nocche spruzzate di vernice scarlatta e il colletto della camicia frusto. «Come il cervello di un uomo, forse» replicai. Sorrise. «Divisa in scompartì, intende. Piena di oggetti. Può darsi. Può darsi che abbia ragione. Non è la casa di una donna, vero? Ogni tanto vengo qui all'ora di pranzo. Mi meraviglio di come un'intera vita possa essere stipata in un edificio. È un posto così introverso, non crede? E anche estroverso, naturalmente.» «Questa è la sua lezione standard?» domandai. «Scusi, l'ho irritata?» «Stavo solo scherzando.» Salimmo al piano di sopra, nell'alta sala dei quadri tinteggiata di verde e di un intenso giallo zafferano. Il sole invernale che filtrava dalle finestre ad arco illuminava i colori opachi e vividi; il locale era fresco e solenne come una chiesa. Passammo accanto alla serie «Carriera di un libertino» di Hogarth, tutta rabbia e ferocia. Caspar si fermò davanti al Libertino a Bedlam. «Guardi» disse. «Accanto alla cella cinquantacinque, quell'uomo con lo scettro e un vaso da notte in testa sta urinando. Ha notato l'espressione di quelle due signore eleganti?» Sbirciai la scena grottesca, scorgendo figure indistinte e contorte, e rabbrividii. «È il Bethlehem Hospital, Bedlam. Era a Moorfields, appena fuori dalie mura della città. Il padre di Hogarth finì in carcere per debiti, e quell'avvenimento lasciò un profondo segno nel pittore. Guardi il viso di quella don-
na anziana inginocchiata, Jane, sembra umana solo per metà.» Scrutai il volto di Caspar, i suoi fermi occhi grigi. Notai come usava il mio nome. A un tratto mi venne in mente che era trascorso molto tempo dall'ultima volta in cui mi ero sentita felice. Mentre ero lì con Caspar, in una costruzione simile al cervello di un uomo, ebbi l'impressione di guardare fuori dal buio in cui avevo abitato così a lungo, attraverso una finestra, in direzione di un futuro diverso, più luminoso. Vedevo alcuni paesaggi, il cielo. Per un attimo rimasi immobile, mentre la speranza mi afferrava. Incrociai il suo sguardo per un istante. «Aspetti» riprese. «Voglio mostrarle una cosa.» Scendemmo di nuovo i gradini e attraversammo due sale. «Guardi qui dentro.» Vidi quello che pareva un totem costituito da frammenti di varie colonne. Vi era inciso il nome «Fanny». Mi voltai verso Caspar con le sopracciglia inarcate. «Sì?» domandai. «È la tomba del cane che apparteneva alla moglie di John Soane. Ma è anche il nome di mia figlia.» «Pensavo fosse uno di quei nomi che non si usano più.» «Ho cercato di resuscitarlo.» «È sposato?» «No. Vivo solo.» «Mi rincresce.» «Non è necessario.» Fuori, battendo le palpebre contro la luce gelida, ci scambiammo un sorriso sciocco. Poi Caspar consultò l'orologio. «Pranzo?» «Non dovrei.» «Per favore.» «Va bene.» Andammo fino a Soho, oltrepassando le rosticcerie e i pornoshop, e ci fermammo a un ristorantino italiano. Ordinammo un'insalata verde, formaggio di capra mezzo sciolto su croccante pane tostato e un bicchiere di vino bianco a testa. Guardandomi le mani senza fede nuziale, mi domandò se ero sposata, e risposi che ero separata. Gli domandai quanti anni aveva sua figlia. Cinque. Molti, aggiunse, lo consideravano una specie di superuomo solo perché faceva quanto centinaia di migliaia di donne faceva-
no senza che nessuno se ne accorgesse. «Prima di Fanny, quell'angioletto, non sapevo che cosa fosse l'amore» affermò. Gli parlai di Robert e Jerome, di come erano alti e cresciuti, di come mi proteggevano e mi stavano sempre accanto, e lui replicò che prima o poi gli avrebbe fatto piacere conoscerli. Allora la possibilità che vi fosse un seguito, un «prima o poi», mi si schiuse davanti agli occhi, riempiendomi di paura e confusione, e mi accesi una sigaretta. Annunciai che dovevo andare. Non tentò di fermarmi, limitandosi ad accompagnarmi alla bicicletta e a osservarmi mentre litigavo con il lucchetto e il casco e mi allontanavo barcollando. Mi sentivo come un'adolescente, con la testa che mi girava per l'emozione, e mi sentivo come una vecchia terrorizzata che veniva trascinata di nuovo in una prigione da centinaia di corde sottili e aguzze. Avrei potuto avere un'avventura con Caspar... No, capii quando ripensai alla sua mano delicata sulla mia spalla e ai suoi fermi occhi grigi, avrei potuto avere una relazione con Caspar. Non saremmo solo finiti a letto insieme una sera dopo una bottiglia di vino, avremmo anche scavato nei rispettivi passati, riaprendo vecchie ferite, cedendo alla dolorosa assuefazione dell'amore. Non che non fossi pronta... È quello che ripetono sempre i consulenti, che devi aspettare, tornare a essere forte, imparare a convivere con la solitudine. Ero pronta, d'accordo. Era trascorso parecchio tempo da quando mi ero abbandonata all'amore. Ero pronta, ma avevo paura. Ero stanca. Una lieve emicrania mi pulsava nelle tempie. Vino a pranzo. Pedalai lungo Oxford Street, che, nel pomeriggio invernale, era già rischiarata dalle luminarie natalizie. Dio, detesto i giganteschi personaggi Disney appesi per le strade. Non avevo ancora finito di acquistare i regali, sebbene avessi comprato un binocolo per papà e tanti ridicoli doni da infilare nelle calze di Babbo Natale, che aveva continuato a farci visita anche dopo che i bambini mi avevano smascherata. Era sempre stato il mio momento preferito del 25 dicembre, il mattino presto, quando tutti si pigiavano in camera mia, sedevano sul letto ed estraevano mutandine, saponette e cacciaviti dalle federe dei cuscini. Di colpo rammentai che forse sarei stata sola la mattina di quel 25 dicembre: i ragazzi sarebbero venuti a cena, naturalmente, e anche papà, e forse avrei dovuto invitare Claud, perché non sopportavo il pensiero che consumasse un metodico pasto solitario, anche se probabilmente sarebbe andato da Alan e Martha. Esisteva tuttavia la possibilità che la mattina di Natale mi svegliassi in una casa vuota.
Per un attimo soppesai l'idea di avventurarmi nelle fauci spalancate di un grande magazzino dall'aria greve di profumo, per fare incetta di camicie, cravatte e maglioni per i miei figli. Ma odiavano le camicie e le cravatte dei grandi magazzini, e avevo smesso da tempo di scegliere i vestiti per loro. D'impulso, mi diressi verso uno dei miei negozi preferiti di Londra, il negozio di cappelli in Jermyn Street, e acquistai tre trilby favolosi e costosissimi: uno marrone per Jerome, uno nero per Robert e uno verde bottiglia per Kim. Appesi il sacchetto al manubrio e mi avviai verso Camden, dove comprai qualche bel barattolo verde e tanti minuscoli cestini di carta per i tartufi al cioccolato che avrei regalato a tutti. In una vetrina, adocchiai un paio di orecchini a forma di microscopiche scatole d'argento. Troppo cari. Li presi per Hana e li portai via in una graziosa custodia guarnita da un nastro. Quella sera ascoltai i miei tre album di Neil Young mentre cucinavo il chutney al pomodoro, che distribuii nei barattoli etichettati, e i tartufi al cioccolato fondente. Li cosparsi di cacao e li depositai nei loro piccoli cestini. L'indomani avrei confezionato le scatole. La cucina odorava di aceto e cioccolato. Sentendomi ancora emozionata e pimpante, mi versai un bicchiere di vino rosso, mi accesi una sigaretta e disegnai la mia casa con una matita ben temperata e il mio righello preferito (lungo, con un unico bordo piatto). Scarabocchiai un paffuto cherubino kitsch sopra le linee geometriche del tetto. Quando fossi andata in ufficio, l'avrei fotocopiato su cartoncino bianco e ne avrei spedite le copie come bigliettini augurali. Mi versai un altro bicchiere di vino (l'emicrania era svanita) e fumai una sigaretta. Forse avrei smesso di fumare per Capodanno. Dalla finestra vidi la luna piena, e d'impulso mi infilai un pesante cappotto di Robert e uscii in giardino. Era una splendida serata, tersa e freddissima. Le stelle sembravano vicine, e i rami del pero è del ciliegio erano spogli. A un'estremità, sotto l'alloro troppo cresciuto, vi era il cimitero senza lapidi dove giacevano i numerosi animaletti dei ragazzi: criceti, due conigli, un pappagallino e vari porcellini d'India. Jerome e Robert avevano l'abitudine di giocare a football sul prato, trasformandolo in una distesa di fango. In primavera e in autunno organizzavamo frenetici week-end di giardinaggio, piantando semi che i gatti dei vicini avrebbero dissotterrato. In aprile, gli alberi fiorivano, i minuscoli boccioli spumosi del pero e del ciliegio e i fiori a candela della magnolia, e per qualche settimana il giardino si tramutava in un luogo di grazia e bellezza stupefacenti. Tempo permettendo, io e Qaud sedevamo là fuori con un drink. Davamo feste estive a base di co-
cktail e fragole, e i ragazzi distribuivano le patatine. Avevamo fatto molti barbecue, alcuni con hot dog e bibite gassate, altri con kebab ai gamberetti, sgombro alla creola e funghi piani marinati in salsa piccante. La mia memoria si inceppò di nuovo: avevo dimenticato qualcosa. Che cosa mi aveva consigliato Alex? Di concedere a me stessa la possibilità di ricordare. Stringendo il vino e la sigaretta, espressi in anticipo il mio proposito personale per il nuovo anno: non avrei avuto tregua finché non avessi attraversato il paesaggio della mia memoria e ne avessi raggiunto il cuore, e avrei autorizzato me stessa a essere felice. Non pensai nemmeno per un attimo che avrei potuto attuare la seconda decisione senza mettere in pratica la prima. CAPITOLO 20 «Vuole cosa?» «Vuole presentarsi alla cena di Natale con una troupe televisiva.» «Ma è ridicolo. Tanto per cominciare, quale troupe televisiva accetterebbe di lavorare a Natale?» «La sua, suppongo. Sarà come il messaggio della regina al Commonwealth.» «Jane, non avrai mica acconsentito?» Kim non strillava mai; ora stava strillando. «Be', è stato così difficile. Insomma, significa tanto per Paul, e ci ha già lavorato parecchio. E poi, se ho fatto trenta, penso di poter fare anche trentuno.» «Credi davvero che Paul, Erica e, naturalmente, Rosie, dovrebbero arrivare a Natale con le telecamere accese e filmarti mentre cucini il tacchino? Cristo, Jane, ci sarà anche tuo padre. E Robert e Jerome. E io con Andreas.» «Non si fermeranno per tutto il giorno. Solo il tempo necessario per farsi un'idea della famiglia a Natale. Sloggeranno molto prima che ci sediamo a tavola.» Dall'altro capo del telefono giunse un gorgoglio, e mi accorsi con sollievo, e con qualcosa di simile alla gioia, che Kim stava ridacchiando. «Mi aiuterai, Kim? A superare anche questa, intendo?» «Non devi nemmeno chiedermelo. Come devo vestirmi? Non sono mai stata in televisione prima d'ora. Sono le righe o i pois a essere vietati?» «Ecco qui. Uno sherry secco e una tortina alle mele.»
Lo sherry era giallo chiaro, la tortina calda e speziata. Sedetti con attenzione sul sofà dai cuscini sprimacciati che pareva appena arrivato dai grandi magazzini. Mi sentivo un'estranea, un'ospite in visita di cortesia. «È molto accogliente qui.» La stanza era impeccabile, come uno spazio destinato a essere fotografato per un inserto a colori. Sei piccole stampe pendevano dalle pareti avorio. Un tappeto quadrato giaceva esattamente al centro del pavimento di legno. Ai lati del divano nuovo erano collocate due poltrone nuove. Un libro sulle chiese normanne e una copia ripiegata del «Guardian» erano posati sul tavolino. Un cactus fioriva rigoglioso sul vecchio pianoforte, appena lucidato. Nell'angolo, su un pratico sostegno rialzato, un alberello di Natale scintillava di luci bianche. Dal punto in cui sedevo, tenendo con delicatezza lo sherry e la tortina, vedevo una cucina così immacolata che mi domandai se Claud vi avesse mai preparato un pasto. «Sì, sono molto soddisfatto. L'ho arredato secondo il mio personale gusto.» Ci sorridemmo nervosamente nel locale ordinato. Ripensai alla confusione della mia cucina: grandi ciotole di mandarini mollicci, pile di bollette e corrispondenza inevasa, liste che avevo scritto e non avevo mai consultato, piatti rotti che mi ripromettevo di aggiustare da giorni, ninnoli natalizi con cui intendevo ornare le grondaie ma che non avevo ancora avuto il tempo di appendere, un mazzo di vischio infilato tra le tazze della credenza (non avevo avuto il coraggio di sbarazzarmene benché mi riempisse di nostalgia), giunchiglie ficcate nei vasi e sparse per la stanza in caotiche esplosioni di giallo, schizzi architettonici che avevo iniziato e poi abbandonato, fotografie che non avevo ancora inserito nell'album, decine di libri, varie ricette ritagliate dalle riviste e mai archiviate, una bottiglia di vino mezza piena. E naturalmente, un abete rosso che perdeva gli aghi e le cui decorazioni, omaggio dei ragazzi, sembravano essere state gettate sui rami da mani ubriache. In effetti, erano state gettate sui rami da mani ubriache: Jerome e Robert erano inorriditi davanti all'estetismo coordinato che avevo sfoggiato quell'anno. Gli alberi di Natale, avevano sentenziato, dovevano essere vistosi e pacchiani. Avevano recuperato le stelle scintillanti e le grosse sfere rosa e turchese, tutti i gingilli che avevamo accumulato nel corso degli anni, e li avevano lanciati addosso all'abete. Ebbi la brillante idea di ascoltare un po' di musica. «Niente musica» mi informò Claud. «Dove sono i tuoi CD?»
«Appartenevano a un'esistenza precedente.» «Se non li volevi, perché li hai portati via?» «Non erano tuoi.» Ero sgomenta. «Vuoi forse dire che hai preso una collezione raccolta nel corso di un'intera vita e che l'hai... l'hai buttata nell'immondizia?» «Sì.» Mi guardai intorno. Mi accorsi che, con spietatezza chirurgica, Claud aveva asportato ogni traccia della nostra convivenza, della nostra famiglia. Quello non era ordine. Quello era vuoto. «Claud» mi lasciai sfuggire, «come ricordi Natalie?» Mi resi conto che la domanda era bizzarra, obliqua, già mentre gliela ponevo. «Come la ricordo?» «Ecco, ho parlato di lei con molte persone, e mi pare strano che non abbiamo mai confrontato davvero le nostre versioni di lei.» Sedette su una poltrona, scrutandomi con l'atteggiamento professionale che mi aveva sempre imbestialita. «Non credi di esagerare un po' con la tua ossessione, Jane? Insomma, tutti noi (la sua vera famiglia, se vogliamo essere franchi) stiamo cercando di continuare la nostra vita. Non so quanto ci sia d'aiuto vederti ficcanasare nel nostro passato per i tuoi motivi psicologici personali. È quello che ti incoraggia a fare il tuo analista?» I suoi modi erano aperti e gentili, e mi sentii come una scolaretta spettinata e nervosa sul suo sofà inappuntabile. «Okay, Claud, predica finita... Allora, come la ricordi?» «Era dolce, intelligente e affettuosa.» Lo fissai. «Non guardarmi così, Jane. Solo perché stai seguendo la terapia, sospetti di tutto quel che è semplice. Era la mia sorellina, ed era una cara ragazza, morta tragicamente alla soglia dell'età adulta. Ecco tutto. Ecco come la ricordo, ed è così che voglio ricordarla. Non voglio che tu la infanghi, anche se è morta da venticinque anni. Okay?» Versai un altro goccio di sherry nel mio bicchiere in miniatura e ne bevvi un sorso. «D'accordo, allora quali sono i tuoi ultimi ricordi di lei?» Questa volta Claud sembrò riflettere per un istante prima di rispondere, o forse stava solo decidendo se rispondere o no. Quindi annuì quasi con un'espressione di pietà. «Non so dove tu voglia arrivare, ma se proprio insisti... Eravamo tutti al-
la Fattoria, impegnati a organizzare la festa dell'anniversario per quando i miei genitori fossero tornati dalla crociera. Io dovevo partire per Bombay il mattino successivo. Come la maggior parte di noi, Natalie ha dato una mano. Il giorno del party noi tre siamo corsi qua e là sbrigando commissioni. Ricordi?» «È stato tanto tempo fa» obiettai. «Ricordo di averla portata in auto a prendere il regalo per Alan e Martha, e abbiamo parlato di che cosa si sarebbe messa, credo. Poi ricordo solo di essermi occupato del barbecue e di non essermi mosso da lì fino alle prime ore del mattino.» Mi guardò. «Ma tu non puoi essertene accorta, giusto? Eri troppo indaffarata con Theo. Quindi sono partito con Alec l'indomani, prima dell'alba. Ho appreso della scomparsa di Natalie solo due mesi dopo, quando sono tornato a casa.» Raccolsi scrupolosamente le briciole dal piatto con l'indice. «Avevi visto Natalie quella mattina?» «Certo che no. Non avevo visto nessuno, tranne la mamma, che ha accompagnato me e Alec alla stazione verso le tre e mezzo. Come sai. Dai, Jane, contìnui a rivangare le stesse cose. E non posso esserti di grande aiuto: non c'ero il giorno in cui è sparita.» Si passò la mano sulla fronte, e mi resi conto di quanto fosse stanco. Poi mi sorrise, un sorrisetto sciocco e confidenziale; l'ostilità svanì, sostituita da qualcosa di altrettanto fastidioso. «Riesci a immaginare» proseguì con aria quasi sognante «quanto rimpianga di non essere stato lì? Ho pensato a lungo che, se non me ne fossi andato, non sarebbe successo. Che avrei potuto impedire quel fatto e altre cose ridicole. E ho ancora l'impressione di essere stato escluso dal resto della famiglia, perché gli altri erano tutti insieme, e io ero lontano.» Mi rivolse un sorriso mesto. «Mi hai sempre definito il burocrate della famiglia, vero, Jane? Forse perché è quello il ruolo con cui mi sento davvero parte del gruppo.» «Claud, scusa se sono andata in giro a curiosare.» Senza riflettere gli presi la mano, e lui non la ritrasse, abbassando lo sguardo sulle nostre dita intrecciate. Restammo in un greve silenzio per qualche secondo, poi ritirai la mano, imbarazzata. «Senti, che cosa farai per Natale?» La mia voce era troppo allegra. Toccava a lui sembrare imbarazzato. «Non lo sapevi? Sarei dovuto andare da Alan e Martha, ma Paul mi ha invitato a trascorrerlo con lui e Erica.» «Ma loro vengono da me.» Fui assalita da un pensiero nauseante.
«Paul non pensava che ti sarebbe dispiaciuto.» «È impossibile, Claud. È impossibile. Ci saranno papà, Kim con la sua nuova fiamma, i ragazzi e Hana. Oh, merda, ci sarà anche una troupe televisiva, che ci riprenderà tutti quanti. Che cosa vuoi che facciamo? Che giochiamo alle famiglie felici per le telecamere?» «Sei stata tu a dire che potevamo ancora essere amici.» L'avevo detto. Era una menzogna, uno stupido cliché e una finta consolazione, ma l'avevo detto. «E poi voglio stare con i miei figli a Natale.» Sapevo che era un terribile errore. Che cosa ne avrebbe pensato Kim? «D'accordo.» CAPITOLO 21 Ero seduta, il muschio asciutto della roccia che mi grattava contro la curvatura della spina dorsale. Sapevo che Cree's Top era alle mie spalle. Il Col era alla mia sinistra, la superficie grigio ardesia che rifletteva la coltre di nubi così fitta da oscurare il sole. Indossando solo un vestito senza maniche, ebbi freddo all'improvviso e mi strinsi nelle braccia punteggiate dai rilievi della pelle d'oca. I fogli appallottolati si erano quasi smarriti tra l'acqua torbida e allontanandosi da me svanirono tra le ombre e i riverberi molto prima di raggiungere l'ansa. I rami degli olmi alla mia destra frusciarono e ondeggiarono per un'improvvisa raffica di vento che minacciava pioggia. Alzatami, mi voltai fino a vedere Cree's Top e il sentiero che serpeggiava su per la china. I cespugli lo nascondevano qua e là, finché scompariva nella penombra. Lo imboccai con decisione. Ogni volta che tornavo al ruscello e alla collina che mi separavano da Natalie, gli oggetti mi parevano più vividi e presenti. L'erba era di un verde più intenso, il fiume più nitido con tutti i suoi mulinelli e le sue increspature. In quell'occasione, i particolari non apparvero solo più precisi, ma, in un certo senso, anche più duri. L'acqua sembrava più solida e pesante, il viottolo più rigido sotto i miei piedi, persino le foglie assomigliavano a lame capaci di tagliare le dita che le sfioravano. Era un paesaggio ostile e inesorabile, riluttante a rivelare i suoi segreti. Avvicinandomi alla cima di Cree's Top, ebbi la netta sensazione che vi fosse qualcosa di malvagio dall'altra parte. Ecco perché era calata l'oscurità. Il mio corpo, tutto il mio spirito, sprofondarono nella disperazione. Era
davvero ciò che volevo? Quell'unico momento di incertezza fu sufficiente. Mi girai e corsi giù per il colle, lontano da qualunque cosa mi aspettasse. Non vi erano altri posti in cui andare in quell'amato paesaggio dei miei ricordi? Giunsi in fondo a Cree's Top e proseguii lungo il Col. L'istinto mi suggerì che il sentiero si sarebbe scostato dal ruscello zigzagando e mi avrebbe riportato verso la Fattoria, dove avrei trovato la mia famiglia di un tempo: Theo, alto e melanconico; Martha, bruna e bellissima, forte e allegra; mio padre, attraente e ancora convinto di poter avere una vita appagante. Vi sarebbero stati i resti di quella meravigliosa festa estiva. Ben presto il viottolo divenne tuttavia irriconoscibile, come se avessi superato i confini del territorio permesso. I boschi si infittirono, il cielo era basso, e mi risvegliai sul lettino di Alex con le lacrime che mi rigavano le guance. Dovetti rizzarmi a sedere e, sentendomi assurda, asciugarmi il collo e le orecchie. Alex era chino su di me: aveva un'espressione preoccupata. Quando gli spiegai quel che avevo tentato di fare, annuì con aria severa. «Jane, non è a Oz, a Narnia o in qualche parco a tema dove può vagare in qualsiasi direzione. Quella che sta esplorando è la sua memoria. Deve lasciarsi guidare dai ricordi. Non ha l'impressione di esserci quasi?» Alex Dermot-Brown non era la persona che, in circostanze normali, avrei considerato il mio tipo. Era un individuo trasandato che abitava in una casa trasandata. Aveva le ginocchia dei jeans consunte, il maglione blu scuro macchiato e costellato di pelucchi, ed era evidente che si pettinava i lunghi capelli ricci solo quando vi passava ripetutamente le dita nella foga di una conversazione animata. Ma naturalmente mi sentivo attratta da lui, perché era la persona con cui mi ero aperta, l'uomo di cui desideravo l'approvazione. Ne ero consapevole. Ma ora mi accorsi con una certa emozione che era curioso quanto me riguardo alla mia ricerca, e fiducioso quanto me riguardo al suo esito. Allo stesso tempo provai uno strano fremito in fondo allo stomaco. Mi rammentò le prime contrazioni che avevo avuto con Jerome, quei lievi spasmi che avevano annunciato il parto imminente. Ben presto avrei dovuto affrontare la realtà. Si alzò un uomo stempiato con un completo grigio. Pareva che fosse arrivato alla sala civica direttamente dal lavoro. «Be', io ho qualcosa da dire.» Avete presente quelle riunioni o discussioni pubbliche durante le quali il moderatore invita a porre domande, e c'è un lungo silenzio imbarazzante perché nessuno osa parlare? Non fu affatto così. Tutti avevano qualcosa da
dire e quasi tutti cercarono di dirlo nello stesso momento. Sapevamo sin dall'inizio che, almeno in via informale, avremmo dovuto coinvolgere gli abitanti della zona nella creazione del pensionato. L'associazione dei residenti di Grandison Road si era riunita per discutere la questione e aveva chiesto un'assemblea pubblica con le autorità preposte. Non era ben chiaro che cosa significava quella richiesta né se era necessario tenerne conto, ma qualcuno aveva deciso di accoglierla per una questione di tatto. Chris Miller dell'ufficio comunale di Urbanistica era il responsabile teorico del progetto e avrebbe presieduto il dibattito; sarebbero intervenuti anche il dottor Chohan, uno psichiatra dell'Unità pazienti esterni dell'ospedale St. Christopher, e Pauline Tindall dei Servizi sociali, e, in una fase molto tarda, Chris mi aveva telefonato domandandomi se potevo presenziare. Avevo accettato con riluttanza, se non altro per tenere d'occhio eventuali spese avventate cui Chris avrebbe potuto acconsentire e che poi sarebbero state debitamente sottratte dal mio budget. Quella sera avrei dovuto incontrare Caspar per un drink. L'avevo chiamato per scusarmi e annullare l'appuntamento, ma quando gli avevo spiegato il motivo, si era incuriosito e mi aveva chiesto se poteva venire ad assistere. Aveva affermato di volermi vedere in azione. Gli avevo detto di non disturbarsi, perché sarebbe stata solo una formalità. «Non sarà una formalità» aveva protestato. «In quella zona abitano delle persone. Vuoi alloggiare dei pazzi nel loro quartiere. Le uniche cose peggiori che potresti proporre sono un mattatoio per vitelli o un laboratorio per la vivisezione. Non voglio perdermelo, Jane. Le riunioni come questa sono il passatempo britannico che ha sostituito le impiccagioni in piazza e le lotte tra cani e orsi.» «Piantala, Caspar, questo non è un progetto così controverso.» «Staremo a vedere. Nel frattempo devi ricordarmi di mostrarti un interessante studio condotto qualche anno fa a Yale. Ha dimostrato che, quando qualcuno prende un impegno pubblico verso una certa posizione, le prove contrarie, per quanto valide, servono soltanto a rafforzare quell'impegno.» «Che cosa vuoi dire?» «Non pretendere di convincere nessuno con le argomentazioni razionali.» «Non c'è bisogno che me lo insegni uno studio dell'università di Yale. Magari ci vediamo là.»
«Forse mi confonderò tra la folla, ma io vedrò te.» Avevo legato la bicicletta a un parchimetro fuori della sala civica cinque minuti prima dell'orario stabilito. Quando ero entrata, avevo creduto di aver sbagliato giorno. Mi ero aspettata qualche signora anziana che aveva deciso di partecipare per ripararsi dalla pioggia, ma quella sembrava più una dimostrazione contro l'imposta pro capite o una di quelle feste organizzate nei magazzini in disuso. Là, sul palco lontano, vi erano tuttavia Chris e gli altri. Non solo tutti i posti a sedere erano occupati, ma i corridoi erano gremiti, e avevo dovuto farmi strada profondendomi in scuse per raggiungere Chris, nervoso e paonazzo. Continuava a tossire e a riempirsi il bicchiere con l'acqua di una brocca. Quando mi ero accomodata sulla mia sedia di plastica municipale, si era chinato verso di me e aveva sussurrato con voce roca: «Affluenza straordinaria». «Perché?» avevo sussurrato di rimando. «Ci sono quelli di Grandison Road» aveva risposto. «Ma ci sono anche molti di Clarissa Road, Pamela Road e Lovelace Avenue.» «Come mai sono tutti interessati a un piccolo pensionato?» Aveva scrollato le spalle. Aveva consultato l'orologio e poi, dopo aver rivolto un cenno del capo a Chohan e alla Tindall, si era alzato e aveva chiesto silenzio. Il frastuono assordante si era ridotto a un lieve brusio. Dopo averci presentati tutti, Chris aveva spiegato che l'attuale politica rifletteva il desiderio del Consiglio comunale di rendere efficace l'assistenza medica nella comunità. Si augurava che quel pensionato fosse il primo di una lunga serie nel distretto e che sarebbe stato un modello di trattamento umano, pratico ed economico per i malati di mente in via di guarigione. C'erano domande? Si era levata una foresta di mani, ma l'uomo stempiato con il completo era stato il più svelto. «Prima di porre un quesito» esordì, «vorrei esprimere quello che, credo, è lo stato d'animo di tutti i presenti. Noi residenti siamo esterrefatti perché non siamo stati consultati riguardo alla creazione di questo istituto nella nostra zona, e giudichiamo vergognoso che l'iniziativa sia stata presa di nascosto.» Chris tentò di protestare, ma l'altro lo zittì con un gesto della mano. «Per favore, mi permetta di continuare, signor Miller. Voi avete detto la vostra. Adesso tocca a noi parlare.» Fu un discorso più che una domanda, ma il succo era che sarebbe stato davvero inopportuno collocare una struttura psichiatrica in una via residenziale. Quando l'uomo ebbe finito, Chris mi prese del tutto alla sprovvi-
sta voltandosi verso di me e invitandomi a commentare. Farfugliai che il pensionato non era un istituto. Mi avevano incaricata di progettare un edificio per soggetti che non avessero bisogno di assistenza costante. In alcuni casi sarebbe bastato controllare che i pazienti assumessero i farmaci prescritti. Il nocciolo era che il pensionato era soltanto un fabbricato in più all'interno del quartiere. Una donna si alzò dichiarando di avere quattro figli (sette anni, sei, quattro e quasi due), e aggiunse che andava benissimo migliorare l'assistenza all'interno della comunità, ma che lei doveva pensare ai suoi bambini. E se era per questo, la scuola elementare di Richardson Road era solo due vie più in là. I medici avrebbero potuto garantire senza ombra di dubbio che i pazienti del pensionato non avrebbero costituito un pericolo per i bimbi dei dintorni? Il dottor Chohan cercò di spiegare che non si trattava di pazienti. Si trattava di soggetti dimessi, proprio come qualcuno che lascia l'ospedale dopo aver riportato una frattura alla gamba. E proprio come quel qualcuno avrebbe necessitato di una stampella per qualche settimana, alcuni malati mentali avrebbero necessitato di una sistemazione con una blanda sorveglianza. I pazienti (i soggetti, si corresse) che rappresentavano un potenziale pericolo non avrebbero alloggiato nel pensionato. E quanto ai farmaci? Come potevano i medici garantire che i loro assistiti seguissero le terapie? Pauline rispose che il funzionamento della struttura si imperniava proprio su quel fattore. Comprendeva le preoccupazioni dei residenti, proseguì, preoccupazioni che erano state tutte vagliate durante la primissima fase della progettazione. Gli individui potenzialmente pericolosi (che erano pochissimi) e quelli che si rifiutavano di prendere i medicinali non sarebbero stati presi in considerazione per un pensionato di quel tipo. Poi commise quello che, in seguito, mi parve l'errore più irreparabile. Concluse affermando che non si doveva permettere all'ignoranza e ai pregiudizi contro i malati mentali di influenzare la politica. Se la sua era una tattica per costringere il pubblico a vergognarsi tanto da condividere la nostra posizione, le si ritorse contro con conseguenze disastrose. Un tizio si alzò asserendo che le argomentazioni mediche erano una cosa, ma che bisognava anche pensare al valore delle proprietà immobiliari. Tra i presenti, continuò, vi erano persone che avevano acquistato una casa con i risparmi di una vita intera. Alcune si trovavano in una situazione di disvalore e avevano appena visto i primi segni di ripresa sul mercato edilizio. Perché quella gente avrebbe dovuto sacrificare la propria abitazione
per un nuovo dogma di tendenza inventato da sociologi che probabilmente vivevano tranquilli e beati a Hampstead? Chris, che sembrava voler parlare e ingoiarsi la lingua al tempo stesso, rispose che le spiegazioni mediche avrebbero placato tutti i timori in quel senso, o almeno così si augurava. Ma l'altro si alzò di nuovo. Le spiegazioni mediche erano una maledetta perdita di tempo, dichiarò. Per chi non era direttamente interessato era facile cianciare di cosiddetti pregiudizi. Che questi ultimi fossero fondati o no, avrebbero scoraggiato gli acquirenti. Chris domandò stupidamente che cosa poteva fare per dissipare le paure di quel genere, e lo sconosciuto lo rimbeccò dicendo che i residenti non erano interessati a dissipare le paure. Volevano che il progetto del pensionato venisse abbandonato, punto e basta. Poi intervenne un uomo di bell'aspetto con la giacca di tweed e la camicia dal colletto sbottonato. Oh, Dio. Era Caspar. «Vorrei esprimere un parere anziché formulare una domanda» esordì, battendo le palpebre dietro gli occhiali cerchiati di metallo. «Mi domando se non sarebbe meglio che i presenti immaginassero, in una specie di esperimento ideale, di discutere di un pensionato da costruire in un'altra città britannica. Approveremmo l'iniziativa se non vi fosse in gioco nulla di personale?» «Vaffanculo» replicò l'altro, lasciandolo di stucco. «Perché crede che siamo qui? Se intendono costruire un posto per queste persone che nessuno vuole, perché non lo costruiscono in una zona industriale oppure in una vecchia fabbrica?» «O magari in uno di quei fatiscenti manicomi vittoriani» suggerì Caspar. «Non bisogna metterci sopra la carne cruda?» domandò Caspar. «Ahi!» Si ritrasse mentre gli tamponavo l'occhio con l'ovatta. «Prima devo disinfettare la ferita. E comunque, non ne ho di carne cruda. Ho soltanto qualche salsiccia nel freezer.» «Potremmo mangiarle» propose, speranzoso, prima di ritrarsi di nuovo. «Credi che sia rimasto qualche frammento di vetro nel taglio?» «Non penso. La lente si è spaccata in pochi pezzi di grosse dimensioni. A tagliarti è stata la montatura. E il pugno di quel tipo, naturalmente. E permettimi di aggiungere per l'ultima volta che sono davvero, davvero desolata per quanto è successo. È stata tutta colpa mia.» «Non tutta.»
Eravamo da me. Paul Stephen Avery di Grandison Road era stato allontanato da due robusti poliziotti. L'assemblea si era conclusa nello scompiglio più totale. Caspar aveva rifiutato le cure mediche, ma non aveva potuto guidare l'auto perché aveva gli occhiali rotti. Così avevo ficcato la mia bicicletta nel suo bagagliaio e l'avevo accompagnato a casa mia, dove avevo insistito per mettergli qualcosa sull'occhio. «Pensavo che non credessi nei dibattiti intellettuali» osservai mentre si ritraeva per la terza volta. «Scusa, sto cercando di fare il più piano possibile.» «In teoria, non ci credo. Volevo soltanto vederti in azione, ma quando quel tizio ha cominciato a blaterare, mi è venuto in mente all'improvviso il modello su cui si basa la Una teorìa della giustizia di Rawls, e mi sono sentito in dovere di intervenire. In un certo senso, poteva essere salutare. Sai, ti illudi che il pianeta sarebbe un posto migliore se in vari momenti cruciali della Storia mondiale ci fosse stato un filosofo linguistico a sincerarsi che la terminologia di ognuno fosse coerente. Con molta probabilità fa bene ricevere un cazzotto in faccia di tanto in tanto. Credi che mi verrà un occhio nero?» «Senza dubbio.» «Hai uno specchio?» Gliene porsi uno che recuperai nell'armadietto dei medicinali. Scrutò il proprio riflesso con soggezione. «Sorprendente. Peccato che non abbia lezione fino a martedì. I miei studenti resterebbero molto colpiti.» «Non preoccuparti. Quell'occhio nero maturerà come un buon vino. La settimana prossima si noterà ancora di più.» «Purché non spaventi Fanny. A proposito della quale...» «Ti do un passaggio. Con la tua automobile. Non preoccuparti. La mia bicicletta è ancora nel bagagliaio.» CAPITOLO 22 «Che cosa prendi, Jane?» domandò Alan, fissandomi da sopra gli occhiali a mezzaluna. Il solito vuoto. «Non ho ancora deciso. Può cominciare Paul.» «Paul?» «Sai, ho sempre questo problema esistenziale con i menu. Non so mai perché dovrei ordinare un piatto anziché un altro.»
«Oh, per l'amor del Cielo» tuonò Alan. «Inizieremo tutti con il salmone affumicato. Qualche obiezione? Bene. Poi, per me, pasticcio di manzo e rognone. Ve lo consiglio se vi piacciono le buone pietanze di una volta.» «D'accordo» acconsentì Paul in tono piuttosto vago. «Jane?» «Non ho molto appetito. Soltanto un'insalata.» Alan si rivolse al cameriere. «Capito? E per la signora un po' di cibo per conigli. E dica a Grimley che desideriamo una bottiglia del mio bianco e una bottìglia del mio rosso, e che io prendo un Bloody Mary abbondante come aperitivo. Probabilmente gli altri vorranno qualche costosissima acqua minerale dal nome straniero.» «Un Bloody Mary anche per me» interloquii d'impulso. «Brava, Jane.» Dopo aver restituito il menu al cameriere, Alan si tolse gli occhiali e si appoggiò allo schienale. «Insalata» fece, schifato. «È il genere di cose che ha tenuto le donne fuori da questo maledetto posto per tanto tempo.» Quella sala da pranzo squallida ed elaborata a sud di Piccadilly Circus, con il fumo, i tendaggi sbiaditi, il chiacchiericcio maschile, i quadri antichi di terza categoria e la fatiscente architettura da circolo privato era l'habitat di Alan: il Blades, il club a cui era iscritto da più di trent'anni. Quel giorno sembrava a disagio, suscettibile e depresso, e avevo la sensazione che io e Paul non fossimo le persone adatte a tirarlo su di morale. Paul era assorto nel suo documentario. Mentre percorrevamo Lower Regent Street, mi aveva riferito che Alan era il cuore della struttura, l'elemento che andava collocato al posto giusto, e aveva ammesso di non sapere come usarlo. Mentre sedevo al tavolo accendendomi una sigaretta dietro l'altra, ebbi l'impressione di guardare un pescatore inesperto che faceva penzolare una mosca davanti al naso di un vecchio salmone. E io? Ero di qualche utilità ad Alan in quell'istante? Arrivarono i Bloody Mary e l'acqua minerale. Alan ingollò una generosa sorsata di cocktail. «Com'è andato il pranzo con il tuo editore?» gli domandai. «Una perdita di tempo» rispose. «Riesci a credere che il pranzo era il mio momento preferito della giornata? Quando Frank Mason era il mio editor, restavamo a tavola per tre o quattro ore. Una volta ci abbiamo messo tanto che siamo passati direttamente alla cena nel medesimo ristorante. Ieri ho conosciuto la nuova editor, Amy. Indossava una specie di tailleur. Ha bevuto acqua. Ha mangiato il primo e nient'altro. Volevo fargliela ve-
dere io: Gin tonic per cominciare, tre portate, un paio di bottiglie di vino, brandy, sigaro, tutto quanto.» «Che cosa è successo?» volle sapere Paul. «Non l'ho fatto» rispose Alan con una scrollata di spalle. «E sai perché? Pensava che fossi una noia. Alan Martello, il vecchio ubriacone reazionario che non scrive un libro dagli anni Settanta. Venticinque anni fa, ragazze come lei facevano la fila per venire a letto con me. Adesso cercano di abbreviare il più possibile persino i pranzi. Alle due e un quarto era già tornata in ufficio.» Bevvi un sorso del mio drink, la vodka bruciante dopo la dolcezza del pomodoro. «Che cosa ne pensava Martha di quelle file di ragazze adoranti?» domandai. «Buona vecchia Jane, sempre a parlare dei sentimenti altrui. Desiderosa di rendere tutto facile e perfetto. La risposta è che abbiamo tirato avanti come fanno quasi tutti.» «Non le importava?» Si strinse nelle spalle. «Ha capito.» «Come sta Martha, Alan?» «Oh, sta bene» rispose, distratto. «La cura la butta un po' giù, ecco tutto. Starà meglio quando sarà finita. Sono soltanto quei maledetti medici a farla preoccupare.» Avvertii un moto di compassione per quell'uomo famoso, irruente e pieno di illusioni, con la barba macchiata, il viso rubicondo e il romanzo a cui lavorava da quando eravamo tutti bambini. Un uomo che non voleva pensare alla moglie moribonda, che non voleva stare con lei. Ma come doveva sentirsi? «Ho pensato molto a Natalie di recente» ripresi. Alan chiamò il cameriere con un cenno della mano e ordinò altri due Bloody Mary. Non mi presi il disturbo di protestare. «Lo so» disse, dopo che l'altro si fu allontanato. «E mi hanno riferito che ti sei rivolta a uno strizzacervelli. È stato un po' troppo per te, vero?» «Sì, credo di sì, in un certo senso.» «Ti sei anche messa a ficcanasare. Che cosa stai facendo? Stai tentando di scoprire chi ha ucciso mia figlia?» «Non lo so. Sto cercando di riordinare le idee nella mia testa.» «E poi tu, Paul, e il tuo programma. Nessuno di voi ha una sua famiglia di cui occuparsi?»
La vodka iniziava a fargli effetto. Conoscevo quello stato d'animo. Ci avrebbe rimproverati, avrebbe mirato ai nostri punti deboli, avrebbe tentato di mandarci su tutte le furie. Lanciai un'occhiata furtiva a Paul, che mi sorrise. Eravamo due degni avversari, e comunque quello non era il vecchio Alan, tirannico e seducente. Si limitò a piluccare il salmone affumicato, ma si rallegrò quando gli servirono il pasticcio in una ciotola e gli riempirono il grosso bicchiere di chiaretto denso e opaco. «Insalata, puah» commentò, legandosi il tovagliolo intorno al collo come un bavaglino. Ho visto le vecchie fotografie di Alan, il giovane arrabbiato, e nei primi anni Cinquanta era snello e austero. Adesso era rubizzo e sovrappeso. Il naso costellato di fiorellini e capillari era il risultato di decenni di eccessi. Ma c'erano ancora quei vivaci occhi azzurri, civettuoli e imperiosi. Ipnotizzavano le persone, soprattutto le donne, e persino ora immaginai il fascino che erano in grado di suscitare e l'impulso di andare a letto con lui. «Con quante donne hai dormito, Alan?» Stentavo a credere di averglielo domandato e attesi la sua reazione quasi con orrore. Per mia sorpresa, scoppiò a ridere. «Con quanti uomini hai dormito, Jane?» «Te lo dico se me lo dici tu.» «D'accordo. Forza, allora.» Cristo, era tutta colpa mia. «Non moltissimi, temo. Sette, forse otto.» «E per un quarto sono figli miei.» Avvampai per l'imbarazzo. Sotto gli strali di cuoio e cotone, dovevano essermi arrossite persino le dita dei piedi. «E fai?» «Paul non ha intenzione di rivelarcelo?» Paul assunse un'espressione sinceramente allarmata. «Io non ho fatto nessuna promessa» protestò, deglutendo. «Coraggio, non fare il timido. Pretendi che tutti gli altri gridino ai quattro venti la loro vita privata nel tuo ridicolo programma televisivo.» «Dio, Alan, è abbastanza infantile, non trovi? Se proprio lo vuoi sapere, avrò fatto sesso con tredici donne, forse quindici. Sei soddisfatto?» «Allora vinco io» disse Alan. «Suppongo di essere stato a letto con oltre cento donne, probabilmente oltre centoventicinque.» «Oh, complimenti, Alan» interloquii nel mio tono più asciutto. «Soprattutto perché avevi l'handicap di avere moglie e figli.»
Ormai aveva quasi finito il chiaretto. «Ah, l'autentica, la pudica Ippocrene» esclamò, trangugiando una lunga sorsata di vino e pulendosi la bocca con il tovagliolo. «Non è stato un handicap. Sai qual è uno degli aspetti migliori del successo letterario?» Io e Paul assumemmo un'aria interrogativa. Sapevamo che non desiderava una vera risposta. «Le donne» proseguì Alan. «Quando scrivi un romanzo famoso e diventi, seppur in maniera ingannevole, il rappresentante di una generazione più giovane, vieni ricompensato con i soldi e la celebrità, naturalmente, ma anche con tante donne che altrimenti non avresti avuto. È così che funziona» dichiarò, infilando il cucchiaio nella scodella ed estraendone alcuni bocconi di carne. «Dovremmo fingere che questa roba non ci piaccia, vero? Il sangue del manzo, e il rognone con il suo gradevole sapore di urina appena profumata. E dovremmo frignare e rimuginare sulle sofferenze degli animali. Adoro il manzo. Adoro il vitello. Adoro il foie gras. Chi se ne frega del vitellino cresciuto al buio o di come hanno nutrito l'oca.» «Scusa, Alan» lo interruppi, «ma tutto questo dipende dal fatto che ho ordinato un'insalata per pranzo? Non intendevo compiere un gesto politico. Consumerò una cena abbondante stasera.» Proseguì come se non avessi parlato. «Quando conosco una donna, qualsiasi donna, immagino come sarebbe a letto. Ogni uomo lo fa, ma la maggior parte non osa andare fino in fondo. Io osavo. Se conoscevo una donna e mi sentivo attratto da lei, la invitavo a letto. Accettavano quasi sempre.» Si ficcò in bocca una generosa cucchiaiata di pasticcio e la masticò con vigore. «La gente non dovrebbe dire cose simili, vero?» «Qualsiasi donna?» domandai. «Esatto.» «Come Chrissie Pilkington?» «Chi?» Il cucchiaio fumante si fermò a metà strada tra la scodella e le labbra. Carne morta annegata nel grasso. Alan corrugò la fronte, sforzandosi di ricordare. «Non ricordi tutti i nomi?» «Certo che no.» «Era una compagna di scuola di Natalie. Lunghi capelli ricciuti e biondi, come la modella di un dipinto preraffaellita. Lentiggini. Seni piccoli. Alta. Quindici anni.»
«Sì, ricordo» disse Alan, nostalgico. «Probabilmente aveva sedici anni, vero?» aggiunse con una nota di circospezione. «Le ragazze sono bellissime a quell'età, non trovi?» insistetti. «Sì, senz'altro» confermò. Sembrava diffidente. Gli piaceva avere il controllo della conversazione. Non sapeva dove volessi arrivare. «La loro pelle è impeccabile. Hanno il corpo sodo, soprattutto i seni.» «Esatto.» «E possiedono una particolare attrazione erotica. La riconoscevo persino nelle ragazze che Jerome e Robert portavano a casa. Sono ancora un po' bambine, ma hanno un fisico da adulte. Scommetto che sono remissive sul piano sessuale, e anche curiose. Scommetto che fanno qualunque cosa tu chieda loro e che te ne sono riconoscenti. Giusto?» «A volte» rispose Alan, ridendo impacciato. «È stato tanto tempo fa.» Anche Paul pareva impacciato. Si domandava in quale lotta privata si fosse immischiato e che cosa dovesse fare per dissociarsene. «Era tutto così perfetto, vero? Era il 1969, le ragazzine prendevano la pillola, e a un tratto non si chiamava più adulterio né seduzione. Si chiamava emancipazione sessuale. Purtroppo non è filato sempre tutto liscio. Come nel caso di Chrissie. Natalie l'ha scoperto. E l'ha spifferato a Martha. E per una volta Martha non si è arrabbiata con te, non ha fatto niente. Aveva una relazione con mio padre. Che cosa ne pensi di questo?» «Che cosa?» fece Paul, esterrefatto. Alan aveva finito il pasticcio. Raschiò rumorosamente l'ultima striscia di sugo dal fondo della scodella e leccò il cucchiaio. Ripeteva sempre che la mania di ripulire ogni briciola di cibo era un'eredità della guerra. Le sue tirate non erano più lunghe come una volta, e appariva stanco. «Penso che sia stato un gesto patetico» rispose. «Se Martha voleva scoparsi qualcuno...» Non stava gridando, ma pronunciò quelle parole a voce abbastanza alta da far girare uno o due degli avventori in completo gessato ai tavoli vicini. Oh, di nuovo quello scrittore volgare. «Se voleva scoparsi qualcuno, avrebbe dovuto farlo e godersi una bella chiavata. Invece, voleva compiere un gesto, perciò ha sedotto il tuo povero padre. Non credo che tua madre l'abbia mai superato. Ritengo che Martha si sia comportata in modo spregevole.» Ora Paul si teneva la testa fra le mani. «Inoltre» aggiunsi, «tanto per fare una piccola osservazione stupida, Natalie era una minaccia per la famiglia, per quel meraviglioso mondo protetto che avevi costruito tra i Martello e i Crane. Io mi sarei arrabbiata se fossi stata al tuo posto.»
Alan vuotò il bicchiere. Non sembrava più un uomo capace di affrontare un pasto di quattro ore. «Io mi sono arrabbiato» ammise, ma ormai parlava senza la grinta di prima. «Allora che cosa hai fatto, Alan?» Posò con delicatezza il cucchiaio nella scodella. «Credo che abbiamo discusso abbastanza di sesso per un solo pranzo» borbottò. «Sei stato tu a cominciare» lo rimbeccai, ma era troppo assorto per ascoltarmi. «La nostra famiglia, te compresa, era qualcosa di magnifico» riprese. «È stato crudele mettere tutto a repentaglio per punire me. Imperdonabile. E alla fine, l'unica a essere ferita è stata Felicity. Ci pensi mai, Jane? La cara, dolce Martha e la tua sorella spirituale, Natalie, hanno fatto quella cosa orribile a tua madre.» «Anche Natalie era ferita.» Ormai i suoi riflessi erano diventati più lenti. Aveva l'aria confusa di qualcuno che si è appena svegliato. «Natalie? È stata Martha, a dire il vero, non Natalie.» «È capitato tutto nella stessa estate, vero? Tu e Chrissie, la rivelazione riguardo a Martha e a mio padre, e infine Natalie. È un bel po' di roba per riassumerla in un documentario di sessanta minuti, Paul. Non sarebbe meglio realizzare una serie?» Paul spinse da parte il piatto del pasticcio. Era ancora mezzo pieno. «Che cosa vuoi, Jane?» domandò piano. «E che cosa vuoi tu, Paul?» si intromise Alan, sempre pronto a gettare benzina sul fuoco. «Alan, ti voglio bene, voglio bene a tutti voi, è questo che voglio fissare sulla pellicola.» «Vedremo» replicò Alan, stanco. «Sbrigati, Jane. Dobbiamo ordinare il budino.» Infilzai un quarto di pomodoro vizzo con la forchetta. Il pensiero del cibo nella mia bocca mi procurò la nausea. CAPITOLO 23 L'acqua nel lavello era coperta da una pellicola di grasso d'oca marrone scuro («Perché dobbiamo mangiare l'oca?» si era lamentato Robert, piagnucolando come un undicenne. «Abbiamo sempre mangiato il tacchi-
no!»). Tolsi il tappo, sollevai i piatti unti e li sistemai in una pila ordinata di fianco. Frammenti di cavolo rosso e un paio di mozziconi (miei, supposi) giacevano sul fondo, insieme con un intero arsenale di posate. Eliminai lo sporco, riposizionai il tappo e riempii il lavandino di acqua bollente e molto saponosa. Quindi tornai in sala da pranzo per valutare i danni. Una sedia si trovava ancora dove Jerome l'aveva scagliata prima di uscire in preda alla rabbia («Questa volta hai esagerato, mammina!») trascinandosi dietro Hana, che si teneva in equilibrio con grazia sui tacchi a spillo neri. La raccolsi e mi ci accasciai sopra. Le candele sgocciolavano al centro del tavolo, proiettando una luce tremolante sugli avanzi. Un budino di Natale capovolto e mezzo distrutto troneggiava, appetitoso quanto un pallone bucato, tra una serie di bottiglie vuote e bicchieri da vino, da bibita e da Porto costellati di ditate. Quanto avevamo bevuto? Non abbastanza... Non abbastanza da cancellare il ricordo, che, in ogni caso, la troupe televisiva aveva filmato con implacabilità. Presi una corona di carta verde e me la misi in testa, quindi mi accesi una sigaretta. Era piacevole essere di nuovo sola. Fumando, riunii con lentezza le bombette vuote e le gettai nel fuoco quasi spento, che brillò per un istante prima di ritrasformarsi in cenere punteggiata d'oro. L'occhio mi cadde su uno dei bigliettini scherzosi usciti dai petardi. «Qual è il colmo per un idraulico? Non capire un tubo.» Oh, come avevano ridacchiato Kim (con un abito da sera giallo acceso) ed Erica (viola sgargiante). Avevano ridacchiato per quasi tutta la serata, alleate inattese, bambole impazzite nella loro assurda eleganza. Avevano riso per tutte le barzellette classiche («Qual è il colmo per un orologiaio? Avere le figlie sveglie», «Qual è il colmo per un elefante? Avere gli orecchioni»), per Andreas, che disapprovava chiaramente Erica e quella Kim nuovo modello, per la solennità direttiva di Paul e persino per le telecamere. Si erano sedute a fianco di papà (che si era mosso al rallentatore mentre tutti gli altri procedevano svelti) e avevano civettato senza ritegno, finché lui aveva abbozzato sorrisi stiracchiati, stregato dalla loro folle puerilità. Dopo aver spento la sigaretta, portai i bicchieri in cucina. Lavai e sciacquai posate e stoviglie. Che bel silenzio. Quante urla c'erano state: quelle di Paul contro Erica («Stai cercando di rovinare il mio documentario?»), quelle di Andreas contro Kim («Hai bevuto più che a sufficienza»), quelle di Kim contro Andreas («Non rompere i coglioni, stronzo, è Natale e non sono reperibile»), quelle di Jerome contro Robert («Se non riesci a essere educato con Hana, vattene»), quelle di Robert contro di me («Stai ancora
tentando di trasformarci in una famiglia felice?»). Papà non aveva gridato, ma se è per questo non aveva quasi aperto bocca. Claud non aveva gridato, ma mi aveva seguita in cucina per sibilarmi: «Chi è Caspar, Jane?» Io non avevo gridato finché il cameraman, indietreggiando dopo una lunga ripresa di Erica e Kim che cantavano Tu scendi dalle stelle, aveva urtato la mia preziosa caraffa di vetro verde, facendola volare sul pavimento. I piatti erano finiti, allineati in una scintillante fila bianca. Bicchieri finiti. Sollevai un vassoio di oggetti disparati (fiammiferi, una penna, un ditale, una graffetta, un orecchino, un cacciavite, un tagliacarte, un mazzo di chiavi, un pedone nero degli scacchi, una coccarda per la commemorazione dei caduti in guerra) e trasalii al ricordo. Oh, Dio, avevamo giocato al gioco della memoria. A proporlo era stato Claud, naturalmente, che aveva spiegato le regole a un gruppo mezzo sbronzo («Memorizzate che cosa c'è sul vassoio, poi io lo copro e voi scrivete tutto quello che ricordate, quindi lo scopriamo di nuovo e vediamo chi ha annotato più cose»). Era un gioco che avevamo amato molto da bambini. Uno degli oggetti sul vassoio, rivolto a faccia in su verso un gruppo improvvisamente sobrio, era una fotografia di me, Claud e i ragazzi, scattata anni prima (da chi? L'avevo dimenticato). Sorridenti, abbracciati. Era stato allora che Jerome aveva rovesciato la sedia. Versai un denso goccio di Porto rubino in un bicchiere e mi accesi un'ultima sigaretta. Il resto del disordine avrebbe potuto aspettare fino all'indomani. Mi tolsi le scarpe e gli orecchini. Sbadigliai. A un tratto ridacchiai ripensando a Kim ed Erica. Il telefono squillò. «Pronto?» Chi poteva essere a quell'ora di notte? «Mamma.» Era Jerome, e sembrava ancora in collera. «Non farlo mai più.» «Vuoi dire che non ti sei divertito? Che peccato... Stavo pensando di invitare di nuovo tutti il 31 dicembre.» «È proprio quello di cui avevo bisogno.» Ero sdraiata accanto all'acqua verde, palme e piante lussureggianti tutt'intorno, avvolta in uno spesso accappatoio bianco. Bevevamo succo di mango, ed ero più rilassata di quanto mi sentissi da tempo. I muscoli si erano distesi, le ossa erano flessibili, la pelle morbida, la luce verde mi danzava contro i bulbi oculari. Il sole invernale, filtrando attraverso le alte finestre, mi accarezzava le gambe nude. La stanza riecheggiante era pervasa da sommessi mormorii femminili, come un harem senza padrone. Udivo il
battito del mio cuore, regolare e rassicurante. Di lì a poco mi aspettava una nuotata, poi un massaggio. Quindi mi sarei sdraiata ancora e avrei sfogliato qualche rivista, leggendo le réclame di lucidalabbra e lozioni solari. Kim mi aveva chiamata la sera prima, mentre mi sentivo triste e stanca. Aveva comprato due tessere giornaliere per The Nunnery, un centro benessere per sole donne, e mi aveva ordinato (non chiesto) di farle compagnia. Avevo protestato, ma senza troppa convinzione, e al suono della sua voce, così pratica e familiare, mi si erano riempiti gli occhi di lacrime. Avevo avuto l'impressione di essere finalmente sul punto di districarmi; le mie cuciture si stavano disfacendo tutte insieme. Quando avevo riagganciato, il telefono non aveva tardato a trillare di nuovo. Era Catherine, da una cabina. Paul era andato a casa, mi aveva informato, e lui e Peggy stavano litigando, senza neppure disturbarsi di abbassare la voce. Era tremendo, tremendo, come nei giorni prima che Paul lasciasse la sua famiglia per sempre. Gridavano uno contro l'altra, e il battibecco aveva qualcosa a che vedere con Natalie; per favore, per favore, potevo spiegarle che cosa stava succedendo? Non potevo spiegarglielo perché non lo sapevo. Avevo detto qualcosa di banale sul profondo affetto di Paul e Peggy nei suoi confronti, un affetto che non doveva mai dimenticare, quindi mi ero resa conto che le stavo parlando come se avesse sei anni, perciò mi ero fermata. Anziché assumere un tono scontroso, Catherine aveva tuttavia cominciato a singhiozzare forte. L'avevo immaginata mentre appoggiava il suo bel corpo magro al vetro sudicio e si asciugava le lacrime con la T-shirt nera, i gomiti aguzzi e ossuti gelati dall'aria invernale. Avevo farfugliato qualcosa e lei aveva continuato a singhiozzare. I soldi si erano esauriti mentre tirava su con il naso. Quando Robert e Jerome erano bambini, era così facile consolarli. Ricordavo ancora bene come avevo sollevato i loro corpi nodosi, le loro teste affondate nel mio collo, il mio mento posato sui loro capelli lisci, le loro gambe avvinghiate forte intorno alla mia vita; come avevo cantilenato sciocchezze mentre asciugavo le lacrime che bruciavano sulle loro guance arrossate... Il mio piccino... Si sistemerà tutto... La mamma ti proteggerà... Su, tesoro, su, amore... Calmati, calmati... La mamma è qui, caro... Il mio angioletto. Poi, pian piano, avevano iniziato a non volere che li toccassi. Un giorno mi ero accorta che non si infilavano più nel mio letto la mattina, che chiudevano la porta del bagno. Quando qualcosa non andava, si rintanavano in camera loro, e dovevo lottare contro la tentazione di seguirli, di fingere che
la mamma potesse ancora risolvere il problema. Per esempio quando Robert se n'era andato in giro avvolto in una nebbia di muta vergogna perché i compagni di scuola lo canzonavano, e io, con lo stomaco che mi si stringeva, avevo scoperto che cosa stava capitando solo dopo aver sentito un bambino che lo chiamava femminuccia; quando Jerome aveva avuto la sua prima fldanzatina e si era applicato assurdi cuori di feltro (così scontati) sui jeans, poi lei l'aveva mollato dopo un unico appuntamento, e avevamo dovuto passare un'intera serata a scucirli mentre lui ostentava indifferenza, fingeva di fregarsene e rifiutava la mia compassione; quando Robert aveva bisticciato con Claud per le sigarette, ed entrambi erano stati così stupidi e orgogliosi da non rivolgersi la parola per giorni, e io avrei voluto scuoterli tutti e due, ma invece mi ero presa cura di loro, convinta, già allora, che fosse una perdita di tempo. C'erano stati giorni in cui avrei soltanto voluto abbracciarli, accarezzarli, i miei ragazzi, i miei splendidi figli, ma loro si erano tirati indietro con imbarazzo, con bonarietà... Non essere smancerosa. Mi abbandonavano da quando erano nati. Ricordavo che, poco prima di morire, mia madre mi aveva detto: «Il dono migliore che ti ho fatto è stata la tua indipendenza. Ma hai sempre avuto tanta fretta di staccarti da me». I figli hanno sempre fretta di staccarsi dai genitori. Rammentavo Robert, a cinque anni o giù di lì, sulla spiaggia. Gli si era slacciata una scarpa, e piangeva perché l'avevamo lasciato indietro. Si era immobilizzato, una piccola sagoma tarchiata su una vasta distesa di sabbia. Quando l'avevo raggiunto di corsa e mi ero chinata per aiutarlo, mi aveva spinta via: «Faccio da solo». Si allenano a essere adulti per tanto tempo, e poi un giorno ti rendi conto che lo sono davvero. Dov'era finito tutto quel tempo? Com'era potuto accadere che diventassi una donna sola e di mezza età, e che ormai mi fosse preclusa la gioia travolgente di tenere un bambino sotto il mento e sussurrargli «Calmati, si sistemerà tutto, ti prometto che si sistemerà tutto»? Avevo pianto fino ad addormentarmi, con profondi singulti dolorosi, e avevo avuto la sensazione che qualcosa si fosse rotto dentro di me. La mattina dopo (un immenso cielo azzurro ghiaccio e rami scheletrici coperti di brina) avevo indossato una tuta da ginnastica, avevo ficcato Jane Eyre e un flacone di shampoo in una tracolla ed ero andata incontro a Kim. Ora, mentre eravamo sdraiate fianco a fianco, gli occhi chiusi nello spazio bianco e verde, parlai in tono sognante. Quel giorno, a Kim, avrei potuto dire qualsiasi cosa. L'acqua sciabordava, e increspature verdi mi danzavano da-
vanti alle palpebre abbassate. Il mio corpo era acqua, il mio cuore si era sciolto, l'emozione mi pervadeva con dolcezza, come un fiume irreale. «Credo di essere nei pasticci, Kim.» «Riguarda Natalie?» Mi teneva la mano, le dita intrecciate, le braccia che pendevano tra i lettini. Quella che provavo era forse disperazione? La disperazione non doveva per forza essere dura e cattiva; poteva anche assomigliare a un liquido tiepido capace di riempire ogni fessura del mio corpo. «Potrebbe essere stato un estraneo, una tragedia fortuita.» «Sì.» La voce mi uscì in un bisbiglio. «Luke è il sospetto più probabile, sebbene non sia il padre del bambino. Magari l'ha uccisa perché sapeva di non essere il padre.» «Può darsi.» «Qualunque cosa sia successa, non è sicuramente tuo compito scoprirla.» «No, certo che no.» «Non avrai mica qualcun altro in mente? Cara Jane, non voglio che tu ti renda ridicola.» Restammo distese in silenzio ancora per un po'. Tenni gli occhi chiusi; mi sembrava che l'unica parte di me a essere solida fossero le dita, strette a quelle di Kim. Mi sottoposi a un massaggio. Una donna profumata di limone, i piedi nudi e i capelli biondo scuro legati in una liscia coda di cavallo, si piegò su di me e affondò le dita energiche in tutti i miei dolori e acciacchi. La mia ultima resistenza fu sospinta lungo i canali del mio corpo, verso l'esterno. Le lacrime mi caddero sul lettino, formando una pozza sotto la mia guancia. Mi sentivo svuotata. Recuperai l'auto dal parcheggio di St. Martin's Lane (Dio, che soddisfazione) e mi diressi verso Charing Cross Road e verso nord. Accesi la radio. Non avevo voglia di ascoltare musica. Non avevo voglia di restare intrappolata nei miei pensieri, così premetti il pulsante finché trovai qualcuno che parlava. «Il sonnolento establishment tuttora alla guida di questo Paese non ha capito che, entro breve, la merce più preziosa del mondo non sarà qualcosa da tenere in mano; non sarà il petrolio, e nemmeno l'oro, bensì l'informazione.» «Oh, merda» urlai entro i confini sicuri della vettura.
«Ebbene, le implicazioni di questo fenomeno sono pressoché illimitate, ma permettetemi di precisare due cose. Primo, è un processo irreversibile, totalmente sottratto al controllo di qualsiasi legislazione o amministrazione nazionale. Secondo, qualunque organizzazione resti fuori del mondo dell'informazione avvizzirà e rimarrà indietro.» «Oh, vaffanculo» gridai. La voce briosa del dee-jay domandò se «Theo» potesse fare un esempio. «D'accordo, prendete una delle nostre istituzioni più rispettate, la polizia. Diciamo che, se doveste creare un'organizzazione capace di svolgere il lavoro della polizia, non creereste nulla di simile a quanto abbiamo ora. È una tipica struttura gestita male e ad alto livello di manodopera, che assorbe sempre più soldi ogni anno solo per produrre risultati peggiori, e uno dei motivi principali è che il suo ruolo si basa su un mito. L'efficienza della polizia dipende dalla gestione razionale dei dipendenti e dall'ordinamento delle informazioni.» «E quanto al poliziotto di ronda?» «Questa idea è una presa in giro. Se vogliamo che qualcuno cammini su e giù per le strade senza fare nulla, troviamo dei pensionati che lo facciano per una sterlina l'ora. Non ha niente a che vedere con il lavoro della polizia.» «Adesso facciamo una pausa. Stiamo parlando con il dottor Theo Martello del suo nuovo libro, The Communication Cord. Siete sintonizzati su Capital Radio.» Ero in Tottenham Court Road e, divertita, mi accorsi che stavo per oltrepassare la Capital Tower. Attraversai Euston Road e, d'impulso, svoltai a destra in Hampstead Road e parcheggiai accanto al negozio di residuati militari. Rimasi seduta con la radio accesa ad ascoltare Theo che cianciava dell'assistenzialismo, dell'abbattimento delle frontiere, del crollo delle istituzioni, della fine dello Stato, dell'imposta sul reddito e chi più ne ha più ne metta. Alla fine, sollecitato dal dee-jay, concluse con l'ennesimo accenno al suo ultimo volume. Smontai dall'auto, attraversai la via fino alla Capital Tower e attesi a qualche metro di distanza dalla porta girevole. Theo non mi notò subito. Indossava la sua uniforme da lavoro, un completo con baveri così alti e brutti da dover essere costoso e alla moda. Portava una ventiquattrore che aveva più o meno lo spessore e le dimensioni di una rivista. La testa gli luccicava tra i capelli a spazzola sotto il freddo sole invernale. «Vuoi che ti porti la valigetta, padrone?»
Trasalì. «Che cosa ci fai qui?» domandò. «Sono su "Candid Camera" o qualcosa del genere?» «No, ti ho sentito alla radio e mi sono resa conto che passavo proprio da queste parti.» Rise. «Bene. È bello vederti, Jane.» «Posso darti un passaggio?» «Sei diretta verso la Bush House?» «No, ma ti accompagno ugualmente.» Congedò il tassista che lo aspettava, e partimmo con la mia automobile. «Come fai a usare una ventiquattrore così piccola? Io giro con sacchetti della spesa pieni di scartoffie pigiati nella borsa della bicicletta.» Scosse il capo. «È già uno spreco di spazio così. Tra cinque anni avrò qualcosa del peso e delle dimensioni di una carta di credito.» «Io continuo a perderla, la mia carta di credito.» «Temo che la rivoluzione dell'informazione sia ancora arabo per il tuo cervello, mia cara. Devi svoltare a sinistra e poi a destra.» «Conosco la strada» replicai con stizza. «Non sei stato molto gentile verso la nostra polizia, vero?» «È il genere di cose che fa raddrizzare la schiena alla gente, non trovi?» Calò un breve silenzio, e io attesi, sperando che Theo non cambiasse argomento, ma senza osare buttarmi. Non ebbi scelta. «Theo, che cosa stai combinando con Helen Auster?» Non vi fu alcuna reazione, ma la pausa si prolungò per qualche secondo di troppo. «A che cosa ti riferisci?» «Oh, dài, Theo, non sono cieca.» Vidi che rafforzava la presa sulla valigetta. «Oh, sai, il fascino delle donne in divisa...» «Helen Auster non indossa la divisa.» «Non in senso letterale, ma ne indossa una metaforica. I simboli di autorità che cedono e si lasciano conquistare hanno un che di erotico.» Non sapevo da dove cominciare. «Theo, si tratta di una donna coinvolta nelle indagini sull'omicidio di tua sorella.» «Piantala, Jane. Nessuno risolverà l'assassinio di Natalie. L'inchiesta è
una farsa. Non esistono prove. Non succederà un bel niente.» «Mi sono persa qualcosa, Theo? Pensavo che fossi sposato. Che ruolo svolge Frances in tutto questo?» Si voltò verso di me con un sorriso spavaldo. «Che cosa vuoi che ti dica, Jane? Che mia moglie non mi capisce? Questa non è una società di dibattiti.» «E Helen Auster non è sposata?» «Con il direttore dei supermercati, sì. Non ho notato segni di riluttanza da parte sua.» Gli lanciai un'occhiata. Abbozzò un sorriso che pareva sfidarmi, se non addirittura schernirmi. «Helen è una donna passionale, Jane. Molto disinibita, con un po' di incoraggiamento.» «Pensi di lasciare Frances?» «No, voglio solo divertirmi un po'.» Era stato così facile da essere orribile. Avevo la nausea, ma non potei fare a meno di continuare. «Ho visto Chrissie Pilkington l'altro giorno. Be', non si chiama più Pilkington.» «Sì?» «Ha fatto il tuo nome.» «Dove vuoi arrivare?» «È una tua vecchia fiamma. L'hai frequentata dopo che tuo padre si era stancato di lei.» «Per poco.» Vi fu una pausa. «Tutto a posto, Jane?» «Che cosa intendi?» «Vuoi sapere che cosa intendo?» sbraitò, arrabbiato per la prima volta. «Sto tentando di ricordare chi è stata la mia fiamma (per usare le tue parole) dopo Chrissie. Chissà chi era.» Si guardò intorno, nervoso. Eravamo imbottigliati in Gower Street. «Da qui proseguo a piedi o in taxi. Grazie per il passaggio.» Aprì la portiera, smontò e si allontanò a passo spedito. Restai seduta, bloccata nel traffico, furiosa e piena di vergogna. CAPITOLO 24 Ero nella vasca da bagno quando il telefono squillò. Chiusi il rubinetto dell'acqua calda con le dita dei piedi, sprofondai nella schiuma e restai in ascolto. Avevo dimenticato di accendere la segreteria telefonica. Avrei dovuto disturbarmi a rispondere? Se mi fossi precipitata subito fuori, avrebbe
smesso prima che lo raggiungessi. Invece, continuò a trillare con ostinazione. Mi trascinai fuori dall'acqua, che a un tratto mi sembrò irresistibile, mi avvolsi un asciugamano intorno al corpo accaldato e corsi in camera da letto. «Pronto?» «Jane, sono Fred.» «Fred? Non ti sento da...» «Si tratta di Martha. Se ne sta andando.» «Andando?» «Sta morendo, Jane, sta morendo in fretta. Vuole vederti. Mi ha pregato di portarti con me. Parto domani all'alba.» «Non dovremmo partire subito?» «Non sono nelle condizioni giuste, temo.» Mi accorsi che biascicava. «E comunque, sta dormendo.» «Va bene, Fred, a che ora?» «Vengo a prenderti verso le cinque, così evitiamo tutto il traffico e siamo là per le otto. La mattina sta meglio. Riposa per gran parte del pomeriggio.» Di recente avevo fatto quel viaggio troppo spesso: per la raccolta di funghi, per il funerale, per il mio imbarazzante confronto con Martha e poi con Chrissie. Fred aveva bevuto... ma l'aveva fatto la sera prima o quel mattino? Mi offrii di guidare, ma mi liquidò con un gesto della mano. La mattinata buia trascorse in un silenzio scandito dal ronzare sommesso della sua veloce auto aziendale. Lynn gli aveva preparato un thermos di buon caffè nero e alcuni tramezzini tagliati in triangoli perfetti e spalmati con un sottile strato di marmellata di susine. Rifiutai i tramezzini, ma accettai il caffè. Alfred abbassò il finestrino quando iniziai a fumare. Introdussi nell'autoradio uno dei nastri che avevo portato per Martha: i pezzi di Grieg, puri e chiari, riempirono l'abitacolo. A Birmingham, dissi: «Ricordi quando cantava per tutti noi? A cena, o durante le passeggiate, cominciava a cantare all'improvviso; non a canticchiare, o a intonare qualcosa in modo che potessimo accompagnarla, bensì a cantare a squarciagola, nel vero senso della parola». Alfred si limitò a grugnire. Be', certo che ricordava. Tuttavia, non riuscii a fermarmi. «O quando pedalava su quella vecchia bicicletta, diritta come un fuso sul sellino con i capelli che svolazzavano. Ridevamo tutti di lei, ma arrivava
sempre per prima in cima alle colline. O quando ci disegnava. Giocavamo insieme, senza neppure accorgerci che era lì, e a un tratto ci mostrava i suoi schizzi. Alcuni erano bellissimi. Mi domando dove siano finiti. Mi piacerebbe averne uno.» «Ho un'immagine vivida di lei seduta nella serra.» Alfred aveva la voce roca e teneva gli occhi fissi sulla strada. «Ogni mattina andava là dentro e sedeva su quello sgabello alto. Quando ci alzavamo, la vedevamo spesso, assolutamente immobile, che scrutava il giardino come una sentinella. Strano a dirsi, l'ho sempre trovato rassicurante. Qualunque altra cosa accadesse, la mamma era lì, impegnata a fare la guardia al nostro angolo di mondo. Prendi dell'altro caffè.» «Grazie. Ti dispiace se fumo un'altra sigaretta?» «Fa' pure.» Lasciata l'autostrada, seguimmo le indicazioni per Bromsgrove. «Alfred, riguardo a Natalie...» «No.» La sua voce stridette come un'automobile che inchioda di colpo. «Volevo soltanto chiederti...» «Ho detto di no, Jane. Più tardi. Dopo Martha. Abbi pazienza.» La camera di Martha traboccava di fiori e cioccolatini, come la corsia di un ospedale. «Buffo. Quando ti ammali o diventi vecchio, la gente crede che ti piacciano le cose dolci» scherzò. Mi ringraziò per le cassette, e Alfred le diede i bigliettini preparati dai suoi figli. Martha li esaminò tutti con attenzione, posandoli con delicatezza sul comodino. Sedevamo lì, spaventati dalla magrezza del suo viso. Il suo corpo sollevava a malapena il drappeggio del lenzuolo, e le sue dita giacevano sulle coperte come cinque ossa sempre più bianche. Vi fu una pausa impacciata mentre cercavamo un argomento di conversazione adatto a un letto di morte. «C'è un'altra cosa singolare» proseguì. «Quando è necessario parlare (come adesso, mentre sto per morire), sembra quasi impossibile. O imbarazzante. Guardati, Alfred, stavi per domandarmi del tempo, del giardino o qualcosa di simile, vero? Ma forse non mi rivedrai mai più.» «Mammina» disse Fred. Pareva sconcertante che un uomo adulto chiamasse qualcuno con un nomignolo tanto infantile e fiducioso. Abbassai gli occhi sulle mie mani, strette in grembo. «Fred, tesoro, perché non vai a trovare Alan? Sta passeggiando da qualche parte in giardino. Voglio parlare a quattr'occhi con Jane. E poi con te.
D'accordo?» Quando fummo sole, Martha confessò: «Ho avuto parecchio tempo per abituarmi all'idea della morte, ma non ha reso le cose più facili». «Hai paura?» domandai. «Peggio, sono terrorizzata. Penso al grande buco nero che mi aspetta, e ho l'impressione che la mia vita non sia ancora accaduta. È trascorsa troppo in fretta, mi sento in qualche modo truffata. Non posso sfogarmi con Alan, però. Continua a blaterare di quando starò meglio e di dove andremo in vacanza quest'anno. Passa la metà del tempo a coprirmi di attenzioni, tanto che non posso neppure bere un sorso d'acqua senza che corra a tenermi fermo il bicchiere.» Sollevò una mano tremante. «Poi, altre volte, mi consiglia di alzarmi, magari di fare una passeggiata in giardino. Ritaglia le ricette dalle riviste e insiste affinché le prepari. Oppure mi cucina i pasti (fagottini di carne o cose simili), mi mette nel piatto il quintuplo di quanto riesco a mangiare e mi guarda. Non vuole discutere delle disposizioni. Delle disposizioni concrete per quando non ci sarò più.» «Posso fare qualcosa?» Mi guardò con fermezza, come se sapesse tutto. «Sì. Alan si è sempre fidato di te. Tienilo d'occhio. Assicurati che stia bene, Jane.» «Non so se ne sarò in grado, Martha» ammisi. «Già» replicò. Come si può dire addio a qualcuno che si ama e che non si rivedrà mai più? Mi chinai su Martha, che mi studiò con occhi stanchi e lattiginosi. «Sei bellissima» dissi (una frase ridicola, date le circostanze) e le scostai una ciocca candida dalla fronte. La baciai prima sulle guance, poi sulle labbra. «Mi dispiace» si scusò. Fred schiacciò troppo l'acceleratore durante il tragitto verso casa. Le strade erano intasate e c'era la nebbia, ma ci tenemmo sulla corsia di sorpasso, frenando quando una sagoma si stagliava all'orizzonte e strombazzando alle auto che procedevano con prudente lentezza. All'inizio non parlò, e ne fui contenta. Ascoltò il notiziario alla radio e una commedia di cui persi il filo. A una sessantina di chilometri da Londra, dichiarò: «Jane, questa storia deve finire». Non finsi di non aver capito. «Perché dici così, Fred?» Sferrò un pugno al volante, sbandò per evitare qualcosa di morto sull'asfalto e rispose: «Non vedi che ne abbiamo abbastanza di tutte queste...
queste sciocchezze? Ho parlato con Claud (che, devo riconoscerlo, si è mostrato davvero protettivo e indulgente nei tuoi confronti, data la situazione), e mi ha spiegato che ha qualcosa a che fare con una terapia. E ho parlato anche con Theo. A che gioco stai giocando, Jane?» Aprii la bocca per rispondere, ma non aveva terminato. «Non so perché tu voglia vendicarti, visto che sei stata tu a piantare Claud, ma questo non ha importanza. Il punto è che non possiamo più permetterti di ficcare il naso nelle nostre vite. E ora che anche la mamma sta morendo... non puoi smetterla?» «Non è niente, davvero.» «Oh, non propinarmi queste stronzate. Che cosa stai cercando di farci? Lasciaci in pace. Continua con la tua bella vita confortevole e la tua insulsa psicoanalisi e lasciaci in pace.» Aveva bevuto, naturalmente. Ma era così che la pensavano tutti quanti? Una parte di me desiderava soltanto essere perdonata e riaccolta nell'ovile. C'era qualcosa che mi frenava. Percorremmo il resto della strada in un torvo silenzio. Devo comprarmi un gatto, riflettei mentre aprivo la porta della mia casa fredda e silenziosa. Senza nemmeno togliermi il cappotto, mi diressi verso il telefono del soggiorno e composi il numero di Theo. Rispose al primo squillo. «Theo, sono Jane.» «Ciao, Jane.» Non sembrava molto entusiasta. «Devo parlarti. Ho visto Fred.» «Sì, lo so, mi ha appena chiamato dal cellulare.» «Theo, credi anche tu che stia ficcando il naso in faccende che non mi riguardano?» «Se me lo domandi, Jane, sei molto meno intelligente di quanto pensassi. Ritengo che ti stia rendendo ridicola, maledizione.» La comunicazione si interruppe. La famiglia Martello stava per sbattermi la porta in faccia. Sbirciai nell'armadio. Il tailleur di gabardine grigia, con una lunga gonna attillata e gli spacchi che lasciavano scoperti i polpacci? Troppo professionale. Il vestito rosso e aderente, scollatura profonda, maniche lunghe e orlo alle ginocchia? Troppo sexy. L'abito nero? Troppo scontato. Panta-
coUant con una casacca di seta dalla foggia cinese e dalle tinte autunnali? Troppo casti. Li provai, uno dopo l'altro, rimirandomi davanti al lungo specchio, e scelsi la casacca cinese. Poi mi preparai un bagno, mi lavai i capelli e mi vestii con estrema lentezza. Mi truccai gli occhi con il mascara e un eyeliner verde scuro, e la bocca con un lucidalabbra color mora. Sorrisi, e un viso preoccupato mi sorrise di rimando. Troppo vivace. Inzuppai di struccante un batuffolo di ovatta ed eliminai l'eyeliner. Era soltanto una cena, non un esame, per amor del Cielo. Mi spazzolai i capelli all'indietro e li fissai con un fermaglio. Optai per orecchini poco vistosi, gocce d'ambra, e mi applicai un po' d'acqua di rose sui polsi. Soltanto una cena con altri sette invitati e la figlia di Caspar sullo sfondo. Che cosa sarebbe successo se mi avesse presa in antipatia? Fanny fece il suo ingresso camminando a ritroso e trascinando una pesante cassa. Si voltò e ci studiò tutti con serietà. «Sono una viaggiatrice» annunciò. Si fermò davanti alle mie ginocchia e mi scrutò per un attimo con gli occhi grigi di Caspar. «Chi sei?» Caspar non intervenne, limitandosi ad aspettare che rispondessi. «Jane.» «Dimmi qualche parola che fa rima con Jane. Pronti, partenza, via.» «Maine, Shirley MacLaine, John Coltrane, le patatine McCain...» «Questi sono tutti nomi propri. Voglio delle vere parole.» «Al momento non me ne vengono in mente, purtroppo.» «Allora con Fanny. Via!» «Battipanni, attaccapanni, barbagianni...» «Che cos'è un barbagianni?» «Un uccello, credo.» «A scuola, i miei compagni dicono che Fanny fa rima con "danni" e cantano: "Fanny fa solo danni". Pensi che sia vero?» «Non dar loro retta. I miei compagni di scuola mi chiamavano "Jane né carne né pesce".» Caspar si alzò e le disse: «Forza. È ora di andare a letto. Leggiamo un capitolo di Pippi e lasciamo i nostri ospiti soli per qualche minuto, d'accordo? Servitevi pure senza complimenti». La bambina gettò in aria le braccia, diritte come fusi, e lui se la sollevò fino alle spalle. «Altro vino, Jane?»
«Mezzo bicchiere.» Levai una mano per segnalargli che era abbastanza, e le nostre dita si sfiorarono. Non riuscivo a respirare. Il mio stomaco si tramutò in acqua, e il mio cuore guizzò come un pesce. «Allora, come hai conosciuto Caspar?» domandò l'uomo accanto a me: Leonard, che lavorava all'ospedale per le malattie tropicali ed era appena rientrato dall'Angola. «Ero seduto vicino a lei durante un dibattito e si è messa a urlarmi contro» interloquì Caspar. «E poi lui è venuto a un'assemblea dell'associazione residenti a cui partecipavo anch'io e si è beccato un pugno in un occhio.» «Per essere un pacifista» intervenne Carrie dall'altra parte del tavolo «ti cacci in un sacco di risse. Un barbone non te le ha forse suonate quando hai cercato di dargli dei soldi?» «È stato un malinteso.» «Come no» fece Eric dai capelli rossi e dalle unghie rosicchiate. «E quella vecchietta al supermercato quando ti sei allontanato con il suo carrello? Con la luce giusta, la cicatrice si vede ancora.» Era stata una serata piacevole, piena di chiacchiere frivole. Gli amici di Caspar mi avevano sorriso come se avessero già sentito parlare di me. Ogni tanto, quando lo guardavo, lo sorprendevo a osservarmi. Qualunque cosa dicessi o facessi, ero consapevole della sua presenza all'altro lato della stanza. La felicità mi strinse la gola, togliendomi il fiato. Balzai in piedi. «Scusate, ho perso la cognizione del tempo. Devo tornare a casa.» Rivolsi un sorriso a tutti. «È stata una bella serata, grazie.» Caspar mi porse il cappotto, e io vi infilai dentro le braccia, facendo attenzione a non toccarlo. Mi aprì la porta, e uscii nell'aria che prometteva neve. «Grazie, Caspar, mi sono divertita.» «Buona notte, Jane.» Restammo immobili. Per un istante pensai che mi avrebbe baciata. Se mi avesse baciata, l'avrei baciato a mia volta, stringendomi forte al suo corpo. Ma poi una risata ci raggiunse dall'interno, e al piano di sopra una bambina tossì. Me ne andai. «Spiacente, Jane Martello non c'è, ma potete lasciare un messaggio dopo il bip.» «Ciao, sono Paul, alle... mmmh... dieci e mezzo di giovedì sera. Ti ho te-
lefonato per avvisarti che il mio programma andrà in onda il 21 febbraio. Mi farebbe molto piacere se venissi da noi a festeggiare. E a guardarlo, naturalmente. Fammi sapere appena puoi.» Come poteva il documentario essere già pronto? Insomma, avevo visto Paul che vagava qua e là prendendo appunti e cercando oggetti, e c'era stato quel Natale disastroso, ovviamente, ma avevo pensato che fosse ancora tutto allo stato embrionale. Anzi, in cuor mio avevo dato per scontato che il filmato non sarebbe mai stato trasmesso. «Ciao, Jane, sono Kim, volevo solo sincerarmi che stessi bene.» «Sono io, Alan.» Sembrava sbronzo. «Per piacere richiamami.» Avevo indovinato: Alan era ubriaco. Quando menzionò Martha, scoppiò in lacrime. «Oh, Jane, Jane» piagnucolò, e io rabbrividii pensando al suo sfogo goffo e infantile e al mio tradimento furtivo e sofisticato. «Ti vuole bene come a una figlia.» Non proprio, ma sapevo che cosa intendeva. Anch'io le volevo bene come a una non-proprio-madre. «Non ci sono speranze per te e Claud? La renderebbe così felice.» No, nessuna speranza, nemmeno una. Martha sapeva che era finita. «Non scriverò mai più, mai più. Sono vecchio e stanco.» Estrassi il pacchetto di sigarette. «Non abbandonarci, Jane.» Farneticava su Natalie... Una bambina così splendida... così affettuosa... Perché era diventata tanto ostile negli ultimi anni?... Avevano cercato di essere dei bravi genitori, vero?... Dove avevano sbagliato?... Sapeva di essere stato debole con le donne, ma quello non poteva certo spiegare... Una volta gli aveva sputato addosso... I ricordi sono una cosa terribile, una cosa terribile, una cosa terribile. CAPITOLO 25 Telefonai a Caspar. Avevo pensato a lui per tatto il giorno, e la sera lo chiamai. «Sono Jane. Ti va di vederci domenica all'Highgate Cemetery?» «Sì. A che ora?» «Alle tre, accanto alla tomba di George Eliot.» «Come faccio a riconoscerla?» «Sarà quella con me lì accanto alle tre in punto.» «D'accordo. Io porterò una copia di Daniel Deronda con metà delle pagine non lette. Anzi, intonse.»
Tutto lì, una ventina di parole, e la conversazione telefonica più erotica che abbia mai sostenuto. Infornai due plum-cake, tre fette di pane integrale e del semplice pan di Spagna destinato al freezer. Bevvi quattro bicchieri di vino rosso, fumai otto sigarette, ascoltai alcuni brani poco romantici di Bach. Il sabato pulii la casa da cima a fondo. La pulii sul serio, sgombrando le mensole dai libri e lavandole. Appesi alcuni quadri che stazionavano nel mio studio da mesi, staccai i poster delle chiese antiche che Claud aveva lasciato ad arricciarsi sulle pareti. Infilai nell'album le fotografie dell'ultimo anno. Erano tutte istantanee di edifici, a eccezione di quella che raffigurava Hana con una cloche a oscurarle il viso. Nel pomeriggio, andai a Hampstead e comprai un cappotto. Mi costò un occhio della testa. Lo pagai con la carta di credito. Cancellai dalla mente il pensiero di Natalie. Quello era il mio week-end. La sera, preparai un'insalata di riso e la mangiai con la mezza bottiglia di rosso che avevo stappato non molto tempo prima. Portai giù una scatola dalla soffitta, accesi una candela e spulciai le lettere d'amore che Claud mi aveva spedito. Risalivano quasi tutte all'anno prima e all'anno dopo il nostro matrimonio. Poi più niente, tranne la bizzarra cartolina che mi aveva scritto durante una conferenza: «Mi manchi». Magari era vero. Le lettere erano scritte in una calligrafia meticolosa. In alcuni casi l'inchiostro era sbiadito. «Dolcissima Jane» diceva Claud, «eri incantevole con il vestito azzurro.» «Mia cara, vorrei essere con te stasera.» La più vecchia era datata ottobre 1970, qualche mese dopo la scomparsa di Natalie. Strano che l'avessi dimenticata: spiegava, con parole mature e gentili, come la famiglia fosse rimasta unita. «Tornerà a casa» affermava Claud, «ma naturalmente nulla sarà più come in passato. La prima parte della nostra vita è terminata.» Aveva ragione. Lo immaginai nel suo appartamento inappuntabile, con i libri sulle chiese e la corrispondenza in ordine alfabetico. Mi domandai se sperasse ancora che cambiassi idea, e credo che gli avrei permesso di restare se avesse varcato la soglia in quell'istante, la sera prima del mio appuntamento con Caspar. Non sono mai stata brava negli addii. Arrivò in orario, ma c'era anche Fanny, i riccioli indisciplinati che le incorniciavano il volto e i jeans di due taglie in più, troppo grandi per la sua minuscola corporatura ossuta. Dischiuse il pugno guantato per mostrarmi i sassolini che aveva raccolto mentre aspettavano. Aveva il visetto chiazzato per il freddo e impiastrato di terriccio.
«L'amica con cui avrebbe dovuto trascorrere la domenica si è ammalata» spiegò Caspar. «Sono lieta di rivederla» mentii. «Vieni da questa parte, Fanny, e ti mostro un obelisco con il muso di un cane che si chiamava Imperatore.» «Che cos'è un obelisco?» «Una cosa appuntita.» Ci allontanammo dal sentiero principale, coperto di ghiaia. I rovi si impigliavano alle nostre gambe. «Hai notato» domandò Caspar «quanti bambini sono sepolti qui? Guarda, il piccolo Samuel di cinque anni, la stessa età di mia figlia, e c'è un neonato di undici mesi.» Ci fermammo davanti a un sepolcro di famiglia: cinque nomi, tutti al di sotto dei dieci anni. Su alcune tombe ordinate erano posati dei fiori. Quasi tutte erano infestate di edera e ortiche; il muschio affondava nelle iscrizioni, nascondendole. «Guarda quello» dissi. Qualche metro più in là, tra un gruppo di alberi, un angelo senza testa sorvegliava una lastra sepolta. «Abbiamo dimenticato come si piangono i defunti, vero? Come ricordarli. Vorrei un monumento come quello. Ma la gente direbbe che è kitsch, oppure morboso.» Caspar sorrise. «Morboso? Scegliere la scultura funeraria a quarant'anni? Non l'avrei mai pensato.» «Ne ho quarantuno. Guarda.» Quattro sognanti teste preraffaellite si univano meste in un cerchio di pietra. «Dove sono sepolti gli animali, Jane?» Fanny tornò dalla sua deviazione tra una fila di lapidi rovesciate. Indicai lungo il sentiero. «Laggiù. Un po' più avanti.» Corse via, la sciarpa con le frange che le svolazzava alle spalle. «Vieni qui, Jane.» Mi feci strada tra i gruppetti di alberi verso il punto in cui si trovava Caspar. Camminai con molta lentezza. Nulla sarebbe mai più stato bello come in quel momento. Mi fermai a trenta centimetri da lui, e ci guardammo. «Jane né carne né pesce» disse. Seguì il profilo delle mie labbra con l'indice. Con delicatezza, come se fossi preziosa, mi chiuse le mani a coppa dietro il capo. Mi sfilai i guanti, li gettai tra le ortiche e gli feci scivolare le mani sotto il cappotto, il maglione, la camicia. Odorava di legno bruciato. Scorsi il mio volto nei suoi occhi, e poi abbassò le palpebre e mi baciò. Quanti strati di indumenti; ci appoggiammo l'uno all'altra. Mi doleva dappertutto.
«Caspar! Caspar, dove sei? Vieni a vedere che cosa ho trovato. Eccoti. Perché vi nascondete? Jane, Jane, ti sono caduti i guanti. Dài. Sbrigatevi.» Quando mi trovai ancora una volta nel mondo dei miei ricordi, le prime pietre di Cree's Top dure contro la curvatura della mia spina dorsale, fui pervasa dalla paura e dal freddo. Appena avevo inforcato la bicicletta e avevo cominciato a pedalare lungo Swain's Lane lasciando Caspar e Fanny che si tenevano per mano sul marciapiede, il bacio al cimitero mi era parso un sogno, e avevo avuto l'impressione di ripiombare nella realtà. Le vacanze erano finite, e la scuola stava per ricominciare. Io e Alex non avevamo parlato. Non ci eravamo guardati negli occhi. Mi ero sdraiata sul lettino e quando lui aveva pronunciato le poche parole del nostro rituale, avevo avuto la sensazione che la stanza scivolasse via, permettendomi di tornare dove dovevo essere. La superficie del Col alla mia sinistra era attraversata da increspature nauseanti, come se si trattasse di olio denso anziché di acqua limpida. Il fiume superava l'ansa a fatica. Alzatami, mi voltai, rabbrividendo appena con le scarpe da ginnastica e il vestito di cotone leggero, nero come quello che Natalie aveva indossato così spesso quell'estate. La brezza lo appiattì intorno al mio corpo sodo e giovane, il corpo che avevo dato a Theo soltanto il giorno prima, accarezzato, spogliato e infine penetrato tra le ombre dei boschi, con le risa e la musica della festa che ci ronzavano nelle orecchie. Avevo preso il quaderno con le mie sciocche illusioni e fantasie infantili, e le avevo strappate a una a una. Ormai quelle fantasticherie puerili mi ripugnavano, ed era stato con l'intenzione di buttarmi il passato alle spalle che le avevo appallottolate e gettate nel ruscello, dove si erano perse sulla distesa irregolare di luce e piccole onde che camuffava il punto in cui finiva l'aria e cominciava l'acqua. Ormai ero una donna, vero? Mi voltai verso Cree's Top. Fui attraversata da un'ondata di terrore, e mi sentii stordita, tanto che le gambe mi reggevano a fatica. Gli olmi alla mia sinistra vacillarono e si inclinarono, o magari gli alberi erano fermi, ed ero io quella che vacillava. Mi avviai lungo il sentiero ripido e angusto, così familiare eppure così lontano nel tempo. Vedevo l'acqua limacciosa del ruscello tra i cespugli alla mia destra, ma questa volta mi sforzai di guardare solo lungo il viottolo, quel viottolo della mia mente chiusa. I rami mi sfioravano, impigliandosi nel vestito, le spine mi graffiavano la pelle delle braccia e dei polpacci nudi, quasi volessero trattenermi. Proseguii, incurante. Adesso ero sulla cima di Cree's Top, sebbene la visuale fosse coperta in
tutte le direzioni dai fitti cespugli di ginestrone che lo ammantavano. Il colle era bassissimo, e dopo qualche passo cominciai a scendere. Mi fermai ad ascoltare. Allora capii. Scorsi qualcosa che si muoveva tra gli arbusti lì davanti, qualcosa che compariva e scompariva. Anche dei suoni, soffocati e indistinti. Era quello il posto. Era quello il posto. Cose che avevo sepolto nella mente da venticinque anni, e dovevo solo avanzare tra le barriere che avevo eretto intorno a me stessa. Quando aprii gli occhi e battei le palpebre verso Alex senza vederlo subito, non provai la paura di prima, bensì una gelida determinazione. Era quello il posto. Ma non ero ancora del tutto pronta. Non del tutto. CAPITOLO 26 Mi svegliai la mattina di mercoledì 15 febbraio con il presentimento che stesse per accadere qualcosa. Era piovuto per giorni (il prato era gonfio d'acqua), ma il tempo era tornato all'improvviso freddo e luminoso. Dalla finestra sul retro, la guglia e l'antenna della televisione su Highgate Hill si stagliavano con chiarezza innaturale. Gli oggetti quotidiani della mia cucina erano diversi, carichi di significato. Mi formicolava la pelle. Era come se qualunque cosa guardassi fosse illuminata da dietro, i contorni accentuati e più duri, più vividi. Lo stesso valeva anche per me. Mi sentivo scattante, efficente. Avevo bisogno di fare qualcosa. Avevo fatto la spesa il giorno prima, ed ero quasi pronta. Posai sul tavolo la mia ingombrante bilancia con i pesi, una confezione di farina integrale e una di farina bianca, sacchettini di cellophane pieni di semi di zucca, semi di girasole e semi di sesamo, lievito simile a morbida creta, sale marino, vitamina C in polvere contenuta in un vasetto da medicinali arancione, un flacone di olio di vinacciolo, un pacchetto di zucchero di canna duro e denso. Era un'operazione che potevo affrontare con una beatitudine inconscia. Il lievito si risvegliò con bolle simili a pietre preziose. Versai il sale nella sabbiosa farina integrale, quindi aggiunsi tutto il resto con la pozza di lievito che odorava di birra. Fumai in giardino per mezz'ora, senza pensare a nulla, poi tornai per schiacciare e lavorare le due grosse palle di pasta, appoggiandomi sui palmi delle mani, piegando e ripiegando. Tagliai, arrotolai e distribuii in quattro stampi. Un'altra pausa. Girai per la casa in una sorta di delirio, raccogliendo camicie e rimettendo i libri sulle mensole. Spennellai la sommità delle pagnotte gonfie con acqua salata, le spruzzai con semi di sesamo, quindi le infilai nel forno caldissimo. Il pro-
fumo della combustione controllata, della rinascita del lievito, riempì le stanze fino quasi a inebriarmi. Dopo quello che parve un secondo, picchiettai il fondo degli stampi riecheggianti e li capovolsi su vassoi di metallo. Minuscoli semi tostati si sparsero sul piano di lavoro, così li raccolsi sulle dita inumidite e li frantumai tra i denti. Misi da parte tre pagnotte, pronte per essere incartate e conservate nel freezer. Dalla quarta tagliai una fetta tiepida, la spalmai di burro salato e acido formaggio di capra freddo e la trangugiai con ingordigia, senza niente da bere a parte l'acqua del rubinetto. Niente vino, niente caffè: non ne avevo bisogno; non sarei riuscita a reggerli. Irrequieta, tremante, inforcai la bicicletta e pedalai nell'aria tersa e gelida fino all'ufficio, dove io e Duncan avevamo indetto quella che, con un eufemismo, avevamo definito una riunione. Arrivai poco dopo le due e aprii la posta degli ultimi giorni, in gran parte circolari di mailing list da cui non mi avevano ancora cancellata. Gettai via quasi tutto. Se non avessi avuto altre cose di cui preoccuparmi, mi sarei preoccupata del mio lavoro. Non ero più sfaccendata degli altri. In mancanza di qualcosa di più costruttivo in cui investire il suo tempo, Gina era intenta a riorganizzare il nostro sistema di archiviazione. Una settimana prima, il risultato era parso apocalittico, con tutto il passato della CFM rigurgitato in forma cartacea e sparpagliato per i locali. Ora i documenti stavano scomparendo nelle loro nuove collocazioni, accompagnati dagli scatti dei quaderni ad anelli e dallo sbatacchiare degli schedari. Ormai eravamo a solo uno o due giorni dall'ordine assoluto, come Pompei. Sarebbe stato quasi un peccato rovinare quella perfezione tassonomica con eventuali nuovi progetti. Duncan era tutto assorbito dai dettagli tecnici della macchina del caffè, una delle nostre maggiori spese in conto capitale durante il boom dei tardi anni Ottanta. Mi portò un ristretto che mi assicurò un'iniezione quasi istantanea di caffeina appena lo ingollai in un unico minuscolo sorso. Mi illustrò la nuova proposta che stava vagliando con il Consiglio comunale, finalizzata a sistemare famiglie senza tetto in edifici fatiscenti e a consentire loro di restaurarli. Annuii con entusiasmo. La proposta era pratica, molto redditizia (salvo che per noi), socialmente utile, aveva poco a che vedere con l'architettura nel senso tradizionale del termine e sarebbe quasi sicuramente stata respinta senza indugio dall'ufficio Edilizia. Un tipico progetto della CFM. Poi passammo al mio pensionato. «Ho letto della fiaccolata dei residenti sul quotidiano locale» disse Duncan. «Evidentemente il tuo tentativo di placare i timori della comunità non
è stato molto efficace. Significa forse che l'idea è stata scartata?» «Non necessariamente» risposi. «Un avvocato comunale ha escogitato un modo non proprio corretto per ottenere l'approvazione. Per via della rissa durante l'assemblea e dell'arresto che l'ha seguita, ci sarà un'udienza in tribunale. A quanto ho capito, il trucco è che siccome la faccenda è in corso di giudizio, noi non possiamo rispondere ad alcuna domanda in proposito. O almeno, questo è quello che dichiareremo. Nel frattempo le piante sono quasi complete. Gli oppositori finiranno per doversi rassegnare a un pensionato funzionante che causerà i suoi problemi. I residenti che attaccano un architetto modernista e alcuni arroganti funzionari municipali sono una cosa. La notizia verrebbe accolta bene dalla stampa locale. Un gruppo di bacchettoni che aggredisce i malati di mente reintegrati nella comunità è un altro paio di maniche. Comunque, è questa la grandiosa strategia.» «Hai fatto loro presente che, se il pensionato non venisse costruito, quella gente si piazzerebbe sui loro marciapiede, davanti ai loro negozi e sulle loro panchine pubbliche?» «No. Gli avvenimenti me l'hanno impedito.» La riunione fu aggiornata con discreto ottimismo, e tornai alla mia scrivania, dove fumai diverse sigarette, picchiettando con la matita sul telefono e rendendomi conto che non stavo concludendo un bel niente e che magari avrei fatto meglio ad andarmene. Ero convinta di vedere tutto con estrema chiarezza e di avere altri posti in cui recarmi e altre cose da fare. Gina mi domandò come stavo, ma non ero in grado di prestare la dovuta attenzione alle sue parole e uscii senza neppure salutare Duncan. Avrei spiegato tutto in seguito. Una volta a casa, stappai una bottiglia di vino rosso, e dopo essere salita su una sedia e aver frugato in un pensile, recuperai alcuni anacardi salati, un quarto di sacchetto arrotolato di pistacchi e una piccola confezione di cosi simili a patatine e insaporiti agli scampi. Sarebbero bastati per la cena. Bevvi il vino, sgranocchiando le patatine e cambiando di continuo il canale della TV. Trasmettevano un quiz con domande che mi parvero elusive, un notiziario locale e un telefilm americano di fantascienza che mi sembrava «Star Trek», ma non lo era, nemmeno il nuovo «Star Trek». C'era un documentario sugli albatri, sui lunghi viaggi che intraprendono navigando sugli alisei e sull'incrollabile fedeltà che dimostrano alle compagne, una commedia ambientata in un liceo americano e infine un altro notiziario. Dopo averne avuto abbastanza, eliminai l'audio e chiamai la Fattoria
perché volevo parlare con Martha, ma qualcun altro mi colse di sorpresa rispondendo al telefono. Era Jonah, e mi informò in tono molto calmo e ufficiale che Martha era entrata in coma quella mattina ed era spirata serenamente nel pomeriggio. Non volendo interrompere la comunicazione, cercai di porgli qualche domanda, ma si scusò e disse che doveva andare. Sullo schermo, vidi un uomo con un completo grigio che apriva e chiudeva la bocca senza emettere alcun suono, come un pesce in una boccia di vetro. Dovevo telefonare a qualcuno. Chiamai Claud, e mi rispose la segreteria telefonica. Chiamai Caspar, e mi rispose una donna, così riagganciai. Chiamai Alex Dermot-Brown, e rispose Alex. Stupito, all'inizio mi rammentò che avevamo fissato una seduta per l'indomani e mi chiese se non potevo aspettare, ma dopo che mi fui sfogata un po', mi invitò a raggiungerlo subito e mi domandò se ero in grado di andarci da sola o se doveva venirmi a prendere. Insistetti e inforcai la bicicletta senza cappello né guanti, sebbene vi fosse già la brina sui parabrezza delle auto. Quando aprì la porta, Alex sembrava leggermente diverso. Benché l'avessi sempre visto lì e non si mettesse mai in ghingheri, mi sentii come una scolaretta che faceva visita di nascosto alla maestra dopo le lezioni. Mi salutò con palese apprensione. Bisbigliava, e udii delle voci provenire dalla cucina. Mi resi vagamente conto che forse avevo interrotto qualcosa, ma non ero nella posizione di rammaricarmene. Mi condusse nel suo studio. Gli domandai dei bambini. Rispose che dormivano all'ultimo piano e che non dovevo preoccuparmene. Girò l'interruttore, e restai abbagliata. Dopo l'oscurità esterna e l'accogliente chiarore marrone dell'ingresso e delle scale, quella luce mi parve clinica e indagatrice. Mi sdraiai sul lettino, e Alex sedette dietro di me. «Martha è spirata» esordii. Respiravo a fondo e con calma, come avevo fatto in passato a bordo delle navi mentre mi sforzavo di non vomitare. Alex tacque a lungo, e quando parlò fu garbato ma risoluto. «Voglio che ripensi al giorno in cui Natalie è scomparsa» dichiarò. Era più di quanto potessi sopportare. «Non ci riesco, Alex, non ci riesco.» A un tratto si inginocchiò accanto a me. Avvertii il suo alito dolce e tiepido sulla guancia, la sua mano tra i capelli. «Jane, una donna alla quale era molto affezionata è morta. So che sta soffrendo. Ma non è venuta da me per cercare conforto. Vuole sfruttare questa emozione. Giusto?»
«Non so che cosa voglio fare» replicai, con la certezza che tutta la mia resistenza fosse svanita. «Coraggio, allora» mi esortò. Pronunciò le parole soavi e rilassanti che erano una formula magica ormai familiare, come la musica sommessa che proviene da una stanza lontana. Provai un'enorme consolazione permettendo al mio corpo di distendersi e alla mia volontà di indebolirsi, e mi ritrovai lì. Questa volta c'ero davvero. Il muschio bruciacchiato contro la schiena, le cosce appoggiate a sassi e minuscoli ramoscelli. Alzandomi e lisciandomi il vestito con le mani, tastai i segni che mi avevano scavato nella carne, come un tappetino di rafia sulla parte posteriore delle gambe. Una nuvola aveva offuscato il sole, gettando il Col in una fitta ombra. La sua superficie scura e chiazzata si increspava con indolenza prima di scorrere via. I frammenti di carta strappati e appallottolali erano spariti, insieme con le fantasie infantili che avevano simboleggiato. Era tutto finito. Mi voltai, rabbrividendo tra le. folate di vento che mi sferzavano, gocce di umidità che minacciavano pioggia. La stoffa nera si appiattiva contro il mio corpo, il mio corpo sessualmente maturo, i seni e le cosce di qualcun altro oltre che miei. Provai una fredda e inconfondibile determinazione. Cree's Top si ergeva lì davanti, il Col che lambiva la sponda accanto al mio piede destro. Mi lanciai lungo il sentiero ripido e angusto, verso il bosco e il ginestrone che ammantavano quel rilievo naturale. Udivo dei suoni, non il cinguettio degli uccelli, il fischio del vento o lo sciabordio del ruscello, bensì sibili, gemiti e scricchiolii sinistri. Non ci feci caso. Correvo, sentendo il mio respiro affannoso e il petto contratto e dolorante. Tutt'intorno, gli alberi parevano morti, gli arbusti spogli, il fiume sotto di me, a destra, pigro e marrone. Ora il mio compito non era pensare e ragionare, bensì procedere a prescindere da tutto. I rami mi graffiavano il viso, le spine mi laceravano la pelle, il vestito continuava a impigliarsi. Dopo aver raggiunto la sommità di Cree's Top, la attraversai e iniziai a scendere la china sull'altro lato. Sul lato di Natalie. Tra i cespugli più avanti scorsi un movimento, dei guizzi discontinui tra i rami, e percepii delle urla, delle grida confuse. Avevo già preso la mia decisione. Mi scagliai in avanti e irruppi tra gli arbusti, sotto il sole. In un primo momento non distinsi nulla a causa della luce accecante, nulla a eccezione di tante esplosioni di puntini dorati. Strizzai gli occhi, costringendomi a guardare. Era chiaro. Percezioni simultanee: una ragazza stesa sull'erba. Che strillava senza sosta. Natalie. Capelli castani, occhi
fiammeggianti. Immobilizzata. Sopra di lei vi era un uomo, le mani intorno alla sua gola. Le braccia e le gambe di Natalie si agitarono invano, quindi rallentarono e si fermarono. Cercai di gridare, ma era come se avessi la bocca piena di cenere. Cercai di scappare, ma i miei piedi erano blocchi di pietra. La giovane giaceva immobile. L'uomo mi dava le spalle. Era bruno, non brizzolato. Era snello, non corpulento. Era ben rasato, non barbuto. Ma non c'era dubbio. Era Alan. All'improvviso mi misi a urlare, e qualcuno mi afferrò. Era Alex, che mi teneva stretta e mi sussurrava all'orecchio. Mi tirai su. Ciuffi di capelli mi ricadevano sul viso. Ero spossata. Mi avevano scuoiata e rivoltata. Quando annunciai che avevo la nausea, Alex prese il cestino della carta straccia, e dopo qualche conato vomitai più volte, svuotandomi. Tornai a sdraiarmi sul lettino, distesa, impotente, il naso che colava, il viso sporco e rigato di lacrime, gemendo, piangendo, ansimando. Totalmente sfinita, umiliata, atterrita. Udii una voce affettuosa nell'orecchio: «È arrivata, Jane. Va tutto bene. È al sicuro». CAPITOLO 27 Mi svegliai nel mio letto, senza sapere come ci ero finita. Sì, Alex mi aveva accompagnata con la sua auto. Avevo forse fatto una scenata e spaventato i suoi figli? La mia bicicletta doveva essere ancora legata al parchimetro davanti a casa sua. Guardai la sveglia. Quasi le dieci. Di mattina o di sera? Doveva essere mattina. Se fosse stata sera, avrebbe segnato le venti. No, le ventidue. Ai margini della mia coscienza c'era qualcosa che mi rifiutavo di pensare. Mi costrinsi a pensarci. Dovetti correre in bagno. Mi chinai sul water, in preda ai conati di vomito, espellendo solo qualche schizzo caldo e acido. Mi pulii la bocca con uno straccio di flanella. Ero ancora vestita. Mi spogliai ed entrai nella doccia. Acqua bollente seguita da acqua gelata. Mi infilai un paio di jeans e una vecchia camicia di velluto a coste. Le dita mi tremavano così forte che faticai ad abbottonarla. Dovendo mangiare qualcosa, andai in cucina. Nel freezer c'erano due confezioni di caffè in chicchi. Scelsi quello più scuro e riempii il macinino di una macchina da caffè. Dopo aver frugato qua e là per un po', recuperai un pacchetto nuovo di sigarette dalla tasca del cappotto che indossavo la sera prima. Svuotai la caffettiera, tazza dopo tazza, e finii il pacchetto.
Il telefono squillò a più riprese, e udii varie voci sulla segreteria telefonica. Duncan, Caspar, mio padre. Me ne sarei occupata in seguito, un altro giorno. Quando riconobbi la voce di Alex Dermot-Brown, attraversai la stanza di corsa e sollevai la cornetta. Era in pensiero per me. Mi domandò se stavo bene, invitandomi a raggiungerlo. Subito, se possibile. Gli promisi che sarei stata da lui entro un'ora. Fuori, la giornata era fredda, ma luminosa e soleggiata. Mi misi un lungo cappotto svolazzante, mi avvolsi una sciarpa intorno al collo, mi calcai un berretto sulla testa e mi avviai verso l'Heath. Le raffiche di vento mi sferzavano, e quando raggiunsi la cima di Kite Hill, Londra si stendeva ai miei piedi, nitida come non mai. Il mio sguardo spaziò fino alle colline del Surrey. Scesi, allontanandomi dall'Heath in corrispondenza di Parliament Hill e superando l'ospedale Royal Free. Claud mi aveva raccontato di un malato mentale affetto dalla compulsione nevrotica di contare le finestre. Poiché non otteneva mai lo stesso risultato, si trattava di un'impresa senza fine. Che cose assurde facciamo per mettere ordine nella nostra vita! Una volta avevo letto una poesia su un tizio che era stato arrestato per aver riempito le O dei libri di una biblioteca. Chissà se pensava alle O che aveva riempito o a quelle che non aveva riempito. La camminata fu lunga e faticosa, e quando bussai alla porta di Alex, ero ormai senza fiato. Tutte quelle sigarette. Scoppiai quasi a ridere quando mi sorpresi a ripropormi di smettere. Non ancora. Non ancora. Quando l'uscio si aprì, Alex mi meravigliò, anzi mi sbalordì, prendendomi tra le braccia e tenendomi stretta, bisbigliandomi parole di conforto all'orecchio come se fossi uno dei suoi bambini, impaurito dal buio. Era quello che volevo più di qualsiasi altra cosa al mondo. Dopo avermi rassicurata, assunse un'espressione seria, domandandomi ancora se stavo bene. «Non lo so. Ho vomitato e ho ancora la nausea. Mi sento come se qualcuno cercasse di gonfiarmi la testa con la pompa di una bicicletta.» Sorrise. «Non si preoccupi» mi tranquillizzò. «È naturale. È come guarire da un'influenza. Immagini che il suo corpo stia tentando di eliminare ventìcinque anni di veleni e impurità accumulati dentro di lei. Si sta purificando.» «Sto impazzendo, Alex?» «Sta rinsavendo. Sta scoprendo l'angoscia di un'esistenza senza illusioni.» «Ma Alex, può essere vero? Può essere successo veramente? Può un uomo come Alan aver messo incinta sua figlia? Può averla uccisa?»
Con molta delicatezza, mi prese il volto tra le mani e mi guardò dritta negli occhi. «È stata lei, Jane, a sfondare tutte le barriere e le menzogne. Ha compiuto il viaggio, Jane. Me lo dica lei, ritiene impossibile che sia stato lui?» Rispondere parve uno sforzo immane. Indietreggiai, e le sue mani mi lasciarono. Scossi piano la testa. «No» dissi, quasi sussurrando. «Non lo ritengo impossibile.» Un paio di minuti dopo ero di nuovo sul lettino, e Alex era accomodato sulla sua poltrona. Cercai di ricostruire i dettagli degli avvenimenti di tanti anni prima, ma lui si mostrò irremovibile. Quello poteva aspettare, disse. Invece, mi parlò con dolcezza, come aveva fatto tante volte in precedenza, e mi riportò tra i ricordi, ancora sulla scena del delitto. Durante quella seduta, quella dell'indomani e quella del giorno successivo, mi obbligò a ripercorrere gli eventi, che divennero più chiari e precisi. Fu come mettere sempre più a fuoco un'immagine fotografica già soddisfacente, evidenziando nuovi particolari e sfumature. Vidi Natalie che lottava, ne riconobbi gli indumenti, dalla familiare fascia per capelli intrecciata alle scarpe di tela nera che associo sempre a lei. Distinsi Alan, forte e pesante, che la teneva ferma, stringendole la gola, senza allentare la presa fino al cessare di ogni movimento. «Chissà se avrei potuto fare qualcosa.» «Che cosa avrebbe potuto fare? La sua mente l'ha salvata proteggendola dall'orrore di quanto era capitato. Ora abbiamo sfondato quella protezione.» Trovai incredibilmente difficoltoso rivivere i fatti. Il crimine era così vivido e violento, e io ero così vicina (a pochi metri di distanza tra i cespugli) da avere la sensazione di poter intervenire, di poter fare qualcosa, magari anche solo urlare. Ma sapevo di non essere intervenuta, di non poter più intervenire e di non poter più fare nulla. Lo shock e il dolore non si attenuarono. Nessun compromesso, nessuna catarsi, nessuna possibilità di superare la sofferenza o liberarmi dalla sua morsa. Ero incapace di prendere le distanze dagli avvenimenti, di rifletterci con equilibrio. Furono giornate di singhiozzi, di angoscia nauseante, giornate trascorse a fumare anziché a mangiare, a bere tutta sola in casa mia. Spruzzate un po' di sale al sedano nella brocca, seguito da qualche pizzico di pepe nero, da tre schizzi di tabasco, da una quantità improbabile di salsa Worcester, dal succo di mezzo limone e da una modesta dose di ketchup. Iniziate sempre dagli ingredienti meno costosi. Se, come me, usa-
te un intero litro di succo di pomodoro, vi servirà un bel po' di vodka russa ghiacciata. Infine, l'ingrediente segreto: mezzo bicchiere di sherry secco. Una manciata di ghiaccio, ed ecco un drink abbastanza sostanzioso da sostituire la cena. Un quartetto d'archi del periodo intermedio di Bartók avrebbe rispecchiato il mio umore, ma ascoltai il Rigoletto. La donna è mobile. Questa donna non lo era. Ero entrata dentro me stessa ed ero inorridita davanti a quanto avevo scoperto. Fuori, era buio e freddo. Presto avrei dovuto affrontare il mondo. Ecco che cosa mi aspettava. Quando ebbi bevuto anche l'ultima piccola pozza acquosa del mio cocktail, decisi di uscire. Dovevo procedere con la massima attenzione. Faceva freddissimo. Indossai pullover, cappello e cappotto. Recuperati le chiavi e il portafogli, me li infilai in tasca. Fuori, l'aria gelida mi schiarì un po' le idee. Avevo distrutto il mio matrimonio. Avevo fatto Dio solo sapeva cosa ai miei figli. Avevo compromesso la mia salute mentale. Avevo riportato alla luce vecchi orrori. Le persone che amavo erano già abbastanza spaventate dalle mie azioni. Quale catastrofe avrei inflitto ora alla famiglia a cui tenevo più che a qualsiasi altra cosa? Il vento mi pungeva la faccia con gocce gelate. La vita era diventata orribile. Oltrepassai alcune vetrine. Un uomo dai lunghi ricci arruffati sedeva davanti al supermercato con un patetico cane rognoso di razza indefinita. Tese la mano verso di me. Ecco che cosa capitava a chi si staccava dall'universo del lavoro, della società e della famiglia. Aprii il borsellino e gli porsi una moneta, stringendola bene tra due dita perché non mi scivolasse. Mi accorsi di proiettare la mia infelicità sul mondo (sebbene alcuni dei suoi abitanti fossero già infelici di per sé), perciò non mi stupii affatto quando mi ritrovai davanti al negozio di televisori a noleggio e scorsi Alan che muoveva silenziosamente le labbra su una decina di schermi. Ecco il patriarca intento a giustificarsi con parole che non riuscivo a capire. Per un istante pensai di essere impazzita, pensai che la dimensione reale e la dimensione dei miei ricordi e dei miei incubi fossero diventate un tutt'uno e che Alan mi avesse sconfitta in maniera totale e definitiva. Poi mi tornò tutto in mente. «Oh, vaffanculo.» Mi guardai intorno, stordita ma abbastanza lucida da poter agire. Scorgendo la scritta gialla «libero», fermai un taxi. Diedi al conducente un indirizzo di Westbourne Grove. Mentre ci dirigevamo verso Swiss Cottage, Paddington e oltre, rivolsi la faccia verso le raffiche inclementi che entravano dal finestrino aperto.
«Tutto bene, tesoro?» domandò il tassista. Mi limitai ad annuire, temendo di non riuscire a parlare con coerenza. Quando bussai, Erica venne ad aprirmi. «È quasi finito» annunciò. «Qualcosa da bere?» «Acqua» risposi, seguendola su per le scale. «Hai rinunciato all'alcol?» «Tutt'altro.» Mi introdusse in una stanza buia, illuminata soltanto da un grande schermo televisivo. Le sedie erano tutte occupate da silhouette indistinte, e mi trovai uno spazio sul pavimento. Erica mi porse qualcosa che sbatacchiava. La mia acqua. Mi appoggiai il bicchiere umido sulla fronte. Avevo ipotizzato che il documentario di Paul si componesse di una serie di interviste. Non ero pronta per la versione effettiva. Quando cominciai a concentrarmi su quanto stava succedendo, inquadrarono una fotografia di Natalie, un ingrandimento sfocato di una foto di classe che non le rendeva giustizia. Qualcuno disse qualcosa sullo spirito perduto degli anni Sessanta, Jonah, credo, ma avrebbe anche potuto essere Fred. Dopo Natalie, comparve un'immagine della Fattoria, vista, supposi, da Chantry's Hill. In un primo momento pensai che fosse anche quella una fotografia, ma alcuni minuscoli dettagli (il tremolio della telecamera, le foglie che ondeggiavano appena, i riflessi della luce) dimostravano che si trattava di un filmato. L'operatore si spostò fino a stringere su Paul. Guardava verso il casale, il viso nascosto. Poi si girò e iniziò a camminare, accompagnato dalla telecamera. Le parlava come se fosse un'amica. Che professionista. Paul descrisse la famiglia come un posto in cui sentirsi a casa, e chiamò «casa» il luogo in cui, quando ci vai, devono farti entrare; definì la famiglia il simbolo dei nostri affetti, e il simbolo della società con i suoi legami e i suoi obblighi. Confusa com'ero, ebbi qualche difficoltà a prestare attenzione, ma capii che stava raccontando un episodio della sua splendida infanzia. Appena finita la storia, si arrestò. L'inquadratura si allargò, e riconoscemmo il punto in cui avevamo rinvenuto i resti di Natalie. La buca c'era ancora, e Paul aveva un'aria affranta. La telecamera indietreggiò fino ad abbracciare l'intera scena: Paul che sbirciava nella fossa con espressione meditabonda, la Fattoria, la luce del primo mattino, un uccello che cinguettava. Risuonò una musica stile Delius, e comparvero i titoli di coda. Qualcuno girò l'interruttore. «Dove ti eri cacciata?» Paul mi diede una lieve gomitata da dietro. «Scusa.»
«Sono contento che tu abbia visto la sequenza finale» osservò. «È stato un vero tour de force. Quattro minuti e mezzo senza tagli. Sono sceso a piedi dalla collina e mi sono fermato solo dopo aver terminato il racconto. Sul piano tecnico, è stata la cosa più complicata che abbia mai fatto. Quando ho urlato: "Stop", persino i cameraman hanno applaudito. Ma voglio che tu lo veda tutto. Ti farò avere un nastro.» «Grazie» dissi. «Adesso devo andare.» «Sei appena arrivata, Jane. Voglio presentarti alcune persone.» «Adesso devo andare.» Non essendomi neppure tolta il cappello o il cappotto, mi avviai subito verso le scale e uscii. Pensai che probabilmente avevo speso gli ultimi soldi per il taxi, ma non controllai. Rincasai a piedi, attraversando Regent's Park. Impiegai un'ora e mezza, e quando aprii la porta, ero ormai sobria e depressa. CAPITOLO 28 Quando mi alzai l'indomani, dopo una nottata di sogni frammentari, avevo la nausea e vertigini tali che dovetti sorreggermi al bordo del letto e respirare a fondo per diversi secondi. Nel lungo specchio lì di fronte, scorsi una figura vecchia e sconvolta con la faccia terrea e i capelli sporchi. Non mangiavo come si doveva da giorni, e avvertivo in bocca un sapore di marcio. Una settimana prima avevo baciato Caspar e sentito il mio corpo rinascere. La donna scheletrica che mi fissava in quell'istante era una persona del tutto diversa, malaticcia, che strascicava i piedi e si acquattava negli angoli bui. L'immagine della sagoma curva di Alan non voleva andarsene. Lo vedevo, lo vedevo chiaro come non mai. Non avevo più bisogno dell'aiuto di Alex. Il mostro era uscito dal suo nascondiglio, nella luce abbagliante del giorno. Non sarei riuscita a ricacciarlo dentro. Ricordavo ogni particolare. Avevo assistito a un omicidio, a un duplice omicidio, e ora vi assistevo di nuovo. Mi guardavo guardare. Tirai alcuni respiri disgustati e poco profondi, e vidi Alan che torreggiava sopra Natalie, terrorizzato e trionfante. Mi avvolsi nella vestaglia e andai in cucina, dove macinai il caffè e tostai due fette di pane. Le spalmai di burro e marmellata, sedetti al tavolo e le fissai. Dopo cinque minuti ne staccai un morso. Poi un altro. Sembravano di sabbia. Masticai e ingoiai, masticai e ingoiai. La nausea tornò ad assalirmi, e gocce di sudore mi imperlarono la fronte fredda. Corsi in bagno,
dove rigettai finché la gola e gli occhi iniziarono a bruciarmi. Riempii la vasca e mi feci un bagno. Mi lavai i denti, ma continuai ad avvertire il sapore del vomito e del panico in bocca. Mi accesi una sigaretta e mi colmai i polmoni di cenere. Cenere alla cenere. Indossai un paio di jeans neri e un dolcevita dello stesso colore. Mi pettinai i capelli all'indietro. Sedetti in cucina e bevvi caffè tiepido e salmastro, fumando un'altra sigaretta e fissando la pioggia che, fuori della finestra, faceva apparire granuloso il giardino trascurato. Erano le nove e non avevo idea di come superare il resto della giornata. Il resto della mia esistenza. Chiamai Kim al lavoro. Era impegnata con un paziente, così le lasciai un messaggio pregandola di telefonarmi. «Appena possibile. Per favore» dissi. La mia voce era un sussurro rauco. Probabilmente la segretaria aveva pensato che fossi moribonda. Un'altra sigaretta. Udii il tonfo della posta che cadeva sul pavimento dell'ingresso attraverso l'apposita fessura, ma non mi mossi. Il mio corpo era vuoto e pesante. Il telefono trillò. «Jane.» Aprii la bocca, ma non riuscii a parlare. «Jane. Sono Kim, Jane, spiegami che cosa sta succedendo.» «Oh, Dio-o-o-o!» Quel flebile lamento era uscito da me? «Jane, ascolta, sto arrivando. Non muoverti. Sarò lì tra un quarto d'ora. D'accordo? Un quarto d'ora. Andrà tutto bene.» «Non posso dirtelo. Non posso dirtelo. Oh, Dio. Non posso.» «Bevi il tè, Jane.» Obbediente, lo sorseggiai con una smorfia: era dolce e lattiginoso, roba per neonati. «Ora ti farò alcune domande, okay?» Annuii. «Riguarda Natalie?» Annuii. «Ritieni di sapere qualcosa sulla sua morte?» Annuii ancora. «Credi di conoscere l'identità dell'assassino?» Annuii. «Ci sei arrivata mediante la terapia?» «Sì.» «Ascolta, Jane, ti dispiace dirmi chi, secondo te, ha ucciso Natalie? Ma
ricorda che dirlo non lo rende più reale.» «Io... io... oh, Cristo. Oh, Gesù Cristo, Kim, non posso.» «Sì che puoi. È un membro della tua famiglia?» «Della mia famiglia allargata, sì.» «Dimmi il nome, Jane.» Non riuscii a pronunciare il suo nome. Usai una parola che pareva inadatta a lui: «Mio suocero». Mio suocero. Il miglior amico di mio padre. Il nonno dei miei figli. L'uomo che conoscevo da tutta la vita e al quale, fino a poche settimane prima, avrei dichiarato con disinvoltura di essere affezionata. Mentre lo rivelavo a Kim, riuscii a vederne l'espressione lasciva. «Deve averla ammazzata perché era incinta. Forse era stato lui a metterla incinta. Avrebbe potuto. Non è difficile immaginarlo. Un altro brivido, e una vendetta contro Martha. Oppure era stato qualcun altro a metterla incinta, e lui l'aveva scoperto. Per tutto il periodo in cui ho fatto domande su Natalie, gli filtri continuavano a ripetermi quanto fosse particolare: sexy, riservata, calcolatrice, affascinante, manipolatrice, ossessionata dal sesso. Adesso tutto quadra.» La bile mi salì di nuovo dallo stomaco, e corsi fuori dalla stanza, ma avevo soltanto il tè lattiginoso da vomitare. Quando tornai, Kim guardava fuori della finestra con la fronte aggrottata. «Jane» disse. «È un'accusa grave.» «Lo so» replicai, inghiottendo. «Quella è la tua famiglia, Jane. Sei sicura?» «L'ho visto con la stessa chiarezza con cui vedo te ora.» «Dunque stai dicendo che Alan Martello ha ucciso sua figlia, magari dopo averla anche messa incinta, e che l'ha sepolta davanti alla porta di casa?» «Sì.» «Hai informato la polizia?» «No.» «Che cosa intendi fare?» Fissai una gazza (secondo una credenza popolare, vederne una sola porta male) che saltellava sul prato fradicio. «Parlarne con qualcuno. Con Claud, probabilmente. Gli devo almeno questo.» «Lo credo anch'io. E... Jane... riflettici bene. Non fare niente per ora, riflettici e basta. Okay?»
«Jane, sono Caspar, quando possiamo vederci? Che cosa fai stasera?» «Oh, non posso, insomma, sono impegnata.» «D'accordo. Domani, magari?» «No, non posso.» «Tutto bene?» «Sì, benissimo.» «Perfetto.» La sua voce passò dalla cordialità all'offesa garbata. «Se ti va di vedermi, chiamami.» «Certo. Caspar?» «Sì?» «Niente. Ciao.» «Hai una pessima cera. Stai male?» Claud, rientrato dal lavoro con un completo grigio chiaro, era sulla soglia, il volto contratto per la preoccupazione. Sapevo di essere orribile, mi ero guardata allo specchio prima di uscire ed ero rimasta sbigottita davanti al riflesso della mia faccia tirata. Alla vista di Claud, avvertii una fitta di dolore tra gli occhi. Credetti che le ginocchia mi cedessero. «Dài, entra e accomodati.» Mi condusse al sofà. Non sarebbe stato così tenero e gentile quando glielo avrei detto. Oh, no. Ero io quella che avrebbe rovinato tutto. «Spiegami qual è il problema.» Il suo tono da medico. In un'altra occasione, la sua calma professionale mi avrebbe irritata. Ora la ammirai, e apprezzai la distanza che metteva tra noi. Trassi un profondo respiro. «È stato Alan ad assassinare Natalie.» Per quanto sia orribile dirlo, la sua espressione sarebbe stata comica in quasi ogni altra circostanza. Calò un silenzio assoluto. «L'ho visto mentre la uccideva. Avevo cercato di dimenticarlo, e adesso ho ricordato tutto.» «Di che cosa stai parlando? Come sarebbe a dire, l'hai visto?» Gli fornii un riepilogo della mia terapia con Alex Dermot-Brown. Credetti di essere sul punto di vomitare ancora. Il volto di Claud compariva e scompariva. Le sue dita mi afferrarono la spalla come artigli disperati. «Stai parlando di mio padre. Stai dicendo che mio padre ha ammazzato mia sorella. Chi era il padre del bambino, allora?» Feci spallucce.
«Scusami per un attimo.» Alzatosi, uscì dalla stanza. Udii il rumore dell'acqua corrente, poi Claud tornò, tamponandosi la faccia con un piccolo asciugamano. Si rimise gli occhiali e mi guardò. «C'è qualche motivo per cui non dovrei buttarti fuori?» «Non so che cosa fare, Claud.» «Posso offrirti un drink?» «Sì» risposi, sollevata. Versò un bicchiere di whisky per ciascuno e rimase in piedi accanto a me mentre ne tracannavo una metà abbondante. Mi ustionò la gola e si aprì un varco fino al mio stomaco vuoto, dove prese fuoco. «Tutto bene?» Annuii, bevendo ancora. Mi prese la mano, e gli permisi di raddrizzarmi le dita e accarezzarle. Mi strofinò l'anulare nudo. «Jane, non sono convinto di questa rivelazione. Hai posto fine al nostro matrimonio, i tuoi figli se ne sono andati di casa, hai trovato i resti di Natalie... Sei sicura di non essere solo un po' sottosopra?» «Credi che me lo sia inventato?» «Stai parlando di mio padre, Jane.» «Mi dispiace. Oh, Dio, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. Che cosa posso fare?» «All'improvviso corri da me per chiedermi consiglio, Jane?» Tacqui. Avvicinatosi alla finestra, fissò l'oscurità opaca per ben cinque minuti, sorseggiando il whisky di tanto in tanto. Restai immobile, cercando di non fare rumore. Finalmente tornò alla sua poltrona e sedette di fronte a me. «Non hai prove» osservò. «So quello che ho visto, Claud.» «Già» fece, scettico. «Sarò franco con te, Jane. Non credo che mio padre abbia ucciso Natalie. Ma ti aiuterò a risolvere il pasticcio in cui ti sei cacciata. Per due ragioni. I miei sentimenti per te, di cui sei a conoscenza. E il desiderio di impedire che un'altra tragedia si abbatta sulla famiglia. Cosa che prima o poi accadrà se continui ad andartene in giro lanciando simili accuse. Se riusciremo a dimostrare l'innocenza di Alan, tanto di guadagnato.» «Allora che cosa posso fare, Claud?» «Bella domanda. Nessuna prova concreta. Nessun testimone possibile, a parte te.» A quelle parole, inarcò un sopracciglio. Ci fu un'altra lunga pau-
sa. «Mi è venuta un'idea, Jane, per quanto possa valere. Sei mai stata nello studio di mio padre?» «Non da quando ero ragazzina.» «Sai che cosa c'è lassù?» «I suoi manoscritti, suppongo, i suoi appunti, le copie dei suoi libri e le sue opere di consultazione.» «E i suoi diari.» «Oh, per l'amor del Cielo, Claud, è improbabile che abbia ammazzato sua figlia e l'abbia messo nero su bianco.» «Ma sono io quello che lo crede innocente, ricordi? Se riuscissi a recuperare i diari di quell'anno, potrebbero fornirgli un alibi per il momento in cui sostieni di averlo visto, e forse ci sarebbero dei testimoni da interrogare. In caso contrario, le annotazioni precedenti potrebbero contenere almeno qualche riferimento al suo stato d'animo.» «Non mi pare granché come piano.» «No?» fece con amaro sarcasmo. «Be', allora perdonami per averti imposto il mio aiuto. Forse dovresti rivolgerti a qualcun altro, per esempio Theo o Jonah.» «Scusa, Claud, non volevo. Ti sono grata, davvero. È un'ottima idea, come possiamo attuarla?» «Quando parti per il funerale?» «Che cosa? Oh, non lo so, sabato, penso. E tu?» «Domani. Ascolta, se ne avrò la possibilità, cercherò di entrare là dentro. Altrimenti, dovrai farlo tu. Io farò tutto il possibile. Tutto il possibile.» Alzatosi, mi guardò. Ricambiai l'occhiata senza sorridere; il mio sguardo incrociò il suo e non riuscii a distoglierlo. Poi il suo viso si contrasse e Claud si accasciò sul divano accanto a me. Questa volta fui io a prendergli la mano. Portava ancora la fede all'anulare, e la ruotai piano. Le lacrime gli formarono un velo liscio sulle guance; gliele asciugai con delicatezza, tenendogli il volto tra le mani a coppa. «Mi dispiace, Claud.» Gemendo, mi si avvicinò, e non lo fermai. Come avrei potuto? Premette la faccia contro il mio collo, e lo lasciai fare. Scivolò giù, fino a posarmi il viso umido sulle ginocchia. «Jane, Jane, per favore non lasciarmi. Non ce la faccio, non ce la faccio senza di te. Niente è più come prima senza di te. Non posso superare tutto questo da solo. Mi sei sempre stata accanto. Mi hai sempre aiutato. Sempre. Quando avevo più bisogno di te, tu c'eri. Mi hai salvato. Non andarte-
ne ora. Non ora.» «Sssh.» Gli accarezzai i capelli, avvertendo il suo alito caldo contro la coscia. Sembrava un incesto. «Sssh. Su, Claud, non piangere. Non sopporto quando piangi.» Giaceva lì come un bambino troppo cresciuto, e io lo sollevai e lo cullai contro il mio seno. CAPITOLO 29 Ero tornata al punto di partenza, a bere caffè in una spessa tazza nella cucina di Alex Dermot-Brown. Alex era al telefono, impegnato a fare versi elusivi («ah» e «mmmh») e a cercare di sbarazzarsi del suo interlocutore. Di tanto in tanto mi guardava, rivolgendomi un sorriso incoraggiante. Studiai la stanza. Era il tipo di locale in cui mi sentivo a mio agio: caos, ricette attaccate alle bacheche, bollette impilate sul tavolo, giornali sparpagliati ovunque, fotografie appoggiate ai candelieri, i piatti della colazione ammucchiati nel lavello, spicchi d'aglio in una ciotola e fiori in un vaso. Sul davanzale della finestra, notai la foto di una donna dai capelli bruni e dal sorriso timido: sua moglie, ipotizzai. Mi domandai quale ruolo avesse svolto la cucina di Alex nella mia terapia. Mi sarei mai affidata a un uomo dalla cucina asettica e ordinata? Posò il ricevitore e sedette di fronte a me. «Altro caffè?» «Sì, grazie.» Mi faceva uno strano effetto essere al suo stesso livello, guardarlo dritto negli occhi. «Mi sembra che stia un po' meglio.» Quella mattina avevo indossato un vestito di lana dalla vita bassa e un buffo cappellino, quindi mi ero truccata con mascara e rossetto. «Sto un po' meglio, credo.» Avevo pianto così tante lacrime da sentirmi prosciugata. Alex si chinò sopra il tavolo. «Jane» disse con la sua voce bassa e gradevole, «ha dimostrato un enorme coraggio, e sono molto orgoglioso di lei. So che è stata dura.» «Perché non provo alcun sollievo?» sbottai. «Aveva detto che era come far scoppiare un ascesso. Allora perché sto così male? Non soltanto per loro, ma anche per me. Sto male per me.» Mi porse un Kleenex. «Far scoppiare un ascesso è doloroso e causa una serie di problemi. In
una fase molto vulnerabile della sua vita, proprio mentre stava passando dall'infanzia all'età adulta, ha assistito a qualcosa di tanto atroce che la sua mente l'ha censurato. Non può pretendere che tutto si aggiusti da un momento all'altro. La consapevolezza è dolorosa, assumere il controllo della propria esistenza è difficile, e la guarigione richiede tempo. Ma, Jane, deve rassegnarsi all'impossibilità di tornare alla condizione precedente. Non dimenticherà un'altra volta.» Rabbrividii. «Che cosa devo fare?» «Concorda di non poter fuggire da questa nuova consapevolezza?» «Sì.» «Crede di poterci convivere senza fare nulla?» «No, suppongo di no.» «Si rende conto, naturalmente, che se decidesse di non fare nulla e di convivere con questo terribile ricordo continuerebbe a esercitare il suo potere, a compiere una scelta.» «Sì, lo so.» «Chi le sta a cuore?» La domanda mi colse alla sprovvista. «Prego?» «Le ho domandato: "Chi le sta a cuore?"» «Robert e Jerome.» I loro nomi mi uscirono di bocca così in fretta da rammentarmi che i miei figli, l'orrore di fronte al quale si sarebbero trovati, erano stati per tutto il tempo il primo dei miei pensieri, seppur soffocato. «Papà. Kim. E adesso anche Hana.» «Chi altri?» «Be', Claud, in un certo senso. Ancora.» «Chi altri?» «Molte persone. Ma non allo stesso modo.» «Alan?» «No, certo che no» risposi, quasi annoiata. Ormai non sopportavo più di udire il suo nome. «Nessun altro in particolare?» «No.» «Nessuno?» «Alex, dove vuole arrivare?» «Che cosa mi dice di lei?» «Di me?»
Non capivo. «Non sta a cuore a se stessa, Jane?» «Sì, certo, so che cosa intende, ma...» «Non crede, Jane, di doverlo riconoscere apertamente come obbligo verso se stessa? Pensa ai suoi figli, a suo padre, al suo ex marito. È così impegnata a pensare al mondo esterno da non pensare alla cosa più importante di tutte.» «Ma devo pensare a tutti gli altri. Sto distruggendo il loro universo.» Si chinò ancora di più, fissandomi con intensità. «Ho già trattato casi simili al suo in passato» disse. «In tutte quelle situazioni le donne hanno dovuto essere coraggiose e determinate. Non hanno dovuto tollerare soltanto una profonda sofferenza, ma anche la semplice incredulità dei conoscenti, delle autorità. Andare fino in fondo non è un dovere solo verso se stessa, ma anche verso di loro, Jane, verso tutte le donne che sanno quanto sia doloroso reprimere i ricordi e verso tutte quelle che hanno trovato il coraggio di parlare. Non pianga.» La sua voce ridiventò dolce. Mi porse un altro fazzolettino, e mi soffiai il naso rumorosamente. «Suppongo che non mi permetterà di fumare una sigaretta.» Sorrise. «Potremmo andare in giardino.» Fuori, era umido e freddo. Il fango filtrava fra l'erba rada. I bucaneve avvizzivano nei vasi accanto alla porta. Mi infilai una sigaretta tra le labbra e strofinai un fiammifero, che si spense dopo aver prodotto qualche scintilla. Ne accesi un altro, proteggendo la fiammella con la mano. Aspirai, piena di gratitudine. «Quelle donne» dissi finalmente «che cosa hanno fatto?» «Quasi tutte» rispose «hanno ricordato di aver subito degli abusi, non di aver assistito a un'atrocità come nel suo caso. Solo ora cominciamo a capire che la mente è capace di un'amnesia autoprotettiva. Ma i ricordi nascosti non vanno perduti. Sono come i file di un computer, che si possono recuperare con i giusti comandi. Alcuni tipi di terapia riescono a riesumare quelle informazioni.» «Sì, ma che cosa hanno fatto? Dopo aver ricordato.» «Alcune non hanno fatto nulla, naturalmente, a parte allontanarsi dai loro aguzzini.» «E le altre?» «Sono uscite allo scoperto. Hanno affrontato i loro persecutori; si sono persino rivolte alla polizia. Si sono rifiutate di continuare a essere delle vit-
time.» Mi accesi un'altra sigaretta e raggiunsi l'estremità del giardino. Anziché seguirmi, Alex mi osservò andare su e giù. Alla fine, domandai: «Allora crede che dovrei affrontare Alan?» Tacque, limitandosi a guardarmi. «Oppure andare alla polizia?» Tacque di nuovo. A un tratto fui assalita da una rabbia furiosa. Avevo gli occhi fuori delle orbite. Scottavo nonostante l'aria gelida. «Non ha idea» gli urlai in faccia, «non ha idea di che cosa mi sta chiedendo di fare, non ne ha idea. È la mia famiglia quella di cui stiamo parlando. Tutta la mia vita. Non avrò più un posto in cui rifugiarmi. Sarò una reietta.» Il viso mi bruciava per le lacrime. «Come posso andare alla polizia e denunciare Alan? È stato come un padre per me. Gli volevo bene.» Mi interruppi con un gemito, e calò il silenzio. Qualche giardino più in là, udii il vagito ansimante di un neonato che piange da tempo e non ha intenzione di smettere. Mi frugai in tasca alla ricerca delle sigarette, me ne accesi una e mi tamponai goffamente la faccia imbrattata con un Kleenex fradicio. «Tenga.» Alex me ne porse un altro. «Mi scusi. Sto saccheggiando la sua scorta di fazzolettini.» «Non si preoccupi. Ne ho una montagna. Sovvenzionata dalla Comunità Europea.» Ci dirigemmo verso la casa. Sulla soglia, Alex si fermò e mi posò una mano sulla spalla. «Non le sto chiedendo di fare niente, sa. Naturalmente, deve decidere da sola. Le sto solo domandando se posso fare qualcosa.» Dentro, preparò dell'altro caffè mentre io andavo in bagno a lavarmi la faccia. Avevo un aspetto spaventoso. Rivoletti di mascara mi scorrevano sulle guance, i capelli mi spuntavano da sotto il berretto appiccicandosi alla pelle umida, gli occhi erano gonfi, e il naso era arrossato per il freddo. «Ricomponiti» ordinai alla donna nello specchio, e rimasi a guardare mentre una smorfia mesta le compariva sulla faccia sporca. Fischiettai un motivetto: You'll never get to Heaven, non andrai mai in Paradiso, una canzone che cantavamo tutti alla Fattoria. Nessun problema, era da un pezzo che non credevo più nel Paradiso. Alex aveva appoggiato una scatola di biscotti sul tavolo. Inzuppai un frollino nel caffè e mangiai con ingordigia. Quando ebbi finito, raccolse le tazze e le posò nel lavello. La conversazione era terminata.
«Grazie, Alex» dissi mentre montavo in sella. Quando raggiunsi Camden Lock, avvertii la necessità di dirgli una cosa, così tornai indietro e bussai. Aprì quasi subito, con un lievissimo fremito di sorpresa. «Andrò fino in fondo» annunciai. Non si mosse, limitandosi a scrutarmi con intensità. Quindi annuì. «Così sia» disse. Quelle parole suonarono tanto bibliche da essere sinistre. Mi allontanai senza aggiungere altro. CAPITOLO 30 Ero già pronta da mezz'ora quando il clacson strombazzò davanti a casa mia. Nevicava, bei fiocchi grandi che si adagiavano come piume su alberi, edifici e vetture parcheggiate. Nella luce tenue, Londra appariva pura e serena, e sedetti accanto alla finestra fumando e riflettendo. I furgoni arrugginiti, i bidoni della spazzatura e le bottiglie di latte vuote si erano tramutati in bianche sagome pulite. Tutti i suoni erano ovattati. Persino le grate di protezione del fabbricato sull'altro lato della via erano una griglia luccicante. Quella sera la neve si sarebbe trasformata in fango. Quella sera Martha avrebbe riposato accanto alla sua unica figlia. Ero contenta che fosse morta. Indossai il cappotto che avevo comprato prima di baciare Caspar all'Highgate Cemetery. Scelsi un cappello di feltro marrone e guanti in tinta, e uscii a salutare Claud. Aveva insistito per venire a prendermi. Con quel tempaccio. Voleva essere sicuro che andassi, aveva affermato. In un primo momento restammo in silenzio. Io fumavo, guardando Londra che lasciava spazio alla campagna. Lui armeggiava con le cassette e guidava alla velocità costante di centodieci chilometri orari lungo la M1. I tergicristalli spingevano via la neve con metodicità, formando righe compatte di sudiciume. «Allora?» domandai finalmente. «Allora cosa?» «Lo sai.» Corrugò la fronte. «Alan è rimasto rintanato nel suo studio da quando sono arrivato alla Fattoria. E quando lui non c'è, la porta è chiusa a chiave.» «Gesù» feci.
«Non preoccuparti, Jane, escogiteremo qualcosa insieme.» Assentii con un grugnito, osservando Birmingham che filava via con i suoi palazzi disarmonici e cercando di non pensare alle sigarette. Non avevo riflettuto su cosa avrei detto ad Alan. Non mi ero neppure preparata a vederlo. Frugando nella borsa, trovai un pettine e me lo passai tra i capelli prima di rimettermi il cappello. Claud mi lanciò un'occhiata di traverso. «Nervosa?» Mi resi conto che ormai era l'unico membro della famiglia Martello con cui potevo parlare in quel modo. «Hai affrontato questa faccenda nel modo giusto» commentai. Tenne gli occhi puntati sulla strada. «Lo spero» replicò. Sotto la fine coltre di neve, la tomba di Natalie appariva ancora nuova e ordinata. C'erano fiori primaverili (aconiti, bucaneve) conficcati nei fori di un vaso di pietra. Mi domandai se ora qualcuno l'avrebbe curata. Lì accanto c'era una brutta buca di argilla, spalancata. Gli ultimi fiocchi pungenti vi si depositarono dentro come saliva. Una piccola folla vestita di nero guardò i quattro figli di Martha che portavano il feretro nella sua direzione. Sotto quel fardello, possedevano una bellezza triste, figli affranti come tanti altri che trasportavano i resti dell'amata madre. Un uomo di fronte a me si tolse il cappello, e riconobbi subito Jim Weston, improbabile in un lungo soprabito scuro. L'ultima volta che l'avevo visto era accanto a un'altra tomba. A una specie di tomba. Anch'io mi tolsi il cappello. La neve mi si sciolse tra i capelli. Mi posizionai ai margini del gruppo per evitare di incontrare Alan. In seguito avrebbe voluto stringermi in un abbraccio lungo ed energico, parlandomi del suo dolore con un sussurro confidenziale all'orecchio. Quel momento poteva aspettare. Qualcuno mi diede una gomitata, e mi voltai. Era Helen Auster. «Volevo soltanto farmi vedere» disse, abbozzando un sorriso. La abbracciai brevemente mentre qualcuno intonava ancora una volta le parole familiari di un canto religioso. Udii Alan ancor prima di vederlo. Mentre la bara veniva calata nella fossa, un urlo fendette l'aria. Tutte le teste si sporsero. All'improvviso, attraverso uno spazio vuoto, la scena mi comparve davanti agli occhi. Alan, chino sul feretro, strillava al suo indirizzo. I capelli, grigi e unti, gli svolazzavano al vento; non aveva il cappotto nonostante il freddo e il suo completo nero era sporco e sbottonato. Le lacrime gli scorrevano senza so-
sta sul viso pieno di chiazze e, dopo aver sollevato il bastone, lo agitò nell'aria come un re Lear improvvisato. «Martha!» chiamò. «Martha!» I quattro figli lo circondarono; alti ed eretti, attorniarono il padre grasso e fuori di sé, stravolto dall'alcol e dalla sofferenza. Alan si coprì il volto con le mani; le lacrime gli colarono tra le dita mentre gemeva e piangeva. Noialtri restammo in silenzio. Era uno spettacolo con un solo protagonista. «Perdonami» gridò. «Mi dispiace.» Claud gli cinse le spalle con un braccio, e Alan si appoggiò a lui, singhiozzando e biascicando. Una sconosciuta accanto a me prese a piangere piano in un fazzoletto discreto. Erica, un po' più indietro con Paul e papà, si soffiò il naso rumorosamente, emettendo un unico gemito convulso. Dal canto mio, mi sentivo lucida e fredda come quella giornata. Avevo già dato il mio ultimo addio a Martha. Ora stavo per deludere la sua ultima richiesta. Prenditi cura di Alan. Gelide zolle di terra schizzarono il feretro. Martha e Natalie giacevano fianco a fianco, e Alan continuò a piangere forte. Helen mi prese a braccetto, e ci allontanammo dagli altri, lasciando il sentiero e avviandoci tra le lapidi. «Non hai una bella cera» osservò. «Non sono stata bene. Ma adesso credo di stare meglio. E tu come stai?» Sorrise. «Volevo comunicartelo di persona. Abbiamo deciso come usare una delle nostre liste. Faremo un annuncio lunedì. Chiederemo a ogni individuo di sesso maschile che fosse presente nei dintorni della Fattoria il 27 luglio, il giorno dopo la festa, il giorno in cui Natalie è stata vista per l'ultima volta, di fornirci un campione di sangue per l'impronta genetica.» «Per identificare il padre?» «Forse.» «E l'assassino?» «Di per sé, non sarebbe una prova.» «Sembra comunque un passo avanti.» «Lo pensiamo anche noi.» Procedemmo per qualche altro minuto in silenzio. Ormai il cimitero era vuoto a eccezione di noi due. Mi costrinsi a parlare: «Ma come stai tu, Helen?» «Io?» Era senza dubbio perplessa.
«Lo sai, naturalmente?» domandò. «Sì.» Si fermò e sedette sul bordo di un piedistallo che sorreggeva un'urna di pietra coperta da un telo di pietra. Alzò gli occhi verso di me, con espressione quasi supplice. «Che cosa vuoi che ti dica?» «Helen, non voglio giustificazioni da te. La mia unica preoccupazione è come stai.» «Come sto? Sono del tutto confusa. La mia vita è sottosopra.» Estrasse un Kleenex dalla tasca, lo spiegò con goffaggine a causa delle mani che le tremavano per il freddo e si soffiò il naso. «Mi sto comportando in modo poco professionale. Sto mandando a rotoli il mio matrimonio. Ti giuro che non avevo mai fatto niente di simile e credo che presto dovrò parlarne a Barry, mio marito. Per quanto possa sembrare orribile, sono anche felice ed emozionata. Ovviamente non c'è bisogno che te lo dica. Tu conosci Theo meglio di chiunque altro.» «Già.» «All'improvviso vedo le cose in maniera diversa, scorgo nuove possibilità. Ho un leggero senso di vertìgine.» «Che cosa intendi fare?» «Continuo a fare progetti. Probabilmente aspetteremo che l'inchiesta sia finita, poi lo confesserò a mio marito e mi trasferirò, e infine andremo a vivere insieme.» «È stato Theo a dirtelo?» «Sì.» Alzò ancora lo sguardo verso di me. «Sembra che tu non sia d'accordo.» «Non è questione di essere d'accordo.» Sedetti accanto a lei sul bordo del piedistallo, in una posizione molto scomoda. «Ascolta, non voglio dispensare consigli, e forse le tue previsioni per l'avvenire sono corrette. Credo soltanto che tu debba stare attenta alla famiglia Martello. Sono affascinanti e seducenti, sanno ammaliare gli altri, e temo che possano essere ingannevoli.» «Ma tu sei un membro della famiglia Martello.» «Sì, lo so, e tutti i cretesi sono bugiardi.» «Che cosa?» «Non importa. Straparlo. La prudenza non è mai troppa, o qualcosa del genere.» «Ma tu amavi Theo, vero?»
«Come fai a saperlo?» Tacque. «Riflettici bene prima di rovinarti la vita e la carriera» raccomandai. Mi guardò con un'espressione insopportabile, da bambina triste. «Pensavo che mi avresti solo fatto le congratulazioni o augurato buona fortuna.» Quindi scoppiò a piangere mentre la abbracciavo. «È così stupido e imbarazzante che non riesco neppure ad ammetterlo» singhiozzò. «Immaginavo che saremmo diventate amiche e che questa storia ci avrebbe avvicinate.» «Ascolta, ascolta» la rassicurai, tenendole il volto umido, «ci ha avvicinate.» «No, intendevo qualcosa di più. Quasi come sorelle.» La abbracciai. «Ho più bisogno di un'amica che di una sorella» le bisbigliai all'orecchio. Non mi sarei dovuta preoccupare di evitare Alan; non voleva incontrare me né nessun altro. Quando tornai al casale, era ormai sgattaiolato nel suo studio come un granchio gigantesco dal vecchio guscio crepato. «Vado a scrivere» aveva detto. La cucina e il salotto erano gremiti di ospiti. Alcuni, li riconobbi; altri, non li avevo mai visti. Credetti di intravedere il naso adunco e gli zigomi alti di Luke, ma che cosa sarebbe venuto a fare? Jim Weston mi si accostò strascicando i piedi, impacciato nell'attillato completo marrone dai baveri ampi. Avrebbe quasi potuto essere il suo abito del congedo. Afferrandomi la manica, mormorò qualcosa, ma non capii. Le conversazioni ronzavano intorno a me, suoni senza significato. Vedevo le bocche che si aprivano e si chiudevano. Le persone si asciugavano gli occhi. Ridevano. Si abbuffavano di tartine. Sollevavano delicate tazze di tè tra il pollice e l'indice. I loro corpi urtavano il mio. Avevo caldo; le gambe mi prudevano sotto i collant, avevo le mani sudate, un tic nervoso mi pulsava, invisibile, sotto l'occhio sinistro. Il dolore mi esplose nella testa. Theo era in piedi davanti a me, le sopracciglia aggrottate. Paul mi teneva per la spalla, sussurrandomi all'orecchio qualcosa su papà e sulla necessità di ripartire presto. Il vicario, un giovane con un pomo d'Adamo che si muoveva a scatti irrequieti sopra il colletto inamidato, strinse la mia mano sudaticcia con la sua mano sudaticcia e accennò al-
la pace eterna. Luke (era Luke) mi domandò se stavo bene, e qualcuno mi porse un bicchiere d'acqua. Peggy era vestita di grigio, Erica di blu scuro. Papà sedeva su una poltrona accanto alla porta della veranda, e ogni tanto un cappello si abbassava verso di lui per poi rialzarsi. Appariva vecchio, infelice e addolorato. Mi rimisi il cappotto e raggiunsi a passo spedito il retro del giardino. Fumai il resto del mio pacchetto di sigarette e rientrai solo quando vidi la gente che avviava le automobili e si allontanava. Eravamo un'insolita famiglia temporanea, senza il nostro consueto affiatamento. Paul ed Erica ripartirono per Londra quasi subito. Il mattino dopo se ne andarono Jonah e la sua famiglia, e Theo accompagnò Frances alla stazione. Rimasero Fred e una Lynn dall'aria preoccupata. E Claud, naturalmente. Che cosa ci facevamo lì? Non era necessario riordinare i resti materiali della vita di Martha. La mattina del funerale avevamo controllato i suoi cassetti e i suoi armadi. Ciascun capo di abbigliamento era stato lavato, piegato e riposto. Alcuni riempivano scatoloni con indirizzi scritti nella sua calligrafia nitida e decisa. Il suo laboratorio sembrava vuoto, ma solo perché vi regnava una rigida organizzazione. Sapevo che Martha aveva terminatoli suo ultimo libro un paio di mesi prima di morire e che aveva usato il tempo rimastole con sistematicità. Aveva gettato via i suoi appunti e molte delle sue vecchie carte. Un paio di cassetti aperti a casaccio avevano rivelato che ciascuna cartellina, ciascun classificatore era al suo posto. Quello era stato l'ultimo grande gesto di Martha. Non c'era angolo della casa in cui potessimo cogliere il suo fantasma alla sprovvista, di sorpresa. Prima di spegnersi, aveva firmato e sigillato tutto, lasciando ogni cosa come voleva lei. Quella certezza era stata l'unico particolare a strapparmi un sorriso quel giorno. I fratelli non avevano nulla da fare lì. Non avevano parlato granché (Fred non era molto più sobrio di suo padre), ma ero sicura che nessuno dei tre intendeva lasciare Alan da solo alla Fattoria. Infatti, non sarebbe mai accaduto. Il pranzo fu lugubre. Pane, formaggio, vino e un po' di conversazione dalla vivacità sinistra, a cui persino Alan partecipò di tanto in tanto. Quello non era il mondo reale. Vacillavamo lungo il confine tra due esistenze. Non avevamo rinunciato alla vecchia vita organizzata da Martha, e nessuno immaginava o parlava di come avrebbe potuto essere quella nuova.
Pensavano forse che ce ne saremmo andati lasciando Alan a gestire la casa tutto solo? Dopo che avemmo finito, Claud fu quasi costretto a usare la forza per obbligare Alan a restare al piano di sotto. «Tu, io e Jane andiamo a fare quattro passi» annunciò. Alan ci guardò, meravigliato, e io non fui meno sorpresa. «Davvero?» domandai. «Sì, è una giornata corroborante» rispose Claud, allegro. Sbirciando fuori della finestra, scorsi le nuvole sempre più basse. «Copriamoci bene» suggerì Claud. Aiutò Alan a indossare impermeabile, cappello, sciarpa e stivali e gli infilò il bastone nel pugno. Ci mettemmo due vecchi cappotti che trovammo appesi nell'ingresso (con un brivido, mi accorsi di averne preso uno di Martha) e guidammo Alan fuori con decisione. Mentre attraversavamo il prato, Claud accennò alla passeggiata che aveva fatto il giorno prima, alla sua convinzione di aver visto il nido di un gufo su un frassino accanto al vialetto, e aggiunse che magari potevamo dargli un'occhiata. All'improvviso si diede una pacca sulla fronte. «Maledizione, ho dimenticato il binocolo. Ti dispiace tornare dentro a prenderlo, Janey?» Eravamo di nuovo sposati, a quanto pareva. «Dov'è?» «Nel ripostìglio. Che ho chiuso a chiave, naturalmente.» «Perché mai?» domandò Alan. «Aspetta, ti do le mie chiavi» mi disse Claud, frugandosi in varie tasche. «No, scusa, devo averle posate da qualche parte. Papà, potresti prestarle le tue?» Alan estrasse un grosso mazzo di chiavi e le passò a Claud, che me le porse senza lasciar trapelare nulla a eccezione, forse, di un lampo d'irritazione per la propria sbadataggine. Si dice che i medici debbano essere anche attori. «Torno tra un attimo» promisi, voltandomi e attraversando il prato di corsa. Anticamera, primo piano, su per i ripidi scalini che conducevano alla grande soffitta. Le gambe mi tremavano tanto che temetti di cadere, e mi aggrappai con forza al corrimano. Provai diverse chiavi fino a trovare quella giusta, spinsi la porta ed entrai nel regno di Alan. Era solenne e, in
effetti, essendo collocato sotto il tetto, mostrava una strana somiglianza con la navata di una chiesa. La tenue luce grigia diffusa dai lucernari su ciascuna falda rischiarò il locale ancor prima che girassi l'interruttore. Ero stata lì dentro solo qualche volta in vita mia. Quella era la stanza in cui Alan scriveva e fingeva di scrivere. Se fosse stata vuota, sarebbe sembrata spaziosa. Invece, era ingombra e quasi impenetrabile. Inviti, bollette, ricevute, opuscoli, posta indesiderata, vecchi giornali, cartoline dei figli, lettere di editori e università, richieste di studenti che gli avevano dedicato la tesi di laurea, molte buste che non erano nemmeno state aperte. Controllai un francobollo a caso: 1993. Fissai i libri impilati alla rinfusa sul pavimento, i Kleenex appallottolati nell'angolo, la fila di tazze di caffè ammuffite, la bottiglia di whisky semivuota sul davanzale della finestra. La scrivania era l'unica zona sgombra del locale. La vecchia e pesante macchina da scrivere tedesca era acquattata là in mezzo come un carro armato. Lì accanto c'erano un bloc-notes e un barattolo colmo di penne e matite. Sulla mensola più in alto spiccavano decine di copie di The Town Drain in una Babele di lingue. Era sempre stato un titolo difficile da tradurre. Aprii alcuni cassetti. Quaderni con annotazioni frammentarie, cartoline inutilizzate, nastri per la macchina da scrivere, puntine da disegno, una cucitrice, batterie scariche e alcuni oggetti del tutto incomprensibili. Mi guardai intorno. Lungo una parete c'era uno schedario di metallo grigio, e lungo un'altra si snodava una fila di mobiletti bassi. I diari non si tengono in uno schedario. Aprii le antine degli armadietti. Il primo conteneva grossi scatoloni ammucchiati uno sopra l'altro. Se necessario, avrei potuto esaminarli in seguito. Il secondo ospitava cataste di cartelline malconce disposte su ripiani. Il terzo conteneva solo un voluminoso classificatore con la scritta Arthur's Bosom (titolo provvisorio). Sbirciandoci dentro, trovai soltanto qualche foglio coperto dai fitti scarabocchi di Alan. Frasi scollegate, brani di dialogo, descrizioni lasciate a metà. Quello era il grande romanzo, il tanto atteso ritorno di Alan, il capolavoro per cui saliva regolarmente lassù. Mio malgrado, provai una punta di commiserazione per lui. Che razza di vita. Il quarto mobiletto era stipato di quotidiani e periodici, probabilmente vecchie recensioni e interviste. Il successivo era quello che cercavo. Ammonticchiati sulle mensole c'erano decine di quaderni cartonati. Ne estrassi uno a caso. La copertina recava la scritta 1970. C'ero quasi. Sfogliai le pagine, tutte densamente costellate degli avvenimenti di ciascuna giornata. Esaminai un secondo volume, e poi un terzo. Erano tutti uguali. Se non al-
tro, Alan aveva continuato a praticare una forma di scrittura. Dai piani sottostanti mi giunsero alcune voci e il tintinnio della porcellana. Non stava salendo nessuno. Ben presto individuai il quaderno che cercavo. Quando lo aprii, un foglietto scivolò fuori svolazzando e atterrò ai miei piedi. Mi affrettai a scorrere il volume, ma quando raggiunsi luglio, trovai qualcosa di inatteso, i bordi di alcune pagine strappate. Dall'inizio di luglio a settembre non c'era nulla. Poi le annotazioni riprendevano come prima. Mi sentii frustrata. Con un gesto quasi automatico, mi chinai per raccogliere il biglietto. Era un pezzo di carta ingiallita; di dimensioni standard, piegato a metà. Lo aprii. Sembrava che qualcuno l'avesse staccato in tutta fretta da un bloc-notes, perché aveva il bordo superiore frastagliato. Riconobbi subito la calligrafia di Natalie, tracciata da una biro blu. Conoscevo ancora la sua scrittura quanto conoscevo la mia. Il testo diceva: Non capisco a che cosa serve evitarmi. Viviamo nella stessa casa! Sai che cosa mi hai fatto. Sai che cosa sta succedendo. Pensi di poter fare finta di niente? Pensi di poterla passare liscia? Va bene, non parlarmi. Purché tu sappia che farò quel che devo fare, anche a costo di distruggere l'intera famiglia. Dirò tutto, e poi non importa se dovrò suicidarmi. Stento ancora a crederci. Pensavo che «famiglia» fosse sinonimo di «protezione». Natalie Ora mi sentivo del tutto calma. Ripiegai il messaggio e lo infilai di nuovo nel diario. Voltandomi, vidi Alan sulla soglia. Indossava ancora l'impermeabile e gli stivali di gomma che avevano attutito i suoi passi sulla moquette delle scale. Ansimava per lo sforzo. «È più probabile che il binocolo sia di sotto.» «Non cercavo il binocolo. Dov'è Claud?» «Dabbasso. Se vuoi introdurti nel mio studio, Jane, dovresti rammentare di non accendere la luce. Dal bosco qui di fronte pareva un albero di Natale. Che cosa ci fai qui, Jane? Vedo che hai letto le mie grandi opere.» «Ti ho visto, Alan.» «Davvero?» «Ti ho visto mentre uccidevi Natalie. Ti ho visto mentre la strangolavi. L'avevo dimenticato e poi l'ho ricordato. E adesso ho le prove.» «Come sarebbe a dire che mi hai visto? Quali prove?»
Si avvicinò. Tentai di superarlo, ma mi afferrò per il polso, e il quaderno cadde sul pavimento. Urlai per il dolore mentre mi spingeva su una sedia. Lottai per alzarmi, ma tornò a spingermi, stringendomi il collo con l'altra mano, quindi con entrambe. «È questo quello che hai visto? È così che è andata?» Non riuscivo a parlare. Non riuscivo a respirare. Ero scossa dagli spasmi per la mancanza d'aria. Allora mollò la presa. Mentre ansimavo e tossivo, si chinò con lentezza per raccogliere il diario. Ben presto trovò il biglietto di Natalie, lo aprì e lo lesse. Lo infilò di nuovo tra le pagine e chiuse il quaderno prima di porgermelo. «Hai violentato e ammazzato tua figlia» dichiarai. «Ma io ti ho visto.» Cominciò a farfugliare frasi incomprensibili. Quindi si colpì ripetutamente la testa mentre un liquido denso gli scorreva sulle guance. «Sei stato tu, vero, Alan?» gridai. «Hai scopato tua figlia e l'hai assassinata?» Un sottile rivolo di sangue gli colò sul viso. Lo sfiorò con il polpastrello, sollevando il dito. «Colpevole. Colpevole, colpevole, colpevole!» Poi crollò. Si accasciò per terra e rimase seduto lì in silenzio, dimentico persino della mia presenza. Mi alzai, stringendo il diario e lo oltrepassai in punta di piedi. CAPITOLO 31 Non avevo voglia di incontrare nessuno. Sgusciai giù per le scale e attraverso la porta sul retro. Dopo essermi infilata il quaderno nella tasca interna dello spesso cappotto, mi allontanai dalla casa a grandi passi. Scelsi una delle passeggiate che conoscevo meglio, una delle più lunghe, delle più esposte e delle più familiari, che sapevo di poter affrontare senza dover prestare troppa attenzione. Attraversai i boschi e risalii le colline tra raffiche di vento così impetuose che per poco non mi scagliarono a terra, e in quella giornata fredda e inclemente la vista era tale che avrei giurato di scorgere i Beacons gallesi. Continuai a camminare, senza mai riprendere la strada del ritorno. Quando calò l'oscurità, raggiunsi un pub, telefonai alla Fattoria e avvertii Claud di non aspettarmi per cena, promettendo di spiegargli tutto più tardi. Mangiai lasagne con birra tiepida e schiumosa, seguite da un'aromatica torta al rabarbaro con crema pasticcera e caffè nero. La donna dietro il
bancone mi mostrò una cartina, e riuscii a tornare verso la Fattoria sotto i raggi della luna più piena. Quando udii lo scricchiolio dei miei stivali sul vialetto, tutte le luci erano ormai spente. Salii dritta nella mia camera e caddi in un sonno profondo, il diario sotto il cuscino. Quando scesi il mattino seguente, le nove erano passate da un pezzo. Scorsi Fred e Lynn fuori, intenti a caricare l'auto. Claud stava riparando una mensola in cucina. Quando gli domandai dov'era Alan, rispose che era andato in città con Theo. A fare la spesa, immaginava. Indicò il forno. Dentro c'era un tegame con uova, pancetta e pomodori. Li divorai con tè e succo d'arancia. Gli sarebbe dispiaciuto se avessi preso in prestito la sua automobile per la mattinata? Niente affatto. Mi domandò se avevo qualcosa da raccontargli. Non ancora, dissi. Inghiottii l'ultimo sorso di tè, presi le chiavi e mi diressi verso la vettura, approfittandone per abbracciare Fred e Lynn. Alla reception della centrale di polizia di Kirklow domandai di Helen Auster. Non c'era. «Allora posso vedere il suo sostituto?» Studiai i poster finché comparve un giovanotto tarchiato che si presentò come sergente investigativo Braswell. Gli mostrai il diario e il biglietto di Natalie e gli spiegai brevemente dove li avevo trovati. Stupito, mi condusse nell'ufficio della Divisione investigazioni criminali, un locale dal piacevole stile moderno e industriale. Il brusio delle conversazioni si interruppe quando entrai, e diverse persone mi guardarono con curiosità. Braswell mi guidò tra loro fino a una stanza degli interrogatori. Mi domandò se poteva prendere il quaderno per un attimo. Nel giro di un istante tornò con altri due uomini, il più giovane dei quali portava una sedia stampata di plastica blu, che collocò in un angolo. L'altro, senza dubbio un ufficiale di grado superiore, era un tipo snello, con la faccia rubiconda e i capelli castani opachi, appiattiti con uno sforzo palese. Si fece avanti e mi strinse la mano. «Sono il commissario Wilks. Sono a capo di questa inchiesta» annunciò. «E credo che conosca già l'agente investigativo Turnbull.» Rivolsi un cenno al poliziotto nell'angolo. Sedemmo tutti mentre Wilks continuava. «Il sergente Braswell, assistito dall'agente Turnbull, le porrà tutti i quesiti necessari. Volevo solo fare una chiacchierata preliminare, se non le dispiace. Innanzitutto, possiamo offrirle qualcosa? Tè? Caffè?» Mandò Turnbull a prendere quattro tè.
«Dov'è il sergente investigativo Auster?» domandai. «In ferie» rispose. «Nel bel mezzo di un'indagine?» «Il sergente investigativo Auster non è più assegnato al caso» spiegò. «Per sua richiesta.» «Oh.» «Ora, signora Martello, può parlarci di questo diario?» Raccontai nel dettaglio come avevo perquisito lo studio di Alan e come avevo trovato il quaderno e il messaggio. «Già» disse Wilks, sollevando il foglietto, ormai chiuso in una busta di plastica. «È sicura che questa sia la calligrafia di Natalie Martello?» «Sicurissima. Se vuole verificare, ci sono ancora molti campioni della sua scrittura nei bauli conservati al casale.» «Bene. Afferma che Alan Martello l'ha sorpresa lì dentro. Che cosa è successo?» Descrissi quella squallida scena con tutta la calma possibile, le sue mani intorno alla mia gola, il crollo, il «colpevole, colpevole, colpevole». «Signora Martello, perché ha rovistato nello studio di Alan Martello?» «Prego?» «Al primo impatto sembra strano che qualcuno sospetti il proprio suocero dell'omicidio di sua figlia. Perché crede che sia stato lui?» Trassi un profondo respiro. Quella era la parte che mi spaventava. Gli riferii tutta la storia della terapia con Alex, le guance in fiamme. Avevo immaginato che i poliziotti sorridessero e si scambiassero delle occhiate, ma il cipiglio concentrato di Wilks non venne mai meno, e il commissario mi ascoltò senza intervenire se non per pormi due o tre quesiti sulle sedute: con quanta frequenza si tenevano, dove, in che modo. Dopo che ebbi finito, calò il silenzio. Fu Wilks a romperlo. «Dunque, signora Martello, mi faccia capire bene. Sostiene di aver assistito all'omicidio?» «Sì.» «È disposta a fare una dichiarazione ufficiale in tal senso?» «Sì.» «Con la possibilità di comparire in tribunale come testimone dell'accusa?» «Sì.» «Ottimo.» Alzatosi, si mise le mani in tasca. Guardai i tre poliziotti.
«Temevo che mi avreste derisa» ammisi. «Perché dovremmo?» domandò Wilks. «Pensavo che forse non mi avreste creduta quando vi avessi detto di aver recuperato il ricordo di quel momento.» «Anche lei avrà avuto qualche dubbio in proposito.» «Che cosa intende?» Si strinse nelle spalle. «Non è venuta da noi con i suoi sospetti. Ha avviato un'indagine personale, durante la quale sembra che sia lei sia Alan Martello abbiate maneggiato prove importanti.» «Non è molto riconoscente.» «Non voglio sembrarle sgarbato, ma forse sarebbe stato meglio se si fosse rivolta subito a noi. Avrebbe anche potuto farsi male.» «Che cosa succede adesso?» «Se, come mi auguro, è disposta a collaborare, il sergente Braswell e l'agente Turnbull raccoglieranno una deposizione particolareggiata, cosa che probabilmente richiederà un paio d'ore. Devo aggiungere che ha tutto il diritto di consultare un avvocato prima di rilasciare qualsiasi dichiarazione. Se desidera, possiamo indicarle uno o due nomi.» «D'accordo. E poi che cosa farete? Chiamerete Alan per interrogarlo?» «No.» «Perché mai?» Wilks mi rivolse un sorriso dietro cui si celava una lievissima traccia di perplessità. «Perché è già qui.» «Come diavolo avete fatto ad acciuffarlo così in fretta?» «Si è presentato da solo. Ha detto di voler confessare un reato. Alan Edward Dugdale Martello è arrivato alla centrale alle 9:12, e ventìcinque minuti dopo si è dichiarato spontaneamente colpevole dell'assassinio della figlia Natalie.» «Che cosa?» «Al momento è in una cella del seminterrato, in attesa che i capi d'accusa vengano preparati.» Ero allibita. «Ha detto... Ha detto... ecco... come e perché l'ha uccisa?» «No. Non ha aggiunto altro.» «Intendete accusarlo?» «Le false confessioni sono sempre una possibilità. Alcuni maledetti cinici hanno persino incolpato la polizia di averle incoraggiate. Comunque, in
via ufficiosa» inarcò un sopracciglio, «avendo ascoltato il suo racconto e avendo visto il diario e la lettera, ora propendo per le imputazioni. Ma aspettiamo di avere la sua deposizione, d'accordo? Guy e Stuart risolveranno tutti gli eventuali problemi. A dopo.» Turnbull frugò in uno scatolone ai suoi piedi, estraendone un ingombrante registratore con due vani per i nastri. Mentre il suo collega armeggiava rumorosamente tra alcune custodie per cassette, Braswell infilò un foglio di carta carbone in uno spesso blocco di formulari. Incrociando il mio sguardo, sorrise. «Pensava che il peggio fosse passato. Non ha ancora visto i moduli che dovrà riempire.» CAPITOLO 32 Alle nove di sera del giorno in cui Alan confessò, un reporter del «Daily Mail» mi chiamò a casa. Una «fonte» aveva riferito al quotidiano che, venticinque anni dopo il fatto, Alan Martello stava per essere accusato dell'omicidio della figlia incinta perché di colpo avevo ricordato di aver visto la scena. Ero disposta a concedere un'intervista al giornale? Ero così sbalordita che dovetti sedermi prima di riuscire a parlare, ma controllai abbastanza bene la voce. Risposi che, a quanto ne sapevo, se Alan fosse stato incriminato, sarebbe accaduto a causa della sua confessione. L'uomo sembrava sicuro delle sue informazioni. Mi domandò se avevo davvero assistito all'assassinio. La mente mi si svuotò per un attimo. Dovevo mentire? Oppure sarebbe stato meglio collaborare? Ripensai alla mia ultima apparizione in pubblico, allo sfortunato tentativo di difendere il pensionato davanti alla comunità locale destinata a beneficiarne. Quel pensiero mi aiutò a prendere una decisione. Dissi al giornalista che avrebbe dovuto rivolgersi direttamente alla polizia. Poi mi venne un'idea. Aggiunsi che, poiché l'incriminazione era probabilmente dietro l'angolo, la faccenda era ormai in corso di giudizio. Parve contrariato, ma mi permise di chiudere la comunicazione. Telefonai subito ad Alex Dermot-Brown per raccontargli che cosa era successo. Immaginavo che sarebbe stato attonito e comprensivo, invece scoppiò a ridere. «Davvero?» fu il suo unico quesito. «È terribile, non trova?» replicai. Non sembrava che lo considerasse poi così terribile. Avrei dovuto pre-
vederlo, osservò, perché era quanto avevo accettato di affrontare decidendo di agire contro Alan. Chissà perché, non ero soddisfatta. Proseguì in tono allegro. «Sono contento che mi abbia chiamato, perché avevo intenzione di telefonarle io. Ha impegni per domani pomeriggio?» «Nulla di urgente. Di che cosa si tratta? Vuole che venga per un'altra seduta?» «No, voglio portarla in un posto. Passo a prenderla verso le undici e mezzo.» «Le spiace essere più chiaro?» «Le spiegherò tutto durante il tragitto. Arrivederci.» Ero tentata di richiamarlo e dirgli che ero impegnata, ma non ne avevo voglia e, in ogni caso, ero curiosa. Ci vollero un paio di pillole per farmi addormentare, perciò mi svegliai con l'emicrania. Presi qualche aspirina con il caffè nero e il succo di pompelmo. Mi feci una doccia, e non sapendo dove saremmo andati, indossai vestiti neutrali. Gonna scura e abbastanza lunga, maglione grigio, collana discreta, un filo di rossetto ed eye-liner, scarpe basse. Se avevo l'aspetto di una malata di mente, almeno sembravo un soggetto sicuro per il reinserimento nella comunità. Alle dieci e mezzo ero pronta, così cincischiai per un'ora, fumando, ascoltando musica e leggendo distrattamente un romanzo. Sarei dovuta uscire per lavorare in giardino e piantare qualche bulbo, ma temevo di non sentire i colpi alla porta. Il campanello elettrico non funzionava. Finalmente qualcuno bussò. Alex aveva una tenuta molto improbabile. Si era rasato. Aveva i capelli ben pettinati. «È elegantissimo» commentai. «Non è un appuntamento, vero?» «Alle undici e mezzo del mattino? Anche lei è elegantissima. Sbrighiamoci.» Guidava una Volvo. C'era un seggiolino per bambini sul sedile posteriore, e ogni superficie era invasa da cassette, pacchetti di patatine e custodie vuote. Spostò un po' di ciarpame dal sedile del passeggero al pavimento per farmi spazio. Una spia lampeggiante mi ordinò di allacciarmi la cintura di sicurezza, e partimmo verso sud lungo la Kentish Town Road. «Allora, dove stiamo andando?» Alex accese il l'autoradio. Una musica vivaldiana riempì l'abitacolo. Da mesi desideravo conoscere i dettagli della sua vita privata, e ora eccomi nella sua automobile, con i suoi nastri: Miles Davis e Albinoni, Blur e i
Beach Boys, tutti scritti nella sua calligrafia. Per me era inverosimile quanto trovarmi in una vettura guidata da... non so... qualcuno come Neil Young, con l'ulteriore sensazione che ci fosse qualcosa di proibito, di incestuoso. «Terrò il discorso introduttivo di un convegno» mi informò. «Ho pensato che forse sarebbe stata interessata.» «Perché io?» «Perché riguarda il recupero della memoria.» «Che cosa?» Ero esterrefatta. «Dice sul serio?» «Certo.» «Ma non capisco, ha qualcosa a che vedere con me?» Rise. «No, Jane, è un argomento che mi incuriosisce.» Guardai fuori del finestrino per il resto del viaggio. Alex entrò nel parcheggio sotterraneo del Clongowes Hotel sulla Kingsway. Salimmo in ascensore e attraversammo la hall diretti verso una sala conferenze con un cartello che diceva: «La memoria ritrovata: superstiti e detrattori». Alex registrò entrambi alla reception, e ricevetti un cartellino che recava il mio nome scritto con la penna a sfera. A quanto pareva, non mi aspettavano. Nella stanza c'erano file di banchi, come se stesse per iniziare un esame. Erano quasi tutti occupati, e Alex mi pilotò verso un posto sul fondo. «Resti qui» ordinò. «Io torno tra una ventina di minuti. Ci sono una o due persone che vorrei presentarle.» Dopo avermi fatto l'occhiolino, si avviò lungo il corridoio verso la parte anteriore del locale. Avanzò con lentezza tra abbracci, strette di mano e pacche sulle spalle, salutando quasi tutte le persone che oltrepassava. Una bellissima bruna dalla pelle olivastra camminò rumorosamente nella sua direzione e lo abbracciò, un tacco alto piegato dietro la coscia. Avvertii una punta di gelosia. Per mesi avevo avuto Alex tutto per me, e vederlo in pubblico fu una specie di shock. Fu come quando avevo visto papà in ufficio e mi ero accorta con invidia che aveva una vita al di fuori della sua relazione con me. Mi costrinsi a pensare a qualcos'altro. Sul banco c'erano una penna a sfera bianca e un piccolo bloc-notes a righe, entrambi con la scritta «Mindset». C'era una cartellina con il titolo del convegno, che conteneva una serie di documenti. Uno era una lista di delegati, circa cento. Accanto a ciascun nome compariva il titolo dell'interessato. C'erano medi-
ci, psichiatri, assistenti sociali, rappresentanti di organizzazioni di volontariato e alcune persone, tutte donne, definite semplicemente «sopravvissuti». Immaginai di essere una sopravvissuta e, se era per questo, anche una detrattrice. All'altro capo della sala c'era un tavolo con una caraffa d'acqua e quattro bicchieri, dietro il quale era collocato un leggio. Sfoggiando l'affascinante diffidenza che conoscevo già, Alex strinse la mano all'ultimo delegato e si avviò in quella direzione. Il colpetto che diede al microfono riecheggiò per tutta la stanza. «Sono le dodici e un quarto, perciò suppongo che sia meglio cominciare. Vorrei dare a tutti il benvenuto alla conferenza "Mindset" del 1995 sul recupero della memoria, e sono lieto di vedere tanti volti familiari. Questa è la vostra conferenza e, come quella dell'anno scorso, è strutturata in modo da massimizzare la partecipazione dei delegati, dunque cercherò di frenare la mia naturale eloquenza, o almeno è così che la chiamo io. So che tra il pubblico figurano molti illustri colleghi analisti.» Ci fu una lieve risata deferente. Alex tossicchiò con fare nervoso, sorseggiò un po' d'acqua da un bicchiere (mi stupii di vedere che gli tremava la mano) e proseguì. «Mi limiterò a un breve discorso introduttivo, esponendo il programma a grandi linee. Poi il dottor Kit Hennessey riassumerà alcune ricerche recenti. Quindi faremo una pausa per il pranzo, che, a quanto mi hanno detto, verrà servito qui fuori, sulla destra. Vi basterà consegnare il gettone contenuto nella vostra cartellina. Dopo mangiato, ci divideremo per una serie di seminari. Questi ultimi si terranno in varie sale, tutte su questo piano. Le informazioni, le troverete sempre nella cartellina. Credo che sia tutto. «E ora veniamo al mio breve intervento.» Aprì il sottile fascicolo che aveva portato e ne estrasse alcuni fogli. Era un Alex diverso dall'ascoltatore ironico, indulgente e incoraggiante con cui avevo trascorso tanto tempo negli ultimi mesi. Fu schietto, polemico e appassionato sin dalla sua affermazione iniziale: «La memoria ritrovata è uno dei maggiori scandali nascosti della nostra epoca». Spiegò che intere generazioni di persone, soprattutto donne, erano state costrette a nascondere i traumi subiti nella prima parte della loro esistenza. Quando ne avevano parlato, erano state denigrate, studiate, emarginate, lobotomizzate, trattate con diffidenza. Ammise con rammarico che le autorità giudiziarie (la polizia e gli avvocati) e le autorità mediche più qualificate per denunciare quell'orrore (gli analisti e gli psichiatri) erano diventate complici del suo occultamento.
«La Legge e la Scienza» asserì «sono state usate impropriamente contro queste vittime, come in passato sono state usate impropriamente contro altri gruppi ogni volta che l'autorità aveva interesse a negare i diritti delle minoranze vittimizzate. Persino la cosiddetta oggettività scientifica e il cosiddetto onere della prova sono stati utilizzati come strumenti di oppressione. Queste vittime di abusi, che hanno dimostrato il coraggio di ricordare, hanno il diritto di sentirsi dire: "Vi crediamo, stiamo dalla vostra parte".» Ora capii perché Alex mi aveva portata lì. Mi ero sentita pazza, strana e rifiutata, intrappolata nelle mie sofferenze personali. Ecco che cosa intendeva Alex quando parlava di uscire allo scoperto: la consapevolezza che non ero sola, che altri avevano vissuto la mia stessa esperienza. Con una fitta di dolore che per poco non mi fece piangere mentre sedevo in fondo alla sala scarabocchiando sulla lucida copertina del dossier, rammentai che era quello l'aspetto che avevo amato in Natalie: mi aveva infuso sicurezza provando quello che avevo provato io. Quando avevano sepolto lei avevano forse sepolto anche me? Alex aveva terminato. Chiese se c'erano domande, e parecchie mani si alzarono. Un uomo, un vicedirettore dei Servizi sociali, lo ringraziò per il discorso, ma osservò che l'unica omissione del suo intervento era la dimensione polìtica. Era necessaria una legislazione. Perché non c'era un membro del parlamento tra i delegati, o almeno un consigliere comunale? Alex fece spallucce, sorridendo. Era d'accordo, replicò. Tra le sue conoscenze c'erano alcuni politici solidali con la loro causa, ma le implicazioni dei risultati riguardanti la memoria repressa erano così esplosive, e le autorità legali e mediche conservatrici così potenti, che non erano disposti ad assumersi alcun impegno pubblico. «Dobbiamo ricorrere ad altri mezzi» aggiunse. «Ci serve qualche caso giudiziario di alto profilo per dimostrare che non si può ignorare questo fenomeno. Quando accadrà, e quando la consapevolezza pubblica sarà maggiore, sembrerà meno pericoloso. Forse i politici salteranno sul carrozzone quando quest'ultimo si metterà in moto.» Ci fu uno scroscio di applausi. Quando si spense, una donna si alzò. Era bassissima, sciatta, sulla cinquantina. Mi aspettavo una testimonianza personale sugli abusi ricordati, ma si presentò come Thelma Scott, psichiatra consulente del St Andrew's, nel centro di Londra. Alex la salutò con un cenno sardonico. «Credo che la conosciamo tutti, dottoressa Scott.»
«Ho dato un'occhiata alla sua lista degli eventi, dottor Dermot-Brown» disse lei, stringendo la cartellina della conferenza. «"Credere e incoraggiare", "Ascoltateci", "Gli ostacoli legali", "Il dilemma del medico", "Come proteggere il paziente".» Tacque. «Ebbene?» domandò Alex, con una lieve punta di esasperazione. «Questo è forse un forum per le discussioni e le indagini? Qui non vedo alcun dibattito riguardo ai problemi della diagnosi, alla possibile inaffidabilità della memoria ritrovata, alla protezione delle famiglie dalle false accuse.» «Non è necessario, dottoressa Scott» ribatté Alex. «L'intera storia di questo argomento concerne la protezione delle famiglie dalle vere accuse. Non siamo ancora incappati nel problema di dover scoraggiare le persone dal formulare accuse di abuso. Le vere vittime subiscono pressioni così forti da trovare quasi impossibile affrontare i ricordi recuperati, figuriamoci fare dichiarazioni pubbliche riguardo ai loro diritti legali.» «E noto un'altra assenza tra i delegati» aggiunse la dottoressa Scott. «Quale sarebbe?» «Qui non c'è nemmeno un neurologo. Non sarebbe interessante ascoltare un contributo sul funzionamento della memoria?» Alex trasse un sospiro spazientito. «Non conosciamo il funzionamento dello sviluppo tumorale. Questo non ci impedisce di sapere che le sigarette aumentano il rischio di cancro. Sono affascinato dalle attuali ricerche neurologiche, Thelma, e condivido la sua preoccupazione. Vorrei che avessimo un modello scientifico per i meccanismi della memoria e della sua soppressione nel cervello, ma i limiti delle conoscenze non mi impediranno di svolgere il mio lavoro di medico e di aiutare i pazienti bisognosi. Ora, ci sono altre domande?» Gli interventi si esaurirono, e dopo aver presentato il dottor Hennessey, un uomo alto e snello con una gigantesca pila di fogli sotto il braccio, Alex scivolò giù dalla pedana. Rivolgendo un cenno di saluto a una o due persone, percorse in punta di piedi il lato della sala e sedette accanto a me. Gli sorrisi. «Così non è riuscito a convincere tutti?» Fece una smorfia. «Non le badi» sussurrò. «Galileo, suppongo, venne perseguitato da gente come la dottoressa Scott, solo che quelli avevano degli strumenti di tortura a loro disposizione. Secondo un'illustre leggenda, è impossibile persuadere tutti con la sola ragione. Come ha affermato qual-
cuno, le idee scientifiche rivoluzionarie vengono accettate soltanto quando muoiono tutti gli scienziati che sostenevano l'idea vecchia. Ora svignamocela. Voglio presentarle una persona.» Mentre uscivamo alla chetichella, Alex chiamò con un cenno una donna appoggiata alla parete, e lei ci seguì fuori. L'anticamera era deserta. «Volevo che due delle mie star si conoscessero» disse Alex. «Jane, questa è Melanie Foster. Mel, questa è Jane Martello. Perché voi due non fate un salto nella stanza accanto e prendete qualcosa da mangiare prima che arrivi la massa?» Melanie indossava un impeccabile tailleur grigio che mi fece sentire trasandata. Ipotizzai che avesse cinque anni più di me, ma il suo viso aveva tante rughe sottili, come un giornale appallottolato e poi spianato. Aveva i capelli corti, grigi e ispidi, quasi come i crini della coda di un cavallo. Portava un paio di occhialetti e aveva un sorriso leggermente insicuro. Mi piacque subito. Ci guardammo, annuimmo e ci avviammo verso il cibo. Era stato allestito un buffet, e i camerieri con la giacca bianca chiacchieravano in gruppetti, aspettando la calca. Intendevo prendere solo un po' di pane e formaggio, ma Melanie mi mise nel piatto una generosa cucchiaiata di pasta piccante, e cedetti con un risolino. «Sei magrissima» commentò. «Prendi.» Mi ammucchiò dell'insalata di pomodori accanto alla pasta, poi una montagna di germogli di fagiolo, finché, con finto orrore, strillai: «Basta così! Devi farmi compagnia». Portammo i vassoi a un tavolino d'angolo, dove era improbabile che qualcuno ci disturbasse. «Suppongo di doverti domandare come hai conosciuto Alex» esordii. «Già» replicò in tono fermo, da maestrina. «Ma io devo iniziare confessandoti che so perché tu conosci Alex.» «Davvero?» domandai, esterrefatta. «Non dovrebbero essere informazioni confidenziali?» «Be', sì, certo» si affrettò ad assicurarmi. «Ma ormai il tuo caso è una faccenda di dominio pubblico, vero?» «Credo di sì, però...» «Mia cara Jane, sono qui per aiutarti e posso garantirti che avrai bisogno di sostegno.» «Perché tu, Melanie?» Aveva appena addentato il pane, e quando cercò di rispondere, il boccone le andò di traverso. Le battei sulla schiena. Ci fu una lunga pausa. «Grazie, adesso riesco a parlare di nuovo» disse. «Ho cominciato a ve-
dere Alex dieci anni fa. Ero depressa, il mio matrimonio era in crisi, non sopportavo lo stress del lavoro. Sai, Jane, lo stato normale della donna in carriera.» Annuii, sorridendo. «Ho trascorso un paio d'anni parlando della mia vita precedente e cose simili, ma sembrava che non cambiasse nulla. Un giorno Alex mi ha detto che credeva avessi subito degli abusi da parte di un parente stretto e stessi reprimendo quel ricordo. Infuriandomi, ho negato con decisione e ho pensato di interrompere l'analisi, ma qualcosa mi ha indotta a continuare. Così abbiamo proseguito, approfondendo alcuni episodi della mia infanzia, alcune zone d'ombra, ma non è successo niente. Pareva tutto inutile, finché Alex mi ha consigliato di immaginare me stessa mentre subivo degli abusi e di partire da lì.» Si fermò per bere un sorso d'acqua. «È stato come aprire una chiusa. C'erano immagini che mi tormentavano, immagini di carattere sessuale. Concentrandomi ed elaborandole, mi sono resa conto che erano ricordi di molestie sessuali da parte di mio padre. Non ti racconterò che cosa mi aveva fatto, erano cose terribili, cose perverse che non riesco nemmeno a concepire. Continuando, ne abbiamo scoperte altre. Ho capito che mia madre era stata complice di mio padre, non solo permettendo che accadesse, ma anche aiutandolo attivamente. E anche mio fratello e mia sorella erano stati violentati e maltrattati.» Parlava con una calma inquietante, come se si fosse allenata a ripetere quella storia spaventosa. Non sapevo che cosa dire. «È orribile» osservai, conscia che quelle parole erano fuori luogo. «Eri assolutamente sicura che fosse vero, che non fosse frutto della tua immaginazione?» «Ero torturata dalla preoccupazione e ho avuto bisogno di molto aiuto e di molte rassicurazioni, che ho trovato soprattutto in Alex.» «Che cosa hai fatto? Sei andata alla polizia?» «Sì, dopo un po'. Hanno interrogato mio padre, ma lui ha negato tutto, e non l'hanno mai incriminato.» «Che cosa hanno detto tuo fratello e tua sorella?» «Si sono schierati dalla parte dei miei genitori.» «Allora che cosa ne è stato della tua famiglia?» «Non li vedo mai. Come potrei avere rapporti con le persone che mi hanno rovinato la vita?» «Dio, mi dispiace così tanto. Allora che cosa hai fatto? Come ha reagito
tuo marito?» Ero atterrita, ma Melanie pareva distaccata, quasi divertita, mentre descriveva lo sfacelo della sua esistenza. «Ha faticato ad accettare la situazione, ma poi ho avuto un crollo completo per uno o due anni. Mi sono ammalata, non riuscivo a lavorare, non riuscivo a ragionare, non riuscivo a combinare niente. Me ne sono andata di casa, ho lasciato il lavoro. Ho perso quasi dieci anni della mia vita. Avevo sempre desiderato dei bambini, sai. Ho cominciato a vedere Alex quando avevo circa trentacinque anni. Ora ne ho quarantasei; non avrò mai dei figli. E già tanto se riesco a badare a me stessa.» «Dio, Melanie, ne è valsa la pena?» Il suo sorrisetto enigmatico svanì. «Se ne è valsa la pena? Mio padre mi ha sodomizzata quando avevo cinque anni. Mia madre lo sapeva ma ha fatto finta di niente. Ecco che cosa mi hanno fatto, ecco con cosa devo convivere.» Fui assalita dalla nausea, il cibo asciutto e pesante in bocca. Mi costrinsi a inghiottire. «Ti hanno mai chiesto scusa per quello che ti hanno fatto?» «Chiedermi scusa? Non hanno mai nemmeno ammesso di aver fatto qualcosa.» «Che cosa fai adesso?» Sembrava un quesito assurdo, ma non sapevo che cosa dire. «Un paio d'anni fa ho fondato un gruppo di sostegno per persone che, come me, hanno recuperato il ricordo di qualche abuso. A proposito, ecco perché Alex ha voluto che ci conoscessimo. Abbiamo organizzato un seminario per oggi pomeriggio e ci domandavamo se avevi voglia di assistere.» «Non lo so, Melanie.» «Ci saranno donne straordinarie, Jane, penso che ti piaceranno. Dacci una possibilità. Credo che potremmo aiutarti.» Consultò l'orologio. «Adesso devo scappare. Ma ci incontriamo alle due. Lungo il corridoio, sala conferenze tre. Ci sarai?» Annuii. Quella donna nodosa e infelice si alzò, issandosi la tracolla della borsa su una spalla e raccogliendo un fascio di cartelline, e si fece strada tra la folla, rivolgendo un cenno di saluto di tanto in tanto. Pareva che fosse a un ricevimento o a una riunione del Women's Institute, invece di lì a poco avrebbe presieduto un seminario per persone affette da disturbi psichici.
Avevo bisogno di una sigaretta e di un caffè. Mi misi in coda, ma quando raggiunsi le pile di tazze e cominciai a versarlo, la mano mi tremava con tanta violenza che il liquido finì ovunque fuorché nel recipiente. «Dia qui, lasci fare a me» disse una donna lì accanto, riempiendo due tazze. Mi guidò quindi verso il tavolo libero più vicino e sedette con me. La riconobbi. Dopo che l'ebbi ringraziata, mi tese la mano. «Salve, sono Thelma Scott.» «Sì, lo so. Ho seguito il suo intervento al dibattito di prima.» «E io so chi è lei» replicò, asciutta. «Lei è Jane Martello, l'esemplare più recente e interessante di Alex Dermot-Brown.» «Sembra che qui tutti mi conoscano già.» «Lei è un bene prezioso, signora Martello.» Era troppo. «Dottoressa Scott, le sono grata per il suo aiuto, ma non so proprio che cosa ci faccio qui, e di sicuro non voglio essere coinvolta in una controversia.» «Ormai è un po' tardi, non trova? Tra poco suo suocero finirà in carcere per il resto dei suoi giorni, ed è stata lei a mandarcelo.» «Ha confessato il crimine, dottoressa Scott. Si dichiarerà colpevole.» «Sì, lo so» disse con palese disinteresse. «Che idea si è fatta di Melanie Foster?» «Penso che il suo sia un caso davvero tragico.» «Sì, concordo.» Finii il caffè. «Devo andare» annunciai, apprestandomi ad alzarmi. «Al seminario di Melanie?» «Sì.» «Per ricevere un po' di rassicurazioni fraterne? Per sentirsi dire che ha fatto la cosa giusta?» «Non è quello che voglio.» Inarcò un sopracciglio divertito. «Davvero? Magnifico» osservò, facendo per aprire il portafogli. «Pago io» mi offrii. «Non c'è niente da pagare» ribatté. «Il caffè è offerto da "Mindset''. Volevo darle questo.» Sfilò un biglietto da visita, scrisse qualcosa sul retro e me lo allungò. «Questo è il mio biglietto. Dietro, ho indicato il mio indirizzo e il mio numero di casa. Se dovesse avere voglia di parlarmi, mi chiami. A qualsiasi ora. E posso garantirle la riservatezza, che è più di quanto garantiscano
tante altre persone in questo settore.» Lo presi con riluttanza. «Dottoressa Scott, non penso proprio che abbiamo qualcosa di cui parlare.» «Bene, allora non mi telefoni. Ma lo metta nel portafogli. Forza, voglio vederla mentre lo fa.» «Okay, okay» cedetti, sotto il suo sguardo acuto. «Eccolo qui, infilato sotto la mia carta servizi.» Prima che riuscissi ad alzarmi, si piegò sul tavolo e mi prese la mano. «Lo conservi. La nostra conversazione non finisce qui, Jane» aggiunse con un'insistenza che mi meravigliò. «Abbia cura di sé.» «Lo faccio sempre» la rimbeccai, allontanandomi senza voltarmi. La sala conferenze tre era molto più piccola di quella in cui ci eravamo riuniti prima. Conteneva dieci sedie disposte in cerchio e quando entrai erano perlopiù occupate, tutte da donne. Mi guardarono con curiosità mentre mi sedevo. Dovevo presentarmi? Sarebbe stato maleducato leggere una rivista prima che il seminario iniziasse? Aprii la mia cartellina come se dovessi fare dei preparativi urgenti. Notai che altra gente arrivò e si accomodò, poi Melanie mi salutò e alzai lo sguardo. Le sedie erano esaurite, e due persone, tra cui Alex Dermot-Brown, erano rimaste in piedi, così qualcuno ne portò delle altre, e arretrammo tutti con uno scricchiolio per far loro posto. «Buon pomeriggio» esordì Melanie quando tutti si furono seduti. «Benvenuti al seminario "Ascoltateci". Cercherò di rispettare lo spirito del titolo e di parlare il meno possibile. Come tutti sapete, questa non è una normale riunione del nostro gruppo. Abbiamo un paio di osservatori e un'ospite. Non voglio che questo sia un incontro formale e lo presiederò solo nell'accezione più vaga del termine. Propongo di cominciare presentandoci e spiegando che cosa ci facciamo qui. Procederemo in senso orario, a partire da me. Sono Melanie, e ho ricordato di aver subito degli abusi da parte di mio padre e mia madre.» Iniziarono le presentazioni, un repertorio di sofferenze che faticai a sopportare. «Sono Christine e sono qui perché ho ricordato di aver subito degli abusi da parte del mio patrigno.» «Mi chiamo Joan e sono qui perché ho ricordato di essere stata violentata da mio padre e dai miei zii.» «Mi chiamo Suzanne e sono qui perché ho ricordato di aver subito degli
abusi da parte di mio padre.» «Salve, sono Alex Dermot-Brown e sono un medico che desidera ascoltare le vittime di abusi per aiutarle ad aiutarsi.» «Mi chiamo anch'io Christine.» Un sorriso mesto. «Ho ricordato di essere stata violentata dai miei fratelli maggiori.» «Mi chiamo Sylvia e ho ricordato di essere stata stuprata dal mio patrigno e da un altro uomo quando ero bambina.» «Mi chiamo Lucy e ho ricordato di aver subito degli abusi da parte di mio padre e mia madre.» «Mi chiamo Petra Simmons e sono un avvocato.» Scoppiò in una risata nervosa. «Sono qui per vedere che cosa posso fare. E per imparare qualcosa, spero.» «Mi chiamo Carla e ho ricordato di essere stata maltrattata. Ma non so da chi. Ero così piccola.» Toccava a me. Avevo le guance in fiamme. «Mi chiamo Jane» dissi. «Ascoltate, non sono pronta per tutto questo. Non ne sapevo niente. Pensavo che sarei stata una semplice osservatrice, tanto per vedere com'era.» «Non preoccuparti, Jane» intervenne Sylvia, una bella donna robusta di mezza età. «La prima cosa da imparare è trovare le parole per descrivere quello che ci è capitato. Siamo così abituate alla diffidenza e allo scherno. Ecco perché avevamo rimosso i nostri traumi.» «Scusate.» Era la donna alla mia sinistra. «Posso presentarmi prima che iniziamo la discussione?» «Sì, certo» rispose Melanie. «Fa' pure.» «Ciao, mi chiamo Sally» affermò. «Ho ricordato di aver subito degli abusi da parte di mio padre e di un amico di famiglia. Tutto qui. Desolata di averti interrotta, Sylvia.» Ci fu un attimo di imbarazzo, perché, in realtà, Sylvia aveva finito. Fui io a rompere il silenzio. «Mi dispiace, è soltanto che non sono ancora pronta. Siete tutte donne molto coraggiose, e l'idea di quello che dovete aver passato è intollerabile, ma per me è tutto troppo recente.» «Non devi dispiacerti per noi» mi rassicurò Carla, una giovane dai magnifici capelli tinti con l'henné che indossava un lungo vestito a motivi vistosi. Assomigliava alla zingara di un sogno. «La cosa terribile è non riuscire a parlarne. Quello che abbiamo fatto all'interno di questo gruppo è stato liberarci a vicenda. Jane, non so granché della tua situazione, ma im-
magino che ora proverai scetticismo verso i ricordi recuperati e rimorso per i loro effetti. Le vittime di abusi subiscono nuovi abusi ogni volta che tentano di descrivere quanto è capitato loro. Chiunque metta in dubbio la testimonianza di una vittima commette un abuso a sua volta. Lo scopo del nostro gruppo è sostenerci e incoraggiarci. Ti crediamo, Jane, e ci fidiamo di te.» «Grazie, sono certa che questo gruppo è molto utile sul piano emotivo.» Una lieve risata si diffuse lungo il cerchio, e i presentì si scambiarono delle occhiate. Melanie picchiettò con la penna sulla cartellina, chiedendo silenzio. Poi prese la parola: «Non si tratta solo di emozioni. È anche una questione politica. Se ti unirai a noi, e speriamo vivamente che tu lo faccia, scoprirai che esistono reti di abusi, che ci sono aguzzini in posizioni di autorità. Ecco contro cosa lottiamo». «Stai scherzando» protestai. «Qual è stata la tua esperienza, Jane? Hai trovato un assassino e uno stupratore che era sfuggito alla giustìzia per ventìcinque anni. Che cosa è accaduto? La tua testimonianza verrà utilizzata? Le tue rivelazioni verranno messe agli atti?» «Ho rilasciato una deposizione. Ma lui ha confessato» ammisi. «Si dichiarerà colpevole.» «Comodo» commentò Melanie. «Ascolta, la gente non sopporta di ammettere che gli abusi sono comuni, che non vengono commessi soltanto dal folle malvagio, bensì dall'uomo della porta accanto, dall'uomo della stanza accanto. È troppo atroce da concepire. Così noi, le vittime, non dobbiamo ricordare, e veniamo condannate per aver ricordato. Adesso ci stiamo facendo sentire. Presto anche altre donne si faranno sentire, e la protezione sistematica di questi colpevoli verrà denunciata. La polizia e la tua famiglia hanno cercato di costringerti a negare la tua realtà, di alienarti da te stessa. Siamo qui per aiutarti.» Dopo il seminario, Alex avrebbe voluto presentarmi altre persone, ma gli dissi che volevo andarmene. Aggiunsi che avrei preso un taxi, ma insistette per accompagnarmi e accertarsi che stessi bene. Tacqui per diversi minuti mentre avanzavamo con lentezza nel primo traffico dell'ora di punta. «Che impressione le ha fatto il gruppo di Melanie?» «Non so che cosa dire. Trovo difficile essere razionale di fronte a tanta sofferenza.»
«Le interesserebbe farne parte?» «Dio, non lo so, Alex. Una volta ho dovuto gestire una bancarella per la vendita di beneficenza durante la festa della scuola frequentata dai miei figli. Quell'esperienza mi ha dissuasa dal fare parte di qualsiasi cosa. Non tollero le folle.» Seguì un altro lungo silenzio. Avevo due domande spinose da porgli. «Alex» ripresi finalmente, «lei è uno specialista dei ricordi recuperati, ed è saltato fuori che io avevo un ricordo in attesa di essere recuperato. Non è bizzarro?» «No, Jane, non lo è. Non rammenta il nostro primo incontro? Non pensavo di poter fare qualcosa per lei. Ha accennato a un buco nero da qualche parte della sua splendida infanzia. Mi ha incuriosito. Ho cercato un ricordo nascosto perché ero già sicuro che ci fosse.» «Non avrebbe potuto sbagliarsi?» «L'ha trovato, giusto?» «Sì, l'ho trovato. Vorrei esserne più felice.» «Non dimentichi che cosa le ha detto Melanie. È naturale sentirsi in colpa per un ricordo recuperato. La vita sembrava più semplice prima, vero? Ma non è stata lei a uccidere Natalie.» «Alex, non ha parlato di me a un giornalista, vero?» Con sorprendente rapidità, girò l'auto e la arrestò all'improvviso accanto al cordone del marciapiede. Un automobilista strombazzò e urlò qualcosa. «Jane, sono il suo medico. È un'accusa tremenda.» «Non era proprio un segreto al convegno.» «Quelle persone sono una comunità di vittime, Jane. Loro possono aiutare lei, lei può aiutare loro. È una donna forte e intelligente, una sopravvissuta. Ha l'opportunità di fare del bene.» «Sta succedendo tutto troppo in fretta, Alex. Non posso cominciare a prendere impegni verso gli altri. Ho difficoltà a prendermi cura di me stessa.» «È più forte di quanto creda. Se volesse, potrebbe essere la paladina di una grande causa. Potrebbe prendere in considerazione l'idea di scrivere della sua esperienza, anche solo come forma di terapia. Non dica nulla, si limiti a tenerlo presente. Se avesse bisogno di aiuto, potremmo farlo insieme.» Scossi la testa. Ero esausta. «Chauffeur, a casa.»
CAPITOLO 33 Tra tutti i personaggi di quel macabro spettacolo, Claud era senza dubbio il protagonista. Per mesi (anzi, per anni) si era aggirato dietro le quinte della mia vita prima che cercassi di cacciarlo dal palcoscenico una volta per tutte. Adesso era difficile per me immaginare la mia esistenza senza di lui, anche se stavo molto attenta a non frequentarlo troppo e a non appoggiarmi a lui quando lo vedevo. Kim non smetteva di mettermi in guardia. «Sii gentile» mi consigliava, «ma rifletti su cosa significa la gentilezza in questa situazione.» C'erano giornate in cui lo rivolevo e non riuscivo a capire perché l'avevo lasciato. In quelle giornate cucinavo, facevo giardinaggio, bevevo gin e tentavo di ignorare il panico irrequieto e spasmodico alla bocca dello stomaco. Naturalmente, avevo avvertito Claud in anticipo riguardo ad Alan, ma non sono certa che questo avesse attenuato il raccapriccio o alleviato il dolore. Nei quattro mesi successivi reagì calandosi nel ruolo del figlio maggiore, del capofamiglia. Lo osservai con ammirazione confusa mentre trattava con la stampa, scriveva lettere, classificava i beni di Martha. Pareva che avesse smesso di dormire e si preoccupava senza sosta di semplificare l'esistenza altrui. Sembrava più giovane: le profonde rughe che, scendendogli dalla bocca, avevano conferito al suo viso l'aria triste della mezza età, erano scomparse; gli occhi erano più luminosi. Mentre, in un modo o nell'altro, tutti quelli che lo circondavano andavano a pezzi, lui pareva aver trovato una nuova coesione, pareva essere più calmo di quanto fosse da parecchio tempo. Era pieno di determinazione; temevo che rischiasse un esaurimento nervoso. Non mi attribuì mai alcuna colpa. Avevo l'impressione che osservasse ogni mio gesto e ogni mia sillaba, sempre attento a non dire nulla che mi ferisse. Le sue premure erano esasperanti e mi rammentarono i nostri primi appuntamenti: il modo in cui mi teneva sempre la porta aperta, arrivava con un mazzo di fiori, non interrompeva mai le mie frasi, non mancava mai di farmi i complimenti per com'ero vestita. Cercava di non contraddirmi, e quando mi contraddiceva, lo faceva in una maniera cauta e rispettosa che mi imbestialiva. Gli era occorso molto tempo (a parecchia distanza dal matrimonio, quando ormai avevamo due figli, un mutuo e un'intera rete di amicizie in comune) per abbassare la guardia o darmi per scontata.
Non credo che l'avesse mai fatto del tutto. Aveva sempre avuto troppa paura di allontanarmi o perdermi. Forse mi aveva persa perché non si era mai abbandonato completamente a me. Mi aveva offerto la sua forza e la sua adorazione, ma non i suoi timori e i suoi difetti. Ci aveva provato con troppa ostinazione. Ora, in quella rinnovata sollecitudine, mi teneva debitamente informata di ogni cosa: come stavano Theo, Jonah e Alfred, come si erano comportati le loro mogli e i loro figli riguardo all'intera faccenda, persino che cosa dicevano di me, benché fosse evasivo su questo punto. Avevo la sensazione che omettesse tutto il rancore. «E Alan?» gli domandai durante una delle sue prime visite. «Si rifiuta di parlare» rispose. «Con chicchessia. Nemmeno una parola.» Il pensiero di Alan che si chiudeva nel silenzio era terrificante (da quando lo conoscevo, non era mai riuscito a tacere). Immaginai la sua mente, simile a un grosso pesce, che si agitava appena sotto la superficie tranquilla. Man mano che la possibilità del processo diventava più concreta, mi sentivo sempre più indifesa e vulnerabile. Un giorno mi fotografarono a mia insaputa mentre andavo a fare la spesa e pubblicarono l'immagine su molti giornali: «La donna del ricordo». C'erano limitazioni giuridiche a quanto potevano rivelare sulla mia persona, ma questo non impedì ai corrispondenti medici di scrivere della memoria recuperata sui quotidiani né ai reporter di discutere delle presunte conseguenze, delle famiglie e delle pressioni cui viene sottoposto uno scrittore famoso quando invecchia. Avevo sollevato un polverone e non sapevo come placarlo. Cercarono con tenacia di convincere Alan ad accettare un avvocato, ma lui rifiutò qualsiasi tipo di assistenza legale. Ripeteva che si sarebbe dichiarato colpevole e che non avrebbe permesso a nessuno di difenderlo. Alcuni temevano che quello fosse un trucco perverso e che all'improvviso si sarebbe proclamato innocente all'ultimo minuto. Così, in due piccoli uffici poco distanti da Fleet Street, subii due interrogatori durante i quali un giovanotto e una donna in abiti formali mi posero domande molto precise, concentrandosi soprattutto sui mezzi con cui avevo trovato i diari e sui dettagli riguardanti le mie sedute con Alex Dermot-Brown. Quasi ogni mia frase provocava sussurri ed espressioni serie. «C'è qualche problema?» domandai. «L'ammissibilità» rispose il giovanotto, «ma quello è un problema nostro, non suo.»
Claud si comportava come se la semplice forza di volontà bastasse ad «aggiustare tutto» («si aggiusterà tutto» era un ritornello rassicurante nella sua meccanicità). Era l'unico a vedere ancora tutti i suoi fratelli, a parlare con Jerome e Robert, a giocare a squash con Paul, ad alimentare la menzogna secondo cui la splendida entità costituita dai Crane e dai Martello esisteva ancora. Andò a trovare papà diverse volte, e credo che siano riusciti a comunicare come non avevano mai fatto quando stavamo ancora insieme. Fece persino visita a Peggy, con cui non era mai andato d'accordo, e rispose ai suoi quesiti. «Il fatto che lei e Paul abbiano divorziato non significa che dobbiamo escluderla. Dopotutto conosce Alan molto meglio di Erica.» Mi domandavo che cosa facesse quando rientrava nel suo appartamentino ordinato, come superasse i momenti in cui non aveva incombenze da sbrigare. Mi domandavo se avesse qualcuno con cui parlare di sé. Lo immaginavo mentre si cucinava una costoletta ai ferri e si versava un bicchiere di vino rosso, consumando la sua modesta cena davanti al telegiornale delle nove. Probabilmente gironzolava poi per il monolocale raddrizzando i cuscini, tirando le tende e accertandosi che la porta fosse chiusa a chiave, che i vestiti fossero pronti per l'indomani e che la sveglia fosse impostata sulla radio. Quindi supponevo che si sdraiasse al centro del letto in attesa del sonno, ed ero sicura che allora rivedeva di continuo le immagini del recente orrore e le accettava con rassegnazione. Nonostante tutta la sua pignoleria, la sua prudenza, la sua natura abitudinaria e la sua attenzione per i dettagli, Claud è un uomo coraggioso, anzi stoico, direi. Una sera lo invitai a mangiare da me. Da quando ci eravamo separati, era la prima volta che cucinavo per lui, a eccezione della cena a base di funghi. Scelsi il menu con cura: non doveva essere troppo speciale, come se avessimo un appuntamento, ma non doveva essere del tutto informale, come se fossimo ancora marito e moglie. Alla fine optai per un semplice pollo con insalata e pane all'aglio, seguito da un paio di buoni formaggi e frutta. Quarantacinque minuti prima dell'ora concordata tagliai a striscioline due grossi peperoni rossi e preparai un soffritto con l'aglio. Quando si fossero raffreddati, avrei aggiunto un po' di aceto balsamico e un barattolo di pomodori scolati. Infilzai il pollo con il rosmarino e lo infornai; quindi lavai la lattuga e la versai in un'insalatiera con avocado, cetrioli e finocchio. Mi domandai per un istante se togliermi gli abiti dell'ufficio, ma alla fine rimasi com'ero, anche se mi misi il mascara sulle ciglia e mi tamponai un po' d'acqua di rose dietro le orecchie. Vedere Claud che mangia è una soddisfazione. Procede con metodicità,
raccogliendo un po' di tutto con la forchetta, masticando bene e inghiottendo con un sorso di corposo Chardonnay. Guardandolo, provo la medesima sensazione che provavo da piccola quando osservavo papà mentre si radeva la mattina. Io e Claud saremmo mai tornati insieme? mi domandai mentre contemplavo i suoi polsi esili, le sue lunghe dita agili e la sua aria di serena concentrazione. Quella sera non sembrava poi così improbabile, nonostante il senso di sconfitta che provai appena quell'idea mi balenò nella mente. Quando ebbe finito, posò con cura forchetta e coltello, si asciugò la bocca pulita con l'angolo del tovagliolo e mi sorrise. «Chi è Caspar?» La domanda mi colse alla sprovvista. «Un amico.» «Solo un amico?» «Non ho voglia di discuterne.» «Almeno dimmi se è una cosa seria.» «Non c'è nessuna "cosa". Non vedo Caspar da settimane, d'accordo?» «Non fare la permalosa con me, Janey.» «Non chiamarmi Janey.» Si tagliò due tasselli di formaggio e prese un paio di cracker dal barattolo. «Non credi che abbia il diritto di saperlo?» «No, non credo.» Era meglio così. La mia sensazione sull'inevitabilità del nostro matrimonio andava dileguandosi; ora desiderai che la serata terminasse. Volevo bere una tazza di tè a letto, leggendo un thriller. Claud mise un po' di formaggio di capra su un cracker e se lo infilò in bocca. Masticò a lungo. «Il fatto è che mi sento ancora sposato con te» spiegò con molta calma. «Ho ancora l'impressione che tu sia mia moglie, che io sia tuo marito.» «Ecco, tu...» «Fammi finire.» Non parve accorgersi che quello non era il momento, che le eventuali possibilità della serata erano sfumate. «Lo avverto con maggior forza da quando papà ha confessato. Abbiamo passato un periodo terribile, il periodo peggiore che si possa attraversare, e ci siamo aiutati a vicenda. Io ti ho aiutata, vero?» Annuii, muta. «Non voglio mentirti: uno dei motivi per cui ho superato questo... questo orrore... è la speranza che potesse riavvicinarci. Oh, ascolta, ormai siamo due persone di mezza età, Jane; dovremmo essere gentili l'uno con l'altra anziché allontanarci. Siamo
fatti per stare insieme, noi e i ragazzi.» Mi irrigidii quando li menzionò... Quello era giocare sporco, usarli. Non notò il mio distacco. «Dovremmo essere una famiglia. Non lo credi anche tu?» Ma non ebbi l'opportunità di rispondere. Si alzò, girò intorno al tavolo e mi prese il volto tra le mani; non sembrava emozionato o furibondo, solo molto determinato, come se ritenesse di essere riuscito a risolvere tutto il resto e fosse convinto che ora avrebbe sistemato anche quella faccenda. Era troppo vicino, sfocato, e sentii l'odore del vino e dell'aglio nel suo alito. Lo spinsi via. «No, per favore, Claud. Non funzionerà.» Tremavo. «È colpa mia; è vero che di recente ci siamo riavvicinati e siamo stati disponibili l'uno con l'altra. E poi ti ho invitato qui, e naturalmente hai pensato...» «Basta. Non aggiungere altro.» Due chiazze febbrili gli erano comparse sul volto pallido. Afferrò il soprabito. «Nemmeno una parola. Non ora. Riflettici, d'accordo? Non volevo affrettare le cose in questo modo. Non volevo allarmarti.» Come se fossi un animale timido che aveva bisogno di essere persuaso con le moine. Restò per un attimo sulla soglia. «Ciao.» Esitò. «Tesoro.» Non avevo provato alcun desiderio, pensai, mentre sparecchiavo e avvolgevo i formaggi nella carta cerata. Neanche un po'. Invece, mi ero sentita pervadere da una sorta di panico cupo: non potevo tornare alla mia vecchia vita come se avessi attraversato una semplice crisi esistenziale e poi avessi ritrovato l'equilibrio. Claud ci aveva definiti due persone di mezza età, e naturalmente era vero. Ma non ero dello stesso parere. «Scusa per il ritardo.» Caspar scivolò sulla sedia di fronte a me senza toccarmi. «Sono appena arrivata anch'io.» Ostentavamo entrambi una cauta cortesia. Quando gli porsi la lista dei vini, la prese con attenzione, cosicché le nostre dita non si sfiorassero. «Ho ordinato un Pinot Nero» dissi. «Ottimo» osservò. «Prendiamo anche qualcosa da bere?» Alzò lo sguardo e incrociò il mio. «Non ti sarai mica lasciata sfuggire il mio umorismo irresistibile?» Scossi la testa con aria di disapprovazione. «Questo ne sarebbe un esempio?» «Be', è un po' arrugginito.» Il vino arrivò, e lo sorseggiammo in silenzio. Accendendomi una sigaret-
ta, mi accorsi che le mani mi tremavano leggermente. L'espressione di Caspar si rabbuiò appena. «Preferisci che ti domandi con rancore perché mi hai scaricato di punto in bianco senza alcuna spiegazione e poi mi hai richiamato all'improvviso?» «Puoi domandarmelo. Non voglio che tu nutra del rancore.» «Come stai, Jane?» Nelle settimane in cui ero stata alla larga da Caspar avevo dimenticato la qualità del suo interessamento. Quando mi guardava, avevo l'impressione che mi guardasse davvero; il suo sguardo era una specie di esame minuzioso. Quando mi domandava come stavo, avevo la certezza che non era una domanda retorica, che voleva saperlo veramente. Trassi un profondo respiro. «Non in piena forma, immagino. Sai...» Annuì. «L'attenzione della stampa si è attenuata?» «Sì, un po'. Ma il processo deve ancora arrivare, perciò le cose peggioreranno di nuovo, suppongo.» «E dovrai deporre?» «Probabilmente no. A meno che Alan non cambi ancora idea di colpo e si dichiari innocente. Allora dipenderà tutto da me.» «Ti va di parlarmene?» Aveva formulato il quesito nel modo corretto. Se mi avesse domandato: «Vuoi parlarmene?», avrei pensato che si stesse offrendo di aiutarmi e con molta probabilità l'avrei escluso. Sta di fatto che scoprii di avere una gran voglia di spiegargli quanto avevo passato. Dopotutto non l'avevo ancora spiegato neppure a me stessa. Avevo bisogno di quella conversazione. «Mi dispiace non averti chiamato» mi scusai d'impulso. Sorrise. «Sono contento che ti dispiaccia, ma non importa» replicò. Studiò il menu. «Prendiamo qualche salsa e qualche oliva. Ho saltato il pranzo.» Gli raccontai tutto. La mia infanzia, la nostra amicizia con i Martello (glissai su Theo) e la scomparsa di Natalie. Gli dissi che avevo sposato Claud da giovane e che il mio lungo matrimonio si era eroso impercettibilmente nel corso degli anni, come un castello di sabbia che si appiattisce fino a ritrasformarsi nella superficie increspata della spiaggia. Aggiunsi che alla fine avevo piantato Claud, e poi che avevo trovato i resti di Natalie. Caspar era un buon ascoltatore. Quando mi interruppi per accendermi una sigaretta, ordinò un'altra bottiglia di vino.
Dissi che mi ero resa conto di essere profondamente infelice e di aver iniziato la terapia con Alex Dermot-Brown dopo qualche falsa partenza (confessai il mio primo tentativo fallito con l'analisi, ma omisi l'avventura con William). «Che cosa ti aspettavi dalla terapia?» volle sapere. «Un po' di controllo sulla mia vita, immagino. Avevo la sensazione di essermi cacciata in un pasticcio e non sapevo come uscirne. In seguito è diventata più che altro una ricerca della verità sul mio passato.» «Niente male come ricerca» commentò con dolcezza. Cercai di descrivergli la terapia, ma fu più complicato; le illuminazioni che avevo avuto sul lettino mi scivolarono via, come palline di mercurio sotto la pressione di un dito. «Mi ha aiutata a tramutare la mia vita in un racconto coerente» proseguii come una sciocca, ripetendo a pappagallo quello che mi aveva detto Alex una volta. «Ho sempre pensato» riprese Caspar «che il grande fascino della psicoanalisi consistesse nel consentirci di narrare la storia della nostra esistenza.» Non capii se era una critica o un complimento. Probabilmente nessuno dei due. «Adesso è difficile parlarne; strano a dirsi, è difficile ricordarlo in ordine cronologico» ammisi. «E più che altro una sorta di spazio in cui ho esplorato me stessa. Ma non so se continuerò. Non so a che cosa servirebbe. Inoltre» ormai l'enoteca si stava riempiendo, e dovetti alzare la voce per sovrastare il brusio e il tintinnio di una giornata che volgeva al termine, «inoltre, è piuttosto spaventoso. Insomma, prima non avevo mai riflettuto su quanto dolore la gente possa portarsi dietro pur tirando avanti. Non sono ancora certa che rivangare i ricordi e riaprire le ferite sia sempre giusto. Talvolta bisognerebbe lasciare sepolto l'orrore.» Rabbrividii. «Non nel mio caso, naturalmente. Ma credo che alcune cose non vadano spiegate. E qualche volta i danni dovrebbero restare chiusi in contenitori sigillati, come le scorie radioattive. Questa è un'eresia per i terapisti, ovviamente. A eccezione di quelli scettici come Alex.» «Sono lieto che anche tu sia scettica» osservò. «E sono lieto che tu non abbia usato l'espressione conferimento di potere.» Risi. Passai quindi al seminario cui avevo assistito, e Caspar non commentò. «Ecco qui, questo ci riporta al presente. E ora conosci la mia vita circa cento volte meglio di quanto io conosca la tua.» A un tratto mi sentii imba-
razzata e abbagliata, come se avessero acceso le luci del cinema. «Arriverà anche il mio turno» ribatté, facendo segno al cameriere. «Può portarmi il conto, per favore?» Si infilò i guanti. «Adesso devo tornare a casa da Fanny» annunciò. «A proposito, parla spesso di te.» Uscimmo insieme. «Starai bene?» domandò. «Sì» risposi, perché pensavo che probabilmente sarebbe stato così. «E mi chiamerai?» «Sì, ti chiamerò. Questa volta ti chiamerò davvero.» «Arrivederci, allora.» «Arrivederci, Caspar. Grazie.» Per un attimo credetti che mi avrebbe accarezzata, ma non lo fece, e ne fui contenta. CAPITOLO 34 Una sera, tornando dal lavoro, Claud passò a consegnarmi la scatola che aveva portato dalla Fattoria. Indugiò un po' sulla soglia. Non lo disse, ma intuii che voleva essere invitato a bere un drink, a cenare o a vivere di nuovo con me. Mi mostrai ostile su tutta la linea. Non era la serata adatta. Volevo esaminare il contenitore da sola. Claud mi spiegò come andavano le cose alla Fattoria ora che Jonah si stava sbarazzando di tutto e si apprestava a vendere il casale. Lo ascoltai, ma non gli feci alcuna domanda e risposi a malapena. Dopo qualche minuto la conversazione rallentò, e io non mi ero spostata dalla porta semiaperta. Claud parve mortificato e osservò che avrebbe fatto meglio ad andare, al che lo ringraziai per essere passato, e lui parve ancor più mortificato e borbottò qualcosa. Quando non gli chiesi di ripeterlo, si allontanò con aria di autocommiserazione. I fratelli vivevano alla Fattoria, naturalmente, ma io e Paul ci andavamo solamente di tanto in tanto, perciò avevamo le nostre scatole. Martha e Alan ce le avevano regalate quando eravamo ancora piccoli. Erano casse da imballaggio con tanto di coperchio ed erano destinate a contenere i nostri averi alla Fattoria, gli oggetti che mettevamo da parte alla fine dell'estate, e venivano riposte in soffitta. Quando fossimo tornati dal mondo al termine del luglio successivo saremmo innanzitutto corsi a recuperarle e a estrarre le cose che erano diventate più piccole perché noi eravamo diventati più grandi. La presenza della scatola era inopportuna, quasi oscena. Apparteneva alla Fattoria, al mio passato, e ora il mio ex marito l'aveva scaricata sulla mia soglia. Quando tentai di sollevarla, rimpiansi quasi di non aver invitato
Claud a entrare. Le mie braccia erano troppo corte per circondare una cassa da imballaggio, perciò dovetti trascinarla attraverso l'ingresso, producendo un suono simile a quello di un'unghia contro il vetro e lasciando una polverosa linea bianca che, temevo, non sarebbe più sparita. La trasportai fino alla cucina, parcheggiandola accanto al tavolo. Ci sarebbe voluto un po' di tempo. Dovevo essere pronta, così mi preparai un Gin tonic, estrassi un pacchetto nuovo di Marlboro dal cartone del duty-free che Duncan era stato tanto gentile da comprarmi la settimana precedente, mi accesi la prima sigaretta e aprii la scatola. Non assomigliava per niente a quelle che conservo ancora in soffitta. Non c'erano i certificati, le vecchie pagelle, le tessere universitarie, le foto scolastiche, i compiti in classe, i fasci di vecchie lettere legate con il nastro. Quella non era una vita. Erano i frammenti dei pezzetti tra un estremo e l'altro della mia vita. Ci trovai alcuni libri, Il cavallino bianco, Anna dai capelli rossi, Orgoglio e pregiudizio, Piccole donne, Kim e qualche vecchio «Look and Learn» che avrei voluto leggere subito ma misi da parte per un'altra sera. C'erano alcuni oggetti del tutto inutili: batterie, vecchie penne, orecchini spaiati, tubetti di colla rinsecchita, stick di rossetto senza rossetto. Perché non li avevo buttati nella spazzatura? Un sacco di cianfrusaglie. Una scatolina a forma di cuore piena di ovatta. Che cosa aveva contenuto? Pettini. Un pesante sasso dipinto, che decisi di adoperare come fermacarte. Un buffo piattino di terracotta con l'immagine di una scimmia. L'avevo dimenticato. Magari avrei potuto utilizzarlo per le graffette. Qualche vecchia cassetta. Gettai direttamente nell'immondizia un paio di guide tascabili della Grecia e dell'Italia. Avevo comprato quella della Grecia e non avevo mai avuto occasione di partire per quella vacanza. Sul fondo c'era uno strato di quaderni usati. Tutti noi, ma soprattutto io e Natalie, scrivevamo in continuazione, specialmente in quelle parentesi estive che di solito si dimenticano con il passare degli anni, i periodi in cui pioveva un giorno dopo l'altro e gironzolavamo per la casa riecheggiante. Diedi una rapida scorsa ai taccuini, alle vecchie storie e ai disegni sbiaditi, alle partite di battaglia navale, alle lettere e agli scarabocchi. E ai diari che avevo tenuto quasi ogni anno. Mi venne un'idea, e rovistai finché trovai un anonimo quaderno rosso intitolato: «J. Crane. Diario. 1969». Lo sfogliai finché raggiunsi l'ultima pagina scritta a biro. Fu inutile, naturalmente. Non c'erano annotazioni relative al giorno dopo la festa, e nemmeno al giorno della festa. La vita era diventata troppo grande, troppo ricca di emozioni, per parlarne in un diario. Che cosa avevo fatto e provato in quegli
ultimi splendidi giorni? Tornai indietro di un paio di pagine e lessi: 24 luglio Theo Theodosius! Natalie è davvero noiosa e si rifiuta di parlarmi, Paul non smette di piagnucolare (non so che cosa gli sia preso), Fred e Jonah sono veramente infantili, Claud sta impazzendo per organizzare il party, ha una brutta cera e dice di non sapere dove andrà la tenda, chi la monterà né di chi sia stata l'idea di costruire il barbecue (da cui dipende ogni cosa) poco prima che inizi la festa, e poi continua a domandare se qualcuno è in grado di contattare Alan e Martha in caso di emergenza, e sembra malato. Luke vaga qua e là con aria abbattuta, e nemmeno mamma e papà sono in forma smagliante. Nonostante tutto questo caos, e tutti gli esaurimenti nervosi altrui, mi sento bene come mai in vita mia. Sta cominciando tutto, ed è magnifico. Mentre scrivo, è notte fonda (Natalie dorme; questa sera aveva un aspetto davvero terribile, ma se non sarà gentile con me, non mi preoccuperò per lei). Illumino il foglio con una torcia e sono così emozionata che fatico a tenere la penna diritta. Claud ci ha comandati a bacchetta per tutto il giorno, chiedendoci di andare a fare la spesa a Westbury, di riordinare la casa, di decidere dove avrebbe dormito ciascun ospite, e non ho visto Theo. Poi, dopo cena, quando ha iniziato a fare buio, i nostri sguardi si sono incrociati, e ci siamo incontrati fuori, dove ci siamo presi per mano senza nemmeno parlare e abbiamo attraversato il prato e il bosco quasi fino a Cree's Top. Ci siamo seduti vicini, baciandoci e accarezzandoci. Theo mi ha slacciato alcuni vestiti e ha toccato il mio corpo attraverso la stoffa, e io ho toccato il suo con mani tremanti, sperando che non si accorgesse del tremore o che non gliene importasse. Sento ancora un formicolio dappertutto, e se chiudo gli occhi, ricordo con precisione dove mi ha accarezzata, ogni punto, ogni centimetro. Ci siamo detti che ci amiamo. Siamo rimasti distesi abbracciati, e mi è venuta voglia di piangere, ma mi sono trattenuta. Poi siamo tornati molto lentamente, sotto l'ultima falce di luna, la scheggia più piccola che sì possa immaginare. Quindi ci siamo baciati con molta intensità e ci siamo augurati la buona notte, poi ho salito le scale in punta di piedi, ho scritto questa pagina, e so che non riuscirò a chiudere
occhio. 25 luglio Avevo quasi indovinato. Sono rimasta sdraiata per ore, mi sono addormentata, mi sono svegliata alle quattro e mezzo con il canto degli uccelli e ho fantasticato per tutto il giorno. Beati Alan e Martha, che parteciperanno alla festa senza doverla organizzare. Sono tutti abbattuti come ieri. Con l'aggiunta del signor Weston, che è arrivato con il tendone, i mattoni e le altre cose per il barbecue ed era di pessimo umore. Claud gli ha spiegato che cosa fare, e poi si sono innervositi entrambi. Non ho potuto fare a meno di ridacchiare (Natalie è distrutta, naturalmente). Prima Claud ordina di preparare il barbecue, poi all'improvviso occorre montare la tenda, poi, alla fine della giornata, il barbecue non è neppure stato iniziato, e Claud dice che domattina presto andrà benissimo, il signor Weston esce dai gangheri eccetera eccetera. Molte urla. Domani si terrà il party, e ci sarà una grande confusione con gente ovunque, circa dieci milioni di persone, gli ospiti alloggiati in posti diversi, e cominceremo la giornata sbrigando commissioni in ogni angolo dello Shropshire per ordine di Sua Altezza Claud di Martello. Ma questi sono tutti dettagli barbosi. Io e Theodore ne abbiamo parlato di nascosto e non intendiamo affatto andare alla festa (!!!). Mentre Claud servirà gli hot dog cotti sul nouveau barbecue, noi due sgattaioleremo nei boschi, e mi concederò completamente a lui. Non sto più nella pelle, sono così felice e così spaventata. Quando finii, non stavo proprio piangendo, non so che cosa mi fosse capitato, ma avevo le guance umide. Non mi sentivo debole o qualcosa di simile. Lanciai un lento grido di cinque minuti, mi sentii meglio, mi lavai la faccia e telefonai a Caspar. Quando rispose, a un tratto non sapevo più perché l'avessi chiamato e gli chiesi se potevamo bere qualcosa insieme, al che rispose: «Sì, quando?» «Subito» dissi, ma lui obiettò che aveva una bambina addormentata al piano di sopra, così mi offrii di andare da lui con una bottiglia di vino e promisi di essere educata, di comportarmi bene e di non fare scenate, perché non volevo consigli né compassione. Allora mi ordinò di smetterla di fare promesse. D'accordo. Lo raggiunsi.
«Sei un uomo paziente» dissi a Caspar dopo che ebbi sistemato la bicicletta in corridoio e posato la bottiglia sul tavolo della cucina. «Sono paziente con te» replicò. «Ma non farci l'abitudine.» «Sono stata una seccatura, lo so. Mi dispiace tanto.» «Probabilmente sono attratto dalle donne in crisi. Sarà interessante vedere se sopporterò una Jane Martello felice.» «Felice?» ripetei. «Non esageriamo.» Gli raccontai la mia serata e gli descrissi, in termini un po' vaghi e generici, la lettura del vecchio diario. «Stai ancora cercando qualcosa, Jane?» «No, certo che no, mi sto buttando tutto alle spalle, ma suppongo di aver sperato di trovare qualche conferma strabiliante. Sembra ancora così strano. Voglio qualcos'altro, voglio che qualcuno mi dica che va tutto bene.» Ci fu un lungo silenzio che, al contrario di quanto avevo quasi sperato, Caspar non riempì di rassicurazioni. Si limitò a rivolgermi un sorriso enigmatico e a giocherellare con il bicchiere, quindi bevve un sorso di vino. «Eppure» osservò «hai scartato la possibilità di entrare in quel gruppo di sostegno. Erano lì per aiutarti. Perché hai rifiutato?» Ridendo, estrassi le sigarette dalla tasca, ma le rimisi via appena mi venne in mente Fanny al piano di sopra. «Per vari motivi, credo. Tra cui una cosa che hai detto tu.» «Io?» domandò, alzando le mani con aria di finta preoccupazione. «Quando abbiamo parlato quella volta prima che venissi all'assemblea per il pensionato... Hai accennato a uno studio secondo cui, dopo che le persone si sono assunte pubblicamente un impegno, le prove capaci di smentire la loro posizione non fanno altro che convincerle di più. Erano queste le conclusioni, vero?» «Sì.» «Voglio essere rassicurata, ma voglio anche avere ragione.» «Allora non posso rassicurarti.» «Non ne sono certa.» Posammo entrambi il bicchiere sul tavolo, e non so chi abbia fatto la prima mossa, ma ci ritrovammo l'uno contro l'altra, ad accarezzarci e a baciarci con intensità. Gli sbottonai la camicia, staccai la mia bocca dalla sua e gli feci scorrere le labbra tra la soffice peluria del petto. Mi sfilò il maglione e mi liberò del reggiseno senza nemmeno sganciarlo. «Aspetta» ansimai. «Fammi togliere gli stivali.» Erano allacciati come corsetti vittoriani. Scosse la testa, poi sentii le sue dita sulle ginocchia, e quindi sulle gambe. Niente collant, grazie a Dio.
Raggiunse lo slip, lo afferrò con entrambe le mani e lo abbassò oltre gli stivali, gettandolo lontano. Caddi all'indietro sul sofà, la gonna sopra la vita, e lui fu dentro di me. Più tardi andammo in camera da letto, ci sbarazzammo degli indumenti aggrovigliati e attorcigliati, ci esplorammo a vicenda con molta meticolosità e facemmo di nuovo l'amore, al che, quasi per la prima volta, maturai la convinzione di poter diventare davvero brava in fatto di sesso. Restammo sdraiati insieme per ore, chiacchierando, finché, verso le cinque, Caspar bisbigliò qualcosa riguardo a Fanny, così lo baciai con passione, mi alzai, mi rivestii, quindi lo baciai di nuovo con passione e me ne andai. Pedalando nel buio del primo mattino, pensai con dolce disprezzo a tutti coloro che stavano dormendo. CAPITOLO 35 Il giorno prima del processo, un paio di fotografi si erano appostati davanti alla mia porta e mi avevano sorpresa quando ero uscita a comprare un cartone di latte. Mi ero messa la mano sulla faccia, immaginando, mentre lo facevo, come quel gesto sarebbe stato descritto sui giornali dell'indomani. Avevo previsto le didascalie: «Il volto nascosto dell'accusatrice», «La nuora ingrata». Non andai in tribunale. Sapevo che, se fosse stato necessario, mi avrebbero convocata. La mattina in cui tutto iniziò e finì mi avviai verso l'ufficio molto presto (prima delle sette) per evitare ulteriori assalti della stampa, ma un giornalista riuscì a bloccarmi. «Va all'udienza?» mi urlò. Lo oltrepassai spingendo la bicicletta, senza fiatare. Sulla via del ritorno vidi questo titolo all'edicola in caratteri cubitali: «ROMANZIERE: "HO UCCISO MIA. FIGLIA"». Frenai di colpo e acquistai una copia dello «Standard». Una vecchia e bella fotografia di Alan campeggiava in prima pagina. La fronte mi si imperlò di sudore, ed eruppi in brevi respiri convulsi. Pedalai fino a casa, dove armeggiai con la serratura antiscasso. Qualcuno aveva infilato un pacchetto nella cassetta della posta, e riconobbi la calligrafia: era quella di Paul. Doveva essere il suo video. Proprio quello di cui avevo bisogno. Le stanze erano gelide, così accesi il riscaldamento prima del solito e mi incamminai verso la cucina. Misi il bollitore sul fuoco e tostai due fette di pane. La spia della segreteria telefonica lampeggiava, ma non ascoltai i
messaggi. Ero certa che li avevano lasciati i reporter ansiosi di conoscere i miei commenti. Il giornale, ancora piegato nella mia borsa, era come una calamita, ma in un primo momento resistetti. Spalmai sul pane tostato la marmellata amara regalatami da Martha l'anno prima e versai l'acqua bollente su una bustina di tè. Sedetti al tavolo con il cappotto e bevvi un sorso di quel liquido leggero. I miei occhi passarono in rassegna il testo alla ricerca dei particolari salienti. Alan si era dichiarato colpevole, rifiutandosi di chiedere una riduzione della pena. Il pubblico ministero aveva fatto una concisa dichiarazione probatoria, basata perlopiù sul biglietto di Natalie, sulle circostanze del suo ritrovamento e sui miei ricordi. Alla luce della valutazione psichiatrica, aveva concluso, l'accusa non aveva motivo di dubitare che Alan Martello fosse sano di mente. L'articolo non accennava al fatto che avesse messo incinta Natalie. Chissà come mai. Prima che il giudice emanasse il verdetto, Alan aveva fatto un'unica affermazione: «Sto espiando un crimine orribile che tormenta la mia famiglia da decenni». Si era astenuto sia dal fornire ulteriori spiegazioni sia dall'aggiungere qualcos'altro. Il giudice aveva descritto l'assassinio di una figlia da parte del padre come uno dei delitti più efferati e antichi, osservando che il rifiuto di Alan a riconoscere appieno il suo gesto e ad agevolare i procedimenti aveva soltanto peggiorato la situazione. L'aveva condannato all'ergastolo raccomandando che scontasse almeno quindici anni. C'era una grande fotografia dei fratelli Martello, cupi, tutti presenti al processo. Avevano preferito evitare qualsiasi commento alla stampa, e lo «Standard» li definiva «dignitosi, quasi eroici». A quanto pareva, Claud aveva sostenuto Fred mentre quest'ultimo piangeva. C'erano un'immagine più piccola di me con la mano sulla faccia e un ritratto scontornato di Natalie che non avevo mai visto. Sembrava avere meno di sedici anni e possedeva una bellezza classica. Nulla di sinistro o minaccioso in quel volto. Il titolo, «LA VITA EFFIMERA E LA MORTE BRUTALE DI NATALIE», introduceva un articolo di due pagine. Sotto una foto leggermente sfocata dei sette Martello uniti e sorridenti compariva un breve pezzo che esordiva con le parole: «Pareva una famiglia così felice». C'era anche un aggiornamento sull'inchiesta della polizia; il mio nome mi saltò all'occhio fin dal primo capoverso, ma non lessi quel servizio, non ci riuscii. Quando il telefono squillò, mi paralizzai, chiudendo le mani a coppa intorno al tè che si raffreddava. «Jane, sono Kim. Coraggio, alza il ricevitore.»
«Kim.» Credo di non essere mai stata così contenta di udire una voce. «Kim, grazie a Dio sei tu.» «Ascolta, possiamo parlare dopo. Ho prenotato una stanza in un alberghetto di Bishop's Castle, sui Welsh Borders. Ti porto via per il week-end. Ce la fai a prepararti per le cinque e mezzo? Passo a prenderti.» Non protestai. «Che cosa farei senza di te, Kim? Sì che ce la faccio.» «Bene. Porta gli scarponi e tanti vestiti pesanti. Ciao.» Corsi di sopra e gettai pullover, calzettoni e T-shirt con le maniche lunghe in un capiente borsone, recuperai gli scarponi, ancora incrostati del fango di un anno prima, e trovai la mantella impermeabile arrotolata in fondo all'armadio. Le cinque meno un quarto. Fumando una sigaretta, accesi il piccolo televisore ai piedi del letto. Il viso di Alan tornò a fissarmi, tutto barba e occhi feroci, prima che la telecamera inquadrasse il volto serio di un reporter giovanissimo. «Pronunciando la sentenza, il giudice ha descritto l'omicidio di una figlia da parte del padre come uno dei crimini più atroci e contro natura che si possano immaginare...» Mi piegai in avanti, in preda al panico, e spinsi la cassetta di Paul nel videoregistratore. Il giornalista scomparve di colpo. La Fattoria si materializzò sullo schermo tra una voluta di fumo mentre scorrevano i titoli di testa. La realizzazione di quel documentario sulla famiglia mi era parsa così sporadica e arbitraria che, pur avendo visto l'ultima sequenza, mi ero aspettata qualcosa di simile alle riprese di una vacanza effettuate con la videocamera portatile. Non era affatto così. Paul iniziò leggendo un estratto di A Shropshire Lad: Qui nel mio cuore un'aria che uccide soffia remota da un paese lontano: Quali case, che guglie sono queste, quali colline azzurre del ricordo? La telecamera si spostò piano sul paesaggio dello Shropshire intorno alla casa, scheletrico nella sua tenuta invernale ma pur sempre magnifico. Il sole brillava tra i rami spogli, e la vecchia costruzione di pietra rosata appariva accogliente. Quelle erano la dimora della mia infanzia e la patria della mia innocenza perduta. Rimasi lì, ipnotizzata, mentre la sigaretta mi bruciava le dita, e guardai Paul durante la sua intima conversazione con la telecamera. Il ricordo, diceva, è impalpabile, e i ricordi dell'infanzia, che ardono con tanta vividez-
za durante tutta la nostra vita adulta, sono seducenti e nostalgici. E se l'infanzia è felice, la vita adulta assomiglia a un esilio da quella gioia. Non si può tornare indietro. Altra musica, e l'operatore zoomò sulla porta della Fattoria. Ne uscì Alan. La cenere cadde sul piumino, e la spazzai via con noncuranza. Mio suocero citò qualche verso di Wordsworth, cianciando dell'amore. Con tutta la millanteria del vecchio Alan, raccontò di essere stato un giovane turbolento che aveva disprezzato il concetto di famiglia e vi si era ribellato. Aveva tuttavia imparato che quello (indicò la Fattoria) era il posto in cui poteva essere se stesso. Definì la famiglia il luogo in cui si poteva essere più tormentati, o più sereni. «Io ho trovato una sorta di pace» affermò. In piedi sulla soglia, mi sembrava un patriarca saggio e prodotto in serie che avrei potuto acquistare in un negozio di souvenir. Rabbrividii osservando le sue grosse mani che gesticolavano. Martha, esile come un fuscello, uscì dal casale con una cesta voluminosa e alcune cesoie, rivolse un sorriso indecifrabile all'obbiettivo e sparì. La telecamera si spostò di lato, soffermandosi sul punto in cui avevamo rinvenuto i resti di Natalie. Paul espose i fatti. Seguì una serie di fermo-immagine di Natalie: neonata, bambina, a dieci anni, adolescente; da sola, con i famigliari. Infine, la sua lapide. Claud comparve sullo schermo, e adesso che ero il suo pubblico, notai quanto fosse bello, quanto fosse serio. Rimasi seduta, tesa come una molla, aspettando che accennasse a me e alla fine del nostro matrimonio, ma si limitò ad asserire che «alcune cose non erano andate come aveva sperato». Fui sconvolta dal fremito di amore e compassione che mi attraversò. Stacco su Robert e Jerome intenti a giocare a frisbee sull'Hampstead Heath. Così giovani e spensierati. Poi Jerome, che scherniva con bonarietà l'ossessione del passato tipica della generazione precedente. Fred, a casa con la sua famiglia sulla veranda ben tenuta. Di nuovo Alan, impegnato a bere brandy e a blaterare dell'importanza del perdono. Theo, che paragonava la famiglia a un programma per computer. Io, quella ero io, in cucina, con il volto arrossato. Oh, Dio, Natale... Ma il Natale che guardai mentre attendevo Kim era una giornata di allegria festosa: le risate esplosero nel televisore, io sorridevo di continuo e distribuivo il vino (avevo sorriso di continuo quella sera? Non ricordavo). Erica e Kim, vestite di viola e giallo, sembravano due bizzarri uccelli del Paradiso. Papà era il simbolo di un'onorevole vecchiaia, e i miei figli quello di una fresca giovinezza. Il potere del montaggio: combinare le immagini in modo che un trauma collettivo si tramuti in uno sfoggio di unità ebbra.
Fumai l'ultima sigaretta del pacchetto. Pur essendo nauseata dal messaggio del documentario, mandato in mille pezzi dalla confessione di Alan, fui quasi sedotta dalla sua melanconica insistenza sul passato come luogo di gioia e innocenza, l'Eden perduto di tutti noi. La musica, il verde invernale dello Shropshire, i volti che andavano e venivano sullo schermo, familiari quanto il palmo della mia mano, il modo in cui Paul aveva indotto, chissà come, anche gli intervistati più riluttanti a parlare con una sorta di concentrazione interiore, quasi scoprissero per la prima volta delle verità riguardo a se stessi... Quegli elementi mi colmarono di profondo dolore. Ormai il filmato volgeva al termine. Paul camminava lungo il Col, le mani in tasca. L'acqua marrone era gonfia per via delle piogge recenti. Si fermò e si voltò verso la telecamera, tendendo le mani in un gesto di offerta. Oh, Dio, un'altra poesia: Questa è la terra della gioia perduta, chiaro come la luce ora m'appare, le felici contrade che percorsi alle quali non posso ritornare. Ero confusa. Quel documentario sosteneva che potevi tornare a casa o che non potevi? Ma Paul aveva ripreso a blaterare. «La famiglia» continuò. «Alan Martello l'ha definita un luogo di tormento e serenità. Jane Martello, mia sorella, sostiene che è la sede in cui diamo il meglio e il peggio di noi stessi.» Oh, Cristo. «Erica, mia moglie, la considera un rifugio e una prigione. Possiamo sempre tornarci, ma per quanto ci allontaniamo, non riusciamo mai a sfuggirle.» In quale petardo natalizio aveva trovato il bigliettino con quella frase? Paul sorrise con la saggezza dei secoli e avanzò, fino alla sequenza conclusiva che avevo già visto, il cerchio che si richiudeva con l'inquadratura del casale e del punto in cui avevamo rinvenuto i resti. Spensi il televisore, riproponendomi di venderla. O magari un drogato si sarebbe introdotto in casa mia e avrebbe rubato la videocassetta mentre ero via con Kim. Erano quasi le cinque e mezzo. Chiusi la fibbia del borsone, poi, d'impulso, la aprii di nuovo e ci gettai dentro il diario della mia infanzia. Composi velocemente il numero di Paul, ma mi rispose la segreteria. Dopo il bip, dissi: «Paul, sono io, Jane. Ho appena visto il documentario. È molto interessante. Sul serio, malgrado tutto è fedele al suo punto di vista. Vado via per il week-end con Kim, ma ti telefono appena rientro. Complimenti». Stavo per posare il ricevitore, ma mi venne un'idea. «Ah, Paul...
Puoi dirmi su quale lato del ruscello camminavi alla fine?» Mentre riagganciavo, udii il clacson di Kim. Mi infilai una giacca di pelle, raccolsi la borsa e uscii sotto le intemperie. Il River Arms era una piccola locanda bianca con travi basse e un enorme fuoco aperto nel bar. Avevamo una doppia con bagno. Kim osservò che, quando ci fossimo svegliate il mattino dopo, saremmo riuscite a vedere il fiume e le montagne dalla finestra. Adesso era buio e umido. Sedetti sul letto, troppo stanca per muovermi. «Sono le nove» disse Kim. «Perché non fai un bagno e non ci vediamo al bar tra mezz'ora? Qui cucinano piatti deliziosi, ma aspetteremo domani per quello. Stasera limitiamoci a uno spuntino davanti al fuoco.» «D'accordo.» Sbadigliai, alzandomi. «Come facevi a conoscere questo posto?» Ridacchiò. «Il mio passato romantico. A volte torna utile.» Mi immersi nell'acqua calda, aprendo tutti i gel e le schiume da bagno. Dopo essermi lavata i capelli, indossai un paio di pantacollant e una pesante camicia di cotone sformata. Di sotto, Kim aveva ordinato due Gin tonic grandi ed era riuscita ad accaparrarsi un posto accanto alle fiamme scoppiettanti. Levò il bicchiere, facendolo tintinnare contro il mio. «A tempi migliori» brindò. Gli occhi mi si colmarono di lacrime, e bevvi un lungo sorso del liquido freddo e trasparente. «Ho ordinato anche da mangiare» aggiunse Kim. «Sandwich freddi con roast beef e una bottiglia di vino rosso. Okay?» Annuii; quel giorno ero contenta che qualcuno prendesse le decisioni al mio posto. «Domani possiamo fare una lunga passeggiata, da qualche parte su in montagna, tra aria fina e paesaggi mozzafiato. Se non piove. Ho le mappe dell'Istituto cartografico nella borsa; possiamo consultarle a colazione.» Per un po' sorseggiammo i drink senza parlare. Non sono molte le persone con cui si può stare in silenzio senza imbarazzo. Poi Kim domandò: «È stato peggio di quanto ti aspettassi?» «Non lo so. Non so che cosa mi aspettavo. Comunque, è stata molto dura.» Arrivarono i sandwich: fettine di manzo poco cotto accompagnate da cren, una bottiglia di Shiraz abbastanza corposo e amabile da stordirmi e infondermi una sorta di pace. «Perché tu e Andreas vi siete lasciati? Sembravate così felici insieme.»
«Lo eravamo. Credevo che lo fossimo.» Sollevò il pane e spalmò con cura un sottile strato di salsa sulla carne. «Un attimo prima parlava di dove avremmo trascorso le vacanze estive e del tipo di casa in cui avremmo vissuto insieme, e un attimo dopo mi ha detto che lui e la sua ex avevano deciso di riprovarci. Mi dispiace, grazie, non ti dimenticherò mai, sei meravigliosa, e stronzate simili.» Versò a entrambe dell'altro vino. «Sono troppo vecchia. Non posso avere bambini. Sono il passato, non il futuro.» Levò di nuovo il bicchiere. «A chi invecchia male.» Mi chinai per abbracciarla. «È pazzo. Non ha capito quanto era fortunato.» Abbozzò un sorriso storto. «La vita non va mai come previsto, vero? Quando frequentavamo l'università insieme, se mi avessi domandato che cosa volevo dalla vita, avrei risposto che volevo tutto: una relazione solida e duratura, dei bambini, tanti bambini, una carriera, degli amici. Ho gli amici e ho la carriera, anche se ormai quest'ultima non conta più molto. Potrei svolgere il mio lavoro a occhi chiusi. Ma mi pare di non essere molto brava nelle relazioni durature. E non avrò mai dei bambini.» Che cosa potevo dire? «La vita è crudele. Pensavo che ognuno fosse l'artefice del proprio destino, ma è un'idea molto puerile, vero? Eccoti qui, bella, intelligente, appassionata... e sola. Ed eccomi qui. Ho sempre avuto più o meno quello che desideravo e all'improvviso mi ritrovo in un incubo. In ogni caso» ormai ero un po' sbronza, in vena di chiacchiere tristi, «avremo sempre la nostra amicizia.» Questa volta fui io a levare il bicchiere. «A noi.» «A noi. Sono ubriaca.» Mangiammo con voracità. «Sapevi» domandai dopo un po' «che non siamo molto distanti dalla Fattoria?» «A essere sincera sì» rispose. «È un problema?» «No. Allora hai scelto questa locanda perché è vicina alla Fattoria?» «Può darsi. Insomma, mi sembrava un posto carino, e poi ho anche pensato che magari avresti voluto fare un salto laggiù. Per seppellire alcuni fantasmi. Altrimenti potrebbe finire per esercitare un potere diabolico su di te.» La guardai, sbalordita. «Kim, sei straordinaria. Da quando siamo arrivate continuo a pensare che devo tornarci. Devo andare dov'è successo, non solo alla Fattoria, ma
anche sul versante della collina. Non riesco a spiegarlo, ma ho la sensazione che non sarà finita finché non rivisiterò quei luoghi. Li ho rivisti così tante volte nella mia memoria; se chiudo gli occhi, riesco a descriverli centimetro dopo centimetro, ogni singolo albero e fossato. Ma non ci sono mai e poi mai tornata di persona... Non da quando Nat è scomparsa. Per me si è trasformata in un'area proibita. Be', ora so il perché, naturalmente, ma so anche che non posso sfuggire alle mie azioni, perciò devo affrontarle. Ripercorrerle, per così dire. Mi capisci, vero?» Assentì, versando l'ultimo vino nei bicchieri. «Altroché. Se fossi in te, credo che proverei le stesse cose.» Feci per replicare, ma mi interruppe. «Poiché non sono in te, domani farò una lunga passeggiata mentre tu torni laggiù.» Ripiombammo nel silenzio, fissando le fiamme, intontite dall'alcol e dalla stanchezza. «A che cosa pensi?» domandò Kim. «Non era il gioco della memoria, sai» dissi. «Come?» «Il gioco che abbiamo giocato a Natale, cercando di ricordare gli oggetti sul vassoio. Non si chiama gioco della memoria. Si chiama gioco di Kim.» «Il mio gioco? Di che cosa diavolo stai parlando?» «Sai, ho trovato una copia di Kim, il romanzo di Kipling, in una vecchia scatola che Claud mi ha portato dalla Fattoria. L'ho sfogliata, e quando Kim impara a diventare una spia, allena la memoria cercando di imprimersi nella mente alcuni oggetti a casaccio che poi qualcun altro nasconde. Il gioco di Kim.» «Hai bisogno di un altro bicchiere di vino, Jane» commentò, sorridendo. «Il gioco della memoria è quello con le carte a faccia in giù, quello in cui devi tentare di rintracciare le coppie. Non so come ho fatto a dimenticarlo.» Si alzò. «Ti perdono» scherzò. «Forza. È ora di andare a letto.» CAPITOLO 36 La Fattoria sembrava già abbandonata. Appena smontai dall'auto di Kim e mi guardai intorno, avvertii l'assenza di Martha. I suoi libri si illustravano quasi da soli, mi aveva detto una volta, e i suoi figli crescevano senza bisogno di aiuto, ma aveva la sensazione di essere davvero indispensabile
per il suo giardino. Un uomo veniva da Westbury un paio di volte la settimana, ma quando frequentavo la Fattoria Martha pareva trascorrere quasi ogni minuto là fuori, intenta a potare e a piantare, o inginocchiata a dissodare il terreno con una paletta. Era stata abilissima in un'arte di cui noialtri non sapevamo quasi niente. Quando notavamo i fiori, la frutta e la verdura, li apprezzavamo, eravamo lieti di averli intorno, ma non facevamo caso alle piccole battaglie perse e vinte durante la loro creazione. Qualcuno aveva forse pensato a come l'orto sarebbe andato avanti senza Martha? Lei mancava (prima nello spirito, poi nel corpo) da meno di sei mesi, ma il giardino aveva un'aria desolata. I bastoni si ergevano nelle aiuole senza sostenere nulla, e il prato era punteggiato di tarassaco tra gli esigui mucchietti di foglie. La porta era chiusa, e non avevo la chiave. Non ne avevo mai avuto bisogno. Sbirciando da una finestra, scorsi assi nude, stanze vuote, distese di carta da parati con pallidi rettangoli dove prima erano appese le fotografie. Il casale non era più nostro, e provai un tetro piacere nel vederlo privato con tanta brutalità di tutti i segni della famiglia Martello. La costruzione era in vendita. Di lì a poco qualcuno ci avrebbe trasferito i suoi ricordi. I miei ingombravano ancora l'edificio, come i sacchetti di patatine che volavano giù dalla strada secondaria all'estremità del vialetto. Voltai le spalle alla casa. Nel punto in cui avevamo trovato Natalie c'era ancora una specie di buca lugubre, mezza piena di acqua fangosa. Chissà se prima o poi qualcuno l'avrebbe riempita. Ma non ero venuta per quello. Non aveva senso rovistare qua e là, non c'era nessuno con cui piagnucolare. Volevo soltanto finire alla svelta, vedere quello che dovevo vedere. Poi avrei lasciato la Fattoria per sempre, avrei rincontrato Kim, mi sarei goduta un buon pasto, un bel week-end, sarei tornata a Londra, avrei continuato con la mia esistenza. Camminando svelta tra l'erba ispida, sentii l'umidità che mi penetrava fino alle dita. Scarpe poco adatte, maledizione. Quando raggiunsi il bosco, distinsi Pullam Farm sulla sinistra e, sulla destra, il sentiero che si snodava lungo la foresta per poi ripiegare verso la Fattoria. Non quel giorno. Quel giorno, per la prima volta dopo venticinque anni, imboccai il viottolo tra gli alberi che conduceva verso Cree's Top e il Col. Era una mattinata umida e nebbiosa, e rabbrividii nonostante la giacca a vento. Non ci sarebbe voluto molto. La stradina si biforcò quando mi avvicinai all'altura che nascondeva il ruscello, e presi la diramazione di destra, che costeggiava il fianco di Cree's Top fino al sentiero sul fiume. La pista, ormai usata di rado, era invasa dai rami. Dopo essermeli scosta-
ti dalla faccia per alcuni minuti, arrivai alla sponda del Col e ai piedi di Cree's Top. Ero tornata. Era stato un particolare a mettere in moto tutto, ad attirare l'attenzione di Alex, vero? Quelle sciocche poesiole adolescenziali appallottolate e gettate nell'acqua mentre sedevo con la schiena contro la roccia e le guardavo galleggiare sul Col. Chissà se qualcuna aveva raggiunto il mare. Oppure si erano impigliate tutte tra le canne dopo la prima curva? Mi frugai in tasca ed estrassi il menu di un takeaway indiano: «TUTTO A METÀ PREZZO». Lo accartocciai e lo buttai nel ruscello. Accadde una cosa stupidissima, che mi fece quasi ridere. Il fiume scorreva nella direzione sbagliata. Il menu spiegazzato dell'Orgoglio del Bengala non fluttuò fino a svanire dietro l'ansa, bensì si allontanò spostandosi a ritroso. Infatti, scrutando il Col controcorrente, mi accorsi che non c'erano anse in quella direzione per varie centinaia di metri. Che sciocchezza. Mi sentii disorientata per un istante, ma ben presto capii che cosa era accaduto. Mi arrampicai rapidamente fino a Cree's Top. Gli alberi si diradarono, e quando fui sulla sommità, notai che la foschia si era alzata e che si distinguevano con chiarezza il fiume e il viottolo lungo la riva. Il Col curvava leggermente a destra per poi riprendere il suo corso precedente, formando una C al contrario. Cinquanta metri più in là sorgeva il ponte da cui avevano avvistato Natalie per l'ultima volta. La pista divenne molto più scoscesa, e dovetti trattenermi dal lanciarmi giù per la china. Quando fui sulla pianura, sedetti con la schiena contro il grosso masso ai piedi di Cree's Top. Rovistandomi in tasca, trovai la ricevuta della carta di credito emessa da una stazione di servizio. Se fossi stata efficiente, l'avrei archiviata da qualche parte e l'avrei confrontata con l'estratto conto. Invece, la appallottolai e la gettai nell'acqua. Ormai il sole era spuntato, e il foglietto azzurro era difficile da distinguere tra le increspature scintillanti, ma lo fissai con intensità mentre accelerava e scompariva dietro l'ansa erbosa. Come in un sogno. CAPITOLO 37 Giocavamo accanto al faggio rosso, con il suo tronco spesso e grigio e la sua rigogliosa esplosione di fronde. Si ergeva davanti a un muro a secco, e se salivamo su quest'ultimo, i rami più bassi erano abbastanza vicini al suolo da consentirci di arrampicarci fino a quelle che ora mi sembravano altezze vertiginose. Spiavamo giù verso la Fattoria tra il fogliame color bronzo, osservando gli adulti che entravano e uscivano dal portone sotto la
veranda, ma nessuno poteva vederci. Trascorrevamo intere ore lassù. Ci portavamo le bambole, e poi, quando eravamo più grandi, mele e libri. Io e Natalie restavamo sedute a chiacchierare mentre la luce filtrava a chiazze tra le foglie. Guardando le nuvole che si rincorrevano, ci rivelavamo dei segreti, e i giorni trascorrevano lenti, così lenti. Non avevo ricordato abbastanza quella Natalie serena e felice. Non ero stata un'amica abbastanza fedele dopo che era scomparsa. Se fossi stata io a sparire, all'improvviso e senza neppure una parola di spiegazione, ero certa che mi avrebbe cercata con foga. Si sarebbe sentita tradita dalla mia defezione e si sarebbe infuriata con gli adulti che avessero tentato di consolarla. Sarebbe impazzita. Mentre io... io ero stata passiva e addolorata, distesa notte dopo notte in quella che prima era stata la sua camera, sognandola senza mai cercarla. Una volta, mentre giocavamo a nascondino, non ero riuscita a trovarla, e dopo aver sbirciato invano nelle rimesse e dietro i grossi cespugli del giardino, mi ero rifugiata in cucina, dove Martha era impegnata a preparare i biscotti. Mentre leccavo la scodella, Natalie aveva fatto irruzione nella stanza, gridando: «Ti arrendi troppo facilmente. Non so perché perdo tempo con te quando tu non fai altro che arrenderti. Mi sono stancata di te, Jane Crane». Grattai la corteccia con un dito. Anche Martha amava quell'albero. C'aveva piantato crochi e bucaneve tutt'intorno. Sedetti appoggiandomi al tronco, avvertendo i solchi dei suoi anni attraverso il tessuto. Quando ero poco più che ventenne, avevo trascorso quattro mesi a Firenze come assistente di un architetto. Mi ero innamorata della città e avevo passato ogni momento libero a vagare per le viuzze e a visitare le chiese piene d'incenso, dove le nicchie ospitavano statue di madonne inespressive e le signore anziane accendevano ceri per i defunti. C'ero tornata dieci anni dopo, la mappa della città ancora impressa con chiarezza nella mente, e ben presto mi ero resa conto di essere un po' confusa. Le strade erano più corte di quanto ricordassi, dove avrebbe dovuto esserci un paesaggio sorgeva un palazzo, e il caffè dove avevo bevuto tutti i giorni un espresso e mangiato tortine di riso si era trasferito dal centro a un angolo della piazza. Claud aveva commentato con pacatezza che i luoghi andavano sempre riscoperti; il piacere di viaggiare consisteva nel fatto che nuovi significati emergevano di continuo e quelli vecchi mutavano. Mi ero tuttavia sentita vittima di un oscuro inganno: avevo sperato di tornare a un passato intatto, in cui ciascun ambiente era legato a determinati ricordi, e invece mi ero ritrovata in una città che, chissà come, si era staccata da
me. Firenze non era più mia. Ora mi assalirono le stesse nebulose insoddisfazioni. D'impulso, mi tirai la cerniera della giacca fino al mento, mi alzai e salii sulla fronda più bassa del faggio. Mi arrampicai di ramo in ramo finché raggiunsi un punto d'appoggio familiare. Sbirciai la Fattoria tra il groviglio di ramoscelli con le loro foglie verde pallido. Ecco il casale, con i segni invisibili della disintegrazione. Come si riconosce il momento in cui la vita lascia il volto di un amico anche se tutti i suoi lineamenti restano invariati? E come si capisce che una casa è abbandonata pur non individuandovi alcun cambiamento? Da dov'ero non vedevo il portone, sebbene ricordassi con chiarezza di averlo visto da bambina. Scivolai giù tra i rami e saltai con goffaggine sull'erba, risiedendomi con la schiena appoggiata al vecchio albero. Presi il diario che avevo tolto dal borsone prima di partire quel mattino e cominciai a sfogliarne le ultime pagine con indolenza. Alcune annotazioni scatenarono subito i ricordi: la candela che aveva incendiato la barba di Alan quando si era chinato con voracità per impossessarsi delle ultime patate; avevo riso così tanto che i muscoli dell'addome avevano iniziato a dolermi. Il giorno in cui avevo navigato nel lago artificiale della cava di ghiaia poco distante, spaventandomi a morte quando la barca si era inclinata e l'acqua si era riversata oltre il bordo, ma rifiutandomi di ammetterlo... Soprattutto davanti a Natalie e Theo, che erano sempre stati coraggiosi e sprezzanti del pericolo. La volta che io, Alan e i gemelli ci eravamo svegliali alle quattro del mattino per ascoltare il coro dell'alba ed eravamo rincasati infreddoliti, affamati ed euforici. Alcuni resoconti (una lite con la mamma, che avevo descritto con prosaicità ipocrita, e la visita a un palazzetto medievale dove i cattolici si erano nascosti sotto le assi del pavimento durante la Riforma) si ostinavano tuttavia a non cedere i loro tesori. Assomigliavano alle tombe dell'Highgate Cemetery, invase dall'edera e dalle ortiche, trascurate e dimenticate. La maggior parte delle nostre vite giace sottoterra. L'ultima annotazione era sempre stata vivida nella mia mente, il che non mi sorprendeva, perché il giorno prima della scomparsa di Natalie era stato come il contorno nitido di un buco nero. Rammentavo i preparativi della festa senza grosse difficoltà. Ricordavo di aver baciato Theo nel quadrato di fango tra le mattonelle appena posate, dove le ultime parti del barbecue sarebbero state costruite in tempo per il party, e di essere trasalita con aria colpevole quando avevamo sentito avvicinarsi Jim Weston. Chiusi il diario, strofinandomi gli occhi. Qualche gocciolone cadde sulla
copertina del quaderno. Ebbi l'impressione di fissare qualcosa attraverso un liquido denso; tutte le forme che tentavo di distinguere si deformavano e si frantumavano. Avevo baciato Theo fra la terra pronta per il barbecue. Il barbecue. Mi alzai, incespicando per la fretta, e corsi sotto gli scrosci sempre più fitti fino al punto in cui avevamo trovato le ossa di Natalie. La buca era ancora una livida cicatrice di detriti, melma grumosa ed erbacce dalle radici corte. Saltai nel fango e ci affondai le mani, scavando a casaccio. Recuperai la gamba di una bambola, una forchetta arrugginita dai rebbi incrostati, una bottiglia di birra dal collo scheggiato, e infine una mattonella rotta e un frammento di griglia ossidata. Quelli erano i resti del barbecue. Natalie era stata sepolta sotto il barbecue. Sedetti pesantemente sul bordo della fossa, pulendomi le mani infangate sui jeans infangati. Ormai la pioggia cadeva con insistenza, oscurando il paesaggio, ed era come se qualcuno stesse tirando un sipario sulla Fattoria e su tutti i suoi segreti. C'era qualcosa che non quadrava. Non riuscivo a pensare con lucidità: era come cercare di ricordare un sogno sfuggente. Natalie era stata seppellita sotto il barbecue, ma il barbecue era stato costruito prima che lei morisse. Parlai ad alta voce: «Ecco perché l'hanno sotterrata qui. Era un posto improbabile perché era un posto impossibile». Fissai la melma, tenendomi il volto tra le mani. Le gocce mi scivolavano lungo il collo. Riprovai: «Natalie è stata sepolta prima di morire». Oppure: «Natalie è stata seppellita sotto il barbecue; Natalie è morta dopo che il barbecue era stato completato, dunque...» Dunque cosa? Dopo aver scagliato qualche frammento di mattonella nella buca con un calcio, mi alzai. Probabilmente Kim si stava domandando dove fossi finita. CAPITOLO 38 Quando rientrai, Kim era stesa sul letto, intenta a studiare una mappa. Si rizzò a sedere. «Sei stata via un'eternità. Cristo! Guardati: hai fatto un fango termale o qualcosa del genere? Che cosa ti prende?» «Come? Niente. Non lo so.» Andai in bagno e mi lavai la faccia e le mani sudicie. Quando tornai di là, Kim si stava infilando gli scarponi. «Vuoi qualcosa da mangiare?» domandò. «No. Ma tu prendi pure qualcosa se hai fame.» Poi, all'improvviso: «Ti va se facciamo una passeggiata?»
«Certo; ne ho trovata una di quindici chilometri che inizia proprio in fondo alla strada, perciò dovremmo riuscire a completarla prima che faccia troppo buio. Un sacco di valli e colline. Credo che il sentiero sarà un po' melmoso con questo tempo.» Mi abbassai gli occhi sui jeans. «Credo che non sia un problema.» Tacqui per i primi tre chilometri, e comunque ci inerpicammo su per la pista angusta e rocciosa a passo così spedito che con molta probabilità non avrei avuto fiato sufficiente per camminare e parlare allo stesso tempo. I rovi mi strappavano i vestiti, e la pioggia gocciolava dalle foglie bagnate. Alla fine, il sentiero si allargò, conducendoci sulla cima di un'altura. Se fosse stata una bella giornata, avremmo potuto ammirare il panorama. «È tutto mescolato nella mia testa» esordii. «Come sarebbe a dire, mescolato?» «All'inizio sembrava tutto chiaro, era come me l'aspettavo. Insomma, era naturale che fosse così... Conosco la Fattoria come la mia casa. Mi sono limitata a gironzolare qua e là per un po'; sai, tutti quei vecchi ricordi.» Annuì, ma non parlò. «Poi sono tornata dov'è accaduto.» Era strano che trovassi ancora difficile dire con coraggio: «Dove Alan ha ucciso Natalie». «Non ci andavo da quasi ventisei anni.» Scavalcai un albero che ostruiva il passaggio e attesi che Kim mi affiancasse di nuovo. «Mi sono incamminata in quella direzione. Ma Kim, era tutto sbagliato. Avevo ricordato male.» «Che cosa c'è di tanto sorprendente? Sei la prima a dire di non esserci andata per anni. È logico che non ricordassi.» «No. Ricordavo, ma ricordavo male. Non capisci, Kim? Ho attraversato quella zona così tante volte nella mia memoria con Alex, ma quando ci sono andata di persona era tutto capovolto. Tutto al contrario. Oh, merda, non lo so.» Estrassi un pacchetto di sigarette umido dalla giacca e me ne accesi una mentre proseguivo. «Fammi capire bene, Jane. La passeggiata che hai messo insieme con Alex era inesatta?» «No, no, non è così. Era esatta, i dettagli c'erano tutti quanti, non so se mi spiego, solo al rovescio.» «Sono un po' confusa. Che cosa significa?» «Non lo so. Sono del tutto sconcertata, Kim. E non è finita.» «Che cosa non è finito?» La sua voce si alzò di un tono per l'esasperazione.
«Non solo la passeggiata era invertita, ma ho anche capito qualcos'altro... Non so come mai nessuno ci sia arrivato prima. Adesso sembra lampante.» «Che cosa è lampante? Dài, Jane, non giocare agli indovinelli; sputa il rospo, per favore.» «Okay. Ascoltami, allora. Sai che ho riletto il mio diario, quello che mi ha portato Claud e che ci conduce fino al giorno precedente la morte di Natalie?» «Sì.» «Ecco, nell'ultima annotazione, che risale alla vigilia dell'omicidio, ho scritto del barbecue incompleto, il barbecue che Jim Weston avrebbe dovuto costruire in tempo per la festa.» «E allora?» «È lì che è stata sotterrata Natalie, Kim. Sotto quel barbecue.» Osservai il suo volto che passava con lentezza dalla vacuità alla perplessità. «Non è possibile. Significa...» «Significa che Natalie è stata sepolta sotto mattoni posati prima che morisse.» «Ma...» Enumerai sulle dita gli elementi a favore di quella tesi. «Ascolta, punto primo: sappiamo che è morta il giorno dopo il party. È stata avvistata l'indomani, e da una persona attendibile, che non aveva alcun legame con la famiglia. Secondo: sappiamo che è stato Alan ad ammazzarla. Io lo ricordo, e lui l'ha confessato. Ma Alan è arrivato alla Fattoria solo dopo che il barbecue è stato ultimato. Terzo: Natalie è stata seppellita sotto il barbecue.» Ora procedevo a grandi passi, con un vigore scaturito dalla frustrazione. Kim doveva quasi correre per tenermi dietro. «Se quello che affermi è vero, dovresti rivolgerti alla polizia, Jane.» Mi bloccai. «Che cosa diavolo potrei dire? Perché dovrebbero accettare questa nuova rivelazione della mia memoria? A ogni modo, il risultato non cambia. Alan ha ucciso Natalie ed è in carcere. Voglio soltanto scoprire come.» Scansai un rovo con un calcio e mi frugai in tasca alla ricerca di un'altra sigaretta. «Oh, Cristo, Jane, quando la smetterai?» sbottò Kim. «Perché è così importante saperlo? Riflettici. Conosci il dettaglio principale della morte di Natalie... Sai chi l'ha assassinata. E ora vuoi conoscere anche i dettagli se-
condari. E poi, se li scoprirai, vorrai indagare, affliggerti e fumare altre decine di quelle sigarette finché avrai ricostruito tutti i particolari più minuscoli. Ma non saprai mai tutto riguardo a questa faccenda, Jane. Vuoi che ti dica che cosa ne penso?» «Spara, tanto me lo dirai comunque.» Mi sentivo fradicia e arrabbiata. Un granello di pietrisco nella scarpa mi premeva contro la pianta del piede; la testa e il collo mi prudevano, avevo le mani sudate e il naso freddo. Perché non poteva limitarsi ad ascoltare, assentire e tenermi per mano? «Penso che tu abbia trasformato questa storia in un'ossessione logorante. Risolvi questo enigma, e ne salterà fuori un altro. Vuoi dare un significato definitivo e assoluto a una tragedia ingarbugliata. Hai perso la ragione.» «No.» «Invece sì. Stai diventando noiosa. Non puoi lasciar perdere?» Scavalcai un muretto, macchiandomi i palmi di verde con i licheni viscidi. «Lo vorrei tanto. Pensavo che sarebbe tutto finito, che sarei venuta qui per mettere fine a tutta questa orribile faccenda e... anche se ti sembrerà stupido... per ritrovare Natalie. Era diventata come un puzzle o qualcosa di simile, e gli unici tasselli del suo carattere su cui riflettevo erano quelli che davano un senso al suo omicidio. Poi, l'altro giorno, ho avuto questa visione chiarissima di lei, è stato come se potessi allungare la mano e toccarla. Le volevo bene, sai; è stata la mia prima migliore amica. Dunque avevo bisogno di dire addio alla vera Natalie nell'ultimo posto in cui era stata. Ma, chissà come, mi sento così... così strana. È come se sapessi qualcos'altro, ma non riuscissi a raggiungerlo. Sarà anche noioso ma... oh, merda, il pensiero laterale, ecco quello che mi ci vuole. Mi sembra di impazzire.» Tacque. Scendemmo la collina verso l'automobile. «Vuoi ancora rimanere per il resto del week-end, vero?» domandò mentre tornavamo verso l'albergo. «Sì, certo.» Poi: «Be', a essere sincera, Kim, non credo di averne voglia. Ora mi sento irrequieta. Mi dispiace davvero tanto, ma possiamo ripartire stasera?» Si rabbuiò. «È stato un viaggio lungo per una sola serata e una misera passeggiata sotto la pioggia.» «Lo so. Solo che non sarei una buona compagnia.» Aprii il finestrino e mi accesi una sigaretta. «Questioni in sospeso e tutto il resto. È come mi
ha detto qualcuno di recente: non è ancora finita.» «Oggi, per l'ennesima volta, non ho la più pallida idea di che cosa tu stia parlando. Comunque» tese una mano e mi sfiorò appena la spalla, «non bisticciamo. Non volevo essere così scorbutica.» Sorrise mesta. «È solo che pregustavo già la cena: capesante e tonno crudo marinati nelle erbe e nel succo di limone, seguiti da agnello novello. Poi avrei preso lo strudel di mele con la panna montata.» «Offro io i sandwich per il viaggio» replicai. «Formaggio e insalata con pane integrale, e una mela come dessert.» «Evviva.» Non erano ancora le otto quando lasciammo l'albergo con borse e scarponi. Insistetti per pagare la seconda notte inutilizzata e mi scusai con il proprietario perplesso. «Probabilmente penseranno che sia stato un battibecco tra fidanzate» osservò Kim. «Probabilmente penseranno che siamo escursioniste londinesi amanti delle belle giornate, ansiose di fuggire da questo tempaccio.» Pioveva ancora quando partimmo tra l'oscurità sempre più fitta, un'orribile serata di giugno. I tergicristalli spazzavano via l'acqua e Kim mise su un po' di musica. Le vaghe note jazz di un sassofono riempirono l'abitacolo, smorzando il picchiettio della pioggia. Ci chiudemmo in un gradevole silenzio. Pian piano gli scrosci cessarono, anche se le pozzanghere sulla strada schizzavano sotto gli pneumatici, e Kim doveva azionare i tergicristalli ogni volta che un camion ci passava accanto rombando dalla direzione opposta. Mi appoggiai stancamente allo schienale, fissando la campagna che filava via. Scorgevo la mia faccia nel vetro, una macchia nebulosa. Non ero riuscita a rimanere, ma non sapevo proprio perché stessi tornando. Che cosa avrei dovuto fare ora? La mia vita era a un punto morto. Forse l'unica cosa da fare era sdraiarmi ancora sul lettino di Alex e cercare di spiegare tutte quelle contraddizioni irritanti e sgradevoli. Con Alex ero riuscita a illuminare un frammento nauseante del mio passato, ma tutto il resto era ancora nell'ombra. Forse avrei dovuto illuminare anche quello. Mi sentivo spossata al solo pensiero, come se mi dolessero le ossa. Quando avevo intrapreso quel viaggio nella mia infanzia, avevo usato l'immagine di un buco nero nel paesaggio visibile del mio passato. Ora pareva che, come il negativo di una fotografia, quell'immagine si fosse capovolta. L'unico ele-
mento visibile, tanto visibile da essere accecante, era quello prima oscuro. Una terra sottosopra governata da una bambina morta. «Puoi accendere la luce mentre cerco un altro nastro?» chiese Kim, rovistando nel caos di cassette nello scomparto della portiera. «Certo.» Premetti l'interruttore, e il mondo esterno svanì. «Sai, Kim, sembra tutto al rovescio. Quando sono salita fino a Cree's Top questa mattina, mi sentivo come Alice nel giardino dietro lo specchio, dove tutto è invertito, e per raggiungere un luogo devi allontanartene. Bizzarro, vero?» Ricacciando indietro alcune lacrime inattese, scrutai il mio riflesso. Una donna di mezza età, il volto scarno segnato dalle preoccupazioni, ricambiò il mio sguardo, imprigionata nella sua dimensione dall'altra parte del vetro. Ci guardammo, gli occhi sgranati e atterriti. Non era un'estranea; ci conoscevamo molto bene, anche se forse non abbastanza. Una lama gelida mi si stava conficcando nel cervello. Oh, no. Oh, santo Cielo, per favore no. Che cosa avevo combinato? Levai la mano per spegnere la luce. Un flauto, argentino, ossessionante, vibrò nell'aria. Il volto della donna scomparve. Avevo guardato me stessa. Certo. Ero stata quella ragazza sul fianco della collina, ero stata Natalie per un'ora; mi ero vista su quell'altura e avevo dato la caccia a me stessa. Ero stata nel giardino dietro lo specchio e avevo seguito la mia immagine, e quando mi ero ritrovata, mi ero persa ancora di più. Ancora di più. Sentii un urlo che saliva dentro di me e mi tappai la bocca con la mano. Quella sulla collina non era mai stata Natalie, ero stata sempre e solo io, l'amica di Natalie, la sua sosia. Ero io a essere stata avvistata tanti anni prima da un uomo anziano incaricato di smontare il tendone, io a essere stata scambiata per Natalie. Ero io quella che avevo cercato tra i miei incubi viventi. «Per piacere, Kim. Per piacere, puoi lasciarmi alla prossima stazione della metropolitana?» Eravamo quasi alla periferia di Londra, e sapevo quale doveva essere la mia prossima meta. Kim mi guardò, sbalordita, ma obbedì e frenò. «Spero che tu sappia che cosa stai facendo, Jane, perché io non lo so di sicuro.» La baciai sulla guancia, quindi la abbracciai a lungo. «So che cosa sto facendo; per la prima volta dopo tanto tempo so che cosa sto facendo. C'è una cosa che devo chiarire, e credo che sarà doloroso.» «Jane» mi chiamò Kim mentre mi voltavo per andarmene. «Se mai ne
verrai fuori, mi devi un favore. Più di uno.» CAPITOLO 39 «Pronto?» «Pronto? Parlo con la dottoressa Thelma Scott?» «Sì.» «Sono Jane Martello, forse ricorderà che ci siamo conosciute al...» Mi interruppe con una nuova nota di interesse nella voce. «Sì, ricordo.» «So che le sembrerà stupido, ma potrei venire da lei?» «Come? Adesso?» «Sì, se è d'accordo.» «È sabato sera, come fa a sapere che non ho organizzato una cena o non sto andando in un nightclub?» «Mi dispiace, non volevo rovinarle la serata.» «Non importa, stavo leggendo un romanzo. È sicura che sia importante? Non possiamo discuterne al telefono?» «Se non è importante, può mandarmi via. Mi conceda solo cinque minuti.» «Va bene, dov'è?» «Alla stazione della metropolitana di Hanger Lane. Devo prendere un taxi?» «No, è a un tiro di schioppo. Prenda la metro fino a Shepherd's Bush.» Mi fornì qualche breve indicazione, e di lì a qualche minuto uscivo da Shepherd's Bush e svoltavo in una tranquilla via residenziale poco distante da Wood Lane. Dopo aver bussato, fui accolta dalla donnina con l'espressione vigile che rammentavo dal convegno, ma vestita in maniera informale con jeans e un maglione molto vivace. Aveva un sorriso leggermente sardonico, come se mi stessi comportando secondo le sue aspettative, ma la sua stretta di mano fu abbastanza cordiale. «Ha fame?» «No, grazie.» «Allora temo che dovrà guardarmi mangiare. Si accomodi di là. Vietato fumare, purtroppo» aggiunse, notando la sigaretta tra le mie dita. La gettai sul vialetto. In cucina, si versò un bicchiere di Chianti, mentre io chiesi semplice acqua del rubinetto. «Poiché non vuole mangiare niente, mi limiterò a sgranocchiare qualco-
sa» disse. «Allora, perché voleva vedermi?» Mentre parlavamo, preparò e divorò un'enorme varietà di cibi: pistacchi, olive ripiene di acciughe e peperoncino, sfogliatine di mais intinte nel guacamole estratto dal frigorifero, focaccia con mozzarella e prosciutto di Parma condita con una generosa spruzzata di olio d'oliva. «Lei è una psicoanalista?» «No, sono una psichiatra. Ha importanza?» «Sa che cosa mi è capitato, che cosa ho fatto, vero?» «Credo di sì. Ma me lo spieghi lei.» Dio, avevo bisogno di una sigaretta. Per pensare meglio. Per tenere occupate le mani. Dovevo concentrarmi. «Sono una paziente di Alex Dermot-Brown da novembre. Avevo avuto alcuni problemi emotivi dopo il ritrovamento dei resti della mia cara amica Natalie. Era scomparsa nell'estate del 1969. Alex si è incuriosito soprattutto quando gli ho raccontato che mi trovavo nei paraggi allorché l'avevano avvistata per l'ultima volta. Abbiamo ripercorso quella scena seduta dopo seduta, visualizzandola, e pian piano ho recuperato il ricordo di averla vista uccidere da suo padre, mio suocero, Alan Martello. Quando l'ho affrontato, ha confessato. Ora è... be', avrà letto i giornali.» «Già.» «Devo domandarle una cosa, dottoressa Scott. Anzi, due. È possibile che qualcuno confessi un crimine che non ha commesso? Insomma, perché dovrebbe farlo?» «Aspetti un secondo» rispose. «Questo è un compito che richiede concentrazione.» Stava tagliando a cubetti la focaccia ripiena. «Ecco fatto. Ora, perché me lo domanda?» «Quello che voglio davvero sapere è se è possibile ricordare qualcosa che poi si rivela essere falso. Mi riferisco a un ricordo visivo chiaro e particolareggiato.» Fece per rispondere, ma io proseguii. «Ho avuto l'impressione di recuperare un file cancellato per sbaglio dal mio computer. Una volta ritrovato, non dubiterei mai che fosse il documento che avevo digitato, giusto?» Ora la dottoressa Scott sedeva al tavolo della cucina con i piatti disposti a raggiera. Quando capì di dovermi rispondere, aveva la bocca piena di sandwich e dovette masticare con energia e quindi inghiottire. «A proposito, mi chiami Thelma. Il mio nome è un interessante esempio di problema di trasmissione. Viene da un romanzo di Marie Corelli scritto negli anni Ottanta dell'Ottocento. È il nome dell'eroina, che è norvegese.
Una volta sono intervenuta a una conferenza a Bergen e ho cominciato il mio discorso affermando che consideravo giusto trovarmi lì perché avevo un nome norvegese eccetera eccetera. In seguito un uomo mi si è avvicinato per dirmi che, in realtà, Thelma non era affatto norvegese. Corelli doveva aver capito male o qualcosa del genere. Oppure l'aveva inventato.» «Allora il suo nome è un errore?» «Sì, tutte le Thelma andrebbero ribattezzate.» Rise. «Non conta molto, a meno che non si prendano troppo sul serio le idee sulla tradizione culturale. «Il suo parallelo con il computer è interessante. Neppure i neurologi hanno un modello preciso per il funzionamento della memoria, perciò tutti inventiamo le nostre metafore approssimative. A volte la memoria assomiglia a un sistema di archiviazione. È possibile che un'intera sezione vada smarrita, magari quella riguardante un corso seguito a scuola. Poi, per caso, incontriamo qualcuno che assisteva a quel corso, quella persona ci fornisce qualche indizio, e all'improvviso recuperiamo una serie di ricordi che non sapevamo di avere. «Il problema è quando le metafore prendono il sopravvento e cominciano ad assumere una falsa realtà. L'esempio del sistema di archiviazione la porterà forse a credere che qualunque avvenimento abbia vissuto possa essere recuperato e rivissuto, purché trovi lo stimolo adatto. Paragonerei alcuni ricordi a un castello di sabbia sulla spiaggia. Una volta che la marea è salita e l'ha spazzato via, sparisce e non può essere ricreato con precisione, nemmeno in teoria. È tutto qui quello di cui voleva parlarmi?» «Certo che no. Sono disperata e non so a chi rivolgermi.» «Perché non si rivolge ad Alex Dermot-Brown?» «Non credo che Alex sarebbe molto ricettivo verso quanto sto per dirle.» «E ritiene che io sia abbastanza ostile verso Alex da crederle» ribatté, versandosi il terzo (o era il quarto?) bicchiere abbondante di vino. «Ascolti, durante la conferenza ho conosciuto anche alcune splendide donne che avevano subito degli abusi e che hanno promesso di aiutarmi e credermi senza mettere in dubbio le mie parole. Sono sull'orlo di qualcosa di terribile, ma la cosa fondamentale è che non voglio essere aiutata. Non voglio che gli altri mi credano se mi sbaglio. Capisce che cosa intendo?» «Non del tutto, ma continui.» «Mi permetta di illustrarle i dettagli salienti. L'ultimo testimone a vedere Natalie viva l'ha scorta accanto a un fiume vicino alla casa domenica 27 luglio 1969. Il lavoro svolto con Alex sui miei ricordi si basava sul fatto
che fossi lì, poco distante da dove era accaduto, in quello stesso momento. All'epoca avevo un'appassionata relazione sentimentale con il fratello di Natalie, così sono scesa al fiume Col e mi sono seduta dando le spalle alla collinetta che mi separava dalla mia amica. In un gesto adolescenziale impulsivo, ho strappato alcune poesie che avevo scritto, le ho appallottolate, le ho gettate nel ruscello e le ho osservate mentre sparivano dietro l'ansa.» Thelma inarcò un sopracciglio. «Tutto questo è importante?» «Sì, molto. Questo è il resoconto originale che ho fornito ad Alex, la parte che ricordavo senza alcuna incertezza, la parte su cui non avevo dubbi.» «E allora?» «Sono scesa al fiume questa mattina, per la prima volta da quando è successo. Quando ho raggiunto il punto che avevo ricordato, il ruscello scorreva nella direzione sbagliata.» «Come sarebbe a dire, "nella direzione sbagliata"?» «Sembra stupido, ma è vero. Ci ho buttato dentro un pezzo di carta, e quello non ha galleggiato via da me, bensì verso di me.» Parve delusa. Scrollò le spalle. Tutto qui? «Era semplicissimo» proseguii. «Mi sono girata e mi sono arrampicata sulla piccola altura dall'altra parte, accorgendomi che era quello il punto in cui mi ero seduta e avevo gettato i fogli in acqua. Anzi, ho buttato nel fiume un altro pezzo di carta, e quello si è allontanato scomparendo dietro la curva, proprio come avevo ricordato.» Ormai Thelma aveva un'espressione impassibile. Sembrava distante, un po' in imbarazzo. Non mangiava nemmeno più con la stessa energia. Intuii che iniziava a domandarsi come sbarazzarsi di me senza offendermi. «Mi dispiace» si scusò. «Sono senz'altro dura di comprendonio, ma non capisco proprio dove vuole arrivare. Non vedo perché dovrebbe essere importante che lei abbia invertito le cose.» «Non è soltanto questo. Anche il ponte da cui il testimone ha visto Natalie era su quel lato del ruscello. Ma abbia pazienza ancora per un minuto. Per ragioni su cui non mi dilungherò, sono appena rientrata in possesso di un bel po' di cianfrusaglie risalenti al periodo in cui trascorrevo le vacanze a casa di Natalie. C'era anche il diario che ho tenuto durante quell'estate. Finiva due giorni prima dell'ultimo avvistamento di Natalie, perciò non gli ho prestato molta attenzione. Ma poi, quando l'ho riletto oggi, mi è saltato all'occhio un dettaglio interessante. Era sempre sembrato strano che nessuno avesse mai ritrovato il corpo di Natalie. Quando abbiamo rinvenuto i
suoi resti in ottobre, è sembrato ancora più strano, almeno a me. Il giardino era il posto ideale per seppellire un cadavere perché era proprio sotto il nostro naso, a pochissimi metri dalla casa. Ma come ci erano riusciti?» «Non lo so. Me lo dica lei» disse Thelma, visibilmente spazientita. «Il diario mi ha ricordato che stavano costruendo un barbecue davanti al casale e che l'hanno completato la mattina di una festa tenutasi sabato 26 luglio, il giorno prima dell'ultimo avvistamento di Natalie. Oggi ho riesaminato la buca in cui abbiamo scoperto le ossa, e ho visto i resti del barbecue. Era fatto di mattoni rivestiti di piastrelle d'argilla tenute assieme da malta per calcestruzzo. Ormai ne sono rimasti soltanto alcuni frammenti perché il barbecue è stato demolito e le mattonelle sono state smantellate quando Martha, mia suocera, ha allargato il prato. Ma il punto è che l'assassino ha sotterrato il corpo di Natalie nella fossa sapendo che sarebbe stata coperta di calcestruzzo, piastrelle e una pesante struttura di mattoni.» «Una buca nel terreno non sarebbe il primo luogo in cui la polizia guarderebbe?» «Ma non era una buca nel terreno, non capisce? Quando Natalie è stata vista per l'ultima volta il 27, il barbecue era già al suo posto da oltre ventiquattr'ore. Ovviamente sarebbe stato impossibile seppellire un cadavere sotto un barbecue di mattoni già costruito.» «Be', sì, allora non ha risposto da sola al suo interrogativo?» «Non mi sta seguendo. Natalie non può essere morta il 27, né tanto meno il 28, quando ne è stata denunciata la scomparsa. Era già morta e sepolta la mattina del 26.» Thelma sembrava perplessa, ma ormai avevo destato il suo interesse. «Ma non ha detto che l'avevano vista il 27?» «Sì, ma come reagirebbe se le dicessi che io e Natalie eravamo coetanee, avevamo la medesima carnagione, indossavamo i medesimi vestiti? E anche che lì intorno la conoscevano tutti e che io ci andavo soltanto in estate, perciò molti residenti non mi avevano mai incrociata? E che ora credo di essere stata nello stesso posto di Natalie quando l'hanno vista viva per l'ultima volta? Come reagirebbe allora?» Un sorriso si allargò con estrema lentezza sul suo volto, come una fiamma tra le pagine di un giornale. Ora rifletteva con molta attenzione. «È sicura riguardo a questo barbecue?» domandò. «Assolutamente sì. Ho trovato frammenti di mattonelle su ogni lato del punto in cui abbiamo rinvenuto le ossa. Natalie era senza dubbio là sotto.» «Ed è certa che non sia stato ultimato qualche giorno dopo? Magari non
l'avevano finito in tempo per la festa.» «È stato il pezzo forte del party. Ho fotografie di persone che fanno la fila per prendere una delle costolette o degli hot dog avanzati.» Le venne in mente un'altra obiezione. «Ma tutto questo ha davvero importanza? Alan ha confessato. La polizia direbbe che lei ha semplicemente confuso le date.» «Ma Alan non c'era. Mio padre è andato a prendere lui e Martha quando sono sbarcati a Southampton la mattina della festa. Erano appena tornati in piroscafo dalle Indie Occidentali. Sono arrivati alla Fattoria solo nel tardo pomeriggio, poco prima che il party iniziasse. Alan non può aver ucciso Natalie. C'è solo un problema.» «Quale sarebbe?» Levai le mani in un gesto disperato. «Io l'ho visto. E lui ha confessato.» Thelma rise forte. «Oh, tutto qui?» «Sì» risposi. «Non ho mai creduto a una sola parola.» «Sta dicendo che ho immaginato tutto quanto?» Avrei potuto mettermi a gridare. «Jane, io berrò un whisky, e ne berrà uno anche lei, poi le permetterò di fumare le sue terribili sigarette e faremo una chiacchierata come si deve. D'accordo?» «Sì, d'accordo.» Tirò fuori un posacenere di vetro troppo grande e due bicchieri altrettanto grandi. Non li avrei mai voluti in casa mia. «Tenga» disse, dopo averli riempiti entrambi con quello che sembrava uno scotch quintuplo. «Questa non è quella porcheria single-malt che va di moda oggi. Questa è un'ottima miscela, il whisky migliore che si possa desiderare. Salute.» Ne inghiottii un sorso e diedi una deliziosa boccata a una sigaretta. «Allora?» domandai. «Mi parli delle sedute con Alex Dermot-Brown.» «Che cosa intende?» «Il processo con cui ha recuperato questo ricordo. Come funzionava?» Le fornii una breve descrizione del piccolo rituale che io e Alex avevamo attuato ogni volta che ero tornata sul Col. Ascoltandomi, Thelma aggrottò la fronte, poi il suo cipiglio si tramutò in un sorriso. «Scusi» sbottai «c'è qualcosa di divertente?» «No. Continui.»
«È tutto. Allora, che cosa ne pensa?» «Gli avvocati dell'accusa si sono mostrati disponibili a chiamarla sul banco dei testimoni?» «Non ce n'è stato bisogno. Alan ha confessato.» «Sì, certo. Ma le sono sembrati impazienti di ascoltare la sua deposizione?» «Non lo so. Uno o due mi sono parsi un po' a disagio.» «Mi permetta di sottolineare che Alan Martello non sarebbe mai stato incriminato solo sulla base della sua testimonianza. Forse quest'ultima non sarebbe nemmeno stata ammissibile.» «Perché?» «Perché l'ipnosi altera la memoria, e lei è stata ipnotizzata.» «Non sia ridicola, so quello che ho fatto, e mi sono limitata a sdraiarmi sul lettino e a cercare di ricordare. Lo saprei se fossi stata ipnotizzata.» «Non penso proprio. Non esistono trucchi in questo campo. Immagino che lei sia un soggetto molto ricettivo. Potrei farla cadere in trance ora e raccontarle che... oh, non so... che ha visto un'auto investire qualcuno mentre veniva qui da Shepherd's Bush. Dopo essersi svegliata, sarebbe convinta che fosse vero.» «Anche ammettendo questo, Alex non mi ha ordinato di ricordare.» «Lo so, ma con tutte quelle ripetizioni e stimolazioni, ha subito un accrescimento della ricostruzione mnemonica. Ogni volta aggiungeva qualcosa alla storia; poi, la volta successiva, ricordava il dettaglio aggiunto in precedenza e ne aggiungeva un altro. In un certo senso, il suo ricordo è reale, ma è il ricordo di un ricordo.» «Ma che cosa mi dice del terribile crimine finale? L'ho visto così chiaramente.» «L'intero processo mirava a qualcosa del genere. Alex Dermot-Brown l'ha preparata a questo, le ha assicurato che quanto ricordava corrispondeva a verità e ha sfruttato la sua posizione professionale e la sua autorità analitica su di lei per persuaderla che aveva assistito a quella scena e che non l'aveva inventata.» «Ed è possibile?» «Sì, altroché.» «Alex l'ha fatto apposta? Ha tentato di instillarmi un ricordo errato?» «Certo che no. Ma a volte si può creare quello che si sta cercando. So che il dottor Dermot-Brown crede fermamente nel fenomeno della memoria recuperata. Sono convinta che vuole aiutare chi ha sofferto, e ora ne ha
fatto il perno della sua carriera.» «Sta dicendo che si sbaglia su tutta la linea?» «Lei ha qualche altra spiegazione, Jane?» «E le donne che affermano di aver subito abusi da bambine? Sta dicendo che sono tutte fantasie, come sosteneva Freud?» Ingollò un lungo sorso di whisky. «No, al momento sto curando una decina di vittime di abusi. Tra loro ci sono due sorelle che hanno avuto entrambe due figli dal padre prima di compiere sedici anni. Al processo ho fornito una testimonianza che spero abbia contribuito a incriminarlo. So anche che talvolta è difficile dimostrare gli abusi. Ho sentito parlare di aguzzini che l'hanno fatta franca, e questo mi riempie di disperazione. Forse è per questo che bevo più di quanto dovrei.» Scosse leggermente il bicchiere, dove non era rimasto molto liquore. «Ma non credo che le violenze esistano in un universo a parte, in cui le regole normali (le regole della Legge o della scienza, intendo) non valgono più. Il fatto che gli abusi siano difficilissimi da appurare non ci autorizza a condannare senza prove chi ne è accusato.» «Ma questi casi non sono senza prove. Le donne che ho conosciuto al seminario. Ricordano di aver subito dei maltrattamenti.» «Davvero? Tutte quante? Ho letto referti di giovani donne, provenienti da famiglie apparentemente unite e affettuose, che sono entrate in analisi e ne sono uscite uno o due anni dopo con descrizioni di abusi indicibili nel corso dell'intera infanzia. Parlano di sodomia, torture, riti satanici, ingestione di feci, stupri rituali ripetuti. Forse alcuni di noi affermeranno che le rivendicazioni senza precedenti richiedono un particolare rigore probatorio, ma i sostenitori di quelle poverine ritengono che non dobbiamo richiedere altre prove oltre alla loro testimonianza. Altrimenti collaboriamo con gli aguzzini. Non esiste un modello neurologico neppure per spiegare questo processo. Conosciamo tutti la perdita della memoria dopo un colpo alla testa durante un incidente stradale. Ma non vi sono precedenti di amnesia sistematica riguardante singoli episodi verificatisi più volte nel corso di molti anni. Il suo presunto ricordo di Alan Martello che ammazza Natalie è insignificante in confronto.» «Ma perché ho visto proprio Alan?» Si strinse nelle spalle. «Non lo domandi a me. È lei che lo conosce. Può darsi che sia stato oggetto di sentimenti particolarmente forti nel periodo dell'analisi. In un istante in cui la sua mente creativa cercava un cattivo, lui sembrava capace di essere violento con le donne. L'assassinio immaginato
è stato il momento in cui il suo mondo interiore e il suo mondo esteriore si sono sovrapposti. In modo perverso, è stato una specie di trionfo per il metodo psicoanalitico. Peccato che la realtà abbia interferito con tanta ostinazione.» «Ma perché mai ha confessato?» «Ogni tanto capita, sa. Le persone hanno i loro motivi.» «Oh, Dio» feci, affondandomi il volto tra le mani. «Mi sta domandando se Alan Martello è il tipo d'uomo che supererebbe il rimorso e la disperazione facendo un gesto folle, teatrale e autodistruttivo? Ha ragione, cazzo.» Vuotò il bicchiere. «Ho indovinato, allora.» Guardai il mio whisky. Finirlo era fuori questione. Era rimasto almeno uno scotch triplo, ed ero già sbronza. Mi alzai sulle gambe un po' malferme. «È meglio che vada» dissi. «Le chiamo un taxi.» Compose il numero, e non passarono più di due minuti prima che il campanello suonasse. «Suppongo che vorrà usarmi come dimostrazione per la sua battaglia contro la memoria ritrovata» osservai sulla soglia. Mi rivolse un sorriso mesto. «No, non si preoccupi. La sua esperienza non intaccherà le loro certezze.» «Non può essere vero.» «No? E che cosa mi dice di lei? Che cosa avrebbe pensato se fosse arrivata al fiume e avesse scoperto che scorreva nella direzione giusta?» «Non lo so.» «Sia prudente» mi raccomandò mentre montavo in auto. «Dovrà telefonare alla polizia domattina. Dovranno aprire una nuova inchiesta per omicidio.» «Oh, no, non la apriranno» replicai. Assunse un'espressione perplessa, ma l'auto partì, ed ero già troppo lontana per aggiungere altro. CAPITOLO 40 Uscimmo da Londra sull'A12, nella direzione opposta a quella del traffico dei pendolari, e ben presto fummo nella pseudocampagna tra la periferia della capitale e le pianure dell'Essex più in là. Avevo l'atlante stradale aperto sulle ginocchia. A eccezione delle mie indicazioni, nessuno fiatava. Lasciando l'arteria principale, entrammo nel groviglio di rotonde, villaggi e zone industriali. Stavano costruendo uno svincolo, e sostammo in coda
per mezz'ora, guardando un uomo che roteava una paletta. Alt, avanti. Alt, avanti. Consultai più volte l'orologio. La cartina fu inutile durante l'ultimo tratto. Seguimmo i cartelli azzurri fino a Wivendon. Parcheggiammo davanti a un edificio neoclassico che avrebbe potuto essere un supermercato o un centro turistico, ma che invece era un carcere. Gli altri rimasero nel parcheggio. Percorsi il vialetto, tra basse siepi di ligustro, fino al cancello di sicurezza. Verificarono la mia identità, esaminarono la mia patente, mi levarono la borsa. Una donna dall'uniforme blu scuro mi sorrise, ma mi tastò le braccia e sotto il vestito. Mi condussero attraverso porte piuttosto piccole, simili all'ingresso per il personale di una piscina pubblica. Sedetti in una sala d'attesa, con un tavolo centrale su cui torreggiavano vecchie riviste e una pianta in vaso priva di fiori. Alla parete era appeso un manifesto che pubblicizzava uno spettacolo pirotecnico. L'uscio si aprì, ed entrò un uomo. Indossava pantaloni di velluto a coste marrone e una ruvida camicia a scacchi, sbottonata sul collo. I folti capelli bruno-rossicci gli pendevano oltre il colletto. Era tarchiato, più o meno della mia età. Portava spessi dossier marrone sotto il braccio sinistro. «La signora Martello?» Si accomodò accanto a me, tendendomi la mano. «Sono Griffith Singer.» «Piacere.» «Sembra stupita.» «Mi aspettavo un secondino, suppongo.» «Cerchiamo di essere un po' più informali.» «Quanto tempo ho?» Inarcò le sopracciglia: «Tutto quello che vuole. Mi scusi, è una giornata fitta di impegni. Le dispiace se parliamo mentre camminiamo?» Ci alzammo e mi guidò fuori, lungo un corridoio che terminava in corrispondenza di due porte consecutive a doppio battente e munite di sbarre. «Stiamo per entrare nell'unità» annunciò Griffith, premendo un semplice campanello di plastica incollato al muro accanto al primo ingresso. Un tizio in divisa uscì da un ufficio dalle pareti di vetro tra le due porte. Griffith esibì un pass, e l'altro verificò il mio nome su un portablocco. Non figurava, perciò dovemmo aspettare per diversi minuti che qualcuno arrivasse dall'entrata principale con un elenco. «Come sta?» domandai.
«È una delle nostre star» rispose Singer. «Siamo davvero molto soddisfatti. Sa, questa è una nuova unità. Io... noi... l'abbiamo istituita poco prima che arrivasse, ed è stato uno di quelli che l'hanno fatta funzionare. Sa qualcosa di noi?» «Gli abbiamo scritto tutti quanti. Non ci ha risposto.» «Qui i detenuti devono scontare tutti lunghi periodi prima di ottenere la condizionale. Anziché lasciarli marcire, li riuniamo in un ambiente in cui possano aiutarsi a vicenda e anche trascorrere il tempo in modo creativo, o almeno così ci auguriamo.» «Scambiandosi i ricordi» dissi. «Non è come crede» protestò. «Sta facendo enormi progressi. Ha organizzato un seminario, coinvolgendo tutti gli altri. È... oh, bene, ecco Riggs.» Un altro tizio in divisa sopraggiunse rumorosamente. Ansimando, farfugliò delle scuse. Dovetti firmare un foglietto e introdurlo in una foderina di plastica trasparente che mi appuntarono al bavero. La prima porta si aprì e si richiuse. Poi la seconda. Ci seguì una guardia con un badge che la identificava come Barry Skelton. «Corro qualche rischio?» Singer sorrise, divertito. «Corre meno rischi qui di quanti ne corra fuori, nel parcheggio. A ogni modo, Barry non si allontanerà nemmeno per un attimo.» Un corridoio dalle pareti intonacate e dalla morbida moquette di feltro si diramava in ciascuna direzione. Singer mi prese per il braccio. «Vi troverò un posto tranquillo. Qui c'è un magazzino che dovrebbe essere libero.» Oltrepassammo un paio di stanze. Scorsi alcuni uomini intenti a guardare la TV. Nessuno si voltò. Nel magazzino stava succedendo qualcosa (non capii che cosa), così procedemmo fino a raggiungere un'aula vuota. «Entri con Barry» ordinò Singer, proseguendo. Gli venne in mente qualcosa, e si girò. «Sta scrivendo un romanzo, sa. È molto promettente.» Il locale era di medie dimensioni, con grandi finestre affacciate su un'area ricreativa deserta all'estremità più lontana. Al centro c'erano otto sedie di plastica stampata arancione disposte in cerchio. Tutto appariva vivace sotto i tubi fluorescenti. Barry avanzò, sollevando una sedia e posandola accanto alla porta. «Io mi metto qui» dichiarò. Parlava con un leggero accento dell'Ulster. Era un uomo altissimo con la pelle smunta e capelli neri diritti. «Si sieda di
fronte a me. Qui non seguiamo le regole alla lettera, ma è vietato passarsi oggetti. Se desidera porre fine al colloquio, per qualsiasi ragione, non deve dire niente. Basta che tocchi il badge, e io la accompagnerò fuori.» Annuii. Sedetti come mi aveva ordinato. Mi presi il viso tra le mani. Dovevo raccogliere le idee. «Ciao, Jane.» Alzai lo sguardo. «Ciao, Claud.» Doveva aver perso almeno cinque chili. Era più magro, spigoloso, con un po' di grigio in più tra i capelli corti. Indossava una felpa blu sbiadita, jeans neri e scarpe da tennis. Si voltò verso la soglia, dove si era soffermato Griffith Singer. «Allora vi lascio soli» disse quest'ultimo in tono impacciato, come se ci avesse organizzato, un appuntamento al buio e non sapesse se saremmo andati d'accordo. Claud assentì. «Devo sedermi qui, Barry?» domandò, indicando la sedia di fronte a me. Barry annuì. Claud si accomodò e ci studiammo a vicenda. «Ti trovo bene, Claud» osservai. Lo trovavo bene, meglio di quanto l'avessi mai trovato. Fece un lieve cenno della testa, accettando il complimento. Infilandosi la mano nella tasca dei pantaloni, ne estrasse un pacchetto di sigarette spiegazzato e un accendino di metallo grigio. Quando me ne offrì una, scossi il capo. Ne accese una per sé e diede una lunga boccata. «Questo è un ambiente stimolante» commentò. «Qui si sviluppano nuove idee. Sotto molti aspetti, ritengo che sia un miglioramento rispetto al modello Barlinnie. E quanto a me personalmente...» Fece una modesta scrollata di spalle. «È un'esistenza molto salutare. Ma tu come stai?» «Hai saputo di Alan?» «Non guardo la televisione e non leggo i giornali.» «È ridiventato una star letteraria.» «Come ci è riuscito?» «Ha scritto delle memorie carcerarie. Si intitolano A Hundred and Seventy-Seven Days. Gli editori le hanno pubblicate questo mese. Hanno fatto scalpore. Il "New Yorker" ha dedicato un intero numero alla versione integrale. Le recensioni le hanno paragonate favorevolmente a Una giornata di Ivan Denisovic. Alan mi ha detto che Anthony Hopkins lo impersonerà nella riduzione cinematografica. Credo che, al momento, la sua uni-
ca incertezza sia se gli daranno il Nobel per la pace o per la letteratura.» Sorrise. Scosse la sigaretta, e la cenere cadde sul pavimento accanto al suo piede destro. «Allora avete ricominciato a parlarvi» disse. «Sì. Alan mi ha abbracciata e perdonata. Ero molto commossa, anche se è accaduto in diretta all'interno di uno studio televisivo.» «Che cosa ne è stato del tuo terapista?» Feci spallucce. «Come stanno gli altri, Jane?» «Paul sta bene. Ha realizzato una versione completamente rivista del suo documentario. L'hanno venduta in tutto il mondo. In questo istante, è a un festival televisivo a Seul.» «Bene. L'originale mi era parso un po' approssimativo.» «Non ho dubbi, Claud.» «E come va il tuo pensionato, Jane? Funziona?» «Non proprio, ma abbiamo la nostra terza data di inaugurazione ufficiale, e a differenza delle altre due non è ancora stata annullata. Sono ottimista.» «Sono contento di saperlo, Jane. È un buon segno. È un progetto meraviglioso. Sono felice per te.» Un dolore mi si acuiva dietro gli occhi. «Che cosa mi dici della tua opera magna? Mi hanno detto che stai scrivendo un romanzo.» Rise. «È stato Griff a spifferartelo? So che non bisognerebbe mai mostrare un libro a nessuno finché è finito, ma non ha accettato un rifiuto.» «Di che cosa parla?» «È una specie di poliziesco, quasi un esercizio intellettuale. Devo riconoscere che lo trovo molto appagante.» «Qual è la trama?» «Si incentra sull'omicidio di un'adolescente.» «Chi è l'assassino?» «Questa è la parte interessante. Sto cercando di staccarmi dalla vecchia immagine trita delle ragazzine come creature dolci e passive. La vittima è una teenager manipolatrice, consapevole del suo fascino sessuale acerbo. È bellissima e seducente, ma sfrutta queste qualità come strumenti per danneggiare quelli che la circondano. Scopre i loro segreti e li ricatta.» «È per questo motivo che l'ammazzano?» «Non solo. Non può fare a meno di usare la sua avvenenza neppure sugli
uomini della famiglia. All'insaputa di tutti gli altri, comincia a circuire il fratello maggiore.» «Come?» «Sai come vanno queste cose, un'occhiata qui, una carezza lì, un'aria di complicità, momenti di civetteria. Uno degli elementi che sto tentando di catturare è la transizione da una fase in cui le relazioni familiari sono innocenti alla fase in cui un comportamento affine assume una connotazione sessuale, perché la ragazza è diventata un essere sessuale ed è conscia del proprio potere.» «Che cosa succede?» «Ottiene più di quanto si aspetti. Lo circuisce, così lui la costringe ad andare fino in fondo. La costringe a vedere il risultato logico del suo comportamento. Ma questa è la svolta sorprendente, capisci? Lei continua a usare la sua sensualità come forma di potere sul fratello, stuzzicandolo, umiliandolo. Quella che dovrebbe essere la sua punizione diventa un piacere per lei.» «Che cosa accade?» «È una di quelle faccende che sarebbero potute finire nel nulla, ma lei resta incinta.» «Non può abortire?» «Non affrontano l'argomento. Lei minaccia il fratello. Gli scrive un biglietto dicendo che racconterà tutto alla famiglia.» «Sembra che tu stia dalla parte dell'assassino.» «Devi sempre tenere in considerazione ogni sfaccettatura della storia. L'immaginazione è quello che ci rende umani, vero? O almeno è quello che continuavi a ripetere.» «Pensi di riuscire a convincere i lettori che una ragazzina meriti di essere uccisa dal fratello colpevole di averla messa incinta?» Si concesse un sorriso abbozzato e si strinse nelle spalle. «È una sfida artìstica.» «Come gli viene quest'idea?» «Sì, è interessante, vero?» Il suo viso era calino, riflessivo. «Facile uccidere, difficile evitare di essere scoperti. Il fratello soppesa due metodi contrastanti. Il primo consiste nell'ammazzarla sotto gli occhi di tutti, per esempio durante un litigio. Alla peggio, l'assassino riceverebbe una condanna breve; se è fortunato, potrebbero anche non incriminarlo. Ma è una soluzione banale. Mi serviva...» tacque, improvvisamente senza parole. Schiacciò il mozzicone sotto la suola e si accese un'altra sigaretta. «Voglio
creare un personaggio che uccida la sorella quasi per una questione di decoro. Ovviamente lei l'ha provocato, ma ha anche avvelenato l'intera famiglia. È una ragazza che scopre i segreti e li usa. Le famiglie devono avere i loro segreti, quei piccoli sotterfugi che le tengono unite. Questa adolescente intende distruggere una brava famiglia, una famiglia perbene. Forse molti concorderanno che sia meglio perdere una ragazza che perdere un'intera famiglia.» «Non mi pare che ci sia molto spazio per il punto di vista della teenager nella tua storia.» «Il suo punto di vista è chiarissimo: soddisfare i suoi desideri immediati, qualunque siano i danni arrecati a tutti gli altri.» «In concreto, come la uccide?» «È semplicissimo. Ci sarà una grande festa estiva nella casa di campagna della famiglia. Sarà pieno di gente. Nessuno noterà una scomparsa. Mentre il fratello organizza il party, ha un'ispirazione. Dà ordine di erigere un barbecue all'ultimo minuto e prende accordi con i costruttori affinché sia finito solo a metà la sera prima della festa. Dà appuntamento alla sorella a tarda notte. Lei ha una relazione con un ragazzo della zona, e il protagonista le suggerisce di dire alla sua compagna di stanza che uscirà con la sua nuova fiamma. La strangola e la sotterra a poca profondità nel punto in cui il barbecue verrà completato e rivestito di mattonelle l'indomani mattina.» «Il barbecue non sarebbe un posto ovvio in cui guardare?» «Il bello è che entrano in gioco altri fattori. Il romanzo è ambientato nel 1969. All'epoca, se un'adolescente difficile e irrequieta scompare, tutti danno per scontato che sia scappata. Quando vengono prese in considerazione possibilità più macabre è ormai trascorso molto tempo, e nella confusione della festa è difficile stabilire con esattezza quando la giovane è sparita. Gli ospiti ricordano tuttavia vagamente di averla vista. Il fratello aveva detto a molti artigiani locali e ad alcuni amici che la sorella stava svolgendo vari compiti durante il party. Naturalmente, quando iniziano i festeggiamenti, lei è già morta e sepolta. Ma la sorella aveva una cara amica della sua stessa età. Una ragazza dolcissima. Si assomigliano, si vestono nello stesso modo. L'amica non è molto conosciuta nei dintorni perché vive a Londra. Tutto quello che mi serviva (che serviva alla storia) era che uno o due invitati le confondessero, e il nascondiglio diventa non solo ottimo, ma addirittura perfetto.» Guardai oltre la spalla di Claud verso Barry, che aveva l'aria annoiata.
Evidentemente non amava i libri. «Ma io non ero alla festa, Claud.» «Sì, lo so. Theo mi ha raccontato tutto quando sono tornato dall'India. Questa è la parte che non compare nel romanzo. È una coincidenza troppo fortunata per essere credibile nella rigida struttura del mio libro. Come hai appena detto, non eri alla festa e non potevi fornire l'alibi fondamentale. Ma quando Gerald Docherty ha attraversato il ponte sul Col domenica 27 luglio mentre andava a smontare il tendone, tu c'eri, e assomigliavi a Natalie. Non solo avevi sviato ancor più l'attenzione dal luogo di sepoltura di Natalie, mi avevi anche regalato un alibi così perfetto che nemmeno io avrei saputo inventarlo. Senza saperlo, sei stata mia complice nel creare un inganno infallibile.» «Perché mi hai sposata, Claud? Perché mi hai sposata e hai messo al mondo dei figli con me?» Per la prima volta, parve sorpreso. «Perché mi sono innamorato di te, tesoro. Non ho mai amato nessun'altra. Ti amerò per sempre. Sei unica. E volevo che tu amassi me. L'unica pecca del piano è stata la mia incapacità di persuaderti a continuare ad amarmi. Tutto è nato da quell'errore.» «Ed eri pronto a sacrificare Alan pur di sopravvivere. Il biglietto che hai infilato nel suo diario era davvero di Natalie oppure l'avevi falsificato?» «Era un messaggio che Natalie aveva mandato a me. Ho solo dovuto strappare il foglio per eliminare il "Caro Claud" o la formula iniziale equivalente. Non intendevo sacrificare Alan. Hai sempre sottolineato la sua natura teatrale. Ho visto la piega che avevano preso gli avvenimenti e ho dato loro una piccola spinta. Ha accettato il ruolo confessando. E da quanto mi hai raccontato, immagino che non sia mai stato più felice. Non ne vado fiero, però, se è questo che intendi. Temo di averlo considerato un modo per riaverti, e forse questo ha offuscato la mia lucidità. È stato quello lo sbaglio, vero? Hai intuito che, se Alan era innocente, dovevo essere stato io a infilare il biglietto di Natalie nel suo diario.» Si piegò in avanti, e la sua voce si ridusse a poco più di un sussurro. «Vuoi sapere qual è il mio unico rimpianto, Jane?» Non risposi, restai immobile. «Se l'avessi scoperto mentre eravamo ancora sposati...» Corrugò la fronte, scuotendo la testa. «Non volevo dire sposati, volevo dire quando stavamo insieme, davvero insieme, allora avresti capito. No, non dire niente. So che avresti capito. C'è solo un'altra cosa che voglio aggiungere, perché
so che non verrai più a trovarmi. Non fa niente, Jane. Non mi importa niente di tutto questo. L'essenziale è che ti amo ancora. Non mi hai detto che cosa pensi di me, e forse è il massimo che possa sperare di ottenere. Ricorda Jane, la famiglia e i nostri due figli, quello è il regalo che ti ho fatto. Vivrai sempre nel mondo che ho costruito per te.» Mi sfiorai il badge. Mentre Barry mi accompagnava fuori, evitai lo sguardo di Claud. Nessuno dei due parlò. Griffith mi condusse di nuovo lungo i corridoi fino all'ingresso, dove mi tese la sua grossa mano. «Arrivederci, signora Martello. Se può esserle di consolazione, io...» «Arrivederci. Grazie.» Uscii, e la porta si richiuse alle mie spalle con un lieve clic. Mentre ero dentro, il tempo era cambiato. Il sole splendeva in un cielo che, tra le strisce di nuvole, era quasi turchese. Le poche foglie secche che pendevano ancora dagli alberelli lungo il vialetto scintillavano. Mi tirai indietro i capelli con entrambe le mani e alzai il viso verso la luce, godendomi l'aria tiepida con gli occhi chiusi. Dopo qualche secondo, il rumorio nella mia testa si placò. «Ecco fatto, Natalie» dissi ad alta voce. «È finita.» Poi: «Vorrei che fossi ancora tra noi. Mia sorella. La mia amica». Scesi piano i bassi gradini lastricati, camminando tra le siepi e le aiuole vuote e ordinate, quindi mi fermai di nuovo. Nel parcheggio, una minuscola figura con un ingombrante montgomery, il cappuccio appuntito come quello di un folletto, piroettava in un raggio di sole. Si arrestò, vacillò e sedette di colpo mentre il suo mondo continuava a vorticare. Un giovanotto con ispidi capelli biondi e un pesante pullover che gli penzolava da sotto la giacca di pelle logora le corse incontro e la fece volare in alto. Fanny scoppiò a ridere", il cappuccio che le ricadeva all'indietro liberando una massa di capelli lucidi. Robert la gettò di nuovo in aria, quindi la appoggiò con delicatezza sull'asfalto e restò immobile, tenendola per le spalle. Caspar e Jerome avanzarono verso di loro; discutevano con espressione seria, e a un certo punto Caspar si arrestò e posò una mano sul braccio di Jerome. Si avvicinarono agli altri due e Fanny fece scivolare la mano in quella di Caspar, sollevando il pallido e solenne triangolo del suo volto verso quello del padre e pronunciando qualche parola. Jerome le tirò di nuovo il cappuccio sulla chioma ribelle. Poi mi scorsero e tacquero. Si voltarono verso di me e aspettarono: tre uomini alti e una bambina. Traendo un lungo respiro, scesi gli scalini per
raggiungerli. FINE