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STEPHEN GALLAGHER MENTE DI TENEBRA (The Crosskiller, 1989) Ad A., con i miei ringraziamenti PROLOGO 27 settembre 1963 Se davvero volete sapere come e dove cominciò questa storia, potrei dirvi che fu su un piccolo lembo di spiaggia deserta in un tratto della costa orientale, un pomeriggio della fine di settembre. È un inizio buono quanto un altro, probabilmente. Era un luogo dall'aspetto selvaggio, con le dune orlate da acquitrini salmastri e coperte di canneti, sullo sfondo del cielo grigio, con un immenso mare grigio alle spalle e qua e là qualche vecchio rotolo arrugginito di filo spinato, residuati delle difese del tempo di guerra. Ogni volta che il vento soffiava dal mare, tendeva a seppellire la strada costiera sotto una coltre di sabbia in movimento e, quando la situazione diventava abbastanza grave, dovevano mandare un vecchio bulldozer dell'esercito a rimuoverla dalla carreggiata per un tratto di tre chilometri o più. Dopo, la strada deviava leggermente verso l'interno, e lo spazzasabbia sollevava la pala e invertiva la direzione per rientrare; negli anni seguenti, le cicatrici curve delle sue tracce si potevano leggere sulla superficie della strada come impronte di dinosauro, che giravano sempre nello stesso punto e si portavano via ogni volta una fetta di banchina, perché il bestione era difficile da manovrare e l'uomo al volante non avrebbe potuto infischiarsene più di così. Per un bambino che guardava dalle dune, il tutto aveva l'aria di un rituale dal significato profondo. Ma del resto, intorno ai nove anni di età, non è sempre così? A bordo di un'auto diretta a sud sulla strada appena sgomberata, un commesso viaggiatore di nome Harry Waterson si stava chiedendo in che modo poteva recuperare la mezza giornata di ritardo accumulata sulla tabella di marcia. Ai margini dei suoi pensieri, come due sconosciuti pazienti in attesa di essere ricevuti, c'erano la consapevolezza di avere 33 anni e l'insoddisfazione di quello che era diventato. La sua giacca era appesa al gancio nel retro della macchina, le sue nocche erano strette sul volante, e
quando guardava nello specchietto tutto quello che vedeva dietro di sé era una fetta sottile di mondo dietro un orizzonte di cartoni di Toffee Button. Trasportando quegli stessi cartoni attraverso il marciapiede alle undici del mattino, mentre un bottegaio lo guardava dalla soglia, era fin troppo facile avvertire gli occhi del mondo puntati su di sé e sentirsi alto venti centimetri. Aveva un bel pensare a tutti i lati positivi della sua vita, ma non serviva a niente. Aveva una macchina gratis. Aveva la commissione. Aveva una casa di proprietà del comune e due figli che amava, ma che di rado vedeva svegli, e una moglie che senza dirlo a voce alta riusciva lo stesso a far trasparire la convinzione che lui si prendesse tutte le ghiottonerie del buffet della vita senza portarne a casa nessuna. Quello che avrebbe desiderato davvero era diventare pilota di aerei da caccia, ma quando la guerra era finita lui andava ancora a scuola. Anche se fossero riusciti a prolungare il conflitto finché lui fosse cresciuto, poi avrebbe dovuto affrontare il problema della sua scarsa abilità in matematica e quello della sua vista, ancora più scarsa. Gli altri ragazzi dicevano sempre che se Harry senza occhiali era in grado di vedere appena fino alla punta del pistolino, almeno sapeva contare fino a 11. E quanto a spirito combattivo, potevi provocarlo all'infinito, e lui non faceva altro che evitare il tuo sguardo e assumere un'aria terrorizzata fino a quando non lo colpivi, se avevi lo stomaco di farlo dopo un'esibizione così penosa. Quando aveva confessato di voler volare sugli Spitfires, era stata la prima e l'unica volta che aveva lasciato uscire alla luce del sole uno dei suoi sogni; due giorni dopo, era andato a lavorare per lo zio. Harry non si era mai imbattuto in un cadavere, prima di allora. Una volta aveva visto del sangue sull'asfalto dopo un incidente stradale e si era sorpreso perché non era affatto rosso, ma scuro e vischioso come una pozza di caffè nero. E un'altra volta prima ancora, quando era bambino, la madre lo aveva mandato a fare una commissione in un polveroso negozietto di roba usata in una via secondaria vicino a casa; non avevano risposto al campanello e lui aveva aspettato un po', ma, dato che non compariva nessuno, si era fatto avanti fra vecchi mobili sudici e carrozzine da bambini simili a carri funebri, per vedere se gli riusciva di trovare qualcuno nel retrobottega. Là, in un alloggio angusto non più illuminato né meglio arredato del negozio, si era trovato di fronte a una bara lasciata incustodita su due cavalletti. Era lucidissima, le maniglie erano di metallo lucente e sul coperchio c'era una corona di crespo nero e gigli. Fuggire? Per un paio di minuti, mentre attraversava il negozio e usciva in strada, aveva creduto di vola-
re davvero, dopo tutto. Quello, e l'incidente, erano state le occasioni in cui era arrivato più vicino a guardare la morte diritto negli occhi aridi e opachi. Fino a quel giorno. In realtà ci mancò poco che non accadesse prima di quanto era stato stabilito dal destino, perché stava guidando sovrappensiero e aveva schiacciato in ritardo i freni, scorgendo il bambino in bicicletta. Il bambino stava fermo proprio al centro della strada e lo guardava in faccia, tenendo la bici di traverso come uno scudo, e mentre i freni si inchiodavano, Harry, con orrore profondo, ebbe l'impressione che avrebbe slittato per tutta la strada e il bambino sarebbe morto. Il bambino lo fissava serio, con un'espressione addolorata e distante che non aveva niente a che fare con la paura di essere investito; era solo un bambino, e cosa ne sapeva del tentativo di cavare ancora un paio di migliaia di chilometri da gomme quasi lisce, o della sabbia asciutta che poteva rendere la superficie stradale scivolosa quasi quanto una chiazza d'olio? Lui viveva in un mondo dove la terra poteva parlare e le statue potevano muoversi, ma se ti piantavi davanti a una macchina guidata da un adulto, quella doveva fermarsi. Harry sapeva che un guidatore esperto avrebbe potuto fare altre manovre, ma neanche per tutto l'oro del mondo sarebbe riuscito a ricordare quali. L'unica soluzione che gli venne in mente fu pigiare sui freni più forte, e poi ancora più forte, come se la forza di volontà potesse da sola farlo fermare in tempo. La parte posteriore della macchina cominciò a sbandare. Il campionario sul sedile di dietro si spostò. Harry ebbe quasi l'impressione di sentire già il rumore, prima la bicicletta e poi un tonfo, come un pugno assestato contro un quarto di bue. Ma forse la forza di volontà fu sufficiente. Slittando con grazia, l'auto si fermò a meno di un metro dal bambino, e quello spinse avanti la bici e l'appoggiò con calma contro la griglia del radiatore, come se la Ford l'avessero messa al mondo apposta per quello. Harry si chiese se un paio di uomini forzuti con un piede di porco sarebbero mai riusciti a staccargli le dita dal volante, e se lui stesso avrebbe mai avuto la forza di camminare di nuovo senza farsi sorreggere. Ma in quel momento il bambino gli fece segno di seguirlo, poi si voltò e s'incamminò verso le dune. Harry staccò le mani dal volante. Stava letteralmente tremando. Tirò un respiro profondo, e si sentì meglio. Il bambino evidentemente si aspettava che lo seguisse, e non si era nemmeno voltato a guardare indietro. Lui non poteva ripartire perché c'era
quella dannata bicicletta appoggiata al muso della macchina, Dio santo. Aprì la portiera e fece per uscire, pensando che come minimo poteva togliere di mezzo quell'arnese scaraventandolo fuori dalla carreggiata in modo che il ragazzo lo ritrovasse al suo ritorno, ma poi, quando scese, il sellino e il manubrio scomparvero di colpo sotto l'orizzonte del parabrezza e si sentì uno schianto, mentre la bicicletta scivolava sull'asfalto. Il bambino era quasi sulla cresta della prima linea di dune, quando il rumore lo raggiunse. Si voltò a guardare Harry, poi lo chiamò di nuovo con un gesto. E riprese a camminare. Harry non sapeva che cosa fare. Si trovava nel bel mezzo di una zona disabitata, e nel retro della macchina aveva tutto il campionario. Oltre alla solita roba, aveva due grosse scatole di Babbi Natale e pupazzi di neve fatti di cioccolata che doveva cercare di affibbiare ai clienti abituali anche se la stagione era appena iniziata, oltre a pacchetti promozionali e adesivi pubblicitari per un paio di prodotti che non erano andati troppo bene durante l'estate. Qualche ragazzino grasso con i denti cariati in meno nella zona di Harry, e lui era nei guai. Povero Harry. Povero, miope Harry, alto venti centimetri. E poi pensò: "Al diavolo tutto", e con un assoluto senso di sollievo sbatté la portiera e s'incamminò verso le dune per seguire il ragazzino. C'era una specie di sentiero largo, fatto di traversine ferroviarie sepolte sotto la sabbia. Per lo più erano sommerse, ma una ogni tanto era leggermente inclinata, cosicché i bordi affioravano e formavano uno scalino. Ai lati, la ginestra spinosa cresceva così fitta che un bastone lanciato là in mezzo sarebbe rimasto in piedi. Harry arrivò in cima alla prima linea di dune basse e si fermò a cercare con gli occhi il bambino; vide che aveva lasciato il sentiero ampio e stava seguendo il margine della sterpaglia lungo la cresta più alta davanti a lui. Quel sentiero era più molle e battuto, e più faticoso. Harry dovette fermarsi dopo un minuto a riprendere fiato. Aveva lasciato la giacca in macchina ed era in maniche di camicia, e la brezza marina penetrava tagliente attraverso il cotone. A circa tre chilometri di distanza si trovava la più vicina delle grosse navi da carico, una dell'interminabile processione in attesa del pilota per circumnavigare il capo ed entrare nella baia sbiadita dalla luce e dalla lontananza al punto che quella nave e le altre parevano esistere in qualche altra zona della realtà Più vicino, la marea in ascesa cominciava a coprire le fasce alternate, chiare e scure, della linea costiera. Anche il bambino si era fermato, e lo guardava.
Harry alzò una mano per segnalare che era pronto a proseguire, e il bambino si voltò. Scesero in mezzo a due creste non troppo alte che in realtà erano recinti sepolti, con i paletti che sporgevano appena come punte di ossa di animali. Rifiuti e fogli di vecchi giornali che erano rimasti impigliati come nei rebbi di un rastrello, e svolazzavano al vento. Il bambino aveva rallentato. Non sembrava stanco, ma pareva offrire a Harry l'opportunità di raggiungerlo. Harry cominciava a sentirsi a disagio pensando all'impressione che avrebbe potuto dare, e si domandava se non stesse commettendo un grosso sbaglio. Anche dopo tanto tempo, si sentiva ancora in imbarazzo a comprare bambole per le figlie, se non erano insieme a lui; un uomo della sua età, e solo, poteva essere facilmente scambiato per un molestatore di bimbe che faceva acquisti per innescare l'amo. Più si allontanavano dalla strada, meno si sentiva sicuro di sé. Laggiù non c'era nient'altro che sabbia e merda di coniglio ed erbe che pungevano come fruste mentre vi si spingeva in mezzo. Il bambino si era fermato di nuovo, su un altro rialzo del sentiero. Ormai avevano quasi raggiunto la riva del mare che saliva con l'alta marea, e adesso pareva attenderlo. «Che cosa c'è?» domandò Harry mentre risaliva a fatica il pendio finale, e la sua voce gli parve fioca e priva di autorità nel vasto spazio aperto. «Si è fatto male qualcuno?» «Non lo so» rispose il bambino, e si voltò a guardare giù dalla sommità della duna mentre Harry arrivava alla sua altezza. Harry si ritrovò davanti a una gola poco profonda dove sfociava in mare un torrente, così incuneato fra le dune da non essere neppure visibile finché non ci s'inciampava sopra. Le rive erano state consolidate con rocce e sassi, e alcuni di quei rinforzi improvvisati erano stati disfatti dai detriti alla deriva, cosicché un ventaglio di ciottoli si allargava a segnare il punto in cui fiume e oceano s'incontravano. Harry riconobbe subito la natura del posto. Era il rifugio segreto di un ragazzo. Qualcosa in lui reagiva al suo fascino, come se risentisse una lingua dimenticata da anni. Dava il giusto senso d'isolamento e di diversità e una punta di mistero, come l'aura che avvolge i macchinari in disuso. Laggiù, nelle acque turbolente, un uomo cercava fiaccamente di rimontare la risacca e approdare a riva. Era rivolto a faccia in giù nella marea che saliva. Indossava un giubbotto di pesante sargia blu, un indumento da marinaio, e il peso del tessuto zup-
po lo tirava a fondo. Quando le onde, esaurito il loro impeto, lo sollevavano, faceva un inutile tentativo per non farsi trascinare via dal risucchio, ma non gli restava un briciolo di forza. Veniva sollevato e trascinato indietro, sollevato e trascinato indietro, e le mani artigliavano la sabbia e la sabbia gli scivolava tra le dita. Era un fagotto anonimo, enfiato dal mare, e lo sforzo titanico che doveva aver fatto per arrivare a riva lo aveva svuotato delle energie necessarie per raggiungere la salvezza finale. Harry non esitò. Si tuffò di slancio, incurante dell'acqua e del freddo acuto e improvviso e, mentre si avvicinava, l'uomo sollevò una mano dall'acqua come in una supplica. Harry afferrò quella mano. La strinse. E la mano si disfece nella sua. La carne sembrò dissolversi al contatto. La mano scivolò fuori come da un guanto, bianca e liscia come un osso, lasciando Harry a stringere... cosa? Rimase paralizzato, immerso fino alle ginocchia nell'acqua gelida. Guardò la propria mano e vide la massa di gamberetti strappati al loro banchetto umano che si dimenavano e strisciavano e si dividevano e si disperdevano. L'uomo in mare venne di nuovo risucchiato via, e la sua mano semidissolta cadde nell'acqua. Harry stava gridando. Si sentiva come se avesse afferrato una manciata di larve vive. Se le scrollò di dosso barcollando all'indietro, e mentre si allontanava incespicando vide il corpo dell'annegato slanciarsi di nuovo verso la spiaggia, una marionetta in balia del mare. Sollevò per un attimo il viso come per prendere fiato, e mostrò una maschera nera dagli occhi a fessura che Harry non avrebbe più dimenticato, per il resto della sua vita. Il bambino sulle dune aveva osservato tutta la scena. Harry si sforzò di dominarsi. Il bambino era pallido in volto e serio, scioccato e diffidente ma non in preda al panico, e Harry all'improvviso fu cosciente di come doveva apparire agli occhi del bambino. Se ogni incontro era un'istantanea che si offriva a qualcun altro, quello doveva essere uno dei momenti in cui Harry voleva comparire al meglio. Dentro, si sentiva all'incirca la stessa età del bambino. Ma, per la storia, avrebbe dovuto cercare di mostrarsi un po' più sicuro. Il bambino disse: «È morto?» «Ci puoi scommettere» rispose Harry. «Vieni, andiamo ad avvertire qualcuno.» «Non lo tira fuori?»
Harry si voltò, anche se una parte di lui non aveva nessuna voglia di farlo. Il morto doveva essere stato portato alla deriva fino a quel crocevia di correnti, e lì veniva trattenuto e piluccato come un boccone non troppo gradito. Fino al cambio della marea, probabilmente sarebbe rimasto là. Harry disse: «Mi sono già avvicinato più di quanto ero disposto a fare. Andiamo. Come ti chiami?» «Nicky» rispose il bambino. Tornarono indietro sulle dune. Harry chiese al bambino come aveva fatto a scoprire il corpo, ma non prestò molta attenzione alla storia che ottenne in risposta; aveva il respiro sempre più affannoso, e stava solo cercando di ingannare se stesso, se pensava che sarebbe riuscito a non dare di stomaco da un momento all'altro. E continuava a strofinarsi la mano sui pantaloni, anche se fino a quel momento non se n'era accorto. A un tratto uscì dal sentiero e vomitò la colazione sulle ginestre spinose. Il bambino attese con pazienza, senza cambiare espressione né fare commenti. "Un giorno, Nicky" pensò Harry tornando sul sentiero; si sentiva infreddolito, distrutto e infelice e i vestiti bagnati lo facevano rabbrividire, e sapeva di non offrire un'immagine particolarmente brillante di sé, in quel posto. "Un giorno, quando sarai più grande, forse capirai." Poi riprese il cammino, scendendo verso il punto in cui la sabbia diventava più rada sulle traversine sepolte, e il bambino si avvicinò e lo prese per mano mentre percorrevano gli ultimi quattrocento metri fino alla macchina. Non era cambiato niente. Harry vide la lunga striscia nera della frenata sull'asfalto, ma quello era solo un dettaglio che non aveva notato prima, non qualcosa che era stato aggiunto. Il bambino prese la bicicletta e la raddrizzò, e Harry tirò fuori la giacca e se la mise addosso. Era tutta spiegazzata, nel punto in cui il campionario ci era caduto sopra. Il bambino disse: «Vengo con lei.» «In macchina non c'è posto.» L'improvvisa esplosione del bambino lo sorprese. «L'ho trovato io!» protestò, e le sue parole riflettevano indignazione piuttosto che collera. «È mio! Non l'ho fermata solo per farmelo portar via da lei!» Per Harry, fu come aver toccato inaspettatamente qualcosa che scottava. Osservò il bambino per un momento. E poi disse: «C'è un'area di servizio della Shell con un bar. Circa un chilometro e mezzo all'interno, sulla destra. Lo conosci?» Il bambino annuì.
«Bene, mi fermerò là. Tu puoi seguire la macchina e raggiungermi.» Dopo aver telefonato, Harry uscì nello spiazzo anteriore per attendere. Non sarebbe mai riuscito a capire come facevano posti così a rimanere attivi, e ne vedeva a bizzeffe; quello aveva le pompe sul davanti e un'officina di riparazioni con una fossa macchiata d'olio sul retro. L'edificio principale era stato dipinto di bianco e trasformato in una specie di trattoria di campagna. C'erano tendine alle finestre, tovaglie di plastica a quadretti sui tavoli, linoleum nuovo sul pavimento e un solo cliente, nascosto dietro un giornale a un tavolo d'angolo. Dal punto in cui si trovava, all'esterno, Harry non riusciva a vedere nessun'altra costruzione. E da quelle parti il terreno era piatto e per lo più incolto, quindi una sola occhiata copriva una bella distanza. Il bambino arrivò un paio di minuti dopo, quasi in piedi sul sellino e fermando la bicicletta negli ultimi metri. Aveva segnato un tempo piuttosto buono. Harry era stato costretto a fermarsi una volta, squassato da conati irrefrenabili quando l'annegato gli si era presentato ancora una volta alla mente, col viso annerito come gomma bruciata e la pelle gonfia e verdastra. Dopo un tempo che gli era sembrato lungo un'ora (e in realtà era durato meno di un paio di minuti) era riuscito a tirare fuori un fazzoletto per asciugarsi gli occhi e soffiarsi il naso. Si sentiva stranamente purificato, e in grado di proseguire; era come se avesse succhiato una ferita e sputato il veleno. E forse si sbagliava, ma non si sentiva affatto male come avrebbe creduto. Il bambino aveva il viso arrossato dopo la pedalata, gli occhi luminosi e i capelli irti come aculei di porcospino. «Viene qualcuno?» «Ho chiamato la polizia» gli disse Harry, e resistette alla tentazione di allungare una mano per lisciare i capelli del bambino come avrebbe fatto con un figlio suo. «Verrà un poliziotto di qui. Dovremo mostrargli dove cercare.» «Viene con la macchina della polizia?» «Penso proprio di sì.» Il bambino stava frugando nella borsa del sellino. «Gli farò vedere questa» disse, e un attimo dopo tirò fuori dal miscuglio di soldatini di piombo, palline da golf e cartine di gomma da masticare, un modellino Airfix. Era una Ford, lo stesso modello di quella di Harry, ma era stata dipinta con i colori di un'autopattuglia della polizia.
«Chi l'ha fatta?» domandò Harry. «Tu?» «Il mio papà» rispose il bambino, e la tenne sollevata alla luce per controllare l'interno. «Ha anche i sedili, e tutto il resto.» Sembrava quasi che stesse per succedere qualcosa. Mentre il primo impeto di orrore si allontanava, Harry cominciava a sentire... be', era una sensazione simile a quella che provava quando le cose gli andavano per il verso giusto. C'era pietà per la povera anima il cui cadavere gonfio si trovava laggiù, a ingrassare le creature marine, ma anche uno strano senso di vigore che si era insinuato nella giornata. Il suo piccolo programma pidocchioso non contava niente, ormai. Non poteva fare a meno di pensare ai momenti più interessanti che lo attendevano, alle storie da raccontare in seguito, al rispetto e, sì, all'invidia degli altri... e mentre i suoi occhi incontravano quelli del bambino oltre l'automobilina, si rese conto che anche lui stava pensando più o meno le stesse cose. «Non te lo scordare» lo ammonì il bambino. «Sono stato io a trovarlo.» «Non lo scorderò» rispose Harry. E poi si diresse verso l'auto, che aveva lasciato di fianco a una fila di cinque o sei pezzi da museo con le guarnizioni dei finestrini arrugginite e i cartellini Vendesi infilati sotto i tergicristalli. Ogni parabrezza era uno specchio quasi perfetto di nuvole e cielo. Quando tornò indietro un minuto più tardi, disse: «Prendi, Nicky» e lanciò al bambino un paio di sacchetti di Toffee Buttons. «Grazie» disse Nicky raccogliendoli al volo. Poi si sedettero uno accanto all'altro sul muretto laterale della stazione di servizio ad aspettare che arrivasse la macchina della polizia, e tutto quello che sarebbe seguito. PARTE PRIMA La caduta di Johnny Mays 1 Avevano lanciato una moneta per decidere quale auto avrebbero usato quel giorno. Fu così che finirono per viaggiare sulla vecchia Granada di Nick Frazier. «Allora, che te ne pare di quella?» chiese Johnny Mays, e Nick dovette voltarsi a guardare oltre il tettuccio della macchina per vedere a che cosa si riferiva. Nick stava facendo il pieno alla Granada, e Johnny era sceso per
appoggiarsi oziosamente alla fiancata nel vasto spiazzo della stazione di servizio. Aveva la cravatta allentata e le braccia incrociate. Johnny indossava dei bei vestiti, ma dava sempre l'impressione di averci dormito dentro; aveva l'aria di un gigolò eternamente di passaggio fra un salotto e l'altro, sciupato e vagamente stupito di scoprire che il mondo continuava a girare anche nelle ore del giorno. Nick seguì il suo sguardo verso la corsia vicina, dove una donna stava sganciando la pompa della super per rifornire una Porsche. Nick si chiese per un attimo di che cosa stava parlando Johnny, della donna o della macchina. Conoscendo Johnny, poteva essere sia l'una sia l'altra. «Troppa classe per te» commentò Nick, il che andava bene per tutt'e due. «Dici?» «Dico.» Johnny ci rifletté sopra. Allora Nick si rese conto che stava ammirando la carne, e non il metallo. L'opinione di Nick era che la donna fosse intorno ai 35 e combattesse contro il tempo con troppo accanimento; una bionda ossigenata con un'abbronzatura intensa, un completo pantalone bianco con le scarpe bianche e un po' troppo oro sulle mani. Si era voltata dalla parte opposta, forse di proposito, ma per quanto riguardava Johnny quello non aveva fatto che migliorare il panorama. Osservò: «Belle linee, ma non è classe. È soltanto denaro di città.» «Se lo dici tu» ribatté Nick. «In ogni caso non ce la faresti a mettere il naso oltre la porta.» Johnny ci pensò su un altro po'. E poi disse: «Sta' a vedere.» "Oh, merda" pensò Nick, e staccò la pompa. Non voleva vedere. Johnny era, virgolette, un pazzo bastardo, virgolette, e Nick se lo immaginava benissimo ad avvicinarsi a una bomba e darle un calcio, tanto per scoprire che cosa succedeva. Pareva che riuscisse sempre a cavarsela, in un modo o nell'altro, ma quando Johnny Mays era in azione non conveniva farsi trovare nei suoi paraggi. Mentre Johnny s'infilava le mani in tasca e si avviava pigramente verso la corsia vicina, Nick si diresse verso il gabbiotto per pagare il conto e ritirare la ricevuta. Se doveva succedere qualcosa, avrebbe assistito da lontano, e standosene al sicuro. Quello che in effetti scorse, guardando attraverso lo sportello sul lato opposto del banco, non fu granché. Quando la donna alzò la testa per rispondere a Johnny, il vento le schiaffeggiò i capelli sul viso. Se li scostò
con la mano libera. Non sorrideva. Lui accennò all'orizzonte di grattacieli e nuvole scure che si affollavano basse; o forse disse qualcosa sulla minaccia di un temporale, oppure le chiese come mai le era capitato di passare in quella zona desolata della città. Qualunque cosa stesse dicendo, pareva che non attaccasse. Quando Nick tornò, Johnny era seduto in macchina, col sedile leggermente inclinato all'indietro e il capo sul poggiatesta. Nick domandò: «Com'è andata?» «È un caso davvero triste» rispose Johnny. «Frigida come uno stronzo di orso polare, non c'è nessuna speranza per lei.» «Che cosa ti ha detto?» «Tu guida e basta. Prosegui secondo programma e aspetta.» «Che cosa?» «Te lo dirò mentre andiamo.» Così Nick avviò la Granada, e fece come aveva detto Johnny. Tecnicamente, erano soci alla pari. Ma Johnny conosceva il territorio, mentre Nick ci lavorava solo da un paio di mesi, e così Johnny tendeva a condurre la corsa. Mentre emergevano dall'ombra della pensilina metallica della stazione di servizio, la ricetrasmittente che Johnny aveva appoggiato sul cruscotto ebbe un sussulto improvviso e si risvegliò. Johnny scroccava sempre una radio al sergente, anche per un servizio di pattuglia in borghese, quando in teoria non era necessaria. Da qualche giorno Johnny sembrava irrequieto. Nick cominciava a pensare a lui come a un ragno, che aveva bisogno di sentire in qualche modo la ragnatela per sentirsi sicuro. «E adesso?» disse Nick mentre si fermavano davanti a quella che un tempo era stata una fila di negozi. Ormai era una terra di nessuno dall'aria poco promettente, con un cartellone della Enterprise Board piuttosto arretrato rispetto alla strada, dove la roba gettata dalle macchine non poteva raggiungerlo tanto facilmente. «Adesso aspettiamo» rispose Johnny. La Porsche uscì un minuto dopo. Johnny disse: «Virare ore sei, signor Sulu» e Nick ribatté: «Vuoi che la segua?» E Johnny si girò verso di lui e gli lanciò un'occhiata profondamente addolorata. «Sì» rispose «voglio che tu la segua. Preferibilmente oggi. Fatti sotto, voglio che ci veda nello specchietto.» Era una strada a quattro corsie che tagliava diritto attraverso i bassifondi, uscendo dal cuore della città, e non fu difficile per Nick trovare un varco
nella corrente del traffico e insinuarsi dietro la Porsche. Il lunotto posteriore non era granché nella vettura sportiva, ma Nick riuscì a vedere la donna che sbirciava nello specchietto e poi lanciava un'altra occhiata, in fretta, rendendosi conto che le persone dietro di lei erano qualcosa di più di semplici pendolari del tardo pomeriggio smaniosi di tornare a casa. Ormai cominciava chiaramente a domandarsi che cosa avevano in mente. Avrebbe voluto saperlo anche Nick. La strada s'immetteva in un sottopassaggio di cemento, luci gialle che saettavano sopra di loro come proiettili traccianti, e quando la Porsche cominciò a prendere velocità Nick le rimase incollato. Quella non era una zona della città dove ci si potesse augurare di essere bloccati da un guasto; spianata e sgomberata dai bulldozer durante il boom edilizio degli anni Sessanta, aveva ormai l'aria di un campo d'atterraggio abbandonato da tempo in attesa di apparecchi che non erano mai arrivati. Dopo quattrocento metri circa, sbucarono all'aperto sotto un cielo che, chissà come, era diventato più buio del tunnel che avevano appena lasciato; era abbastanza cupo da far scattare le fotocellule in alcune delle grandi lampade al sodio, che splendevano come nuove stelle su uno sfondo grigio ferro. La donna ormai cominciava a preoccuparsi. Stava cercando una via d'uscita. La ricetrasmittente era ammutolita quando erano scesi sottoterra, ma appena tornò in vita Johnny prese il microfono e fece una chiamata. Ci fu un intervallo di dieci secondi prima che la centrale rispondesse. «Urgono dati su una targa d'automobile» disse Johnny. «Nome, indirizzo e qualsiasi elemento degno di nota.» E poi, tenendo la radio in piena vista e chinandosi in avanti per guardare la targa della Porsche, lesse i numeri a uno a uno. Nick non poteva dire con sicurezza se la donna capiva esattamente ogni particolare, ma era certo che doveva essere sempre più tesa. «Stai esagerando» disse. Johnny sorrise felice. «Vero?» ribatté e, mentre aspettava che arrivassero i dati, frugò nelle tasche della giacca e tirò fuori il Libretto Nero. Fu mentre Johnny aggiungeva l'indirizzo della donna alla lista sulle pagine dell'agendina, che Nick vide la Porsche sterzare verso un'uscita all'ultimo momento. Nick avrebbe potuto starle dietro, ma un rapido controllo gli disse che Johnny non teneva gli occhi sulla strada. Lasciò andare la donna, e Johnny alzò la testa solo quando era troppo tardi per obiettare. Ormai aveva quel che voleva, in ogni caso. La Granada di Nick rimase sulla strada e la Porsche corse parallela per un tratto, prima di cominciare a
salire e deviare su una rampa sopraelevata che non l'avrebbe certo portata a casa, ma almeno avrebbe messo una certa distanza fra lei e i due tizi minacciosi sulla vecchia berlina ammaccata. Johnny concluse l'annotazione con uno svolazzo, chiuse l'agenda e fece scattare la pìccola penna a sfera che l'accompagnava. Nick domandò: «Perché non fai capire anche a me?» «Bah, niente di speciale... l'informazione può venire utile» rispose Johnny, e mentre riponeva l'agendina sorrise con aria divertita oltre il varco che si allargava fra le due vetture. Nick vide la bionda lanciargli una breve occhiata gelida. Aveva l'aria di essere stata una vincitrice di concorsi di bellezza, in passato. Nick pensava sempre che le donne di quel tipo non invecchiavano bene, tentavano di continuare ad apparire Regine di Maggio per tutta l'estate, fino a dicembre. Lei aveva ancora la bellezza, ma aveva anche tutti i segni della ex. Poi la rampa la portò in alto e oltre la loro visuale. Nick disse: «Certe volte ti spingi troppo in là, Johnny.» E l'altro rispose: «Nessuno volta le spalle a Johnny Mays finché non è lui a dire che va bene.» Nick non si curò di discutere. Riconosceva una causa persa quando la vedeva. Johnny si era messo d'impegno a crearsi nel reparto una fama di "pazzo bastardo", innalzandola quasi a livello di leggenda, e Nick era arrivato troppo tardi per pensare di poterla ridimensionare in qualche modo. E anche se la richiesta abusiva di dati sulla targa non era approvata, gran parte degli agenti di sua conoscenza l'aveva fatto, una volta o l'altra. Ai tempi in cui prestava servizio in uniforme, una società petrolifera aveva lanciato una campagna pubblicitaria che comportava l'esposizione di numeri di targa all'entrata delle stazioni di servizio. C'era una ricompensa in denaro per ogni automobilista che individuava la sua targa sulla lista; alcuni dei ragazzi avevano fatto buoni affari individuando i proprietari e accordandosi per ottenere metà della ricompensa in cambio dell'indicazione del punto in cui reclamare la somma, finché qualcuno non aveva deciso di sporgere denuncia. In seguito i cordoni erano stati stretti per un po', ma non c'era modo di rendere il sistema del tutto sicuro. Johnny stava guardando l'orologio. «Non avrei voluto che ci facesse tardare, comunque» commentò. Parcheggiarono la Granada in un riquadro d'asfalto ai piedi di un isolato di grattacieli. Il parcheggio era trascurato, ma molte delle auto in sosta e-
rano abbastanza nuove; c'era qualche garage a pagamento nei dintorni, ma la maggior parte della gente sembrava preferire che le vetture restassero all'aperto. I garage non erano altro che una comodità per le bande di ragazzini che riuscivano a entrare e a spogliare una macchina con professionalità impressionante, portandosi dietro anche gli attrezzi per il lavoro. Quella non era la zona più malfamata della città, ma vinceva a mani basse il primato per lo squallore; c'erano sette palazzi di quattordici piani disposti in una formazione megalitica che dominava l'orizzonte senza abbellirlo, e avevano tutto il fascino e la funzionalità di letti carcerari a castello. Il terreno che li circondava era un modello architettonico di viali d'accesso, piazzali vuoti e inutili pendii erbosi intersecati da sentieri non ufficiali tracciati con la cieca ostinazione dell'acqua che si rifiuta di scorrere verso l'alto. Le finestre a pianterreno erano coperte da tavole di compensato, con le assi coperte di scritte. Dove c'erano alberi, erano giovani e quasi tutti morti. «Beverly Hills ha molti punti in comune con questo posto» osservò Johnny Mays. Nick fece un rapido controllo per verificare che i mandati fossero in ordine prima di scendere dalla macchina. Mentre lui chiudeva a chiave le portiere, Johnny rimase fermo vicino alla Granada, stiracchiandosi e respirando con avidità una boccata d'aria. Qualunque cosa avesse in mente, Johnny Mays dava l'impressione di un uomo che si sentiva bene in sella. Guardò indietro verso la macchina un attimo prima di avviarsi. «Non sei riuscito a trovare niente di più vecchio?» «Non sono riuscito a trovare niente di più economico» rispose Nick. «Questo lo credo.» Girarono intorno all'edificio più vicino, dove gli appartamenti a livello della strada erano stati progettati per accogliere negozi e anche un ambulatorio medico, ma non erano mai stati altro che spazi echeggianti oscurità, rifiuti e puzzo di urina. Nel viale circolare all'ingresso dell'isolato era fermo un furgone bianco e, anche se non portava segni di riconoscimento to, Johnny disse subito: «Aspetta, quello è uno dei nostri.» Invece di entrare nell'androne passarono oltre, e Johnny fece un breve gesto per imporre il silenzio prima di piegarsi origliare vicino agli sportelli di carico privi di finestrini del furgone. Nick si era cacciato le mani in tasca e pestava i piedi sul terreno aspettando a qualche metro di distanza. In realtà non aveva freddo, ma quello era il genere di posto che non sembrava mai caldo. Da lì poteva guardare oltre il quartiere periferico e vedere in lontananza il profilo del centro della città, che pareva un mondo diverso,
migliore e quasi a portata di mano. Johnny stava sogghignando per qualcosa che aveva sentito. Alzò una mano, si mise in ascolto e aspettò ancora un attimo per essere sicuro di scegliere bene il momento. Poi martellò sugli sportelli con tanta forza che il furgone ondeggiò come in una tempesta. Qualche secondo di questo trattamento, e poi spalancò gli sportelli. Il quadro all'interno era di profondo choc e incredulità. Cinque o sei uomini erano seduti nello spazio angusto, tre per parte, con la bocca spalancata e le rivoltelle con i caricatori aperti sulle ginocchia. Johnny si girò verso Nick con l'aria di un naturalista orgoglioso che ha appena rovesciato un sasso scoprendo una massa di esemplari semiciechi e formicolanti, disse: «Guarda che bella accozzaglia. Pronti a ogni pericolo.» Poi accennò alle armi. «E più dotati di Rudolf Nureyev» «Il solito Johnny Mays» disse una voce dal fondo del furgone, e l'uomo più vicino allo sportello, che Nick individuò immediatamente come il capo della squadra, aggiunse: «Sta cercando di farti ammazzare?» «Figuriamoci» disse Johnny. «Questo è il CID. Quelli che sparano a qualunque cosa purché non sia il bersaglio.» Il capo della squadra rimase impassibile. Chiuse la rivoltella carica con uno scatto, e la ripose all'interno del giubbotto stile militare. Era sulla quarantina, con i capelli prematuramente argentei, e se non fosse stato per il naso rotto sarebbe sembrato un qualsiasi funzionario di mezz'età e di grado medio. Disse: «E cosa vogliono le "Teste di legno"?» «Abbiamo un pezzo di carta per il vecchio amico Winston su al nono piano. Mancato pagamento di alimenti per il figlio.» «Bene» disse il capo della squadra, scendendo dal furgone «potete mettervi in coda. Noi siamo pronti per un paragrafo 21.» Paragrafo 21, la legge sulle armi da fuoco; possesso di armi da fuoco da parte di persone con precedenti penali. Nick domandò: «Che cos'ha fatto?» «È stato visto davanti allo specchio in mutande mentre si esercitava a estrarre in fretta la rivoltella.» «Sapendo chi è il nostro Winston» disse quello che aveva riconosciuto Johnny, un uomo piuttosto basso e tarchiato che cominciava a perdere i capelli scuri «direi che nove volte su dieci estraeva l'arma sbagliata.» Nick chiese: «Visto da chi?» «Da una vecchia zitella che abita allo stesso piano nel palazzo vicino.» Nick alzò la testa verso gli edifici. Svettavano come pareti rocciose, e da
lì sembravano incredibilmente alti; gli spazi che li separavano erano freddi, immensi e desolati. «Come si chiama, quella?» ribatté. «Occhio di falco?» «No» rispose il capo della squadra mentre l'ultimo uomo scendeva dal furgone. «Si chiama "Usa il binocolo". Ci state anche voi, o volete aspettare in macchina mentre i grandi lavorano?» «Ci stiamo» disse Johnny senza esitazioni. Il capo della squadra lo guardò e disse: «Come te la cavi con un'ascia?» «Sono un artista.» Così a Johnny fu affidata l'ascia per abbattere la porta, ed entrarono nel palazzo tutti insieme. C'erano due ascensori, uno dei quali fuori uso. L'atrio era una squallida terra di nessuno e a Nick ricordava una lavanderia a gettone abbandonata. L'ascensore ci mise un secolo ad arrivare e, mentre aspettavano, l'uomo più giovane del gruppo disse: «Nick Frazier?» «Sono io» confermò Nick, e frugò nella memoria sperando che una luce seguisse la scintilla del riconoscimento. Ci arrivò quasi subito: il poligono di tiro centrale, all'ultima prova di qualificazione che aveva superato diciotto mesi prima. «Ancora sulla lista dei tiratori scelti?» «No. Ho pensato che tre anni fossero sufficienti per chiunque.» «Oh, non so» ribatté il giovane, non senza ironia. «Pensa a quello che perdi.» Quando le porte dell'ascensore si aprirono, fu per mostrare tre monelli che ridacchiavano, nell'atto di premere tutti i pulsanti di ogni piano; alla vista di otto sbirri dall'aria truce e di un'ascia rimasero di colpo muti e paralizzati e uscirono a passi rigidi, mettendosi a correre prima di arrivare alla porta. Tutti gli agenti si stiparono all'interno tranne uno, che fu lasciato al pianterreno per sorvegliare la tromba delle scale. Non c'era modo di intervenire sui comandi dell'ascensore, così salirono a scatti, un piano alla volta, cogliendo a ogni fermata un flash di un diverso pianerottolo col pavimento in vinile e le pareti di intonaco graffiato. Nick era proprio davanti a Johnny, il manico dell'ascia che gli premeva sul didietro come una sconveniente erezione. Verso il terzo piano, Johnny si protese in avanti e disse: «Non mi avevi detto di essere un tiratore scelto.» «Non lo sono» rispose Nick. «Non più.» Quando raggiunsero il nono piano, era come se la cabina salisse unicamente sull'onda della tensione e dell'energia emanate dai presenti. Nessuno
parlò quando uscirono, e non si sentiva volare una mosca mentre la squadra si metteva in posizione con le Smith & Wesson in pugno. Al pianterreno Nick aveva udito qualcuno che diceva di mandare dentro un cane, ma evidentemente il capo della squadra aveva deciso che non era il caso di aspettare un istruttore disponibile. Dopo un rapido cenno da parte di tutti, il capo parlò. «Andiamo a prenderlo» disse a voce bassa. Il primo colpo d'ascia di Johnny scheggiò la patina lucida di una porta che sembrava solida ma ovviamente non lo era; al secondo la porta si schiantò verso l'interno, facendo volare dappertutto pezzi di serratura e d'intelaiatura. Entrarono tutti insieme, tuffandosi con la rapidità di una squadra di paracadutisti; Nick, disarmato, era il penultimo, e Johnny lo seguiva con l'ascia. L'irruzione richiese poco meno di venti secondi. Le porte interne si aprirono sbattendo, e le stanze furono controllate in un attimo con l'aspro ammonimento: «Polizia!» L'appartamento era più grande di quanto Nick si era aspettato, e non era affatto sporco come gli spazi comuni dell'edificio. Una giovane donna apparve urlando sulla porta di una stanza e fu spinta fuori in fretta; una rapida ricerca nella stanza alle sue spalle rivelò soltanto un bambino di circa tre anni che piangeva. I tappeti erano rimanenze di magazzino, i mobili del tipo più economico sul mercato, e non ce n'erano a sufficienza per far assumere al posto l'aspetto di una casa; l'unica nota di colore era una pila di giocattoli Fisher-Price al centro del pavimento. Il giovane agente che aveva riconosciuto Nick si piegò per prendere in braccio il bambino, e il piccolo strillò così forte per la sorpresa e la paura che per un attimo Nick temette che gli vomitasse addosso. Avevano spazzato tutte le stanze come un'onda impetuosa, e il loro bersaglio non era da nessuna parte. «Io non gliela farei passare liscia a quella vecchia strega per avere sbirciato dalla finestra» osservò il capo della squadra senza rivolgersi a nessuno in particolare, ispezionando in fretta un soggiorno dominato da uno dei televisori a colori più giganteschi che Nick avesse mai visto. Era quasi nuovo, probabilmente preso a nolo, e Nick non aveva bisogno di vederlo acceso per sapere che l'immagine doveva essere sintonizzata male e l'audio insopportabilmente alto. Per contrasto, il panorama dalle grandi finestre sulle due pareti del soggiorno «si trattava di un appartamento d'angolo era addirittura spettacolare.»
Due della squadra erano passati in cucina e stavano controllando la dispensa in cerca di nascondigli, quando si sentì uno schianto in un'altra zona della casa. Proveniva dalla camera da letto principale, che si apriva sul corridoio vicino all'ingresso. E il frastuono non cessò, anzi divenne più forte. Tutti si lanciarono, come foche su un'aringa. Il frastuono maggiore era opera di un maschio di colore steso sul pavimento della camera da letto; il resto era prodotto da Johnny Mays, che troneggiava su di lui con l'ascia sollevata e ruggiva: «Avanti, dannato drittastro, dammi soltanto un pretesto!» L'uomo sul pavimento gridava e si dibatteva in preda a un parossismo di terrore, evidentemente convinto che Johnny Mays fosse Conan il barbaro in persona e che la sua testa stesse per perdere gran parte della profondità per guadagnare in larghezza. La parete alle loro spalle era semidistrutta, e i bordi frastagliati sporgevano all'esterno come se fosse esplosa per sputare un seme gigante. L'intera squadra del CID finì su Winston, scostando il letto per farsi largo; ciascuno si gettò su una parte del suo corpo, e lo girarono a faccia in giù mentre il capo della squadra si dava da fare con le manette. Winston non sembrava armato in alcun modo. Mentre Johnny abbassava l'ascia e indietreggiava, Nick si avvicinò per guardare meglio la parete. In effetti non era una vera parete; c'era una falsa sezione di muro, in legno, sistemata in modo da formare un'alcova con un paio di maniglie fissate all'interno. La tavola era stata ricoperta di carta da parati per combaciare con la superficie che la circondava - senza troppo successo, a giudicare dal modo in cui Johnny l'aveva individuata e abbattuta con un colpo solo - e, come tocco finale, c'era un poster di Michael Jackson che in quel momento pendeva a brandelli. «Non potete farlo» stava dicendo l'uomo, per lo più rivolto al tappeto. «Vi denuncerò.» «Risparmiati la fatica, Winston» disse il capo della squadra, tentando di infilargli le manette in mezzo alla mischia di uomini. «Non ho fatto niente di male, stavolta.» Da un punto nella calca giunse la domanda: «Come lo hai individuato, Johnny?» «Non l'ho individuato» rispose Johnny. «Ma di sicuro non avevo mai sentito un poster scoreggiare, prima d'ora.» Nick stava guardando nello spazio dietro la parete distrutta. Formava un nascondiglio profondo circa 75 centimetri e largo 90, appena lo spazio sufficiente per stare in piedi o seduto e nient'altro. Come per un assedio, erano
state predisposte a casaccio alcune provviste, compresi un secchio e un rotolo di carta igienica; tutto faceva pensare a una persona con un po' di immaginazione, ma non abbastanza. I precedenti di Winston erano reati giovanili e furtarelli, niente che potesse richiedere un genere di progetto così disperato. Nick vide alcune scatolette di pesce, una torcia elettrica, vecchi dépliants di viaggi e copie arretrate di Knave; e, nell'angolo dietro le riviste, qualcosa avvolto in un fagotto, che mandò un suono metallico quando lui lo sollevò. Nick gettò l'involto sul letto. Il tessuto era una camicia consunta, il contenuto una balestra senza corda e smontata, insieme a cinque o sei frecce. Winston, con i polsi ormai bloccati dietro la schiena, fu tirato in piedi per essere messo di fronte alle prove. «Non c'è niente di illegale» disse, ma Nick non aveva ancora finito. I pezzi della balestra giacevano sparpagliati sulla coperta ed era rimasto qualcosa di pesante nell'ultima piega della camicia; Nick tirò delicatamente il tessuto e lo scostò come per scoprire una ferita fresca. «E questo immagino che serva al bambino per giocare» disse, e cadde il silenzio, come se l'apparizione della pistola avesse risucchiato tutti i suoni e tutta l'attenzione nella stanza. Poi Winston protestò, in tono fiacco: «Quella non è mia» ma era abbastanza evidente, perfino a lui, che si trattava di uno di quei giorni nella vita in cui aveva la sorte contraria. Una rapida perquisizione nel resto dell'appartamento non rivelò altro. Al tonfo di cassetti che sbattevano e abiti che cadevano, il capo della squadra prese in mano la pistola di Winston per osservarla meglio prima di ficcarla in un sacchetto per le prove. Nick guardò da dietro la sua spalla. Era una vecchia Webley calibro 38, probabilmente dei tempi della guerra, e non era stata particolarmente curata. Anzi non pareva curata affatto, perché quando il capo della squadra l'aprì e fece ruotare il cilindro, disse: «Qui dentro c'è polvere vecchia di dieci anni. E Dio solo sa con che cosa è stata oliata.» E Johnny Mays, che si trovava dalla parte opposta della stanza e sfogliava una delle riviste del nascondiglio, disse: «Dato che non c'è un solo proiettile in tutta la casa, mi sembra tutto piuttosto ridicolo.» «Un po' come con i libri porno» osservò il capo della squadra. «A chiunque piace fare una gita nell'Isola della Fantasia, di tanto in tanto.» Quando lo portarono fuori, Nick si aspettava quasi di trovare una gran folla; ma quello evidentemente non era un isolato dove regnava uno spirito di solidarietà, perché la convivente dell'uomo aveva riunito soltanto cinque
o sei sostenitori che la spalleggiavano mentre aspettava fuori sul pianerottolo. Gli urli ininterrotti del piccolo che lei teneva in braccio echeggiavano nello spazio come i richiami dei delfini in un acquario all'ora del pasto; la donna era bianca e il bambino, ora Nick poteva vederlo, era meticcio, e piangeva e gridava inconsolabile. Nick non avrebbe creduto che potesse strillare più forte, eppure ci riuscì alla vista del papà che veniva trascinato via con i polsi legati dietro la schiena in mezzo a una folla di estranei. Qualcuno aveva bloccato l'ascensore a un altro piano - nessuno della squadra ebbe il dubbio che fosse a loro beneficio - e così dovettero scendere per le scale. Gli urli del bambino, insieme con qualche altra ingiuria ben scelta, li seguirono per tutto il percorso fino al pianterreno. Il capo della squadra controllò l'orologio mentre il prigioniero veniva caricato nel retro del furgone. Winston aveva l'aria così abbattuta da togliere un po' di esultanza alla cattura, e l'agente tarchiato con i capelli radi tentò di parlargli di calcio, di pallacanestro, qualunque cosa che potesse risollevargli un po' il morale. «So che ha buone intenzioni» Nick sentì Winston mentre lo diceva all'agente «ma non sono proprio in vena.» «Allora questo non ti farà stare meglio» disse Nick, e ficcò il mandato di comparizione dentro la camicia di Winston, facendo subito un passo indietro. Quando le porte del furgone si chiusero, lui stava guardando in giù verso l'estremità del foglio, come se fosse qualcosa di estraneo che gli strisciava sul petto. Il capo della squadra disse: «Sistemiamo questa faccenda, poi andiamo a mangiare. Che ne dite dell'indiana?» «Dipende se il padre lo viene a sapere» ribatté pronto Johnny Mays. Era presto per cenare, e il ristorante indiano era vuoto, a parte il gruppo di poliziotti riuniti intorno al grande tavolo. Più che da locale caratteristico, l'atmosfera e l'arredamento sembravano da impero coloniale in declino; rosso e oro, molte ombre, e camerieri in cravatta nera e panciotto, solenni come valletti reali a una caccia alla tigre. Si muovevano intorno al tavolo servendo i piatti in silenzio, sordi a tutte le chiacchiere e le battute su Gunga Din che passavano per le loro orecchie. Per gli uomini del CID era la fine dell'incarico e il momento di rilassarsi; per Nick e Johnny, di pattuglia in borghese, quello era solo un intervallo a metà del turno. Johnny stava cercando di sfruttare al massimo l'incidente dell'ascia. Per fortuna in quella compagnia le sue quotazioni sembravano alte; tutti intor-
no al tavolo parevano conoscerlo di fama, se non altro, e gli offrivano l'incoraggiamento di cui sembrava avere bisogno. Nick si ritrovò un po' emarginato. Sorrise alla storia di Johnny dei tempi in cui era in uniforme e con un gruppo di colleghi aveva spaventato a morte una donna poliziotto alle prime armi con una falsa chiamata sul secondo piano di un autobus buio, ma dietro l'entusiasmo generale avvertì qualcosa che non gli piaceva. Johnny Mays come numero da circo andava bene; ma bastava grattare sotto l'aria strafottente, e Nick aveva il sospetto che il vecchio, banale e insignificante Johnny avrebbe dovuto cominciare a fare a meno della sua dose regolare di luci della ribalta. E come in tutte le disintossicazioni, il vero dolore non sarebbe nato dalla mancanza del narcotico; sarebbe scaturito da quelle ombre sommerse che la droga aveva nascosto per tanto tempo, e che riemergevano alla luce a mano a mano che le acque si ritiravano. Nick si domandò che cosa avrebbe visto, se fosse accaduto. Ormai aveva trascorso due mesi in compagnia di Johnny, ed erano stati sufficienti per fargli scorgere ombre spaventose, laggiù sul fondo. Fermò uno dei camerieri mentre passava. «Signore?» disse il cameriere, e Nick indicò quello che aveva nel piatto. «Può dirmi che cosa c'è qui dentro?» «È una specialità della casa, signore.» «Ma che cosa c'è?» «Crostacei.» «Significa gamberetti e roba simile?» «Gamberi e gamberetti d'acqua dolce» rispose il cameriere. «Arrivano ogni giorno freschi dalla costa. C'è qualcosa che non va?» «Niente, grazie» rispose Nick, e al pensiero represso da tempo della mano di un morto che si levava dal mare, decise all'improvviso che per lui la cena era finita. Uno degli uomini del CID, un certo Frank, chiese a Nick e a Johnny che cosa avrebbe riservato loro il resto del turno; fu mentre s'infilavano il soprabito e salivano la scala dal seminterrato in una sera che non aveva più un barlume di luce. Il pregiudizio più diffuso sulle squadre in borghese, alimentato soprattutto da coloro che non vi avevano mai prestato servizio e che non avevano probabilità di entrarvi, era che gli agenti passassero tutto il loro tempo a scroccare da bere o portarsi a letto le ragazze. Nick rispose: «Il sergente ci vuole giù alla piscina per il turno serale, per
vedere se riusciamo a scoraggiare un tale che non riesce a nascondere un rigonfiamento sotto il costume ogni volta che le bambine gli nuotano vicino. Poi andiamo a pattugliare il centro in cerca di qualcuno che va dragando i marciapiedi. Quindi abbiamo i locali gay. Poi ci sono un paio di licenze per la vendita di alcolici da controllare e finalmente, se siamo fortunati, potremo tornarcene a casa.» Casa era una meta che Nick raggiunse verso le due del mattino, dopo una lunga notte che aveva rispettato le previsioni più di quanto lui e il suo collega si erano aspettati. Entrò in un appartamento buio e vuoto. Passando davanti al bagno colse una traccia di vapore profumato, e questo gli disse che l'aveva mancata per non più di un'ora. Accese le luci in cucina per controllare il tabellone di sughero. Lei gli aveva lasciato un biglietto. C'era scritto: Caro Nicky... Ho appena usato l'ultima acqua calda. Domani per favore chiama l'idraulico, a meno che non riesci a fare un incantesimo sullo scaldabagno. Ci vediamo al cambio di turno; giovedì spesa! Con amore, Jen Con uno sbadiglio, ripercorse il corridoio fino allo sgabuzzino e aprì la porta. Il serbatoio di rame occupava quasi per intero lo spazio da una parte all'altra, affondato nel rivestimento isolante come un grassone su un campo da football d'inverno. Lui dedicò un'occhiata alla scatola del timer sulla parete e vide che aveva smesso di funzionare circa cinque ore prima. Diede una gran botta alla presa, volarono scintille azzurrine, e il timer cominciò a ticchettare; dopo di che richiuse, entrò nella camera da letto di fronte e si lasciò cadere sulla sua parte del letto matrimoniale vuoto. Aveva le palpebre pesanti quando atterrò sulle lenzuola. Nel silenzio dell'appartamento, si sentiva in sottofondo il ticchettio del timer. «Incantesimo» mormorò Nick, prima di addormentarsi. 2 La prima volta che Nick aveva sentito il nome di Johnny al reparto era
stato nella sala operativa, poco dopo il suo trasferimento. C'era stata un po' di confusione sulle onde radio a proposito dell'organizzazione dell'inseguimento di un'auto rubata, e un agente esasperato era intervenuto per dire: «Sentite, questa è una caccia vera, o si tratta di un'altra storia di Johnny Mays?» E Nick aveva pensato: "Johnny Mays? Che sia lo stesso Johnny Mays?" Aveva avuto la risposta entrando nella sala agenti per il suo primo giorno di servizio in borghese. Ma il significato esatto di quello che aveva detto l'agente era diventato chiaro un po' più lentamente. Quel giorno era il loro anniversario come squadra, secondo Johnny; a Nick risultava che fossero sette settimane e tre giorni, e si domandava che cosa volesse dire Johnny. Era uno strano compagno. Di solito s'intendevano bene, e poi tutt'a un tratto lui se ne usciva fuori con qualche storia come quella, che non aveva nessun senso. A volte Nick si domandava se Johnny avesse semplicemente acquistato un bizzarro senso dell'umorismo negli anni trascorsi da quando lo aveva conosciuto. Per quanto lo riguardava, Nick avrebbe fatto volentieri a meno di quella nuova dimensione nei loro rapporti. Dovevano recarsi in un palazzo formato da appartamenti che si aprivano su ballatoi comuni, a circa ottocento metri dal centro, in cerca di un ragazzo di nome Dean. Il principale titolo del ragazzo per aspirare alla fama era stata l'efficiente devastazione di una Lancia rossa nel parcheggio custodito vicino al più grande locale notturno della città. Non lo aveva fatto da solo, ma era stato preso soltanto lui; non era riuscito a scappare perché aveva i calzoni calati fino alle ginocchia per via di quello che stava scaricando sul sedile di guida, quando l'addetto al parcheggio aveva proiettato il raggio di una torcia attraverso il parabrezza. A quel tempo aveva nove anni e non era perseguibile. Da allora aveva fatto progressi, dedicandosi più che altro a bravate e furtarelli, ma anche a metodi più ingegnosi di danneggiamento; l'ultima volta era stato sorpreso nell'atto di sganciare dal ponte di un'autostrada alcune bombe artigianali sopra le auto di passaggio, bombe consistenti in contraccettivi annodati riempiti fin quasi a scoppiare di solvente per vernici. Colpivano come sassi, esplodevano come uccelli investiti e lasciavano il bersaglio bisognoso di una nuova verniciatura. Eppure, diceva Johnny, a guardarlo gli si faceva credito della fantasia di una lumaca. Il palazzo era orribile, pensò Nick. Alto quattro piani, con una grande struttura a forma di arena simile a una torre di Babele poco sviluppata in
altezza. Entrarono nell'anfiteatro attraverso uno degli archi di mattoni che corrispondevano più o meno ai punti cardinali, e Johnny parcheggiò la Capri ben lontano dalla sporgenza dei ballatoi aperti lateralmente, che correvano tutt'intorno a ogni piano. La zona centrale era stata progettata come un giardino, ma ormai era poco più che uno spiazzo arido. Nick aveva conosciuto quartieri come quello ai tempi in cui prestava servizio in divisa. In pratica, erano inaccessibili alla polizia - le vie d'accesso si trovavano troppo in vista, ed esistevano troppe entrate e uscite - e avevano una netta atmosfera di frontiera. Gli ricordavano sempre la storia di quei topi che, costretti a vivere in condizioni simili, avevano cominciato a mangiare i loro piccoli. Quel luogo però era più desolato che affollato, dato che il programma era di far sgomberare gli inquilini entro la fine del decennio, e poi abbattere tutto con il bulldozer o vendere il terreno a uno speculatore privato, ma la sensazione di oppressione era esattamente la stessa. Johnny aveva fatto bene a prendere quella precauzione per l'auto. Mentre salivano una scala scoperta, Nick guardò fuori proprio nel momento in cui un televisore, col filo penzolante dietro come la coda di un aquilone, precipitava da uno degli ultimi piani. Johnny disse: «Che diavolo era?» E Nick rispose: «Mi è sembrato un Sony, ma andava troppo veloce per esserne sicuri.» Il tubo catodico implose schiantandosi a terra, tre piani più in basso, e dopo un istante a Nick parve che allo schianto rispondesse l'eco di un tuono lontano, proveniente dalla zona della costa. Si avvicinarono alla balaustra e abbassarono gli occhi per vedere il punto in cui il televisore esploso giaceva fra i sacchetti squarciati di rifiuti e il resto dell'immondizia che sembrava regolarmente buttata dall'alto. Nick si accorse che già cinque o sei bambini con la faccia sporca erano venuti a sciame per vedere qual era la novità. «Tempi duri» commentò Johnny, e ripresero a salire. Molti appartamenti del terzo piano erano vuoti, con porte e finestre sbarrate da assi. Quello al quale erano diretti sembrava di poco migliore; alla porta d'ingresso mancava metà del vetro, sostituito con un foglio di cartone inchiodato dall'interno. Bussarono senza ottenere risposta, ma Johnny si spostò alla finestra e guardò dentro. «È qui» disse un attimo dopo. «Pare che sia in casa.» «Che cosa vuoi fare?» «Be', non siamo certo venuti per ammirare il paesaggio.» Johnny tornò alla porta. Staccò il cartone e introdusse la mano all'interno
per girare la maniglia. Entrarono. Tecnicamente stavano violando la legge, perché la citazione che avevano con loro non conferiva i poteri di un mandato... ma in un posto del genere non conveniva attenersi troppo alle regole. Johnny, che era già stato lì, fece strada nella casa. La prima impressione di Nick fu di entrare in un angolo di tempo quasi dimenticato; la casa era stata ridipinta di recente e i mobili non erano vecchi, ma il gusto, dalla carta da parati in giù, rispecchiava tutto quello che gli faceva arricciare il naso da quando aveva compiuto sette anni. Dean era in cucina. Aveva un'aria nervosa e insicura, ma non del tutto sorpresa. Nick pensò che in un certo senso sembrava un ragazzo delicato. Erano quasi le quattro del pomeriggio, ma indossava i jeans e un pullover sopra il pigiama, e un paio di logore pantofole Pirelli senza calzini. In mano teneva un boccale scheggiato pieno di una specie di succo d'arancia dal colore sgargiante. «Dài, Dean» fece Johnny. «Non fare finta che non ci stavi aspettando. Dov'è tua madre?» «Fuori» rispose Dean. «Andiamo a parlare in macchina.» Dean si guardò attorno, incerto, apparentemente confuso; Johnny gli tolse di mano il boccale e lo posò sul ripiano del lavello. «Non avrai bisogno delle scarpe» disse. «Non andremo lontano.» Tornarono in fila indiana verso la macchina, col ragazzo al centro. Johnny non gli disse niente e Dean non parlò affatto: si limitò a trascinarsi, in uno stato di completa sottomissione. Soltanto alcuni dei bambini al pianterreno li videro passare. «Guida tu» disse Johnny a Nick, lanciandogli le chiavi mentre si avvicinavano alla macchina. «Dean e io abbiamo alcune cose da dirci.» Il sedile posteriore di una Capri era la stanza da interrogatori più angusta che Nick avesse mai visto, ma la mossa aveva uno scopo. Ora Dean era sul terreno di Johnny e sotto il suo controllo, e lo sapeva. Non poteva allontanarsi, non poteva chiedere aiuto. Poteva soltanto ascoltare, e fare quello che gli si diceva. Quando Nick fu al volante e cominciò a regolare lo specchietto, Johnny si protese in avanti e gli parlò sottovoce. «Portaci in giro lentamente e basta» disse. «Conosci i docks?» «Ci sono stato un paio di volte.»
«Per adesso dirigiti da quella parte. Lungo la strada ti dirò dove svoltare.» Fu un percorso di quasi tre chilometri, per lo più attraverso una parte della città che era già morta in piedi; in gran parte lungo una strada dove gli alti, tetri pub vittoriani d'angolo erano gli unici edifici originali ancora in uso. Anch'essi sembravano aspettare la propria ora, cullando sogni di pietra dei giorni in cui i marinai dei mercantili li affollavano e nessuna serata era completa finché non era scoppiata una rissa da qualche parte. Nick percorse la strada lentamente, guardando di tanto in tanto nello specchietto mentre Johnny parlava al ragazzo. Johnny sapeva quello che faceva. Nick avrebbe voluto soltanto non dover ascoltare. Johnny parlava a voce bassa, in tono pacato. Zittiva Dean ogni volta che cercava di aprire bocca, anche solo per rispondere a una domanda. Lo schiacciò. Il succo di quello che disse fu che il ragazzo era una creatura inutile, che non meritava nessuna considerazione, che non valeva nemmeno la pena di disprezzare, che tutta la sua vita era un libro aperto dove non c'era scritto niente di notevole. «Quello che sto tentando di dirti, Dean» spiegò «è che non sei altro che uno sputo per strada, che aspetta soltanto di essere calpestato. Un aborto di natura come te doveva essere affogato appena nato. Capisci dove voglio arrivare, Dean?» Dapprima Nick immaginò che il ragazzo se ne infischiasse, insensibile ai colpi come un quarto di bue; ma un'occhiata allo specchietto, quando sbucarono alla luce del giorno da un largo ponte di ferro, gli mostrò il viso di pietra del ragazzo rigato di lacrime riluttanti. La sua espressione non era cambiata. Johnny si piegò in avanti per un attimo. «Svolta a sinistra oltre il cancello» disse a Nick «e portaci fino in fondo.» L'entrata del dock consisteva in una garitta diroccata e in un cancello di ferro bloccato in posizione aperta, con le erbacce che crescevano in mezzo alle sbarre. La macchina sobbalzò passando su una parte rappezzata della strada, dove un tempo correva la ferrovia. Ora stavano percorrendo il molo, con le gru in disuso che si stagliavano alte sull'acqua; nessuna nave arrivava lì da anni, e il terreno fra la strada e il molo metteva in mostra una fila di moderne officine in mattoni e acciaio innalzate in fretta e affittate a buon mercato. Superarono un installatore di pannelli solari, un magazzino di ricambi per autocarri, una piccola ditta per la revisione di motori da refrigeratore. Le officine erano numerate e i numeri si esaurirono ben presto;
Nick oltrepassò edifici vuoti e lotti di macerie per tutto il percorso fino al lungo tratto dove il molo terminava, e lì parcheggiò all'ombra di un vecchio deposito di granaglie. Si fermarono. L'unico segno di intervento recente che Nick poteva scorgere era uno dei tanti cartelloni della Enterprise Zone, rivolto verso il largo fiume sonnolento dove non l'avrebbe visto nessuno, tranne i gabbiani che si libravano sospesi nell'aria come ladroni crocefissi. Johnny si sporse oltre il sedile e aprì la portiera dalla parte di Dean. «Ce l'hai un biglietto dell'autobus?» chiese in tono cordiale. Dean scosse la testa. «Peccato» disse Johnny. «Meglio che cominci a camminare, allora. Fra poco farà buio.» Stringendo fra le mani la citazione, Dean scese incespicando sui lastroni infestati di erbacce. Probabilmente avrebbe preferito uscire nudo e bagnato nel vento dell'Artico, pensò Nick, piuttosto che restare seduto un minuto di più vicino a Johnny Mays. Johnny disse: «Andiamo.» Nick esitò. Quello significava esagerare troppo. Si trovavano almeno a quattro chilometri, forse cinque, dalla casa del ragazzo, e Johnny aveva intenzione di lasciarlo laggiù in capo al mondo vestito per metà, senza scarpe, senza soldi. Una lezione era una lezione, ma qualcuno avrebbe dovuto tirare un freno, a quel punto. «Forza, Nicky-boy» disse Johnny. Nick esitò. Poi fece quello che gli aveva ordinato Johnny. E mentre lasciava andare la frizione per rimettersi in moto, Johnny si protese in avanti con le braccia incrociate sullo schienale. «L'errore più grave che si possa fare» disse a bassa voce «è cominciare a pensare che siano esseri umani.» Nick guardò nel retrovisore mentre tornavano indietro lungo il molo. Dean era una figura remota e solitaria sulla banchina, una silhouette di ragazzo sullo sfondo dell'acqua grigia e del cielo di un grigio ancor più cupo. Li stava guardando, e non si muoveva. Cominciò a piovere. Johnny domandò: «Dove vuoi mangiare, stasera?» La pioggia era cessata quando finalmente si fermarono di fronte al locale che Johnny aveva scelto. Ormai era anche sera inoltrata, e le strade lavate
dalla pioggia avevano uno scintillio elettrico riflesso di tutte le insegne al neon del centro. Johnny, di nuovo al volante, salì con due ruote sul largo marciapiede all'altezza di un incrocio dove quattro corsie di traffico erano allineate, col motore imballato in attesa che scattasse il semaforo. Da quelle parti c'erano un paio di grandi cinema, ed erano quelli a tirare gli affari e a costituire in un certo senso il centro vitale della zona; tutto il resto sembrava composto da ristoranti o discoteche o tavole calde, ed era quel genere di ambiente fatto di luci forti e di denaro facile che Nick aveva cominciato a conoscere piuttosto bene in compagnia di Johnny. Johnny attraversò la strada da solo ed entrò in un locale dove vendevano pollo fritto e che pareva dovere tutto, tranne il nome, al colonnello Sanders. Nick rimase in macchina, a giocherellare con la manopola del volume sulla ricetrasmittente di Johnny. Sembrava che fino a quel momento gli agenti in divisa - ovvero le "teste di legno", come il capo della squadra del CID li aveva rispettosamente chiamati il giorno prima - avessero una serata tranquilla. Ufficialmente Nick era uno di loro, e poteva essere rimesso in divisa in qualunque momento; ma per il resto stava sperimentando un tipo di libertà operativa che non aveva mai conosciuto prima. La gente continuava a prenderlo per un agente investigativo, il che non era vero, ma quella era una seccatura relativa. Il CID tendeva a rispettare l'orario di ufficio e a vedere più che altro la parte di dietro di una scrivania, mentre invece la sezione in borghese si muoveva per lo più di notte, e a livello di strada, e doveva assistere a spettacoli bizzarri e affascinanti a cui la maggior parte della gente non avrebbe nemmeno creduto. E dato che non esisteva un abbigliamento regolamentare, lui non era tenuto nemmeno a portare giacca e cravatta; gran parte dei vestiti che indossava non sarebbero stati fuori posto attorno a un falò di vagabondi. E nemmeno sopra. Johnny stava tornando, con due scatole e una manciata di tovagliolini di carta. Zigzagò in mezzo al traffico che in quel momento aveva il semaforo dalla sua, senza quasi guardare le auto che gli sfrecciavano intorno. Una che stava avanzando lentamente dovette frenare di colpo mentre lui attraversava, e il conducente suonò il clacson; Johnny gli lanciò un'occhiata di rimprovero, come un maestro severo, e non cambiò direzione né accelerò il passo. L'automobilista, un giovanotto rosso di capelli e di viso con qualche problema di acne, abbassò il finestrino e gridò qualcosa di incomprensibile all'indirizzo di Johnny. Ma lui ormai aveva raggiunto la Capri, e lo ignorò. «C'è qualcosa da pagare?» chiese Nick mentre Johnny si sistemava e gli
passava una delle scatole. «Non nel mio territorio. Hai dato un'occhiata alla sala giochi laggiù?» Nick non lo aveva fatto, ma rimediò subito. Il semaforo scattò, il traffico avanzò di colpo di alcuni metri, e poi il semaforo passò di nuovo al rosso come se tutta la faccenda fosse stata uno scherzo crudele. La sala giochi a cui Johnny aveva accennato era di fronte a loro, dalla parte opposta della strada, strizzata fra un night club ridipinto molto alla buona e un buio bar per camionisti. Da lì sembrava una lunga caverna dal soffitto basso stipata di macchinette mangiasoldi, apparentemente senza fine; alla luce del giorno avrebbe fatto l'effetto di una sacca di oscurità, ma in quel momento sembrava una porta che si apriva sulla luce. Da qualche parte all'interno, Nick vide una neon rosso lampeggiante che diceva GETTONI. «A che livello metteresti la clientela?» «Niente di speciale» rispose Nick. «Le solite Lolite e i soliti vecchi sporcaccioni.» «Non loro. Lei.» Nick impiegò un momento per focalizzare il punto che Johnny stava guardando; sulle prime pensò che si riferisse a una donna di spaventosa grassezza che se ne stava vicino all'ingresso con un mucchio di sacchetti di plastica ai piedi, impegnata con una delle macchinette più grosse e rumorose. Ma poi dietro di lei sbucò un'altra donna, e Nick cambiò idea. L'ultima arrivata era più giovane, con jeans aderenti e camicia a quadri e un enorme mazzo di chiavi appeso alla cintura. Il donnone le aveva detto qualcosa, e lei avanzava con il fianco proteso in fuori in modo da poter raggiungere la macchinetta con una delle chiavi sull'anello; ci doveva essere una leva inserita nei meccanismi interni che in quel momento entrò in funzione, perché le campanelle e il chug-chug-chug delle monete che cadevano si sentì fin dalla parte opposta della strada. Non poteva esserci alcun dubbio. Lei corrispondeva al tipo; c'era qualcosa d'intangibile in certe donne, qualcosa di comune a tutte che Nick non sapeva definire, ma che faceva scattare qualcosa in Johnny Mays. E lui aveva imparato a riconoscere lo scatto, quando Johnny fissava lo sguardo su di loro e non riusciva a distoglierlo. La donna sulla Porsche faceva parte dello schema; così pure la ragazzina sedicenne alla cassa del magazzino DIY, dov'erano andati perché Nick voleva un nuovo interruttore a tempo per l'appartamento; e così, ora, quella commessa dall'aria ordinaria in un locale squallido e rumoroso che sembrava frequentato da un esercito di personaggi di Disney ingaggiati per una farsa a base di kung-fu.
Johnny disse: «Secondo te è una puttanella?» «No» rispose Nick, aprendo la scatola che aveva sulle ginocchia e sbirciando il contenuto, che sembrava tutto ossa e pastella. «Lavora lì.» «Sì, ma scommetto quello che vuoi che non vende soltanto gettoni. Non ti va di provare a chiedere il prezzo, tanto per vedere se riusciamo a fare un arresto?» «Non stasera, per favore.» Tirò fuori dalla scatola una cosa che, alla scarsa luce disponibile, sembrava un passero morto e fritto. «Questa roba è terribile.» «Lo so» rispose Johnny. «Ho avuto una discussione con il cuoco.» Nick stava per suggerire di gettarla ai vagabondi nel parco e andare a cercare qualcosa di meglio, ma poi lanciò un'occhiata a Johnny. Non aveva nemmeno aperto la scatola. Aveva estratto l'agendina nera, e la teneva appoggiata sul coperchio annotando il numero di targa dell'auto che adesso era in testa alla fila, in attesa che il semaforo scattasse di nuovo. Era avanzata di cinque posti, ma non c'erano dubbi che fosse la macchina del ragazzo con i capelli rossi e la faccia con l'acne. Nick perse di colpo l'appetito. «Non ci crederai» disse Nick a Jennifer. «Ma tiene un libro nero.» E Jennifer rispose dalla stanza accanto: «Non lo fanno tutti?» «Uno vero, voglio dire. E lo usa, anche.» «Per cosa?» «Tutto e di tutto. Una volta preso il numero di targa, può procurarsi il nome e l'indirizzo. Non sono sicuro di voler sapere che cosa fa dopo.» Aveva quasi avuto l'occasione di sbirciare di nascosto l'agenda di Johnny alla fine del turno, che una volta tanto si era concluso più o meno in orario. Johnny se n'era andato da qualche parte per un paio di minuti, lasciando la porta dell'armadietto spalancata e l'agendina in bella mostra sul ripiano in alto. Era logora e malandata, e aveva alcuni ritagli di carta inseriti fra le pagine. Ma Nick aveva esitato e Johnny era riapparso, chiedendogli se gli interessava un club aperto fino a tardi che nel bar aveva un retrobottega, dove gli agenti smontati dal servizio erano i benvenuti quando volevano rilassarsi. Nick aveva controllato l'orologio, aveva scoperto che poteva ancora arrivare a casa e vedere Jennifer prima che lei uscisse, e aveva tirato fuori una scusa rimandando a un'altra occasione. Jennifer disse: «Come puoi essere sicuro che fa davvero qualcosa?» «In effetti non ne sono sicuro» rispose Nick. Era seduto al tavolo della
cucina, mentre Jennifer si spostava dalla camera da letto al bagno e viceversa in vari stadi di nudità. Sembrava una sequenza di scatti semi-erotici che non avrebbero portato a nulla, perché Jen sarebbe uscita di casa entro dieci minuti e, come al solito, aveva rimandato tutti i preparativi all'ultimo momento. Nick si rese conto che aveva studiato per gran parte della serata, soprattutto perché i libri e i raccoglitori di fogli occupavano ancora quasi tutta la superficie del tavolo; prese in mano la copia di A Level English Law e sfogliò in fretta le pagine in modo che gli sventolassero il viso. No, non sapeva con certezza se Johnny Mays usava davvero le informazioni raccolte... ma non era un argomento sul quale sarebbe stato disposto a scommettere. Aggiunse: «Lui tenta di scoprire qualcosa su qualsiasi donna che lo colpisce fisicamente, non importa se loro sono interessate o no. Questo ti sembra innocuo?» «Mi sembra malsano.» Jen saettò di nuovo attraverso l'ingresso. Era alta, con le gambe lunghe, aveva 25 anni, e quando lasciava sciolti i capelli scuri - cosa che non faceva spesso - il modo in cui le ricadevano sulle spalle smuoveva qualcosa nel petto di Nick. Era una compagna fantastica, anche se non erano stati molto tempo insieme negli ultimi due mesi. Probabilmente era anche la donna più seria e più ambiziosa che avesse mai conosciuto; sotto la bellezza da ragazza della porta accanto e il senso dell'umorismo, c'era dell'acciaio. Gli disse: «Se ti preoccupa tanto, dovresti fare rapporto su di lui.» «Non so. Non ho niente di concreto, e la vita è troppo breve. Nessuno ama una spia. E non è soltanto questo...» «Da quanto tempo vi conoscete?» In quel momento era ferma sulla soglia; perfino dall'ingresso era riuscita a leggergli in faccia la vera fonte del suo conflitto interiore. Era pronta a uscire, con l'uniforme di seconda scelta, perché la mattina precedente un bambino di cinque anni terrorizzato per un caso di violenza aveva fatto pipì su quella più nuova mentre lei lo portava in braccio verso l'auto di pattuglia. Nick lasciò cadere il libro di diritto, quasi con un senso di colpa. Da quant'era che lui e Johnny si conoscevano? «Fin da bambini» rispose. «E non era da queste parti. Poi, quando avevo circa quattordici anni, la mia famiglia si è trasferita all'ovest e non l'ho più rivisto finché non sono entrato nella sala agenti e l'ho trovato lì che mi aspettava. La più grossa sorpresa che abbia avuto da tempo. Aveva sentito dire che mi trasferivano all'altro capo del reparto e aveva armeggiato per
farci mettere nella stessa squadra. È piuttosto abile a ottenere quello che vuole. Lo è sempre stato. La sua famiglia possedeva parecchi soldi.» «Vuoi dire che era ricco?» disse Jen con un sorrisetto, per fargli capire che non diceva sul serio. «Forse non è poi così male, dopo tutto.» Ma quel mezzo sorriso era stato sufficiente a scacciare dalla mente di Nick il pensiero di Johnny Mays. Disse: «Che avrà mai di tanto sexy una donna in uniforme?» «Questa donna in uniforme va di fretta.» «Dannazione. Se tentassi di aprire un occhio verso l'alba, pensi che potrei avere fortuna?» «Anche se qualche ubriaco mi ha vomitato addosso?» «Non è questo il modo di parlare a un collega.» Jen inarcò un sopracciglio. «Che significa?» domandò. «Vuoi farmi capire che ti senti frustrato?» «No» rispose Nick «non preoccuparti per me. Finirò semplicemente col rubare biancheria da donna sui fili del bucato e sarò felice come una pasqua.» Ci fu un silenzio breve, quasi imbarazzato. E poi Jennifer disse, con una certa tenerezza: «Mi spiace, Nick. Le cose sono andate così, in queste ultime settimane.» «Lo so» disse Nick. Lei gli sfiorò la spalla, e lui le toccò una mano. Doveva essere un conforto, e allora perché gli faceva così male? Per via del tono di Jennifer, forse. Somigliava a quello che un genitore avrebbe usato con un bambino piccolo, tentando di spiegargli che il genere di regali di Natale che ricevevano i suoi amici non sarebbe stato esattamente l'ideale per il bilancio familiare. E questo lo riportò di nuovo a Johnny. Jen doveva aver guardato l'orologio della cucina. «È così tardi?» esclamò. «Devo andare.» «Ti accompagno alla macchina.» «Va bene» rispose lei «ma non dimenticare di nuovo la chiave. Ascolta, detesto toccare l'argomento, Nick, ma posso chiederti l'affitto? Ho una rata del mutuo che scade il cinque.» «È in una busta sul tabellone di sughero» disse Nick. «Ci sei passata proprio davanti.» Lei si girò a guardare. Il tabellone di sughero vicino alla porta della cucina era un tale caos di biglietti, promemoria e buoni rimborso che proba-
bilmente non si sarebbero mai ricordati di usare, che la busta di Nick si era in pratica confusa con lo sfondo. «È vero» disse lei. «Grazie.» «Non c'è di che» ribatté lui. Uscirono insieme nel parcheggio. L'appartamento di Jennifer si trovava al secondo piano di un condominio, niente di troppo costoso, ma il più lontano possibile dai grattacieli e dai palazzi con il cortile interno. Aveva le rifiniture in legno grezzo e le pareti interne bianche di una costruzione per uffici, e alla luce del giorno sembrava il dormitorio di un college di recente costruzione, tutto mattoni chiari e vetro, con il tetto piatto e giardinetti abbastanza curati. Dopo una settimana dal suo arrivo nella zona, Nick aveva messo un annuncio nella bacheca del posto di polizia, proponendosi come coinquilino; in origine aveva trovato alloggio in una pensione dove le stanze erano piene di porcellane orribili e gli "ospiti" - tutti uomini soli di mezz'età - consumavano i pasti intorno a un unico grande tavolo. Quando era uscito dalla camera la prima mattina e aveva trovato tre degli altri pazientemente in fila per usare il bagno, in vestaglia e con l'asciugamano sul braccio come camerieri, aveva deciso che ne aveva abbastanza. Jennifer aveva risposto all'annuncio, e Nick aveva trasferito la sua roba nella camera da letto degli ospiti che era libera; le loro indennità di alloggio messe insieme erano quasi sufficienti a coprire i pagamenti del mutuo della casa. Nelle settimane successive, la camera da letto libera era tornata pian piano all'abbandono iniziale. In quel momento, mentre percorrevano il vialetto al buio, Nick le stava raccontando qualcosa di più su Johnny Mays. «Non direi esattamente che i suoi erano pieni di soldi» spiegò. «Ne avevano più di noi, ma quello non era difficile. Mio padre trovava lavoro e lo perdeva con la precisione di un orologio a pendolo. Il padre di Johnny aveva una ditta di trasporti con un paio di pullman, cinque o sei camion e un paio di furgoni. Non avevano molto tempo per Johnny, così, pur di tenerlo tranquillo, gli compravano tutto quello che voleva. Qualunque giocattolo avessi io, il giorno dopo lui ne aveva uno più grosso e sgargiante e che aveva bisogno di batterie doppie. Non credo che la sua decisione di arruolarsi sia una coincidenza. Ha seguito il mio esempio, come in ogni altra cosa.» Si stavano avvicinando alla Renault familiare di Jennifer, parcheggiata nello spazio di fianco a quello dove Nick aveva lasciato la Granada. Lo spiazzo non era mai affollato. Jen domandò: «È cambiato molto?»
E la risposta era così semplice, così ovvia, che Nick non riuscì a capire perché non gli fosse venuta in mente prima. «Questo è il guaio» disse. «Mi pare che non sia cambiato affatto.» 3 Era trascorsa quasi una settimana senza che accadesse niente di fuori dell'ordinario, e Nick aveva cominciato a dimenticare i suoi pensieri più tetri sul conto di Johnny. Il weekend gli era stato di aiuto; la notte del venerdì con Jennifer lo aveva lasciato svuotato e felice, tanto che il sabato l'aveva perfino seguita di buon grado in giro per la città a cercare alcuni libri di testo usati. Nick non era un gran lettore. Amava le buone letture, ma quelle erano difficili da trovare. Dei romanzi in edizione economica sul comodino di Jennifer, la maggior parte sembrava descrivere donne affascinanti e sicure di sé che facevano ben poco a parte citare con disinvoltura costose marche di cognac e farsi scopare da uomini più giovani di loro nei modi più fantasiosi. Troppo vicino alla vita reale, a giudicare dal resto della giornata e della sera. Quel giorno era Johnny a guidare. Non era dell'umore migliore perché non era riuscito a procurarsi una radio, e quello era un cattivo inizio. Nick gli aveva fatto notare che non ne avevano bisogno e che potevano anche essere ammoniti per aver prelevato apparecchiature senza autorizzazione, ma quel genere di argomento non faceva presa. «Mi piace semplicemente sapere che cosa succede intorno a me» aveva ribattuto Johnny. «Sapere è potere, non lo hai mai sentito dire?» Nick lo aveva sentito. Solo che non era tanto paranoico da volerlo mettere in pratica ogni minuto della giornata lavorativa, ecco tutto. Anche se erano quelli i pensieri che gli passavano per la testa, non disse niente. Johnny si era già comportato così altre volte, ma di solito dopo un po' si calmava. Nick si domandò se non stava diventando troppo sensibile sull'argomento. Ben presto avrebbe scoperto che non era così. Si trovavano in una zona di grandi case vittoriane, edifici fuligginosi all'ombra della ferrovia, e la Capri procedeva a trenta chilometri l'ora facendo le fusa. Johnny aveva detto di aver messo a punto la macchina durante il weekend. Per quanto ne sapeva Nick, viveva da solo e pareva che non
vedesse nessuno; probabilmente era per quello che riservava alle sue quattroruote tutto l'affetto e la lubrificazione. Sul lavoro usavano la loro auto personale perché la sezione non aveva vetture disponibili, e richiedevano il rimborso spese in base alle tariffe dei trasporti pubblici. Per Johnny era una vera sciocchezza. Con il vecchio macinino di Nick, bastava appena a coprire la manutenzione. «Abbiamo qualcosa da fare da queste parti» domandò Nick «o stiamo girando a caso?» «Soltanto una faccenda che vorrei tenere d'occhio» rispose Johnny. Svoltarono in una traversa, una breve via di raccordo che aveva ancora la pavimentazione originale a ciottoli. Gran parte degli abitanti della zona erano famiglie indiane o studenti che vivevano in camere ammobiliate; i reati meritevoli di denuncia erano pochi, per lo più furtarelli e di tanto in tanto un giornale in fiamme infilato nella cassetta della posta di un bengalese. Nick non vedeva ragione per cui una pattuglia in borghese dovesse girare nella zona. Una sgualdrina in cerca di clienti si sarebbe fatta notare come un telegramma cantato. Insistette: «Perché non lo spieghi anche a me?» Ma Johnny stava esaminando con maggiore attenzione del solito una delle case più grandi e cadenti, che sorgeva ad angolo rispetto alle alte arcate di mattoni della ferrovia retrostante. Diminuì ancor più la velocità mentre passava, ma accelerò di nuovo appena si furono lasciati la casa alle spalle. Rispose: «Non affaticarti il cervello, Nicky-boy. Devo combattere battaglie di ogni genere, e non c'è bisogno che tu sia al corrente di tutto.» Così dicendo tornò indietro e si fermò vicino a una cabina telefonica rossa che si trovava quasi di fronte alla casa. «Dammi un paio di minuti» disse. Scese di scatto dalla macchina, frugandosi nella giacca. E poi, mentre Johnny si dirigeva verso il telefono, Nick vide che aveva in mano l'agendina nera. Anche se il motore era acceso, la macchina era abbastanza vicina alla casa e Nick sentì uno squillo provenire dall'atrio. La porta aveva mantenuto l'originale stile vittoriano, cento chili di legno verniciato e pannelli di vetri colorati, e attraverso questi ultimi Nick vide una sagoma confusa che si muoveva per rispondere. Spostò lo sguardo dalla casa a Johnny, poi di nuovo indietro. Che cosa aveva intenzione di fare? La persona nell'atrio sollevò il ricevitore. Johnny riattaccò.
Mentre tornava verso la Capri lanciò alla casa un'occhiata gelida, e il messaggio era chiaro; un piccolo segnale minaccioso per te, con gli omaggi di Johnny Mays. Nick guardò indietro, e vide che le sciatte tendine a rete a una delle finestre del pianterreno si muovevano un po'. Johnny distolse gli occhi soltanto all'ultimo momento prima di salire sulla Capri. E fece un sorriso mettendosi al volante, senza nemmeno guardare Nick. Poi ripartirono. La sosta alla vecchia casa sembrava avere risollevato l'umore di Johnny di una tacca o due. Per Nick era stata come una frase udita per caso, un incidente insignificante ma che ridestava una sorda risonanza ed evocava un episodio di una lunga storia mai raccontata. E quante altre storie c'erano, sepolte nelle pagine logore dell'agendina di Johnny? Per qualche tempo, Nick era quasi riuscito a convincersi che non era niente di serio, un modo come un altro per allentare la tensione. Ma ora stava assumendo un aspetto sinistro da Mille e Una Notte. E lo riportava alla domanda posta da Jennifer. Come doveva comportarsi? Dalle vie acciottolate si diressero verso i vecchi depositi della ferrovia, e si fermarono sotto un archivolto buio dove potevano attendere senza essere visti. Gran parte delle imprese commerciali intorno ai depositi e alle arcate sembrava trafficare in rifiuti di vario genere - scorie chimiche, rottami di metallo, stracci, giornali vecchi - e il tono dei locali andava dalla decadenza al vero e proprio squallore. E tuttavia in mezzo a quel quadro squallido, accanto agli steccati marci e al filo spinato, le Jaguar e le Mercedes dei proprietari spiccavano come perle in un porcile. Uno di quei proprietari, secondo le informazioni che avevano ricevuto dall'ufficio di dogana, aveva sgomberato una parte dei suoi locali per destinarli a immagazzinare stock di riviste pedofile d'importazione come Paedo Alert News e Beach Boy. Una ventina di minuti più tardi era prevista un'irruzione di agenti in divisa, calcolata in modo da sorprendere il grand'uomo negli uffici. Non sarebbe stato un gran danno per lui - doveva avere già predisposto ogni possibile assistenza legale e tutte le scappatoie, e di solito erano solo i soldati semplici a finire al muro - ma con un po' di fortuna avrebbero potuto metterlo abbastanza sotto pressione da fargli sputare i nomi degli abbonati e quelli dei suoi contatti ad Amsterdam. Johnny spense il motore, e si dispose ad aspettare. Sopra di loro c'era un lampione giallo, acceso in permanenza, che stranamente sembrava conferi-
re al tunnel di mattoni un'atmosfera ancor più cavernosa. Come le cantine sotto il Treno Fantasma, pensò Nick, il più memorabile Treno Fantasma sul quale fosse stato da bambino, durante la grande fiera che invadeva la sua città ogni anno in ottobre. Quel treno aveva offerto tutte le solite attrattive, come pipistrelli di gomma e spruzzi d'acqua e veli di garza sospesi; ma lui era stato colto alla sprovvista dall'uomo mascherato da scheletro piazzato dietro a una curva, pronto ad allargare le braccia e a lanciare un grido roco verso ogni carrozza che passava. Per una frazione di secondo Nick aveva sperimentato un terrore autentico; quello non era il pupazzo di gomma traballante che poteva aspettarsi. Era come se tutte le regole fossero state sovvertite all'improvviso e il terreno gli si fosse spalancato sotto i piedi, ma poi si era reso conto che quello che vedeva era soltanto un tizio in calzamaglia e maschera, con l'alito pesante di birra e un modo insolito di guadagnarsi da vivere. Anche in quell'occasione Johnny era stato con lui, nella stessa carrozza. Ora, Johnny stava tamburellando piano con le dita sul rivestimento in pelle del volante, battendo il tempo di un pezzo che suonava solo nella sua testa. Domandò: «Pensi che Frank Zappa sia il nome vero?» E Nick ribatté: «Di chi?» Questo troncò la conversazione per un po', mentre Johnny continuava a tamburellare e Nick era alla ricerca di un modo per portare il discorso sull'argomento che lo turbava di più. Poi Johnny disse: «Raccontami qualcosa di interessante.» «Ernest Hemingway non indossava mai le mutande.» «Qualche altra cosa.» «I pinguini non riconoscono il sesso degli altri pinguini.» «Allora come fanno?» «Litigano sempre. Ora dimmi tu una cosa.» «Okay.» «Contro chi combatti, Johnny?» Seguì un lungo silenzio. Johnny aveva smesso di battere il tempo. Guardò Nick con un'espressione indecifrabile. Ma era come se un po' del Treno Fantasma si fosse insinuato improvvisamente nell'auto insieme a loro. Nick insistette: «Ti prometto che non tornerò più sull'argomento. Ma devo sapere.» Johnny lo guardò ancora per qualche istante. Poi disse: «Come ti trovi nella polizia, Nick?» «Questa non è una risposta.»
«È l'inizio. Allora?» «È un buon lavoro.» Johnny cominciò a sorridere, lentamente, poi annuì come se avesse capito tutto. «Non ti piace affatto» disse. «Non stiamo parlando di me» disse Nick, a disagio perché il coltello era andato più a fondo di quanto si sarebbe aspettato. «È di te che dovremmo parlare.» «Di me?» disse Johnny, e riportò lo sguardo in avanti. «Penso che sia la cosa migliore del mondo. Non sono mai riuscito a fare niente meglio di quello che faccio adesso. Sai che cosa mi piace di più? Mi piace non essere uno del branco.» Accennò con la testa verso il rettangolo di luce davanti a loro, oltre il quale il mondo continuava a badare ai propri affari. «Odio l'idea di trovarmi là fuori. Odio l'idea di essere uno di loro, solo uno dei tanti. Non dirmi che non provi mai questa sensazione.» «Capisco» disse Nick «ma tutto questo... dove porta?» «Tu pensi troppo, Nicky. È sempre stato il tuo problema. Chi se ne frega dove porta? Chi dice che deve portare da qualche parte? Le cose esistono e basta. Quando hai capito questo, non ti occorre sapere altro. Qual è la cosa peggiore che hai mai visto?» «Sul lavoro, vuoi dire?» «Non deve necessariamente essere la cosa peggiore. Solo la prima che ti viene in mente.» La cosa peggiore? Nick non aveva bisogno di rifletterci; tener fuori dalla mente la scena era un compito che lo impegnava da quasi sette anni, e non ci era ancora riuscito. Aveva visto cadaveri rimasti in acqua e aveva visto autopsie e aveva visto corpi scoperti dopo giorni di vecchi semidivorati dai loro animali domestici affamati, ma niente gli era rimasto impresso nella memoria come quella volta che era stato chiamato in una squallida baracca, la sera di un venerdì di agosto. Faceva un caldo eccezionale, e quasi tutti tenevano le finestre aperte, e un vicino aveva telefonato per denunciare gli strilli di un bambino. Nick, che a quell'epoca ancora un pivello, era riuscito a sbirciare nell'abitazione attraverso uno spiraglio tra le tende, e quello che aveva visto aveva fatto scattare lui e l'agente che gli faceva da istruttore a sfondare la porta come due arieti. Un ragazzo di diciannove anni era seduto sul divano logoro con il figlioletto di sette mesi in grembo. Il bambino veniva sodomizzato. Dalla parte opposta della stanza, la madre del piccolo stava a guardare. A quel punto il bambino aveva quasi perso i
sensi per il dolore, e il violento distacco che era seguito per poco non lo aveva ucciso. Il diciannovenne era stato trattato con le precauzioni che si riservano a un cristallo prezioso per tutto il tempo che era rimasto affidato alla custodia della polizia; ma dopo un'ora dall'arrivo nel carcere preventivo aveva perso un occhio in seguito a una ferita prodotta da un coltello improvvisato, che lo aveva colpito anche all'orecchio ed era scivolato fino alla spalla opposta. «La prima di tante» gli aveva sussurrato il detenuto che lo aveva assalito, mentre accorrevano i secondini. Nick non disse una parola. Non ce n'era bisogno. Johnny non aveva bisogno di particolari; sapeva. Johnny domandò: «E come ti sei sentito, dopo?» Nick lo guardò senza capire. «Mettiamola in un altro modo. Come ti sembrava il mondo?» «Contaminato» rispose Nick. «Corrotto.» «Ed è questo che ci separa da tutti gli altri, Nick. Loro non vedono quello che vediamo noi, non sanno quello che sappiamo. Sono semplici civili, la seconda linea, e questa è la verità di Dio.» «E cosa c'entra con i numeri di targa?» «Quello è solo un gioco. Non è niente in confronto a quello che vorrei fare davvero. Userei la falce con loro, se potessi. Dipingerei le pareti col sangue e non prenderei prigionieri. Farei pulizia sul serio.» Di colpo, lo spirito del Treno Fantasma sembrò soltanto la fantasia infantile che era in effetti. Quella era tutta un'altra cosa. Per Nick, fu come se la maschera di gomma fosse stata strappata rivelando non un volto ma un pozzo d'aerazione che sprofondava fino all'inferno. «Cristo, Johnny» disse, con una voce ridotta a poco più di un sussurro. Johnny parve accorgersi che si era spinto troppo oltre. Fece un sorrisetto nervoso. «Sì, lo so» disse. «A volte mi faccio trasportare.» «Non dirai sul serio?» «Naturale che non dico sul serio. Mi lascio trasportare, tutto qui. Non vorrai farmi credere che a te non succede mai.» «Può anche darsi» disse Nick. Ma osservava Johnny come un uomo che ha appena consegnato un buon orologio a un pessimo mago. Johnny guardava di nuovo fuori verso la luce, quasi fissando una terra lontana in cui non aveva diritto d'ingresso. «E i brutti sogni» aggiunse. «Tu non fai mai brutti sogni?» «Me ne tocca la mia parte.»
«I miei sono davvero brutti. Immagino che sia compreso nel prezzo.» Guardò di nuovo Nick. «Non l'ho mai raccontato a nessun altro, sai.» "Sì" pensò Nick "lo credo." A voce alta disse: «Hai mai pensato di chiedere aiuto?» «Non ho bisogno di quel tipo di aiuto» disse Johnny in tono definitivo. «Ma ti dirò una cosa. Tienimi tu in carreggiata, proprio come ai vecchi tempi. Lo farai, non è vero, Nick? Di nuovo la vecchia squadra, come una volta.» «Con un paio di decenni in più, Johnny.» Ma Johnny non afferrò l'ironia nella voce di Nick. «Ricordi quando ho detto che era il nostro anniversario?» disse. «Me ne sono accorto, che non sapevi di cosa stavo parlando. Ma avevo fatto i conti... sono passati venticinque anni dal giorno che abbiamo cominciato a spassarcela insieme.» Nick non riusciva a crederci. «Hai davvero tenuto il conto?» «Era semplicemente un particolare che ricordavo. Non un'ossessione, o cose del genere. Ma ho nostalgia di quei giorni, Nick. Ho nostalgia di come andavano le cose allora.» Guardò oltre la macchina. «Non ho mai potuto contare su nessuno come contavo su di te.» E Nick pensò: "Oh, grandioso." Il fatto era che Nick non aveva pensato a Johnny più di un paio di volte, al massimo, in tutti quegli anni. Ma del resto Johnny non aveva avuto troppi amici nemmeno quando era piccolo. Gli altri ragazzi stavano con lui per un po', ma alla fine lo mollavano. Nick non sapeva proprio spiegarsi perché loro due erano rimasti insieme tanto a lungo, ma era piuttosto sicuro di una cosa; alla fine, la loro amicizia probabilmente avrebbe fatto la fine delle altre. Era stato il suo trasferimento a cambiare lo schema. C'erano molti lati piacevoli in Johnny Mays, alcuni evidenti e altri sepolti in profondità; ma forse era la fiamma del suo ego, e la ferocia con la quale poteva ardere, che rendeva difficile stargli vicino troppo a lungo. C'era un furgone di pattuglia che passava all'imbocco del tunnel, sobbalzando con violenza sui solchi di un binario che non veniva riparato dal tempo dei tram a cavalli. Nick controllò l'orologio. Era ora. Johnny stava già cominciando a scendere dalla macchina. «Al lavoro!» esclamò, suscitando echi entro i confini di mattoni dell'archivolto, e Nick scese dalla parte opposta della Capri. Johnny lo guardò con una sorta di divertita disapprovazione. Era come se tutto quello che si erano detti nell'ultimo quarto d'ora si fosse dissolto.
Nick sbatté la portiera. «Cerca di tirarti un po' su» gli suggerì Johnny. «Hai un'aria da cimitero.» Poi s'incamminò per raggiungere il resto della squadra che si stava riunendo, e Nick lo seguì. Ma più lentamente. 4 Jennifer disse: «Oggi sono un po' distratta, vero?» «Chiunque può fare confusione fra un pacco di pan carré e un pacco di carta igienica. A me capita in continuazione.» «Pensavo ad altro.» «Me ne sono accorto.» Stavano caricando il bottino della mattinata da un carrello del supermercato nel bagagliaio aperto della macchina di Jennifer. A Nick fare la spesa piaceva quasi quanto farsi cavare un dente, ma quello era in pratica l'unico momento della settimana che loro due erano certi di trascorrere insieme. Jennifer si era tolta l'uniforme solo un paio d'ore prima, e il turno di Nick sarebbe cominciato soltanto qualche ora dopo. Si erano incrociati al tavolo della colazione come un paio di comete di passaggio. Ora si trovavano in un parcheggio affollato vicino a un supermercato di periferia, e come al solito Nick guardava perplesso la pila di scatolette e barattoli che costituivano il sostentamento minimo indispensabile per una coppia. C'erano un paio di barbone in città che si portavano dietro tutti i loro beni terreni dentro vecchi carrelli per la spesa, e non raggiungevano neanche una frazione di quel carico. «Forse mangiamo troppo» disse Nick. «Parla per te. Io mangio come un uccello.» «Potrebbe dirlo anche un avvoltoio.» Dopo aver pagato il conto, avevano afferrato un paio di cartoni vuoti dall'aria utile e ora Jennifer ne stava riempiendo uno con scatole di tonno, barattoli di caffè e confezioni di detersivo. Gli disse: «Ieri sera ho ricevuto una lettera ufficiale. Mi faranno sostenere un colloquio. Se lo supero, mi ammetteranno in prova al CID.» «Eri stata già distaccata?» «Per tre mesi, l'anno scorso. Ho presentato la domanda alla fine di quel periodo. Ora mi concederanno dodici mesi di prova e, se funziona, mi manderanno al corso per agenti investigativi. Ho fatto di tutto per ottener-
lo, ma non credevo di avere possibilità serie.» «Perché non mi hai detto niente?» «Non volevo battere la grancassa per poi vedere tutto sgonfiarsi. Sai come vanno le cose. Non c'è niente di peggio che avere una delusione e poi dover sopportare anche la comprensione degli altri. Ti fa venir voglia di non esserti mai dato da fare.» «Quando sarà?» «La prossima settimana. Mi auguri buona fortuna?» «Certo. Chissà, potremmo perfino tornare a qualcosa di simile a un orario regolare.» Nick rimise a posto il carrello mentre Jennifer si sedeva al volante della macchina. Era contento per lei - certo che lo era - ma perché sentiva quella specie di sassolino duro e pesante in fondo ai suoi pensieri? Sicuramente non poteva essere gelosia per il successo di Jennifer, perché anche lui una volta era stato distaccato al CID, e non aveva mai avuto la tentazione di continuare. Forse ce l'avrebbe fatta e forse no, la questione non si era mai posta; che cosa gli stava succedendo, allora? "Ammettilo" si disse mentre andava verso la macchina. "Non si tratta soltanto del lavoro. In realtà si tratta di un rivale, di uno che c'era prima di te." Qualcosa del suo stato d'animo dovette filtrare fino a lei mentre tornavano a casa. Ma ebbe fortuna, perché Jennifer lo fraintese. Gli chiese: «Allora, come te la passi con Mister Stramberia?» "Johnny" pensò lui dopo un attimo di incomprensione. "Si riferisce a Johnny." «Avesti dovuto sentirlo» rispose. E poi le raccontò la conversazione del giorno prima, quella che si era svolta nell'oscurità del tunnel della ferrovia. «Sembra pazzo» osservò Jennifer. «Sul serio.» «No» disse Nick. «Non è pazzo. Ma è in errore.» «E nel suo libro nero c'è tutto questo?» «Non abbiamo ancora nemmeno sfiorato l'argomento agendina. Non so che cosa fare.» «Devi scaricarlo» ribatté Jennifer senza esitazioni. Nick guardò fuori del finestrino. Case, automobili, persone, nomi di strade. Una zona decente. Johnny poteva pure essere in errore, ma Nick non era in grado di dire con certezza che avesse torto al cento per cento. Come poteva lui . come poteva qualsiasi agente in servizio - affermarlo,
dopo le cose che aveva visto? Una solida corazza, un muro difensivo contro le emozioni, era uno dei requisiti essenziali del lavoro... ma come per qualsiasi muro, era facile perdere la cognizione chiara di quello che c'era dall'altra parte. Johnny aveva bisogno di aiuto, e quello che Jennifer suggeriva somigliava troppo a un tradimento. Scaricare Johnny? «Non saprei come fare» disse Nick. «Parlo seriamente, Nick. Mollalo, altrimenti ti trascinerà con sé. Non puoi essere tenero solo perché una volta eravate amici.» «Vorrei che fosse così semplice.» «Lo è. Solo che tu sei troppo vicino per vederlo, tutto qui.» Lui non rispose subito. Per un attimo si sentì confuso, allarmato senza sapere perché; poi la lampadina si accese, e lui domandò: «Come si chiama questa strada?» Lei lo guardò, perplessa per quell'improvviso cambio di argomento. «Ashness Lane» rispose. «Questo significa che da queste parti c'è Ashness Close?» «Ci siamo appena passati.» Lui le chiese se potevano tornare indietro a dare un'occhiata, e Jennifer scrollò le spalle e accettò. «Non c'è bisogno che entri» le disse Nick. «Un passaggio rapido sarà sufficiente. Vorrei scoprire se è proprio il posto che penso io.» Lo era. In un piccolo cul-de-sac di lussuosi palazzi d'appartamenti, moderni e geometrici, spiccava una Porsche che non era certo difficile da riconoscere. Dalla parte opposta del Close, all'ombra di alcuni alberi secolari, era ferma la Capri di Johnny Mays. Nick vide che Johnny era seduto in macchina, da solo, e mentre la Renault svoltava nell'ampia imboccatura del Close, Nick si abbassò sul sedile, nel caso che Johnny guardasse dalla loro parte. Ora sapeva con certezza dove aveva sentito il nome della strada prima di allora; era stato alla radio di Johnny, in risposta alla richiesta di informazioni sulla targa della Porsche. Quando furono abbastanza lontani, Nick si tirò di nuovo su. Jennifer domandò: «Che cosa c'è?» «Niente» le rispose. «Solo qualcuno che non avrei voluto vedere da queste parti.» Più tardi.
Lanciarono di nuovo una moneta, e stavolta vinse la Capri. Così Nick andò a spostare la Granada da un parcheggio a pagamento orario - un semplice lotto di terreno abbandonato sul retro della stazione di polizia, con un vecchietto acido che ritirava i soldi in un gabbiotto - e rientrò dal cortile. L'edificio della centrale di polizia era adorato dalla società per la conservazione della città e detestato da chiunque dovesse trascorrervi del tempo; questo valeva tanto per quelli che vi lavoravano quanto per quelli che entravano dal vestibolo privo di finestre con il cartello RISERVATO AI DETENUTI. Aveva una facciata imponente, con un grande arco di arenaria che dava su un cortile lastricato dove le scuderie erano diventate garage. L'interno ricordava a Nick una vecchia piscina pubblica. In gran parte l'effetto derivava dal pavimento nudo dei corridoi e dall'elaborata copertura bicolore di piastrelle color crema e verde rana scelte dal comune, e dagli antiquati radiatori di ghisa sotto le finestre alte. Era una grande costruzione vittoriana piena di echi e di spifferi, e i cartelli dei vari dipartimenti applicati sulle porte sembravano sempre un po' sperduti. Negli uffici dove si utilizzavano i computer, gli schermi ad alta tecnologia creavano uno stridente contrasto di tempo e di cultura, con i tubi che a pochi metri di distanza gemevano per ogni aumento o calo di pressione della caldaia. Nick era concentrato nei suoi pensieri quando rientrò attraverso la porta collegata col citofono al banco delle informazioni. Rispose a malapena al cenno di saluto del sergente di servizio. In quel momento stava riflettendo su una nuova scoperta: giù nello spogliatoio, poco prima del lancio della moneta, era riuscito a dare un'occhiata all'agendina nera di Johnny. Johnny aveva appeso la giacca al gancio sullo sportello dell'armadietto, ed era andato in bagno. Nick non avrebbe mai avuto un'occasione migliore. Palpando in fretta la giacca aveva individuato la sagoma dell'agendina attraverso il tessuto; pochi secondi dopo, la stava sfogliando. A mano a mano che voltava le pagine, si era sentito mancare il cuore. Non c'era un solo centimetro libero da nessuna parte. L'agenda era zeppa di appunti scritti sopra altri appunti sbiaditi, file di esclamativi e interrogativi, note bizzarre, ghirigori a spirale, codici personali illeggibili; forse c'era qualcosa di vero in quello che aveva detto Jennifer, perché sembrava il diario di un pazzo, e quando aveva rimesso il libretto nella tasca della giacca con pochi secondi appena di anticipo, gli erano rimaste le dita pulsanti come se avesse maneggiato qualcosa di rovente. Johnny era tornato con andatura baldanzosa, girando in fondo alla fila di armadietti, fischiettando mentre camminava. Nick aveva avuto l'assurda
sensazione che la colpa lo circondasse come un alone visibile, e per distogliere l'attenzione di Johnny gli aveva chiesto: «Hai fatto qualcosa di interessante, ieri?» «Niente di speciale» aveva risposto Johnny con disinvoltura, prendendo la giacca e indossandola. «Ho passato la giornata a casa con un libro. Usciamo con la tua macchina, stasera, o ne prendiamo una vera?» Nick non si diresse subito verso la stanza degli armadietti - almeno per qualche minuto Johnny avrebbe tentato di scovare una radio inutilizzata ma salì al terzo piano. A quel livello si trovavano le stanze del CID e di gran parte dei funzionari col grado di sovrintendente, compreso il supervisore del suo reparto. Le porte sul corridoio erano quasi sempre aperte. Per quanto tentasse di combatterla, ogni volta che Nick passava di lì non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di essere tornato bambino a scuola e di camminare lungo il corridoio della presidenza. Il supervisore non c'era. Nick rimase fermo nell'ufficio vuoto, incerto se aspettare o no. Johnny poteva chiedergli dov'era stato, e quella era una domanda che non voleva affrontare. "Spiacente, Johnny caro, sono appena stato di sopra a scaricarti nella Scheisse. L'ho fatto per il tuo bene, ragazzo. Ma soprattutto l'ho fatto perché..." Perché... Nick esitò, sempre fermo vicino alla porta. Era una stanza stranamente silenziosa. C'era una bella finestra grande che si affacciava sul verde, ma la finestra evidentemente lasciava entrare la pioggia e c'era una vecchia macchia d'acqua che sì allargava a ventaglio sulla moquette. A destra, una libreria con le ante di vetro metteva in mostra una raccolta rilegata della Criminal Law Review. Alla parete erano appese alcune foto in cornice: accademia di polizia, cene di presentazione, la squadra di tiratori del reparto, anno 1974. Sulla scrivania, campeggiavano alcuni promemoria che fu tentato di leggere, anche se sapeva che non potevano contenere niente di interessante o di rilevante per lui. Il telefono cominciò a squillare, con un trillo sommesso. Nick si voltò e uscì. Non sapeva se considerare un cedimento dei nervi il fatto che non era rimasto, o il fatto che era andato fin lassù. Da qualunque lato la considerasse, la situazione sembrava tutta sbagliata. Esistevano soluzioni corrette e soluzioni di compromesso, e questa non sembrava né l'una né l'altra. Se
mai, sembrava una fuga. Da uno degli uffici davanti a lui uscì un uomo. «Salve, Nick» disse in tono cordiale. «Allora, come ti trovi qui da noi?» Per un attimo Nick provò una fitta di panico, come se fosse stato colto in flagrante, ma si riprese subito. «Si fa quel che si può» rispose. Ralph Bruneau - Bruno, praticamente per tutti - era uno di quegli uomini trasandati e disinvolti che sembrano conoscere tutti ed essere conosciuti da tutti. Non era stata ancora inventata una camicia che riuscisse a restare a lungo infilata nella cintura dei suoi pantaloni. Aveva anche il record di arresti del reparto. Ora se ne stava fermo con un lembo di camicia fuori e le braccia incrociate, appoggiato allo stipite della porta del suo ufficio. Osservò: «Non mi pare una risposta entusiastica.» "Calmati" si disse Nick. «Chiedo scusa. Non è quello che intendevo.» «E come ti trovi con Johnny Mays?» Nick non si lasciò incantare. La domanda sembrava casuale, ma Bruno lo stava osservando con attenzione. Nick disse: «C'intendiamo alla perfezione.» «Davvero?» «Non sempre siamo d'accordo sui metodi, ecco tutto.» Per un attimo ci fu un silenzio imbarazzato. Poi il telefono di Bruno prese a squillare, ma lui lo ignorò. Disse: «Vuoi parlare con qualcuno, Nick?» «Io?» disse Nick. «E di che cosa?» «Di qualsiasi cosa ti preoccupi. La gente quassù non sempre ascolta con tutta l'attenzione possibile. Nessuno vuole apparire un cattivo funzionario.» «Io non ho preoccupazioni» insistette Nick. Bruno lo studiò ancora per un istante. Poi si strinse nelle spalle. «Bene» disse, raddrizzandosi per rientrare nella stanza. «Non spetta a me dirlo. Ma forse dovresti averne.» E con queste incoraggianti parole in mente, Nick scese nello spogliatoio per raggiungere il compagno. Johnny aveva già captato l'umore di Nick quando raggiunsero la Capri. Problemi con la ragazza, sembrava pensare, e si mise d'impegno per scuotere l'amico. Mentre Nick tentava disperatamente di escogitare un modo per esporre le sue ansie in modo da far capire a Johnny che era dalla sua parte, Johnny dava fondo al repertorio dei momenti migliori, in cerca delle
sue distrazioni preferite. Adorava mettere sottosopra i bar gay, così visitarono un paio di locali anche se era ancora tardo pomeriggio e non c'era quasi nessuno in giro. Poi si trasferirono in un sex shop di una delle stradine vicino alla cattedrale ed entrarono nel retro accecando con le torce i ragazzi che aspettavano nel buio vicino alle cabine video. Subito dopo salirono in un appartamento sopra una drogheria, e Johnny suonò il campanello in modo che Nick potesse dare un'occhiata alla "prostituta più vecchia della città". Johnny aveva detto a Nick che non avrebbe creduto ai suoi occhi, e lui non ci credette. La cena si limitò a un paio di ordinazioni da portar via senza pagare in un ristorante cinese, omaggio della casa, con la Capri parcheggiata nel piano di carico del magazzino, accanto alle cucine. «E la notte è ancora giovane, Nicky-boy» disse Johnny. «Ti risolleveremo dal baratro, o periremo nel tentativo.» Verso le otto, cominciò anche a funzionare. Il canto di Johnny fu decisivo. Johnny era, senza alcun dubbio, il cantante peggiore che Nick avesse mai sentito. Aveva un pessimo orecchio, e appena una vaga idea dei testi. Batteva il tempo sul volante e usava il freno come il pedale di una batteria, e fu mentre giravano per il parco che Nick finalmente cedette. «Guardando fuori solo come un cosa?» domandò. Johnny interruppe il ritornello. «Come hai detto?» «Ma non ascolti quello che canti?» «Perché?» «"Ogni notte me ne sto qui seduto alla finestra, guardando fuori solo con un pane"? Che diavolo c'entra il pane con tutto il resto?» «Non è così?» ribatté Johnny. «Col cavolo» rispose Nick. «La parola è cane. Solo come un cane.» Johnny ci rifletté un momento. Poi disse: «Bah» e ricominciò da capo. Nick si tappò le orecchie e ululò come un cane finché Johnny scoppiò a ridere e non ce la fece più a cantare. In qualche modo tutto si sarebbe aggiustato, pensò Nick. Bastava prenderlo quando era in quelle condizioni di spirito, e ci sarebbero state buone probabilità di riportarlo alla ragione. In effetti, pensò mentre si lasciavano il parco alle spalle e passavano sotto un ponte della ferrovia, quella poteva essere una buona occasione. Nick stava per parlare, quando capì dov'erano. La grande casa era completamente buia, e loro si fermarono vicino alla stessa cabina telefonica della volta precedente. Nick restò seduto in mac-
china, sentendo tutto il buonumore di poco prima che evaporava mentre Johnny, sempre sorridendo, saltava fuori e andava al telefono. Passò un minuto. Nick sentì il telefono che squillava nella casa vuota, un suono flebile come un richiamo di morte. Johnny si guardò attorno. Alla luce che pioveva dall'alto della cabina sembrava pallido e irreale. Fece un segno di okay a Nick e poi riattaccò. Uscì dalla cabina e si diresse verso la casa, battendo una mano sul tetto della Capri mentre passava. «Su, Nicky-boy» disse «siamo in servizio» e quando Nick scese dalla macchina, era già scomparso dietro l'angolo dell'edificio. Quando Nick lo raggiunse, Johnny si trovava nel cortile posteriore e aveva appena forzato la porta della cucina facendo leva con un piede di porco. La sbarra stava scomparendo nella tasca di Johnny quando Nick arrivò, e prima che lui potesse fare domande o protestare, Johnny era già entrato in cucina e stava accendendo le luci. «Fottuti studenti» esclamò Johnny, guardando i piatti sporchi accumulati nel lavello e quelli che sembravano resti di colazione vecchi di giorni sul tavolo. Nessuno dei piatti o delle tazze s'intonava agli altri. Contro la parete di fondo, al posto della credenza, c'erano alcuni armadietti di compensato, ciascuno con un nome e un lucchetto diverso. Vicino allo scolapiatti c'era un paio di piante dall'aria infelice, e qualcuno aveva piantato del crescione in una fila di vasetti di margarina sul davanzale. «E poi parlano di spazzatura.» Continuò il giro, accendendo altre luci. Nick si guardò attorno nervosamente e lo seguì. Non potevano esserci dubbi sul fatto che quella fosse una casa di studenti. Per quanto poteva vedere, tutte le altre stanze al pianterreno erano state trasformate in un incrocio tra camere da letto e locali di studio. Quando la luce del corridoio penetrava nelle stanze attraverso le porte socchiuse, si scorgevano libri e poster e scrivanie laccate da poco prezzo sotto lampadine appese a un filo. La moquette sembrava stuoia in fibra di cocco e dietro la porta principale, sulla parete, c'era un telefono a gettone, quello che aveva sentito squillare. C'era anche un tabellone con appesi promemoria dell'università e istruzioni in caso d'incendio, e un piano di suddivisione dei lavori domestici scritto in diversi colori con una calligrafia rotonda, quasi infantile. Lì dovevano viverci almeno otto persone. E nessuna era in casa. Johnny era passato nella camera da letto sul davanti, e quasi rispondendo
alla domanda inespressa di Nick gridò: «Siamo nelle ultime due settimane delle vacanze estive, ecco perché la casa è vuota. Sembra molto logico, non ti pare? Dieci settimane ad ascoltare complessi rock e a scopare fino a fonderti il cervello, e avresti bisogno anche tu di un po' di riposo.» Si sentì uno schianto dalla stanza, come se uno scaffale carico di libri fosse stato rovesciato sul pavimento. Nick si avvicinò alla porta in tempo per vedere Johnny infilare il braccio dietro il secondo scaffale e poi scaraventarne giù il contenuto per farlo finire sopra quello del primo. I libri si aprirono, i fogli volarono via, e Johnny guardò Nick e disse: «Credo che non sapresti riconoscere una tesi dal resto della cartaccia, vero?» Nick lo fissò. Johnny tirava calci ai volumi come un uomo che fruga nelle ceneri di un falò, poi dedicò la sua attenzione ai cassetti della scrivania. La stanza non era affatto come le altre. Le differenze erano minime - niente poster, alcune ceramiche color terra sul vecchio camino murato, una coperta all'uncinetto sul divano - ma raccontavano un'altra storia. Non era la camera da letto di una ragazzina lontana da casa; era la stanza di una giovane donna e a Nick pareva quasi di vederla, seria, forse un po' slavata... E probabilmente con quella punta di indefinibile qualcosa che Nick cominciava a considerare il "Fattore Johnny Mays". «Ti aspetto in macchina» gli disse. Johnny stava a quattro zampe sul pavimento, frugando nel contenuto di alcuni classificatori di cartone, e non alzò neppure la testa quando Nick uscì dalla stanza. Nick era stato in molte altre case. A volte era stato invitato, a volte no. La sensazione peggiore che avesse mai provato era disagio, ma questa era la prima volta in oltre vent'anni che attraversava stanze estranee con la certezza di essere dalla parte del torto. Anche se la casa era soltanto un largo spazio vuoto e Johnny stava facendo tanto chiasso da farne scaturire echi da un capo all'altro, Nick tornò indietro lungo il corridoio fino in cucina in un silenzio imbarazzato. Un'asse scricchiolò nel pavimento quando girò intorno alla stufa a cherosene, e Nick s'ingobbì a quel rumore quasi temendo un attacco alle spalle. Ora non desiderava altro che uscire di lì, allontanarsi dal contagio della colpa. Johnny aveva superato l'orlo del baratro, e Nick lo aveva seguito facendo un passo di troppo. E la cosa peggiore non era la visione fuggevole del terrificante abisso, quanto la scoperta che quel baratro era diventato il territorio naturale di Johnny. Voleva uscire da quella casa, ma si fermò un momento.
La stufa si spostava su rotelle, e una cigolò mentre la muoveva. Nick alzò di scatto la testa, ma pareva che Johnny non avesse sentito. Il pavimento della cucina era coperto da una stuoia di rafia, e quando Nick la sollevò vide il disegno della trama impresso nella polvere sulle tavole. L'asse che scricchiolava era allentata, con l'orlo leggermente sollevato. Nick l'agganciò con le unghie e guardò giù nella cavità sottostante. Il buco era profondo circa trenta centimetri. Cavi di plastica grigia, alcuni abbastanza nuovi, correvano nello spazio vuoto come nervi scoperti. Sotto i fili, sigillato in una busta di politene trasparente, c'era un pacco di fogli dattiloscritti. Dal punto in cui si trovava, Nick non riusciva a distinguere se era un originale, una fotocopia o altro. Non aveva notato macchine da scrivere nella stanza, ma se l'affittuaria se n'era andata e l'aveva portata con sé, questo significava che le telefonate e i silenzi di Johnny l'avevano spaventata. Com'era stato nelle intenzioni di Johnny, probabilmente. Nick rimise a posto l'asse, vi lasciò ricadere la stuoia e sistemò la stufa a cherosene. Poi ripulì il metallo nei punti in cui l'aveva toccato. Infine uscì dalla porta forzata. Johnny tornò alla Capri circa cinque minuti dopo. Non aveva trovato la tesi, ma si era portato dietro due o tre classificatori di cartone e li gettò sul sedile di dietro prima di salire. Sembrava a disagio più o meno come se fosse sceso a comprare un giornale. Nick domandò: «Devi andare da qualche parte, stasera?» «Perché, hai qualcosa in mente?» «Pensavo che potremmo piazzarci in un posto tranquillo. Ci sono alcune faccende di cui dovremmo parlare.» «D'accordo» disse Johnny avviando la Capri, senza intuire le intenzioni di Nick. «Finché non sei arrivato tu, non pensavo ai vecchi tempi da secoli.» «Non è questo che volevo dire.» «Ricordi l'inverno che siamo entrati in quel cottage sulla spiaggia e abbiamo mescolato tutte le tessere dei puzzle negli armadi?» Nick ricordava - e anche in quell'occasione si era sentito paralizzato dall'apprensione. Johnny sembrava fatto apposta per cacciarlo in situazioni del genere; come quell'altra volta, quando loro due avevano finito per martellare di colpi la porta di un faro per cercarvi rifugio, nella convinzione che un gruppo di ragazzi più grandi era deciso a ridurli in polpette con una mazza da cricket. Qual era stata la ragione? Quasi certamente la cronica
incapacità di tenere la bocca chiusa che Johnny esibiva sempre nei momenti in cui sarebbe stato utile un silenzio pieno di tatto. Nick disse: «Stai parlando di quando avevamo dieci anni.» «Lo so» ribatté Johnny mentre l'auto partiva. «Non è cambiato poi granché, vero?» Misero una certa distanza fra loro e la casa. Ed era proprio quello il problema, pensò Nick. 5 Sarebbero smontati prima, non fosse stato che Johnny voleva dare un'occhiata a una BMW che era stata ritrovata in un'area di demolizione lungo i vecchi gasometri. Aveva captato la chiamata alla radio, e quando arrivarono, trovarono un paio di agenti della stradale in divisa che stavano esaminando l'auto per fare un inventario dei danni causati dai ladri. Nick rimase in macchina mentre Johnny scendeva e girava intorno alla BMW per scambiare qualche parola con gli agenti della stradale. La vettura aveva il lunotto posteriore incrinato e alcuni brutti graffi lungo la fiancata, e puntava il muso verso il marciapiede mentre la coda sporgeva di un metro sulla strada. Probabilmente nel cruscotto era rimasto un foro dai bordi irregolari nel punto in cui era stata asportata la radio, ma a meno che il motore non fosse completamente fuso, non c'era niente che un abile carrozziere non potesse rimettere a posto. Johnny tornò indietro, scuotendo la testa. «Auto da parco macchine» sentenziò, e sterzando in fuori aggirò il quadro formato dalle due auto e si diresse verso il centro della città. Il furto d'auto aveva qualcosa in comune con la rapina, racchiudeva una carica emotiva che non aveva alcun rapporto con il valore delle merci rubate. Certi proprietari preferivano accettare un'offerta in contanti anche bassa, piuttosto che rimettersi al volante; per l'acquirente bastavano un weekend con un verniciatore a spruzzo e un annuncio economico sul giornale, e tanti saluti. Ma con un'auto di un parco macchine era una perdita di tempo. Il gestore di un parco macchine prova per le automobili la stessa carica emotiva di una statua dell'Isola di Pasqua nei confronti della stagione tennistica. Firmarono il foglio di uscita e Johnny salì nella sala agenti mentre Nick andava a riprendere la sua auto. Avevano deciso di incontrarsi in un locale che aveva la licenza per restare aperto fino a tardi e si chiamava Theatre
Club; il personale della polizia tendeva a evitarlo, anche se era a un paio di strade appena dalla loro sede, soprattutto perché sembrava sempre pieno di avvocati in compagnia delle segretarie. La Capri di Johnny era già parcheggiata fuori del club, per metà sul marciapiede, e Nick si fermò dietro. Il buttafuori sulla porta non lo conosceva, ma sapeva riconoscere un tesserino quando lo vedeva. «Oh» disse «socio a vita» e si fece da parte. Johnny si era accaparrato un tranquillo tavolo d'angolo e aveva già scolato un paio di bicchieri. Non c'era musica, e l'aria era annebbiata dal fumo; nel club si affollava circa un centinaio di persone, e una buona percentuale era probabilmente composta da malviventi locali di alto bordo. Nick non lavorava in quel reparto da abbastanza tempo per conoscerne molti, ma salutò con un cenno una coppia e ricevette un saluto di rimando. Sedendosi, disse a Johnny: «Tutto a posto con le scartoffie?» «Al diavolo le scartoffie» rispose Johnny in tono gentile. «Che cosa ti preoccupa?» Nick incontrò il suo sguardo. «Lo vuoi in una sola parola?» disse. «Tu.» «Come sarebbe?» «Il tuo atteggiamento, Johnny. Mi preoccupa. No, di più, mi spaventa. Che cosa ti sei messo in testa?» «Non ho la più pallida idea di quello che stai dicendo.» «Sto parlando di sfruttare il sistema. Sto parlando di trattare il resto del mondo come se fosse una fogna e tu lo stessi attraversando su una barca dorata. Sto parlando di abuso della procedura di registrazione, violazione di domicilio, violenze a chiunque ti fa saltare la mosca al naso, e così via.» Johnny lo fissò per un attimo. «Hai intenzione di denunciarmi?» «Non lo so, che cosa ho intenzione di fare.» E dopo averlo guardato ancora per un attimo, Johnny disse: «No. Non parlerai. Avevo ragione sul tuo conto. Di tutti, sei l'unico di cui mi posso fidare.» «Non tirare troppo la corda, Johnny.» «Chi la sta tirando?» «E non tentare nemmeno di prendermi per un idiota.» Johnny non era arrabbiato, non era disperato. Anzi, dava l'impressione di essere il più ragionevole dei due. «Ascolta» cominciò. «Non voglio dire di non aver forzato un tantino le regole, di tanto in tanto. Chi non lo fa? E non sto dicendo di non aver preso qualche scorciatoia per ottenere dei risultati, e nemmeno di non essermi
concesso qualche spasso sul lavoro, ogni tanto. Ma niente di più.» «Vorrei poterlo credere.» «Andiamo, che cosa devo dire per convincerti?» «Potresti prendere in esame l'idea di vedere qualcuno.» L'idea non fu afferrata subito. «Chi, per esempio?» disse Johnny, ma poi capì. «Stai parlando di uno strizzacervelli? Io?» E Nick, non volendo essere inchiodato su un argomento che avrebbe ristretto la discussione in termini specifici e troppo presto, rispose: «Non necessariamente.» Ma Johnny stava scuotendo la testa. «Oh, Nicky» disse. «Io credo che tu ti stia sbagliando di grosso.» «Tutto quello che so è ciò che ho visto.» «Quello che hai visto sono soltanto pulizie domestiche. Non pensare che sia la regola.» Ma Nick stava pensando ad altre parole, a un'altra occasione. «Userei una falce con loro, se potessi. Farei davvero una bella pulizia.» Disse: «E la donna sulla Porsche?» Johnny perse un colpo, ma il suo viso non tradì la minima emozione. «Che c'entra?» «Ti ho visto aggirarti intorno a casa sua, stamattina.» «Non ero io.» «Sembrava proprio la tua macchina.» «Non è possibile. Stavo giocando a squash.» «Mi avevi detto di aver passato la giornata con un libro.» Per un attimo non accadde niente. A Nick pareva quasi di sentire le rotelline girare e i circuiti ronzare mentre Johnny scartava e controllava e compilava di nuovo, nello sforzo frenetico di riscrivere il recente passato in modo da poterne uscire a testa alta. Ma tutto quello che riuscì a dire fu: «Senti, Nicky, perché hai deciso di tormentarmi?» «Tu volevi che ti tenessi in carreggiata, no? Bene, è quello che sto facendo. Se a te sembra che ti tormenti, mi dispiace. Tutte le volte che mi convinco di avere una sensibilità esagerata, tu tiri fuori dal cilindro qualche altro coniglio. Ecco, questo deve finire.» «D'accordo» disse Johnny. Nick attese, ma non ci fu altro. «Tutto qui? D'accordo?» «Che cosa vuoi?» disse Johnny «Un giuramento firmato col sangue? Mi darò una regolata.»
«Penso che vivrò più a lungo, se lo farai.» «Allora è deciso» disse Johnny con una lievissima traccia di qualcosa che poteva essere amarezza. «Non ti va bene?» Uscirono nell'oscurità. Nick non sapeva per certo che cosa provava. C'era sollievo, ma c'era anche un indefinibile disagio... come se avesse fatto un passo verso la soluzione, solo per cominciare a dubitare di aver afferrato bene il problema. Se solo Johnny non fosse stato così ragionevole. Nick non credeva di potersi fidare di lui. Ma almeno era un inizio. Si separarono con un «Ci vediamo» privo di entusiasmo, e si diressero ognuno verso la propria auto. La strada laterale era stretta e l'illuminazione era soltanto simbolica, appena un lampione giallo alle due estremità e il buio sempre più fitto al centro, e a quella luce fioca Nick si accorse che qualcuno aveva infilato un volantino sotto il tergicristallo della Granada. Lo sfilò, aprì la portiera per controllarlo alla luce interna e quando vide che era soltanto un volantino ciclostilato da un dilettante che reclamizzava un complessino locale, lo accartocciò e lo gettò sotto la macchina. E poi rimase impietrito, perché si rese conto che era riuscito a far scattare lo sportello senza usare la chiave. Aprì un po' di più, e guardò dentro. «Oh, Cristo» esclamò. C'era uno stronzo sul sedile. 6 Passarono alcuni istanti prima che Nick si accorgesse di Johnny. Si era avvicinato, e guardava nella Granada debolmente illuminata di sopra la spalla di Nick. Johnny disse: «Il giovane Dean non è neppure tanto sveglio da cambiare metodo, vero?» Sembrava piuttosto truce. «Non posso guidarla così» disse Nick con voce spenta. Aveva visto scene di furti dove i ladri avevano fatto qualcosa di simile nei cassetti o sulla biancheria del letto, ma non era mai riuscito a capire del tutto lo choc sproporzionato dei proprietari. Fino a quel momento. Si sentiva impotente... che cosa gli restava da fare, smontare il sedile e gettare via il tutto, foderine e merda insieme? E non riusciva nemmeno a pensare alla semplice soluzione di pulire e poi mettersi al volante, perché quando ci provava la
sua mente recalcitrava all'idea come un cavallo di fronte a un ostacolo troppo alto. Non era mai stata granché come macchina, ma per lui era rovinata. Allora e per sempre. «Non posso guidarla» ripeté. «Perché dovresti?» disse Johnny. «Su, vieni.» «Aspetta un minuto» rispose Nick. Si stava sforzando di rimettere un po' d'ordine nella sua mente. «Devo pensare a cosa fare.» «Lo so io cosa fare. Vieni.» La mano salda di Johnny sulla sua spalla decise la questione. Nick si voltò e si lasciò guidare verso la Capri di Johnny, senza nemmeno curarsi di chiudere a chiave la Granada prima di allontanarsi. A che scopo, dopo quello che era successo? E mentre aspettava che Johnny aprisse le portiere della macchina e staccasse l'antifurto che probabilmente aveva protetto l'interno della Capri, Nick vide la grande cicatrice a bolle nascosta dalla penombra sul cofano della macchina, come una colata di lava. In tutti i punti dove era colato il solvente per vernici, la superficie della Capri si era gonfiata ed era diventata bianca. Dopo un paio di minuti di viaggio, la sensazione di insensibilità di Nick cominciò a trasformarsi in collera. «La farò trainare via e portare alla demolizione» disse. «Non vale niente. E che io sia dannato se ci rimetterò piede dopo questo.» «È il tocco personale, quello che ti fa andare in bestia.» «Proprio così.» Nick non aveva dubbi su quel punto. Era stato Dean, da solo o con qualche amico, il responsabile di quello che era successo. Probabilmente erano stati in giro per tutta la notte, sorvegliando il posto di polizia da uno dei vicoli bui dalla parte opposta della strada. Ad altri sarebbe sembrata una faccenda rischiosa, ma per loro non era niente di preoccupante; davano l'impressione di essere ragazzi qualsiasi, ma Nick ne aveva già incontrati molti di quella risma, insensibili al pericolo. Dovevano avere riconosciuto subito l'auto di Johnny quando era uscita, e nel breve tragitto dal posto di polizia al club c'erano abbastanza semafori da rallentare l'andatura e permettere loro di seguirla a piedi. L'arrivo di Nick un paio di minuti dopo doveva essere sembrato una specie di gratifica supplementare. Girarono per qualche tempo nel centro della città, controllando i luoghi ovvi come il posto di ristoro mobile aperto tutta la notte sul ponte vicino alla ferrovia o gli spazi rimbombanti di echi dei centri commerciali in cemento. Videro due o tre
gruppi di ragazzi, ma nessuno di loro somigliava a Dean e nessuno scappò via alla vista della Capri sfigurata. Erano soprattutto maschi, pallidi e denutriti e simili più a scarti abbandonati che ad autentici esseri umani, e le poche ragazze erano spaventosamente infantili sotto il trucco. Ammutolivano quando l'auto si avvicinava, e si agitavano a disagio sotto lo sguardo duro di Johnny mentre la Capri sfilava a passo d'uomo prima di riprendere velocità e proseguire. «Stiamo perdendo tempo» disse Johnny dopo il quarto giro. «Probabilmente ormai sarà tornato a casa.» «Piccolo bastardo» disse Nick. «Andiamo a prenderlo lì.» Johnny gli lanciò un'occhiata e sogghignò. «È questo il guaio con il latte dell'umana bontà» osservò. «Uno stronzo sulla tua macchina, e di colpo si trasforma tutto in yogurt.» Poi Johnny fece una conversione a U sul viale principale e accelerò, superando negozi abbandonati e percorrendo strade deserte, diretto verso la periferia. Non c'era quasi niente che li ostacolasse sul loro cammino, a quell'ora. Nick si sentiva schiacciato contro il sedile a mano a mano che l'ago del tachimetro saliva, e afferrò la maniglia sopra la portiera per tenersi saldo. Lo fece inconsciamente, senza la minima ansia; la velocità era una droga che sembrava alleviare il dolore bruciante che sentiva dentro. "Contro un ragazzo" diceva una vocina dubbiosa in fondo alla sua mente. Ma in quel momento non la sentiva nemmeno. Johnny rallentò, e Nick lanciò un'occhiata alle sue spalle nella convinzione che una delle pattuglie di notte li avesse avvistati. Ma dietro di loro non c'era niente, e quando Nick si girò in avanti fece in tempo a vedere che stavano accostando al marciapiede. Per quanto poteva capire Nick, si trovavano in un posto desolato e in stato d'abbandono totale; soltanto un basso muro di mattoni sull'altro lato del marciapiede, i resti semidiroccati di quella che un tempo era stata una fabbrica o un'industria tessile di discrete dimensioni. Oltre il muro doveva esserci un acro o poco più di vetri rotti e macerie e - ne era quasi sicuro - l'ennesimo cartellone malconcio che annunciava una Zona di Sviluppo Urbano. Johnny scese dalla macchina. Disse: «Da qui guida tu. Ci vediamo davanti al palazzo fra dieci minuti.» «Tu come ci arriverai?» «Con stile, Nicky-boy. Con stile.» Non diede altre spiegazioni, e si allontanò senza aspettare domande. Erano nel bel mezzo di un deserto, ma lui sembrava sicuro della sua meta.
Nick scivolò sul sedile di guida e quando regolò lo specchietto fece appena in tempo a scorgere Johnny che spariva dietro l'angolo in fondo, in un'altra strada fiancheggiata da officine in rovina. Nick aveva freddo. Si sentiva improvvisamente svuotato. Johnny aveva trascorso gran parte dell'infanzia in una ditta di autotrasporti. A quattordici anni sapeva già entrare in qualsiasi auto chiusa e avviarla senza chiavi - il che lo metteva quasi al livello di Dean e dei suoi pari - e pareva che quell'abilità non lo avesse abbandonato. A quell'ora la BMW non era già più nell'elenco del computer delle vetture scomparse, e il fatto che il proprietario non sarebbe stato informato fino al mattino dopo la poneva in una sorta di limbo; ma che cosa avesse a che fare questo con i piani di Johnny o con qualsiasi altra idea potesse avere in mente, Nick non riusciva a capirlo. Quando raggiunse l'arena di appartamenti con accesso dal ballatoio, la BMW era ferma in bella mostra nella zona più illuminata del cortile. Johnny aspettava lì vicino, scorrendo con gli occhi i quattro livelli di ballatoi che si affacciavano sul cortile come le balconate di un teatro deserto. Nick si fermò di fianco, e Johnny girò attorno alla Capri facendogli segno di lasciare il motore acceso. «Questa non la capisco» disse Nick. «Capirai» rispose Johnny. «Muoviti.» La sottigliezza evidentemente non rientrava nel piano. Johnny arretrò la macchina di un centinaio di metri o giù di lì, facendo stridere le gomme, e poi con un filo in più di cura portò la vettura una trentina di metri più indietro, in uno dei tunnel d'accesso in mattoni. La galleria si chiuse su di loro come una seconda notte, più intima. Johnny restò seduto con il motore al minimo, portandolo ogni tanto a un ruggito profondo con una lieve pressione sul pedale. Confinati là come un grosso gatto in una grotta, potevano sorvegliare la BMW e una parte del cortile. «Dieci a uno che i piccoli bastardi si aspettavano di vederci comparire» disse Johnny. «Sono convinti che ci avvicineremo a piedi e ci faremo tirare addosso diciannove qualità diverse di merda. Ho già visto un blocco motore sfondare il tetto di una Metro. Be', stavolta sarà alle nostre condizioni.» «E poi cosa?» «Poi colmeremo alcune lacune nell'educazione del giovane Dean.» Nick alzò gli occhi verso il terzo piano, quello dov'erano stati la volta precedente. Fu grazie al colore più chiaro delle assi di compensato sul fondo che scorse un'ombra in movimento, segno che il loro arrivo aveva su-
scitato un interesse ben preciso. Osservò: «Non sono tanto sicuro che sia una buona idea.» Johnny lo guardò attraverso il buio. «Dalle una possibilità» disse. «Col tempo migliora.» Quattro ombre si materializzarono ai margini dell'anello di luce, a pochi metri appena dalla BMW. C'era qualcosa di arcano nel modo in cui erano scese dall'edificio, come se fossero semplicemente svanite da un punto per ricomparire in un altro, ma Nick sapeva che era solo un effetto della luce e dell'ora. Si allargarono e circondarono l'auto. Nick riconobbe Dean. C'erano altri due adolescenti nel gruppo, slavati e senza età sotto il bagliore delle luci al sodio; il quarto, Nick ci avrebbe giurato, non doveva avere più di otto anni, ma a parte la statura si muoveva e agiva esattamente come gli altri. Johnny imballò il motore un paio di volte, e i quattro guardarono verso la Capri come un sol uomo. Nessuno fece alcun segnale, ma Nick capì lo stesso che una sfida era stata lanciata e accettata. Si ammucchiarono dentro la BMW. In poco più di trenta secondi, l'avevano messa in moto. «Niente male» disse Johnny. «Per essere feccia.» E mentre la BMW cominciava ad avanzare, Johnny innestò la marcia della Capri per seguirla. «Ehi» esclamò Nick. «Aspetta un momento.» «Mi hai già esposto il tuo punto di vista una volta, stasera» disse Johnny «e io ti ho ascoltato. Ora la vedrai dal mio.» «Siamo già fuori delle regole.» «Mettiamola così, allora» propose Johnny in tono ragionevole, e Nick avvertì in un lampo l'ombra delle nocche di Johnny davanti al viso, prima di avere l'impressione che una bomba gli esplodesse nella testa. Per un attimo perse i sensi; non riuscì a capire per quanto, ma quando cominciò a vedere di nuovo qualcosa al di là del bagliore, erano già in moto e sballottati. Lui era tutto contorto sul sedile. Tentò di raddrizzarsi. Non ci riuscì. Gli doleva la testa, aveva la nausea. Johnny lo aveva colpito proprio alla radice del naso. Era cieco come se gli fosse esplosa davanti agli occhi una granata antisommossa, ma stava migliorando. Si domandò se il naso era rotto, ma Johnny lo aveva colpito in alto, alla radice, ed era per quello che l'effetto era stato così devastante. Nick si mosse per toccarsi, ma il braccio destro incontrò una resistenza.
Serrò gli occhi per alcuni secondi, poi li riaprì. L'interno della macchina finalmente tornò a fuoco, pian piano, come l'accensione di un vecchio televisore a valvole. Ora capiva perché si trovava in quella posizione contorta. Il polso destro era stato fatto passare davanti al corpo e ammanettato alla maniglia sopra la portiera. In pratica, l'unico gesto di ribellione che poteva compiere era abbassare il vetro del finestrino. A che gioco pensava di giocare, Johnny? Nick diede uno strattone alle manette, ma la maniglia rimase al suo posto. «Non sprecare il tuo tempo, Nick» disse Johnny. Nick tirò ancora, lottando contro un crescente senso di panico nel sentirsi impastoiato. «Non sopporto di essere bloccato in questa maniera» disse. «Lo so. Mi dispiace.» La BMW era davanti a loro sulla strada. L'abilità mostrata dai ragazzi nell'avviare la vettura non era altrettanto evidente nel modo in cui la guidavano; Johnny si tenne indietro, lasciando loro la possibilità di abituarsi all'auto estranea. Arrivarono a un chilometro dagli appartamenti prima di scoprire come si accendevano i fari. Erano lenti e la loro traiettoria era irregolare, serpeggiava da una parte all'altra e sfiorava il marciapiede quando superavano una curva; ogni volta che passavano sotto un lampione Nick li vedeva in controluce attraverso il lunotto posteriore lattiginoso, mentre discutevano e gesticolavano in quello che era evidentemente uno sforzo di gruppo. Pareva che fossero diretti fuori città, verso l'autostrada. «Sai quanto gli sarà utile» osservò Johnny «se non riescono nemmeno a mettere in terza.» Nick udiva il gemito di protesta del motore della BMW che sovrastava quello della Capri, anche se Johnny manteneva una distanza di almeno cento metri. In quel modo, se una pattuglia in uniforme si fosse inserita nella caccia, la Capri poteva sempre svanire. Johnny aveva concluso evidentemente che non era bene mostrarsi a tallonare una macchina che procedeva alla velocità di un furgone del latte, e piena di ladruncoli che cercavano di riordinare le idee, in attesa di poter cominciare un inseguimento decente. Ma poi i ragazzi riuscirono a innestare una marcia superiore, stavolta senza grattare, e dove prima c'era la BMW rimase soltanto uno sbuffo di fumo. «Così va meglio» disse Johnny, e scattarono in avanti con tanta violenza che Nick ebbe l'impressione di sentirsi sfuggire il pavimento sotto i piedi.
Sembrava che il ragazzo al volante, probabilmente Dean, trovasse più congeniale sterzare ad alta velocità; non che fosse facile per Nick giudicare, perché la BMW aveva acquistato un tale vantaggio su di loro che lui riusciva soltanto a vedere i fanalini di coda in lontananza. Ma era una distanza che Johnny stava accorciando in fretta. La strada scelta dai ragazzi era lunga e diritta e, per quanto ricordava Nick, portava soltanto a un incrocio con una grande autostrada e ai nuovi quartieri residenziali che vi erano sorti intorno, all'estremo limite della città. A quell'ora di notte i quartieri residenziali erano bui, i grandi parcheggi deserti, e il taglio profondo dell'autostrada che passava al di sotto splendeva con il fascino di una lucciola. I ragazzi avevano due possibilità: la costa o le montagne. Optarono per le montagne. Prima dell'autostrada avevano incrociato soltanto due strade di campagna che consentivano alle automobili di raggiungere la contea vicina senza dover deviare a sud, ed erano piccoli passaggi stretti che ogni inverno venivano bloccati dalla neve. La nuova strada aveva cambiato la situazione, sei corsie che sfrecciavano su un terreno incolto dove prima c'erano soltanto pecore, pietre e brughiera aperta, e alcune fattorie qua e là in quei pochi tratti dove c'era riparo sufficiente. La maggior parte delle fattorie ormai era in rovina. Una volta superata la sommità, si attraversava il confine della contea e si scendeva lungo il fianco di una valle che era stata chiusa da dighe e trasformata in una serie digradante di bacini idrici, la fonte di vita delle lontane industrie tessili le cui luci sembravano confondersi con la campagna aperta di fronte a loro. Ma la valle si trovava una trentina di chilometri più avanti. In quel momento le due vetture stavano salendo ad andatura costante sulle pendici inferiori, sorpassando una fila quasi ininterrotta di camion e rimorchi merci che procedevano rombando muso contro coda, come elefanti da circo, nella corsia a bassa velocità. Johnny aveva perso ancora un po' di terreno nei confronti della BMW mentre cercava un varco per inserirsi nell'autostrada, ma ora la Capri stava divorando la distanza. «Mi sbagliavo sul tuo conto» disse Nick. «Non sei semplicemente sull'orlo della pazzia. Sei pazzo da legare.» Allora Johnny distolse gli occhi dalla strada e lo fissò per un momento spaventosamente lungo; Nick guardò il tachimetro, e vide che si stavano avvicinando ai 150. «Io non giocherei con la concentrazione del pilota, se fossi in te» gli dis-
se Johnny con serietà. «Qualcuno potrebbe farsi male.» E soltanto allora riportò lo sguardo sulla strada, appena in tempo per evitare e superare un camion del latte che si era spostato sulla corsia di sorpasso e si sforzava di risalire la fila. Nick aveva visto una sola volta uno sguardo come quello, ed era stato negli occhi di un uomo in camicia di forza. Lo avevano fermato come sospetto per un tentativo di stupro, e i medici avevano scoperto più di quaranta spilli, chiodi e aculei vari che si era ficcato nelle parti tenere del corpo negli ultimi vent'anni. Erano gli occhi di un uomo che, dovunque guardasse, vedeva demoni. Johnny si accodò ai ragazzi sulla BMW e rimase lì per un po', tenendo la loro andatura. In una scommessa su un rettilineo a tutta velocità Nick avrebbe puntato sulla BMW, ma quelli erano ragazzi la cui abilità di guida era basata solo su vanterie e su una scarsa pratica al volante di auto rubate. Probabilmente ne sapevano altrettanto sul sesso, ed erano altrettanto bravi a praticarlo. Non contribuiva certo ad aiutarli il fatto che il motore della BMW aveva già subito seri maltrattamenti da un'altra banda di ladruncoli. Johnny passò sulla corsia esterna e si affiancò a loro, filando senza scosse a non più di cinquanta centimetri dall'altra vettura. Nick guardò di lato. Nessuno ricambiò lo sguardo o incontrò i suoi occhi. Dean era aggrappato al volante con tutt'e due le mani, mentre sul sedile al suo fianco un ragazzo più giovane stava pronto con la mano sul cambio. Sotto le luci dell'autostrada i loro volti erano segnati come quelli di uomini vecchi, vecchissimi. «Questo dovrebbe attirare la loro attenzione» disse Johnny, e senza preavviso diede uno strappo al volante e fece una finta, come se volesse urtare l'altra macchina di lato. Per quanto vi fosse già incatenato, Nick afferrò d'istinto la maniglia in alto. Con la coda dell'occhio vide la BMW sbandare per l'eccessiva reazione del ragazzo. La loro auto sembrava sul punto di cadere nelle fauci di un grosso camion con rimorchio, pochi metri più indietro della Capri, ma poi un fragoroso colpo di clacson dell'autocarro li fece rimbalzare di nuovo lontano come la pallina d'argento di un flipper. Per alcuni secondi Nick li vide sbandare follemente da una parte all'altra, ma poi uscirono dal suo raggio visivo e li perse. Johnny guardava nello specchietto. La velocità cominciò a diminuire. Nick si girò appena sul sedile e scorse la BMW dietro di loro che si avvicinava, e all'improvviso Johnny frenò di scatto, al punto che lo spazio fra le due vetture si ridusse di colpo da alcuni metri a pochi centimetri. La cin-
tura di sicurezza di Nick si tese e lo stomaco minacciò di salirgli in gola, mentre il conducente dietro di loro esagerava di nuovo nella reazione e inchiodava i freni al punto di fare ululare i pneumatici come in agonia. Johnny si spostò di una corsia, rallentò e li affiancò di nuovo. «Così va meglio» disse. Ora tre dei ragazzi ricambiarono lo sguardo di Nick terrorizzati, una scintilla di emozione in ogni paio di piccoli occhi spenti in ognuna delle facce da condannati a morte; soltanto il più giovane pareva non aver afferrato a che cosa stavano andando incontro, e sogghignava follemente, scoprendo denti così marci da non sembrare veri. Poi bang, furono lontani. «Sia lodato Dio» esclamò Johnny, accelerando di nuovo per riprendere la caccia. «Hanno scoperto finalmente la quinta.» Il convoglio nella corsia a bassa velocità aveva cominciato a diradarsi quando sbucarono in brughiera aperta, subito dopo una gola artificiale di roccia nuda, e gli intervalli fra i camion e gli autocarri a 16 ruote si erano molto allargati quando la strada tornò pianeggiante. Era il luogo più squallido e aspro che si potesse immaginare. Stando a quanto Nick aveva sentito, gli angoli della superficie stradale in quel tratto erano stati calcolati in modo che i forti venti invernali spazzassero via la neve per mantenerlo sgombro. Al periodo più ventoso mancava ancora qualche settimana, ma perfino in quel momento, quando uscirono dalla gola, Nick sentì la Capri rollare sotto le folate trasversali. Lanciò un'occhiata al tachimetro, e alla luce del cruscotto vide che l'ago oscillava intorno ai 160. Poi la mano di Johnny si mosse, e il cruscotto si oscurò. Johnny aveva spento tutti i fari. Potevano vedere senza problemi ma non potevano essere visti; erano solo un'ombra rapida in movimento, che si avvicinò di soppiatto alla BMW e poi esplose di colpo in un bailamme di luce e di rumore quando Johnny accese gli abbaglianti e suonò il clacson. Nick avrebbe giurato che la macchina davanti a loro si era sollevata dall'asfalto di almeno 15 centimetri. Se fosse stato a bordo della BMW, probabilmente a quell'ora avrebbe avuto bisogno di un pacemaker e di un paio di mutande nuove. Johnny disse: «Avrebbero dovuto scegliere le strade secondarie. Così sta diventando noioso.» Ma poi, proprio mentre parlava, scorsero tutti e due un forellino nero che era apparso, un po' fuori centro, nel lunotto posteriore incrinato della BMW. Lo fissarono, stranamente affascinati, mentre il buco diventava sempre più largo, un po' come si potrebbe guardare qualcosa che
lotta per uscire dal guscio di un uovo; solo che il brutto anatroccolo che emerse era il bambino di otto anni, intento a demolire il vetro con uno strumento che sembrava un cacciavite. «Che cosa fanno?» domandò Johnny, ma Nick non riusciva a vedere più di lui. Si chiese se sarebbe riuscito a raggiungere la tasca destra dei pantaloni con la mano sinistra libera, e se c'era la possibilità che Johnny si accorgesse della manovra. Là dentro c'era il suo anello di chiavi, e attaccata c'era la chiave delle manette. Le serrature delle manette non avevano poi tante configurazioni, e c'era una probabilità che la sua chiave si adattasse. Ma ammettendo pure che fosse così, e ammettendo che fosse riuscito a raggiungerla, che cosa avrebbe potuto fare, dopo? Davanti a loro, il bambino continuava ad allargare il foro. Due degli altri si muovevano all'interno dando la sensazione di avere uno scopo preciso, ma Nick non riuscì a capire quale finché la ruota di scorta della BMW non fu bruscamente spinta fuori dall'apertura e poi fatta scivolare sopra il bagagliaio. Nick immaginò che avessero smontato il sedile posteriore per arrivarci; e Johnny doveva essere stato colto di sorpresa come lui, perché reagì con un po' di ritardo quando la ruota colpì di taglio la strada e rimbalzò contro di loro con violenza spaventosa. Johnny sterzò e Nick sentì un breve urto contro la fiancata dell'auto, più o meno con lo stesso rumore che ci si aspetta da un pugno vibrato con un guantone, e la Capri sbandò così violentemente che per un attimo Nick ebbe la certezza che si sarebbe rovesciata. Furono fortunati, perché i ragazzi non avevano calcolato i tempi bene come avevano creduto; ma mentre Johnny lottava per mantenere tutt'e quattro le ruote sull'asfalto e la ruota di scorta si allontanava rimbalzando per mettere nei guai qualcun altro, la BMW imboccò un'uscita. E non ce ne sarebbero state altre per i dieci chilometri successivi. La Capri la superò di slancio. Per un attimo Nick fu sicuro che Johnny avrebbe innestato la retromarcia per raggiungere l'uscita muovendosi in direzione contraria al traffico in arrivo. Ma prima salì sulla banchina di cemento... e poi si comportò esattamente come Nick aveva temuto. Parecchi dei grossi autocarri fecero rollare la macchina con lo spostamento d'aria e fecero tuonare i clacson rombando a pochi centimetri di distanza da loro; Nick non poteva guardare ma non riusciva nemmeno a chiudere gli occhi. Osservò dall'alto del terrapieno le luci della rampa di uscita, dove la BMW stava rallentando fino a fermarsi. Che cosa avevano deciso, di abbandonare la macchina? Quella era la
procedura abituale per i ladruncoli che rubavano un'automobile per fare un giro in città. Appena venivano bloccati, si fermavano, spalancavano gli sportelli e si dileguavano come pulci da una coperta. Ma lì erano in mezzo a un deserto, e non sarebbe stata una decisione molto intelligente. Johnny perse la pazienza con la marcia indietro. Allora girò la Capri col muso in avanti per scendere sobbalzando sul pendio erboso, tagliando diritto nel buio attraverso il terreno irregolare e sballottando la vettura nella discesa. Nick non rivide la BMW finché non arrivarono slittando sull'asfalto dello svincolo, e allora si accorse che uno sola delle portiere era aperta e una delle figure era scesa, la più piccola. Ora che gli scossoni erano finiti, vide che il bambino lottava con tutte le sue forze per non essere estromesso. Una forte spinta lo fece cadere a terra, la portiera sbatté, e la BMW era già ripartita prima che lui riuscisse a rialzarsi. Pochi secondi dopo, quando la Capri gli passò accanto, stava saltellando di rabbia, simile a una strana scimmietta antropomorfa più che a un bambino, e li spruzzò di terriccio e zolle raccolti a piene mani sul bordo della strada. Johnny non si voltò nemmeno a guardarlo. Tutta la sua attenzione era rivolta alla macchina davanti. Uno di loro aveva spinto fuori il fratellino, continuava a ripetersi Nick. E disse: «Lascia perdere, Johnny.» «Io non lascio perdere la merda» ribatté Johnny, scalando le marce in fretta mentre la strada riprendeva a salire. «Stasera finalmente impareranno che cos'è davvero la vita.» E Nick lo guardò e se non ci fosse stato il riflesso verde che gli batteva sul viso dal cruscotto, avrebbe giurato che i suoi occhi ardevano di una luce intensa. Stavano salendo, stavolta su una stretta carreggiata in mezzo a muri a secco che a tratti si erano sgretolati. I vuoti erano stati rappezzati con il filo spinato, e quando Nick guardò indietro fu attraverso uno di quelli che riuscì a scorgere il nastro luminoso dell'autostrada che scompariva alla vista giù in lontananza. Ormai erano soltanto due auto che proseguivano alla cieca in un'oscurità attenuata di tanto in tanto dal balenare di un fulmine di un temporale lontano che era nell'aria dal pomeriggio precedente, e la luce rivelava una brughiera sconfinata da entrambi i lati. Erano di nuovo a pochi metri dai ragazzi quando la strada formò un dosso e cominciò a scendere. I fari di Johnny illuminarono a giorno l'interno spoglio della BMW e mostrarono in dettagli nitidi i tre ragazzi. Quello che ormai era solo sul sedile posteriore semidistrutto si girò a guardarli, con il viso stravolto dal terrore e dalle righe chiare tracciate dalle lacrime nel su-
diciume delle guance, mentre gridava a Johnny qualcosa che il vento si portò via. E Nick sentì Johnny dire, piano: «Sì, quello andrà benissimo.» Poi cominciò a incalzarli più dappresso. I ragazzi persero la bussola, mentre Johnny manteneva un controllo così saldo che la Capri sembrava correre sui binari. La BMW sussultava, faceva sprizzare scintille dalle pietre sbandando di lato, azionava i freni, e Johnny dovette bloccare di colpo varie volte per evitare un tamponamento; poi d'un tratto i fari della BMW si spensero e l'auto scomparve alla vista. Fu come un gioco di prestigio. Ci vollero alcuni secondi perché nella mente di Nick si facesse strada la comprensione di quello che era successo, ma ormai la macchina stava rallentando. Era appena riuscito a tirar fuori di tasca le chiavi nel buio della strada di campagna. Si trovava in posizione scomoda e non voleva che Johnny si accorgesse di quello che stava facendo, così rimandò per un momento mentre Johnny si affacciava dal finestrino per far tornare indietro la Capri lungo il sentiero. Dopo una cinquantina di metri, Johnny fermò di nuovo l'auto, e stavolta scese. Prese con sé la torcia elettrica. "Ora o mai più" pensò Nick... E trenta secondi dopo scendeva anche lui dalla Capri incespicando e cercando di risvegliare la spalla destra intorpidita, lasciando le manette aperte a dondolare, come un oggetto di scena abbandonato sul palcoscenico del secondo grande trucco illusionistico della serata. Johnny si voltò un attimo dopo, sentendo spegnersi il motore. Aveva ricostruito la tecnica del numero della sparizione; nel raggio della torcia, dal punto in cui si trovava, Nick poteva scorgere una strada a una sola corsia sulla destra, una curva secca che scendeva con una pendenza così ripida che la BMW era semplicemente scomparsa ai loro occhi, troppo in fretta perché il movimento fosse visibile. Nel silenzio che seguì, quando il motore della Capri si spense, un soffio di brezza portò fino a loro il fragore del cambio di un motore che rombava a circa un chilometro e mezzo e si allontanava attraverso la brughiera. Johnny, con aria perplessa, domandò: «Che vuoi fare?» Nick aveva sfilato dal cruscotto le chiavi di Johnny, e ora stava bene attento a mantenere l'auto fra loro due. Rispose: «Ti tengo in carreggiata, Johnny. Ricordi?» «Ma...» «Niente discussioni. Guido io al ritorno. Tu hai bisogno di aiuto.»
Johnny sospirò. Chiuse gli occhi. Scosse la testa come un uomo deluso. Disse: «Non hai capito un accidenti, vero?» «Più di quanto avrei voluto.» «Tu non vuoi proprio aprire gli occhi» disse Johnny con amarezza, e mentre parlava si diresse verso la macchina. Nick si mosse anche lui, pronto a girarci intorno se necessario. Se ci fosse stato costretto, sarebbe tornato indietro senza Johnny. Anzi, più ci pensava, più rimpiangeva di non essersi messo direttamente al volante lasciandolo a terra. «Ho fatto del mio meglio per te, Nick» disse Johnny. «Nessuno avrebbe potuto fare di più. Be', ormai è finita.» E parlando Johnny infilò la mano sotto il passaruota anteriore della Capri e la ritirò stringendo una scatoletta magnetizzata. Nick non poté fare altro che guardare con una sorta di morbosa attrazione mentre Johnny ne estraeva una copia di riserva delle chiavi e gettava via nel buio la scatoletta vuota. «Me lo ricorderò» disse. «Quando avrò finito con loro, tornerò per te.» Nei suoi occhi c'era un fuoco oscuro. «D'ora in poi, sei nel libro.» E mentre risaliva in macchina, fino all'ultimo momento, quegli occhi rimasero fissi in quelli di Nick come gli occhi di un serpente sulla preda. Dunque eccolo lì, il piano più audace di Nick, e non era riuscito a ottenere altro che un colpo di singhiozzo nel ritmo della follia di Johnny. Corse verso il muro per osservare la discesa dell'auto, ma i fanalini posteriore della Capri si scorgevano solo a intermittenza. Mentre si sforzava di vedere, un fulmine illuminò per un attimo la brughiera in pendenza e lo specchio di un lago artificiale più in basso, a una certa distanza. Quando rimbombò il tuono, pochi secondi dopo, sembrò spaventosamente vicino, dopo essere rimasto sullo sfondo per tante ore; e per qualche motivo inspiegabile Nick pensò a quel televisore caduto, e al modo in cui l'esplosione era sembrata ridestare un'eco lontana, come un cucciolo di orso che chiamasse la madre. Rimase ad ascoltare il motore della Capri mentre il tuono rombava lontano e svaniva. Ma non si sentiva niente, assolutamente niente. Allora, mentre l'aria temporalesca si trasformava in pioggia, raccolse la torcia elettrica dalla banchina dove Johnny l'aveva lasciata, ancora accesa, col raggio che si allungava di traverso sull'asfalto. La puntò verso il basso
e si accorse di avere davanti a sé una stradicciola di terra battuta, con le tracce parallele delle due auto ancora visibili. Le seguì verso il basso. Superò un cancello aperto e un paio di cartelli della Water Authority, ma non c'era nient'altro a indicare che la pista fosse usata. In fondo c'era il bacino artificiale, acqua nera punteggiata dalla pioggia; laggiù la pista deviava a sinistra per superare la diga. I segni nel terriccio no. Proseguivano diritti fino all'orlo, e lì finivano. Per più di un minuto Nick rimase fermo sulla diga a guardare nel vuoto, con i cieli sopra che tremavano tanto forte da far sussultare all'unisono la terra stessa. La pioggia stava aumentando sempre più d'intensità, una pioggia fitta di dardi argentei nel raggio luminoso della torcia; la luce si rifletteva su una banchina così ripida che lui non si sarebbe azzardato a calarvisi senza una corda nemmeno se le condizioni fossero state ideali. Oltre la banchina, il raggio si perdeva nel nulla, come in un pozzo senza fondo. Udiva soltanto i tuoni. Vedeva soltanto la pioggia. 7 Nessuno gli fece domande. Almeno non subito, anche se un ufficiale superiore che non conosceva gli telefonò poco dopo le undici per chiedergli quando aveva visto per l'ultima volta Johnny Mays. Nick rispose che era stato quando si erano separati dopo il turno di servizio della sera prima, il che era abbastanza vero. Non aveva intenzione di fornire più informazioni del necessario, perlomeno finché non avesse capito qual era la sua posizione. Essere testimone della fine di Johnny era un conto; essere considerato suo complice nel terrore sarebbe stato molto diverso. L'ufficiale superiore si congedò senza dirgli altro, se non di presentarsi dal sergente dopo aver fatto rapporto. Nick aveva raggiunto a piedi la statale più vicina e una coppia su un furgone Bedford gli aveva dato un passaggio per tornare in città. A quel punto era così fradicio che nemmeno il più cinico degli automobilisti sarebbe passato oltre senza fermarsi. Arrivato a casa, si era spogliato e si era seduto a gambe incrociate sulle piastrelle nel vano della doccia finché l'acqua che gli scorreva addosso non aveva cominciato a diventare fredda. Dopo aveva dormito, ma non si sentiva riposato. E come dormiva Johnny Mays adesso? si domandava. Con i morti, di quello almeno Nick era sicuro. Sentiva un dolore vuoto, terribile, che gli faceva desiderare di poter riavvolgere il nastro e cancella-
re le ultime ore per inciderle di nuovo; e stavolta avrebbe fatto in modo che fossero come le voleva lui. Come aveva detto l'uomo del CID, tutti hanno bisogno di un viaggio nell'Isola della Fantasia, ogni tanto. Solo che a Nick quel giorno ne occorreva uno più lungo del solito. «Mi spiace, Johnny» disse rivolto al cielo grigio fuori della finestra del soggiorno. Poi tirò fuori le pagine gialle per chiamare uno sfasciacarrozze, e gli spiegò dove aveva lasciato la macchina. Ripescarono la Capri vuota verso le due del pomeriggio. Tre sacchi di plastica per i cadaveri e la carcassa ancor più danneggiata della BMW erano già allineati sull'erba di fianco al bacino idrico, pezzi spaiati di una partita mortale. Ora toccava a Bruno ricostruire il gioco, partendo soltanto dal punteggio finale; quello, e appena qualche frammento di testimonianza nelle prime ore del mattino. Il primo paio di telefonate era arrivato di seconda mano, messaggi CB rilanciati da camionisti in viaggio di notte sull'autostrada. Avevano riferito di uno spietato inseguimento a velocità spericolata e uno di loro, che ora pareva introvabile, aveva parlato di una Capri a fari spenti. All'ora in cui erano cominciati i regolari rapporti telefonici, una pattuglia sull'autostrada era già partita senza trovare niente sul tratto in questione, a parte un pneumatico di automobile abbandonato sulla banchina e, particolare irrilevante, biancheria femminile appesa a un cespuglio. Quando i numeri di targa forniti in una delle chiamate erano stati controllati, l'interesse era aumentato alla scoperta che una era nell'elenco delle vetture rubate (dato che i documenti relativi al suo ritrovamento si trovavano ancora fra la posta In partenza di un ufficio al secondo piano), mentre l'altra era l'auto personale di un agente in borghese. E se qualcuno aveva storto il naso al pensiero che l'agente in questione era un certo Johnny Mays, nessuno per la verità aveva reso pubbliche le proprie riflessioni. Non c'erano state novità fino alle 9,20, ora in cui un operaio della Water Board era sceso dalla Land Rover per guardare prima le due serie di tracce di pneumatici dirette verso il nulla - la nottata di pioggia le aveva sfumate, ma erano ancora inequivocabilmente fresche - e poi il ragazzo che galleggiava a faccia in giù nello specchio d'acqua poco più in basso. Era giunto in fretta alla conclusione che non tutto risultava normale nel mondo dei li-
velli di flusso e di filtraggio, e aveva chiamato il supervisore. L'agente del paese nella valle vicina era stato la prima presenza della polizia sulla scena, e mentre si sporgeva per tirare a riva il corpo con una gaffa, aveva sentito un sobbalzo quando il gommone era passato su un ostacolo che giaceva nell'acqua bassa. L'ostacolo si era rivelato il tetto della BMW, e l'agente del paese aveva deciso che perfino da quelle parti poteva succedere qualcosa, dopo tutto. In quel momento la scena era completamente diversa. La prima ondata di arrivi aveva trasformato la pista di terra battuta in un pantano invalicabile, e un muro di pietra era stato in parte abbattuto per fornire un accesso alternativo. C'erano auto, furgoni, sommozzatori della polizia con i loro mezzi d'appoggio, e al centro la grossa autogru che stava sollevando la Capri di Johnny Mays da uno dei punti più profondi e più oscuri del lago. L'auto girò lentamente sospesa al cavo mentre il gigantesco braccio idraulico la spostava, con tre sommozzatori che la seguivano camminando nell'acqua bassa, e Bruno pensò a una di quelle assurde giostre da fiera. Come le chiamavano i ragazzi? Corse da sbiancare le nocche. Lanciò un'occhiata ai ragazzi stesi sul terreno, anonimi e freddi nella solitudine dei sudari di plastica. Bianchi come nocche contratte, tutti e tre. Gli uomini dell'obitorio avevano voluto sapere quante bare riutilizzabili in acciaio dovevano portare. «Portate tutte quelle che avete» aveva risposto. «Non abbiamo ancora finito.» La Capri atterrò con un tonfo, sputando acqua da tutte le connessure. La Scientifica entrò subito in azione, e il capo della Squadra sommozzatori si tolse la maschera mentre ciabattava con le pinne avvicinandosi a Bruno. «Qual è il bilancio?» chiese Bruno. «Fa un freddo cane, questo posso dirtelo.» «E?» «Nessuna traccia di lui, soltanto la macchina vuota. C'è una vasta zona da coprire, e le correnti possono essere forti quando sono aperte le chiuse. Lo troveremo, ma preferirei non dover fare previsioni.» «Grazie.» «Puoi sempre sederti sulla riva e aspettare. Se gli dai un paio di giorni perché comincino a formarsi i gas, lo vedrai salire a galla come un turacciolo.» «Magnifico.» «Se vuoi risparmiare gli uomini, basta chiedere a un paio di allievi di re-
stare qui con un gommone e una gaffa.» «E una buona riserva di sacchetti per vomitare. Questa è acqua potabile della città, George.» Il capo della squadra scosse la testa. «Io non la tocco mai, per quanto mi riguarda» disse. «Da quando mi hanno raccontato quello che ci fanno dentro i pesci.» Bruno rimase a osservare per un po' l'attività intorno alla Capri. Visti da lì, i suoi uomini sembravano un branco di mimi che riproducevano un intervento chirurgico a cuore aperto con attrezzi da giardino. Un dettaglio insolito che gli s'impresse nella mente; da dove si trovava poteva vedere attraverso la macchina il lago artificiale più in là, e nella silhouette in controluce scorse le manette regolamentari che pendevano, aperte a un'estremità, dalla maniglia sopra la portiera dalla parte del passeggero. Ma poi qualcuno si mise di mezzo, e Bruno non ci fece più caso. Alzò la testa, tentando di valutare la distanza da cui erano precipitate le due auto. La superficie erbosa della diga superiore cadeva a precipizio quasi come una parete verticale, e nessuna delle due vetture era riuscita a fare neanche un rimbalzo nella caduta. Erano semplicemente schizzate in aria e poi, dopo alcuni lunghi istanti, avevano perso tutta la loro grazia in un attimo di fragore. Ora stavano fianco a fianco, ammaccate e gocciolanti e ormai inutilizzabili. Bruno chiamò il sergente. «George dice che è vuota» lo informò. «George non si sbaglia» confermò il sergente. Si chiamava Danny Glover, ed era un ex marinaio, che aveva fatto cinque anni di servizio nella polizìa di Hong Kong prima di tornare in patria ed entrare nel reparto. «Il finestrino del posto di guida era aperto e la cintura di sicurezza non era stata allacciata. Potrebbe essere stato risucchiato fuori quando la macchina si è posata sul fondo.» «Qualche speranza che possa essere sopravvissuto?» «Se lo troviamo e se non è ridotto a esca per i pesci, direi di sì. Altrimenti possiamo scordarcene. Voglio dire, guardi il salto.» Guardare il salto era facile. Era il pensarci che faceva contrarre a Bruno lo sfintere. Disse: «Organizziamo una ricerca nella zona, per ogni evenienza. In un raggio di un chilometro e mezzo, e con tutti gli uomini di cui possiamo fare a meno. E controllate tutte le fattorie o i cottage dove potrebbe essere finito.» «In cerca di cosa? Johnny Mays che bussa alla porta a mezzanotte? Era un pazzo bastardo, ma a tutto c'è un limite.»
«Lo so. Ma facciamolo ugualmente. Scommetto un lingotto d'oro contro un biscotto per cani che avremo un'inchiesta di cui preoccuparci, oltre a tutto il resto.» Bob Glover appariva pensieroso. «I ragazzi lo sanno?» domandò. «I ragazzi sono già in azione» assicurò Bruno. «Anzi, dovrò cercare di moderare un po' i loro sforzi.» Il sergente lanciò un'occhiata in alto verso la figura solitaria che era rimasta a osservare dal terrapieno per quasi tutta l'ora precedente. «E lui cosa ne sa?» domandò. «È quello che spero di scoprire» rispose Bruno. Nick dovette sedersi nel retro dell'auto di Bruno, quando se ne andarono, perché il sedile anteriore era quasi sepolto sotto i fascicoli e i classificatori. Per Nick faceva lo stesso. In ogni caso non si sentiva in vena di chiacchiere. Non era mai stato in casa di Johnny prima di allora, anche se c'erano passati una volta durante l'orario di lavoro perché lui doveva prendere il tesserino della cassa continua. Johnny aveva in affitto il piano superiore di una casa, una villetta di quattro appartamenti con un custode/proprietario che abitava nel seminterrato, e Johnny raccontava che sbucava di tanto in tanto come un'apparizione per aggiustare tubi o sostituire lampadine, o per attaccare sulla porta del maestro al secondo piano biglietti di protesta a proposito di biciclette. Presero la chiave di Johnny sotto lo zerbino del maestro «un accordo escogitato per confondere un eventuale ladro che riuscisse a introdursi nella zona comune» e salirono la scala fino in cima. Bruno aprì la porta. Nick lo seguì nel breve corridoio. E rimase impietrito, vedendo Johnny Mays che usciva dalla stanza in fondo per chiedere che cavolo stava succedendo. Solo che non era Johnny, non gli somigliava nemmeno molto, e la sua espressione era di cauta apprensione più che d'indignazione; evidentemente era anche lui un intruso nella casa, e quando riconobbe Bruno parve rilassarsi un po'. Bruno ribatté: «Che cosa stai combinando tu?» «Soltanto un po' di faccende domestiche, capo» rispose l'uomo, e dalla stanza alle sue spalle provenne un rumore di cassetti aperti e sportelli dell'armadio spalancati. Nick sbirciò verso la porta a sinistra, quella della camera da letto. Il letto a una piazza non era fatto, e nell'aria aleggiava un odore acre, come se un cane avesse fatto pipì da qualche parte.
«Be', io non ti ho visto» disse Bruno in un tono che chiudeva il discorso, e poi fece segno a Nick di precederlo in quella che si rivelò la cucina. C'era una pila di piatti e vassoi nel lavello, e scatolette aperte sul ripiano. Sopra il tavolo di formica azzurra c'era una scatola di cereali per la colazione e parte del contenuto era sparsa sul ripiano. In mezzo ai fiocchi di cereali, si scorgeva il lieve scintillio dello zucchero rovesciato e poi dimenticato. Segni di vita vissuta, li avrebbe definiti Nick in qualsiasi altro momento... ma non quel giorno. Bruno chiuse la porta, e il messaggio era chiaro. Tempo di parlare un po' con franchezza. Nick domandò: «Come la vede lei?» «Poliziotto fuori servizio all'inseguimento di un'auto rubata. Oppure hai qualche altra idea?» «E i testimoni?» «Ce ne sono abbastanza, lungo il percorso. Lassù dev'essere stato come il Circo Massimo, per un po'.» Nick abbozzò un sorriso. «Johnny non era un pilota molto prudente.» L'espressione di Bruno non cambiò, ma il suo silenzio durò troppo perché l'altro si sentisse a proprio agio. «Hai dei nervi d'acciaio» disse alla fine, e lo disse a bassa voce. Nick sentì qualcosa dentro di lui tendersi. «Eh?» «Sei rimasto a guardare mentre si distruggeva. Era abbastanza evidente che Johnny Mays stava andando in pezzi, e tu non hai mosso un dito per aiutarlo.» Si sentì un tonfo dalla stanza accanto, come di un oggetto lasciato cadere. Nick disse: «Ma certo. È tutta colpa mia. E lei dov'era, mentre succedeva tutto questo?» «Ero disponibile.» «Offriva una spalla su cui piangere, ma di sicuro non si offriva di portare una parte del peso. Quante persone al reparto sapevano cosa gli stava succedendo? Eppure gli lasciavano superare la visita di controllo ogni anno senza battere ciglio, come se non ci fosse niente che non andava nel suo mondo.» Nick guardò il pavimento, che non doveva essere stato lavato dal giorno in cui erano state posate le mattonelle. Che stava succedendo, lì? Un solo istante di collera intensa, e tutto gli sfuggiva di mano come sabbia asciutta. Aggiunse: «Johnny Mays doveva essere messo fuori molto prima del mio arrivo. Vorrei che fosse successo.»
«Nessun altro gli era tanto vicino.» «Io non gli ero vicino. Era lui che seguitava a dirmi che lo ero. Non è la stessa cosa.» «Sì, be'...» disse Bruno. Sembrava meno sicuro, adesso, si guardava attorno come se si fosse appena svegliato in un posto estraneo; o forse stava solo pensando che aveva giudicato male la situazione fra Nick e Johnny, come un uomo che assesta un pugno a una sagoma dietro una tenda e sente un bambino piccolo scoppiare a piangere. Riprese: «Quello che è fatto è fatto. Almeno, in questo modo Johnny diventa un eroe.» «E non è il momento di dondolare la barca.» «L'hai detto. Fargli indossare a posteriori i panni del cattivo potrebbe farti perdere un sacco di amici da queste parti.» «Andiamo, Bruno. In sostanza ero fregato in ogni caso. Potevo essere il figlio di cane che lo denunciava, ora invece sono il bastardo che non lo ha fatto. Cerco di mettere le cose in chiaro, e mi ritrovo a ballare sulla tomba di un giusto.» «Lasciamo perdere, allora» suggerì Bruno piano. «E quanto tempo pensa che mi resti?» «Prima di che cosa?» «Prima che comincino le chiacchiere.» «Questa da parte tua è paranoia.» «È facile dirlo per lei. Io ci sono già passato. Perché crede che abbia dovuto trasferirmi in questa città, tanto per cominciare?» «Non sapevo che avessi dovuto trasferirti.» Nick si avvicinò alla finestra per guardare fuori. La finestra era... oh, al diavolo, non aveva senso catalogare tutti i dettagli; Johnny teneva la casa come un porcile. Attraverso il vetro sporco Nick vedeva un panorama di tetti e più in basso giardini recintati, un po' di tutti i tipi, da quello semplice con sentieri tracciati dai cani e infestato di gramigna, su su fino a quello ossessivamente curato. Nick spiegò: «Una volta, ho visto qualcosa che non avrei dovuto vedere e non mi è piaciuto, così ho fatto la parte del canarino. Ho ricevuto una pacca sulle spalle, e da allora è stato come vivere sottozero. Ci sono dei limiti, Bruno. Quel tipo di trattamento si può reggere solo per un certo tempo.» La verità era questa: Nick era in servizio di pattuglia, nel turno di notte, quando aveva scorto due colleghi afferrare un ubriaco, un braccio per ciascuno, e scaraventarlo a testa in avanti contro un palo di cemento. L'ubria-
co era un giovanotto sui 24 anni, con i capelli tagliati così corti che la testa sembrava rapata e con un tatuaggio elaborato sul cranio all'attaccatura dei capelli. Aveva sputato sulla divisa di uno degli agenti. Era rimbalzato dal palo e poi era scivolato pesantemente a sedere, con le gambe che gli si piegavano sotto. Era stato registrato, sbattuto in una cella e controllato ogni 15 minuti finché non era passato il medico della polizia. Allora lo avevano trasferito all'ospedale, dove si era scoperto che non poteva più parlare né leggere né mangiare da solo. La famiglia aveva presentato una denuncia. Nick era andato dal capo e gli aveva raccontato quello che aveva visto. Quella notte stessa aveva ricevuto la prima telefonata. Tre giorni dopo, quando era tornato al reparto e aveva aperto l'armadietto, ci aveva trovato dentro una busta di plastica squarciata piena di tamponi chirurgici usati, residuo - aveva scoperto in seguito - di un'operazione esplorativa su un tumore eseguita nell'ospedale locale. Contro di lui non si erano schierati solo i due uomini sospesi, ma anche tutti gli altri. Lo avevano fatto sentire peggio di un lebbroso. Rifiutato dai suoi stessi colleghi, come un assistente sociale tra i disadattati. Così aveva inventato una scusa e aveva chiesto il trasferimento per motivi personali, ben deciso a non rischiare mai più di farsi cadere il tetto sulla testa in quel modo. E una giustizia poetica gli aveva affibbiato Johnny Mays. Bruno chiese: «Non hai mai pensato di cercarti un altro genere di lavoro?» «Strano che lei me lo dica» ribatté Nick. «Ci penso sempre più spesso.» Quando uscirono dalla cucina, i due uomini che erano entrati prima di loro stavano chiudendo le porte e si preparavano ad andarsene. Bruno domandò: «Qualcosa di cui dovrei essere informato?» «Solo un po' di scartoffie per il tritacarta» rispose uno di loro. «Nessun terremoto. E abbiamo trovato queste.» Da una borsa, il collega tirò fuori due ricetrasmittenti della polizia. Quei dannati aggeggi costavano duecento sterline al pezzo, come niente, e in teoria sarebbero dovuti essere più rintracciabili di un satellite spia. Come fosse riuscito Johnny a procurarseli, era tutto da scoprire. E Johnny non lo avrebbe più riferito a nessuno. A meno che qualcuno non avesse organizzato una seduta spiritica. Le ricetrasmittenti tornarono nella borsa e il primo uomo disse: «Noi abbiamo finito. La casa è tutta vostra.» «Bah.» Bruno guardò Nick. «Penso che abbiamo già visto tutto quello
che ci serviva. Non è vero?» «Direi di sì» convenne Nick. Gli avevano detto di andare a casa, ma non lo fece. Tornò alla centrale ed entrò nella sala agenti; tutti gli uomini in borghese erano fuori, ma c'erano alcuni poliziotti in uniforme, che chiacchieravano per ammazzare il tempo e controllavano l'orologio per non tardare all'appuntamento successivo, qualunque fosse. A Nick l'atmosfera della sala agenti era sempre piaciuta, perché era una tregua nel gioco interminabile e a volte brutale che si svolgeva per le strade. Il fatto che per lo più fosse interminabile e solo di rado brutale non sembrava avere tanta importanza, lì: la teoria del barilotto di polvere pronto a esplodere era essenziale a tutte le storie migliori e, come aveva detto una volta lo stesso Nick, a che serviva avere una stella di latta senza una Dodge City in cui portarla? Forse era solo immaginazione. Un paio di uomini lo salutarono. Ma dopo cinque minuti dal suo arrivo, lo stanzone si era quasi vuotato. Lui passò nella sala adiacente, riservata alle macchine da scrivere. I tavoli là dentro sembravano vecchi banchi scolastici e le macchine da scrivere... be', ogni volta che Nick doveva usare una di quelle vecchie e pesanti macchine manuali, la vista dei martelletti che battevano sul nastro gli rammentava sempre lo schiavo che segnava il tempo sulla galea di Ben Hur. Non c'era nessun altro in giro, anche se vicino al lavandino un bollitore Russell Hobbs tutto ammaccato stava raggiungendo il bollore. La valvola del bollitore scattò, sul vassoio erano in attesa alcune tazze vuote, ma nessuno si fece vedere. Nick si sedette a uno dei tavoli. Prese un foglio di carta e lo infilò nel rullo della macchina. «A tutta velocità!» disse, e cominciò a battere sui tasti. 8 L'inchiesta sulla morte dei ragazzi fu aperta nella sala delle udienze del coroner, nello squallido edificio che sorgeva a fianco della stazione di polizia. Nick era presente, ma non fu chiamato a deporre. Bruno sì, ma disse soltanto che le indagini della polizia erano ancora in corso. Il coroner accolse le prove per il riconoscimento e poi aggiornò la seduta per attendere l'esito delle indagini. Non era stata ancora fissata una data per l'inchiesta su Johnny Mays. I
sommozzatori stavano ancora cercando il suo corpo. Nick cominciava a domandarsi in quali condizioni sarebbe stato Johnny quando finalmente fosse tornato a galla, e a chi avrebbero chiesto di fare il riconoscimento formale; aveva la spiacevole sensazione che sarebbe toccato a lui, e si domandò se era il caso di prendersi qualche giorno di ferie e restare per un certo tempo a distanza di sicurezza. Aveva visto la sua parte di morti, e aveva finito per vederli soltanto come gusci scartati, nient'altro che le dimore vuote dei viventi; ma un morto annegato era qualcosa di diverso. Dopo qualche giorno un annegato diventava una grossolana caricatura di un essere umano, già difficile da affrontare in un estraneo, ma roba da incubo quando si trattava di qualcuno che ti era vicino. ("Ma non eravamo tanto vicini" dovette rammentare a se stesso). L'aula del tribunale e la stazione di polizia erano collegate al secondo piano da una porta a due battenti, che i prigionieri attraversavano per passare dalle celle di Bridewell alla luce dei riflettori per il loro momento di gloria. Per arrivarci, Nick e Bruno dovettero girare dalla zona di custodia, dove Bruno si fermò a chiedere al sergente di Bridewell notizie sulla figlia, che era stata operata a un occhio un paio di settimane prima. Nick avrebbe potuto proseguire da solo, ma aspettò. «Immagino che questo renda tutto ufficiale» disse a Bruno mentre superavano la porta e rientravano nel loro territorio. «Per quello che vale» replicò Bruno. «Perché, pensi che si siano lasciati sfuggire qualcosa?» Quando imboccarono le scale, una donna poliziotto si fece da parte per lasciar passare Bruno; e anche Nick, dato che non lo conosceva e non sapeva qual era il suo grado. Nick disse: «Ho avuto quasi l'impressione che fossero tutti attenti a descrivere scrupolosamente gli effetti e a sorvolare sulle cause. Nessuno mi ha chiesto niente, là dentro. Il rischio maggiore è quello di restare assordato dal silenzio.» Si fermarono sulle scale. Bruno disse: «E cosa avresti voluto aggiungere, esattamente?» Nick si lanciò un'occhiata alle spalle, ma la donna poliziotto se n'era andata. «Che ero con lui fino a due minuti prima che precipitasse» rispose abbassando la voce, per evitare che lo sentissero in tutti i piani dell'edificio. Bruno rimase impietrito. «Mi prendi in giro» disse. «Ero in macchina, ho visto la scena. Dopo sono stato costretto a tornare indietro con l'autostop. Tutti mi hanno evitato, nessuno mi ha chiesto nep-
pure come mi sono procurato l'occhio nero, e finora non c'è stata una sola conclusione esatta nelle indagini. Molto indicativo dei nostri metodi, non le pare?» «Non credo di voler sentire» ribatté Bruno. «Tocca a lei scegliere, Bruno. Tenga.» Bruno guardò la busta senza prenderla. «Che cos'è?» «La storia completa.» Bruno era incastrato, e non gli piaceva. Neppure a Nick faceva piacere incastrarlo, ma non poteva nemmeno tirare avanti così da solo. Bruno domandò: «A che serve, adesso?» «Se non ha voglia di leggerla, la ficchi in qualche cassetto. Ma sarà una decisione sua, Bruno, non mia. Ne ho abbastanza di ascoltare i problemi di tutti e poi girarmi per raccontare i miei e scoprire che sto parlando al muro.» «E se nessuno ci credesse? Perché nessuno vorrà farlo, posso dirtelo subito.» «Là dentro ci sono elementi che può controllare. Cominci dalle manette, nessuno ne ha ancora parlato. Ma una volta che avrà cominciato, non ci sarà modo di tornare indietro.» «Grazie mille» disse Bruno in tono depresso. E poi, esitando, prese la busta. Era pesante, e non solo per la massa di fogli dattiloscritti che c'era dentro. Nick lo osservava, e capì che Bruno aveva appena svoltato un angolo per entrare in un paese nuovo, alla luce di un sole diverso. Il paesaggio non era troppo accogliente... ma almeno Nick non sarebbe più stato l'unica figura viva. Bruno disse: «Che cosa farai, ora?» «È quello che devo decidere» rispose Nick. Bruno entrò nel suo ufficio. Di solito chiudeva la porta solo per i colloqui disciplinari, e mai quando era solo; ma in quel momento la chiuse. Lasciò cadere la busta di Nick sulla scrivania. E mentre ci girava intorno per raggiungere la poltroncina, scoprì di non riuscire a distoglierne gli occhi, come se la busta fosse un ordigno pericoloso che lui aveva l'incarico di disinnescare. Bruno riteneva che nessuno potesse lamentarsi della sua onestà sul lavoro, ma era anche realista. Probabilmente non c'era un solo agente in tutto il reparto che non nutrisse qualche sospetto inespresso sull'inseguimento fatale che era costato la vita a Johnny Mays, specialmente se conosceva il
carattere di Johnny. Bruno lo aveva individuato subito come un elemento da tenere d'occhio; i problemi di Johnny sembravano scaturire da una pericolosa combinazione di alta considerazione di sé e scarsa abilità, quel genere di atteggiamento che distillava aggressività dall'amarezza e mascherava il cocktail con uno spruzzo di astuzia di bassa lega. Ma gli era sembrato abbastanza inutile sollevare la questione in quel momento. Forse Johnny aveva spinto i ragazzi, ma quella era l'ipotesi più pessimistica che aveva preso in considerazione fino a quel momento. Tutti e tre i ragazzi avevano già dei precedenti per lo stesso tipo di reato, probabilmente li aspettava una vita di criminalità spicciola o peggio, e le uniche persone che li piangevano in quel momento erano proprio quelle che li avevano maggiormente delusi quando erano in vita. Johnny forse li aveva messi sotto pressione laggiù sulla strada, ma non poteva esserci altro. E a chi sarebbe servito sbandierarlo ai quattro venti, se non a quei tizi sempre pronti a criticare la polizia tanto da far sembrare truppe d'assalto perfino i Chunky Bears? C'era un gran silenzio nell'ufficio, con la porta chiusa. Non gli avrebbe certo fatto piacere che diventasse una consuetudine. Bruno sospirò, e aprì uno dei cassetti della scrivania. Dentro c'erano soltanto le solite cianfrusaglie da ufficio e un grosso tascabile di Nelson De Mille che aveva cominciato a leggere mesi prima ma non aveva mai trovato il tempo di finire. Esitò un attimo, poi allungò la mano verso la busta di Nick. Lasciò cadere la busta nel cassetto, in mezzo alle biro usate, ai blocchetti di moduli e a un groviglio di elastici che somigliava a un nido di serpenti. La stava contemplando, quando qualcuno bussò alla porta; chiuse in fretta il cassetto, quasi come un capo scout sorpreso con una rivista oscena. «Avanti» esclamò, e la porta si aprì appena quanto bastava perché l'impiegata civile della segreteria in fondo al corridoio facesse capolino. «Tutto a posto?» domandò. Aveva alcune lettere battute a macchina da fargli firmare, ma quell'evidente cambiamento della routine l'aveva scombussolata. «Tutto bene» confermò Bruno. «Venga pure.» Lei entrò nell'ufficio. E Bruno aggiunse: «Può lasciare la porta aperta.» Quella sera, dopo che Nick ebbe spiegato tutto a Jennifer davanti a una lattina di Breaker presa dal frigo, a una pizza uscita dal freezer e alla solita
pila di libri di diritto e manuali di polizia sul tavolo di cucina, lei disse: «Non potevi raccontarlo almeno a me?» «L'ho fatto» rispose lui. «Non mi riferisco solo a Johnny Mays. Parlo della storia che eri lì con le macchine e i ragazzi.» «E quando? Ci vediamo soltanto quando ci incrociamo sulla porta. Non potevo certo lasciarti un biglietto sul tabellone di sughero insieme all'affitto, no?» Erano seduti alla luce calda di una lampada da tavolo schermata, e il resto della cucina era appena visibile nell'oscurità che li circondava. Forse quello che voleva realmente da lei era che venisse a metterglisi accanto e gli toccasse la spalla e dicesse: "Mi dispiace, Nick" con voce gentile come faceva una volta, e allora lui avrebbe potuto coprirle la mano con la sua e dire: "Va tutto bene", e in un modo o nell'altro sarebbe stato vero. Ma per far questo sarebbe dovuta essere un'altra Jennifer, quella che non si vedeva quasi più in giro, ormai. Nick aveva ancora una visione ricorrente in cui la prendeva per mano e la conduceva verso il mare; ma soltanto in sogno. Così tutto andava per il verso sbagliato. Come poteva farle capire cosa rappresentava quella situazione per lui, se ormai gli sembrava un'estranea più di quanto fosse stata all'inizio? Jennifer domandò: «Che cosa succederà adesso?» E nell'immaginazione di Nick, fu come se dopo un brevissimo contatto, la mano di lei fosse scivolata via, lasciandolo con un pugno di mosche. «Non lo so» rispose. «In realtà spetta a Bruno decidere.» «Se salta fuori, sei finito, lo sai.» «È una possibilità.» «Io non ne vedo altre. Come puoi startene senza far niente, ad aspettare che ti cada in testa la mannaia?» Nick scrollò le spalle. Fuori, la pioggia batteva contro là finestra della cucina. E quasi in risposta Jennifer spinse indietro la sedia e si alzò, uscendo dal cerchio di luce. Lui rispose: «Non so spiegartelo. Una parte di me pensa a come ho deluso Johnny e allora va bene così, mi merito tutto quello che mi capita. E un'altra parte di me pensa: al diavolo, che cosa gli dovevo, in fondo? Ma per lo più» aggiunse «mi sento morto, proprio qui.» E si batté sul petto, al centro. «Lo sai che ieri sera ho parlato con i suoi genitori?» «Non sapevo nemmeno che fossero vivi» disse Jennifer, che si era avvicinata alla finestra. Guardava fuori, oltre il vetro imperlato di gocce, verso
la pioggia che aveva minacciato di arrivare come un creditore non pagato fin dal tardo pomeriggio. «Li ho chiamati io. Erano già pronti a partire, dopo la notizia, avevano caricato la macchina e tutto, ma poi la madre non ha voluto lasciare la casa. Non se la sentiva di affrontarlo. Ha detto che sarebbe stato come ucciderlo, rendere tutto definitivo, e lei non poteva rassegnarsi a questo. Capisci?» «La gente sotto pressione diventa strana.» «Ho capito quello che voleva dire. Mi hanno chiesto di provvedere perché gli oggetti personali di Johnny siano spediti a loro, e ho promesso che l'avrei fatto. Ma ci ho ripensato. Credo che dovrei portarli di persona.» La vide voltare la testa nella sua direzione, ma fu tutto quello che riuscì a vedere. Lui era alla luce e lei nell'ombra, e pareva che ci fosse qualcosa di più della distanza a separarli, ormai. E la luce era artificiale, mentre l'ombra era reale, e quel senso di inversione non faceva che accentuare la sensazione di Nick di avere perso la presa sui punti fermi della sua vita. Lei gli domandò: «Andrai via? E per quanto tempo?» «Per un po'. Per diverse ragioni. Ho bisogno di uscirne fuori, e non voglio vedere Johnny quando lo riporteranno a galla. Ho tante cose a cui pensare e non ho avuto ancora il tempo di farlo.» «Credo che sia la cosa giusta per te. Tornare a casa, voglio dire.» «Io non la considero casa mia. Non considero nessun posto casa mia. E quanto alle radici, non so se ne ho. Forse sto solo cercando di trovare il punto in cui tutto ha preso ad andare storto.» «Non puoi cambiare niente, ormai.» «Lo so.» Jennifer si agitò irrequieta nell'ombra. «Nick» cominciò, ma la sua voce si spense subito, imbarazzata. E Nick, cercando d'indovinare quello che poteva venire dopo, disse: «Non preoccuparti per i soldi dell'interurbana. Li ho lasciati vicino al telefono.» «I soldi non hanno importanza. È qualcosa che volevo chiederti.» «Ah.» «Volevo chiederti se non prenderesti in considerazione l'idea di andartene. In modo definitivo, intendo.» Nick rimase in silenzio cercando di assorbire il colpo, mentre l'unico suono nella cucina era il tamburellio intermittente della pioggia contro il vetro.
«Trovarmi un altro alloggio?» chiese alla fine, rendendosi conto di quanto doveva suonare stupido... Che altro poteva voler dire, procurarsi una scatola di cartone sotto un ponte? Ma in quel momento era incapace di pensare a una risposta più sensata. «Non c'è niente di personale» disse Jennifer con un filo di ansietà di troppo, e Nick si rese conto che con quell'idea in testa lei probabilmente lo aveva ascoltato solo a metà, nella migliore delle ipotesi. «Cioè, tu e io, siamo conosciuti... e per essere onesta fino in fondo con te, Nick, non intendo perdere la possibilità di questo trasferimento d'ufficio per niente al mondo.» «Me ne rendo conto» disse Nick. «E poi, voglio dire, non è come se fossimo insieme sul serio, non ti pare?» Lui sapeva che Jennifer lo stava guardando, quindi si sforzò di sorridere. «Pare di no.» «Possiamo sempre essere amici. E quando tutto sarà sistemato... oh, merda, mi ero preparata tutto quello che volevo dire, e adesso mi sembra una cosa odiosa.» «Va tutto bene» disse Nick. «Capisco.» «Davvero?» «È una cosa importante per te, e non vuoi metterla a repentaglio.» «E non sei arrabbiato?» «Non sono arrabbiato.» Ma avrebbe voluto che le loro posizioni fossero invertite, per non doversi preoccupare che luci di scena troppo intense rivelassero le pecche nella sua interpretazione. Ma dopo tutto non aveva importanza. Stava dicendo a Jennifer solo quello che voleva sentire, e questo la rendeva un pubblico facile. Lei disse: «Avrei dovuto sapere che l'avresti presa così. Grazie, Nick.» «Non c'è di che» rispose lui. «Non ti chiedo di traslocare subito, o cose del genere. E se vuoi lasciare qui la tua roba finché non avrai deciso il da farsi sei il benvenuto.» E nel dirlo gli si avvicinò alle spalle. Lui sentì una mano sfiorarlo con gentilezza. «Mi piaci davvero molto, sai» gli disse. E Nick pensò con grande malinconia: "Troppo tardi." Troppo tardi. E a voce alta disse: «Immagino che dovrò noleggiare una macchina.»
9 La chiave era sparita da sotto lo zerbino del maestro, ma il proprietario lasciò entrare Nick nell'appartamento di Johnny con malcelata malagrazia. Una volta dentro, lo seguì da una stanza all'altra. Non arrivava nemmeno alla spalla di Nick, era obeso e trasandato e sembrava avere soltanto due esemplari di ogni capo d'abbigliamento - due camicie, due pullover ugualmente logori e, a parere di Nick, due completi di tetra biancheria prebellica. Evidentemente Nick avrebbe dovuto sentirsi in colpa per tutto il disturbo che causava, e pensò: "Già, il disturbo di tenerlo lontano dai bar per cuori solitari e dall'esercizio della disco-dance." L'uomo protestò: «Ma quante volte volete mettere sottosopra la casa, voi altri?» «Perché?» ribatté Nick. «La lasciamo in disordine?» Si trovavano nella camera da letto di Nick, e lì disordine era una parola eufemistica. Nessuna ricerca della polizia, clandestina o ufficiale, poteva aver creato quel caos; c'era troppo metodo nel disordine, troppi indizi della filosofia "lascialo-dove-è-caduto" che era la chiave delle abitudini domestiche di Johnny. L'ultima volta che era stato lì, Nick non si era spinto oltre la cucina, ma ora non vedeva niente che lo sorprendesse o modificasse le sue impressioni. Il piumino sul letto sembrava la tana di qualche animale, cosparso di briciole di pane tostato. Ai piedi del letto si trovava un televisore portatile, posato su due vecchie valigie che facevano da tavolino. La lampada da lettura non aveva paralume; ma non aveva importanza, perché mancava anche la lampadina. Sul comodino vicino alla lampada c'era una pila di romanzi economici di seconda mano, ed era impossibile dire se fossero scarti o attendessero di essere letti. Solo uno, una copia di Tarzan e gli uomini-leopardo con le orecchie alle pagine, aveva dentro una specie di segnalibro. No, in fatto di disordine, Johnny poteva senz'altro reggere lo spettacolo da solo, senza nessuna spalla. «Tutto questo andirivieni abbassa il tono della casa» disse il proprietario. «Che cosa penserà la gente?» «Se lo sapessi, non sarei qui. Sarei fuori a far soldi.» «Anch'io, amico. Anch'io.» Poi l'occhio del proprietario cadde sul libro di Tarzan che Nick stava sfogliando. «Era un intellettuale, eh?» «Era un mio vecchio amico» rispose Nick, e il proprietario ebbe almeno
il buonsenso di tacere per un po'. Nick spostò il televisore dalle valigie vuote e le depose aperte sul letto, preparandosi a prendere un po' di cianfrusaglia che poteva essere classificata come "effetti personali". Non erano interessati al valore degli oggetti, gli aveva detto il padre di Johnny al telefono. Solo alle piccole cose che dicevano "Johnny Mays" e niente altro. Al resto avrebbero pensato in seguito. L'appartamento era un luogo di strani contrasti. La moquette non veniva passata con l'aspirapolvere dal giorno della creazione, e la maniglia dello sciacquone doveva essersi rotta subito dopo, perché il coperchio del serbatoio era stato messo da parte in modo che chi usava il bagno poteva allungare la mano e sollevare il gancio per far scorrere l'acqua. Fuori nel soggiorno, c'era quella che evidentemente era la poltrona preferita di Johnny, visto che le altre erano adibite a deposito per i dischi e le vecchie riviste. Un impianto di prim'ordine per la lettura di compact disc era posato su un tavolo rotto. Sul pavimento, in mezzo a un groviglio di fili, c'erano due videoregistratori, che davano l'impressione di essere appena stati tirati fuori dalla scatola, con l'idea di trovargli una collocazione definitiva in seguito... solo che erano rimasti dov'erano e avevano accumulato polvere, come manufatti abbandonati all'ombra di un vulcano. Nella stanza c'era un secondo televisore, un modello grande con l'audio stereofonico, e, sopra, una pila di cassette registrate. Giocattoli e squallore, pensò Nick. Giocattoli e squallore. E dovunque andasse, il proprietario lo seguiva come un vecchio cane domestico. «Prego?» disse Nick all'improvviso e senza una ragione apparente, mentre guardavano nel ripostiglio, che doveva per forze essere un ripostiglio, con tutte le scatole vuote che conteneva. Il proprietario rimase sconcertato. «Io non ho detto niente.» «Oh» fece Nick. «Allora devo sentire di nuovo quelle voci.» «Quali voci?» «Quelle che mi dicono cosa fare. Dicono di essere angeli, ma non ne sono tanto sicuro.» Il proprietario fissò Nick per un attimo. Poi decise che aveva alcune trappole per topi da sistemare nel seminterrato, e lasciò Nick da solo. Il compito fu breve e deprimente. In quella casa poteva essere vissuto chiunque; l'oggetto più personale che Nick riuscì a trovare fu il passaporto di Johnny. Gran parte di quello che gettò nelle valigie poteva forse avere
qualche significato per il proprietario, ma era davvero troppo tardi perché un estraneo lo capisse. Ma che importanza aveva? La madre di Johnny li avrebbe guardati e avrebbe visto il fermacarte preferito di Johnny, il suo orologio da polso di seconda mano, il rasoio elettrico che usava tutti i giorni (quando se ne ricordava). E se quell'effetto si otteneva con una menzogna... be', quella era magia. Esitò una volta sola, e fu riguardo al libro. Per la seconda volta lo aprì nel punto segnato da Johnny. Non era il romanzo in sé a interessarlo, ma il segnalibro. Era una fotografia, una striscia stretta ritagliata da una stampa più grande, e mostrava un'adolescente gracile appoggiata a un termosifone, con una grande finestra alle spalle. La foto era piuttosto vecchia. Il tempo aveva sbiadito i colori in pallide sfumature pastello. Nick la studiò per qualche istante. Poi la rimise nel libro, e si fece scivolare il volumetto nella tasca della giacca. Mezz'ora dopo, portò giù le due valigie e una cassetta. Al secondo viaggio per le scale, trovò il padrone di casa ad attenderlo fuori della porta d'ingresso. Seguì Nick fino alla familiare (noleggiata) ferma nel vecchio parcheggio di Johnny, un fazzoletto d'asfalto che un tempo era stato un giardino. Non fece il minimo gesto per aiutare Nick mentre appoggiava la cassetta sul paraurti in modo da poter aprire il portabagagli, ma rimase fermo con le mani in tasca a guardare e a succhiarsi i denti. Domandò: «Quanta roba ha intenzione di portarsi via?» «Soltanto gli oggetti personali» rispose Nick, e dopo aver controllato che la scatola di cartone e le valigie fossero al sicuro abbassò il portello. Ci vollero un paio di tentativi per farlo restare chiuso. «Non so che cosa ne sarà del resto.» «Pare che nessuno sia capace di darmi una risposta chiara. È morto, oppure no?» Nick si diresse al posto di guida. «Be'» rispose «non conterei sul suo ritorno.» E all'incirca nel momento in cui Nick si allontanava in macchina dalla sua vecchia casa, Johnny Mays si risvegliava in paradiso. 10
Doveva essere il paradiso, perché l'inferno non poteva essere così freddo. Johnny giaceva raggomitolato sotto le coperte che puzzavano di muffa, fissando il soffitto e tentando di trovare un punto di accesso alla sua memoria. Era come far scorrere un mazzo di carte bianche. Non sapeva dov'era o come mai si trovava lì, e non sapeva per quale motivo si era svegliato con un mal di testa così feroce e una sete così disperata. Era stato ammalato? Johnny detestava essere malato. I malati lo facevano andare in bestia, perché assorbivano l'attenzione di tutti intorno a loro, mentre Johnny quando si sentiva male doveva strisciare in disparte come un cane e soffrire da solo. Niente. E se aveva un tumore al cervello? L'idea di un tumore al cervello lo aveva sempre affascinato e terrorizzato, più del pensiero di un colpo apoplettico. L'idea di un colpo lo terrorizzava e basta. Chiuse gli occhi e tentò di rimettere in moto la mente, ma la mente non voleva reagire. Aveva la sensazione di aggirarsi in una casa estranea, inciampando nei mobili ricoperti dalle fodere. Quello che gli serviva era qualcosa, una cosa qualsiasi, che potesse isolare e alla quale potersi aggrappare, una nozione sicura e priva di ambiguità, e poi sarebbe potuto ripartire da quella. Pensò di avercela fatta. «Io sono Johnny Mays» bisbigliò, e cominciò a sentirsi meglio. Forse lo avevano pestato. Alcune di quelle fatine dei circoli gay praticavano il sollevamento pesi, e si vedeva. E per averne avuto il fegato, dovevano averlo fatto in qualche vicolo buio, con una calza sulla testa, e Johnny che scendeva dalla macchina solo e senza guardarsi attorno... Ma no. Una scena del genere non trovava posto nell'immagine che Johnny aveva di sé, che era a schermo panoramico e in technicolor e accompagnata da una colonna sonora di John Barry. Se Johnny Mays doveva soffrire, sarebbe stato come Spartaco in croce, mai niente di così penoso come una vittima. Johnny odiava le vittime. "Ecco" pensò. "Non è qualcosa a cui aggrapparsi?" E poi riaprì gli occhi. Il soffitto sopra di lui era inclinato, e ricoperto con una carta da parati ruvida, macchiata di umidità e punteggiata di spore nere di muffa. Vecchia e malandata, pensò. "Mi trovo in una casa vecchia e malandata." A sostenere il soffitto c'era una grossa trave sforacchiata dai tarli, e alla trave era
appeso un ferro di cavallo dipinto d'argento - non un semplice ornamento, ma un oggetto reale, rozzo e pesante e battuto su un'incudine. Se voleva sapere qualcosa di più, doveva almeno muovere la testa. Dieci minuti dopo, era seduto sull'orlo del materasso e lottava contro l'impulso quasi irresistibile di lasciarsi ricadere all'indietro fra le braccia tese di qualcosa che, come intuiva ormai con una sensazione di terrore indicibile, poteva rivelarsi uno stato più oscuro e più definitivo del sonno. Fisicamente era allo stremo, e non era un'esagerazione. Era affamato e disidratato, e perfino i reni gli facevano male. I suoi vestiti erano scomparsi e indossava un vecchio pigiama infeltrito che gli pendeva di dosso come una tenda. Lo avevano disteso su un letto non rifatto e coperto con un mucchio di vecchi soprabiti. Sul pavimento, vicino al letto, c'erano un piatto fondo da minestra vuoto e un cucchiaio. L'unica fonte di calore nella stanza sembrava una stufa elettrica a un solo elemento che apparentemente non produceva alcun effetto; Johnny era squassato da brividi irrefrenabili, e così allungò la mano verso uno dei soprabiti con l'idea di infilarselo. Per il resto, non c'era molto da vedere. Era una stanza che emergeva da un passato lontano, quel genere di camera da letto tetra che da bambino aveva sempre associato a parenti anziani e all'odore di linimento. Un caminetto di ghisa, un guardaroba che sembrava un sarcofago di quercia, un cassettone tozzo e brutto nello stesso legno... perfino la luce del giorno, là dentro, sembrava filtrata e affievolita, come se parlasse di giorni trascorsi da tempo, che era meglio dimenticare. Con le braccia finalmente infilate nelle maniche e le maniche spioventi fino alle nocche, Johnny tentò di reggersi in piedi. La stanza era semibuia, ma il pianerottolo fuori era ancor più buio, e quando lui tentò di lanciare un richiamo non riuscì a emettere un suono più forte del bisbiglio col quale aveva pronunciato il suo nome... quanto tempo prima? Era impossibile dirlo. Johnny non si faceva illusioni sulla gravità della situazione. C'era qualcosa di vitale appeso a un filo e, benché non ne conoscesse il nome, sapeva che le sue possibilità di influenzare l'esito finale diminuivano di minuto in minuto. Ma lui era Johnny Mays. Johnny Mays non mollava tanto facilmente. Scricchiolando come uno spaventapasseri, barcollò fino al piano di sotto. Dalla finestra del salotto riuscì a scorgere l'estremità di un cortile dalle pareti di pietra, con la campagna aperta al di là. Nelle vicinanze c'erano
colline, sfumate nei dettagli da una leggera cortina che non era solo di pioggia. Le pietre del cortile erano di un cupo verde ardesia, come la casa, probabilmente. Da qualche parte all'esterno una mucca o un vitello isolato gemeva sofferente, ma Johnny lo ignorò. Aveva già abbastanza problemi per conto proprio. Là faceva ancora più freddo che al piano di sopra. C'era stato un fuoco acceso nel camino, ma si era spento e le ceneri non erano nemmeno calde. Vicino al focolare, sull'unica poltrona della stanza, era seduto il proprietario del cottage. Aveva almeno sessant'anni, era magro e segnato dalla vita all'aria aperta e non troppo robusto e, come il fuoco, si era spento da alcuni giorni. Le sue dita erano rattrappite a mo' di artigli sui braccioli della poltrona, come per reagire a uno spasmo di agonia che lo aveva colpito e ucciso con la velocità di un treno inatteso. Johnny studiò il viso rilassato, ma non a lungo. La morte non sembrava così terribile sui vecchi, pensò. Andò in cerca di qualcosa da mangiare. Trovò i vestiti in cucina. Erano stati stesi ad asciugare su un cavalletto per il bucato, ma sembravano ridotti male. Non riusciva a ricordare come fosse successo. Sulla tovaglia di plastica scolorita che copriva il tavolo era stato sparso il contenuto del suo portafoglio. Il libro nero era lì. Era gonfio e impossibile da aprire, ma lui provò una strana eccitazione, come se ora avesse in mano la chiave di tutto... chi e cosa era stato, dov'era diretto, lo strano rito di passaggio che stava vivendo in quel momento. Non aveva importanza che non potesse leggere le pagine. Che lui sapesse, sua madre non aveva mai aperto la Bibbia in vita sua, anche se diceva sempre di averla dalla sua parte quando stabiliva una regola, e lui era cresciuto sentendosi risuonare nelle orecchie il nome del Libro come un campanello. No, era tutto lì ciò di cui aveva bisogno. Quello per lo spirito, e un po' di combustibile per le fiamme divoranti che ardevano nella caldaia di Johnny Mays. Era la cucina di un vecchio, semplici credenze dipinte e poco fornite, ma uno degli armadietti era pieno di barattoli di zuppa Heinz in cassette di cartone. Johnny ne prese due e poi, ripensandoci, ne prese un'altra. Tornò indietro riattraversando il salotto e passando senza voltarsi accanto alla scena di morte vicino al caminetto. Si fermò alla svolta delle scale, nel punto in cui era appeso uno specchio. Nella discesa lo aveva superato senza vederlo. Lo specchio aveva perso gran parte della patina, ma ne rimaneva abbastanza per scorgere il
suo riflesso simile a un fuggiasco di passaggio. Cominciò a essere assalito dal panico. Non riconosceva il relitto allucinato, con la barba lunga, che gli restituiva lo sguardo. Ma poi, un istante dopo, fu come se fosse scattato un corto circuito. Non contava. Niente contava. "Smettila di pensare, Johnny, non sei pronto per farlo. Concentrati sul lavoro che ti aspetta. "Concentrati sulla riscossa." In camera da letto, si rannicchiò vicino alla stufa elettrica. Aprì il primo barattolo con il manico del cucchiaio sporco che aveva trovato sul piatto vicino al letto. E poi, con una concentrazione totale, cominciò a mangiare la minestra fredda dalla lattina. PARTE SECONDA Il diavolo dietro lo specchio 11 Il giorno dopo, a bordo dell'auto presa a nolo, Nick partì per tornare a casa. Seguì l'autostrada attraverso le montagne, ripercorrendo le prime fasi della caccia notturna che aveva portato alla lunga caduta di Johnny Mays. Accese la radio a tutto volume e fece del suo meglio per non pensare a niente, né a Johnny né a Jennifer né a nessuno. E quando si accorse che non serviva trovò un'altra stazione, più chiassosa dell'altra, e ritentò con impegno ancora maggiore. Arrivato in cima alla salita, riuscì a scorgere più avanti un accenno di sereno attraverso uno squarcio fra le colline, come la promessa di una terra migliore. Nel punto più alto la strada si tendeva come un arco attraverso la brughiera piatta, e l'auto presa a nolo sembrava correre in un sottile spicchio di chiarore fra la terra e il cielo scuro; Nick aveva l'impressione di dirigersi verso la luce sotto una porta che si serrava lentamente in un punto di poco oltre la sua portata, ma poi cominciò la discesa e la campagna si schiuse davanti a lui, la strada stessa sembrò allargarsi e svuotarsi, e quando Nick premette il pedale, anche il motore si schiuse e girò a un ritmo quasi estatico. Fu a quel punto che cominciò a vivere il viaggio come una sorta di ritorno a casa; ci aveva già pensato, ma quella era la prima volta che cominciava davvero a sentirlo.
Non c'erano stati grandi addii. Jennifer era ancora imbarazzata e Nick, in grado di riconoscere una situazione senza speranza quando la vedeva, aveva soltanto voglia di uscirne. Le aveva lasciato un biglietto a proposito della sua roba, chiudendolo con un: "A presto, Nick". Non sapeva dire esattamente come si sentiva. Non proprio offeso; piuttosto come un uomo abituato a perdere che si ritrovava in mano un tagliando della lotteria con un solo numero di differenza dal vincitore. Ormai si trovava nella zona pianeggiante e il passaggio sotto le linee dell'alta tensione, a qualche chilometro l'una dall'altra, causava così tanti disturbi alla radio che Nick alla fine cedette e la spense. Quella era una regione di campi carboniferi e centrali elettriche, per lo più ancora verde e aperta, ma qua e là sovrastata da un alto cumulo di detriti coperti d'erba, cicatrici della terra che erano lente a guarire. Quando, all'ombra di una di quelle montagnole, una Sierra della polizia in servizio di pattuglia sfrecciò nella corsia veloce superando Nick, lui provò per un attimo un'emozione che riconobbe in ritardo come nostalgia. Lo scosse un po'. Quella sarebbe dovuta essere una pausa, non un addio; ma in quel momento si rese conto che stava facendo i primi passi verso la rinuncia alla vita che si era costruito negli ultimi dieci anni. Quando un piano non funzionava, che altro si poteva fare se non ricominciare da zero? Jen se n'era accorta prima di lui. Se Bruno avesse aperto la busta e letto il resoconto, probabilmente Jennifer sarebbe stata la più vicina al ventilatore quando la merda avesse cominciato a schizzare. Non c'era modo di nasconderlo - tutte le sistemazioni degli agenti dovevano essere controllate e approvate - e anche se lo stato di servizio di Jennifer fosse rimasto senza macchia, nel cuore e nella mente degli alti papaveri avrebbe continuato sempre ad aleggiare un residuo di sospetto. Soltanto allora cominciò a capire quale doveva essere stato il suo vero scopo quando aveva messo nero su bianco le sue azioni... o meglio, il suo silenzio; forse non trovava semplicemente il coraggio di rompere il cordone e andare per la sua strada da solo. Poteva darsi. Che importanza aveva, ormai? Stava tornando a casa. La prima immagine della baia era incorniciata dall'arco del ponte sospeso, con la tensione evidente nella campata larga quanto l'estuario come in un gatto sorpreso nell'atto di stirarsi. Non esisteva nessun ponte quando lui era bambino, nessuno lo voleva, e pensare che ora compariva sulle magliette e sui souvenir. Il progresso, pensò, e accese di nuovo la radio per cercare la stazione locale.
Non entrò subito in città. Proseguì, superando stabilimenti di pesce in scatola e surgelati e uffici di compagnie marittime, superando la grande massa sventrata della sede della Fish Meal Company e i magazzini più piccoli accanto, superando le navi all'ancora che torreggiavano sulle case di mattoni rossi con i tetti di tegole alla fiamminga color della sabbia pallida, e non si fermò finché non raggiunse il mare. Lì posteggiò la macchina lungo la strada e scese. Assalito dai ricordi, salì in cima alle dune. Quello non era un posto speciale, ma in ogni caso lui era rimasto lontano così a lungo che la linea costiera doveva comunque essere cambiata in modo significativo; niente di eccezionale, solo un lieve e costante spostamento dei banchi di sabbia, ma sufficiente a rendere il paesaggio irriconoscibile dopo qualche decennio e a rendere inutilizzabili mappe e carte col passare dei secoli. Su quella costa interi villaggi erano andati perduti, lasciando dietro di sé soltanto nomi e leggende di campanili sommersi e campane di chiese che suonavano con la bassa marea. Nick e Johnny erano andati a cercarli, più di una volta, ma non avevano mai visto nemmeno una luce spettrale. Quello era stato il loro territorio, un tempo; la città sull'estuario, e il largo promontorio ricurvo a est della città, e i villaggi sulla baia e sulla costa del promontorio. Come terreno di gioco era immenso, un giorno intero di bicicletta dalle spiagge più a nord al delicato uncino di terra nell'estremità meridionale, e l'immagine che Nick aveva sempre portato nella mente era quella di strade in apparenza interminabili fiancheggiate da siepi fitte di erba alta per la rigogliosa crescita estiva. Ricordava soprattutto i vasti campi ondulati oltre le siepi, con macchie di alberi qua e là che impedivano allo sguardo di spingersi fino all'orlo del mondo; e a intervalli di qualche chilometro c'era l'alta guglia bianca del campanile di una chiesa di paese, con le nuvole fitte ammassate in alto. Ecco, lì c'era qualcosa che aveva dimenticato; il modo in cui, su quel vasto terreno piatto, il cielo formava circa l'ottanta per cento di qualunque panorama, cosicché i cambiamenti nella luce e nel tempo venivano segnalati molto prima che arrivassero. Era un po' come vedere il futuro che prendeva forma sull'orizzonte lontano, ineluttabile e al di là di ogni controllo. A un certo punto, prima di andarsene, aveva cominciato a trovare l'idea opprimente; ma in quel momento, dopo l'imprevedibilità delle ultime settimane, era quasi pronto ad abbracciarla come un vecchio cane adorato. Scese sulla spiaggia. Oltre l'immediato candore delle dune, la linea costiera era striata a fasce
alternativamente chiare e scure dalla marea che si stava ritirando. Cristo, la roba che avevano trovato spinta dalle onde fin lì... ma le spiagge erano sempre state il territorio di Nick più che di Johnny, un luogo in cui andava da solo quando era sconvolto o quando la compagnia di Johnny Mays, anche da ragazzo, cominciava a diventare un po' troppo pesante da sopportare. Quando accadeva, lui si nascondeva fra le dune e allora, quando Johnny veniva a chiamarlo, Nick non rispondeva. Si fermò. Sulla sabbia proprio davanti a lui, la collezione di conchiglie di un bambino che era stata raccolta e ordinata amorevolmente, e poi abbandonata. Al ritorno, la marea avrebbe sparpagliato le conchiglie; ma Nick ci girò intorno, per non spostarle. Il vento agitava l'erba ruvida delle dune, il mare ritirandosi batteva sulla sabbia. Non si vedeva nessun altro. Aveva una promessa da mantenere ed eccolo là, a rimandare. Era tempo di recapitare quello che aveva portato. I genitori di Johnny non vivevano più nella grande casa vicino alla ditta di trasporti; il padre di Johnny («Chiamami Frank, Nick, chiamami Frank») si era ritirato circa sette anni prima e aveva venduto la ditta a un tale che non era riuscito a mandarla avanti. Ora era stata rimessa in vendita, e la famiglia Mays si era trasferita fuori città, in una villetta più modesta alla periferia di uno dei più grandi villaggi della baia. Nick la trovò facilmente; dipinta di bianco, con un giardinetto un po' troppo pieno ma ben tenuto, e come segno distintivo due cannoni e un'ancora di ghisa disposti sul ciglio della strada. Si era preparato all'inevitabile choc del cambiamento prima di rivedere i genitori di Johnny, ma il disorientamento fu di brevissima durata. Frank Mays aveva i capelli completamente bianchi e sembrava molto più basso di quanto Nick ricordasse, ma il presente e il ricordo si fusero ben presto. Veronica Mays, che era più alta del marito ed era sempre stata fiera del suo aspetto, era diventata grossa e lenta con la mezz'età. Quando lo salutò e gli rivolse un pallido sorriso, Nick intuì che doveva aver avuto un piccolo infarto qualche tempo prima. L'impedimento era lieve, ma c'era. L'interno della villetta era molto spazioso, e arredato con profusione di cinz e scarsezza di gusto. Si sedettero a chiacchierare per qualche minuto i due s'informarono quasi subito sui genitori di Nick - e il nome di Johnny non era ancora stato fatto quando Veronica Mays, evidentemente sconvolta, si alzò di scatto e lasciò la stanza. Frank Mays si avvicinò alla porta che la moglie aveva lasciato semiaper-
ta perché si era precipitata fuori troppo in fretta per badarci, e la chiuse gentilmente dietro di lei. Poi tornò sul sofà. «Devi scusarla, Nick» disse. «L'ha presa molto male. Tutti e due l'abbiamo presa molto male.» «Non c'è bisogno di dirlo» replicò Nick. «Johnny non era uno che scrivesse o si facesse sentire. Come stava, Nick? Come ti sembrava?» «Stava benissimo.» «Era felice?» Non era necessario essere uno psicologo per capire che Frank Mays desiderava sentire buone notizie, una buona notizia qualunque da portare in dono alla donna triste e stravolta all'altro capo della casa. Procedendo con cautela, rispose: «Per quanto ho potuto capire, sì. Siamo stati di nuovo insieme solo poche settimane.» «Nessuna grossa preoccupazione? Nessun guaio con una ragazza, o qualcosa del genere?» «Non credo.» «E per i soldi?» «Se la cavava bene.» Frank Mays annuì, evidentemente sentendo solo quello che voleva sentire. Era così che si creavano i santi, probabilmente, pensò Nick. Frank Mays disse: «Non vorrei essere insistente, Nick. È solo che...» «Ha l'impressione che ci fosse qualcosa che avrebbe dovuto fare» suggerì Nick «e ormai è troppo tardi.» «È così. È proprio così. Non c'è sensazione peggiore al mondo, lo sai?» «Lo so» rispose Nick. Ci fu una pausa imbarazzante, e Frank Mays si alzò e si avvicinò alla finestra. Era un movimento senza scopo, e quando guardò fuori era evidente che non vedeva il giardino o i vecchi cannoni o la strada al di là. «Continuiamo ancora a pensare che il telefono squillerà, e sarà lui» disse. «Non so perché, visto che non ci chiamava mai quando era...» a quel punto esitò, per delicatezza, e poi si corresse. «Non ci telefonava proprio mai. Veronica a volte diceva che secondo lei si era dimenticato come si faceva. Ha mai parlato di noi?» E Nick, che aveva sentito Johnny parlare un'infinità di volte dei vecchi tempi ma neanche una volta dei genitori, disse: «Per la verità, sì. Proprio il giorno prima che accadesse. Ha detto che gli mancava casa sua. i camion, e tutto il resto.»
«Ma guarda un po'» disse Frank Mays scuotendo la testa per la meraviglia. «Quando se n'è andato, ci ha detto che odiava stare qui.» «Be'» disse Nick a disagio «così vanno le cose.» Mays guardò di nuovo dalla finestra, stavolta costringendosi a sorridere. E nella sua espressione Nick poteva leggere tutte le insicurezze nascoste di una generazione che aveva allentato le briglie ai figli e ora doveva assistere alle conseguenze di una vita vissuta al di fuori del loro controllo. Dove una piccola gentilezza, dimenticata da tempo, poteva essere la base di un senso di umanità, e una parola aspra detta sulle scale un germe di distruzione. «Scommetto che era come ai vecchi tempi per voi due, non è vero?» domandò Frank Mays. «Tu e Johnny contro il resto del mondo?» «Era più o meno così» confermò Nick. Frank Mays non ci vide nessuna ironia. Aggiunse: «Mi fai un favore, Nick?» «Certo, dica pure.» «Ripassa da noi domani, se puoi. Potresti farcela?» E Nick, sentendosi mancare il cuore, rispose: «Ma certo.» «Vorrei che Veronica sentisse alcune delle cose che hai detto. Soprattutto perché vengono da te. Johnny ti ha sempre considerato un esempio, sai.» «Davvero?» «È stato soprattutto per imitare te che ha voluto fare il poliziotto. Ma immagino che tu sappia già tutto.» «Lo avevo sospettato» ammise Nick, e si alzò in piedi. Intuiva la possibilità di tornare a respirare un'aria che non fosse satura di sofferenza, e non voleva lasciarsela sfuggire. Poteva accettarlo solo fino a un certo punto, come stare sotto una doccia gelata; poteva costringersi a farla, ma non a farsela piacere. «Entrare nella polizia è stata la prima scelta di Johnny che ci abbia fatto sentire fieri» disse Frank Mays accompagnando Nick alla macchina un paio di minuti dopo. «Quindi possiamo ringraziarti per quello, almeno.» "Non lo dica" pensò Nick, stordito, mentre si allontanava. Prese una stanza al Railway Hotel, proprio nel centro della città; molto più grande e imponente all'interno di quanto suggerivano il nome o l'aspetto esterno. L'albergo apparteneva ai giorni dei treni e del riscaldamento a vapore, piuttosto che all'era moderna delle attrezzature sportive e delle vasche Jacuzzi. Una volta vi aveva soggiornato la regina Vittoria, e il fatto
non era mai stato dimenticato. L'ingresso principale dava su una strada di grande traffico che si apriva su una piazza con un monumento ai caduti; un'altra porta più piccola di fianco alla hall dava accesso direttamente alla vasta desolazione del salone centrale della stazione ferroviaria. Il salone era sempre stato il posto di ritrovo preferito dei ragazzi, il sabato sera; c'erano tre grandi cinema nelle vicinanze, ed era uno dei pochi spazi pubblici che offrissero riparo quando pioveva. La stanza era piccola, e guardava su un parcheggio. C'era un lavabo e un televisore a colori con un canale via cavo, e la scelta era limitata a tre film disperatamente noiosi di cui non aveva mai nemmeno sentito parlare. Nick si stese sul letto ma, dopo un'ora circa, dovette ammettere che la stanchezza non porta inevitabilmente al sonno. Così si spruzzò il viso con un po' di acqua fredda e scese a cercare un po' di vita. La hall fra i due ingressi era enorme, col soffitto alto, ed era occupata quasi per intero da un bar aperto e ben illuminato. Le poltrone erano basse e sembravano comode, e su ogni tavolino c'erano dei fiori. Una cameriera con una vivace uniforme color nocciola e un trucco da vamp gli chiese se desiderava qualcosa. Nick si guardò attorno nella sala. Era tardi, ormai, e tutti i tavoli erano vuoti. «Grazie» disse «ma non credo che ce la farebbe a trovarmi un posto.» «In effetti è una serata tranquilla» ammise lei. Stando alla targhetta sul risvolto, si chiamava Shirley. «È in città per affari?» «Non esattamente. Una volta vivevo qui, ma è stato molto tempo fa.» «Non me lo dica. È tornato per la fiera?» «Si tiene ancora la fiera?» «Ogni anno nello stesso periodo. È sicuro che non vuole niente?» «Prenderò una birra se lei mi terrà compagnia.» «Mi dispiace» rispose la ragazza con un sorriso di rammarico che sembrava appena un po' troppo studiato. «Non è permesso.» «Chissà perché, me lo immaginavo» disse Nick. E mentre si dirigeva verso la macchina pensò che, sì, il suo solito fascino irresistibile sembrava funzionare più o meno come sempre. La fiera. Come aveva potuto dimenticarla? Ma la verità era che non l'aveva dimenticata, semplicemente non ci aveva pensato. Quasi ogni anno, quando le serate diventavano fredde e nell'aria si fiutava il primo accenno del fumo di legna, lui sognava folli corse in giostra e hamburger immangiabili e tut-
to il resto. Di recente aveva avuto troppi pensieri per la testa, ecco tutto. E più di ogni altra cosa aveva dovuto farsi forza per tirare avanti. Ma quella sera non ce n'era bisogno. Non era un vecchio e logoro spettacolo ambulante che si fermava un paio di notti in un minuscolo spiazzo umido sperduto in capo al mondo e poi ripartiva; era un grande appuntamento della vita cittadina e una delle date più importanti nel calendario dei girovaghi. Occupava acri di terreno nella parte occidentale della città, in uno spazio che per il resto dell'anno era adibito a parcheggio per autocarri. Nick non era mancato un solo anno - non era mancato una sola sera, a pensarci bene - a partire dall'età di circa tre anni fino a quando la sua famiglia aveva lasciato il paese. Dimenticare la fiera? Sarebbe stato come dimenticarsi di respirare. Parcheggiò la macchina e percorse a piedi le strade d'accesso, ingorgate da una fila di macchine. Si vedevano già le luci vivaci dei grandi baracconi, splendenti al di sopra dei tetti e riflesse nelle finestre delle camere da letto sopra i negozi. Lui ricordava com'era stato allora, prima da bambino con la sciarpa annodata sopra il cappotto di lana pesante e il viso sgranato per la meraviglia mentre si aggrappava alla mano di suo padre; e poi più tardi, in quei due o tre anni in cui insieme a una decina di altri ragazzi aveva formato una banda come cani in cerca di calore, ma con un'innocenza intatta in modo toccante dietro le chiacchiere chiassose e le vanterie. La fiera non era cambiata quasi per nulla. Ma lui sì. Forse era soltanto lo stato d'animo. Dopo gli avvenimenti della settimana precedente, la vita gli sembrava un lungo libro che aveva pagato a caro prezzo ma che gli faceva rimpiangere di non avere scelto qualcosa di meglio. Ora cominciava a chiedersi se davvero era possibile trovare ancora qualcosa della vecchia magia, o se era destinato a squarciare uno dopo l'altro gli strati dell'illusione fino a raggiungere il fondo di un buio pozzo di roccia, senza nessun altro posto dove andare. Tanto per cominciare, non riusciva a togliersi dalla testa che lui rappresentava la legge. Era sempre lì, nel modo in cui studiava le facce dei giovani, le ragazze dall'aria arrogante con i capelli modellati dal gel e le radici nere ben visibili, e i maschi in giubbotto con le mani infilate in tasca che tremavano di freddo e tentavano di avere un'aria vissuta. Si muoveva in mezzo a loro, bombardato dalla musica pop e dal pulsare sonoro dei generatori in sottofondo, e si sorprendeva a chiedersi da dove arrivavano quei pupazzi di peluche, i più brutti e deformi che avesse mai visto. Studiava gli
imbonitori con gli impermeabili lucidi, vicino ai baracconi gocciolanti di pioggia e scintillanti sotto le luci elettriche, e si domandava se qualcuno di loro aveva conti in sospeso. E cercava, senza successo, il vecchio Treno Fantasma con lo scheletro paziente che attendeva nell'ombra. Il Giro della Morte era scomparso, notò. E il baraccone dei fenomeni viventi, e quello del lanciatore di coltelli, dove un ciccione in giacca di renna a frange lanciava coltelli contro un'assistente che sembrava sua nonna. Nick si mosse nell'ombra per qualche minuto, e tutti i suoni di fondo si fusero e divennero come un tuono lontano che si avvertiva attraverso il corpo. Tirò un respiro profondo. Espirò di nuovo. Dal punto in cui si trovava, all'ombra delle Fiamme Infernali, guardò una coppia di ragazzine con i tacchi alti che camminavano traballando nel pantano. Erano carine da togliere il fiato, e ciniche senza speranza. Distolse lo sguardo. "Questo non è posto per te, Nicky-boy" pensò, girando intorno al baraccone nell'ombra fitta sul retro. Era l'innocenza che se n'era andata, decise; e non potevi sperare di recuperarla più di quanto potessi sperare di ritornare vergine. Avrebbe voluto avere di nuovo cinque anni. Avrebbe voluto che fosse lì suo padre, con la mano pronta a chiudersi sulla sua. Avrebbe voluto dormire, protetto dalla certezza che la sagoma sulla porta era benigna e sarebbe tornata, se la chiamava. Avrebbe voluto. La pioggia si stava raccogliendo e traboccava dagli orli dei tendoni della fiera, e ogni tanto il proprietario di una delle attrazioni spingeva in su la tela con un bastone annaffiando il terreno davanti all'ingresso. Alcuni tendoni evidentemente erano in circolazione da un pezzo ed erano amorevolmente dipinti in rosso e oro, residuo del mondo dello spettacolo di un'altra epoca, ma altri erano davvero malconci. Il denaro veniva rastrellato, il resto contato a velocità fulminea. Nick girò intorno agli autoscontri, con le aste che lanciavano scintille come lampi e la pista che vibrava come in un terremoto, e sbucò su un lungo viale di roulotte di chiromanti e bancarelle di novità. Appena visibile dalla parte opposta delle tende, c'era un campo coperto di orti e serre, i cui vetri riflettevano opachi il frenetico cartone animato della vita dalla parte opposta della strada. Nick si fece largo tra la folla, tenendosi istintivamente in guardia contro i borseggiatori.
Il vecchio Britannia era là dov'era sempre stato. Entrò. Il pub sembrava un fienile troppo illuminato ai margini del terreno della fiera, con i confini delimitati da tredicenni chiassosi che si aggiravano proprio davanti all'ingresso. A Nick riusciva difficile credere che un tempo era stato uno di loro. All'interno c'era una clientela media, gran parte della quale sembrava composta di agricoltori diretti a qualche malandata asta di campagna. C'era un foglio di gomma a proteggere la moquette, e un jukebox suonava una musica sentimentale country & western che era quasi impossibile sentire. Se anche c'era qualcosa di cambiato, era troppo insignificante perché Nick lo notasse. "Ma del resto" pensò "questo genere di austerità probabilmente non invecchia mai." Per la maggior parte dell'anno, ai vecchi tempi e probabilmente anche adesso, il Britannia era un pub per camionisti. Nei fine settimana, l'età media della clientela si abbassava di colpo dato che i giovani della città, alcuni appena un po' sotto l'età minima e altri sfacciatamente troppo giovani, affluivano da tutta la zona per le serate disco del locale. I camionisti erano tranquilli e socievoli e all'ora di chiusura sciamavano fuori per andare a dormire nelle cabine di guida; i clienti del weekend erano chiassosi e maleducati e, in certi casi, paurosamente stupidi, e quasi ogni sabato sera, verso le dieci, si scatenava un fuggifuggi verso la porta secondaria quando le auto della polizia si fermavano slittando davanti all'ingresso principale. Nick per poco non era stato sorpreso nella toilette, una volta. Non ce l'avrebbe mai fatta se Johnny non lo avesse tirato fuori dalla minuscola finestrella. Al bar c'era un posto libero, e Nick si sedette. Qualcuno inseriva monete nel jukebox; il fracasso era tale da garantire che con ogni probabilità non avrebbe sentito neanche una nota delle canzoni per cui stava pagando, ma del resto Nick sapeva che nessuno perdeva mai tempo ad ascoltare la musica in un pub. Il gesto era piuttosto una dichiarazione di intenti che equivaleva quasi a una sfida, e del resto Nick aveva visto abbastanza risse seguite a quelle sfide, per sapere come andava. Il disco cominciò. Era Tie a Yellow Ribbon Round the Old Oak Tree. Poi, sentendosi toccare la spalla, Nick si voltò. E a causa del fatto che era stato in molti locali del genere e a causa di alcune situazioni in cui si era trovato, si voltò così in fretta che il barista si ritrasse come se si fosse scottato. «Nick?» disse con voce incerta. «Nick Frazier? Ti ricordi di me? Brian
Burton!» La mente di Nick lavorò freneticamente per un attimo. Aveva davanti a sé un uomo di bell'aspetto, più o meno della sua età, in maniche di camicia, con la faccia da luna piena. Cercò nella memoria una scheda che corrispondesse e poi, quando la trovò, si rilassò leggermente. «Sì» rispose. «Mi ricordo. Come va, Brian?» «Ho visto di peggio» rispose l'altro. Brian Burton. I suoi genitori lavoravano ai mercati, e nessuno dei suoi vestiti aveva mai avuto l'etichetta. Il viso del ragazzo e il viso dell'uomo di fronte a lui parvero fondersi davanti agli occhi di Nick, come una ferita che si rimarginava di colpo. Non si erano conosciuti troppo bene, e forse per quello non era un vero choc rivederlo in quel momento; o forse il ritorno al passato non era poi così sconvolgente come aveva previsto. Nick domandò: «Lavori qui, adesso?» «Soltanto part-time.» Brian Burton scosse la testa, incrociò le braccia e si appoggiò al banco. Qualcuno, più in là, lo stava chiamando per farsi servire, ma lui fece finta di non sentirlo. «Cristo» disse. «Non posso crederci.» «A che cosa?» «Vederti così. Ne ho visti tornare altri, ma non mi sarei mai aspettato di ritrovare te. Ho letto tue notizie appena la settimana scorsa.» «Dove?» «Un articolo su te e Johnny Mays nel giornale locale. Lo hanno trovato, poi?» «No» rispose Nick. Una donna dall'aria stanca stava arrivando dietro il banco dall'altra saletta, e afferrò alcuni bicchieri vuoti per metterli sotto la spina della birra con gesti rapidi e misurati. «Ma lo troveranno.» «È annegato, non è vero? Non vorrei essere nei paraggi quando lo tireranno fuori.» «Io nemmeno.» «Ti ricordi di Janice?» disse Brian all'improvviso, e chiamò la donna all'altro capo del banco. «Vieni qui» le disse. «Guarda chi c'è.» Lei finì di servire e venne. Nick non si ricordava di lei e pareva che nemmeno Janice lo avesse riconosciuto, ma sostennero tutti e due una cortese finzione. Quella di lei durò esattamente quattro secondi, dopo di che disse a Brian, in tono seccato: «La birra chiara sta per finire.» «Ci penso io» disse Brian, e si raddrizzò senza fretta. «Senti, Nick» ag-
giunse «stasera siamo un po' presi, ma ti tratterrai per un po'?» «Per alcuni giorni. Non lo so con certezza.» «Dovremo trovarci per fare qualcosa. D'accordo?» Nick accettò, anche se sapevano perfettamente tutti e due che non se ne sarebbe fatto niente; e poi, ripensandoci e tentando quello che riteneva un colpo disperatamente alla cieca, domandò: «Hai più saputo niente di Alice Craig?» Brian si stava allontanando. Si fermò a riflettere un paio di secondi. «Alice?» ripeté. «Prova nell'altro bar.» E se ne andò. 12 Nick andò a guardare. Aveva le sue ragioni. Quello non doveva contare per lui, eppure, fatto abbastanza strano, contava. L'altro bar si chiamava Empire Lounge ed era stato fatto qualche tentativo per dargli un tocco di classe; il tocco veniva per lo più sprecato, e il locale era pieno di una calca da giorno di mercato, con un chiacchiericcio continuo su auto di seconda mano e sulle partite della sera prima alla TV. «Ehi» sentì squittire una donna rivolta a un giovanotto proprio dietro di lei «toglimi le mani di dosso!» Nick si spinse avanti. In una folla come quella, non fu difficile individuare Alice Craig. Era sola a un tavolo, e Nick non pensò neanche per un attimo che il Britannia fosse un locale dove lei avrebbe trascorso molto tempo per sua scelta. Non in quei momenti, perlomeno. Proprio nell'attimo in cui la vide, stava respingendo un tentativo di aggancio. Posso offrirti da bere? Va' al diavolo. Be', forse non proprio con quelle parole... ma il senso era quello, senz'altro. «Per favore» gli disse con freddezza, appena Nick si fermò al suo tavolo. «Sto aspettando una persona.» «Non mi riconosci?» Lei allora alzò la testa e incontrò il suo sguardo. Stavolta Nick non ebbe problemi a collegare la donna lì di fronte a lui con la ragazzina di molto tempo prima; forse era l'allenamento che stava facendo, o forse lei non era
cambiata quanto gli altri. Rifletté per un attimo su quel fisico quasi anonimo: qualunque fosse la fonte del fascino di Alice, veniva da dentro. Era esile e pallida e, anche con un'ombra di trucco, dava l'impressione che una brezza forte avrebbe potuto portarsela via. «Sì, ti conosco» disse. «Non sei...?» «Nick» disse lui. «Mi chiamo Nick.» «Da come lo dici sembri sicuro che me ne sia dimenticata.» «Se anche fosse così, non potrei certo rimproverarti.» «Dammi almeno un po' di fiducia» ribatté Alice. La vide lanciare una sola, e rapida, occhiata all'orologio dietro il banco del bar: stava davvero aspettando qualcuno. «L'orologio va avanti» disse Nick. «Fiducia per che cosa?» «Per ricordarmi di una persona con cui sono cresciuta. Vuoi un esempio? Avevamo dodici anni e tu non hai voluto partecipare al ballo campestre.» Lui riuscì a infondere al tono della sua voce la giusta nota di orrore. «Ti ricordi quello?» «Che cosa c'è?» «Ho passato gli ultimi vent'anni a cercare di dimenticarlo.» «Che cosa c'è di così terribile in un ragazzo che non voleva ballare?» «Portavo pantaloni color cachi. Mi ero fatto una macchia di pipì sul davanti. Conosci quel tipo di tessuto, basta che s'inumidisca e diventa scuro. Avevo una paura folle di alzarmi, perché tutti l'avrebbero visto per forza.» «Una macchia di pipì» ripeté Alice, atteggiando il viso a un'espressione seria e interessata. «Ho avuto gli incubi per un sacco di tempo.» Alice annuì, cercando di mostrarsi comprensiva. Ma, chissà perché, l'espressione non reggeva; e lei sbuffò, come per trattenere una risata. E Nick sorrise, perché non c'è niente che avvicini le persone di più che condividere un segreto, e tanto meglio se il segreto era la cosa più imbarazzante che fosse mai successa a uno dei due. Lei si spostò sul divanetto per fargli posto, e Nick si sedette vicino. Le disse: «Pensavo che stessi aspettando qualcuno.» «Sì» rispose lei avvilita. «Ma non riesco a capire dove sia finito.» «Vuoi bere qualcos'altro?» «No, grazie. Gli concedo ancora dieci minuti e poi me ne vado.» «Devi proprio?» «È una questione di lavoro» spiegò lei, quasi in tono di scusa. «È un a-
mico, doveva darmi una mano. Ma posso fare a meno di lui, se necessario.» Nick la guardava pensando che, a giudicare dal modo in cui era vestita e si era truccata, probabilmente c'era sotto qualcosa di più dell'amicizia; e nella voce di Alice, quando lei si riferiva al compagno che non si era fatto vedere, affiorava una nota lievissima che suggeriva più la delusione di essere stata lasciata sola che l'irritazione di aver dovuto aspettare. Nick le domandò: «Che lavoro fai?» «Niente di eccitante» rispose. «Lavoro semplicemente in un ufficio. E tu?» «Credevo lo sapessi. La mia storia e quella di Johnny Mays non è stata sbattuta in prima pagina su tutti i giornali locali?» «Che cosa c'entra Johnny Mays?» «Non l'avevi sentito? È morto.» Non lo aveva sentito. Rimase lì seduta, con l'aria di essere stata colpita con un sacchetto di pallini di piombo. Stordita non era una parola adeguata. Chiese: «Come?» «È annegato. Un brutto incidente. Mi dispiace, pensavo che lo sapessi.» Lei scosse la testa, lentamente. Si stava riprendendo in fretta, ma il colpo evidentemente era stato forte. «Io non leggo i giornali locali» spiegò. «Vivo fuori città.» Lo guardò. «Johnny Mays? Sei proprio sicuro?» «Ero lì.» Lei scosse la testa di nuovo, poi spinse il tavolo e fece per alzarsi. «Senti, Nick» disse «questo è... Voglio dire, scusami. Si sta facendo tardi. Devo andare.» «Temo di non aver avuto molto tatto» disse Nick. «Non è questo. Davvero, devo proprio andare.» «Non sapevo che lo conoscessi così bene.» «Conoscerlo bene? Lo conoscevo appena.» Nell'alzarsi, rovesciò un bicchiere vuoto sul tavolo. Nick lo prese al volo prima che cadesse a terra. Disse: «Mi sono sbagliato io, allora. Scusami.» «Non c'è proprio niente di cui scusarsi.» «Esiste qualche probabilità che c'incontriamo di nuovo? Forse mi fermo in zona per qualche giorno.» «No» rispose lei arretrando, e poi aggiunse: «Voglio dire, sì... non lo so. Può darsi.» E poi, prima di confondersi ancor di più, si voltò per andarse-
ne. Nick restò seduto per qualche minuto, indifferente a quello che lo circondava. Non aveva importanza che lui non avesse mai partecipato a una festa campestre in vita sua, e che la macchia di pipì sui pantaloni cachi fosse un incidente che si riferiva a un'altra occasione. Ma Johnny aveva ritagliato la foto di Alice, e l'aveva conservata per anni. Quello doveva pur valere almeno un paio di innocenti bugie, no? La vide di nuovo dopo avere girovagato un po' per la fiera, solo che stavolta era lontana e non si accorse di lui. Fra loro c'era lo steccato bianco che recintava il baraccone dei Ghostbusters e, prima che lui riuscisse a completare il giro, probabilmente se ne sarebbe andata. Stava parlando col proprietario di una delle sale giochi più piccole, un padiglione con i lati aperti proprio vicino a una giostra vecchio modello. Doveva gridare per farsi sentire, ma pareva che stesse parlando di affari. La pioggia sembrava sfrigolare sotto le luci intense. Nick vide il proprietario scuotere la testa, e poi accennare alle macchinette. Alice sorrise - con una punta di nervosismo, pensò Nick, anche se era difficile capirlo con certezza a quella distanza - e annuì. Aveva l'espressione di chi riceve un rifiuto senza alternative, quella di chi si vede negare un lavoro, anche se Nick non credette neppure per un istante che lì fosse in gioco un posto di lavoro. «Scusatemi» disse spingendo da parte un paio di giovanotti che si erano arrotolati le maniche per confrontare i rispettivi tatuaggi. Forse riusciva a raggiungerla prima che si allontanasse. Ci sarebbe riuscito, ma in quel momento la corsa dei Ghostbusters finì e lui fu trattenuto dalla folla che scendeva gli scalini come un fiume in piena. Il maltempo non sembrava avere scoraggiato i frequentatori della fiera; per la maggior parte non si erano nemmeno vestiti in modo adatto per ripararsi dalla pioggia. Le luci colorate e al neon sembravano soli morenti sul terreno cosparso di pozzanghere. Quando Nick riuscì a raggiungere il padiglione, Alice non era più in vista. La grande giostra stava rallentando quando Nick scovò il proprietario, un uomo di mezz'età con un cappello di cuoio nero e un giaccone di pelle di montone che non avrebbe avuto un aspetto più malconcio se fosse rimasto sull'animale morto. Nick non ebbe problemi ad attirarlo in un luogo appartato, e capì dallo sguardo dell'uomo di essere stato riconosciuto subito come un poliziotto. Non ebbe bisogno di mostrare il distintivo. Nick non
capiva bene come funzionava - si era osservato allo specchio e non era mai riuscito a scorgere nessun segno rivelatore - ma, poco male, poteva tornare utile. Mentre i cavalli della giostra si fermavano, Nick disse: «Quella donna, che cosa voleva?» Il proprietario della sala giochi si strinse nelle spalle. «Lo sa il diavolo» disse, e tirò su un laccio che affiorava dal collo del giaccone ben abbottonato. Attaccata a una ventina di centimetri di filo, ne uscì la scatoletta di un apparecchio acustico, come un pesce appeso a una lenza. L'uomo alzò di nuovo le spalle. Nick stava per fargli un'altra domanda, ma in quel momento la giostra dei Ghostbusters cominciò a far rimbombare il suo tema musicale e capì che era inutile. Con un saluto rassegnato, si allontanò. Cominciò a controllare gli altri baracconi, nella speranza di trovarla. L'aveva lasciata andar via senza nemmeno scoprire come poteva contattarla di nuovo, il che era poco professionale, come minimo. E inoltre... Inoltre. Non la vedeva da molto tempo, ma secondo l'immortale battuta di Marlon Brando in un vecchio film quasi dimenticato, era venuta su bene. Isole vivaci di rumore. Capannoni cadenti con i pavimenti di compensato che scricchiolavano, stipati di videogiochi e macchinette mangiasoldi così vecchie da essere quasi pezzi da museo. Scaffali dei premi zeppi di orsacchiotti di un giallo bilioso. Un alsaziano con le zampe infangate, che trotterellava furtivo con le orecchie basse e l'aria di chi non voleva grane per il padrone. Il retro di grossi autocarri intravisti fra un baraccone e l'altro, motori di generatori che giravano al massimo per fornire l'energia, simili a cupe divinità di controllo troneggianti appena al di là delle luci della ribalta. Nick si fermò sulla soglia e guardò per qualche minuto la folla che passava. La luce pulsante che proveniva da uno dei baracconi centrali gli batté sul viso. Cominciava a pensare di aver perso Alice. Ma c'era ancora un posto dove poteva controllare. Era un edificio arretrato rispetto alla strada, proprio all'estremità del terreno della fiera. Le vecchie villette a schiera erano scomparse per essere rimpiazzate da linde scatole di mattoni con le tende tirate e le finestre buie, quasi a distogliere lo sguardo dal rituale antico di secoli che minacciava di travolgerle e inghiottirle. L'edificio, un magazzino sgangherato che rac-
chiudeva una superficie vasta all'incirca quanto un paio di autobus, era una delle poche costruzioni originali. Era stato ceduto in affitto e le porte erano spalancate e, poiché era uno dei pochi posti della zona che offrissero riparo dalla pioggia, era pieno come un uovo. Nick si fermò sull'ampio ingresso e scandagliò la folla, ma le file di slot-machine e videogiochi correvano per tutta la lunghezza del locale e la visuale era limitata. La calca più fitta era assiepata intorno a un baracchino per il bingo poco più in là dell'ingresso, e nel locale echeggiava ovunque la voce amplificata del banditore che sovrastava l'onnipresente vocio. Nick poteva vederlo; in posizione soprelevata rispetto alle teste dei giocatori, indossava una giacca bianca costellata di macchie e teneva il microfono più vicino alla bocca di quanto l'igiene consigliasse. Aveva l'aspetto di un quindicenne, ma il tono mellifluo e nasale di un uomo di mezz'età. Nick entrò. Si rese conto che lì regnava una certa organizzazione, perché il locale era pattugliato da cinque o sei uomini giovani e meno giovani che indossavano come divisa giacche con simboli identici. Le uniformi avevano un'aria improvvisata e gli uomini sembravano tutti fratelli o cugini, e Nick riuscì ad agganciarne uno per chiedergli dove poteva trovare il boss. Gli fu indicato un paio di roulotte più piccole parcheggiate un po' in disparte, proprio dietro al padiglione. Domandò se qualcun altro aveva chiesto di vederlo, ma la risposta fu una scrollata di spalle. In ogni caso seppe quello che voleva dopo un paio di minuti, perché fu allora che rivide Alice. La situazione era insostenibile. Galleggiava sulla folla, a soli venti metri di distanza da lei, impotente come un nuotatore sfinito in un mare in tempesta. Fu quasi tentato di prendere a pugni qualcuno per accelerare l'avanzata, ma respinse la tentazione. Vedeva Alice parlare con l'uomo incaricato di sorvegliare gli automezzi della fiera, ma chiamarla non aveva senso perché non lo avrebbe sentito. L'uomo era piccolo e robusto e leggermente deforme, quasi un nano, e indossava un impermeabile azzurro. Alice pareva fare anche a lui la stessa offerta di prima, solo che stavolta ricevette una risposta più possibilista, che sembrava dire: "Sì, forse...", tanto che lei tirò fuori un blocchetto per gli appunti e cominciò a scarabocchiare qualcosa. Nick riuscì ad aggirare dal retro una fila di macchine, rischiando tre volte lungo il tragitto di essere coinvolto in una rissa. Ne uscì più vicino al punto in cui doveva arrivare, in tempo per vedere l'uomo leggere il bigliet-
to di Alice. Di lei non c'era più traccia, ma ebbe un suggerimento sulla direzione che aveva preso quando l'uomo lanciò un'occhiata verso l'uscita laterale vicina agli automezzi prima di appallottolare il foglietto di carta, gettarlo via e allontanarsi. Il pavimento era stato ricoperto con fogli di cartone, per lo più scatole di cereali aperte, nel tentativo di asciugare il fango e l'acqua calpestati dalla clientela; quella stessa clientela aveva schiacciato il cartone fino a ridurlo una poltiglia, e fu da lì che Nick dovette recuperare il biglietto di Alice. Ebbe un istante di panico temendo che la pressione dei corpi non gli avrebbe permesso di rialzarsi... ma poi ce la fece e spiegò il foglietto. L'inchiostro era colato. Forse era un indirizzo, ma ormai era illeggibile. Fu un sollievo liberarsi della folla e puntare verso l'uscita vicino alle roulotte. Entrambi i veicoli erano illuminati e in uno c'era un televisore acceso, un frammento d'intimità domestica in mezzo al bailamme. Nick scavalcò cavi e aggirò bombole di gas e scatole vuote, e si allontanò nella notte. Poi si fermò un attimo a riprendere fiato. Era al riparo del fianco dell'edificio, un po' indietro rispetto ai furgoni e alle roulotte sul viale principale. Si trovava su un terreno abbandonato, un mondo buio e diverso da quello della fiera, appena a pochi metri di distanza. «Perché mi segui?» domandò Alice. Uscì dall'ombra dove, a quanto pareva, si era fermata ad aspettarlo. Era solo una silhouette sullo sfondo delle luci intense, con le mani in tasca e il viso impenetrabile. «Non ti sto seguendo» rispose Nick. «Raccontala a un'altra.» Lo aveva colto alla sprovvista. «Volevo scusarmi» disse. «Non avevo capito che ti avrei sconvolta.» «Sconvolta?» ribatté lei. «Se è solo per questo stai tranquillo. Non mi sento per niente sconvolta.» E si girò per allontanarsi. «Addio, Nick» lo salutò, e c'era una nota di congedo definitivo nel modo in cui lo disse. «Come faccio a ritrovarti?» le gridò dietro. Lei si girò per un attimo. «Lascia perdere» rispose, e riprese a camminare. 13
In albergo non era successo niente di speciale, scoprì quando rientrò. Attraverso una porta socchiusa notò che era in corso un ricevimento di nozze privato in una delle sale al pianterreno, una discoteca a luci stroboscopiche con una buona provvista di donne splendide e più scollature mozzafiato che in una sfilata di moda. Ma lui non era in vena di imbucarsi lì, ed era ancor meno in vena di farsi mettere alla porta; tutti gli uomini della sua età in circolazione portavano la divisa della marina, e nessuno era tanto ubriaco da avere bisogno del radar per individuare un estraneo. Così salì in camera, guardò la TV finché tutti i canali interruppero le trasmissioni e poi lesse una ventina di pagine di Tarzan e gli uomini-leopardo. Nel frattempo sentì gli ospiti della stanza accanto rientrare incespicando, accendere la radio sul comodino a volume troppo alto, affrettarsi a spegnerla, discutere sottovoce e poi finalmente mettersi tranquilli. Allora chiuse il libro, spense la luce e si girò nel letto. E per la prima volta dopo anni, fece sogni da bambino sulla giungla. Dormì fino a tardi e scese appena in tempo per la colazione, e alla fine si trovò a imboccare il sentiero di ghiaia davanti alla villetta dei Mays per la seconda volta in due giorni. Era una mattinata limpida, anche se ventosa, ma Nick provava un certo timore. Niente di sconvolgente, piuttosto la sensazione di avere già scontato la pena e che quello fosse un supplemento che non era nelle previsioni. E se gli avessero chiesto di tornare ancora? E poi ancora, e ancora? Sapeva che non avrebbe saputo dire di no, ed era una prospettiva inquietante. Dal suo punto di vista era come l'idea di mangiare fagioli a pranzo e cena, per sempre. La Jaguar vecchia ma ben conservata di Frank Mays era fuori del garage, e la saracinesca era aperta; Nick si sentì chiamare dall'interno mentre passava davanti, e si affacciò. «Sta facendo un inventario?» domandò, entrando nella relativa penombra del garage. Frank Mays era dentro ed era solo, con cassette e scatole deposte al centro del pavimento. C'erano anche le due valigie che Nick aveva portato, posate sul cemento pulito dove si notava l'ombra di vecchie macchie d'olio. Quando gli occhi si adattarono alla penombra, Nick si accorse che il garage era pulito e ordinato in modo maniacale, segno certo della presenza di un uomo che aveva parecchio tempo libero e niente di meglio da fare. "Cristo" pensò Nick. "Porta un grembiule." Il padre di Johnny era inginocchiato vicino a una scatola e stava tirando fuori alcuni oggetti; ricordi di Johnny, per quanto poteva vedere Nick. Mays spiegò: «Più aspetto, più
diventerà difficile.» Alzò la testa. «Apprezziamo quello che hai fatto, Nick.» «Non ho fatto niente» replicò Nick, ma non era la verità. Si accovacciò vicino alla scatola. Frank Mays disse: «Te lo confesso, sono stato qui tutta la mattina e mi sono limitato a trasferire la roba da una scatola all'altra.» «Non riesce a buttare niente?» «Lo so che per gli altri è quasi tutta robaccia. Voglio dire, lo è davvero, in realtà... ma sono anche ricordi. Capisci cosa voglio dire?» «Credo di sì» rispose Nick. «Ma se vedi qualcosa qui che desideri portar via, fa' pure.» «Mi dica quando arriva ai soldi, allora» disse Nick, e sorrisero tutti e due anche se la battuta non era particolarmente spiritosa, e parte dell'imbarazzo fra le due generazioni si dissolse. Nick diede un'occhiata alla roba disposta in ordine sul pavimento del garage. C'erano quaderni e pagelle scolastiche, modellini di plastica rotti, alcune scatole di giochi e puzzle. Decine di soldatini, alcuni dei quali sembravano masticati. C'era qualche disco, nessuno con la copertina. "Le cose che ci lasciamo dietro" pensò Nick, e prese in mano una copia di un Valiant della metà degli anni Sessanta e lo sfogliò. Frank Mays disse: «Ne avrai visti di spettacoli, immagino. Nel tuo mestiere.» Nick riconobbe la cautela, quasi l'esitazione, nel suo tono. Abbassando il fascicolo disse: «Brutti, intende dire?» «Incidenti, e cose del genere. Johnny non voleva mai parlare di quel lato del lavoro.» «È qualcosa a cui ci si deve abituare.» «Immagino che ci si indurisca.» «A qualcuno succede.» Con un'occhiata in tralice a Nick, Frank Mays domandò: «Anche a Johnny?» Ci fu una pausa, e poi Nick rispose: «No, a lui credo di no.» Mays annuì, e parve sollevato. «Mi fa piacere» disse. Per qualsiasi motivo Nick potesse sentirsi in colpa, non era certo per aver nascosto la verità in quel momento. Come poteva spiegare che l'idea di Johnny di scherzo natalizio, un anno, era stata infilarsi di soppiatto nell'obitorio e vestire il cadavere di un uomo anziano con il costume di Babbo Natale per farlo trovare così dal turno del mattino? O che, quando lo ave-
vano chiamato per il tragico suicidio di un tetraplegico in una piscina, aveva proposto che finché non avessero scoperto le generalità potevano usare per la vittima il nome provvisorio di "Bob"? Parte della verità poteva venir fuori dall'inchiesta, se mai ce ne fosse stata una... ma fino ad allora, a che cosa sarebbe servito? Per fortuna, Frank Mays non continuò a battere su quel chiodo. Nick non dovette nemmeno cambiare argomento, perché Mays disse subito dopo: «Ieri sera hai incontrato qualche vecchio amico?» «Un paio» ammise Nick. «Lo immaginavo» disse Mays. «Sei andato alla fiera?» «Ho incontrato Alice Craig. Pareva che non sapesse di Johnny. Mi è sembrato che abbia preso la notizia piuttosto male. Erano amici?» «Proprio non saprei» rispose Frank Mays. Ma Nick si accorse che all'improvviso il vecchio mostrava un interesse più intenso di prima per la scatola che aveva davanti; o forse era solo che voleva evitare lo sguardo di Nick. «Dev'essere successo dopo il mio trasferimento, forse» aggiunse Nick, ma Frank Mays non offrì nessun'altra informazione. Invece si tuffò nella scatola come un bambino piccolo in una scodella di cereali, e ne emerse con uno dei vecchi giocattoli di Johnny. «Be', guarda un po' questa» disse. «Mi ricordo ancora come ci tormentò per averla. E guardala adesso...» Era una grossa automobilina di latta della polizia americana, un tempo luccicante, quasi certamente a batteria e made in Japan. Aveva colori sgargianti, ed era più fantasiosa che accurata. Mancavano due ruote, la vernice era scrostata, il tetto era infossato come se a un certo punto fosse stata calpestata. Tenendo il grosso giocattolo fra le mani e rigirandolo, Frank Mays disse quasi con affetto: «Non si prendeva mai cura di niente, quel ragazzo. Penso che l'abbia voluta solo perché tu ne avevi una simile.» Lanciò un'occhiata a Nick. «Non ne avevi una così?» «Ne avevo una costruita da mio padre» rispose Nick. Fu poco dopo questo scambio di battute che Veronica Mays comparve sulla porta del garage, e i due furono colti di sorpresa sentendo la sua voce. Nick si sentì come un colpevole sorpreso in flagrante, anche se non sarebbe riuscito a spiegare perché. «Ciao, Nicholas» disse lei, a voce non troppo alta. «Se ti va di venire dentro, ho preparato qualche sandwich.»
E mentre la seguiva in casa, lasciando Frank Mays intento ad appendere il grembiule da lavoro e chiudere la saracinesca del garage dietro di sé, Nick sperimentò una sensazione curiosa. Non era déja-vu, anche se ci si avvicinava. La sensazione era piuttosto di sdoppiamento, come se la sua identità adulta fosse poco più che un'ombra evanescente intorno al nucleo del bambino; quasi come se il bambino fosse la realtà, pensò, e l'adulto una finzione che aveva reso perfetta col passare del tempo. «Non dimenticare di pulirti le scarpe» gli raccomandò Veronica Mays mentre entravano. E Nick obbedì. «Io sono Johnny Mays» sussurrò allo specchio, come faceva ogni mattina da quando era rinato. Non che Johnny stesse perdendo il contatto con la realtà. Sapeva chi era e aveva una vaga idea di dove si trovava; i come e i perché sembravano per il momento sfuggirgli, ma era sicuro che gli sarebbero tornati alla mente. I perché, soprattutto. Malgrado la debolezza, avvertiva una sensazione urgente di qualcosa da fare, ma che fosse dannato se gli riusciva di capire cosa. Tutto ciò che era avvenuto prima della caduta era come un'ombra dall'altra parte dello specchio... vagamente familiare, semidimenticata, un rituale inesplicabile di una vita che poteva benissimo appartenere a qualcun altro. Il nuovo Johnny Mays era pulito, puro, luminoso come un diamante; un laser, messo a fuoco e puntato e impaziente di bruciare. Era già riuscito a radersi. Forse quel giorno sarebbe riuscito a fare anche qualche passo all'aperto. Aveva trascorso la maggior parte del tempo vicino al camino del salotto, tenendo acceso il fuoco con tutto quello che poteva trovare. Aveva tentato di mettersi i suoi vestiti, ma erano molto rovinati. Aveva scoperto indumenti accettabili in un armadio - non erano del vecchio, per quanto poteva capire, ma abiti riposti con cura e messi da parte come se quello non fosse riuscito a trovare la forza di gettarli via - e se n'era infilato qualcuno, insieme con due soprabiti per cercare di tenersi caldo. Johnny aveva quasi dimenticato il morto sulla poltrona. Era ancora lì, con le dita rattrappite e il viso in ombra, ma non era importante per il compito che lo attendeva. Qualunque fosse. Il focolare era ingombro di scatolette e scatole vuote. Johnny aveva liberato uno spazio davanti al camino e, appena ne aveva avuto la forza, aveva trascinato giù il materasso dal piano di sopra in modo da poter dormire in
un posto più caldo della camera da letto. Anche con la stufa accesa quella stanza era una ghiacciaia. Aveva guardato da tutte le finestre e in tutte le direzioni, e aveva scoperto di essere davvero isolato; di notte non si scorgeva una luce da nessuna parte, e l'unico suono che aveva sentito era il gemito agonizzante che continuava ancora in una delle costruzioni esterne più vicine. La casa in sé era uno schifo. Johnny ne aveva viste altre di quel tipo - in molti casi aveva contribuito al loro deterioramento - ma quel posto le batteva tutte. C'erano tarli dovunque, e le larve avevano divorato la colla dietro la carta da parati. Era umida, era buia e nella maggior parte delle stanze si sentiva una puzza come di corda bagnata. All'inizio Johnny aveva ispezionato la casa, e poi aveva lasciato perdere; in ogni caso contava poco, perché quella era soltanto una tappa intermedia, una sosta a breve termine in un viaggio dal significato molto più vasto, e tutto ciò che doveva fare era tener duro e diventare più forte e attendere che il suo destino prendesse forma, come una tempesta imminente laggiù sul mare. Cercava presagi ovunque poteva. Nelle formazioni di nubi, nei disegni della pioggia sulla finestra, nelle immagini create dalle fiamme. Ascoltava il vento e, quando il vento cadeva, ascoltava il battito del suo cuore. Anche se non riusciva ancora ad afferrare i dettagli, aveva una profonda visione del mondo come un'immensa macchina perfetta e coordinata, e sapeva per certo che negli ingranaggi esisteva un foro a misura di Johnny Mays che aveva urgente bisogno di essere riempito. Rimpiangeva solo di non averlo potuto vedere così prima; la vita era stata un sogno confuso in confronto a quello che vedeva ora, ora che la caduta e la rinascita avevano spazzato via le scorie e gli avevano permesso di concentrarsi sull'essenziale. Cosa che avrebbe potuto fare, se solo quella bestia esasperante avesse smesso di lamentarsi. Andò in cucina. C'era una chiave, ma la porta non era chiusa. Dopo aver abbottonato il soprabito e averne rialzato il colletto, Johnny uscì all'aperto per la prima volta dopo molti giorni. Si sentiva incerto, quasi come se stesse di nuovo muovendo i primi passi. Tutto sembrava più nitido del solito. Era nel cortile, e il pavimento era lastricato con pietre irregolari, e la solida mole priva di pretese della fattoria si stagliava dietro di lui. Dava l'impressione che le mura sarebbero rimaste in piedi per sempre, anche se il tetto cominciava a incurvarsi e le finestre minacciavano di crollare. A un'estremità del cortile c'era un cancello con un battente scardinato, su un viale di terra battuta che evidentemente
era l'unica via di accesso alla casa. Il cancello era aperto e c'era un arco inciso nella pavimentazione a indicare il punto in cui strisciava sul terreno prima di essere bloccato con un sasso; il sentiero proseguiva in discesa lungo la collina, scomparendo oltre un rilievo. All'altro capo del cortile c'erano due rimesse diroccate, col tetto basso e rappezzato con lamiera ondulata ormai striata di ruggine. Era da lì che proveniva il lamento, e non si era mai interrotto, a parte qualche intervallo, fin dalla prima volta che lui aveva aperto gli occhi. Anche se ora Johnny era più vicino alla fonte, il suono era notevolmente più fioco che all'inizio. Guardò nella prima rimessa. Là non c'era niente di vivo tranne una vecchia Morris 1000 Traveller con il cartellino L dei principianti alla guida che si era incurvato per l'età. L'auto era priva del contrassegno della tassa di circolazione. Ma le gomme erano in buono stato e c'erano le chiavi dentro, e quando lui allungò la mano per accenderla, il motore cominciò a tossicchiare con un gemito pigro, senza accendersi del tutto ma lasciando intendere che poteva farlo. Senza togliere le chiavi, Johnny indietreggiò per dare un'occhiata alla macchina e fece una smorfia. Il problema non era se avrebbe funzionato, ma se lui sarebbe riuscito a guidare una giardinetta con gli sportelli in legno che, nella sua scala dei valori automobilistici, si addiceva soltanto a preti, invalidi e vecchie signore. Al buio e con una calza sulla testa, forse... ma d'altronde, che scelta aveva? Lasciando perdere la macchina, si spostò nella rimessa adiacente. Quella puzzava come uno zoo. Il manzo chiuso nel recinto, origine di tutto quel baccano, s'impennò all'improvviso e si voltò sorpreso all'ingresso di Johnny, urtando contro le pareti di legno del suo piccolo territorio e barcollando come se fosse su un pendio scivoloso. I suoi occhi mostravano il bianco tutt'intorno, e aveva i fianchi impiastrati di letame che era schizzato fin sulle assicelle. Johnny camminò sulla paglia fino al cancelletto del recinto, uno dei tre che occupavano quasi tutto lo spazio interno. Il recinto vicino era vuoto, l'ultimo conteneva due capre dall'aria sfinita che si appoggiavano l'una all'altra nell'angolo e parevano avere appena la forza di ricambiare il suo sguardo. Non c'era nessuna serratura nel recinto, solo un paletto, ma quando Johnny tentò di sganciarlo lo trovò duro e resistente. Forse c'era qualche trucco, si disse, ma non riusciva a indovinare quale poteva essere. Ritentò e la mano scivolò sul legno sbucciandosi le nocche e, quando lui fece un passo indietro succhiandosi la ferita, il manzo sì mise a scalciare e a muggire come se fosse stato colpito da un attacco epilettico. Allora Johnny
guardò nel retro, dove c'era una panca con alcuni attrezzi e un armadio pieno di pillole e integratori minerali, e là trovò una pala che usò per vibrare un paio di colpi a mo' di maglio contro il paletto. "Poesia in movimento" pensò, e al terzo colpo colpì in pieno il paletto e lo staccò dal legno facendolo volare per tutta la stalla come una pietra scagliata da una fionda. Il paletto urtò la parete con un tonfo e poi rimbalzò in qualche punto fuori vista, e Johnny spinse il cancello con una mano sola e invitò con un gesto il manzo ora incerto a uscire all'esterno. «Avanti» gli disse. «Vattene, Non posso nutrirti.» Il manzo esitava. Era malfermo sulle zampe e terribilmente disidratato, e sembrava avere paura di Johnny. Ma poi lui fece il giro e batté sul lato del recinto con quello che restava della pala, e l'animale scattò all'improvviso fuori del recinto, fuori della stalla, fino al cortile e poi via, oltre il cancello aperto, senza fermarsi, con gli zoccoli che schizzavano fango e i fianchi che ansimavano dal terrore. C'era un silenzio benedetto nella stalla, finalmente. Johnny guardò le capre, e le capre guardarono Johnny. Non si erano mosse dall'angolo. Quel recinto si aprì senza troppi problemi, solo un piccolo sforzo per sollevare il saliscendi perché i cardini avevano ceduto, ma nemmeno vedendo via libera i due animali si mossero. Allora Johnny girò sul retro e batté sulle assi con la pala finché il manico non si staccò, e quelle ancora non si muovevano. Un lavoro lasciato a metà. Johnny odiava i lavori lasciati a metà. Gettò sulla paglia il manico spezzato e guardò in giro, cercando qualcos'altro. Non c'era niente di utile sotto la panca, tranne un secchio di stagno ammaccato. Niente sulla panca, niente sulla mensola di sopra a parte qualche bottiglia senza etichetta e una vecchia radio a transistor. Ma un altro paio di attrezzi era appeso a dei cavicchi vicino al punto in cui aveva trovato la pala, e uno in particolare sembrava adatto allo scopo. Prese il falcetto e fece il giro per rientrare nel recinto. Gli animali sussultarono e fecero un fiacco tentativo di scappare quando videro che cosa li aspettava, ma Johnny disse: «Avete già avuto quella possibilità» e li colpì in pieno. In un minuto fu tutto finito, e c'era il sangue che scorreva sotto le pareti del recinto, mentre una buona dose si stava coagulando sul soprabito preso a prestito da Johnny. Ma che diavolo, erano rimasti tanti altri soprabiti sul pavimento della camera da letto. Johnny si sfilò il suo dalle spalle e lo gettò sopra le car-
casse, poi andò ad appendere il falcetto dove l'aveva trovato. Si asciugò le mani con una vecchia salvietta trovata vicino alla panca e poi, tornando verso casa, prese con sé la radio a transistor. Vicino al fuoco, con un'altra scatoletta del suo ospite morto pronta sul focolare, accese la radio e manovrò la sintonia. Le stazioni musicali andavano e venivano a sprazzi, troppo in fretta per essere identificate, ma non ce n'era nessuna che gli interessasse. Fece scorrere l'ago fino in fondo, attraverso le bande. Johnny era seduto sul tappeto, il morto era seduto sul suo trono. La poltrona del morto non era abbastanza vicina al fuoco per ricevere molto calore, quindi si sarebbe conservato ancora un po'. Johnny non provava curiosità per lui; apparteneva al passato, in modo rigido ed enfatico, e ormai l'interesse di Johnny era rivolto solo al futuro. Forse ad altri lavori lasciati a metà. L'ago della sintonia si fermò e non volle più saperne di girare. Dall'altoparlante della radio si sprigionò il sibilo uniforme dell'onda portante. Johnny alzò il volume al massimo e posò la radio sul pavimento vicino a sé. «Sapere è potere» disse alla radio, mormorandolo come un precetto del catechismo. E poi, soddisfatto di quei suoni informi provenienti dall'etere e della sensazione di avere uno scopo che cominciava a crescere in lui, raccolse i resti gonfi di quello che una volta era stato il suo libretto nero. Più o meno all'ora in cui le due capre cadevano sotto la falce, Nick scendeva dalla macchina all'altezza di un crocevia sabbioso in una zona deserta. Almeno così sembrava, anche se Nick sapeva esattamente dove si trovava. Quando lui era ragazzo, quello era stato quasi il confine del mondo. Vi sorgeva un solo edificio, il Bluebell Shop and Café; allora pareva che non fosse mai aperto e, fedele alla tradizione, non lo era neanche in quel momento. Una targa incisa, collocata in alto sul muro di pietra, diceva: COSTRUITO NELL'ANNO 1837 534 METRI DAL MARE e, guardando lungo il sentiero verso le dune alla sua sinistra, Nick intuì
che c'era stato un cambiamento significativo nella distanza in un secolo e mezzo. Era in quella direzione che sorgevano una volta i vecchi cottage da spiaggia in legno, quelli dove lui e Johnny - be', soprattutto Johnny - erano entrati fuori stagione per guardare meravigliati i soprammobili di scarto e il vasellame di seconda scelta con cui li avevano arredati i villeggianti estivi. Si chiese se le case potevano essere ancora in piedi. Nella sua immaginazione vedeva solo due possibilità: o erano scomparse del tutto oppure dovevano essere del tutto intatte. Come bolle di sapone, pensò. Che cosa era stato, quello strano legame che si era formato fra loro due? Nick cominciava ad avere l'impressione che se solo avesse trovato la risposta a quella domanda, avrebbe in qualche modo spianato la via a tante altre cose della sua vita che non riusciva a capire. Erano stati così diversi, anche allora. Johnny era stato prepotente, sfacciato, chiassoso e vanitoso, senza alcuna traccia visibile di coscienza. Le botte lo facevano strillare, ma non lo miglioravano affatto. Un'effrazione non era niente per lui... in casa non c'era nessuno, quindi dov'era il problema? Ma aveva anche del fascino, e un senso dell'umorismo molto superiore ai suoi anni. Nick era stato un ragazzo prudente, taciturno e introverso, e a volte così poco appariscente che sognava sempre di essere smarrito da sua madre tra la folla. Mentre Johnny mandava all'aria gli armadi, Nick di solito si metteva a fissare l'orizzonte e a escogitare vanamente delle scuse, tutte molto deboli. Pur nella loro diversità, ciascuno aveva qualcosa che all'altro mancava. Ritrovando Johnny dopo tanti anni, Nick era rimasto turbato nello scoprire che a quanto pareva quel qualcosa gli mancava ancora. In pratica aveva protetto Johnny, no? Si sentiva in qualche modo contaminato, come un'anima redenta che avesse sogni segreti di oscurità. Forse quella sensazione si sarebbe attenuata. Ma aveva il sospetto che ci voleva un certo sforzo per farla scomparire. Nick guardò oltre la vetrata sporca del caffé, oltre il biglietto di spiegazioni fissato sopra con un nastro adesivo. Riusciva a distinguere i vecchi ripiani in fondo al negozio, carichi di lattine di Coca Cola. Forse avrebbe fatto una passeggiata fino alla spiaggia, per vedere se il paesaggio era cambiato. Era venuto soprattutto per dare un'occhiata alla punta ma, che diamine, aveva il resto del pomeriggio libero. Sei chilometri più avanti il promontorio si restringeva fin quasi a zero. Con il Mare del Nord da una parte e un estuario così ampio da sembrare quasi un mare interno dall'altra, la punta sembrava una lunga strada tortuosa sospesa in mare su palafitte fino al faro all'estremità. Lasciò la macchina
- ma non per molto, perché le dune offrivano ben poco riparo dall'asprezza dei venti del Mare del Nord - e s'incamminò in direzione della punta che correva a livello della baia. Lì abbandonò la strada, e si arrampicò più in alto che poteva. Ora riusciva a vedere nello stesso tempo tutt'e due le coste, ma volse le spalle al vento e rialzò il colletto. Sotto di lui la terra scendeva a precipizio dalla strada, formando sporgenze rocciose irregolari prima di appiattirsi nelle basse acque color sabbia della baia. Erano increspate dalla brezza e battute da gabbiani che volavano in cerchio e atterravano sui banchi di fango al largo; un po' più avanti, il colore sabbioso s'incupiva in quello del mare aperto. Alle spalle, appena tratteggiata all'orizzonte, sorgeva la massa lontana del resto del paese. Era così che appariva ai vecchi tempi. Magica, in un certo senso, ma anche frustrante; la sua casa a volte gli sembrava uno sperduto avamposto di frontiera su un terreno instabile, mentre il mondo reale era da qualche altra parte, sempre irraggiungibile. Tutti quelli che aveva conosciuto, perlomeno negli ultimi due anni che aveva trascorso nella zona, parlavano del momento in cui sarebbero partiti e avrebbero lasciato la loro impronta altrove. Ne parlavano, ma non tutti lo avevano fatto. Non Brian Burton. E nemmeno Alice Craig. E alcuni di quelli che avevano tentato, si disse Nick... ma non completò il pensiero. Si spinse per un tratto fra le dune. Davanti a sé, poteva vedere i pali che sostenevano i fili della luce e del telegrafo sfilare per tutta la lunghezza del promontorio in una lunga curva. Proprio all'estremità, appena visibile in lontananza, c'era l'antica torre del faro. Da un punto ancora più in là, udiva il suono fievole di una sirena al largo. E poi dovette fermarsi, perché la via era sbarrata da un recinto di rete metallica dall'aria recente, che correva per tutti i cento metri da una riva all'altra. Un cartello sul recinto ammoniva che l'accesso alla riserva naturale era soggetto a restrizioni, e avveniva solo dalla strada principale. Riserva naturale? Nick si strinse nelle spalle. I tempi erano davvero cambiati. Si voltò controvento e seguì la recinzione lungo la spiaggia, scendendo a passi incerti in un punto dove la terra, priva di erba e costellata di sassi, era stata spinta con il bulldozer fino all'orlo, nel tentativo di proteggere la linea costiera. Trovò sabbia compatta, quando la raggiunse. Che cosa cercava, in realtà? E cosa credeva di aver trovato? Non poteva mettere indietro l'orologio più di quanto potesse far risorgere Johnny dalla
morte. Un tempo aveva corso su quelle spiagge e aveva giocato sotto quegli immensi cieli plumbei, e aveva sognato di diventare il tipo d'uomo che ammirava quando era bambino. Ma poi era cresciuto e aveva finito col capire che, anche quando accadeva, non accadeva mai nel modo giusto; e che alla fine, nel tentativo di riuscirci, chissà come perdevi sempre più di quanto ottenevi. Ecco che cosa significava diventare adulti. E quando diventavi abbastanza saggio da capirlo, dovevi essere in qualche modo abbastanza forte da accettarlo. Era davvero tutto lì? Giudicando da come si sentiva in quel momento, soltanto con un atto di fede avrebbe potuto sostenere il contrario... e Nick non era propenso ad atti di fede, non in quel giorno. Invece, eccolo lì. Di nuovo trascinato dalla corrente, a chiedersi come era potuto andare tutto così terribilmente male. Con l'agendina rovinata stretta a sé, Johnny giaceva fra le coltri del letto preso a prestito e fissava il soffitto. Il sonno calava pesante su di lui, come un bilanciere che non sarebbe riuscito a tenere sollevato ancora per molto. La sua mente divagava, senza uno scopo preciso. A volte Johnny aveva paura del sonno. Non sognava come gli altri. Di quello almeno era sicuro. Potevano i sogni della gente comune essere così vividi, così complessi, così densi di significato? Si era sempre ripromesso di cominciare ad annotarli, ma fino a quel momento non ne aveva mai trovato il tempo. Un giorno o l'altro lo avrebbe fatto, comunque. Ne sarebbe venuto fuori un libro incredibile. Johnny aveva sempre saputo di poter scrivere il più incredibile dei libri, qualcosa che avrebbe scosso la gente e l'avrebbe fatta drizzare sulla sedia perché finalmente avevano capito. Il film sarebbe stato anche meglio, con Johnny nel ruolo di se stesso. Una cosa sola lo aveva bloccato fino ad allora, ed era la difficoltà di trovare il tempo. Per il momento l'unico libro della sua vita era quello nero, e giaceva sotto la sua mano come a ricevere una benedizione. Pasticciato e illeggibile, ormai, ma comunque non era mai stato granché come aspetto; il vero potere del libro stava nella sua anima segreta e quella, come Johnny, sembrava in grado di sopravvivere a qualsiasi caduta. A Johnny bastava chiudere gli occhi per un attimo, e poteva vedere la sua vera forma. Nera come la mezzanotte. La legatura bordata e decorata d'argento, che incorporava teschi di
uccelli e ossa di piccoli animali e gocce di fluidi del corpo umano incastonate fra pietre preziose. La copertina chiusa con un minuscolo fermaglio a forma di falange, che s'inseriva in una cavità e si apriva con un lieve schiocco. E dentro... Aprì gli occhi. La stanchezza era tentatrice. Alcuni sogni erano abbastanza facili da tenere a bada. Quello che faceva almeno una volta l'anno, per esempio, di solito verso settembre, in cui qualche inspiegabile errore lo riportava a scuola per il primo giorno dell'anno scolastico. Sulle prime lo aveva turbato e depresso, ma ormai lo aveva fatto tante volte da riuscire ad affrontarlo. Oppure quello in cui si rompeva il naso in una rissa al pub durante la ronda, e svegliandosi in ospedale scopriva che un medico gli stava estraendo dalle narici metri su metri di carta da imballaggio. Oppure quello bizzarro sulle patate, che faceva fin da bambino. Alcuni erano facili, altri meno. Ma il sogno che temeva di più era quello in cui si rappacificava con Alice. L'ambientazione variava. A volte il pontile, altre volte la spiaggia. Passeggiavano insieme e lui le teneva il braccio intorno alle spalle e la stringeva forte contro il fianco, e sapeva che la sua vita non era più soltanto una strada a senso unico di sbagli e occasioni perdute, ma che all'improvviso tutto poteva finire bene. Tutto ciò che doveva allontanarlo da lei, invece lo aveva condotto fin lì. Non era mai sicuro di quello che dicevano, o di quello che era accaduto. C'era soltanto la gioia profonda, purissima, di quel momento, così perfetto che avrebbe potuto quasi piangere. La pressione dura del fianco di lei contro il suo. L'elettricità della sua presenza. Provava un'esaltazione che superava l'effetto di qualsiasi droga; non aveva niente del solito incubo. Quello che lo atterriva era il risveglio finale, e la scoperta che niente era vero. Così rimase disteso, e fissò i lievi disegni formati dalla muffa sul soffitto della camera da letto, e si disse che il sonno non era niente, e che si poteva riposare anche facendone a meno. Si disse che era una questione di forza di volontà, come tenere la mano su una fiamma. Si disse. Si dis Si
14 Mentre saliva la scala diretto al terzo piano, Bruno contrassegnava ogni pianerottolo con una blanda imprecazione rivolta a Nick Frazier. "Non c'è niente di personale" pensava. "Ma non avresti potuto trovare qualcun altro su cui scaricare tutto questo, miserabile bastardo?" Nick era fuori città ormai da quattro giorni, e soltanto al terzo Bruno aveva finalmente ceduto e aveva preso la busta dal cassetto della scrivania. Bruno non era un corrotto, da nessun punto di vista; una volta aveva accettato uno sconto su certi mobili, ma era stata davvero una sciocchezza, e un paio di volte si era fatto fare il pieno di benzina gratis, ma che cosa c'era di male? Il fatto era che quando qualcuno gli aveva offerto qualche vantaggio materiale, anche nel modo più consueto e innocente, di solito si era sentito troppo in imbarazzo per accettarlo e poi tornarci. Bruno aveva sentito parlare di agenti così corrotti da rubare oggetti depositati come prove per poi rivenderli ai proprietari, ma amava pensare che se mai si fosse imbattuto in una scena simile non avrebbe esitato a troncare la cosa, all'istante. Le regole erano regole, dopo tutto. Ma si rendeva anche conto che un'organizzazione, come qualsiasi buona macchina, aveva bisogno di una certa quantità di lubrificante per funzionare. Il che significava che quando si presentava una situazione che stava in piedi, ragionevole e che accontentava tutti, da cui Johnny Mays usciva con una buona immagine e sulla quale perfino la commissione di controllo non riusciva a mettere insieme un'obiezione convincente, l'unica soluzione ragionevole era lasciare tutto come stava. Le cose che non erano rotte non si dovevano aggiustare, aveva l'abitudine di dire il padre di Bruno... come aveva detto cinque minuti prima che una mensola del garage si staccasse e inondasse di creosoto la macchina attraverso i finestrini aperti. Quella, aveva intuito Bruno con crescente disagio quando aveva tirato fuori la busta e se l'era rigirata fra le mani, forse era un'altra di quelle situazioni. Voltarsi dall'altra parte aveva i suoi difetti, come strategia difensiva. Certamente non sarebbe stata molto utile di fronte a un camion in arrivo. Così l'aveva aperta. Quando arrivò al terzo pianerottolo riprese fiato. Non era affatto in forma come avrebbe dovuto. Era solo, e non aveva detto a nessuno dove andava. Ora si fermò per guardare fuori, oltre il piazzale spazzato dal vento,
il cuore del cortile interno, e si domandò quale persona sana di mente poteva aver immaginato che il desiderio della gente comune fosse vivere in un posto che sembrava il set abbandonato di un film italiano sui gladiatori. Architetti che vivevano nella zona residenziale, probabilmente, in abitazioni falso Tudor con le mura ricoperte di edera. Be', non andava sempre così? Si avviò, contando le porte perché ce n'erano tante prive di numero. Quasi tutte erano prive anche di affittuari, con gli appartamenti sventrati e lasciati in balia dei ragazzi perché potessero entrarvi ad accendere fuochi e pisciare negli angoli. Quanto sarebbe passato prima che l'intera zona fosse destinata alla demolizione? C'era stato un tempo in cui un agente di polizia che si avventurava solo da quelle parti poteva sentirsi al sicuro pressappoco come il gallo prediletto del colonnello Sanders, ma c'erano stati tempi, ancora prima, in cui case come quella erano state il sogno delle famiglie degli slums, che fino ad allora non avevano mai conosciuto servizi igienici decenti, e che l'avevano mantenuta semirispettabile per decenni. Ormai il suo destino era diventare esattamente ciò di cui la città aveva bisogno, un altro terreno abbandonato. Qualcuno evidentemente pensava che non ce ne fossero abbastanza. Il resoconto di Nick non accennava al cartone che qualcuno aveva incollato per rimpiazzare il vetro rotto della porta, ma quel particolare non fu una sorpresa per Bruno. Attese dopo aver bussato, e passò un minuto circa prima che la porta si aprisse cautamente di uno spiraglio. La donna lo riconobbe per averlo visto all'inchiesta. «Ha una bella faccia tosta» disse. «Non sono qui per creare fastidi» rispose lui. «Posso entrare?» Lei lo fece passare a malincuore. Portava una vestaglia di nylon azzurro e pantofole di stoffa e, anche se non doveva essere molto più vecchia di Frazier e Mays, avrebbe potuto avere dai trentacinque ai sessant'anni. Bruno aveva sentito dire che era stata ammalata e per questo aveva dovuto lasciare il suo lavoro nel vecchio mercato all'aperto; la voce era abbastanza roca da sembrare passata alla grattugia. L'interno dell'appartamento era inaspettatamente pulito e ordinato ma spaventosamente sovraccarico, con troppi mobili affollati in troppo poco spazio e un enorme televisore a colori che dominava tutto da un angolo della stanza. Stampe di Woolworth erano appese alle pareti su una carta da parati con disegni di alberi di palma, e sulla credenza era stipata almeno una decina di foto incorniciate di diversi formati insieme con alcune por-
cellane fatte in serie. Una delle cornici, notò Bruno, era stata decorata col crespo nero in segno di lutto. La donna non lo invitò a sedersi, non gli offrì niente. Lo aveva fatto entrare perché lui era la legge, ma non era disposta a fare di più. «Vorrei parlare con il ragazzo più piccolo» disse Bruno. «Quella notte era insieme agli altri, non è vero?» Lei aveva occhi piccoli, scuri e amari, che ardevano come minuscoli tizzoni. Potevano esserci molte ragioni per cui la polizia volesse parlare ai suoi figli, ma la sollecitudine non era mai stata nel numero. «Non avete già fatto abbastanza?» «Solo parlare. Nient'altro.» Parlare? Lei ne aveva abbastanza, e venne fuori tutto insieme, dalla sua voce rauca. Ben presto fu chiaro a Bruno che era pronta a fornire gli alibi di cui il suo ragazzo poteva avere bisogno, molti contraddittori e quasi tutti poco credibili. Suo figlio era un bravo ragazzo, un buon figliolo per lei. Bruno tentò di interloquire con una domanda e lei gli mostrò alcuni oggetti dalla funzione indefinibile presi dalla mensola del camino e spiegò che il ragazzo li aveva fatti per lei a scuola, con le sue mani. Bruno finalmente riuscì a dire: «Dov'è? Posso vederlo?» Ma ormai lei aveva preso troppo l'abbrivio per lasciarsi fermare tanto facilmente. «Probabilmente a quest'ora è fuori» disse. «Fa assistenza volontaria agli anziani. E forse sta facendo la spesa a una vecchia signora o le sta lavando le finestre.» A queste parole, Bruno fece una smorfia. Al taccheggio avrebbe potuto credere, ma alla spesa... Avvicinandosi alla credenza, disse: «Magari posso aspettare.» «A volte rimane fuori per giorni interi. Va a stare dal padre.» «Indirizzo?» Naturalmente non c'era, perché lui sapeva dall'inchiesta che le informazioni più precise sul domicilio del padre erano che viveva in una roulotte nel Galles settentrionale, in un posto vicino al mare. Bruno ora fingeva di interessarsi alla collezione di fotografie, e guardava una foto di nozze con un adolescente robusto a fianco di una ragazza piuttosto carina, che riusciva a stento a collegare con la donna lì con lui. Vicino, c'era una foto listata col crespo nero che mostrava due ragazzi con la camicia pulita e i capelli umidi, e un sorriso a labbra strette per nascondere i vuoti nella dentatura. Il ragazzo più grande, lo aveva visto l'ultima volta che sembrava un mucchio
di biancheria sporca. Nella foto, aveva le guance lustre come mele. Bruno riconosceva una situazione perdente quando la vedeva. La sua migliore possibilità sarebbe stata di sorprendere il ragazzo in casa. Poteva aspettare un po', ma ce l'avrebbe fatta ad affrontare altre tirate propagandistiche? Ora lei gli stava raccontando tutto su Billy e le sue buone azioni per la chiesa, e Bruno, che si era reso conto da tempo che non sarebbe vissuto in eterno, disse in tono rassegnato: «D'accordo... grazie per avermi dedicato un po' di tempo.» E proprio mentre stava per uscire, all'esterno della porta comparve un'ombra, visibile attraverso ciò che restava del pannello di vetro smerigliato. L'ombra di qualcuno non troppo alto. Il cartone venne spinto in dentro e spuntò il braccio di un bambino che cercava di afferrare alla cieca il saliscendi. Bruno rimase ipnotizzato per un attimo da quello spettacolo, e tanto bastò alla donna per gridare: «Vattene, Billy! C'è la polizia che ti cerca!» Il braccio si ritirò all'istante, si sentì uno schianto mentre qualcosa cadeva per terra all'esterno, e Bruno si mosse in fretta, cercando di evitare la donna che si era protesa per afferrargli la giacca. Se la scrollò di dosso e raggiunse la porta, e uscendo rischiò di inciampare su un bollitore elettrico che si trovava sul ballatoio esterno. Qualcosa che aveva a che fare con le buone azioni di Billy per la chiesa, si disse Bruno. Di Billy non c'era traccia, ma quando Bruno si fermò ad ascoltare udì dei passi in corsa sul cemento che echeggiavano poco lontano. Ma dove? Corse verso la scala più vicina, che non era quella da cui era salito. Riusciva a vedere soltanto il legno grezzo di finestre sbarrate, costellate di graffiti che coprivano perfino i mattoni del muro, e non sentiva altro che il fievole ululato del vento a tre piani dal suolo. La galleria aperta ai lati correva davanti a lui, larga cinque metri e completamente deserta, finché un uomo anziano uscì da uno dei pochi appartamenti occupati. Si fermò a fissare Bruno, senza nascondere il suo interesse. «C'era un bambino» disse Bruno senza fiato. «Da che parte è andato?» «Quel piccolo bastardo» disse subito l'uomo. «Gliela farei vedere io.» E Bruno si sentì sprofondare alla prospettiva di una conversazione a proposito di "Legge e ordine" e "I ragazzi di oggi" e "Com'era una volta questo paese". «Mi dica soltanto da che parte è andato» pregò.
«Appena un appartamento si libera, entrano loro. Io telefono alla polizia, e che succede?» «Da che parte, perdio?» gli gridò Bruno, e vide l'uomo indietreggiare di fronte all'esplosione. Fu allora che sentì un fioco: «No, signore, no!» portato fino a loro da un punto sul ballatoio superiore; e poi, prima che Bruno potesse muoversi, Billy precipitò in caduta libera oltre la ringhiera. Passò a poca distanza dalla sua mano, ma Bruno non avrebbe mai potuto sperare di essere tanto veloce da intervenire. Colse un'immagine, rapida come un lampo, di Billy che si dibatteva come un sonnambulo impigliato in lenzuola invisibili, e poi il ragazzo sparì. Accadde tutto in silenzio. Bruno resistette all'impulso di guardare l'atterraggio, un corpo percorso da un'onda d'urto istantanea che gli avrebbe spappolato la carne dentro la pelle come la polpa di un frutto, e filò verso la tromba delle scale, al piano superiore. Il ballatoio successivo era l'ultimo, non si poteva salire più in alto, ed era deserto; saldamente bloccato da assi per tutta la sua lunghezza e cosparso fino all'altezza del ginocchio di rifiuti e vetri rotti, sembrava che fosse stato colpito da una granata. Sul pezzo di compensato più vicino a Bruno, qualcuno chiamato Gaz aveva scritto il suo nome con la merda di cane. Non vedendo nessuno in giro, Bruno si avvicinò alla ringhiera per guardare giù. Era quasi nel punto da cui doveva essere caduto il bambino; il suo corpo appiattito era direttamente sotto di lui, un bambolotto di scarto deformato con un solo colpo. Un paio di cani randagi erano venuti ad annusare, incuriositi, ma senza avvicinarsi troppo. Bruno sentì una macchina avviarsi da qualche parte, un gemito pigro come quello di un vecchio macinino con la batteria quasi scarica, ma quando tentò di individuare la provenienza del suono fu sconfitto dall'eco deformante dell'edificio. Probabilmente proveniva da uno degli androni d'accesso, e chissà quale. "Guardiamo in faccia la realtà" stava pensando... il ragazzo non era semplicemente caduto. Sembrava che fosse stato scaraventato di sotto. Ormai la macchina sconosciuta era perduta nel passato, e là in basso qualcuno gridava. Bruno vide alcune teste affacciarsi dagli altri ballatoi, e alcune facce rivolgersi in alto verso di lui. Cristo, pensò, da dove sbucava tutta quella gente? Qualcuno puntò il dito, e poi qualcun altro, e lui poteva
avvertire la loro collera che saliva come un fuoco di vendetta. Era chiaro che gli davano la colpa. Bruno corse verso le scale. L'uomo anziano era ancora davanti al suo appartamento, affacciato alla ringhiera come tutti gli altri. «Mi serve il suo telefono» gli disse Bruno, e si augurò che almeno ce l'avesse, un telefono. «È nella stanza di là» disse l'uomo, e seguì Bruno nel salottino buio con le tendine di pizzo e un odore di muffa. Bruno disse: «Chiuda a chiave quella porta e ci metta contro una sedia.» «Perché?» «Si muova!» Il primo arrivò un paio di minuti dopo, mentre Bruno stava ancora parlando con il sergente della sala operativa. Scorse la loro ombra dietro le tende, e il numero aumentava continuamente. Aveva tutta l'aria di una folla pronta al linciaggio. Il vecchio controllava con mani tremanti la sistemazione della sua sedia buona; incapace di capire cosa stava accadendo, era diventato malleabile come un bambino, ed eseguiva quanto gli era stato ordinato incastrando saldamente la sedia sotto la maniglia della porta. Aveva trovato uno straccio per spolverare e avrebbe voluto metterlo sullo schienale per evitare di sciupare la vernice, ma Bruno aveva coperto il microfono con una mano e gli aveva abbaiato di lasciare tutto come stava. Qualcuno aveva cominciato a picchiare sulla finestra con una moneta. Altri si unirono al primo, martellando sulla finestra e sul vetro della porta, e poi alcune dita cominciarono ad apparire dalla buca delle lettere e Bruno si rese conto, troppo tardi, che il vecchio teneva una chiave attaccata a uno spago per evitare di restare chiuso fuori. Lo spago venne ritirato attraverso lo sportellino e la chiave cominciò a salire come per levitazione, e Bruno sapeva, semplicemente sapeva, che avrebbe dovuto mollare il telefono e tuffarsi attraverso la stanza, ma, per quanto veloce si muovesse, non sarebbe arrivato in tempo per impedire loro di ritirarla. Tentò. Non ci riuscì. Sapeva che non esisteva nessun'altra via di entrata o di uscita perché aveva controllato, e non poté fare altro che mantenere la calma e aspettare le sirene. "Ti prego, Dio" pensava "fa' che i ragazzi mi trovino alla svelta e non vadano in giro dappertutto tentando di capire dove sono. Mettici dentro un poliziotto di ronda che conosce il terreno e giuro che comincerò a confessarmi, e pensa che non sono nemmeno cattolico." Si appoggiò con-
tro la sedia quando inserirono la chiave nella serratura, e ci volle tutto il suo peso per tenerla giù quando la porta cominciò a sussultare verso l'interno mostrando a ogni carica una scheggia di luce intorno all'intelaiatura. Il vecchio piagnucolava. Bruno era sicuro di aver conosciuto momenti peggiori, soprattutto negli incubi. Ma lì su due piedi non riusciva a ricordare quali. 15 Per la prima volta da quando aveva memoria, Nick andò in chiesa. Era la grande chiesa antica di pietra nel cuore del villaggio dove ora abitavano i genitori di Johnny, un cadente edificio gotico su un'altura che sovrastava il cuore della cittadina - se si poteva chiamarla cittadina - e le terre incolte a sud. Era prima mattina quando Nick entrò e richiuse il pesante portale dietro di sé, e vide che la navata era quasi deserta. L'indomani mattina era la data fissata per la funzione in memoria di Johnny, quella chiesa era il luogo prescelto e Veronica Mays stava disponendo i fiori da sóla. Non lo aveva sentito entrare. Lui attese in fondo per qualche minuto, chiedendosi se poteva disturbarla. Era oltre la balaustra dell'altare, assorta nel suo compito, una figura tozza che si muoveva lentamente. Fra loro due c'era un mondo di penombra racchiusa sotto l'alta cupola, con un senso di gelo nell'aria, pietra bianca venata di giallo e macchiata lungo le pareti e intorno alla base delle colonne dall'umidità che penetrava dal cimitero all'esterno. Le uniche note di colore venivano dai fiori, dal velluto e dal legno, e dai tocchi d'oro sulla pala dell'altare. Nick emerse dall'ombra avvicinandosi. La donna colse il suono smorzato dei passi e si voltò, avvertendo la sua presenza invisibile; ma quando lo vide e lo riconobbe, gli rivolse un sorriso cordiale, anche se un po' forzato. Disse: «Salve di nuovo, Nick.» Lui salì nell'area ricoperta dal tappeto fra gli stalli del coro. «Signora Mays» disse con un cenno. «Stavi cercando qualcuno?» «Volevo solo chiederle se c'è qualcos'altro che posso fare per voi.» «Me lo hai già chiesto» disse lei «l'ultima volta che ci siamo incontrati.» «È vero» disse Nick, e si fermò a breve distanza dai gradini dell'altare, con le mani in tasca. Le mani in tasca andavano bene in chiesa? Sapeva
che non si poteva portare il cappello, ma le sue conoscenze finivano lì. Non si sentiva tanto in imbarazzo da quando... be', dall'ultima volta che aveva parlato con Veronica Mays. Studiò gli intagli in legno e tentò di pensare a qualcos'altro da dire. La madre di Johnny domandò: «Che cosa ti tormenta, Nick? È qualcosa che vorresti comunicarmi? Qualcosa che riguarda Johnny?» «È piuttosto qualcosa che volevo chiederle» disse lui, grattando con la scarpa il tappeto sui gradini. «Ma ho la sensazione che potrebbe essere un argomento delicato.» «Niente di simile ha importanza, ormai.» "Ah, sì?" pensò lui. "Senti questa." Cominciò: «Johnny si teneva in contatto con qualcuno dei suoi vecchi amici di qui?» Girandosi a metà verso i fiori, lei rispose: «Immagino di sì. Non ci diceva mai granché, ma gli volevano tutti bene. Aspetta la funzione di domani, e capirai cosa voglio dire.» Gli lanciò un'occhiata. «Tu verrai alla funzione, non è vero?» E Nick, che non ne aveva nessuna intenzione, rispose: «Certamente.» Veronica Mays annuì. «Vedrai quanti amici aveva in realtà.» «E Alice Craig? Sono mai stati amici, lei e Johnny?» Qualcosa in lei si gelò. E qualcosa nei suoi occhi s'indurì come il cemento. «Non saprei proprio» rispose, secca, e il sottinteso era che non voleva essere più infastidita sull'argomento. Affrettò i tempi e si allontanò, sfuggendo lo sguardo di Nick. Sentendosi meschino per quello che doveva fare, Nick la seguì. Le disse: «L'ho incontrata di nuovo. Non sapeva di lui finché non gliel'ho detto io. L'ha presa... be', l'ha presa in un modo un po' strano.» «Non riesco a immaginare perché» rispose lei. «Ne è sicura? Allora perché lui ha conservato una sua fotografia di tanto tempo fa?» Questo la colse di sorpresa, e per un attimo la donna fu troppo sconcertata per continuare a fingere. «Davvero?» disse, e lui si affrettò a frugare in tasca e tirò fuori la fotografia che Johnny aveva usato come segnalibro. A parte quell'incontro fortuito alla fiera, non aveva avuto successo nel rintracciarla. Un paio d'ore passate in albergo a cercare nell'elenco telefonico si era rivelato una totale perdita di tempo. Ma più diventava difficile, più Nick si convinceva che doveva ritrovarla.
Alice poteva aver accolto la notizia in modo strano, d'accordo; era sembrata sorpresa, ma non esattamente quello che Nick avrebbe definito infelice. Fiutava una storia, lì sotto, e forse se non mollava l'osso avrebbe potuto portarla alla luce. Veronica Mays fissò la foto della ragazza, dall'apparenza innocente, e Nick lesse nella sua espressione quello che poteva: tristezza, rammarico, una punta di pietà per il figlio e per la sua vita di sentimenti inespressi. Su nella torre dell'orologio, la campana dei quarti d'ora cominciò a suonare. «Non ho proprio voglia di parlarne» disse lei infine. «Mi scusi. La vuole?» Lei scosse la testa, e Nick si rimise la foto in tasca. «Era un bambino sensibile» disse Veronica Mays. «Non so perché, ma sono l'unica che abbia mai visto questo lato del suo carattere. Scusami, Nick.» Nick annuì e lei si allontanò, dirigendosi verso la parte opposta della chiesa, nella cappella della Madonna, dove, con le spalle rivolte a Nick, s'inginocchiò in un banco. Chinò la testa come per pregare, ma Nick non aveva bisogno di vederla in faccia per sapere che stava versando lacrime silenziose. Esitò per un attimo. Si sentiva meschino e colpevole, ma non gli veniva in mente niente da fare che non peggiorasse la situazione. Così, più silenziosamente che poteva, la lasciò sola. L'inferno non sarebbe mai potuto essere così freddo. Ma del resto il paradiso non sarebbe mai potuto essere così desolato. Il fuoco si era spento mentre lui era lontano, e riaccenderlo non era stato esattamente facile. Johnny sembrava incapace di mantenere l'attenzione concentrata su una qualsiasi cosa troppo a lungo. Guidare non era stato un problema, era automatico, ma ritrovare la strada fin lì era stato un altro paio di maniche. Tutte le stradine di campagna sembravano uguali e la luce era cambiata, doveva essere quella la ragione per cui la via d'accesso gli era risultata così difficile da trovare. Ora era tornato, ma non si sentiva davvero a casa. Quando aveva messo via la macchina aveva dato un'occhiata nella rimessa adiacente, per pura curiosità. Aveva la vaga impressione di esserci già stato, ma non ne era sicuro. Aveva trovato un paio di bestie morte in uno dei recinti, coperte da un soprabito. Sembravano pecore, o forse cani; erano state così martoriate che era difficile dirlo. Lo strumento che era stato usato su di loro, una specie di falce, era appeso alla parete di fondo della
rimessa. Il sangue era colato lungo le assi e si era seccato in sottili rivoletti che scendevano dalla lama intrisa di sangue coagulato. Johnny aveva guardato la lama e poi era tornato a guardare di nuovo le carcasse, con le ossa spezzate che si affacciavano bianche qua e là e la carne scura già annerita sui margini delle ferite. La morte affascinava Johnny, l'aveva sempre affascinato. Alcuni dei suoi sogni migliori riguardavano la morte, così come un fiume sogna il mare. A volte era la morte, a volte cavalli al chiaro di luna. Quando sognavi, prendevi quello che capitava. Finalmente, con l'ultimo carbone e la Bibbia del vecchio che alimentavano una discreta fiammata sulla grata del focolare, Johnny passò in cucina per vedere che cosa c'era per cena. Ogni volta era una scoperta: la riserva stava diminuendo e non vi si aggiungeva mai niente di nuovo, ma lui non riusciva proprio a ricordare qual era stato il suo ultimo pasto. Quando apriva gli sportelli della dispensa, si trovava di fronte minestra, fagioli e stufato irlandese da pochi soldi, e prendeva quello che era più vicino. Se lo portava nella stanza accanto per sedersi davanti al fuoco, e apriva la scatoletta alla meglio per mangiarne il contenuto freddo. Per lui non aveva importanza. Sarebbe potuto anche essere cibo per cani. Non sentiva nessun sapore. Mangiava allo stesso modo in cui un atleta si allena, isolato dai sensi e con la mente protesa verso un obiettivo più lontano. Quale fosse esattamente quell'obiettivo, non lo sapeva, ma lo avrebbe scoperto, se si concentrava. Era come guardare il cielo in cerca di aerei. Il più delle volte non si vede niente, ma non ci si può distrarre un attimo. Come quella mattina. Quella mattina era stato... Era stato fuori, no? No? In preda al panico e dimenticando il cibo, Johnny corse verso le scale. Inciampò sul primo gradino, salì di volata il resto, mantenendo l'equilibrio solo grazie alla velocità, e si aggrappò alla parete quando raggiunse la svolta. Era uno spazio stretto e buio, perché non c'erano finestre, ma aveva lo specchio. Johnny guardò nello specchio. «Io sono Johnny Mays» sussurrò, e come un drogato sotto l'effetto di un'eroina così pura da essere letale, sentì il calore della certezza propagarsi istantaneo in tutti gli spazi freddi del suo cuore. Ci sono tre gravi peccati che non ammettono perdono, gli ricordò il de-
monio dietro lo specchio. Il primo è il tradimento, il secondo l'incoerenza e il terzo e ultimo è un lavoro lasciato a metà. Johnny chiuse gli occhi, sollevato, mentre si appoggiava alla parete. Il peccato peggiore di tutti era il tradimento, ma gli altri due erano i suoi valletti, che venivano al seguito, mai troppo lontani. Sapeva dov'era stato, ora, e che cosa aveva fatto. Ricordava il bambino di otto anni, quello che aveva visto l'ultima volta con un assurdo sorriso sulla faccia, sul sedile posteriore di una BMW rubata. Non aveva sorriso, quando Johnny lo aveva scaraventato giù dalla ringhiera; aveva lottato con tanta violenza da riuscire quasi a sgusciar via dalla camicia, e sollevarlo di peso oltre la balaustra era stato il modo più pulito e più semplice di sistemarlo. «Va' a raggiungere tuo fratello» gli aveva detto Johnny mollandolo, e il bambino aveva gridato: «No, signore, no!» mentre danzava nell'aria. Poi Johnny si era allontanato, senza nemmeno fermarsi per assistere alla caduta. Per quanto lo riguardava, il lavoro era stato portato a termine. Scese la scala, lentamente. Non sapeva per quanto tempo ancora sarebbe potuto restare lì. Sapeva che si trattava soltanto di una tappa intermedia e che non c'era niente di permanente per lui, né allora né in futuro. Nella sua vita aveva camminato sempre su una linea sottile e ormai, in quel periodo che non era più una vera vita, l'aveva superata nettamente. Si trovava in un territorio sconosciuto e gettava un'ombra lunga su un terreno che non gli era familiare, ma la forza del suo scopo lo avrebbe aiutato a superarlo. La sua campagna. La sua crociata. Johnny aggirò la poltrona del vecchio per raggiungere il fuoco. Avrebbe dormito sul tappeto, raggomitolato e col viso rivolto alla fiamma per ricevere il massimo del calore. In fatto di tradimento, incoerenza e lavori lasciati a metà, esisteva una sola guida autorevole che poteva seguire. Era il Baedeker del male, un manuale pratico nel mondo delle anime perdute. Dal mucchio degli oggetti personali che aveva trasferito dalla cucina al focolare, Johnny prese il Libro Nero. Era riuscito ad aprirne alcune pagine con un coltello da tavola. Erano completamente distrutte e illeggibili, ma quello non era un problema per Johnny. Erano ore, ormai, che le studiava, e a metà strada fra le pagine e la sua mente cominciava a formarsi un'immagine. I ricordi dei momenti belli potevano svanire come fotografie scadenti, ma un affronto, con un po' di sforzo, si poteva sempre ricordare. Si mise comodo sul tappeto e, rabbrivi-
dendo leggermente per il freddo della sera che aveva preso dimora all'esterno di quel circolo di calore, gettò nel fuoco un paio di vecchi volumi di un qualche Club del libro. Non c'era qualcosa a proposito del cibo, pensò? Ma l'idea non aveva una presa abbastanza salda per farsi notare. C'erano questioni più importanti da prendere in considerazione. Concentrandosi sul foglio danneggiato davanti a lui, Johnny Mays cominciò a progettare la sua resurrezione dai morti. 16 Non c'era più di una decina di esercizi commerciali sulla strada principale del villaggio, e per la maggior parte esibivano vetrine polverose e porte chiuse. Le merci esposte indicavano che quasi tutti erano ancora in attività, ma niente indicava in quale orario. Nick era ancora in macchina, di fronte al negozio di abbigliamento maschile, e cominciava a essere seccato visto che, alle dieci e quattro minuti, nessuno era ancora venuto ad aprire. Quattro minuti dopo, scese dalla vettura e cominciò a martellare la porta con i pugni. Solo un piccolo negoziante di paese poteva fissare prezzi così alti e poi rendere così difficile l'accesso alla merce. Nick ricordava bene come li aveva odiati sua madre, non come individui o come specie, ma piuttosto come un'intera sottoclasse al livello degli invertebrati. Uno dei suoi primi ricordi era la madre che gli raccontava come ti giravano il cartello in faccia alle cinque in punto e poi restavano dall'altra parte del vetro a scuotere la testa, e come le botteghe puzzavano sempre di odori di cucina provenienti da qualche locale sul retro. Ora la maggior parte della gente si procurava quel che voleva dagli ipermercati ai margini della città, e i piccoli commercianti erano ridotti allo stremo. Si lamentavano, certo, della perdita del loro monopolio, ma pareva che a nessuno importasse. Le cinque erano arrivate anche per loro, finalmente, e il cartello era stato voltato dalla parte opposta. Dopo un paio di minuti di fracasso, qualcuno si decise ad aprirgli. Nick seguì il proprietario in un locale che poteva essere descritto soltanto come un museo dell'abbigliamento. Nessuno vestiva a quel modo fuori delle pagine di un catalogo, pensò mentre aspettava che le serrande fossero sollevate e si accendessero le luci. Maglioni color fango e gilé ben ripiegati erano posti su mensole a vista sotto un banco con la parte frontale in vetro;
alle pareti c'erano rastrelliere di pantaloni e giacche e impermeabili che non sarebbero apparsi stonati per le strade di Mosca nel 1953. Nick disse al proprietario che cosa voleva, e quello zufolò, borbottò e scavò qua e là e infine emerse con una scatola piatta che conteneva un fagotto coperto di carta velina. «C'è qualcosa che le piace?» domandò, e con poca convinzione Nick puntò il dito. «Quella» disse. Il proprietario sollevò la cravatta scura alla luce. «Non è proprio nera» osservò. «È piuttosto un blu scuro.» «Andrà benissimo» tagliò corto Nick. «Non è proprio un funerale.» La mattina della funzione in memoria di Johnny Mays aveva richiesto un attento calcolo dei tempi, e Nick poteva solo sperare che quel ritardo non mandasse all'aria il suo programma. Se arrivava troppo presto, sarebbe stato costretto a familiarizzare con la folla sui gradini e ad assumere un'aria solenne. Se entrava in ritardo, tutti si sarebbero voltati a guardarlo. Lasciando l'auto per la strada e annodandosi la cravatta nuova mentre camminava, si diresse verso la chiesa col passo più veloce che poteva tenere senza mettersi a correre. Era in ritardo, e lo spettacolo era già cominciato; ma sembrava che non avesse importanza, perché la chiesa era semideserta. Nelle prime due file erano sedute poco più di dieci persone, ed era tutto. L'area del coro era stata chiusa con un cancello ornamentale e un paio di candelabri e un leggio erano stati spostati avanti per creare una zona più piccola a fianco del pulpito, ma non c'era verso di mascherare la scarsità degli intervenuti. Non uno di quelli che vedeva poteva essere un amico di Johnny: erano gli amici di Frank e Veronica Mays, punto e basta. Mentre Nick avanzava lungo una delle navate laterali, udì l'elogio funebre amplificato da piccoli e incongrui altoparlanti, fissati ad altezza d'uomo sui pilastri di pietra che sostenevano il tetto. «Jonathan ha percorso un sentiero difficile in tempi difficili» stava dicendo il vicario, e Nick riuscì a scorgerlo tra le due file di teste grigie e cappellini floreali, quasi tutte chine; era piuttosto giovane, con la barba e gli occhiali, e aveva i capelli lunghi da cantante folk. Se aveva davvero conosciuto Johnny Mays, doveva essere stato in un'altra vita e sotto un'altra forma. Nick s'infilò in un banco circa cinque file più indietro. Si alzava in piedi per gli inni e chinava la testa al momento delle preghiere, ma non finse di partecipare; aveva perso la fede molto tempo prima e da allora, per una
perversa ironia della sorte, aveva sperimentato i pochi lampi di mistero della sua vita. Non aveva saputo nulla sulle opinioni religiose di Johnny nel tempo in cui erano stati di nuovo assieme, anche se conosceva il suo parere sui tipi come il vicario; Johnny era convinto che gli hippy dovevano essere rastrellati e gassati, come cani randagi. Tutti chinarono la testa per pregare. Nick non avrebbe potuto unirsi alla preghiera neanche se avesse voluto, perché tutti gli altri avevano un foglio stampato da seguire e lui no. Così, invece, si guardò attorno e si domandò quando sarebbe finita. La chiesa era abbastanza gradevole, ma pareva che ci fosse più spazio per la morte che per la vita. Lapidi incise alle pareti, concepite come monumenti alla vita eterna, ora rimanevano ignorate, e anche la luce del giorno che filtrava tra i banchi era tinta di giallo dalla vetustà del vetro attraverso il quale doveva passare. Uno scapiccio leggero risuonò sulla pietra proprio alle spalle di Nick; un sagrestano che gli portava un foglietto col testo degli inni, immaginò, ma girandosi a guardare vide che si sbagliava. Era Alice Craig, che scivolò nel banco vicino a lui. A causa della situazione non poteva guardarla, a parte il cenno di saluto mentre si spostava per farle più spazio, ma la sua stessa pelle sembrava consapevole della presenza di lei seduta al suo fianco. Si meravigliò di quella reazione. La preghiera finì e un uomo che Nick non conosceva, ma che immaginava fosse un amico di famiglia, si avvicinò al leggio e cominciò una lettura monotona ma sincera dall'Ecclesiaste, dove si diceva che non c'è più ricordo delle cose passate, così come non ci sarà ricordo delle cose a venire presso coloro che vivranno dopo. La mente di Nick cominciò a divagare. Divagava su Johnny Mays che, all'età di dieci anni, tormentava le colonie di formiche sulla massicciata della ferrovia con una lattina di benzina per accendisigari e una scatola di fiammiferi. La funzione si concluse con un inno accompagnato da un organista invisibile, una decina di voci stridule che s'innalzavano fino a perdersi nella penombra sovrastante. Quando l'ultimo verso finì e l'organo suonò gli ultimi accordi, Nick poté guardare di nuovo Alice. «Mi fa piacere che tu sia venuta» sussurrò. Non era in nero, ma era vestita con sobrietà. Il suo tailleur non sembrava economico ma neppure nuovo; intuì che probabilmente aveva preso qualche ora di permesso dall'ufficio per essere presente. Lei stava guardando il resto della congregazione, che in quel momento
cominciava a muoversi. A voce bassa come quella di Nick, domandò: «Che cosa mi sono perduta?» «Quasi tutto. Ti va di mangiare un sandwich al pub quando sarà finito?» «Ho meno di un'ora. Sono tutti qui?» «Soltanto tu, io e i parenti stretti. E io non sono riuscito a evitarlo per un pelo.» Il vicario stava scendendo dall'altare per parlare a Veronica Mays, e tutti gli altri sembravano occupati a raccogliere cappelli e borsette. Alice disse: «Penso che dovremmo andarcene» e nel modo in cui lo disse c'era una punta di urgenza che trasformò le parole in qualcosa di più che un suggerimento. Nick capì il perché un attimo dopo, quando Veronica Mays si voltò a guardare la chiesa quasi deserta; Alice in quel momento si stava muovendo e Nick si era alzato per seguirla, così fu il solo a vedere l'incupirsi dell'espressione della donna anziana quando li riconobbe. Il vicario le aveva preso la mano e le diceva qualcosa con grande serietà, ma sembrava che lei non lo ascoltasse nemmeno. Fissava Alice Craig senza calore, senza pena, senza alcuna emozione umana; la guardò allontanarsi verso la porta, e poi lanciò una rapida occhiata a Nick prima di voltarsi. Nick seguì Alice fuori mentre faceva il giro della chiesa per allontarsi dal portale. Lo aspettava, guardando le iscrizioni su alcune delle lapidi più antiche. Quello era il lato tranquillo della costruzione, dove un vialetto perimetrale correva fra il cimitero recintato e una siepe alta di felci fino a un sentiero poco usato. Il terreno erboso intorno alle lapidi era stato falciato da poco ed era striato da lunghi fili cadenti di erba senza vita. Alcune lapidi erano pericolosamente inclinate; altre erano così danneggiate dal maltempo che le iscrizioni erano illeggibili. Nick domandò: «Come mai sei venuta, se tu e Johnny non eravate mai stati molto amici?» «Non ho detto che non lo siamo stati mai. Se vuoi sapere la verità, sono venuta per vedere te.» «Me?» «Volevo scusarmi. Ti ho piantato in asso, laggiù alla fiera, l'altra sera.» "Altroché se lo hai fatto" pensò Nick, ma disse: «È tutto a posto. Non mi sono offeso.» «Scuse accettate, allora?» «Scuse superflue. Non era il modo migliore per dare una brutta notizia.» Lei sorrise per un attimo. Il suo sorriso era un po' asimmetrico. Lui se ne
ricordò in quel momento. «Brutta notizia?» ripeté Alice. «Immagino che si possa definirla così» e poi si spostò verso la lapide vicina. Nick assestò un calcio al terreno, seguendola. Nei punti in cui la ghiaia era più rada, era possibile scorgere la pavimentazione originale in mattoni a spina di pesce. Domandò: «Non voglio ficcare il naso in qualche grande segreto, ma... che cosa è successo, esattamente?» «Non esistono grandi segreti» ribatté Alice. «Soltanto piccoli segreti tristi che sembrano grandi soltanto agli interessati.» «Se preferisci dimenticare, basta una parola.» Lei parve guardare così in fondo dentro di sé che la luna e le stelle sarebbero sembrate meno remote. «È la parola che sto cercando quasi da una vita» disse. E si spostò di una lapide. Sentendosi sempre più sicuro del fatto suo a ogni passo che faceva, Nick insistette: «Sai, non me ne sono mai accorto finché non ti ho visto adulta. Ma tutte le donne a cui dava la caccia assomigliavano un poco a te.» Uno sbaglio. Lo capì non appena vide la sua espressione quando si girò verso di lui; o meglio, il modo in cui si girò contro di lui. Si rese conto allora che la sua sicurezza era stata mal riposta, che aveva camminato su un ghiaccio sottilissimo, e poi all'improvviso ci era caduto dentro. Con gli occhi dilatati, lei irradiava una collera improvvisa simile a un'ondata di calore. Nick fece quasi un passo indietro, pensando: "Oh, merda, come ho fatto a cacciarmi in un pasticcio del genere?" «È questa la tua idea contorta di scherzo?» «Non era quello che intendevo» si affrettò a dire Nick, e come scusa sembrava fiacca persino a lui. «Non m'importa quello che intendevi. Ora me ne vado. Non voglio più avere a che fare con te. Non cercarmi più, non provarci nemmeno.» Il cancello automatico si chiuse dietro di lei con uno schianto mentre usciva sul sentiero dietro la chiesa, lasciando Nick lì impalato con il desiderio di potersi trovare in due posti contemporaneamente, per affibbiarsi un buon calcio nel sedere. Sapeva che non era il caso di seguirla per implorare il suo perdono. "Anche se funzionasse" rifletté con se stesso "ti sei già compromesso troppo perché ne venga fuori qualcosa che valga la pena." C'erano alcune auto parcheggiate fuori sulla strada di campagna, con il tettuccio appena visibile sopra il basso muro di cinta in mattoni, e Alice si fermò vicino a una di quelle e poi si abbassò, scomparendo alla vista.
Nick sentì lo sportello dell'auto sbattere. Corse verso il muretto mentre lei accendeva il motore e si avviava. La macchina era una vettura rossa a coda tronca, quasi nuova, e quando Nick saltò su una lapide rialzata per guardare meglio, lei era già sulla strada e premeva con rabbia sull'acceleratore. Trenta metri più avanti rallentò, svoltò e scomparve. Ma non tanto in fretta, pensò Nick scendendo dal basso monumento, da impedirgli di imprimersi nella memoria il numero della targa. Con la speranza che il gruppo dei partecipanti alla funzione avesse ormai sgomberato la chiesa, Nick andò in cerca di qualcosa da poter usare per annotare quel numero. Se non altro, pensò, Johnny avrebbe approvato i suoi metodi. 17 Essendo uno dei villaggi meno pittoreschi della zona, aveva resistito agli ultimi due decenni praticamente inalterato. Poeti e artisti, quasi tutti in cerca di località che somigliassero alle figure dei libri di lettura della loro infanzia, lo avevano attraversato senza degnarlo di una seconda occhiata. Si erano diretti invece verso i villaggi dei Dales, luoghi con l'intonaco a calce e mulini ad acqua e pub con le travi di quercia, e non si erano sentiti propensi a rallentare per un paese le cui principali attrattive erano un pub così spartano che la sala somigliava allo spogliatoio di una squadra di calcio parrocchiale, e più in là un campo ai margini della strada con un decina di Land Rover di seconda mano esposte in vendita permanente. Nessuno si era trasferito nei fienili vuoti per modellare vasi, e nessun dirigente della TV locale vi aveva acquistato una residenza per il weekend; la gente di quel genere era finita tutta in qualche altro posto, a caccia di case da comprare alla vana ricerca dello spirito bucolico. Tutto questo bruciava maledettamente a Bob Woolton, giacché ormai da dieci anni possedeva due proprietà ereditate che ormai non sperava più di riuscire a vendere. Bob era un allevatore, che trasferiva la sua mandria su un terreno preso in affitto, consistente in un certo numero di campi nei pressi del villaggio. Era basso e snello, pur essendo forte, e perfino la vecchia madre avrebbe ammesso che la sua somiglianza con un ratto o un terrier era troppo evidente per essere negata. La sua vita era soddisfacente, anche se il lavoro non finiva mai; restare in pari con la riparazione degli steccati era già un
lavoro a tempo pieno, perché i muretti di pietra fra i campi erano diroccati e il filo spinato era vecchio e rugginoso. Aveva provato a usare la rete metallica e per un po' era sembrato che funzionasse, ma i viandanti sfilavano dal terreno i paletti per far passare sotto i loro cani. Ormai era abituato a ricevere chiamate a proposito di bestie smarrite; c'erano alcuni punti deboli nella recinzione che non si potevano tappare con nient'altro che un muro di mattoni, e in certi punti una bestia abbastanza agile poteva arrampicarsi sopra un argine sporgente e poi innervosirsi troppo per riuscire a saltare di nuovo fra i compagni. Le bestie smarrite non erano un gran problema, anche se a volte finivano in mezzo alla strada - una volta una delle sue giovenche era stata investita da una macchina, rimanendo scossa ma illesa, mentre l'auto era ridotta a un rottame - ma avrebbe preferito lo stesso che scegliessero un'ora diversa dalle quattro del mattino per fare irruzione in qualche giardino. Quella volta fu diverso. Quella volta ricevette la telefonata a metà pomeriggio e non era un giardino privato, era la strada principale, proprio al centro del paese; la vedova del missionario che viveva dietro alla vecchia cappella stava uscendo dalla drogheria di Spar, quando la bestia era sbucata a razzo da un vicolo davanti a lei, come un cavallo imbizzarrito. Era spaventata, confusa; molto più di quanto sarebbe stato ragionevole aspettarsi, e la donna aveva detto che si trovava in uno stato fisico davvero pietoso, oltre tutto. Quest'ultima parte era un rebus, perché lui aveva separato la mandria appena un paio di giorni prima e in quella occasione aveva dato un'occhiata da vicino a ciascun animale. Nessuno era denutrito e nessuno di loro mostrava sintomi di malattia, ma la vedova si era detta sicura a proposito del rettangolino giallo nell'orecchio dell'animale. Quello era il marchio di Bob, certo, e così lui aveva abbandonato i moduli delle tasse (non senza un certo sollievo) e si era diretto verso il furgone delle consegne fermo nel cortile. Aveva sempre vissuto lì. Fino all'età di undici anni aveva frequentato la tetra scuola del villaggio con il cortile asfaltato sul quale si era sbucciato le ginocchia troppe volte per tenerne il conto, e al momento in cui cominciava la scuola aveva già alle spalle un paio d'ore di consegne. Era uscito con un'allieva infermiera per più di un anno, ma poi si era sposato con una donna che veniva da una famiglia di agricoltori che abitava a una quindicina di chilometri da lui. Aveva tre figlie, e anche la più giovane era capace di guidare una mandria senza usare altro che una verga e la voce. Non si poteva dire che amasse quel posto o quella vita. Semplicemente non riu-
sciva a immaginare nient'altro. Derek, il proprietario del Black Dog, lo aspettava sul margine della strada, e guidò a gesti il furgone nel parcheggio di fianco alla locanda. Era a meno di cento metri dal punto in cui la vedova aveva avvistato la bestia, e probabilmente voleva dirgli che il fuggitivo si era rifugiato lì. Il parcheggio era quasi deserto a quell'ora, c'erano solo la nuova Vauxhall di Derek e la vecchia Volkswagen del figlio, e Bob vide subito l'animale: stava correndo lungo il recinto in fondo al parcheggio e cercava un varco nello steccato. Evidentemente era riuscito a entrare, chissà come, e ora non trovava più l'uscita. Bob rimase scosso. Quella bestia era in condizioni penose. Era un animale giovane, traballante e sull'orlo dello sfinimento come un toro da combattimento alla fine della corrida. Aveva gli occhi vitrei e quasi fuori delle orbite, la bava alla bocca, le costole sporgenti come vecchie assi per il bucato. Bob scese dal furgone e si avvicinò, muovendosi con cautela. Il manzo restava immobile e ansimante, e poi faceva improvvisi movimenti sussultori come se gli arti fossero controllati da un comando a distanza. «Vammi a prendere un secchio d'acqua, per favore, Derek» disse Bob, e Derek arretrò per obbedire. Mentre aspettava l'acqua, Bob studiò l'animale tenendosi a distanza di sicurezza. Sembrava più calmo, ormai, come se si rendesse conto che qualcuno da quelle parti lo capiva, finalmente. Bob non aveva mai visto uno stato di disidratazione peggiore in un animale. Sperava che non fosse qualcosa di più grave. Un'epidemia gli avrebbe fatto comodo quasi quanto un tatuaggio sull'uccello. Derek tornò con cinque litri di acqua tiepida nel secchio di acciaio inossidabile che teneva sotto il banco del bar per risciacquare i bicchieri. La testa del manzo seguì l'odore e Bob si avvicinò, parlando all'animale per calmarlo mentre posava il secchio. Mentre beveva, i suoni gorgoglianti che salivano dalle sue viscere erano profondi e remoti come i brontolii delle tubature di un castello. Bob gli diede una pacca sul fianco e l'accarezzò, constatando com'era malridotto il mantello. «Uno dei tuoi?» domandò Derek. «Che faccia tosta» ribatté Bob. «Ti sembra uno dei miei?» «Ha il tuo marchio.» «Così come tutti gli altri che ho venduto negli ultimi due anni.» «E di chi è, allora?» Già, di chi?
Bob accarezzò il fianco dell'animale disperato, riflettendo sulla domanda. «Bruno?» «Sei Nick?» «Proprio lui.» «Sei un bastardo, Frazier. Mi hai davvero cacciato nei guai.» «In che modo?» «Non mi va nemmeno di parlarne. Perché mi hai chiamato?» «Ci crederebbe a un semplice gesto da vecchio amico?» «Piuttosto credo che il Papa è circonciso. Ha un senso questa telefonata, o mi chiami solo per parlarmi della tua gita?» «La gita è stata una rivelazione. A Sainsbury stanno costruendo nel punto in cui si trovava la mia vecchia casa, e la madre di Johnny Mays taglia ancora la crosta dai sandwich.» «Vieni al punto, Frazier.» «Non mi chiama più Nick?» «Se sapessi quello che sto passando per causa tua e della tua fottuta busta, non me lo chiederesti nemmeno.» «È dura, eh?» «Sono andato a parlare con quell'altro ragazzino. Sai quale, il fratellino minore. Be', appena mi ha visto arrivare è scappato. Ha usato una tattica evasiva originale e ha fatto un volo d'angelo giù dal ballatoio superiore.» «Conciato male?» «Quando hanno tentato di raccoglierlo era ridotto a un sacco di gelatina. È stata una vera fortuna che avessi un testimone, altrimenti mi avrebbero costretto a dimostrare che non lo avevo gettato di sotto io.» «Non so che dire.» «Ci scommetto.» «Ma c'è qualcosa che lei potrebbe fare per me.» «Ci sento bene? C'è qualcosa che vuoi da me per te?» «Mi controlli un numero di targa, Bruno. Soltanto quello.» «Per che cosa?» «In nome dei vecchi tempi.» «Voglio dire, a che scopo?» «Devo rintracciare una donna.» «Piccolo pervertito. Quaggiù sto affrontando un ciclone di merda e tu vuoi aiuto per la tua vita sessuale?»
«Non si tratta di questo. È una vecchia fiamma di Johnny.» «E con ciò?» «Forse fra loro è successo qualcosa. Non so cosa, ma può darsi che abbia a che fare con il modo in cui è finito lui.» «Sono storie vecchie.» «Causa ed effetto, Bruno. Causa ed effetto. Lei si è presentata alla funzione in suffragio.» «Per alimentare una vecchia fiamma?» «Per la verità, penso che sia venuta ad assicurarsi che era davvero morto. Vuole controllare questo numero per me, o no?» «Ci sto pensando.» «Be', non ci pensi tutto il giorno, va bene? Sto telefonando da un albergo... Bruno?» «Che cosa c'è?» «Che cosa mi risponde, Bruno?» Bob aveva mandato la figlia maggiore nell'ufficio della fattoria per controllare il numero di riconoscimento del manzo sul registro delle vendite, anche se gli serviva soltanto come conferma; proprio mentre agganciava il rimorchio per i cavalli al trattore fuori nel cortile, si stava chiedendo che cosa esattamente poteva essere successo a Mad Jack, "Jack il pazzo". Un nomignolo terribile per un vecchio eremita stravagante che non minacciava nessuno, ma Bob lo usava senza nemmeno pensarci. Mad Jack faceva parte del paesaggio, qualcosa col quale era cresciuto, e quindi non si era mai nemmeno fermato a rifletterci. Quando Bob era ragazzo, la più grande prova di coraggio da quelle parti era avventurarsi fra le colline, a chilometri di distanza dall'ultima casa abitata, per andare a bussare alla porta di Mad Jack e poi scappare via. Era sembrato vecchissimo già a quei tempi, per quanto non potesse avere molto più di cinquant'anni. Bob da parte sua non ci aveva mai provato, anche se si era nascosto a spiare gli altri che lo facevano; una volta non c'era stata nessuna risposta, un'altra volta Mad Jack era uscito a guardare in giro nel cortile e nella campagna aperta al di là, strizzando gli occhi come se avesse avuto bisogno degli occhiali o la luce non fosse stata sufficiente per lui, e aveva gridato un nome che Bob non conosceva. Poi era rientrato, ed era finita lì. Non era certo il folle delle rappresentazioni teatrali. Ma il soprannome era rimasto. Correvano voci e dicerie, naturalmente, la più popolare delle quali rac-
contava che la moglie di Mad Jack era morta giovane e il figlio che lui si era sforzato di allevare da solo era finito disperso in mare. Quello che Bob sapeva per certo non era molto di più. Mad Jack scendeva di rado in paese, ma riceveva mensilmente una consegna dal droghiere. Le provviste venivano lasciate in una scatola di cartone su una pietra piatta vicino al sentiero in fondo alla valletta, dove c'era sempre in attesa il pagamento. Non si faceva vedere da un medico da più di vent'anni. Di notte camminava lungo i viottoli o scorrazzava in giro con la vecchia Morris Traveller, che guidava senza pagare né bollo né assicurazione. Faceva le sue due apparizioni principali dell'anno alla fiera estiva e al mercato del bestiame, a trenta chilometri di distanza: comprava una giovane giovenca o un manzo, lo allevava e lo ingrassava, poi lo rivendeva quando compiva un anno e ricominciava da capo. Quanto a entrate, questo era tutto ciò che guadagnava, apparentemente; se anche aveva qualche sussidio statale, non lo ritirava mai. Bob aveva fatto affari con lui una volta sola, all'ultima fiera estiva. Era assurdo, ma si era quasi spaventato, nel trovarsi faccia a faccia con una leggenda. Il Mad Jack della sua immaginazione infantile era svanito di fronte a quel gentiluomo alto, ossuto, con gli occhi tristi e la voce sommessa, che aveva i denti più guasti che Bob avesse mai visto. Indossava vestiti logori, ma rammendati e rattoppati con cura, e aveva preso i soldi per pagare da una busta che teneva ripiegata in una tasca interna. Mentre le contava, Bob si era accorto che le banconote erano vecchie, di un tipo che non era in circolazione da dieci anni o più, e per poco non lo aveva fatto notare a voce alta; ma non aveva detto niente, e la banca gliele aveva cambiate senza fare storie. Forse c'era qualcosa di vero nei racconti sul denaro dell'assicurazione; era impossibile dirlo. Aveva avuto la possibilità di chiederlo un paio di giorni dopo, quando aveva consegnato il manzo nella casa che dominava la valletta, ma si era lasciato sfuggire l'occasione. La strana sensazione persisteva. Era lo stesso cortile che aveva visto tanti anni prima, immutato in ogni dettaglio; e quello era Mad Jack, che lo invitava timidamente a entrare e gli offriva un tè. La casa era buia, umida e trascurata, ma in ordine. Ai vecchi tempi lui e i suoi amici avevano esplorato tutti gli edifici abbandonati o trascurati che riuscivano a scoprire, e Bob ricordava ancora l'eccitazione che aveva provato alla scoperta di qualche piccolo dettaglio domestico, come un lembo di carta da parati ancora al suo posto, oppure piastrelle su un pavimento che affioravano dal terreno nudo nel punto in cui una volta sorgeva una casa. Be', ecco una dovizia di dettagli del genere, un museo di casa in disfa-
cimento, ed ecco il proprietario che faceva del suo meglio per intrattenere un ospite quando era evidente che aveva dimenticato come si faceva. Bob era rimasto seduto sull'unica poltrona buona della stanza, con il tè in una tazza di porcellana all'antica, e aveva pensato che non vedeva l'ora di poterlo raccontare a qualcuno. Ma aveva soprasseduto. Il fatto più memorabile di quel pomeriggio era che era stato privo di fatti memorabili. Che razza di storia ne sarebbe uscita? Nessuna storia, aveva pensato, quindi tanto valeva lasciar perdere. Ora pareva che ci fossero dei guai, e Bob temeva il peggio. Mad Jack stava invecchiando, dopo tutto, e come diceva quella vecchia filastrocca? Che nessuno vive in eterno e che i morti non si alzano mai, e anche il fiume più lungo prima o poi si getta nel mare... e se il fiume di Mad Jack era finalmente arrivato alla meta finale, l'ora che lo aspettava sarebbe stata più memorabile che piacevole. La figlia maggiore salì nella cabina del trattore dietro di lui, e con uno dei cani della fattoria che li rincorreva si avviarono sulla strada tutta buche che li avrebbe portati oltre il villaggio e su fino a Dale Head. Era stato incerto se farsi accompagnare da Debbie. Aveva quindici anni e veniva scambiata sempre per un ragazzo, con la tuta da fattore e i capelli rossi tagliati corti; troppo giovane per quel genere di cose, forse, ma con una durezza innata che a volte lo lasciava stupito. Non si sarebbe mai adattata a essere la moglie di un allevatore; avrebbe dovuto piuttosto trovare un giovanotto che si adattasse a fare il marito di un'allevatrice. Non era una brutta giornata, rifletté Bob gettando un'occhiata esperta alle colline lontane, e pensò che forse non era una giornata adatta per morire, dopo tutto. Debbie saltò giù e corse ad aprire il primo cancello, e il manzo nel rimorchio lanciò un muggito quando la cabina sussultò passando sulla griglia per il bestiame. L'animale era malconcio, ma sarebbe sopravvissuto. Il viaggio richiese circa venti minuti. «C'è ancora la polizia che lavora nel bacino» disse Debbie restando in piedi dietro il sedile e allungando il collo per guardare lungo il pendio, poco prima della svolta che avrebbe impedito loro di vedere la diga. Il cancello di Mad Jack era aperto, come sempre. Lasciando acceso il motore del trattore, Bob scese e si avvicinò per bussare. Non ottenendo risposta provò ad abbassare la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Accigliandosi, Bob si spostò verso la finestra. Jack gli aveva detto che non chiudeva mai a chiave e che l'ultima volta che lo aveva fatto era rimasto
fuori e aveva dovuto rompere un vetro per rientrare. Bob aveva pensato che era rischioso, se in casa c'era davvero il denaro dell'assicurazione, ma non aveva detto niente. Ai vecchi non si poteva parlare di quel genere di cose. Sua nonna aveva tenuto per anni i soldi nella scatola del tè, convinta che fosse un nascondiglio tanto originale che nessuno ci avrebbe mai pensato, perché diceva che non si fidava delle banche. Debbie gli si avvicinò, sbirciando di sopra la spalla. «Non si vede niente dentro» disse. «Che facciamo, rompiamo un vetro?» «No, a meno che non sia necessario» rispose Bob. «Va' a controllare se c'è del foraggio nella stalla.» Non si era visto uscire fumo dal camino mentre salivano dalla valletta, ma dallo scorcio di caminetto che riusciva a scorgere dalla finestra gli pareva di intravedere un chiarore di braci. C'erano molti rifiuti intorno al focolare, scatolette aperte e coperte ammucchiate, ma non riusciva a distinguere granché a causa della poltrona in mezzo alla stanza. Lo schienale gli impediva la visuale. Per quanto poteva vedere lui dalla finestra, Mad Jack poteva perfino essere seduto lì. Avrebbe avuto una visuale migliore dall'altra finestra, dalla parte opposta della casa. Mentre girava intorno, dovette lottare contro la sensazione di essere osservato. Ma non era un adolescente che sconfinava, non più; e liquidò quel senso di disagio considerandolo nient'altro che l'eco di una vecchia colpa, che risuonava ancora come una campana in lontananza oltre l'abisso degli anni. Si chinò a sbirciare attraverso lo strato di sudiciume sul vetro, tentando di focalizzare la scena all'interno. Ora aveva la poltrona di fronte. E mentre si raddrizzava lentamente, sentì Debbie. Lo chiamava, e nella sua voce c'era una certa urgenza. Chiamava da una delle rimesse. 18 Che senso aveva la vita? si chiedeva a volte Alice. Non se lo chiedeva spesso, soltanto quando attraversava un periodo negativo, e quello doveva essere il più negativo di tutti. Ormai lavorava nell'agenzia immobiliare da più di due anni, e calcolava che solo la Squadra antitruffe poteva battere la sua esperienza nel vedere la gente sotto l'aspetto peggiore. Venditori e acquirenti, erano gli uni e gli altri altrettanto squallidi. Di peggio c'erano soltanto quelle strane coppie che considerava-
no le visite una specie di divertimento gratuito, una scusa per intrufolarsi in casa di qualcun altro senza nessuna intenzione di comprare. Dicevano quasi sempre che lo avrebbero fatto, ma poi sparivano; in cerca di altre agenzie immobiliari, di altri appuntamenti, di altre scuse per infilarsi in altre case. A volte rimpiangeva di non essere ancora alla sua scrivania nell'ufficio di collocamento; perlomeno lì avrebbe potuto trovarsi qualcosa di meglio. Qualsiasi cosa che non fosse fare di nuovo la cameriera. I ristoranti erano uno dei pochi posti in cui le nullità sembravano convinte che pagare un bicchiere desse loro il privilegio di comportarsi come cafoni viziati. L'agenzia di navigazione non era stata troppo male; era riuscita perfino a farsi un paio di viaggi sulle rotte regolari di navi da carico, ma poi la compagnia era stata ceduta e l'agenzia era stata chiusa. Sapeva per quale motivo si sentiva così - o almeno, perché si sentiva così quel giorno - anche se non voleva pensarci. Il motivo era legato a Johnny Mays, di sicuro. Lo aveva quasi dimenticato, per quanto era possibile. Ma non era proprio tipico di Johnny? Nel momento in cui credevi di esserti finalmente liberata di lui, trovava qualche sistema per rientrare nei tuoi pensieri. Non lo vedeva da, vediamo... dieci? Quindici anni? Ma si annidava ancora in fondo ai suoi pensieri come se non avesse un posto migliore dove andare. Forse adesso che era morto avrebbe finalmente smesso di ossessionarla. "Hai praticamente assistito al suo funerale" si disse "ora muoviti. Hai del lavoro da sbrigare, qui." Alice lavorava in un'agenzia di una piccola città, che apparteneva a una catena con un socio locale; a volte stava alla scrivania, ma per lo più batteva a macchina le schede e di tanto in tanto portava fuori un cliente quando Hathaway o il suo vice non potevano. Il vice era nipote di Hathaway, ed era un caso disperato. Alice divideva l'ufficio con Sandra, diciannove anni e un aspetto appariscente; Sandra pensava che i Beatles erano stati un complesso sopravvalutato e che i Monkees erano meglio. L'ufficio in se stesso era un negozio ristrutturato in fondo a una fila di negozi, pavimentato di piastrelle e con un'illuminazione un po' troppo violenta, con pannelli di tela che illustravano i dettagli di tutte le proprietà sui registri. Il nipote di Hathaway aveva una scrivania vicino alla finestra, Alice e Sandra avevano il loro word processor con lo schermo seminascosto dietro il banco della reception, e sul retro Hathaway aveva un ufficio tutto per sé dove, quando gli affari andavano male, se ne stava seduto come un Babbo Natale
dimenticato in una grotta fuori dal mondo. In quei giorni, gli affari non andavano troppo bene. Una sola vacanza sulla neve negli ultimi sei mesi? Hathaway doveva proprio essere preoccupato. Alice era intenta a correggere la lista delle inserzioni pubblicitarie, quando Hathaway si affacciò dalla porta del suo ufficio. Sandra era al telefono e il vice stava guardando fuori della finestra, come al solito. «Alice?» la chiamò lui. E Alice rispose: «Sì, signor Hathaway?» «Ha due minuti?» «Certo, signor Hathaway.» «Voglio riesaminare i particolari del vicariato Sisterkirke.» Così Alice si avvicinò al grosso classificatore e sfogliò i fascicoli delle varie zone: Cleton, Dimlington, Monkwell, Old Kilnsea, Out Newton, Sand-le-Mere, Sisterkirke. Sembravano fermate del treno in una notte di nebbia in qualche film degli anni Trenta. Prendendo il fascicolo di Sisterkirke, seguì Hathaway oltre la porta che aveva lasciato socchiusa per lei. Sandra era ancora al telefono, ma Alice sapeva che stava guardando. Una volta entrata, chiuse la porta alle sue spalle. «È sul serio per lavoro» domandò «oppure finalmente hai trovato una scusa per quel bidone che mi hai dato?» Hathaway era dalla parte opposta della scrivania, in piedi ma intento a esaminare gli appunti di un paio di stime che aveva fatto quella mattina; alzò la testa per guardarla e fu evidente che aveva deciso di non mostrarsi sulle difensive riguardo a quell'argomento, e altrettanto chiaro che era sconfitto in partenza. «Alice» disse «non ho potuto evitarlo! C'è stata una crisi familiare. Onestamente, non potevo svignarmela.» «Non funziona, Max» ribatté lei. «Che cosa avrei dovuto fare? Non hai nemmeno il telefono!» «Allora fammelo avere.» «Ruby ne sarebbe entusiasta. Si è già insospettita abbastanza quando ti ho lasciato la macchina della ditta.» «E allora che ne dici di rispettare gli appuntamenti che prendi? Penso di avere diritto almeno alla stessa considerazione che dimostreresti per un cliente.» Alice posò il fascicolo di Sisterkirke, che ormai non serviva più. Hathaway guardava dalla finestra, evitando il suo sguardo. Era sulle spine, come
sempre quando litigavano. Aveva una moglie bellissima e due figli splendidi, e la vita sarebbe potuta essere perfetta come in una favola, non fosse stato per il fatto che Ruby sembrava trovare i lavori domestici più eccitanti del sesso. Quel giorno, però, c'era qualcosa di diverso. Non protestava, non si affrettava a rassicurarla. Disse: «Sai, quando è cominciata questa storia mi sono sentito più giovane di quindici anni.» «E ora?» «Mi sento un uomo di mezz'età in una competizione adatta a un giovanotto, e non ce la faccio più a tenere il ritmo.» Poi la guardò. «Sto cercando di dirti che voglio chiudere, Alice.» Lei incrociò le braccia. «Mettiamo una cosa in chiaro, Max. Tu non chiudi niente. Sono io che ne ho abbastanza.» Lui scrollò le spalle. «Come vuoi. Ma non può continuare. Ho avuto un gran bel momento, e ci hanno rimesso tutti tranne me.» «E ora vuoi chiuderlo perché ancora una volta ti fa comodo» disse Alice infuriata, senza riuscire a credere alla faccia tosta di quell'uomo; dopo il modo in cui l'aveva corteggiata, circuita, le aveva fatto regali che lei non voleva... e anche se lo aveva fatto ballare sulla corda e di tanto in tanto gli aveva messo in corpo un po' di spavento, be', non erano quelle le regole del gioco? «Katie è incinta» spiegò lui, e finalmente la guardò negli occhi. «Ha quattordici anni, Alice. Lo abbiamo scoperto solo la settimana scorsa. Forse Ruby avrebbe dovuto capirlo prima di me, ma non è andata così. È per questo che non ho potuto venire da te alla fiera.» E Alice disse: «Oh.» Poi aggiunse: «Hai ragione, Max. Non credo di poter competere con questo.» «Non sto cercando di batterti. Ti sto dicendo come stanno le cose, tutto qui.» «Capito» disse in fretta Alice, e frugò nella tasca della giacca. Si sentiva più imbarazzata che furibonda o sconvolta; più di ogni altra cosa, desiderava voltargli le spalle e uscire. Gettò le chiavi della macchina sulla scrivania di Hathaway. «Porterò via il resto della mia roba più tardi, in settimana» disse. Hathaway sembrò stupito. «Che intendi dire?» «Quando verrò, porterò con me i documenti della macchina. Addio,
Max.» «Alice» cominciò Hathaway «questo non è necessario» ma Alice era già a metà strada dalla porta. Esitò prima di aprirla, e si voltò a guardarlo. «Promettimi una cosa, Max» gli disse. «Cosa?» «Abbi cura di lei. Di Katie, voglio dire. E se mai riuscirai a mantenere una promessa, fa' che sia questa.» Hathaway annuì. «È stato davvero bello» disse. «Parlo sul serio.» Sandra disse qualcosa mentre Alice attraversava il locale, ma lei non ci fece caso. Raccolse la borsa a tracolla da dove era appesa e si diresse verso la porta. L'aria fredda della strada la colpì in faccia e le fece lacrimare gli occhi. Vide una figura confusa venirle incontro, qualcuno che evidentemente aveva aspettato nell'eventualità che lei potesse uscire; tentò di battere le palpebre per rimettere a fuoco l'immagine, ma poi dovette cedere e asciugarsi le lacrime con il dorso della mano. E quando vide chi aveva di fronte, disse: «Guarda chi c'è. Dev'essere il sordo.» «Già» esclamò Nick con vivacità. «Che coincidenza.» Se ne stava impalato con le mani in tasca e le spalle ingobbite per difendersi dal vento, e dava l'impressione di essere lì da parecchio tempo. Alice non poteva affrontarlo. In nessuna circostanza, ma soprattutto non in quel momento. «Non me lo dire» esclamò. «Ti sei trovato a passare da queste parti così per caso.» «Okay, non te lo dirò.» «Cosa devo dire per fartelo capire?» «Ti sei fatta capire benissimo. Non vuoi parlare di Johnny Mays.» «E non voglio nemmeno essere seguita e infastidita con domande sul suo conto.» «Ricevuto» disse Nick, seguendola mentre s'incamminava lungo la strada. «Allora dimmi che ti dispiace, e salutami.» «Ti ho portato un regalo.» «Se sono fiori, hai perso il tuo tempo. Mi viene la febbre da fieno solo a guardare il depliant di un vivaio.» «Non sono fiori.» Pareva che nessun sistema funzionasse. O era stupido o era tenace, e lei
non riusciva a decidere quale delle due ipotesi fosse giusta. Raggiunsero la sua auto, che aveva lasciato sulla strada all'altezza di un negozio di animali, e lì si fermò. Il regalo di Nick era posato sul cofano. Era una mazza da cricket, con un enorme fiocco rosa sull'impugnatura. Lei la fissò senza capire. Nick spiegò: «Ti permetto di darmela in testa, se questo può farti sentire meglio.» Ancora troppo sconcertata per manifestare una reazione, la prese in mano. Era senz'altro una mazza da cricket, anche se le probabilità che la prima impressione fosse sbagliata si aggiravano intorno allo zero. «Scuse accettate?» chiese Nick speranzoso. Lei impugnava la mazza. La strinse con tutte e due le mani, e il peso sembrava ben distribuito; fece il gesto di sferrargli un colpo, e Nick abbozzò una smorfia come se non fosse stato sicuro al cento per cento che lei non lo avrebbe fatto. Ma non indietreggiò. E, dannazione a lui, era riuscito davvero a farle cambiare umore. Alice gli assestò un pugno scherzoso allo stomaco lasciandogli la mazza fra le mani e, scuotendo la testa e sorridendo suo malgrado, si spostò per aprire lo sportello di guida. Nick disse: «Forse la prossima volta sceglierò un regalo che non lasci lividi.» «Sarebbe meglio che non ci fosse una prossima volta» lo ammonì, e mentre parlava si accorse troppo tardi che la macchina non sarebbe andata da nessuna parte, almeno non con lei al volante; aveva un solo mazzo di chiavi, e lo aveva buttato sul tavolo di Hathaway facendo la sua grande uscita teatrale. Alice aveva un temperamento impulsivo, a volte, ma non era una sciocca. Se doveva uscire da quella storia «e non ne era poi così sicura» avrebbe fatto in modo di portare con sé tutti i beni terreni ai quali aveva qualche diritto. Ma non era certo quello il momento di tornare indietro a ripresentarsi. Disse: «Se quello che cerchi è il perdono, sarà bene che cominci a guadagnartelo.» «Dimmi soltanto come.» «Be'... tanto per cominciare, puoi darmi un passaggio fino a casa.» Nick guidava e Alice gli indicava le svolte a mano a mano che si presen-
tavano, anche se continuava a dimenticarsene finché non avevano quasi superato l'incrocio, e allora lui doveva trovare un posto per fare retromarcia e tornare indietro. Era ovvio che lei pensava ad altro; il percorso non era neppure complicato, perché il centro della città era ben poca cosa. Una volta arrivati sulla strada costiera che li avrebbe portati oltre gli alberghi e la spiaggia, verso la zona del porto dei pescherecci, era più o meno fatta. Aveva provato sollievo vedendola uscire. Gironzolava nei paraggi da mezz'ora, sentendo parti vitali del suo corpo che si congelavano al freddo mentre tentava di pensare a qualcosa da dirle se fosse davvero entrato nell'ufficio. Non riusciva a escogitare niente che gli garantisse di non ricevere un rabbuffo ed essere messo alla porta con le ultime speranze ridotte in briciole. Avrebbe preferito sorprenderla a casa, ma la soluzione era resa difficile dal fatto che lui non sapeva ancora dove abitava; l'auto era intestata alla ditta, e anche se l'informazione lo aveva portato fino a quella piccola città di pescatori, circa trenta chilometri più su lungo la costa, era ancora un po' lontana dall'ideale. L'elenco telefonico non era servito a niente, e lui non era mai stato troppo bravo a orizzontarsi in un registro elettorale. E comunque Alice, a quanto pareva, non lo aveva ancora firmato. Le lanciò un'occhiata in tralice. Lei stava esaminando l'interno della macchina. «È tua?» «Presa a nolo. Perché?» «Non ti si addice.» «Le macchine che mi si addicono hanno la tendenza a guastarsi e cadere a pezzi. La maniglie delle portiere si staccano e bisogna entrare dal finestrino. Nella penultima che ho avuto, il fondo mi è crollato sotto i piedi quando sono incappato in una buca della strada.» «E l'ultima?» «Credi a me, è meglio che non ti racconti quello che le è successo.» Funzionò. Lei non stava proprio ridendo, ma quasi. Gli disse: «A quanto pare non sei l'uomo più fortunato della città.» «Non sarei l'uomo più fortunato nemmeno sulla Marie Celeste. E che mi racconti della tua macchina?» «È una storia lunga. Diciamo solo che veniva insieme al lavoro, e ora sono di nuovo libera.» «Parli sul serio?» Lei sospirò. «No. In realtà no. È successo già un paio di volte. Non è il posto migliore che si possa desiderare, ma vale la pena di tenerselo stretto.
Lascerò passare qualche giorno e poi dirò che voglio tornare.» «Puoi farlo?» E a queste parole Alice guardò dal finestrino, la sua aria indifferente venata da una punta di tristezza. «Se hai il genere giusto di leva» disse «puoi fare tutto quello che vuoi.» Il pontile e le banchine dei pescherecci si stagliarono davanti a loro. Alice gli disse di prepararsi a svoltare. Nick non se l'aspettava, ma rallentò e imboccò la rampa che scendeva fino al molo seguendo le sue istruzioni. La percorse lentamente. Simile quasi a uno scivolo ricoperto in parte di ciottoli e in parte di cemento, la rampa sembrava riservata all'accesso agli edifici del porto. Sbucarono in un vicolo stretto che correva fra la diga marittima e un grigio deposito doganale privo di finestre. «Questa è casa mia» disse Alice, e Nick si guardò attorno e si domandò a che cosa si riferiva. Lo fece fermare in un punto appena oltre l'estremità del deposito e all'ombra della diga, in un tratto aperto che sembrava usato come discarica per rottami di ferro navali; c'erano tratti di catene arrugginite disposti più o meno in linea retta, un paio di grossi cucchiai da draga che si trovavano lì evidentemente da molto tempo, pile di paranchi, rulli di cavi vuoti, bombole di acetilene... Nick parcheggiò vicino a un furgone Peugeot con l'adesivo SOSTENETE LE SCIALUPPE DI SALVATAGGIO sul vetro posteriore, e scesero tutti e due. Non sembrava troppo promettente. C'era ben poco da vedere, lì, a parte un paio di bassi edifici di mattoni che, durante la stagione, sarebbero serviti come baracchino per gli hot dog e rivendita di souvenir e articoli da regalo. Più in là, un capannone dipinto di giallo e azzurro che ospitava una drogheria e aveva le vecchie veneziane color piscio abbassate per evitare che la merce ingiallisse. Alice stava tornando lungo il vicolo vicino al deposito della dogana, e Nick si mosse per seguirla. Ce l'aveva messa tutta per ritrovarla, e non intendeva lasciarsela sfuggire. «Qui?» disse, tentando di escludere l'incredulità dalla voce quando la raggiunse. Il deposito doganale era stato trasformato per metà in qualcosa di diverso, con le assi ben tenute che cedevano il passo a un rivestimento in lamiera ondulata non più riverniciata dopo la prima volta. C'erano finestre di vetro smerigliato protette da un telaio di rete metallica, ma le finestre erano state sbarrate con assi di legno dalla parte interna e le assi erano dipinte di
nero con stelle d'argento verniciate a spray dappertutto. Sopra la porta sulla quale Alice armeggiava alle prese con un lucchetto quasi più grosso della sua mano, un'insegna annunciava: TÈ, CAFFÈ, GELATI, POPCORN. «Sì, qui» confermò Alice. «Casa, dolce casa. Forse non sarà granché, ma l'affitto è pagato. Vuoi entrare un momento?» «Dipende se sono il benvenuto.» «C'è una sola condizione. Non si parla di Johnny Mays. Non voglio nemmeno sentire il suo nome, non in casa mia. D'accordo?» «D'accordo» rispose Nick. Lo fissò negli occhi, per essere sicura. Qualcosa dentro di lui parve prendere fuoco, come se fosse arrivato strisciando fin sull'orlo di un precipizio per sbirciare in un canyon senza fondo e non potesse fare a meno di immaginare, per un breve istante, che cosa sarebbe stato lasciarsi andare e scivolare in avanti. «Vieni, allora» disse Alice, sganciando il lucchetto e spingendo la pesante porta nel buio, e Nick tenne sollevata la mazza da cricket per far vedere che non era venuto a mani vuote. «Sarà meglio metterla in un vaso» le disse seguendola all'interno. «Detesto entrare in questo posto» disse Wilson. «Penso di odiare la musica che suonano più di qualsiasi altra cosa.» «Sono d'accordo» disse Jennifer, ficcandosi in bocca un Rennie senza farsi vedere. Si trovavano su una scala mobile che li stava portando all'ultimo piano di un enorme, disordinato centro acquisti che occupava parecchi isolati al centro della città, e Wilson a quanto pareva non ne pensava un gran bene. Wilson sembrava non apprezzare nessun edificio costruito dopo il 1930. «È solo un allevamento di formiche con un sottofondo di musica di Mantovani» riprese lui. «La gente non dovrebbe vivere così, è avvilente. Che cos'hai, l'ulcera?» «Penso che siano i nervi» ammise Jennifer. «Se va male questa occasione, mi uccido.» «Rilassati un po'. Non ho mai perso una recluta, finora.» «Le ultime parole famose.» «Siamo sulla pista degli orsacchiotti clandestini, non dei dinamitardi di Brighton.» «Giusto» disse Jennifer, e fissò distrattamente la luce verde che filtrava dagli stretti interstizi fra i gradini della scala mobile.
Quello era il primo giorno del periodo di prova al CID. Era stata assegnata a Wilson, un sergente della Squadra investigativa anziano e pieno di esperienza, con la promessa ufficiosa di un incarico più eccitante quando avesse imparato qualcosa sulle procedure del dipartimento. Wilson sembrava solido e fidato, ma non era certo il tipo capace di mettere il mondo a ferro e fuoco. In quel momento stavano girando per i vari negozi di giocattoli e rivendite a buon mercato del centro, cercando qualche indizio su un carico di giocattoli di peluche che erano stati rubati mentre superavano il confine della contea; gli orsi in questione erano notoriamente pericolosi erano tenuti insieme con i chiodi, s'incendiavano troppo facilmente, e quando erano stati sottratti stavano per essere restituiti all'importatore - ma ora sarebbero stati messi in vendita in qualche negozio rispettabile, confezionati a nuovo e venduti con marchi di fabbrica contraffatti. Wilson aveva ragione. Il centro acquisti era l'equivalente architettonico di una lobotomia. Jennifer aveva già abbastanza grane, e di quella poteva proprio fare a meno. Era stata nel magazzino poco dopo l'inaugurazione, e l'aveva giudicato troppo caldo, privo di luce, tetro e deprimente... i costruttori ci avevano lavorato sopra negli ultimi due anni e ora ogni piano aveva un pavimento nuovo di piastrelle italiane e una quantità di ferro battuto e graticci dipinti, ma faceva ancora troppo caldo e la luce del giorno che riusciva a entrare era quasi inesistente. Jennifer aveva l'impressione che fosse come camminare in una pentola a pressione con il coperchio chiuso. Sapeva che la tensione indefinibile che s'insinuava nel suo stomaco non sarebbe svanita finché non fosse uscita di nuovo all'aperto, e anche allora sarebbe stata una fortuna se si fosse dileguata del tutto. Era una sensazione che non poteva essere superata neanche dalla presenza di piante costose o della grande voliera che s'innalzava per tre piani vicino all'ascensore. Avevano controllato già parecchi negozi e avevano fatto centro all'ottavo, un magazzino di giocattoli di medie dimensioni, vivacemente illuminato e basato sul principio "fai grossi mucchi e spostali spesso". Gli orsi letali sgranavano gli occhi vuoti attraverso le finestrelle di cellofan sul davanti delle scatole, e Wilson aveva chiamato il direttore e quando quello aveva tentato di obiettare che erano arrivati in modo legittimo e nessuno poteva obbligarlo a toglierli dagli scaffali, Wilson ne aveva decapitato uno con mossa distratta e aveva messo sotto gli occhi dell'uomo il perno di fissaggio lungo dieci centimetri. Avevano esaminato i documenti falsificati, avevano raccolto le deposizioni, avevano promesso di tornare. Mentre se ne
andavano, Jennifer aveva visto un ragazzo in tuta riempire il vuoto nell'esposizione con le bambole Cabbage Kids e Pound Puppies. Man mano che toglieva gli orsacchiotti, li gettava in una scatola di cartone. Non era il ragazzo più brillante del mondo, né il più felice. Wilson decise che si erano meritati una pausa. Entrarono in una delle tavole calde del piano, nient'altro che un riquadro aperto nel salone centrale, isolato con barriere alte fino alla vita e stipato di tavolini disposti intorno a un banco self-service. La metà dei piatti riprodotti sul menu fissato al tavolo era perennemente esaurita e molti tavolini non erano stati ancora sparecchiati. Qualsiasi speranza di quiete era distrutta dai giocattoli a gettone installati a ridosso del paravento, navi spaziali e treni con le luci intermittenti. «Allora» disse Wilson «che te ne pare?» Jennifer ebbe un attimo di esitazione, e poi decise di dire la verità. «Qualcosa non mi suona giusto» disse. «Mi trattano come se fossi venuta solo per fare un giro. Faccio una domanda e loro si voltano e rispondono a lei.» Wilson si grattò il mento, come se avesse trovato un punto che aveva trascurato radendosi. «Questo è vero forse al dieci per cento» disse. «Il resto è frutto della tua immaginazione.» «È perché sono una donna.» «È perché sei abituata all'uniforme, tutto qui. Abbi fiducia in te.» Sapendo che non c'era verso di fargli capire, Jennifer sospirò e guardò verso il salone. Un uomo dimesso con gli occhi spalancati stava camminando tra la folla e sembrava stordito, incapace di stabilire il nesso fra quello che c'era intorno a lui e un qualsiasi genere di realtà. Lei disse: «Scommetto che non le fa per niente piacere essere rimasto incastrato con me.» «E abbi un po' di fiducia anche in me. Ho delle figlie.» Wilson accennò vagamente con la mano in direzione del luogo della loro ultima indagine. «Mi danno un sacco di problemi. Le porto in posti come questo, pieni di camion Tonka, trenini elettrici e robot che si trasformano in jet e motociclette. Passiamo nel reparto delle bambine, e qual è il gioco più interessante che riesco a trovare per loro? Spazzolare la coda del pony.» «E che cosa vuol dire?» «Che è nell'interesse delle mie ragazze che ci sia qualcuno come te che arriva al successo nel suo mestiere. Non voglio che crescano pensando che lavorare in un istituto di bellezza significa essere sul tetto del mondo.»
«Vorrebbe che entrassero nella polizia?» Ma a questo punto Wilson abbozzò un sorriso e puntò le dita a forma di pistola, come avrebbe fatto un bambino. «Questo è un altro discorso» disse. Ma il trucco aveva funzionato, e la tensione di Jennifer si era allentata. «Okay» disse, e fece uno sforzo per rilassarsi. Per qualche minuto guardarono passare il mondo, o almeno quella parte del mondo che s'interessava ai negozi di jeans o al centro per il trucco degli occhi o al banco dei compact disc che attirava gran parte delle persone, e parlarono delle differenze fra il lavoro di investigazione e quello in uniforme. Wilson sembrava un tipo a posto, ora che Jennifer si stava abituando ad alcune delle sue fissazioni più evidenti. Poco dopo, lui le disse: «Posso farti una domanda personale?» «Non garantisco per la risposta» rispose Jennifer cautamente. «Stai ancora con Nick Frazier?» Lei esitò un attimo. Poi rispose: «Ci siamo lasciati.» E Wilson annuì, come se fosse la risposta che aveva sperato di ascoltare. «Hai fatto bene» disse. «A titolo strettamente confidenziale, dovresti sentire alcune delle cose che Bruno sta scoprendo sul conto suo e di Johnny Mays.» Si appoggiò allo schienale della sedia. «Il fango non si attacca soltanto a chi c'è dentro, schizza. Ma immagino che tu l'abbia capito.» «Sì» disse piano Jennifer. «Credo di sì.» Dopo un controllo ai banchi di vendita, tornarono verso la macchina di Wilson, che lui aveva lasciato per metà sul marciapiede in una zona di carico, dai muri senza finestre e le porte dei magazzini coperte di scritte fatte con le bombolette spray. «E ora passiamo alla parte eccitante» disse mentre scendevano con un sobbalzo dal marciapiede e si preparavano a una conversione a U. «Le scartoffie.» Ma le scartoffie avrebbero dovuto aspettare. Il motivo del rinvio era qualcosa che Jennifer sentì per caso nella sala operativa, dove era stata mandata per vedere se poteva chiedere, prendere in prestito o procurarsi in qualche modo un paio di fogli di carta carbone; in tutto l'edificio era più difficile procurarsi la carta carbone che la carta igienica a due veli. Lei aveva lavorato per qualche tempo alle operazioni, e conosceva un po' di gente; e anche se non ci teneva a farsi vedere in giro il primo giorno di prova, era difficile andarsene senza scambiare due parole. Quando tornò nella sala agenti del CID, Wilson le domandò: «Ce l'hai
fatta?» «Che probabilità ci sono di fare un giro ad Ashness Close, questo pomeriggio?» ribatté Jennifer. «Perché?» «C'è stata una telefonata di uno che abita lì, preoccupato per qualcosa, e gli agenti in uniforme non potranno controllare fino a tardi, forse addirittura fino a domani.» «Allora ha una priorità bassa. Calma, ragazzina, ora sei nel CID. Lascia che gli agenti in uniforme sbrighino le loro chiamate da soli.» «Ho motivo di pensare che Ashness Close attirasse in modo particolare Johnny Mays, quando era vivo.» «Lo hai saputo da Frazier?» «Potrebbe essere una sciocchezza. Una semplice coincidenza.» «Ma vuoi andare a controllare.» «Voglio andare a controllare.» «D'accordo, ma prima c'è qualcosa di più urgente.» «Cosa?» «Dove diavolo è la mia carta carbone?» C'era una Porsche parcheggiata fuori nel Close, proprio come il giorno che Jennifer era passata in macchina con Nick. A Wilson quegli appartamenti non piacevano più di quanto gli piacesse il centro commerciale; diceva che i rubinetti dorati in bagno e una porta georgiana nel garage non facevano nessuna differenza, lui riconosceva le costruzioni scadenti quando le vedeva. Il Close faceva parte di un centro residenziale che a Jennifer ricordava un dormitorio per studenti: palazzine di mattoni rossi, vialetti pedonali fra gli isolati, parcheggi comuni, scale comuni... la sola vera differenza stava nell'affitto che chiedevano, per una scatola da scarpe con due camere da letto e il riscaldamento sotto il pavimento. Il posto aveva una patina superficiale di classe, ma non le sarebbe piaciuto viverci. Era troppo vicino al centro, anche se in teoria quello era uno dei suoi pregi. L'uomo che aveva telefonato venne incontro a loro ai piedi delle scale. Un ometto piccolo, col viso aguzzo, sulla cinquantina. Jennifer poteva figurarsi il dottor Moreau entrare in sala operatoria con un furetto e uscirne con lui. Indossava calzoni costosi e una di quelle magliette sportive con un piccolo coccodrillo sopra, e i peli grigi del petto sembravano paglietta di ferro nella V del colletto.
Mentre li guidava di sopra disse: «Ormai è un paio di giorni. Il latte continua ad arrivare e ho messo da parte i giornali. C'è anche una luce accesa nel bagno.» Wilson domandò: «L'avvertono sempre, quando vanno via?» «Non sempre. Vanno fuori spesso. Lui ha una società che vende appartamenti in multiproprietà in tutto il continente.» «Multiproprietà?» disse Wilson. «Non è quel genere di affare per cui compri una quota di un bell'appartamento e poi altre cinquanta famiglie vengono a ridurlo un porcile?» «Ho appena comprato anch'io una delle unità» rispose l'uomo irrigidendosi, ma il sorriso di Wilson non si alterò. «Se a lei sta bene...» disse in tono amabile. Arrivati all'ultimo piano, tre rampe più su, suonarono il campanello e attesero. «Ho già provato» disse l'uomo, e mentre Wilson gli spiegava che dovevano comportarsi così, Jennifer tentava di sollevare il battente della buca delle lettere, nel caso ci fosse la possibilità di sbirciare da lì. Wilson chiese se gli occupanti dell'appartamento litigavano e l'uomo disse che non lo sapeva, non erano insieme da tanto tempo. Jennifer domandò: «Ha un coltello da tavola?» Lui parve perplesso, confuso, e leggermente spaventato. «Prego?» «Mi serve un coltello. Ne ha uno?» Lui dovette rientrare in casa, dall'altra parte del pianerottolo, per andare a prenderlo e quando arrivò, Jennifer inserì la lama all'interno e la usò per sollevare il battente di protezione dall'altra parte della fessura. Studiò per qualche istante l'immagine in cinemascope e poi invitò Wilson a dare un'occhiata. Lui guardò. Guardò a lungo. Raddrizzandosi, disse: «Esiste una chiave universale per questi appartamenti?» Non c'era, così dovettero forzare la porta. Un uomo di mezz'età era riverso, contorto, contro la parete alla loro destra. Un arco monocromatico era tracciato sull'intonaco, come con un pennarello gigante, lungo la traiettoria dove aveva strisciato la testa mentre cadeva. Jennifer guardò il vicino e disse. «È l'inquilino?» L'uomo batté le palpebre, col viso esangue e molle, e rispose: «È lui.» «Dobbiamo chiederle di restare fuori» gli disse Wilson, e il vicino rispose subito: «Non si preoccupi.»
Camminando cautamente e senza toccare niente, attraversarono il salone centrale. Non c'era nessun segno evidente di furto. Tutti i mobili erano nuovi e i quadri alle pareti non sembravano stampe, ma originali. Paesaggi europei, per lo più, ma nemmeno quelli davano alla casa un tocco molto personale. Non c'erano fotografie né soprammobili. Il genere di casa in cui Jennifer immaginava che un uomo d'affari si trasferisse con la sua ex amante per un secondo matrimonio. Wilson disse: «Sento scorrere l'acqua» e passò oltre per dare un'occhiata al resto dell'appartamento, mentre Jennifer tentava di intuire che cosa poteva essere accaduto. Forse il campanello aveva squillato, l'inquilino aveva risposto, e non aveva nemmeno visto arrivare il colpo che lo aveva ucciso. Era successo di sera, a occhio; le originali persiane a rullo alle finestre erano quasi tutte abbassate, e al lettore di compact disc erano attaccate le cuffie. Prova a suonare musica ad alto volume di sera in un posto del genere, e la gente, troppo beneducata per bussare sul soffitto, ti manda un'ingiunzione del tribunale. Sentì Wilson esclamare: «Cristo!» I due quasi si scontrarono nel breve corridoio che portava oltre le camere da letto fino al bagno, ma Wilson aveva troppa fretta di superarla per badarci. Quello che aveva sentito era lo scroscio della doccia. L'acqua era diventata fredda e non c'era vapore. Lei era distesa seminuda, con l'acqua della doccia che le scorreva sul corpo. Una gamba pendeva oltre il bordo della vasca. L'arma che era stata usata contro di lei giaceva sul pavimento di piastrelle. Il colore intenso che Nick aveva descritto a Jennifer come il risultato di un'abbronzatura artificiale si rivelava autentico, come dimostrava la striscia bianca intorno ai fianchi; ma Nick aveva visto giusto a proposito dei capelli ossigenati. Jennifer capì immediatamente che il movente non era stato la rapina. La vittima aveva ancora troppo oro sulle mani. Oh, c'era anche qualcos'altro. Sembrava che avesse dato alla luce gran parte delle viscere. 19 L'arma era un corto palo di legno con un gancio di metallo a un'estremità, evidentemente un aggeggio fatto in casa per afferrare l'anello delle tendine e abbassarle quando erano fuori della portata del braccio. Poco dopo, quando la grande macchina della Omicidi fu ben avviata e l'edificio bruli-
cava già di agenti investigativi e personale ausiliario, l'arnese fu raccolto con cura e riposto in un sacchetto, pressappoco nello stesso momento in cui a Wilson e a Jennifer fu detto che non c'era più bisogno di loro. Si fecero largo fra gli agenti, la stampa, le telecamere e la solita folla di curiosi avidi in attesa di veder portare via i cadaveri. Ci sarebbero state altre domande per Jennifer, ma sarebbero venute in seguito. In quel momento, ci volle tutta la sua concentrazione per reggersi salda sulle gambe. «Hai la nausea?» chiese Wilson, e Jennifer dovette annuire. «Penso che in macchina mi sia rimasto un sacchetto di carta» le disse, e stringendole un braccio con forza l'allontanò dalla folla. La portò in macchina ottocento metri più avanti, in un terreno abbandonato, e là scese e guardò dall'altra parte per tutto il tempo che ci volle a Jennifer per fare quello che era necessario. Era un terreno elevato, e si poteva vedere tutta la città fino alle colline sullo sfondo. Ormai si stava facendo tardi, la luce del giorno cominciava a svanire e il paesaggio urbano di tetti e appartamenti e ciminiere di fabbriche era costellato da brillanti puntini di luce artificiale, come una specie di luna park. Ma Manhattan non lo era; e se si poteva dire che una città aveva un carattere e uno scopo, allora eccone una che aveva perso la sua identità quando le filande e i docks avevano chiuso, e che si sforzava di ritrovare se stessa brancolando nell'incertezza e nell'ombra. Più di una volta, Wilson si era ripromesso di staccarsi dalle sue radici e trovare un posto migliore per far crescere le ragazze. Ma dove? Lì avevano tutti i loro amici, e amavano la vecchia grande casa dove abitavano. E poi spostarsi non risolveva niente; il paesaggio non offriva soluzioni, perché la vista era esattamente quella che era, una vista, e le sole risposte utili erano da qualche parte dentro di te. Dovunque andassi, era il paesaggio interiore quello al quale dovevi tornare, alla fine. Si sentiva sfinito. Chi non lo sarebbe stato, dopo quello che aveva visto quel giorno? Ma sapeva anche di essere dalla parte giusta. Guardò di nuovo nella macchina. Jennifer aveva un colorito più sano, adesso, e riuscì a rivolgergli un fiacco sorriso di scusa, incontrando il suo sguardo oltre il parabrezza. Lui si avvicinò al finestrino e domandò: «Va meglio?» Lei annuì. Aveva annodato l'imboccatura della busta di plastica usata come sacchetto per vomitare, quasi avesse paura che lui volesse dare una sbirciatina dentro. Wilson disse: «Ne ho viste di peggio, ma non molte. Vuoi tornare in cit-
tà, o preferisci restare seduta per un po'?» «Tornare» rispose Jennifer, e così Wilson passò dalla parte opposta della macchina e si mise al volante. «Puoi semplicemente gettarlo fuori» le disse, accennando al sacchetto. «Da queste parti non farà una grande differenza.» «Me lo terrò per un po'» rispose lei. Non l'aveva riempito molto. Probabilmente non aveva nemmeno mangiato a colazione, se il nervosismo di poco prima significava qualcosa. Lui aveva visto tanti novellini in prova andare e venire - alcuni dei suoi primi allievi lo avevano addirittura superato di grado, ormai - e lei era più brillante della maggior parte di loro. Se fosse riuscita a superare i problemi dell'insicurezza iniziale, Wilson prevedeva che sarebbe diventata una di loro. Una piccola parte di lui si opponeva; ma per lo più pensava alle sue ragazze, e voleva che ce la facesse. E poi pensò alla donna nel bagno, e si domandò se lei aveva mai spazzolato la coda del pony. E per la prima volta da quando l'avevano scoperta, sentì un impeto di pietà più forte del disgusto iniziale. Guardò Jennifer. «Domani è il tuo giorno di riposo?» Lei annuì. «Ti rimetterai in sesto» le disse, e girò la chiavetta del motore; ma poi, prima di partire, la guardò di nuovo mentre lo colpiva un'altra idea. Le chiese: «Non la conoscevi personalmente o roba del genere, vero?» Jennifer scosse la testa. Così ripartirono. La casa di Alice era un appartamento al piano di sopra, perfettamente abitabile; c'era da attraversare un bar sprangato, con la macchina dell'espresso spenta e le macchinette coperte dalle fodere, prima di raggiungere le scale, ma era un locale del tutto separato. Buio come la pece, polveroso e squallido quanto poteva esserlo una sala giochi, dava l'impressione che le macchinette e i flipper fossero abbandonati da almeno un paio d'anni. Le stanze al piano di sopra erano tutta un'altra cosa. Nick si aggirò nel soggiorno mentre Alice era in cucina. La casa rivelava una personalità, e non era quella di Alice; lei compariva in alcuni tocchi aggiunti, come una decina di vecchie fotografie di parenti, amici e bei ricordi che aveva infilato nella cornice dello specchio della credenza, come nel camerino di un'attrice, ma i manifesti del music-hall incorniciati e i ricordi del mondo dello spettacolo indicavano che Alice era relativamente
una nuova arrivata sulla scena. Nick la chiamò nell'altra stanza. «Qual è la storia di questo posto?» «La tua famiglia ha qualche zio pecora nera?» gridò lei di rimando. «Più del necessario.» «Bene, il nostro fuggì con un carrozzone di girovaghi quando aveva tredici anni. Tornò a trovarci sei anni dopo con una macchina scoperta e un vestito a scacchi così chiassoso che riusciva a spegnere la conversazione. Tredici anni a sentirsi dire che era un buono a nulla e che non avrebbe mai ottenuto un posto sicuro al comune come il fratello maggiore, e poi zio Jim se ne torna rombando su una Javelin mentre zio Phil porta ancora l'ultimo grido in fatto di mollette ai calzoni per la bici. Jim aveva rilevato la concessione delle slot-machines per il luna park e se la cavava piuttosto bene. Fece diventare tutti quanti verdi di bile. Ho sempre pensato che la cosa che lo rovinò fu la gelosia.» «Alla gente non piace che le pecore nere facciano una buona riuscita» osservò Nick, spostandosi per dare un'occhiata agli yacht ormeggiati nel porto che si vedeva dalla finestra. «La fa sentire insicura.» Il fango laggiù era stato scolpito e modellato dalla marea che si ritirava; le sue linee sembravano incise nella pietra, ma era un'opera che sarebbe stata cancellata e rifatta nel giro di poche ore. «Più tardi si presero la rivincita. Lui sapeva fare i soldi, ma non sapeva tenerseli. Non che gliene importasse molto. Aveva comprato proprietà come questa lungo tutta la costa e per qualche anno gli avevano dato di che vivere, ma aveva l'incredibile capacità di assumere sempre come direttori dei furfanti. Quando lo conobbi io, questa sala giochi era tutto quello che gli restava e lui abitava sopra il locale. A quei tempi mia madre mi permetteva di stare qui a lavorare durante l'estate. Quando lui morì, mi lasciò il contratto di affitto a lungo termine e io mi sono trasferita qui. Ho tentato di subaffittare la parte di sotto come locali per uffici, ma non ho trovato clienti.» «È questo che stavi cercando di fare alla fiera?» «Più o meno.» «Ed era qui che sparivi tutte le estati?» «Non dirmi che sentivi la mia mancanza.» «D'accordo, non te lo dirò.» La sentiva spostarsi da una stanza all'altra; "Jennifer" si sorprese a pensare per un attimo, ma voltò le spalle alla finestra e scacciò dalla mente il pensiero.
Alice riprese: «Non so quale fosse il particolare che mi piaceva di più. Le storie che mi raccontava o i tramonti o le luci della sala giochi nelle ultime ore del giorno.» «O la gente?» «La gente per lo più faceva schifo. Non è il caso di diventare troppo romantici.» Fermandosi di nuovo vicino allo specchio, Nick tirò fuori di tasca la fotografia di lei conservata da Johnny per confrontarla con le altre. Sembravano quasi tutte molto più recenti. Non sapeva come fare per riprendere l'argomento senza violare la promessa di non nominare Johnny. Forse ci sarebbe arrivata lei, se Nick non le forzava la mano. E se non lo faceva... be', che importanza aveva, in realtà? Nick cominciava a rendersi conto che stava passando dei momenti piacevoli, tutto considerato. Iniziava a imbrunire e Alice accese un paio di luci. Servì il caffè su un vassoio, e si sedettero a parlare della loro vita negli anni successivi a quelli in cui si erano conosciuti; Alice ammise che si era sbagliata a proposito del ballo campestre e aveva pensato a un altro ragazzo, un certo Norman Lee, che non somigliava neppure a Nick. Si ricordava così bene di Nick perché un giorno a scuola aveva rischiato di uccidere il gatto del bidello con un giavellotto, durante l'ora di ginnastica. Nick disse che le perdonava la confusione e Alice ribatté che gli perdonava la balla della macchia di pipì, e poi parlarono di alcune delle storie che avevano sentito sulla vita degli altri. Ma non tutti gli altri, per la verità. C'era un'eccezione particolare. Nick domandò: «Sei riuscita a tenerti in contatto con qualcuno?» «Poco» ammise Alice. «Si sono dispersi quasi tutti. Qualche notizia ogni tanto arriva, ma...» «Il passato non è un bel posto dove vivere.» «Esatto.» «Dove saresti, se potessi scegliere?» «Non ci sono dubbi» rispose lei, tenendo la tazza di caffè tra le mani e guardando in una lontananza che nessun altro avrebbe potuto vedere. «Diritto attraverso lo specchio e nel Paese delle Meraviglie.» E poi rivolse a Nick un sorriso asimmetrico. «Che altro ci si può aspettare da una ragazza che si chiama Alice?» Il problema per Nick era che la maggior parte delle notizie che aveva sentito sui vecchi tempi, avrebbe preferito ignorarle. Come quella su Nor-
man Lee, un ragazzo tranquillo, che detestava sporcarsi; quando Nick lo aveva incontrato dieci anni dopo, era in stato di arresto per un'accusa di oltraggio al pudore che gli aveva procurato una condanna con la condizionale e gli aveva fatto perdere l'impiego. Raccontò ad Alice la storia, e lei disse: «Se avessimo potuto vedere dove andavamo... voglio dire, se avessimo potuto sapere come sarebbe andata per ciascuno di noi... mi domando come avremmo reagito.» «Con incredulità» disse Nick, profondamente convinto. «Quando sei un bambino, la realtà non ha senso. Devi prendere più che puoi, prima che il mondo ti metta le mani addosso. Se hai fortuna, ti accaparrerai tanta magia da fartela bastare fino alla fine.» Alice si mosse per avvicinarsi alla finestra, dove guardò fuori nel buio. Nick vedeva il suo riflesso nel vetro, un ritratto fantasma sull'acqua. Lei chiese: «Vivi con qualcuno in questo momento?» «Ci vivevo» rispose Nick «ma ora sono per così dire in una fase di transizione.» Alice annuì, come se capisse perfettamente. «Come si chiamava?» «Jennifer. Non puoi conoscerla. Non era... era una persona che ho incontrato dopo.» «Vuoi dire» concluse Alice con un certo intuito «che non era una di noi.» «Più o meno» ammise Nick. «È vero quello che dicono, no? Non si può tornare indietro, in realtà.» «Sembra un pensiero profondo.» La sua immagine riflessa sorrise mentre lei cominciava a girarsi. «L'ho letto su una striscia dei Peanuts» confessò. «È il massimo di profondità che posso raggiungere.» In uno dei ripostigli trovò un grosso vaso vecchio e incrinato e ci misero dentro per gioco la mazza da cricket, col fiocco che la faceva sembrare un girasole gigante. Alice trovò cracker e formaggio nella sua dispensa piuttosto sguarnita e preparò dell'altro caffè, mentre Nick curiosava nella libreria, e si domandava se stesse cominciando qualcosa, lì, oppure no. Non aveva molta voglia di guardare troppo avanti nel futuro. Tanto per dirne una, avrebbe dovuto affrontare Bruno e le conseguenze della lettera. In fondo al cuore sapeva che cosa sarebbe accaduto. Gli avrebbero chiesto di andarsene, ne era certo. Probabilmente era quello che voleva fin dall'inizio, solo che non era riuscito a trovare il coraggio di deciderlo da solo. E di quello che avrebbe fatto in seguito non aveva idea.
Alla fine disse: «Be', ho la sensazione che dovrei congedarmi, per questa sera.» «Perché?» «Perché mi trovo bene qui, e finirò per restare più del dovuto, e allora dovrai cacciarmi fuori a calci.» «Così vuoi precedermi?» «Esatto. Che cosa farai, ora?» «Probabilmente lascerò passare un paio di giorni perché si raffreddino gli animi. Poi tornerò al lavoro come al solito.» Nick disse: «Io mi tratterrò un po' di più.» «Bene. Allora ci incontreremo ancora.» «Ci conto.» E chiusero lì. Ma non fu facile. Quando Nick se ne fu andato, Alice si dedicò alla casa. Non c'era molto da riordinare. Avrebbe voluto essere organizzata meglio per riceverlo, ma non sembrava che lui ci avesse badato. Aveva lasciato la tazza vicino allo specchio e quando andò a prenderla notò che una delle fotografie si era sfilata dall'orlo della cornice. Solo dopo averla raccolta per rimetterla a posto, si accorse che non l'aveva mai vista prima. Si guardò. Aveva un'aria terribilmente giovane. Doveva avere... quanto?... quindici anni? Non riusciva a ricordare quando era stata scattata, ma forse ricordava il posto, la vecchia aula magna della scuola. Circa un anno prima della licenza. Scosse la testa lentamente e pensò: "Nick Frazier, che tipo imprevedibile." Lo sentiva fuori, che tentava ancora di avviare la macchina a nolo, e così si diresse verso la finestra che si affacciava sul vicolo e si sporse. Lui era ancora vicino al mucchio di paranchi all'altro capo del deposito doganale, e stava giusto scendendo dalla macchina. Il cofano era aperto e il motore non voleva saperne di avviarsi. Alice si mise le dita in bocca e fischiò per chiamarlo, e lui alzò la testa a guardarla. Ormai era buio, ma c'era un lampione sulla passeggiata, quasi sopra di lui. Nick disse: «Non ci capisco niente. Posso usare il tuo telefono per chiamare l'autonoleggio?» «Non ho il telefono.» «Dov'è la cabina più vicina?» «Ormai l'orario di ufficio è finito. Non troverai nessuno.» «Orari dei treni?»
«Hanno cancellato la linea.» «Autobus?» «Nessuno.» «Taxi?» Alice scosse la testa. E allora Nick disse: «Mi butti una coperta, allora?» «Sarà meglio che rientri. Per stanotte puoi usare il divano-letto e sistemerai tutto domattina.» «Non hai paura delle chiacchiere dei vicini?» «Quali vicini?» Nick si guardò attorno, e non poté certo obiettare; così abbassò con un tonfo il cofano, chiuse a chiave gli sportelli e si allontanò dalla macchina come se non glien'importasse nulla. Come se potesse restare lì ad arrugginire, insieme a vecchie catene d'ancora e cucchiai di draghe; come se potesse unirsi al resto della sfilata di auto ridotte a rottami che avevano contrassegnato la sua vita di automobilista fino a quel momento. «Gettoni» disse Alice, e prese da dietro il banco un sacchetto di tela. Ora si trovavano al pianterreno, e lei aveva abbassato un interruttore generale nella scatola dei fusibili per riportare in vita la sala giochi. Le macchine lampeggiarono e s'illuminarono, una per una, ridestandosi come animali preistorici che dopo un paio di millenni avessero scoperto che il masso all'imboccatura della caverna era rotolato via. E, Cristo, alcune di quelle macchine erano davvero antiche. Una delle più vicine a Nick era una slot-machine vecchio modello, con la scritta Lucky Star, sul vetro, e Nick intravide i nomi di alcuni divi sui cilindri allineati nel disegno sottostante: Cornell Wilde, Hedy Lamarr, Betty Grable. Ma i flipper non sembravano così datati, e c'erano anche alcuni dei primi giochi dell'era video e, sul fondo, un paio di file di macchinette mangiasoldi con i disegni di frutti, che probabilmente valevano un patrimonio sul mercato dei collezionisti. Quando si accesero, alcune cominciarono a cantare come robot impazziti. Nick disse: «Un paradiso. Che faccio quando finiscono i gettoni?» «Cominci a usare i soldi» rispose Alice. «È ora che questo locale riprenda a guadagnarsi da vivere. Divertiti.» E poi sparì al piano di sopra per preparare la sua sistemazione notturna, lasciando Nick a cavarsela da solo per un po'. Posti come quello tendevano già a sembrare squallidi quando erano regolarmente in funzione, ma il disuso li faceva andare ben presto in declino.
C'era un velo di polvere dappertutto, perfino sulle macchinette che erano state ricoperte con i teli. Pareti, soffitto, fili e il resto erano stati dipinti di nero, e l'illuminazione proveniva da faretti colorati. Sembrava una discoteca per i morti. Il pavimento era di linoleum grigio, grandi riquadri uniti da strisce di alluminio, e la sagoma delle assi del pavimento sottostante era delineata dallo sporco che vi era penetrato; il linoleum s'interrompeva al banco del bar, cedendo il posto a piastrelle di vinile a scacchi rossi e grigi. Alcune si erano sollevate, scoprendo le assi sotto annerite. Il bancone era di formica blu rivettata e, oltre alle torri cromate della macchina per l'espresso, aveva un refrigeratore di succhi di frutta simile a una gigantesca apparecchiatura medica. Il ripiano era ricoperto di specchi con l'argentatura smangiata ai bordi, macchiati dai vecchi circoletti dei bicchieri. Nick immaginava se stesso al centro di quel luccichio sguaiato, e non era sicuro che gli piacesse, per la semplice ragione che quello pareva quasi il suo ambiente naturale. Lavorò su un paio di file di macchinette, inserendo gettoni e azionando leve, ma non era tutto quel gran divertimento che si sarebbe aspettato una volta. Scoprì che si spostava oltre senza aspettare di vedere il risultato; una delle fessure, circa tre macchine indietro, cominciò a sputare monetine, ma lui non tornò neppure a guardare. Una volta, durante un incarico di lavoro, aveva fatto parte di un gruppo di giocatori autentici, ma c'era rimasto solo quanto bastava per rendersi conto che la principale eccitazione del gioco d'azzardo non risiedeva nelle occasionali vincite, ma nella tensione costante delle perdite; e con questo aveva considerato completata la sua educazione. Il problema lì era che l'uso dei gettoni della casa faceva sparire anche quel brivido perverso. Era sportivo quasi quanto inchiodare dei conigli a un tavolo e poi sparargli. Fu un videogioco su cui campeggiava la scritta Follia in autostrada a convincerlo che ne aveva abbastanza. Le auto finivano contro i pilastri di un ponte ed esplodevano; Nick sentì sul viso la luce riflessa dallo schermo come un'onda di calore, e pensò: "Okay, chiudo." Posò sul banco il sacchetto di gettoni, sprangò quella che passava per una porta - prendendo nota dentro di sé di far presente una volta o l'altra ad Alice che un po' di sicurezza in più non sarebbe stata una cattiva idea per una donna che viveva sola - e poi, dopo aver spento le luci della festa, salì al piano di sopra. Trovò il divano-letto aperto nel salotto e Alice di nuovo in cucina, questa volta intenta a frugare in un grosso congelatore Electrolux che sembrava la parte posteriore di una roulotte. Lei alzò la testa per guardarlo e disse:
«Speso tutto?» «Per quanto mi è riuscito» rispose Nick. «Che stai facendo?» «Cerco qualcosa da mangiare.» «Pensavo che saremmo usciti.» «Sei vissuto in città per troppo tempo. Quaggiù siamo fuori orario, ormai... non c'è nessun locale aperto.» Lui si appoggiò allo stipite. «Sono un problema, non è vero?» «Ma non sgradito.» Qualcosa si staccò dalla massa di ghiaccio nel freezer; in quel momento Nick si accorse che lei stava scavando con un coltello da tavola, ed era riuscita a liberare un sacchetto di surgelati. «Guarda che cosa ho trovato» esclamò lei, tirandolo fuori e ripulendo l'etichetta. «Frutti di mare!» «Frutti di...» mormorò Nick con voce spenta. «I miei preferiti.» Verso le due del mattino, Alice uscì per vedere come mai lui stava facendo tanto chiasso nel bagno. Nick aveva tentato di non fare rumore, ma aveva scoperto che un ferreo controllo non era esattamente facile nel bel mezzo di un conato di vomito. Quando era uscito, sentendosi svuotato e debole ma notevolmente più rilassato, lei lo stava aspettando con aria preoccupata. Portava un pigiama di cotone, e lui indossava una vecchia vestaglia dello zio che lo faceva sembrare un maestro di banda divorato dalle tarme. Alice lo sostenne mentre tornava verso il divano-letto, e lui le strinse il braccio con una certa gratitudine per l'aiuto. «Che cosa c'è?» gli chiese lei. «Sei malato?» «No» rispose Nick «solo troppo educato. Avrei dovuto dirti che per me i frutti di mare non sono l'ideale.» «Che cos'è, una specie di allergia?» «Una specie.» Si sedette di peso, e Alice sedette accanto a lui. «Risale a quando ero un bambino e trovai un cadavere sulla spiaggia.» «Non capisco.» «Era un pescatore. Era stato dato per disperso da un peschereccio ed era rimasto in acqua giorni e giorni. Io ero in giro da solo e lo trovai a faccia in giù nella risacca. Sembrava che stesse tentando di raggiungere la riva a nuoto, ma era soltanto la marea. Solo quando ti avvicinavi vedevi che era stato divorato in gran parte... sembrava vivo, ma era soltanto una massa di gamberetti che si nutrivano della carne rimasta.» C'era solo una luce accesa nel salotto, una lampada da tavolo schermata
che scaldava la zona intorno a loro, lasciando in ombra tutto il resto; e come ogni raggio di luce nella notte, pareva emanare un senso di sicurezza. Alice disse: «Mi sembra di ricordarmela, questa storia. Eri proprio tu? Dev'essere stato terribile.» «Se vuoi sapere la verità, fu la cosa migliore che mi sia mai successa.» «Come fai a dire una cosa del genere?» «Tutt'a un tratto ero qualcuno. Avevo la foto sul giornale, e il resto. La gente si faceva in quattro per me, per evitare che restassi sconvolto per sempre da quello che avevo visto... un poliziotto mi lasciò perfino provare il suo berretto e girare sulla sua macchina. Penso che Johnny si sia quasi ammalato per l'invidia. Pattugliò le spiagge per settimane, cercando un paio di marinai annegati in modo da battermi e farsi portare anche lui su un'auto della polizia. Ma ci sono cose che accadono e basta. È impossibile provocarle.» Alice stava cominciando a ridacchiare, cercando di resistere ma senza riuscirci, e Nick sorrise senza sapere perché. Domandò: «Che cosa c'è?» «Mi sto figurando Johnny che cammina lungo la baia sperando di trovare cadaveri. È proprio lui, non c'è dubbio.» «Così io ero un ragazzino che sognava di crescere e di girare ogni giorno su un'auto della polizia, e poi sono cresciuto e l'ho fatto. Ora il padre di Johnny mi dice che anche in quello lui ha seguito il mio esempio.» «Non sono molti i ragazzi che fanno quello che hanno sempre desiderato.» «No» convenne Nick. «Ma ottenere quello che desideri non sempre va d'accordo col sogno. Io penso che dovrei proprio smettere. Ma non so che altro potrei fare.» Seguì un breve silenzio, ma non era imbarazzato. Nick ora si rendeva conto di come faceva Alice a sopportare così facilmente di vivere in un posto del genere; poteva essere trascurato e stravagante, ma aveva un'aria accogliente come certi vecchi capanni di legno. Nick non poté fare a meno di pensare allo zio scapestrato che l'aveva scelto per primo, e si chiedeva se qualcuno si era mai sentito così ben accetto nei gelidi salotti di una famiglia che non approvava le sue scelte. Disse: «Mi dispiace.» «Perché?» «Abbiamo finito per parlare di Johnny, e avevo promesso che non lo avrei fatto.» «Va bene lo stesso.»
E in quel momento, in quel luogo e a quell'ora, Nick sentì che era vero. Le domandò: «Ti ricordi davvero la storia del cadavere?» «In parte. Solo che non l'avevo collegata subito con te, ecco tutto.» «Non credo che mi notassi molto, a quei tempi.» «Non sbatterti giù. Solo, avrei preferito che parlassi maggiormente.» «Davvero?» «Davvero. E sei lo stesso anche adesso.» «Che cosa vuoi dire?» Lei si alzò e si avvicinò allo specchio, e quando tornò verso di lui teneva in mano il ritaglio della vecchia fotografia che aveva lasciato lì. Gliela mise in mano, e Nick rimase a guardarla. «Non ricordo nemmeno quando fu scattata» disse Alice. «Ma tu l'hai conservata per tutto questo tempo.» Lui sapeva che avrebbe dovuto raccontarle la verità. Invece: «Sì» disse «l'ho conservata per tutto questo tempo.» Lei sorrise. «Sei un tipo buffo, Nick. Ti senti meglio, adesso?» «Penso di sì» rispose lui. E allora Alice si rannicchiò sul divano-letto e gli appoggiò la testa contro la spalla; non era il movimento di una vamp o di una seduttrice, ma quello di una bambina fiduciosa. Là fuori, oltre il porto, il mare batteva contro la pietra fredda. «Parlami della notte in cui è morto Johnny» disse Alice. E verso le tre del mattino, quando per le strade non passava nessuno, se non gli operai dell'ultimo turno e i laureati iscritti ai corsi di specializzazione che erano andati alla sede dell'Union per una bevuta e una capatina a un party, un ragazzo di Pontypridd che si chiamava Henry tornò con passo più o meno fermo verso la grande casa vittoriana all'ombra della ferrovia. Henry non era un operaio dell'ultimo turno. Aveva ventitré anni, era snello e barbuto, vestito di blu scuro, e sarebbe arrivato alla casa verso le nove se i piani per la serata fossero andati secondo le sue previsioni. Non che l'orario avesse molta importanza, perché non avrebbe trovato nessuno; aveva promesso a Elizabeth che sarebbe passato a ritirare la posta e in generale a controllare la casa, e nient'altro. Gli amici di Elizabeth cominciavano a preoccuparsi. Si erano sèmpre preoccupati per lei, ma ora cominciavano a preoccuparsi anche di lei. Non che qualcuno dubitasse della sua versione, ma la natura stessa della storia era quasi impossibile da verificare - le telefonate e i pedinamenti per le strade e le intrusioni in casa senza che sparisse nessun oggetto di valore - e
più la faccenda si prolungava, più avevano la tentazione di chiedersi se la tensione di completare la tesi non aveva offuscato un po' le sue capacità di giudizio. All'inizio tutti erano stati ansiosi di darsi da fare per offrirle il loro appoggio. Ma andiamo, avevano la loro vita da vivere, no? E perfino l'avvocato di Elizabeth le aveva detto che se non poteva presentare una prova concreta di molestie, lui non vedeva una grande utilità nel portare avanti la causa. Quindi Henry non si sentiva esattamente in colpa per l'ora, quando si fermò davanti alla casa buia per armeggiare con la chiave di Elizabeth nella serratura poco familiare. Henry non andava a molte feste, e quella era stata una delle migliori. Peccato che nessuno avesse avvertito il padrone di casa. Ce l'aveva quasi fatta, per giunta... il che serviva a Henry più o meno quanto una "quasi grazia" a un uomo nella cella della morte, ma comunque era sempre meglio che nessun progresso. Si fermò nel corridoio per accendere la luce. Sul tappetino non c'era altro che un blocchetto di buoni acquisto e un paio di buste di un laboratorio fotografico, e lui li scostò con il piede. Elizabeth stava diventando decisamente un po' bizzarra, in quei giorni. Si era rifugiata in casa di Karen come se avesse avuto bisogno di asilo. Dopo i nascondigli segreti, Henry si domandava che cosa avrebbe escogitato. Sollevò il ricevitore del telefono a gettone, controllò che il segnale fosse forte e chiaro e lo abbassò di nuovo. Era acqua, quella che sentiva scorrere più avanti, in cucina? Andò a dare un'occhiata. Non era acqua. A quanto pareva Elizabeth aveva lasciato la radio a transistor accesa sul tavolo, e ora le batterie erano quasi scariche e la stazione era ammutolita. E inoltre, lei era uscita senza finire il suo pasto, se lo stato del tavolo voleva dire qualcosa... e a quel punto Henry si fermò. Da quando Elizabeth mangiava minestra di fagioli direttamente dalla scatola? Vide gli sportelli aperti degli armadietti della cucina, col legno nudo nei punti in cui le cerniere erano state divelte. Si avvicinò alla porta della cucina e la provò, ma era stata forzata anche quella. Così tornò rapidamente al centro della stanza e spostò la stufa a cherosene per scoprire l'asse allentata sotto la quale Elizabeth aveva nascosto una copia della tesi; aveva messo copie in tutti i posti possibili e immaginabili, e Henry aveva cominciato ad attribuire quell'abitudine alla sua crescente paranoia, ma ora pensava che forse non le mancavano tante rotelle, dopo tutto.
La tesi era ancora lì, quasi trecento fogli dattiloscritti a spazio due dentro un sacchetto di politene chiuso col nastro adesivo. Non era stata scoperta. Ora il problema era, doveva lasciarla lì o faceva meglio a portarla via? «Tanto vale che l'appoggi sul tavolo» disse una voce dalla soglia, e Henry alzò la testa con un'espressione attonita come quella di un coniglio sorpreso dal raggio dei fari di un camion. «Chi è lei?» domandò. L'uomo avanzò nella stanza, con le mani affondate nelle tasche di un soprabito che gli stava troppo grande di almeno due taglie. Aveva la barba lunga, i capelli arruffati, e benché sorridesse i suoi occhi bruciavano Henry come laser. Henry era stato a Londra solo pochi giorni dopo l'incendio nella metropolitana e, pur essendo in una parte diversa della rete, si era trovato sul binario quando era stata aspirata l'aria da un livello inferiore della linea; aveva fatto involontariamente un passo indietro perché aveva sentito come una vampata di gas eruttati dall'inferno, ma quello non era niente in confronto alla sensazione che emanava dallo sconosciuto. L'uomo accennò col capo alla tesi e disse in tono garbato: «Sono un amico della signorina che l'ha scritta. E vorrei proprio parlarne con te.» 20 Nick uscì presto per cercare un telefono pubblico, e quando rientrò Alice era già in piedi, sotto la doccia. Attraverso la porta del bagno le disse che l'autonoleggio avrebbe mandato qualcuno da un garage locale a ritirare la macchina entro un'ora. Lei rispose che andava bene. Nick aggiunse che, a meno che lei non avesse impegni, sarebbe restato lì per tutta la mattinata. Lei rispose che andava bene. Nick disse che poteva anche trovarsi qualcosa da fare da qualche parte, per non esserle d'impiccio, e lei ribatté: «Possiamo per favore continuare questa conversazione quando sarò asciutta e vestita e fuori di qui?» «D'accordo» rispose Nick. Fecero colazione con biscotti integrali e arance, perché erano gli unici articoli rimasti nella dispensa. «Quando faccio la spesa non ci sto mai con la testa» confessò Alice. Arrivò un meccanico con un carro attrezzi per portare via l'auto presa a nolo, e lasciò un biglietto da visita suggerendo di chiamare verso l'ora di pranzo; lo guardarono dalla finestra del piano di sopra mentre agganciava i cavi da traino e sollevava in aria la parte posteriore della vettura. Il carro attrezzi passò lentamente sotto di loro, con l'au-
tista che teneva d'occhio i lati del vicolo stretto mentre lo riempiva di frastuono imballando il motore. Qualcuno aveva scritto LAVAMI sul tetto impolverato della cabina. Nick si sedette a leggere qualcuna delle vecchie riviste di Alice mentre lei compilava assegni per pagare alcune bollette scadute, e poi uscirono a impostarli nella cassetta più vicina. All'altezza della passeggiata, lui si fermò vicino a un telescopio giallo a moneta installato su un piedistallo, che guardava indietro nella direzione da cui erano venuti. Non c'era bisogno del telescopio per leggere la parola CAFFÈ dipinta in lettere bianche sbiadite, alte un metro e mezzo, su un lato del tetto di Alice. Le domandò se aveva mai pensato di riaprire il locale. Lei rispose che avrebbe preferito lavare a mano la biancheria di King Kong. Con un'ora di tempo da ammazzare, passeggiarono lungo il molo dei pescatori. E quando la conversazione tornò sull'argomento Johnny Mays, fu senza forzature da parte di Nick e senza resistenze da parte di Alice. Lei disse: «Hai mai sentito quel detto, se ami qualcosa dovresti lasciarla andare? E se torna da te allora è tua, ma se non torna non lo è mai stata?» «Credo di sì.» «Be', così è stato fra me e Johnny. Sono uscita con lui per circa sei mesi, nell'inverno dopo la tua partenza. Perciò quanto potevamo avere, sedici anni?» «Più o meno.» «Da parte mia non era niente di serio. Ma quando venne l'estate e per me arrivò il momento di iniziare il solito lavoro estivo nella sala giochi, Johnny s'impuntò perché non andassi. Cominciavo già a essere irritata perché me lo trovavo sempre alle spalle a controllarmi; era come se volesse mettere da parte tutti i miei amici e gli altri miei interessi e riempire il mondo di Johnny Mays da un capo all'altro. Era soltanto insicurezza, ora me ne rendo conto. Ma a quel tempo ero d'irritazione facile.» «Che cosa hai fatto?» «Ho citato il vecchio detto. Johnny mi ha lasciata libera, e una settimana dopo gli ho scritto che non sarei tornata da lui.» «Come l'ha presa?» «Tu lo conoscevi. Secondo te, come?» «Non bene.» Lei fece un sorrisetto che non lasciava trasparire allegria, ma piuttosto il riconoscimento di una sofferenza lontana di cui portava ancora le cicatrici. «Andò su tutte le furie» disse. «Tentò di fare una scenata nella sala giochi,
ma mio zio lo buttò fuori. Da allora cominciò a gironzolare nei dintorni e ad aspettarmi fuori, e io non avevo il coraggio di uscire senza chiedere a uno dei clienti regolari di accompagnarmi. Erano tutti ben piantati e Johnny fu abbastanza saggio da non impegolarsi con loro. Peccato che non lo sia stata anch'io. Credo di essere rimasta incinta, quell'anno... non ero abbastanza esperta per esserne sicura. Se così fu, persi il bambino qualche settimana dopo. Non potevo dirlo a nessuno, né chiedere aiuto a nessuno. Credo che Johnny si sia fatto un'idea abbastanza precisa di quello che era successo. E sono quasi certa che fosse convinto che era solo una grande messinscena a suo beneficio.» «Hai mai avuto sue notizie, dopo?» Lei si appoggiò alla balaustra del molo e guardò la foresta di alberi che appartenevano agli yacht privati e alle barche a vela nella parte centrale del porto. La marea era salita e ridiscesa dalla sera precedente, e i canali di fango in basso erano stati tutti rimodellati. I dettagli erano cambiati, lo schema era lo stesso. C'era una pompa in funzione a bordo di una delle barche dalla parte opposta, ma Nick non avrebbe saputo dire quale. Alice rispose: «No, mai.» Scosse la testa, con tristezza. «Povero Johnny. Non è mai riuscito a capire perché ogni volta che metteva le mani su qualcosa, finiva sempre per rovinarla.» Si erano spinti fin dove era possibile arrivare a piedi, e a quel punto non restava altro che fare dietrofront e tornare sui loro passi. «Lei è fortunato» disse il meccanico, guidandoli attraverso l'officina grande come un granaio in direzione dell'ufficio dove tenevano le chiavi. C'erano alcune auto issate su quattro dei sei ponti idraulici, e sembrava che nessuno ci badasse. Avevano già oltrepassato l'auto a nolo, che era parcheggiata nel cortile anteriore con un biglietto macchiato d'olio infilato nel tergicristallo. L'uomo spiegò: «Era un lavoretto semplice, solo un filo staccato sulla calotta. Non riesco a capire come sia successo, a meno che non ci abbia messo le mani qualcuno.» Alice lanciò a Nick un'occhiata quasi sospettosa mentre l'uomo cercava le carte da fargli firmare. Nick la guardò con un'espressione di assoluta innocenza. Quando furono fuori, lei disse: «Be', stavo proprio pensando di chiederti se vuoi trattenerti ancora un paio di giorni.» «Limitarsi a pensarlo non serve a niente.» «Come valuteresti l'idea su una scala da uno a dieci?»
«Vuoi prendermi in giro? Circuire donne che hanno una proprietà è la cosa che so fare meglio al mondo.» «D'accordo» disse lei. «Tu va' a ritirare la tua roba. Io sistemerò la situazione del mio lavoro, e ci ritroveremo stasera.» «Potrei fare tardi.» «Perché?» «Quasi tutta la mia roba è in casa di Jennifer.» «Dio, come corri. Ho detto un paio di giorni. Tu mi piaci, Nick, ma facciamo un passo alla volta, d'accordo?» «Non preoccuparti, non ho intenzione di appendere il cappello. Ma devo proprio tornare laggiù.» «Oggi? Per quale motivò?» «Voglio dare le dimissioni. Ho deciso che preferisco saltare da solo piuttosto che aspettare di essere spinto. Andrò direttamente là in macchina, vedrò chi devo vedere e tornerò. Sarò qui stasera, è una promessa.» «Ne sei sicuro?» «Mi sento come un orso alto un metro e mezzo che sta per uscire da una gabbia alta un metro. Preferisco restare sulla baia e diventare un vagabondo da spiaggia piuttosto che fare la fine di Johnny. Ne sono più che sicuro.» Johnny, nel frattempo, stava intrattenendo Henry. Lo aveva costretto a sedersi su una sedia della cucina, e di tanto in tanto stringeva la corda per il bucato che lo teneva inchiodato lì. Henry era legato come un salame, e la sua circolazione ne soffriva. Il telefono aveva preso a squillare, ma Johnny lo aveva ignorato. Henry non poteva fare altro che guardare. Se parlava, lo sconosciuto gli ordinava di tacere. Henry non aveva la forza di protestare. Johnny era seduto al tavolo della cucina e studiava pagina dopo pagina il dattiloscritto della tesi, tenendo i fogli a un palmo dal viso e corrugando intensamente la fronte come se non fosse nemmeno in grado di riconoscere i segni come scrittura. La sua concentrazione era totale, la sua pazienza apparentemente illimitata. Si ricordava di Henry circa una volta ogni ora, e allora gli dava un bicchiere d'acqua e gli slegava le mani in modo che potesse berlo, oppure allentava la corda e poi rifaceva i nodi in qualche altro modo altrettanto stretto e non meno scomodo. E a volte Henry piagnucolava, o per il dolore o semplicemente per la paura, e Johnny alzava gli occhi dal foglio e lo fissava con uno sguardo as-
sente che faceva capire a Henry che, sì, per un po' era stato del tutto dimenticato. Henry era terrorizzato da Johnny, e si vergognava del suo terrore. Il suo tormentatore sembrava irradiare energia oscura come una dinamo. Il tempo passava, e Henry attendeva di scoprire quale sarebbe stata la sua sorte. Quando il telefono squillò per la seconda volta, verso le dieci, Johnny posò il dattiloscritto. Era all'incirca a metà e le pagine lette erano sparse su tutto il tavolo senza un ordine preciso. Chi chiamava stavolta era più insistente, ma Johnny non gli prestò più attenzione di prima; e dopo una ventina di squilli, il corridoio ritornò silenzioso. Johnny guardò Henry, poi la corda. «Avvertimi se fa male» gli disse. «Fa male» rispose Henry, così Johnny si alzò e gli si avvicinò restando alle sue spalle. Quello era il momento peggiore per Henry, perché non poteva vedere che cosa stava facendo l'altro. A scuola aveva avuto un insegnante che usava lo stesso trucco, gironzolando alle spalle e poi assestando uno scappellotto sulla testa di un bambino quando meno se lo aspettava. Sapevi che sarebbe arrivato, ma non sapevi quando. Aveva creduto di essere sfuggito a quel genere di tirannia, ma ora si trovava di fronte a qualcosa di peggio. Non poteva voltarsi, non poteva stare in piedi, aveva appena la possibilità di incassare la testa fra le spalle per attutire il colpo. Johnny allentò un paio di nodi, e stavolta li lasciò così. «Meglio?» domandò, e Henry annuì. Johnny tornò verso il tavolo e risedette. Sembrava razionale. Non c'era stato un solo attimo in cui non lo sembrasse, e quello era il lato più spaventoso della faccenda. In quel momento guardava Henry con una certa simpatia. «Mi spiace per te» disse. «Ti sei semplicemente trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Non sei nemmeno nell'elenco.» «Io non ho il telefono.» «Mi riferisco a questo elenco.» Frugò nel soprabito troppo grande in un modo che lasciava intendere che non gli era familiare, e qualche istante dopo ne estrasse un'agendina rovinata dall'acqua e così gonfia che soltanto un rasoio sarebbe riuscito a separarne le pagine. Tenendola sollevata in modo che Henry potesse vederla, proseguì: «Non che sia molto utile a nessuno, ormai, come probabilmente puoi capire. Sono costretto a lavorare per lo più a memoria...» Sorrise per un attimo. «E la memoria non è lo
strumento più affidabile che abbia mai usato.» Lasciò cadere l'agendina nera sul tavolo sopra le pagine della tesi. Henry domandò: «Chi è lei?» E lo sconosciuto rispose: «Sono Johnny Mays. Forse hai sentito parlare di me.» «Spiacente.» Johnny Mays sembrò deluso, ma la prese bene. Raccolse una pagina del dattiloscritto senza nemmeno guardarla, la tenne sollevata per farla vedere a Henry, e disse: «Sto cercando di arrivare fino in fondo, ma è faticoso. Tu hai ricevuto un'istruzione. Forse puoi aiutarmi a finire.» «In che modo?» «Dimmi soltanto se quello che ho capito è giusto.» «Non so se posso farlo» rispose nervosamente Henry, mentre Johnny Mays raccoglieva dal tavolo i fogli sparsi e cercava di rimetterli insieme alla bell'e meglio. «Ti avverto, non cercare d'imbrogliarmi, Henry» disse Johnny, e posò la pila di fogli sul tavolo in un punto dove Henry poteva raggiungerli con la sua limitata libertà di movimento. «Non sono un sociologo» disse Henry disperato. «Mi sto specializzando in archeologia.» «A me sembra abbastanza simile.» «Senta, io sono qui solo per controllare la casa e ritirare la posta. Non ci vivo nemmeno.» «Ti ha mandato lei?» Mentire non sarebbe servito, Henry se ne rendeva conto; così rispose: «Mi ha chiesto di passare, sì.» «Perché non è venuta di persona?» «Penso che lei sappia perché. Ha una paura matta.» A Johnny Mays quella parve una buona notizia, vagamente sorprendente. «Di che cosa?» domandò. «Di qualcosa del genere.» «Ma tu non hai avuto paura.» «Solo perché non le avevo mai creduto veramente.» «Che cosa ti ha detto, con esattezza?» Henry prese fiato e si lanciò, in tono nervoso. «Che dal giorno in cui ha tentato di ottenere una dichiarazione dalla polizia sull'argomento che costituiva la base del suo studio, è stata vittima di una specie di persecuzione. Ha detto che la seguivano in auto. Quando andava in bicicletta, veniva fer-
mata senza motivo. Il telefono squillava in ore strane e nessuno parlava. Una volta alcuni documenti sono scomparsi dallo studio del professore che la seguiva nelle sue ricerche.» «Sembrano i vaneggiamenti di una ragazza molto malata, non ti pare?» «Poi c'è stata un'effrazione qui dentro. Non hanno rubato niente, tranne i suoi appunti. Lei ha protestato di nuovo. Alla polizia i suoi colleghi hanno detto che l'avrebbero denunciata perché faceva perdere loro del tempo.» Johnny inarcò un sopracciglio. «I miei colleghi?» «Perché, non è così?» «Tu non hai idea di chi sono io.» «Lei è Johnny Mays» disse Henry, e se ne pentì subito. Rimase immobile, con la sensazione di avere avuto una sola possibilità di uscire senza danni da quella situazione e di averla appena gettata al vento. Ora Johnny lo guardava dritto negli occhi e sembrava impegnato in una specie di mesta riconsiderazione di Henry come un avversario prima sottovalutato. Henry rimpiangeva di non aver tenuto la bocca chiusa. Anche se ne fosse uscito tutto d'un pezzo, sapeva che niente nella vita sarebbe stato mai più lo stesso per lui. Un mondo in cui toccavi il fondo e trovavi Johnny Mays e i suoi simili... be', offriva pressappoco tante speranze per il futuro quanto una passeggiata in un giardino avvelenato. Johnny disse: «Se sei davvero tanto in gamba, dimmi una cosa. Hai mai conosciuto qualcuno che fosse tornato dal regno dei morti?» «No.» «Lo credi possibile?» «No.» Allora Johnny spinse la pila di fogli un po' più vicino a Henry e quando Henry alzò la testa e lo guardò negli occhi, vide un bagliore che non aveva mai incontrato prima di quella mattina, ma che una parte primitiva della sua mente riconobbe all'istante. Era una luce che proveniva dal fondo dell'abisso, e ardeva di una fiamma terribile. «Allora comincia a leggere, Henry» disse Johnny Mays «o avrai la possibilità di verificare di persona.» 21 Nick pagò il conto dell'albergo con la carta di credito, il che gli avrebbe creato problemi in futuro. Non aveva le idee molto chiare su quello che stava per fare - stava andando a casa per ritirare una parte della sua roba,
oppure stava ritirando la sua roba per portarla a casa? - ma non era nulla che non fosse in grado di superare. Era di passaggio da tanto tempo che ormai era diventato quasi uno stile di vita; a parte i primi due anni nei dormitori della polizia e il periodo dello sciopero dei minatori, quando era stato assegnato a un villaggio che non aveva mai sentito nominare, aveva vissuto quasi sempre in case dove sul campanello c'era il nome di qualcun altro. C'era stata Angela, che alla fine era tornata in Sudafrica per motivi familiari, e prima ancora c'era stata Rebecca, che aveva dato il benservito a Nick quando aveva saputo di Angela; soltanto negli ultimi tre anni aveva vissuto a intervalli da solo, in una casa che aveva acquistato, ed era stata quella che aveva dovuto lasciare quando le grane sul lavoro gli avevano suggerito di cambiare aria d'urgenza. Quando aveva detto ad Alice che la sua specialità era circuire donne che avevano una proprietà, era stato con la scomoda consapevolezza di non essere troppo lontano dal vero. O meglio, non proprio il vero, ma qualcosa che gli somigliava maledettamente, ogni volta che la stima di sé era in ribasso. Nick portò i bagagli attraverso la hall e fuori dell'ingresso fino al punto in cui aveva lasciato la macchina, nello stretto spiazzo anteriore dell'albergo. A volte, in passato, si era sentito più soddisfatto di sé di quanto fosse in quel momento, ma si era anche sentito molto peggio. A un certo punto, durante le ultime dodici ore con Alice, aveva avuto l'impressione di superare una svolta, e intuiva che qualcosa di simile era successo a lei. Era come se ciascuno dei due si portasse dietro la metà di un puzzle, e ora i due pezzi avevano combaciato per formare qualcosa che loro potevano finalmente seppellire e dimenticare. E se poi fosse nato qualcos'altro... be', quello poteva dirlo soltanto il tempo. Lasciò la città passando dalla parte occidentale, lungo l'area della fiera. La fiera vera e propria aveva già levato le tende per proseguire il viaggio. Sul terreno c'erano alcuni camion, ma per lo più era soltanto uno spazio vuoto intersecato da righe più scure, là dove cavi provvisori erano stati sepolti sotto mucchietti di asfalto e poi estratti di nuovo, come un sistema di vene disseccate. L'anno prossimo sarebbe accaduto di nuovo, la stessa atmosfera chiassosa dipinta con nuove pennellate di luce, e Nick si chiese se sarebbe stato ancora da quelle parti per vederla. Forse avrebbero avuto bisogno di un nuovo spettro per il Treno Fantasma, così avrebbe potuto unirsi alla compagnia e viaggiare con loro. O forse a quell'epoca avrebbe trovato qualcosa di meglio. Chi poteva
dirlo? Il viaggio fu senza problemi. Non c'era niente che non andasse nella macchina, a parte il filo che aveva allentato lui per garantirsi qualche altra ora in compagnia di Alice. Non era impaziente di affrontare Bruno, ma sapeva che avrebbe dovuto farlo; presentare le dimissioni significava far sbollire una parte dell'inevitabile calore, e con un po' di fortuna avrebbe potuto uscirne più o meno pulito. Il fango poteva schizzare, ma ricadesse pure su qualcun altro. Nick non aveva confessato niente che potesse essere usato contro di lui se non a livello disciplinare. Arrivato a casa di Jennifer, parcheggiò l'auto presa a nolo vicino a quella di lei. Sapendo che lei era in casa, non usò la chiave, ma suonò il campanello. Si sentiva già un estraneo, in piedi sul pianerottolo ad ascoltare i lievi rumori della donna che si avvicinava alla porta. Quando aprì, Jennifer rimase per un attimo sbalordita per la sorpresa di vederlo. «Nick!» esclamò. «Credevo che saresti rimasto via almeno un paio di settimane.» Jennifer non era come si era aspettato di vederla, almeno a quell'ora del giorno. Era senza trucco, pallida, con l'aria stanca, e portava la comoda tuta che a volte indossava al posto del pigiama quando dormiva da sola nelle notti d'inverno. Nick le spiegò: «Questa è solo una visita volante. Ho pensato di prendere una parte della mia roba, se per te va bene.» Ci fu una pausa imbarazzata, poi aggiunse: «Posso tornare più tardi, se c'è qualcuno in casa.» «Non c'è nessuno» ribatté Jennifer. «Entra.» Non era sembrata offesa, ma nemmeno del tutto indifferente all'insinuazione. Nick non aveva voluto dire nulla di preciso, e seguendola nell'appartamento era ancor meno incline a leggere un significato preciso nel modo in cui era vestita o nel fatto che alcune tende erano tirate nonostante fosse giorno. La casa sembrava insolitamente in disordine, e lui avvertì nell'aria un lieve odore di disinfettante. Nel salotto c'era la televisione accesa con l'audio al minimo, quasi solo per tenere compagnia. Nick domandò: «Va tutto bene?» «Se puoi definire "tutto bene" dodici ore passate a vomitare a vuoto, allora non sono mai stata meglio.» «Frutti di mare?» «Scena del delitto.» «Il primo giorno di prova? Un bell'inizio.»
Lei prese un bicchiere pieno a metà di qualcosa che sembrava acqua sporca, ma probabilmente era Alka Seltzer svaporato, ne bevve un sorso e fece una smorfia. «Avrei preferito qualunque altra cosa» disse. «Anche un'autopsia?» «Sì, questo è stato peggio. Non chiedermi che cosa le hanno fatto, altrimenti ricomincio.» «Qualche ripensamento?» domandò Nick, e vide Jennifer fare un autentico sforzo per mantenere il controllo. «Nessun ripensamento» rispose. «Buon per te. Lo dico sul serio.» «Grazie.» Riuscì quasi a sorridere. «Pensavo che fossi ancora in collera con me.» «Non lo sono mai stato. Le valigie sono ancora nello stesso posto?» «Non ho toccato niente.» Lui tornò nell'ingresso e aprì la porta dell'armadio a muro, dove le sue due valigie erano disposte nello spazio sotto il serbatoio dell'acqua calda. Le aveva comprate a buon mercato in un'asta di oggetti smarriti e sembravano due ricordi gemelli dell'epoca dei treni a vapore e dei telegrammi, ma avevano servito bene Nick in passato e probabilmente gli sarebbero sopravvissute. Mentre le portava fuori, domandò: «Hai avuto altri fastidi con lo scaldabagno?» «No» rispose Jennifer. «Hai fatto un buon lavoro.» E aggiunse: «Ci sei mancato.» «Ci?» «Allo scaldabagno e a me.» Lei sorrise, con un po' di nervosismo, come se non fosse del tutto sicura del terreno sul quale si trovava; fu una rivelazione per Nick, che non ricordava di averla mai vista così incerta per nessun motivo, prima di allora. «Ma per quanto riguarda gli altri» suggerì «sono ancora il benvenuto quanto una manciata di granchi in una muta subacquea.» Allora lei abbassò gli occhi. «Più o meno.» «Sono tornato solo per prendere accordi per lasciare il lavoro per sempre» disse lui con una punta di scusa nel tono. «Mi pare che finora te la stai cavando piuttosto bene, Jenny. Non rovinare le tue possibilità proprio adesso.» Sempre a occhi bassi, lei sorrise con tristezza. «Mi sono bruciata i ponti alle spalle, vero?» E poiché era una domanda per la quale non aveva una risposta pronta,
Nick lasciò le valigie vicino alla porta e le passò accanto per entrare in cucina. Jennifer lo seguì, ma lentamente. Nick disse: «Voglio lasciarti un recapito sul tabellone. Non so per quanto tempo sarà valido.» Lei attese sulla soglia mentre lo scriveva sul blocco, poi lesse sopra la sua spalla mentre lui appuntava il foglio in uno spazio libero sul sughero, fra la nota del lattaio e i cartellini scaduti dei libri presi a prestito in biblioteca da Jennifer. Gli domandò: «Che razza di posto è?» «Un posto che appartiene a una vecchia conoscenza.» «Uomo o donna?» «Ha importanza?» Lei afferrò subito il tono evasivo, e sembrò un po' contrariata. «Be', non hai perso tempo» commentò, ma Nick notò che non pareva proprio in gramaglie per la notizia. «Non è come sembra» disse, e poi: «Ora devo andare. Abbi cura di te.» Aveva già aperto la porta e stava prendendo le valigie per uscire dall'appartamento, probabilmente per l'ultima volta, quando Jennifer disse: «Va' a trovare Bruno, prima di andare in qualsiasi altro posto.» «Che cosa vuoi dire?» «Non volevo essere io a darti la notizia, ma forse è meglio così. Pensano che non sia morto, Nick.» Lui posò lentamente le valigie. Non c'era bisogno di chiedere a chi si riferiva, anche se riusciva a stento a credere alle sue orecchie. «Pensano che non sia morto, ma sono assolutamente sicuri che è pericoloso.» «Nessun dubbio che sia lui?» domandò Nick a Bruno, e Bruno scosse la testa. «Nessuno, a meno che non esista qualcun altro con le stesse impronte digitali. Ha trascorso alcuni giorni qui dentro, per quello che ci risulta. E fin qui le ricerche sul terreno non erano arrivate.» Si trovavano alla decrepita fattoria di Mad Jack nella brughiera, dove Bob Woolton aveva convocato l'agente locale dopo aver guardato dalla finestra e aver visto il cadavere vecchio di alcuni giorni di Mad Jack, ancora seduto con le mani contratte dalla morte sui braccioli logori della poltrona. Il corpo ormai era stato portato via, ma Nick aveva esaminato le foto Polaroid della scena. Il medico della polizia aveva pronunciato una diagnosi preliminare di infarto, e non c'erano segni di violenza sul cadavere o nella
stanza; le conclusioni sembravano indicare che una notte Mad Jack aveva tirato fuori dal lago artificiale un corpo vivo e che lo sforzo di trasportarlo a casa lo aveva ucciso. Chi esattamente avesse creduto di portare a casa, era un'altra faccenda. Avevano sentito le vecchie storie sul figlio, ed era rimasto a loro di tirare le conclusioni. Johnny s'era fermato lì per qualche giorno, come minimo, e pareva che avesse preso il vecchio macinino di Jack, privo di bollo e di assicurazione, quando se n'era andato. «Andato dove?» chiese Nick. E Bruno rispose: «Vorrei saperlo. Abbiamo qualche idea, ma niente che ci dica dov'è. Parlava mai di voler saldare vecchi conti?» «Mai? Quello teneva un libro nero, se lo ricordi.» Bruno fece una smorfia. «È proprio ciò che temevo. Pare che un mucchio di persone non saranno più al sicuro, se Johnny Mays è tornato ad abbaiare alla luna.» «Forse non è in condizioni di fare niente.» «Vallo a raccontare alla sposina di ieri nel bagno.» A quel punto stavano passeggiando in cortile e Nick si fermò, con il fiato che si condensava nell'aria gelida. «Sta scherzando» disse. «Lei pensa che sia stato Johnny?» «Sì, lo so» ribatté Bruno. «Questa è la reazione di tutti. Era un pazzo bastardo, sì, ma. Invece dopo il "ma" non c'è nient'altro. Sta saldando i vecchi conti in sospeso e se sei nel libro, avrai le tue noie. Non era certo difficile entrare nella lista nera di Johnny Mays.» Nick guardò il cortile intorno a sé con una sensazione d'impotenza, come se le risposte fossero nascoste nei muri o nelle pietre o nel vasto terreno aperto che si stendeva al di là. Bruno attese pazientemente che Nick smettesse di tormentarsi e cominciasse a riflettere. Ormai avevano visto tutto: le bestie nella rimessa, il focolare insudiciato, la camera da letto dove Johnny aveva cominciato a riprendersi. C'erano ancora cinque o sei tecnici, in casa, e quando Nick era arrivato, due agenti dell'unità video stavano trasportando fuori le apparecchiature da ripresa verso le auto e i furgoni affollati in cima al sentiero stretto. Bruno domandò: «Qualche idea luminosa?» «E la macchina?» «Nessuno ricorda la targa. Swansea non è ancora riuscita a dirci niente sulla registrazione originale, ma continuano a cercare. È stata diramato un appello con l'indicazione del modello di auto e la stradale ha fermato qualcuno, ma non ne è uscito ancora niente.»
«Ma lei ha detto che la macchina non aveva il bollo.» «L'agente del posto dice che chiudeva un occhio. Ha ammonito parecchie volte il vecchio, ma non ha fatto altro. Ora se ne pente. Quello che voglio da te, Nick, è qualche idea sul prossimo da cui potrebbe andare.» Così Nick fece un'ipotesi. Tornarono in città sull'auto presa a nolo, mentre l'autista di Bruno li seguiva. La mente di Nick era in subbuglio, lo faceva saltellare qua e là come la pallina di un flipper, anche se esteriormente restava piuttosto padrone di sé. I suoi sentimenti sfidavano ogni spiegazione facile; si sentiva esaltato, si sentiva terrorizzato... ma soprattutto si sentiva un idiota. Cristo, era perfino andato alla funzione in suffragio. Nick puntò direttamente verso la casa degli studenti vicino alla ferrovia. Bruno suonò il campanello e Nick indietreggiò e alzò gli occhi per guardare la casa. A vederla, sembrava un autentico mausoleo, e Nick poteva solo sperare che fosse rimasta vuota e non fosse ormai un mausoleo anche di fatto. Nessuno rispose al campanello e Bruno disse: «C'è un altro modo per entrare?» «Sul retro» rispose Nick, e fece strada. Pareva che nessuno prestasse molta attenzione a loro nel vicolo sul retro, tranne un gatto che li osservava dal tetto di una rimessa in un cortile adiacente. Il vicolo era attraversato da fili per il bucato senza bucato e le erbacce crescevano negli interstizi fra le lastre di pietra della strada. Il cancello del cortile cedette facilmente quando Nick lo spinse, e i due entrarono. La porta della cucina era aperta. Dopo la prima visita di Johnny, l'intelaiatura era stata segata e riparata intorno al blocchetto della serratura, ma sembrava che la riparazione fosse stata sfondata con un calcio. Entrarono in cucina e rimasero in ascolto, ma la casa era silenziosa. «Non sente un odore?» disse Nick. «Cherosene» rispose Bruno un attimo dopo. Nick si accovacciò per un attimo vicino alla stufa (che, notò, era stata spostata dal solito posto al centro della stanza), ma era fredda. «Non proviene da qui» disse, e così fecero cautamente il giro della casa. Quasi tutto il pianterreno era stato devastato. La camera da letto sul davanti, quella che aveva attirato Johnny la volta che Nick lo aveva seguito lì dentro, aveva ricevuto più attenzioni di tutto il resto; le altre erano in disordine, ma quella dava l'impressione che il contenuto fosse stato passato al tritatutto e poi sparpagliato in giro. Le bottiglie erano state fracassate e
nell'aria aleggiava un greve miscuglio di profumo e olio di sandalo, ma nemmeno quello riusciva a sopraffare l'invadente odore di cherosene che si era insinuato dietro di loro come uno spettrale maggiordomo che tentasse di tenere a bada una presenza invisibile. Bruno scavalcò un cappotto che sembrava aver avuto la peggio in una rissa con un rasoio a lama libera, scuotendo la testa con aria incredula; Nick sapeva che non erano i danni a colpirlo, ma piuttosto quello che i danni rivelavano sullo stato mentale di chi li aveva prodotti. Nick guardò verso l'alto. C'era un altro piano sopra quello, e probabilmente una mansarda abitabile ancora più su; ascoltò per qualche istante, ma non sentì nessuna asse scricchiolare. L'unico suono fu quello prodotto da Bruno quando si accovacciò per rigirare l'oggetto tutto stracciato che un tempo era statò un pacco di fogli legati a spirale. C'erano cocci di bottiglia verdi sparsi per la scala, alcuni incrostati di cera. Scricchiolarono sotto i suoi piedi quando Nick salì. Pareva che una bottiglia fosse rotolata sul pianerottolo e fosse caduta rimbalzando, fracassandosi al secondo o terzo rimbalzo. Non c'erano svolte nella scala, solo una rampa diritta che non offriva nascondigli; Nick era quasi certo che Johnny era stato lì e se n'era andato, ma restava ugualmente teso e cauto. Una cosa non poteva dimenticare, ed era l'ultima cosa che gli aveva detto; per esplicita affermazione di Johnny Mays, Nick si era guadagnato un posto nel libro insieme con tutti gli altri. L'idea lo faceva stare un po' male. Si sentiva teso, si sentiva vulnerabile. Continuò a salire la scala. Lì l'odore era più forte che mai. C'era un bidone di cherosene da una parte del pianerottolo, e un altro rovesciato era finito contro la parete; pieni sarebbero stati così pesanti da dover essere sollevati a due mani, ma quelli erano aperti e vuoti. C'erano rivoletti dappertutto, che inzuppavano la ruvida stuoia che serviva da tappeto e parevano formare una pista che portava al bagno in fondo al pianerottolo. Il bagno era alto e stretto, trascurato nei particolari ma ancora funzionale come il giorno in cui era stato costruito. Il davanzale interno della finestra era ingombro di tubetti di dentifricio, spazzolini e articoli da toeletta, la sbarra degli asciugamani era carica di teli da bagno spaiati che sembravano usati e riutilizzati e passati solo di rado in lavatrice, mentre la vasca vera e propria era occupata per intero da un giovanotto legato a una sedia. Non era soltanto legato, ma anche imbavagliato col nastro adesivo; il livello del cherosene nella vasca gli arrivava quasi al mento e lui fissava con terrore affascinato un mozzicone di candela alto poco più di un centimetro
che era stato fissato al portasapone, a pochi centimetri dal suo viso. La candela era notevolmente più alta quando era stata accesa, se la scia di cera solidificata che correva lungo la griglia del portasapone era un indizio; fra qualche minuto, o anche prima, lo stoppino sarebbe caduto nel cherosene sottostante e la vasca si sarebbe trasformata in un crogiuolo di fiamme. Così Nick s'inumidì le dita con la saliva e spense lo stoppino, e il giovanotto emise un lungo, lento gemito di sollievo dietro il bavaglio, mentre lasciava ricadere all'indietro la testa irrigidita. Il cherosene salì fino al bavaglio, inzuppandolo, e lui cominciò a tossire e ad avere conati di vomito; Nick strappò il nastro adesivo e gridò: «Bruno! Quassù!» Bruno arrivò di corsa, e insieme riuscirono a sollevare il giovanotto, con la sedia e tutto. Lo depositarono sul pianerottolo e trovarono un coltello per liberarlo, poi dovettero portarlo di peso giù per le scale perché le gambe avevano perso la sensibilità e le mani sembravano artigli contratti e inservibili. Nick gli chiese come si chiamava. «Henry» rispose il giovane. «Cristo, scommetto che farà un male d'inferno.» Henry non si sbagliava. Nick lo fece camminare per qualche minuto, per lo più sorreggendolo, mentre la circolazione si riattivava; Bruno era attaccato al telefono a gettone nell'atrio, e dovette tapparsi con un dito l'orecchio scoperto, tanto Henry gridava e si lamentava. Fra un giro e l'altro, Nick lo faceva sedere sul divano (squarciato ma ancora utilizzabile) e gli massaggiava le gambe. Il dolore aveva appena cominciato a diventare sopportabile quando Bruno ebbe finito con le telefonate, anche se Henry non poteva ancora reggersi in piedi senza aiuto. Bruno li raggiunse, ascoltando dalla soglia mentre Henry diceva: «Non gli ho detto niente, ma credo di essermela fatta addosso.» «Capita a tutti» disse Nick. «Parla per te» ribatté secco Bruno. «Non dargli retta, amico. Quello lì è venuto solo perché gli piace andare in giro sulle macchine grandi. Chi è stato?» Ancora un po' tremante, Henry spostò lo sguardo dall'uno all'altro. «Ha detto di chiamarsi Johnny Mays.» Jennifer si guardò allo specchio. Forse l'inattesa apparizione di Nick era quello che le occorreva per riscuotersi; l'ultima cosa che avrebbe voluto in quel momento era farsi vedere da lui ridotta in quello stato. Niente scuse,
ormai. Nessuno si sarebbe presentato alla sua porta a dirle che andava tutto bene, ed ecco quello che doveva fare: se voleva essere presa sul serio, doveva recuperare almeno in parte l'autocontrollo e il sangue freddo. Il problema era che non poteva fare a meno di ricordare quello che aveva visto. La vivida immagine della mortalità della vittima. "E siamo tutti così" pensò "basta toccarci, e possiamo esplodere facilmente." Gli occhi nello specchio ricambiarono il suo sguardo con fermezza, e allora capì che sarebbe riuscita ad affrontare il peggio. Sentì squillare il campanello. "Nick!" pensò, e si precipitò ad aprire. Ma non era Nick, solo uno dei tanti agenti in borghese che le mostrava il tesserino; rimettendolo in tasca, le disse: «Mi hanno mandato a cercare Nick Frazier. È qui che abita?» «No» rispose lei. «Voglio dire, non più. Si è trasferito.» «Sa dove si trova adesso?» Jennifer si accigliò. «Per quale motivo?» chiese, e l'agente abbassò gli occhi per guardare il suo vestito con un sorriso quasi di scusa. «Non giudichi dalle apparenze» disse. «Sono tre settimane che vivo sulla strada con la Squadra narcotici. Tutto questo è solo una mascherata protettiva.» Si guardò attorno sul pianerottolo vuoto, come se temesse di farsi sentire. «Se mi fa entrare per un paio di minuti, le spiegherò di che cosa si tratta.» Jennifer indietreggiò per farlo passare. «Facciamo alla svelta» disse. «Stavo preparandomi per uscire.» E, lasciandolo a chiudere la porta, tornò nel corridoio. «Non ci vorrà molto» disse l'agente, e lei sentì la sua mano afferrarle la nuca come se si preparasse a lanciare una palla da basket, appena una frazione di secondo prima di essere scaraventata contro la parete a faccia in avanti. Rimase lì, quasi impotente, mentre lui controllava in fretta tutte le stanze, poi l'uomo tornò e la rimise in piedi. Lei era stordita e involontariamente docile. Lui s'informò: «Fa male? Non dovrebbe restare il livido.» E poi, con minore sollecitudine e molto maggiore interesse: «Voglio sapere dov'è lui.» Jennifer aveva l'impressione di essere completamente intontita. «Perché?» riuscì a chiedere. «Io sono Johnny Mays. Ho molto da fare, e non so quanto tempo mi resta. Ho bisogno di sapere dov'è andato Nicky. Dov'è l'agenda degli indiriz-
zi?» «In cucina. Vicino al telefono.» «Mi faccia vedere.» La sostenne e la guidò, sorreggendola come un'infermiera che insegna a qualcuno a camminare di nuovo, e quando arrivarono in cucina scostò una sedia e la fece sedere vicino alla parete. Poi inclinò il suo viso verso la luce e la studiò per un momento: «So che cosa le occorre» disse, poi si avvicinò al lavello e aprì il rubinetto dell'acqua fredda. Jennifer si portò la mano alla testa, toccandola cautamente; aveva preso una bella botta, urtando la parete con la fronte, e sentiva che cominciava a formarsi un bernoccolo sull'angolo dell'arcata sopracciliare, sopra l'occhio destro. Era infuriata con se stessa. Come aveva potuto lasciarsi sorprendere così facilmente? Per la strada non sarebbe mai accaduto, ma quella non era la strada, era casa sua e le difese erano allentate. Era troppo occupata a pensare ai suoi problemi per ricordare che a volte il mondo esterno non rispetta le previsioni, non resta suddiviso in compartimenti stagni. In quel momento lui stava inzuppando e strizzando lo strofinaccio, piegandolo e poi ripiegandolo per formare una specie di tampone... E Jennifer era seduta proprio sotto il tabellone di sughero, dove Nick aveva lasciato il biglietto con il suo nuovo recapito. Johnny Mays si allontanò dal lavello e tornò da lei; le mise in mano il tampone umido e poi glielo appoggiò al viso, dove quel contatto fresco fu una benedizione. «Questo gli impedirà di gonfiarsi» le disse, aiutandola a tenerlo a posto. «Lei dovrebbe essere morto.» «Lo so. Lo tenga stretto per qualche minuto.» Lui si raddrizzò e rimase in piedi a guardarla. L'appunto scribacchiato in fretta da Nick doveva essere all'altezza dei suoi occhi e quasi di fronte a lui, in quel momento; non doveva fare altro che alzare la testa, e lo avrebbe avuto a pochi centimetri. Ma lui non alzò la testa. La studiò ancora per un po'. Le disse: «Lei mi ricorda una persona che conoscevo. Ma del resto molte donne me la ricordano, almeno un po'.» E poi il tono s'indurì. «Devo vedere Nick. Dov'è?» «Non lo so» rispose Jennifer. «Può dirmelo lei, oppure posso scoprirlo da solo. Questo probabilmente significa che me lo dirà lei in ogni caso. Tutto ciò che posso aggiungere è che non sarà molto divertente per nessuno dei due. Ho già fatto fiasco una
volta, oggi, non posso proprio accettarne un altro.» «Onestamente, non mi ha mai detto dove andava.» Lui ci stava pensando; Jennifer poteva quasi sentire le sue rotelline che giravano mentre soppesava l'informazione e tentava di accertare quanto valeva. Non molto, avrebbe concluso se era capace di leggerle nel pensiero come lei temeva, anche se era impossibile dirlo. Lei girò il tampone improvvisato e l'applicò dall'altra parte; qualunque cosa, pur di evitare i suoi occhi e non vedersi trapassare dal suo sguardo. «Spero che non vorrà creare difficoltà su questo punto» disse lui. «Guardi nell'agenda» protestò Jennifer. «Vedrà se mento.» Lui indugiò ancora un attimo e poi fece esattamente quello, non solo sfogliando tutte le pagine dell'agenda degli indirizzi, ma anche esaminando le annotazioni e i foglietti di appunti accumulati vicino al telefono. Le voltava di nuovo le spalle. C'era qualcosa a portata di mano che lei poteva afferrare e usare per stordirlo, prima che lui intuisse che il colpo stava arrivando? Pensava di no. Lui aveva un vantaggio di taglia e di forza - perfino il tocco delle sue mani era stato ardente, come se bruciasse energia come una fornace - e qualunque cosa Jennifer decidesse di fare, doveva essere in grado di portarla a termine. Se avesse saputo che un giorno la sua cucina sarebbe diventata zona di combattimento, l'avrebbe progettata in modo diverso. C'era da qualche parte una casseruola di ghisa, ma non la usava da secoli e non ricordava nemmeno dove l'aveva messa; e la testa le faceva ancora male, e le gambe le tremavano... Ma almeno poteva nascondere alla sua vista l'indirizzo di Nick. Si protese verso l'alto, guardando nel frattempo Johnny Mays; era ancora occupato, così lei allungò la mano senza fare rumore e afferrò l'angolo del foglietto che sporgeva dal tabellone. Poteva tossire o simulare un gemito, strappare il foglietto dalla puntina con un gesto secco e poi magari piegarlo in fretta al centro del panno umido per nasconderlo. E poi, dopo aver frustrato le mire a lungo termine di Johnny Mays, avrebbe potuto dedicare tutta la sua attenzione al problema immediato dell'autoconservazione. Si preparò a tirare. Gli lanciò un'occhiata, per vedere che cosa stava facendo. La stava guardando. «Non lo tocchi» disse piano. Jennifer lasciò ricadere la mano, quasi vergognandosi di essere stata sorpresa, e restò seduta a torcere nervosamente lo strofinaccio mentre lui torreggiava su di lei leggendo l'appunto. Ci mise un'eternità. Quando lei alzò
la testa per guardarlo, Johnny appariva svuotato e in stato di choc. «Questo non posso crederlo» disse, staccando infine il foglio dal tabellone. E poi guardò Jennifer. «È là che è andato?» domandò. «E lei è ancora là?» Jennifer gli fece schizzare in faccia lo strofinaccio. Lui non si era aspettato nessuna reazione e, pur alzando la mano per proteggersi gli occhi, non fu abbastanza veloce e lanciò un grido quando fu accecato dalla sferzata. Era in piedi, con la guardia abbassata, e lei proseguì l'attacco con un colpo a pugni uniti nello stomaco, poi quando lui si piegò in due ebbe la scelta fra la radice del naso e la nuca, ma le braccia dell'uomo le impedivano l'uppercut e così lo colpì sulla testa, ancora a due mani come in una presa di lotta, e lo abbatté come un toro al mattatoio. Lui era a terra, ma non era svenuto. Aveva posato un ginocchio sul pavimento e ululava, e da un momento all'altro Jennifer avrebbe perso il vantaggio, quando si fosse rialzato, due volte più pazzo e tre volte più pericoloso. L'unico modo garantito per fermarlo sarebbe stato dargli il colpo di grazia, proprio lì nel bel mezzo della sua cucina; ma anche se in quel momento era abbastanza fuori di sé da avere il coraggio di farlo, non era poi tanto ingenua da illudersi che bastassero i pochi colpi imparati nei corsi serali per finirlo. Che cosa le restava? Coltelli? La finestra? Il gancio della tendina? Lo prese per l'orecchio senza mollarlo, girandogli intorno; lui urlò di nuovo, sentendosi torcere l'orecchio, e quando Jennifer lo afferrò per il colletto e lo sollevò, si alzò come se fosse privo di peso, stordito dal dolore. Tenendolo piegato in due e sbilanciato, lo fece correre fuori e lungo il corridoio. Lui aveva lasciato la porta d'ingresso aperta e Jennifer gliela fece superare di slancio e, appena fu uscito barcollando, chiuse di colpo il battente e tirò il paletto. Sentì il tonfo sordo quando lui urtò contro la ringhiera sulla tromba delle scale, ma ormai aveva bloccato la serratura a scatto e stava mettendo la catena, che usava per la prima volta in quella casa. Armeggiò con dita goffe, la fece cadere due volte, alla fine riuscì a infilarla nella scanalatura. Si domandò se Johnny Mays aveva scavalcato la ringhiera ed era precipitato nella tromba delle scale, e per un attimo se lo augurò con fervore; schiantandosi al pianterreno, si sarebbe ridotto come un sacchetto di biscotti sbriciolati. Ma quando si mise in ascolto, lo sentì rialzarsi sul pianerottolo.
Dimenticando per il momento le ammaccature, Jennifer corse lungo il corridoio verso il telefono. Johnny si rimise in piedi, battendo le palpebre. Si aggrappò alla ringhiera per sostenersi e si portò una mano alla nuca, con l'impressione di essersi affacciato a una finestra appena in tempo per essere colpito proprio in quel punto da una cassaforte caduta dal piano superiore. Gli bruciavano gli occhi e la spalla gli doleva per aver battuto bruscamente in terra, quando lui era scivolato sul pavimento lucido del pianerottolo. Aveva qualcosa in mano. Se lo portò davanti agli occhi, dove poteva vederlo. Stringeva in mano un pezzo di carta sgualcito. Non avrebbe dovuto avere qualche significato? Lisciò la carta e fissò la porta dell'appartamento di Jennifer; la fissò per qualche istante, corrugando la fronte come se fosse al corrente del significato ma, chissà perché, in quel momento non riuscisse ad afferrarlo. Si concentrò intensamente. La piccola sgualdrinella lo aveva proprio conciato per le feste, eh? Poi abbassò di nuovo gli occhi sul foglietto. La puttana lo aveva conciato per le feste, eccome. Ripiegò accuratamente il foglio in quattro, se lo mise in tasca e si spolverò. Sapeva chi era. Sapeva dove stava andando. Sapeva che cosa doveva fare. Qualunque altra cosa era semplice contabilità. E, camminando con passo malfermo, si avviò verso le scale. 22 Laggiù sulla costa, Alice si chiedeva se aveva fatto qualcosa di cui si sarebbe pentita. Non ne aveva l'impressione... ma del resto non l'aveva mai. Non avrebbe dovuto prendersi in casa uno sconosciuto, e non vedeva Nick da tanto tempo che non poteva certo sostenere di conoscerlo bene; avrebbe potuto rivelarsi un uomo degno di fiducia oppure un mascalzone con la tattica convincente delle confessioni a mezzanotte, oppure ancora poteva nel peggiore di tutti i modi possibili - rivelarsi un altro Johnny Mays. Ma lei non ci credeva. La verità era che esistevano più fattori che li univano di quanti li separassero; si erano conosciuti in un periodo di relativa innocenza e ora, dopo che si erano riconosciuti in un paesaggio estraneo e meno familiare, si sen-
tivano attratti l'uno verso l'altra come esuli all'ombra della guerra. Se Nick si fosse rivelato un grosso guaio, lei avrebbe dovuto intuirlo da molto tempo. In Johnny l'aveva intuito, e se n'era liberata finché era ancora in grado di farlo; e anche se ci erano voluti quasi vent'anni perché quella storia arrivasse alla fine, aveva avuto ragione. Lei avrebbe aiutato Nick a reagire. Lui l'avrebbe aiutata a guarire, sia pure in ritardo. Se sarebbero diventati amanti o meno... be', quello in realtà non contava. A volte le amicizie potevano essere molto più importanti. Lei aveva avuto abbastanza amanti da pensare di sottoporsi a un test sull'Aids, circa otto mesi prima, ma per scrivere la lista degli amici che aveva conservato nel corso degli anni sarebbe bastato il retro di un biglietto da visita. E di quale delle due categorie sentiva maggiormente la mancanza? Prese l'autobus per andare in città. Era quello della linea locale, e fece il giro di tutti i villaggi periferici per quasi un'ora prima di scaricarla sul marciapiede di fronte all'ufficio. Attese un varco nel traffico e attraversò. Sandra si stava occupando di alcuni clienti al banco. Il vice ammirava i diversi colori in una scatola di puntine con la capocchia di plastica che aveva sulla scrivania, e scuoteva la scatola per mescolarle. Alice attraversò la stanza ed entrò nell'ufficio di Hathaway senza nemmeno bussare. Lui era al telefono, e alzò la testa con un'espressione sorpresa quando lei comparve e si chiuse la porta alle spalle. «Alle quattro e mezzo, allora» disse a chiunque fosse all'altro capo della linea, e Alice notò che il suo arrivo inatteso lo aveva turbato; il sorriso di Hathaway non nascondeva l'imbarazzo quando le indicò una sedia e poi concluse in fretta la telefonata. «Un cliente?» chiese Alice quando lui attaccò. «Il preside di Katie» spiegò Hathaway. «Ci sono tanti problemi da considerare, che non ci crederesti.» «Ci crederei» ribatté Alice. «So che hai già abbastanza fastidi, quindi farò un discorsetto breve e semplice. Intendo restare.» «Oh.» «È tanto sorprendente? Non è la prima volta che succede.» «Lo so. Soltanto... Pensavo che fossimo d'accordo che doveva essere definitivo, stavolta.» «Fra te e me è definitivo. È il lavoro che voglio tenermi, Max. Non sono tanto richiesta sul mercato da potermi permettere di cercare un altro lavoro.» «Parli sul serio?»
«Accidenti se parlo sul serio. Se avermi attorno ti crea ancora problemi, mi dispiace, ma non intendo scomparire. Hai giocato abbastanza secondo le tue regole, Max. Ora ci sono da pagare alcune penali. Considera la cosa dal mio punto di vista, ho perso tempo con te senza concludere niente. Questo significa che ho diritto a una certa considerazione.» «Come per esempio?» «Come per esempio un modesto aumento di stipendio e due settimane di ferie, a partire da oggi. E dov'è la mia macchina? Non l'ho vista fuori.» Hathaway stava diventando pallido. «L'ho data a Ruby.» «Allora meglio comunicarle la brutta notizia stasera. A meno che tu non preferisca che passi a dirglielo io.» «Non c'è nessun bisogno di questo atteggiamento, Alice. Davvero nessun bisogno.» Alice si alzò. «Tu puoi lasciarmi, Max, ma non credere di potermi calpestare. Questo non è niente in confronto a quello che Ruby ti estorcerebbe nelle stesse circostanze. Sei stato tu a volere che finisse, quindi non sto facendo altro che comunicarti il prezzo dell'accomodamento. Considerati fortunato che in questo momento qualcosa di bello sta cominciando nella mia vita, altrimenti mi sentirei propensa a passarti al torchio.» E con quell'affermazione lasciò l'ufficio. Uscendo in strada, lanciò un'occhiata alle sue spalle attraverso il vetro; la porta era rimasta aperta e lei poteva vederlo, ancora seduto alla scrivania. Sembrava in preda a un leggero malessere, e non si era mosso. Che cosa si era aspettato, che lei chiudesse in un cassetto la biancheria francese e si ritirasse in un convento su un'isola? Oppure si era fatto l'idea che avrebbe semplicemente afferrato al volo un altro uomo sposato, come un taxi di passaggio, e sarebbe opportunamente scomparsa dalla sua vita per sempre? Forse una volta avrebbe cercato proprio quello. Ma ora non più. Hathaway non doveva lamentarsi. Per una lezione di vita, stava pagando un prezzo decisamente modico. A volte Bruno si chiedeva se il modo migliore di trattare gli spettatori sulla scena di un incidente non fosse quello di innaffiarli con un idrante finché non afferravano il concetto e se ne andavano. Quanto tempo ci sarebbe voluto perché lo afferrassero non avrebbe saputo dirlo, però. Era convinto di avere a che fare, in quel caso, con una categoria particolare di minorati mentali, una specie facilmente identificabile quando la si vedeva
aggirarsi a bocca aperta e occhi sgranati intorno alla telecamera sullo sfondo di un notiziario sportivo della TV. E comparivano dovunque: la stradale aveva continui problemi con persone che avevano saputo di un incidente dal giornale radio locale ed erano saltati in macchina per andare a dare un'occhiata. Una cinquantina di quelle persone si era materializzata per la strada davanti alla grande casa antica, e dopo aver bloccato la strada all'ambulanza, aveva sbarrato il passo anche alla squadra di vigili del fuoco chiamata per rendere sicuro il bagno e per controllare il sistema di drenaggio delle fognature. Se nei tubi si era riversato troppo cherosene, un incendio sotterraneo poteva diventare una possibilità concreta. «Falli arretrare fino in fondo alla strada» disse a uno dei sergenti, mentre la folla di spettatori allungava il collo per sbirciare Henry che veniva aiutato a salire in ambulanza «e metti qualcuno laggiù per controllare che ci restino.» «Userò un paio di allievi dell'accademia.» «Usa una frusta e una sedia, se necessario, ma digli che lo spettacolo è finito.» Dopo di che, Bruno tornò verso la casa. Nick Frazier era stato con lui fino a un paio di minuti prima, quando era arrivato qualcuno con il messaggio urgente di chiamare Jennifer; e ora Bruno, mentre saliva i gradini verso la porta principale spalancata, vide Nick al telefono a gettone del corridoio. Più all'interno si muovevano altri agenti. Nick gli fece un cenno. Quando Bruno gli fu vicino, Nick girò il ricevitore in modo che potesse ascoltare anche lui. «Jennifer» gli disse in un sussurro quasi impercettibile, e Jennifer stava dicendo: «È stato qui, Nick. È tornato ed è peggio di quanto mi avevi detto.» Nick domandò: «Ha... ha fatto qualcosa?» «Non gliene ho dato la possibilità. Devi stare in guardia da lui, Nick. Cerca te, adesso, e sa dove stai.» «Come?» «Ha guardato sul tabellone, come credi che abbia fatto? E mi è sembrato che riconoscesse l'indirizzo.» «Cristo» ansimò Nick, e Bruno si rese conto che doveva essere qualcosa di molto importante, ancor più di quanto poteva supporre. «Non pensarci nemmeno di tornare laggiù» lo stava ammonendo Jennifer, e Nick si portò una mano alla testa come per aiutarsi a schiarirsi le idee.
Disse: «Sono contento che tu stia bene, Jen. Devo andare. Ora Bruno è qui, e voglio che tu gli dia tutti i particolari.» Senza aspettare la risposta di Jennifer, Nick tese il ricevitore, ed era già fuori della porta prima che Bruno potesse bloccarlo. Bruno lo chiamò, ma Nick non rallentò nemmeno l'andatura mentre correva lungo il breve vialetto fino alla strada; così Bruno si rivolse al telefono e disse a Jennifer: «Dove si trova esattamente, lei?» «Sono in casa. Che cosa è successo a Nick?» Lo sportello di un'auto sbatté in un punto oltre il cordone di furgoni della polizia, e un motore ruggì per un paio di secondi prima di partire di scatto. Da lì, Bruno non poteva nemmeno vedere in quale direzione. «È già sulla strada e brucia le gomme. Mi dica dov'è diretto e lo farò precedere da qualche agente del posto.» E Jennifer rispose: «Ma è quello che stavo cercando di dirgli! Johnny Mays si è portato via il foglio, e non riesco a ricordare che cosa c'era scritto.» Sapeva che lo avrebbero cercato. Potevano addirittura sapere dov'era diretto, ed era per quella ragione che aveva evitato l'itinerario più ovvio e imboccato una delle vecchie strade di collegamento, quelle strade che d'inverno diventavano nastri serpentini di oscurità e che la nebbia e i venti gelidi rendevano spesso impercorribili. La vecchia Morris si arrampicava a fatica, col motore che sferragliava come un barattolo pieno di cianfrusaglie, e in un paio di tratti più ripidi Johnny cominciò a domandarsi se quel cuore meccanico avrebbe ceduto come aveva fatto quello del proprietario; nelle marce inferiori sembrava sul punto di cadere a pezzi, ma poi nel tratto pianeggiante in cima tutto tornò a posto e Johnny cominciò a credere che esisteva una possibilità di arrivare fino in fondo. La strada scendeva attraverso un terreno ricoperto di foreste, snodandosi come una pista delle montagne russe e lasciando intravedere ogni tanto scorci di pianure oltre i fitti boschi di pini, e quella vecchia caffettiera sembrava filare così liscia che Johnny avrebbe giurato di non sentire quasi la nota del motore al di sopra dei rumori della strada. E in effetti non poteva sentirla, come scoprì quando tentò di accelerare in uno dei tratti meno tortuosi: non ci fu nessuna variazione di potenza. Un'occhiata al cruscotto glielo confermò; a un certo punto negli ultimi tre chilometri l'indicatore del carburante si era fermato sullo zero, e da allora lui era andato a ruota libera.
Per ora la strada continuava a scendere, e quindi Johnny mise semplicemente la leva del cambio in folle e proseguì. Era quasi del tutto al verde, gli restavano solo gli spiccioli che aveva in tasca quando era volato giù dalla diga, più una manciata di monete che aveva trovato in un barattolo nella casa di Mad Jack. Ma quello non lo preoccupava troppo; aveva progettato di abbandonare la Morris appena possibile, e aveva cercato un'occasione fin da quando aveva lasciato la periferia della città. Se n'era presentata una sola, sotto forma di un automobilista solitario che stava cambiando una ruota ai bordi della strada circa trenta chilometri più indietro; Johnny aveva rallentato per prendere le misure all'uomo, ma aveva accelerato di nuovo dopo aver guardato meglio la macchina. Una Skoda? "C'è un limite a tutto" aveva pensato, e aveva tirato diritto. Non sapeva per quanto tempo ancora avrebbe potuto viaggiare così; bastava un bel dosso sulla strada, e avrebbe dovuto proseguire a piedi. Se ce l'avesse fatta ad arrivare fino in pianura, si sarebbe trovato in una zona di case lussuose e isolate, con box a due posti e una buona probabilità di prendere qualcosa più agile e veloce che lo portasse fino alla costa in un tempo ragionevole. Oppure poteva camminare lungo la strada e fare l'autostop, ma dubitava che gli avrebbero dato un passaggio. Si era visto allo specchio, faccia a faccia con il demonio, e sapeva di avere l'aria di un pericoloso vagabondo in cerca di un posto da saccheggiare. La strada scendeva per ottocento metri circa lungo un fiume impetuoso, poi descriveva una curva per attraversarlo su un ponte di pietra a schiena d'asino. Johnny non frenò, prese la curva larga e superò il ponte con tanto slancio che le quattro ruote si staccarono da terra per un momento che sembrò eterno, anche se probabilmente durò poco più di un secondo. Fu un puro colpo di fortuna che non arrivasse nessuno in direzione opposta quando la Morris atterrò, con tutti i bulloni e le rivettature che minacciavano di schizzare via; l'auto fu sul punto di esplodere come la vettura dei clown al circo, ma, chissà come, rimase tutta d'un pezzo e continuò a procedere. Ma più lentamente, ormai. La strada correva quasi in piano, e la Morris stava per rimanere a corto di abbrivio. Johnny si rese conto che tratteneva il fiato da quando aveva superato il ponte, e lo lasciò uscire dai polmoni. Per un momento, laggiù, quando era arrivato al dosso e l'auto si era staccata da terra, lui aveva guardato avanti e non aveva visto altro che buio: era metà pomeriggio, di una giornata luminosa, ma lui vedeva un lungo tunnel
di fari che splendevano nel vuoto. Poi aveva battuto le palpebre e tutto era tornato alla normalità; non gli era rimasto altro che una persistente incertezza, simile a un sogno dimenticato per metà. La Morris procedette in folle ancora per un po', quanto bastava per scendere dai pendii più bassi ricoperti di foreste fino al territorio più rigoglioso in pianura, ma la faccenda stava diventando ridicola; a piedi sarebbe andato più in fretta, così Johnny accostò al bordo della strada e lasciò che la macchina si fermasse definitivamente. Scese e si allontanò senza neanche voltarsi, senza neanche curarsi di chiudere la portiera; la Morris era già bella e dimenticata, quando s'incamminò per la strada di campagna poco frequentata e scrutò l'orizzonte in cerca di case. Ancora niente. Proseguì. Quello era per lo più terreno da pascolo, cintato da muretti di pietra e ondulato. Nelle valli della zona c'era stata qualche attività industriale, fabbriche tessili e fonderie, ma ora quegli edifici dovevano essere quasi tutti gusci privi di vetri alle finestre e invasi dalla vegetazione. L'interesse di Johnny andava alle residenze di persone danarose che facevano i pendolari per una trentina di chilometri o poco più, fino alla grande città industriale in fondo a quella strada di campagna; gente che sognava foglie morte e fuochi di ceppi e che avrebbe abbassato la testa per la vergogna al solo pensiero di farsi vedere su un mezzo di trasporto pubblico. Gente da Jaguar. Gente da Mercedes. Gente che, come minimo, doveva tenere in garage una Metro a disposizione di un vagabondo. La prima costruzione che vide fu una fattoria piuttosto distante dalla strada, con le costruzioni esterne a riquadri di mattoni di diversi colori, ombreggiate da un grande silo. La superò. Troppo aperta, troppe persone, e probabilmente anche troppi cani. La successiva sembrava migliore. Era una costruzione a un solo piano, con un vialetto e il nome sul cancello; dalla strada Johnny non riusciva a scorgere granché, ma quello che vedeva sembrava promettente, e così entrò. Quando superò un vecchio cartello VIETATO L'INGRESSO inchiodato a un albero a una decina di metri dalla ghiaia, la sensazione di avere scoperto un filone particolarmente ricco aumentò. Una Ferrari, forse? Non aveva mai nemmeno visto una Ferrari se non sulle riviste di auto. La parte principale della villa era vecchia di circa trenta o quarant'anni, ma era stata ampliata almeno due volte fino a diventare una proprietà imponente, seppure a un solo livello. L'esterno era tutto bianco, le parti in le-
gno e i tubi di scolo delle grondaie erano neri, e come decorazione c'era una carriola appoggiata al muro vicino all'ingresso. Johnny attraversò l'ampio vialetto circolare di fronte alla casa e si diresse subito al garage che era stato costruito alla sua estremità. La porta scorrevole di legno era aperta di una sessantina di centimetri, e Johnny allargò l'apertura per entrare a dare un'occhiata. Non si preoccupò di non farsi notare, né adottò un'aria furtiva; non si era mai aggirato come un delinquente prima di quel momento, e non intendeva cominciare allora. L'interno era buio, allora allungò la mano per accendere la luce; e quando i tubi fluorescenti sul soffitto si illuminarono tremolando, vide che la prima metà del garage era vuota. Ma nell'altra metà, sul pavimento di cemento nudo macchiato d'olio, c'era la macchina che lo avrebbe portato da Alice. Una Scimitar. Azzurra. Non troppo malandata, per giunta. «Che cosa crede di fare?» domandò una voce dalla porta. Johnny si voltò, imperturbabile. C'era una donna, fuori. Era praticamente tutto quello che poteva vedere di lei attraverso i piccoli riquadri di vetro smerigliato nella parte superiore della porta; la donna era pronta a chiudergliela di scatto in faccia se avesse fatto un passo verso di lei senza spiegarsi. «Sono un agente di polizia» le disse. «Ho suonato il campanello per cinque minuti, ma lei non ha risposto.» Funzionò, come aveva previsto. La donna non si rilassò in maniera evidente, ma lui sentì che una parte della sua apprensione si dissolveva. «Questa mattina funzionava» disse, un po' perplessa. Non accennò a entrare. «Che cos'era esattamente che voleva?» «C'è un'auto abbandonata proprio sul viottolo, stiamo cercando l'uomo che la guidava. Ha visto qualcuno?» «Proprio nessuno.» «Nessuno sconosciuto? È importante.» «È una zona tranquilla, gli sconosciuti stanno alla larga.» Attraverso il vetro Johnny vide la sua immagine confusa voltarsi e guardarsi nervosamente alle spalle, come se intuisse che il mondo era diventato improvvisamente più ostile. «Quest'uomo... è pericoloso?» «Può anche darsi.» Lei allora entrò nel garage, superando in fretta la porta e mostrandosi alla luce. Aveva più o meno l'età di Johnny. Non si era lasciata andare, come certe donne che leggevano tutti gli articoli a proposito di diete e programmi di esercizio fisico e poi non facevano mai un accidenti. Non era nem-
meno brutta, se ti piaceva il tipo. Pericoloso? «Sì» riprese Johnny. «È pericoloso.» E si avvicinò a lei. «Suo marito è in casa?» domandò, e lei scosse la testa. «No» rispose. «È in città.» «È una fortuna che sia passato io, allora.» E dicendo quelle parole Johnny le girò intorno, e chiuse la porta. Cominciava a scendere il buio quando Alice arrivò a casa; era carica di sacchetti e giurava a se stessa che, qualunque cosa accadesse in futuro, avrebbe preferito spararsi piuttosto che rinunciare di nuovo alla macchina in un attacco passeggero di irritazione. La roba che aveva comprato pesava quanto sacchi di carbone da mezzo quintale, ma almeno avrebbero avuto in casa qualcosa di commestibile che non finisse nel gabinetto alle due di notte. Non si era mai preoccupata di tenere la cucina ben fornita; e nemmeno di fare granché in casa, per la verità. Pranzava a mezzogiorno in un bar vicino all'ufficio, di sera mangiava pochissimo e riordinava solo quando le andava... e il più delle volte preferiva rimandare. Dei suoi ragazzi di una volta, soltanto Richard se ne era lamentato; ma Richard era un cocco di mamma la cui idea di divertimento era stata rimanere seduti tutti e due a guardar mangiare il suo cane. Aprì il lucchetto della porta sulla strada e spinse il battente. Le macchinette mangiasoldi se ne stavano acquattate nell'ombra come una banda di teppisti in agguato. Da quanto tempo Nick se n'era andato, ormai? Era partito tardi, quella mattina, calcoliamo almeno un paio d'ore per il viaggio di andata e ritorno... lasciamo un margine di un'ora per le formalità alla sede della polizia, un'altra ora con quella Jennifer. Forse anche di più. Dovevano parlare dei loro problemi, no? Decisioni da prendere. Il ritardo non significava niente. Ma poi si domandò: e se non fosse più tornato? Poteva succedere. E se fosse successo, non sarebbe stato un episodio nuovo nella sua vita. Tentò di convincersi che per lei non avrebbe fatto differenza, in un modo o nell'altro, mentre appendeva il lucchetto alla maniglia interna e faceva scorrere il paletto di sicurezza. Si trovava ormai nella penombra, con appena un lieve chiarore grigio che spioveva dall'alto rivelando le linee della scala, ma conosceva il posto così bene da ritrovare la strada anche al buio, se necessario. Aveva lavorato dietro il bancone del bar per almeno sei esta-
ti senza interruzione, e quando non affettava il pane o pompava il vapore si era aggirata per i corridoi di passaggio con un sacchetto di spiccioli e un mazzo di chiavi per sbloccare le macchinette. Ma quello era il passato, e oggi era un altro giorno. Non c'era modo di tornare indietro, e non ne aveva particolarmente voglia. Alice aveva sempre pensato che i momenti felici fossero più avanti, e li aveva inseguiti come un bambino potrebbe inseguire un'onda lungo la spiaggia. Ai piedi della scala, posò i sacchetti. Nick sarebbe venuto. Lei doveva dimostrare almeno un po' di fede. Così tornò verso la porta, e tolse il paletto in modo che lui potesse entrare. Meno di un'ora dopo, mentre era rannicchiata nello stanzino della caldaia, dietro il bagno, ad armeggiare con un ago nel tentativo di sturare i beccucci del gas, sentì una macchina fermarsi all'esterno. Non c'era niente di insolito, pensò, ma quando tentò di continuare il suo lavoro scoprì che la concentrazione era completamente saltata. E allora si disse: "Chi sto cercando di imbrogliare?" Si sfilò i guanti di gomma, li gettò vicino alla vasca e passò nella stanza accanto per dare un'occhiata dalla finestra sul molo. Non si accorse nemmeno che stava correndo, quando la raggiunse. Dalla passeggiata in alto arrivava appena quel tanto di illuminazione stradale che bastava. C'erano più ombre che zone illuminate, ma aveva una visuale chiara del molo aperto oltre il deposito doganale, i cucchiai di draghe e i macchinari abbandonati qua e là come vecchie attrezzature di scena per spettacoli dimenticati da tempo. L'auto sbagliata. "Non sono delusa" pensò. "Non lo sono." E si allontanò dalla finestra tornando lentamente verso il bagno. C'era ancora tempo perché Nick tornasse; il solo fatto che tardava non significava che avesse cambiato idea. Si fermò. La porta della sala giochi quasi direttamente sotto di lei si stava aprendo. Lui non aveva cambiato idea. Evidentemente aveva cambiato macchina, ed era quello il motivo del ritardo. Alice era un po' imbarazzata da quell'ansietà, e si augurò che Nick non riuscisse a leggere nei suoi pensieri quando sarebbe salito; si fermò un attimo davanti allo specchio per controllare se aveva i capelli in disordine o qualche macchia di grasso della caldaia. E il sangue le gelò nelle vene, al suono della voce che saliva verso di lei dal fondo della scala.
«Alice?» diceva. «Alice, sei lì? Sono io, Johnny. Dobbiamo parlare.» Alice si guardò incredula allo specchio. Lui stava cominciando a salire le scale. «Non aver paura, Alice» diceva. E poi: «Per tutto questo tempo mi sono chiesto dov'eri. Non avrei mai immaginato che fossi rimasta qui.» Qualcosa batteva sui gradini mentre lui saliva. Dal suono, sembrava una catena. 23 Per Nick il viaggio fu una macchia confusa, la cui lunghezza era scandita dal lento sbiadire del giorno. Johnny aveva un buon vantaggio su di lui, ma Nick aveva un'auto migliore. La possibilità che Johnny abbandonasse la Morris e scegliesse qualcosa di più veloce era una di quelle a cui Nick non voleva pensare troppo o troppo a lungo. Era buio quando finalmente giunse a destinazione; si lasciò sfuggire la rampa d'uscita e così, piuttosto che invertire la direzione, abbandonò la macchina sulla passeggiata e si diresse verso la scaletta più vicina per scendere sul molo sottostante. C'erano le luci accese alle finestre di Alice, calde come le luci di casa; il pontile deserto rimbombava sotto i suoi passi mentre correva per raggiungerle. Spinse la porta. Era aperta. Sulla soglia dovette fermarsi, e imporsi di essere cauto. «Alice?» chiamò, ma non ebbe risposta. Accostò la porta dietro di sé a si avviò verso le scale. Forse non l'aveva sentito. Forse era addormentata. Forse l'aveva sentito, ma progettava di saltare fuori per fargli una specie di sorpresa. Poteva anche non essere in casa. I gradini scricchiolarono leggermente mentre saliva, e la chiamò di nuovo. Il salotto era vuoto. Nulla sembrava cambiato dall'ultima volta che lo aveva visto, appena poche ore prima. In cucina c'erano alcuni sacchetti di carta del supermercato, con i prodotti in parte tirati fuori da qualcuno che doveva aver perso la pazienza prima di completare il lavoro. Nessuno in camera da letto, col grande letto matrimoniale ancora disfatto. Lo stesso in bagno, e nell'ampio ripostiglio polveroso sul retro, dove distributori di palline di gomma e slot-machines guaste e un juke-box smontato attendevano riparazioni che probabilmente non sarebbero arrivate mai. Passò nel corri-
doio illuminato da un lucernario che correva per tutta la lunghezza del piano superiore dell'edificio, aggirando due cavalli da giostra a grandezza naturale che erano appoggiati al muro con la vernice scrostata e i pali spezzati a una cinquantina di centimetri sopra la sella. La chiamò di nuovo per nome con lo stesso risultato di prima, e poi si domandò cosa diavolo poteva fare, adesso. Tornare in salotto ad aspettarla? Sì, c'era qualche probabilità che riuscisse a resistere. Le stesse che aveva di restare seduto ad assistere per intero a un film con Shirley Tempie. Si fermò per sfregarsi gli occhi irritati dal viaggio, quasi cercando di riscuotersi per farsi venire qualche idea utile. «Penso di averle fatto male, Nick» disse Johnny dall'ombra in cima alle scale. O si era mosso in punta di piedi, oppure Nick aveva fatto tanto rumore spostandosi da una stanza all'altra che non se n'era accorto. Nick rimase dov'era, con la mano sollevata davanti al viso, battendo un po' le palpebre. Johnny venne avanti, alla luce. Sembrava che non dormisse da una settimana almeno, ma appariva triste, calmo e razionale. Nick abbassò la mano. Chiese: «Dov'è?» «Ero in uno di quei sogni» disse Johnny, apparentemente senza sentirlo. «Uno di quelli brutti. Ti avrei ucciso, se ti avessi trovato. Sono contento che tu non ci fossi.» «Dov'è Alice, Johnny?» «Ma ormai so di essere sveglio» insistette Johnny. «E sai una cosa? Così è molto peggio.» «Johnny...» Nick lo disse con una nota di avvertimento nella voce, e Johnny Mays annuì, lentamente. «Siamo usciti» disse. «Ti farò vedere.» Si voltò e cominciò a scendere le scale. Nick lo seguì. Una volta fuori, Nick lo lasciò andare avanti lungo il pontile, restando abbastanza lontano da tenere d'occhio qualche eventuale mossa a sorpresa. Johnny parve non badarci neppure. Non era più nemmeno un uomo, ma piuttosto una sua pallida immagine; camminava con le mani ficcate nelle tasche del soprabito enorme e le spalle ingobbite come se stesse affrontando un vento freddo e tagliente. «Sono in un pasticcio, Nick» ammise mentre uscivano di fianco al deposito doganale. «Non c'è più niente di chiaro, ormai.»
«Non c'è mai stato, per te» disse Nick. «No, ti sbagli. Solo per un poco, laggiù, ho avuto tutto ben chiaro. Funzionava come una macchina. Ma poi sono venuto qui e mi è sembrato che ogni cosa andasse in pezzi.» «Sì, ho visto una parte del lavoro che hai fatto. Che cosa credevi di essere? L'angelo sterminatore?» E a quel punto Johnny lanciò un'occhiata a Nick, e riuscì a fargli un sorriso fiacco. Per un attimo fu il vecchio Johnny, che lo guardava dal guscio grigio e spento del nuovo. Disse: «Penso di aver mancato l'occasione di diventare qualcosa del genere. Non ti pare?» Costeggiarono la bassa costruzione di mattoni con l'aggiunta prefabbricata che serviva da direzione per la sede locale della Fisherman's Selling Company, aggirando i barili macchiati di catrame e le piramidi di lattine di Castrol, che rappresentavano la prima fase di un processo che avrebbe trasformato quella parte del molo lungo e stretto in un affollato deposito di rifiuti. Da lì il muro del porto correva ad angolo retto fino alla riva, e uno spazio poco più largo di un'automobile separava la balaustra sul mare da una lunga fila di baracche di legno chiuse a chiave. Ciascuna portava scritto sulla porta il nome di una nave, Lola Montez, Miranda, My Darling Clementine... quelle più avanti si perdevano nell'ombra più fitta, perché il pontile proseguiva nell'oscurità verso una luce isolata che splendeva in fondo, all'ingresso del porto. Pareva che avessero il lungomare tutto per loro. Non si vedeva anima viva. «Dove stiamo andando, Johnny?» disse Nick con un certo sospetto. «Poco più avanti.» Fece un gesto vago indicando qualcosa davanti a sé. «È qui che sono venuto con Alice. Volevo soltanto parlarle.» Nick si teneva un po' indietro, chiedendosi se la passeggiata poteva concludersi con una sorta di agguato, ma era un particolare di cui Johnny pareva non accorgersi. Proseguì: «Non è stata tutta colpa mia, sai. Voi due non avreste dovuto agire alle mie spalle in quel modo.» Nick disse: «L'hai uccisa, non è vero?» Ma Johnny non gli rispose, non direttamente. Pareva che volesse guidarlo fino in fondo al pontile. Nick provava una specie di terrore misto ad angoscia. Comunque lo interpretasse, quello che stava succedendo non era incoraggiante. Quando arrivarono all'estremità, Johnny disse: «È qui che siamo venuti. Non so com'è caduta.» Nick esitò, ancora diffidente. Johnny si appoggiava alla balaustra, gli
occhi fissi verso un punto più in basso; un attimo dopo intuì la riluttanza di Nick e indietreggiò, con le mani in alto per mostrare l'innocenza delle sue intenzioni. Nick si avvicinò alla balaustra per guardare. La marea era scesa, e si ritrovò a fissare il fango del porto. Le ombre proiettate dalla luce in alto gli davano un aspetto di ardesia scolpita, facendo apparire più netti e più duri i contorni modellati dall'acqua. Lei giaceva a faccia in giù, metà dentro e metà fuori dell'ombra del pontile. Era affondata per una trentina di centimetri, probabilmente in seguito all'impatto del salto di circa sei metri. Dava l'impressione di essere morta prima di precipitare. La catena con cui Johnny l'aveva colpita era stata gettata a fianco del corpo, e in parte era sprofondata anch'essa. Nick si voltò. Non era scioccato, e nemmeno sorpreso. Più volte, nelle ultime due ore, aveva immaginato una scena del genere. Johnny si era scostato dalla balaustra e stava quasi esattamente sotto la lanterna del porto, con la testa bassa e il viso quasi tutto in ombra. «Che tu sia maledetto, Johnny» disse Nick a voce bassa. A quelle parole Johnny alzò la testa e il suo viso fu di nuovo in luce. «Non hai diritto di parlarmi così, Nick» ribatté. «Ho perso più di te.» E poi, bruscamente, quando Nick cominciò a spostarsi dalla balaustra: «Non avvicinarti.» Nick si fermò. Johnny era pericoloso, e lui non era un idiota. In un altro momento, in un altro posto, ma non lì e allora. Disse: «Per qualche tempo, laggiù, mi è dispiaciuto che tu fossi morto. Ora vorrei che lo fossi davvero.» «I desideri sono per i bambini, Nick. Non mi hanno mai portato niente.» «E cosa vuoi adesso?» Johnny sospirò, e guardò per un attimo verso le stelle. «Ricominciare daccapo» rispose. «Di nuovo all'inizio. Tentare una seconda volta, per vedere se ce la faccio a cavarmela meglio. Puoi fare in modo che succeda?» Nessuna risposta da Nick. E di nuovo Johnny sorrise appena, con tristezza. «No» disse. «Immaginavo di no.» E poi si rialzò il colletto, affondò di nuovo le mani in tasca e, dopo aver aggirato Nick alla stessa maniera prudente in cui si potrebbe girare intorno a un cane tenuto al guinzaglio lungo, si avviò da solo per ripercorrere il pontile.
«Verrò a prenderti, Johnny» gli gridò dietro Nick prima che fosse troppo lontano per sentirlo. E Johnny si voltò, per un attimo. Sembrava stanco. «Dovrai trovarmi, prima» rispose, e si sarebbe detto che non gl'importasse troppo come sarebbe finita. Tornò a girarsi. Riprese a camminare. PARTE TERZA Il giardino avvelenato 24 La giornata cominciava presto al Red House Café. Prima dell'alba si allineavano già nel piazzale grossi camion, furgoni e TIR in viaggio dal continente; alcuni passavano regolarmente, molti altri erano appena sbarcati dai traghetti notturni e ora si apprestavano a risalire la costa. Il menu diceva Colazione a tutte le ore, ma in realtà c'era di solito una pausa di stanca dopo l'alba e poi un breve ritorno di fiamma, e qualsiasi cliente dopo le undici era un dono della provvidenza. Avevano qualche commesso viaggiatore o addirittura alcuni turisti, durante la stagione, ma per il resto del giorno il Red House sembrava un cimitero con le tovaglie a scacchi. Mickey usciva a mettere un cartello con la scritta TÈ POMERIDIANO lungo la strada, ma come esca doveva valere un po' meno di un pezzetto di terra attaccato all'amo. Ormai erano passate da poco le nove, e l'ultimo camionista aveva posato il piatto sul banco ed era ripartito. A Mickey restava solo un'autostoppista, più il tipo strano seduto nell'angolo. Il locale era quasi abbandonato quando Mickey aveva rilevato la licenza, cinque anni prima. Gli ultimi proprietari lo avevano fatto fallire del tutto, una coppia giovane che aveva tentato di adattare l'impresa a se stessa invece di adeguarsi al mercato e alle sue condizioni. Avevano lasciato andare in rovina la stazione di servizio lì accanto e avevano fatto di tutto per distruggere il Red House tranne che raderlo al suolo, e cominciavano a essere disperati quando era arrivato Mickey con un'offerta da quattro soldi. Dal canto suo Mickey era stato autista di camion per traslochi per oltre vent'anni, molti dei quali trascorsi proprio su quell'itinerario, finché il medico non gli aveva consigliato di cercarsi un'altra attività, e lui aveva un'idea
abbastanza precisa sulle possibilità del locale. Ora mandava avanti la cucina mentre Margaret regnava al banco, scambiava battute con i clienti e gridava le ordinazioni nel retro attraverso il passavivande. Margaret aveva portato il furgone al Cash and Carry appena gli affari del mattino avevano cominciato a rallentare. Aveva detto che sarebbe tornata per le undici, ma Mickey non ci contava. L'isolamento era uno dei maggiori svantaggi, laggiù, e nelle ore del giorno in cui l'attività ristagnava Margaret sembrava risentirne di più. Aveva le pastiglie, ma non voleva prenderle. Così Mickey rimaneva a cavarsela da solo. Aveva le teglie da raschiare, c'era una serie televisiva australiana che aveva intenzione di guardare sul televisore portatile mentre lavorava - le nozze di Des e Daphne - e non se la voleva perdere, e invece eccolo a sorvegliare come un cane da guardia un hippie malconcio che era arrivato su una Scimitar e da quasi un'ora si coccolava la stessa tazza orlata di blu. Non fosse stato per la macchina, Mickey lo avrebbe fatto sloggiare da molto tempo. Ma era improbabile che il proprietario di una Scimitar cominciasse a intascare le posate quando il padrone voltava le spalle (anche se Mickey ne aveva viste di tutti i colori) e non c'era esattamente una forte richiesta di tavoli, e inoltre... Inoltre... Mickey non era mai stato uomo da preoccuparsi per il rischio di uno scontro fisico, ma qualcosa in quel tipo stravagante diceva: Non toccatemi. Sembrava intenso e vuoto, tutto nello stesso tempo. Al diavolo, pensò Mickey, e decise di lasciarlo in pace. Per quello che doveva pagare, non valeva certo la pena di stare a sorvegliarlo, e Mickey poteva sempre tenerlo d'occhio dallo sportello aperto del passavivande. Ripiegando il giornale e lasciandolo cadere sotto il banco, si ritirò in cucina e accese il televisore tenendo l'audio basso. L'uomo non si mosse. Allora Mickey si affacciò dalla cucina per vedere come se la stava cavando l'autostoppista, ma non riuscì a individuarla. L'ultima volta che aveva controllato, dieci minuti prima, era dalla parte opposta del piazzale non asfaltato, vicino alla stazione di servizio. Gli era sembrata una figura solitaria, con la borsa di tela e il giaccone pesante, in attesa accanto alle pompe inservibili e alla cabina telefonica devastata dai vandali e aperta al vento. Quanti anni poteva avere... sedici? Diciassette? Ma molti camionisti sembravano riconoscerla da altre corse, e la trattavano come una figlia, con un atteggiamento che appariva di sincera sollecitudine. Forse era stata pre-
sa a bordo dall'olandese che era appena uscito. Quello era un posto schifoso per restare appiedati. Da quella parte della strada non c'era niente per almeno tre chilometri in tutt'e due le direzioni, a parte il Red House, e niente dalla parte opposta, tranne una vasta distesa d'erba che portava alle dune lontane e poi al gelido mare più in là. C'era poco da meravigliarsi che Margaret lo trovasse così difficile da sopportare, a volte. Ma almeno ciascuno di loro aveva l'altro, e di giorno c'era la TV. La porta del bar venne aperta. L'idea di Mickey che il tipo stravagante volesse andarsene si rivelò errata quando si sporse per guardare dal passavivande e vide che, no, era l'autostoppista che entrava. Chiuse la porta dietro di sé e si diresse al tavolo del tipo strano. Apparentemente l'uomo nemmeno si accorse di lei, e continuò a fissare la tazza vuota che teneva fra le mani. Lei gli si fermò davanti e con una vivacità che suonava naturale ma che, guardando l'uomo, doveva essere certamente falsa, disse: «Salve. Dov'è diretto?» L'uomo reagì lentamente. Sembrava svegliarsi da un sogno. La guardò e disse: «Prego?» «Non deve risalire la strada costiera, vero?» Lui la fissò senza rispondere, prima con incertezza e poi con qualcosa che sembrava meraviglia. La ragazza cominciò a sentirsi a disagio e disse, sorridendo insicura e arretrando di qualche passo: «D'accordo, era solo per chiedere.» «No, aspetti» disse in fretta l'uomo, facendo apparentemente uno sforzo per riscuotersi. «Voglio dire, sì. In qualsiasi posto. In qualsiasi posto lei voglia andare» e scostò la sedia dal tavolo cominciando ad alzarsi. «Cosa?» ribatté lei, guardandosi alle spalle per controllare che la via d'uscita fosse libera; evidentemente sentiva che avvicinare quello sconosciuto si era rivelato improvvisamente il più grande errore della sua vita. Mickey depose il raschietto e, raccogliendo uno strofinaccio per asciugarsi le mani, si spostò oltre la cucina a gas verso la porta di comunicazione. «Mi dica solo dove vuole andare» continuava a ripetere il tipo strano. «La porterò dovunque.» «No, lasci stare» disse la ragazza, ormai a metà strada dall'uscita e non volendo evidentemente voltargli le spalle. «Ho fatto uno sbaglio.» L'uomo la fissava, ancora con incertezza. «Sei tu, non è vero?» disse. «La prego, lasci perdere.»
Uscì in gran fretta e il tipo stravagante fece per seguirla, ma il cappotto troppo largo rimase impigliato nella sedia e lo frenò. «No, aspetti» gridò lui quasi con disperazione «l'ho scambiata per una persona che conoscevo, tutto qui. Non se ne vada così. Può succedere, no?» Ma lei era già scomparsa, e quando il tipo strano fece per seguirla, Mickey gli sbarrò la strada uscendo dal banco, con lo strofinaccio ancora stretto nelle grosse mani da camionista. Disse rigido: «Vuole ordinare qualcos'altro?» Il tipo strano si fermò. «No» rispose incerto, e dopo un attimo di esitazione cominciò a frugarsi nelle tasche. Sembrava confuso, e tentava di mascherarlo. Mickey rimase a guardare mentre l'uomo scovava i soldi per pagare il conto, quasi tutte monetine; le sparpagliò sul tavolo più vicino a gruppi di due o tre finché riuscì a metterne insieme abbastanza. «Buona giornata» gli disse Mickey impassibile, e il tipo strano finalmente uscì. Quando Mickey si spostò verso il bovindo vicino alla porta, notò che un grosso camion si era fermato dalla parte opposta della strada. La ragazza stava parlando al conducente; pareva conoscerlo e lui conosceva lei, perché si sporse per aprire la portiera e la ragazza fece il giro e salì senza esitazioni. Non era diretto dalla parte dove voleva andare lei, ma ormai quello era di secondaria importanza. Quasi tutti gli autisti avevano il divieto di prendere a bordo passeggeri ma, come tante altre regole, anche quella veniva violata spesso. Passando davanti alla cabina, la ragazza si voltò. Il tipo strano stava seduto nella sua auto costosa, e non la guardava nemmeno. Mickey scosse la testa e si allontanò dalla finestra. Certe persone erano davvero troppo strambe per lasciarle andare in giro, non parliamo poi di guidare. Si fermò per raccogliere le monetine dal tavolo prima di tornare in cucina. All'esterno, la Scimitar si stava avviando... Ma in tutta onestà, Mickey era più interessato alle vicende di Des e Daphne. Nel sogno, è il crepuscolo. Nick sa che è un sogno, e questo in un certo senso peggiora la situazione, perché sa anche cosa verrà dopo; sa che non troverà più Alice, mai più, e che probabilmente sarà condannato a rivivere il suo fallimento per sempre. Dopo aver bruciato le gomme per fermarsi in
fondo alla rampa, fa di corsa il resto della strada fino alla sala giochi. Vede le luci accese in alto; tutto sembra normale, rassicurante. Entrando, chiama Alice per nome. Non ottiene risposta. La sua sicurezza comincia a vacillare... e poi vede cinque o sei taniche allineate ai piedi della scala. Si volta... E Johnny è alle sue spalle. «Salve, Nicky-boy» dice, e poi BANG. Quando rinviene, Nick è martellato da suoni e luci; tutte le macchine dei videogiochi sono state rovesciate di fianco e allineate intorno a lui in modo da formare una sorta di cella di schermi, e sono tutte in funzione. Lui è immobilizzato, legato saldamente con un cavo elettrico a un flipper. Fuori da questa gabbia improvvisata, Johnny ha sollevato il linoleum e sta spaccando le assi del pavimento. A giudicare dal rumore, sono così marce da sbriciolarsi fra le sue mani. Poco dopo viene a controllare Nick, e lo trova cosciente. Si siede sui talloni vicino a lui, annuendo con aria cordiale. «Mi congratulo con voi due» dice «...tutto questo tempo, e non ho mai avuto sospetti. Immagino che tu sappia chi è lei, non è vero?» Nick non risponde. Johnny dice che le assi e la benzina faranno scoppiare un incendio che finalmente purificherà tutto; se resterà legno sufficiente farà una croce per Nick e ce lo inchioderà. È paurosamente razionale nel comportamento. «Vuoi vederla per dirle addio?» chiede, e sposta una delle macchinette per consentire a Nick di scorgere Alice. È stesa su un fianco, priva di sensi, con un braccio sollevato a proteggersi il viso. Johnny si avvicina e la inonda di benzina con una delle taniche, al che la donna si agita leggermente; poi lui torna indietro e fa lo stesso con Nick. «Ricordi le formiche?» gli chiede, e poi va a spostare Alice fuori della visuale di Nick. E, sì, Nick ricorda le formiche. Erano sciamate a migliaia in una zona della scarpata della ferrovia, dove i binari correvano per un tratto paralleli alla spiaggia, ed erano state una delle grandi scoperte della giovane vita di Johnny. Era tornato con fiammiferi e lattine di benzina per accendisigari per bombardare al napalm le loro città e circondare le formiche in fuga con anelli di fuoco. Alcune le aveva cremate sul posto, altre erano corse via sul terreno imbevuto che era esploso sotto di loro. Che cosa doveva essere sembrato dal punto di vista delle formiche, Nick poteva solo immaginarlo. Johnny era un dio geloso, terribilmente potente, e se ne ine-
briava. Il suo zelo era stato tale che il fuoco si era propagato alla sterpaglia e ben presto avevano dovuto ritirarsi mentre l'intera scarpata cominciava a fumare come fieno umido, e con un odore simile a quello di materassi bruciati; erano arrivati i vigili del fuoco, uno degli altri ragazzi aveva fatto la spia, e Johnny era stato portato a casa e picchiato. Ma... pentito? No, Johnny non si si era mai pentito di nulla in vita sua. Nick gonfia i muscoli, e il piano di vetro del flipper contro la schiena si spezza per la pressione e gli lascia gioco sufficiente per liberarsi. Si avventa su Johnny, che lo colpisce alla testa con un'asse. È più veloce di Nick, e più forte. Nick cade sul pavimento all'orlo dello squarcio, e le assi rimaste cedono. Precipita. E urta contro una passerella di ferro a poco più di un metro di profondità; proprio al di sotto c'è il punto in cui le rocce incontrano il mare. Alza la testa e vede un'ombra muoversi al di sopra dell'apertura, e si sposta appena in tempo per evitare una delle consolle dei videogiochi che precipita di schianto, continuando a funzionare per gran parte della caduta. Supera Nick, portando con sé un tratto della passerella, e pochi istanti dopo la sente fracassarsi nella risacca. Nick non ha altra scelta che cominciare a risalire lungo il bordo della passerella. In alto, Johnny appicca il fuoco. La salita è breve, ma è un inferno, con il bagliore del fuoco e il fumo che fuoriescono dalle fessure fra le assi; e prima di arrivare in cima Nick guarda in alto e vede che Johnny lo attende lassù con un bastoncino di legno in fiamme. «Un tocco» dice a Nick «e brucerai come una torcia...» E poi, al suono delle sirene che si avvicinano, si lancia una rapida occhiata alle spalle e getta il bastoncino ardente. Nick non riesce a tirarsi indietro in tempo. Tutto esplode intorno a lui. Nick detestava dormire in macchina. Alzarsi vestito con gli stessi abiti del giorno prima, con le giunture anchilosate e il mal di testa e senza un posto dove orinare, non gli era mai sembrato molto allettante. Mentre si svegliava a poco a poco, tentò di ricordare se aveva sognato. Non ne era certo, anche se pensava di sì. Raddrizzò lo schienale del sedile, si guardò attorno e poi controllò l'orologio. Cristo, erano le nove passate. Quando si era fermato nel terreno abbandonato dietro la centrale di polizia, verso le tre del mattino, non c'erano
più di cinque o sei auto in tutto lo spiazzo vasto all'incirca un acro, ma in quel momento erano parcheggiate paraurti contro paraurti. Doveva esserci stato molto rumore e movimento nell'ultima ora: prima gli impiegati e poi il traffico del college e infine la gente venuta a fare spese. Come aveva fatto a dormire così duro per tutto quel tempo? Gli sembrava un tradimento. C'era una multa sotto il tergicristallo. Scendendo dalla macchina, la lasciò dove si trovava. In parte rianimato dall'aria mattutina mentre girava intorno all'edificio ed entrava dall'ingresso sul cortile, completò l'opera lavandosi il viso con l'acqua fredda in uno dei bagni al secondo piano. Si asciugò con un asciugamani a rullo e si ravviò i capelli come meglio poteva senza un pettine. Guardandosi allo specchio della toilette, decise che quello era il massimo che poteva fare. Aveva l'aria di un uomo con i postumi di una brutta sbornia o di una grave malattia, ma poteva andare. Prima tappa, il deposito delle prove. L'archivio dei reperti, com'era chiamato in modo più ufficiale, si trovava sul retro dell'edificio in un'ala aggiunta qualche anno dopo la costruzione originale. Nick aveva sempre pensato che sembrava lo studio di uno scultore, anche se non avrebbe saputo dire esattamente perché; forse era per via del soffitto alto e delle finestre sbarrate a lucernario che correvano da un capo all'altro e riempivano il locale di una luce grigia e soffusa che non proiettava ombre. Il pavimento era diviso rigidamente in corridoi da scaffalature Dexion, e sui ripiani aperti si trovavano, etichettati, tutti gli oggetti smarriti e gli elementi presentati come prove. Tutto ciò che si trovava là dentro doveva essere inventariato nel registro dei reperti, e la politica era di non trattenere niente più del tempo strettamente necessario. Gli oggetti andavano e venivano in continuazione, e quello che Nick aveva in mente non sarebbe sembrato strano a nessuno. L'addetto ai reperti alzò la testa quando Nick oltrepassò la porta dell'ufficio adiacente. Non c'era nessun altro, il che gli stava benissimo. L'impiegato era un borghese, uno dei molti dipendenti civili; fino a un paio d'anni prima l'archivio dei reperti veniva gestito da un agente semplice sotto la supervisione di un sergente, ma il programma di integrazione della polizia aveva portato, tra l'altro, anche questo cambiamento. L'idea del programma era stata di liberare il personale in divisa per farlo tornare sulle strade; il lato negativo, benché nessuno degli alti gradi fosse disposto ad ammetterlo in pubblico, era stata la creazione di un invisibile sistema di caste all'interno dell'edificio.
Nick disse: «Ci serve un reperto di prova, per favore.» L'impiegato allungò la mano verso il blocco di moduli in triplice copia e domandò: «A che scopo?» «Altri esami scientifici, credo» rispose Nick, prendendo in prestito una penna a sfera dalla vaschetta di plastica sulla scrivania dell'impiegato. «Non so di preciso, oggi faccio soltanto il fattorino.» L'impiegato prese le chiavi, e percorsero insieme il corridoio fino al deposito. Nick si chiese come faceva l'impiegato a sopportare quella vita, dall'ufficio al deposito, dal deposito all'ufficio, e nel frattempo compilare pazientemente lo stesso modulo con le stesse informazioni più o meno tutte le volte. Un'ora per il pranzo, consumato alla scrivania con il telefono staccato e un libro della biblioteca da leggere. E, alla fine della giornata, tornava a casa felice? Probabilmente sì, a giudicare dal suo aspetto. Accese le luci al neon sul soffitto per vederci meglio nei passaggi fra gli scaffali, e Nick lo seguì lungo le file contrassegnate che somigliavano tanto a un deposito bagagli della stazione. Là c'era davvero di tutto, in pratica, tranne gli animali. Quelli avevano un registro a parte, e venivano affidati ai rifugi. L'impiegato si fermò finalmente vicino a una delle posizioni contrassegnate e consultò le scartoffie. Sul ripiano sotto il numero c'era un'anonima scatola di cartone, e vicino qualcosa che era stato avvolto in un foglio di politene. «"Una balestra con frecce, smontata"» lesse dalla descrizione. «E una rivoltella Webley calibro 38 senza munizioni.» «È solo la Webley che mi serve» disse Nick. Uscì nel corridoio mentre l'impiegato spegneva le luci e richiudeva a chiave la porta dietro di loro. Sarebbe dovuto restare nei paraggi fino al tardo pomeriggio, ma sapeva benissimo come far passare il tempo. L'impiegato disse: «Lei era in macchina con Johnny Mays, non è vero? Quello che è affogato?» Nick fissò l'uomo mentre ritirava le chiavi e faceva un passo indietro. "Sì" pensò "è troppo tranquillo, non sa niente." «Ero con lui, una volta» rispose. L'impiegato annuì, quasi con aria comprensiva. «Ancora non si trova il corpo?» Nick non rispose.
25 «Resta qui» disse Johnny alla sagoma coperta dall'incerata distesa nel retro della Scimitar. «Resta qui buona, perché c'è un posto che voglio proprio vedere.» E la sagoma, che era stata legata con una corda e in realtà non aveva alcuna voce in capitolo, rimase immobile come un sacco di patate. Johnny riusciva a stento a crederci. Ai suoi occhi, la vecchia ditta di trasporti Mays non era cambiata affatto. Forse una volta sola, mentre sbucava nel piazzale scoperto di fronte al grande garage a due porte, dove l'olio si raccoglieva in pozzanghere e almeno un migliaio di gomme avevano consumato l'asfalto, forse per un secondo a quel punto la sua visione s'incrinò e lui vide qualcos'altro: vide costruzioni cadenti e un vecchio torpedone sudicio posato sui blocchi che non sarebbe andato mai più in nessun posto, vide aperture nello steccato e cartelli VENDESI abbattuti dal vento che nessuno si era curato di rimettere a posto, vide cataste di lamiera ondulata e pannelli di amianto, vide vecchi pezzi di motore e sospensioni che un tempo erano stati raccolti per qualche futuro uso indefinito ma che erano ormai tanto arrugginiti da essere inservibili. Vide tutto, ma la sua mente disse no; e poi, con un piccolo supplemento di concentrazione, riuscì a respingere di nuovo il tutto sotto la superficie. E allora il piazzale riapparve esattamente com'era stato un tempo, risalendo alla superficie come un relitto ben conservato portato a galla dalla risacca. Si diresse verso la casa. La casa e la ditta avevano formato in pratica un tutto unico, ai vecchi tempi; parte del piano superiore si affacciava sul garage, e Johnny aveva perso il conto delle volte che era sceso dalla finestra della sua camera sul tetto di ardesia dell'ufficio. Da lì la via era breve, attraverso il deposito del carbone, fino al pianterreno. Sentì cocci di vetro sotto i piedi mentre camminava. Quando raggiunse la porta dell'ufficio la trovò spalancata; dentro era buio, e c'era un tanfo acre, come se un animale, o un essere umano, fosse entrato di soppiatto e avesse orinato negli angoli. Johnny proseguì. Il bancone dell'ufficio c'era ancora, ma parti di intonaco erano state staccate dalle pareti e dai fori fuoriusciva un materiale fibroso. Un calendario vecchio di cinque anni, che esibiva alcuni dei nudi più brutti che Johnny
avesse visto fuori delle pagine del Readers' Wives, era stato strappato e le pagine erano sparse sul pavimento. Giacevano in mezzo a lattine di birra vuote e ai resti decomposti di una pagnotta, e laggiù vicino alla finestra c'era una zona annerita a indicare il punto dove qualcuno aveva tentato di accendere un fuoco da campo. Era stato così anche una volta? Sembrava tutto sbagliato. Non era vero? Johnny guardò accigliato Miss Settembre, una brunetta con i capelli corti e con una cicatrice, che ostentava un'aria timida e teneva in mano una banana. Non aveva qualcosa di un po' familiare? Ma poi alzò la testa di scatto. Sentiva delle voci. Il lieve sorriso di riconoscimento si spense quando si rese conto di quello che gli stavano dicendo. Erano in collera con lui. Aveva preso qualche monetina dal cassetto degli spiccioli del registratore di cassa e lo trattavano come se avesse fatto qualcosa di realmente disonesto; esigendo una spiegazione e poi sgridandolo fino a zittirlo quando cercava di spiegare, mentre quello che aveva fatto era esattamente lo stesso che aveva visto fare a loro in tante occasioni. Loro usavano il registratore di cassa come una risorsa di libero accesso, così lui aveva fatto la stessa cosa, e adesso lo minacciavano di chiamare un poliziotto se non confessava. Confessare? Che cosa c'era da confessare? Non era riuscito a capirlo allora, e non lo capiva adesso. Ma quel giorno aveva imparato una lezione importante, che la colpa era un fatto del tutto relativo, e dipendeva non tanto da quello che avevi commesso quanto da dove risiedeva il potere. Johnny scosse la testa come per schiarirsela, e si guardò di nuovo attorno nell'ufficio. Così non andava proprio. Qualunque cosa fosse riuscito ad afferrare, gli stava sfuggendo. Uscì all'aperto. I particolari erano tanti che era impossibile tenerli tutti sotto controllo: mentre tentava di concentrarsi su uno, gli altri cominciavano a sgusciargli via. La vita somigliava un po' troppo a un treno in movimento, che passava troppo vicino e troppo in fretta per contare i finestrini. C'erano alcune piante di cardo che crescevano fra le pietre sotto i suoi piedi, e fra le erbacce scintillavano schegge di vetro; alzando la testa, si accorse che i vandali avevano rotto i riflettori angolari che un tempo avevano illuminato il cortile di notte. Così guardò di nuovo verso l'ufficio; e là, sulla parete esterna, vide la vecchia targa con la ragione sociale della ditta. Diceva:
FRANK MAYS CONTRATTI DI TRASLOCO NOLEGGIO PULLMAN PRIVATI RIPARAZIONI AUTO E VEICOLI COMMERCIALI VERNICIATURA A SPRUZZO E VERNICIATURA VEICOLI e Johnny avanzò con la mano protesa, sollevato e riconoscente perché lì c'era qualcosa di tanto solido che nemmeno gli anni avevano potuto scalfire; la targa era di ottone massiccio e lui ricordava benissimo il giorno in cui era stata montata, anche se non aveva più di tre o quattro anni. Se non riusciva a riportare in vita tutto, forse poteva accontentarsi di un pezzo... Ma le sue dita incontrarono il muro nudo, ruvido e senza pittura nel riquadro dal quale era stata staccata la vecchia targa. Tenendo le dita sul muro, Johnny strinse le palpebre. Era più facile, a occhi chiusi. Città perdute potevano risorgere dalla polvere, e i morti potevano camminare e conversare. Per qualche istante, riuscì a plasmare il mondo esattamente come lo avrebbe voluto. Finché non li riaprì. 26 Henry stava aspettando Nick sui gradini della sede della Students' Union, quando lui arrivò, e mentre entravano gli disse che aveva incontrato molta resistenza per organizzare l'incontro che Nick gli aveva chiesto con quella telefonata mattutina. «Ma lo ha fissato?» chiese Nick. «L'ho fissato» rispose Henry, e si diressero verso il banco della portineria in modo che Nick potesse farsi registrare. Era la tarda mattinata e l'edificio era affollato, ma anche tra la folla Nick si sentiva sgradevolmente in vista. La moda di quell'anno tendeva verso tagli di capelli a spazzola e tute da lavoro in tessuto jeans sotto giacche scure, e gli sembrava di farsi largo fra una massa di giovani operai belgi. L'edificio in sé era nel tipico stile moderno del politecnico, con i soffitti bassi e le rifiniture scadenti, e c'erano almeno tre impianti stereo in competizione l'uno con l'altro che diffondevano musica rock da direzioni diverse. Superarono alcune bancarelle nell'atrio, che vendevano riviste radicali,
fumetti americani e albi francesi in lingua originale, e salirono una breve scala fino al bar. Nick domandò a Henry come stava. «Fisicamente a posto, anche se non dormo bene» ammise Henry dopo un attimo di esitazione. «E se sento anche solo un alito di cherosene, è probabile che muoia sul posto.» Le porte del bar scomparivano sotto una massa di poster e avvisi, scritti per lo più con pennarelli a punta grossa. Nick s'irrigidì un po' nell'entrare; sapeva che lì sarebbe stato accolto con diffidenza, se pure lo avessero fatto entrare. Senza l'intercessione di Henry, dubitava che sarebbe mai riuscito a superare il banco all'ingresso. Lei era seduta da sola a un tavolo; i tavolini erano divisi da quelli della caffetteria in un rozzo tentativo di separazione fra caffè e bar con licenza per gli alcolici. Si chiamava Elizabeth, gli aveva detto Henry. Era sui venticinque anni, portava gli occhiali, non sembrava truccata, e quando Nick scivolò sul sedile di fronte a lei notò che aveva le unghie corte. Johnny probabilmente l'avrebbe definita una frana; Nick vedeva una ragazza nervosa dentro un involucro di donna, che probabilmente soffocava tutti i soliti segnali nella speranza di passare inosservata. Lei posò un malconcio registratore Philips a cassette sul tavolo in mezzo a loro, e lo mise in funzione. «Bisogna che sia ben chiara una cosa» cominciò. «Non ci tengo a essere coinvolta in questa faccenda, ma lo faccio per Henry. È lui l'unico motivo per cui lei ha superato il blocco.» «Gliene sono grato» disse Nick. «Non intendo dirle dove alloggio adesso. Provi soltanto a chiederlo, e questo colloquio sarà finito.» «Non ho intenzione di aumentare i suoi problemi. Spero solo che possa gettare un po' di luce sui miei.» Lei lanciò un'occhiata all'apparecchio, per controllare che la cassetta stesse girando. Qualsiasi cosa, a quanto pareva, pur di evitare il suo sguardo. Nick poteva avvertire la collera della ragazza. Intensa e a combustione lenta, aleggiava nell'aria fra loro come elettricità. Lei era spaventata ma aveva carattere, questo glielo doveva concedere. Disse: «In cambio di che cosa?» «Non so cosa potrei offrirle che sia interessante per lei.» Ribatté: «Potrebbe dirmi se Johnny Mays è un agente di polizia in servizio effettivo.»
Ora toccò a Nick guardare il registratore. «O me lo dice per la registrazione» disse lei «o me ne vado subito.» «Elizabeth...» cominciò Henry a fianco di Nick, ma Elizabeth lo zittì con un'occhiata. «Questo è il patto, Henry» gli disse, poi guardò di nuovo Nick. «Allora?» «Sì» rispose Nick. «Lo è.» Seguì un silenzio. «È tutto quello che volevo sapere» disse Elizabeth, e spense il registratore. Nick ci mise un secondo ad afferrare che si stava alzando per piantarlo in asso, ma poi, mentre lei ritirava il registratore dal tavolo, si protese e ci piazzò sopra la mano per fermarla. La reazione al suo movimento fu istantanea e del tutto inattesa; di scatto tutti quelli che erano seduti ai tavoli intorno a loro si erano alzati, e Nick si trovò circondato da una parete di corpi. Tolse la mano dal registratore ed Elizabeth raccolse tutta la sua roba. «E il patto?» disse Nick. «Presenti una protesta ufficiale» suggerì Elizabeth, e si allontanò. Henry disse: «Mi dia solo un minuto» e la rincorse. Nick rimase seduto al suo posto. Doveva esserci all'incirca una ventina di giovani intorno a lui, e lo guardavano tutti senza dire una parola; un coro muto di testimoni, e non uno solo dalla sua parte. Provò ad alzare gli occhi, ma era troppo a disagio per tentare di mettersi sulla stessa lunghezza d'onda di qualcuno di loro. Poteva solo guardare attraverso i corpi verso l'entrata del bar, dove Henry aveva raggiunto Elizabeth e le stava presentando un paio di solidi argomenti. Era evidentemente seccato dal suo comportamento, e sembrava convinto che lei lo stesse mettendo a forza nel ruolo del traditore. Qualunque cosa le avesse detto, funzionò. Lei tornò, sia pure malvolentieri. Riprese il suo posto e accese di nuovo il registratore: stavolta Henry sedette accanto a lei, così che Nick rimase solo. Nessun altro intorno a loro si mosse. «Ha cinque minuti» gli disse Elizabeth. Henry disse: «La commissione disciplinare della polizia comunale aiutava Elizabeth nelle ricerche. Tutto è cominciato quando una mattina sono entrati e hanno scoperto che qualcuno si era introdotto nell'ufficio e le registrazioni e gli appunti erano tutti in disordine. Dopo di che...» «Dopo di che» disse Elizabeth, prendendo le redini del racconto «non potevo più uscire di casa senza essere seguita. A volte erano uomini in uni-
forme a bordo di auto ufficiali, altre volte semplici sconosciuti che non si qualificavano nemmeno. Volevano sapere se ero un membro del CND e a quale partito politico ero iscritta. Se conoscevo qualcuno coinvolto nella politica irlandese. Dicevano: "Non ci prenda per il culo, perché le interessa tanto la polizia?" E quando ho cominciato a protestare mi sono sentita dare della sgualdrina, della maniaca, della piantagrane bolscevica con un grave problema di frustrazione sessuale. In due occasioni sono stata minacciata esplicitamente di stupro.» I suoi occhi lanciarono un avvertimento a Nick. «Non si azzardi a dirmi che capisce quello che provo.» Nick domandò: «Che cosa ha fatto?» «Ho presentato una protesta ufficiale. Non è servita a niente, ma tutt'a un tratto le persecuzioni sono diventate più sottili. Ricevevo telefonate anonime a tutte le ore. L'ufficio del professore che segue le mie ricerche è stato scassinato senza che venisse rubato niente. A quel punto ero abbastanza sicura che tutto si era ridotto a un solo agente, il suo Johnny Mays. Lui ha insistito anche quando gli altri avevano lasciato perdere.» «Qualche idea sul motivo?» «Fino a ora no. Diglielo, Henry.» Henry spiegò: «Nessuno di noi riusciva a capire per quale motivo questo agente dovesse insistere quando tutti gli altri si erano stancati e avevano mollato. Ma Johnny Mays mi ha praticamente detto il perché, quando mi ha fatto leggere la fotocopia della tesi di Elizabeth.» «Non riguardava nemmeno le forze di polizia, fra l'altro» disse Elizabeth. «C'entravano solo in quanto soggetto delle interviste riportate, che analizzavo per ricavarne indizi e risposte. Sa qual è il lato più assurdo di tutta la situazione? La polizia ne usciva piuttosto bene. Avevo un paio di casi di mele marce che la disciplina interna mi aveva fornito, ma non c'era altro.» Henry aggiunse: «Quando sono arrivato al primo dei due casi, Johnny Mays ha perso la bussola.» Così Nick domandò se lei poteva fornirgli alcuni dettagli, e un istante dopo Elizabeth alzò la testa e rivolse un cenno a qualcuno tra la folla. Ci fu un po' di trambusto e una rapida discussione sottovoce su chi avrebbe dovuto custodire che cosa, e poi, passando di mano in mano, arrivò fino a loro una borsa a tracolla di tela, del tipo di quelle che si riportano sempre da una vacanza in Grecia. Dalla borsa Elizabeth estrasse un raccoglitore in plastica rossa, così logoro ai bordi che agli angoli affiorava il cartone interno di rinforzo. Lei lo aprì sul tavolo e cominciò a frugare fra le pagine.
Era il tipo di carta più sottile e più economica, ricoperta fittamente di testo dattiloscritto a spazio uno. «La vuole parola per parola, oppure nella versione condensata?» gli domandò. «L'avverto, il tempo è quasi scaduto.» «La faccia rapida e semplice» rispose lui «così possiamo tornare tutti a casa presto.» Così lei cominciò a riassumere, scorrendo con gli occhi le pagine e saltando interi paragrafi. C'era molto da saltare, dato che era una trascrizione integrale di un'intervista con una prostituta la cui zona di lavoro copriva le sale giochi intorno al centro della città, e gli incontri della donna con gli agenti in borghese (o la "Squadra antidroga", come insisteva a chiamarla lei) erano stati regolari e frequenti. Da quanto poteva intuire Nick, gran parte dei fatti che lei riferiva si erano svolti due o tre anni prima; alcuni degli agenti che nominava - e dava del tu a parecchi di loro, alla maniera disinvolta del cacciatore e del cacciato, dato che tutti e due riconoscono che l'altro è essenziale alla loro esistenza - erano stati trasferiti ad altri incarichi molto tempo prima che arrivasse Nick. «Lui mi ha costretto a leggere questa roba parola per parola» disse Henry con voce mesta, mentre Elizabeth saltava due pagine per arrivare al punto topico. La storia più importante della donna non identificata non riguardava la Squadra antidroga, ma un agente in divisa che era sembrato nutrire un interesse eccessivo per lei. La fermava e le ordinava di salire in macchina come per arrestarla, ma poi la portava semplicemente in giro e la lasciava andare. Era già successo cinque o sei volte, e stava diventando un'abitudine fissa; la donna aveva cominciato a capire che l'agente non era nemmeno in servizio quando la prelevava in quel modo, e quando aveva tentato di identificarlo per chiedere agli altri se sapevano qual era il suo gioco, si era accorta che lui aveva coperto le ultime due cifre del numero di matricola sull'uniforme con pezzetti di nastro isolante. Era una vera seccatura. Gli autentici fermi della polizia erano un rischio del mestiere che lei accettava, ma tutti quegli inutili giri in macchina le stavano costando la clientela. Aveva creduto di capire quello che lui voleva, ma che era troppo timido o troppo stravagante per chiederlo francamente; così una sera lei aveva preso l'iniziativa, erano andati in un posto buio e si erano trasferiti sul divanetto posteriore. Era un buono a niente, aveva detto la donna; tutto teso e chiuso in se stesso, e più ci provava più sembrava diventare difficile. L'aveva chiamata
con un nome che lei non era riuscita ad afferrare, e poi l'aveva coperta di epiteti che non poteva certo fraintendere. Si era resa conto che lui si stava infuriando e così era scesa alla svelta; il poliziotto aveva tentato di inseguirla con la macchina e la donna aveva temuto che volesse addirittura investirla, ma poi lo aveva seminato tagliando fra due case. Dopo quella volta non l'aveva più fatta salire in macchina. A volte lei lo sorprendeva intento a guardarla, solo che non era più in uniforme e viaggiava su una macchina che probabilmente era la sua auto personale. Ogni volta che lo vedeva in giro, lei faceva in modo di non tornare a casa da sola. L'aveva terrorizzata a tal punto che aveva lasciato il giro e si era trovata a confezionare tubi di dentifricio per sopravvivere. Chiudendo il raccoglitore, Elizabeth disse: «È questo che voleva? Oppure è stato tempo perso per la polizia?» «No» rispose Nick. «Non è stato tempo perso.» «Perché è di questo che accusano me» disse Elizabeth, e si avvicinò il registratore per spegnerlo. «Grazie del riconoscimento» disse, mettendo il registratore sopra il dattiloscritto e infilando tutt'e due nella borsa a tracolla. «Farà una gran differenza.» Nick non disse niente mentre lei si alzava e scivolava fuori dalla sua parte, con Henry che si spostava per farla passare. Lei aggiunse: «Sa, mia madre e mio padre mi hanno insegnato a rispettare la polizia, e io lo facevo. Me lo chieda ora in pubblico, per la cronaca, e probabilmente avrò abbastanza buon senso da rispondere lo stesso. Ma qui dentro» e si batté sul cuore «spero che possiate bruciare tutti.» Si staccò dal tavolo. Nick rimase dov'era mentre lei se ne andava. Non disse nient'altro, e non la guardò mentre si allontanava. Henry esitò un attimo e poi la seguì. Allora uno degli altri studenti che stava in piedi proprio dietro di lui si piegò in avanti e disse a voce bassa: «La preghiamo di lasciare l'edificio, adesso.» Nick annuì e, sempre senza incontrare lo sguardo di nessuno, si alzò in piedi e uscì. Era circa mezzogiorno e mezzo quando tornò nell'edificio principale della centrale di polizia, ma stavolta invece di entrare dall'atrio scese il pendio lastricato a ciottoli e si diresse sul retro, dove c'era una rampa di scale che portava nel seminterrato. Laggiù c'era un poligono di tiro che tre volte la settimana era aperto all'ora di pranzo; non era un'installazione ufficiale, ma piuttosto un circolo privato in cui i titolari di porto d'armi potevano recarsi
per fare allenamento. Anche se era stato per qualche tempo nella graduatoria dei tiratori scelti, Nick non aveva mai posseduto effettivamente una pistola. Il circolo aveva due o tre armi da cedere in prestito, che non uscivano mai dai locali della sede, e lui aveva usato soprattutto quelle quando si era preparato all'ultimo turno delle prove trimestrali di riqualificazione cui aveva partecipato. Il poligono era in sostanza una lunga cantina senza finestre, con un posto di controllo a vetri che correva per tutta la sua lunghezza. Grandi ventilatori acquistati di seconda mano da un impianto aerospaziale risucchiavano i fumi, e il livello d'illuminazione poteva essere variato in una simulazione approssimativa della visibilità notturna o di quella diurna. C'erano quattro postazioni di tiro, tutte controllate dietro il vetro da un sergente a riposo; quando Nick arrivò, due erano già occupate. Il posto di controllo disponeva di alcune poltrone basse, una macchina per il caffè e un paio di tavoli con vecchie copie sparse di Guns and Ammo. Nick attese finché l'armiere poté distogliere l'attenzione dal poligono. Era sulla sessantina e camminava rigidamente, come se l'artrite cominciasse a pesargli, ma non sembrava gradire che gli altri si soffermassero su quel particolare. Uno della vecchia guardia, probabilmente con un passato nell'esercito, prima del servizio nella polizia. Domandò: «Nick Frazier? Non si faceva vedere da un pezzo, quaggiù.» «Mi dia una ventina di colpi e una calibro 38» disse Nick. «Vediamo quanto ci vuole a riacquistare l'occhio.» Il sergente a riposo si avvicinò a un armadietto e lo aprì, estraendo una delle armi da prestare e una scatola di proiettili. Disse: «Pensa di farsi rimettere in lista?» «Può darsi» rispose Nick. «Forse dovrei controllare prima come me la cavo.» Il sergente aprì il sistema interfonico per chiedere una pausa e Nick, dopo aver pagato per le munizioni, prese una cuffia per proteggere le orecchie e si avviò verso il poligono di tiro. I grandi ventilatori pompavano, ma l'odore lo colpì comunque quando superò la porta, un odore di composti chimici bruciati che gli ricordava sempre quello che si sente stando troppo vicini al recinto di un circuito automobilistico. Gli altri due uomini stavano ricaricando e gli lanciarono solo una rapida occhiata; li superò dirigendosi verso la postazione più lontana e aprì la Smith & Wesson che il sergente gli aveva affidato. L'impugnatura era consunta, ma l'arma in sé era ben curata ed era stata oliata di recente. C'era un grosso cartellino attaccato al
calcio. Aspettò finché non giunse il via attraverso l'interfono. Uno degli altri agenti si era portato cinque pistole diverse, e ora usava una Mauser, un autentico pezzo da collezionista che era stato progettato per trasformarsi in un rudimentale fucile con l'aggiunta di un calcio in legno e di un'estensione della canna. L'uomo più vicino passava da un'automatica 9mm a una Colt placcata in argento che conservava in una scatola di legno. Quando i tre uomini puntarono e spararono insieme, il rumore che ne risultò li investì come lo spostamento d'aria prodotto da un treno in corsa. Dieci minuti dopo, quando giunse l'ordine di deporre le armi, Nick raccolse il bersaglio di carta e rientrò nella cabina di controllo. «Bene» disse «c'è almeno una domanda che ha trovato risposta, in ogni caso» e presentò la calibro 38 con il cilindro aperto per l'ispezione. L'ex sergente controllò l'arma e poi aprì l'armadietto per riporla. Lanciando un'occhiata al bersaglio di Nick, osservò: «Ne abbiamo mandato qualcuno fuori, eh?» «Li ho mandati dovunque, tranne dove dovevano andare.» «E qui che cosa è successo, allora?» L'ex sergente indicava gli otto colpi che erano penetrati nel circolo interno a punteggio massimo. «Un caso fortuito, suppongo» rispose Nick, e appallottolò il bersaglio gettandolo nel cestino della carta straccia sotto il tavolo. «Insista» gli suggerì l'ex sergente. «Colpi di fortuna come questo non capitano a tutti. Lei potrebbe ritornare in forma come chiunque altro.» Ma a quelle parole Nick si limitò a sorridere. «È il momento di cedere il passo» replicò, e uscì. Il poligono di tiro chiudeva circa mezz'ora dopo, e l'ex sergente lasciò i ventilatori in funzione per qualche minuto prima di entrare a fare le pulizie nello spazio riservato ai tiratori. Tiratori? La testa di cavolo con la Colt d'argento non si meritava certo quel titolo, e dire che passava al poligono più ore di tutti. Gli altri lo chiamavano Buffalo Bill perché un bufalo probabilmente era il bersaglio più piccolo che sarebbe stato capace di colpire. Aveva riportato la Colt d'argento da un viaggio a Tombstone, e si era procurato una licenza speciale per averla; apparteneva a un'edizione limitata per il centenario e Dio solo sapeva quanto costava. Aveva anche una cintura di cuoio con la fondina, possedeva tutte le registrazioni di Marty Robbins e ancora non riusciva a capire perché l'Unità di Supporto Tattico non lo aveva ammesso nella squadra dei tiratori.
Scuotendo la testa, l'ex sergente Morrison si avviò zoppicando lungo la fila per riprendere le vaschette di plastica che aveva disposto in precedenza per accogliere i bossoli dopo ogni ricarica. Il circolo era stato la sua vita, una volta; buoni amici e bei momenti passati insieme, ma poi i buoni amici si erano dedicati quasi tutti ad altre attività e i bei momenti erano per lo più ricordi. A volte si domandava perché contribuiva ancora a mandarlo avanti, senza paga e con scarsi ringraziamenti, per giunta; la maggior parte di quelli che scendevano laggiù avrebbe avuto la peggio in uno scontro a fuoco con Stevie Wonder. In fondo alla fila si fermò e corrugò la fronte. Passando, aveva gettato in un sola vaschetta tutte le cartucce. Quelle da 7,63mm della vecchia Broomhandle Mauser, le calibro 45 della Colt e le cartucce Luger dell'automatica calibro 9... soltanto Nick Frazier aveva usato una calibro 38, e aveva preso ventiquattro colpi. Lì c'era qualcosa che non quadrava. E così Morrison si portò la vaschetta nella cabina di controllo dove c'era più luce, e rovesciò tutti i bossoli sul banco di lavoro. Maledisse le sue dita irrigidite mentre li sparpagliava e li suddivideva. Trovò soltanto otto bossoli di proiettili calibro 38. Otto, su ventiquattro. Si sedette a meditare. Ora, che diavolo poteva significare? 27 «Prima dovrai trovarmi» aveva detto Johnny. Nick aveva il presentimento che non sarebbe stato troppo difficile. Le possibilità di Johnny si stavano esaurendo e così pure, probabilmente, i contanti. Ed era difficile che nella fuga diventasse un pericoloso maestro del crimine; pericoloso, sì, ma confuso e incerto e con una presa minima sulla realtà. Si sarebbe mantenuto sul terreno che conosceva, ed era su quel terreno che Nick era sicuro di ritrovarlo. «Prima dovrai...» Ma tante cose potevano cambiare, col tempo. Non aveva già fatto tante scoperte, dal giorno del suo ritorno? Era sbagliato pensare al passato come a una sorta di museo, un posto nel quale si poteva rientrare se solo si riusciva a trovare la porta segreta e ad aprirla con la chiave magica, il posto nel quale la felicità era come una pianola in attesa di una monetina per far
risuonare nuovamente dappertutto la sua musica meccanica. Il passato somigliava piuttosto ai palcoscenici e ai carri del luna park; fragili come la carta e inconsistenti, venivano abbandonati al vento e alla pioggia quando le luci multicolori si erano trasferite altrove. Un esempio: il Red House Café. Nick non aveva nemmeno capito esattamente dove si trovava finché non era sceso dalla macchina. Aveva già deviato dalla strada per entrare nello spiazzo antistante quando aveva visto che le pompe di benzina non erano in funzione, ma aveva deciso di fare comunque una breve sosta per vedere se riusciva a procurarsi una cartina della costa. Avvicinandosi all'edificio principale, gli era tornato alla mente d'improvviso; era proprio su quel muretto, quello davanti alle pompe di benzina, che tanti anni prima si era era seduto insieme a un uomo di cui non conosceva il nome, aspettando che arrivasse la polizia perché potessero marciare tutti sulle dune per farsi mostrare da Nick il pescatore annegato. Si fermò. Il posto era appena riconoscibile, ma per un attimo cercò di ricordare qualcosa di com'era stato un tempo. Era quasi certo che a quell'epoca fosse un distributore della Shell, ma i nomi semicancellati sulle pompe dicevano Avia e Imperial. Nel gabbiotto dietro le pompe la porta d'ingresso era aperta, con la serratura saltata, tanto che lui poteva vedere fino alla porta posteriore, spalancata alla luce del giorno che entrava dalla parte opposta. Dentro c'erano soltanto scaffalature vuote e carta da parati tipo legno, tutta scrostata. Allora si diresse verso il Red House vero e proprio, un edificio basso degli anni Trenta posto una ventina di metri all'interno rispetto alla strada. Aveva sul davanti due grandi finestre a bovindo, un'entrata con un tendone e alcuni gradini di mattoni fiancheggiati da vasi di fiori, e in alto una bassa torretta quadrata col nome, in modo che si potesse vedere dalla strada. Il ristorante era stato dipinto di bianco, e la vernice si staccava dalle pareti come pelle screpolata. C'era un giardinetto laterale, con una rimessa di legno e una grande roulotte d'altri tempi appena visibile. Non c'erano altre macchine, a parte la sua. Anche dentro pareva che non ci fosse nessuno; sentiva una radio o un televisore suonare da qualche parte nel retro, ma dovette aspettare al banco per qualche minuto, prima che comparisse qualcuno. L'uomo che alla fine si presentò aveva l'aria di un cuoco alla buona, il che voleva dire che aveva i muscoli del camionista sotto il grembiule da cuoco. Aveva le maniche arrotolate e le braccia pelose come quelle di Zorba il greco. Nick gli spiegò
che cosa cercava, e l'uomo si spostò in fondo al banco, dove le merci in vendita sembravano consistere quasi esclusivamente in portachiavi e copie della rivista Trucking. «Ho questa carta turistica» disse, tirando fuori da sotto il banco una scatola ricoperta di polvere. «Non è molto dettagliata, ma ci sono tutte le località principali. Lei conosce un po' la zona?» «Sì, ma è passato molto tempo» rispose Nick. «Non serve che cerchi di decantargliela, allora.» Tirò fuori dalla scatola un pieghevole patinato; una volta spiegato sul banco, si rivelò una carta a tre colori della costa e della baia, che indicava le poche strade statali e, con vivaci simboli arancioni, tutte le chiese, i punti adatti alla pesca e le riserve naturali. «Il mare è sempre allo stesso posto ma la costa no, e questo è quasi tutto quello che c'è da dire in proposito. Troverà appassionati di uccelli e qualche biologo marino, e quasi nessun altro. Se ci aggiunge mare e cielo e pioggia per soprammercato, il quadro sarà più o meno completo.» «Non sembra troppo favorevole agli affari.» «Ce la caviamo. Non si può pretendere molto di più, da queste parti.» Nick prese la carta e cominciò a ripiegarla. Domandò: «Ha mai pensato di andarsene?» Ma l'uomo scosse la testa, sorridendo come se Nick avesse fatto una specie di battuta. «No» rispose. «Questa è la Baia. Nessuno se ne va mai veramente.» «Io l'ho fatto» ribatté Nick. E l'uomo si strinse nelle spalle, come se quello confermasse la sua tesi. Bene, era un inizio. Nick si rilassò e lasciò che l'auto trovasse la strada da sola prima nella terra di nessuno dove la baia incontrava la città, e poi verso quella parte della zona intermedia, in parte industriale, in parte residenziale, dove sorgeva l'agenzia di trasporti dei Mays. Quella zona era piuttosto tranquilla, ormai. Ricordava che ogni tanto ci era venuto a correre in bicicletta con Johnny; Johnny non andava quasi mai da lui, perché la sua casa era molto più piccola e potevano a malapena montare una tenda nel minuscolo giardinetto sul retro. All'agenzia, c'erano i garage e le dipendenze e c'erano sempre degli automezzi parcheggiati fuori nei quali si poteva giocare. Alcuni restavano fuori più degli altri, e sembravano quasi tutti arrugginiti lungo le giunture e i rivetti; ma del resto tutti i pullman e i camion di Frank Mays erano piuttosto malridotti, e alcuni erano stati danneggiati e riverniciati e poi danneggiati di nuovo.
Nick fermò la macchina in strada. La grande casa era buia, con le finestre sbarrate. Sullo steccato esterno, tutto vuoti come una bocca sdentata, si leggeva ancora il nome di Frank Mays sotto lo strato di vernice più scadente del marchio di un altro proprietario. Tirò il cancello di assi, aspettandosi di trovarlo bloccato; invece il battente si spalancò, e Nick poté entrare. Si richiuse dietro di lui, per mezzo di un rozzo sistema realizzato utilizzando un cavo in alto e una vecchia ruota di autocarro come contrappeso. Una volta dentro, fu come trovarsi in un quartiere di Hiroshima. C'erano vetri rotti, c'era metallo arrugginito; oltre il recinto era stato scaricato dall'esterno un mucchio di spazzatura, compresi sacchetti su sacchetti di rifiuti domestici in decomposizione e un paio di materassi infestati da insetti. Su tutto troneggiava, alta fra le erbacce come uno scheletrico Gargantua, la carcassa spoglia di un vecchio pullman a 24 posti. Sembrava un elefante ucciso dai cacciatori di frodo per l'avorio, e poi lasciato a marcire. E là, proprio accanto al pullman, c'era la Scimitar azzurra che aveva visto l'ultima volta sul molo vicino alla casa di Alice, la sera prima. Nick si fermò nello scorgerla, tanto sbalordito dal successo immediato della sua ricerca da dimenticare per un attimo la ragione per cui l'aveva intrapresa; e mentre stava impalato lì vicino al cancello, Johnny Mays uscì dagli uffici col suo passo strascicato. Non mostrò nessun senso di allarme e lo salutò con la mano come se non ci fosse mai stato alcun malinteso fra loro. «Nick!» esclamò. «Ehi, Nick, sono io!» Ma lo sbalordimento di Nick non durò più di quanto impiegarono le parole di Johnny a raggiungerlo. Dall'interno della giacca estrasse la vecchia Webley calibro 38 pulita e ingrassata e caricata con sei dei proiettili che aveva sottratto al poligono di tiro della polizia. Sparò due colpi, mentre Johnny si metteva a correre e si tuffava al riparo, rotolando fra le erbacce. Nick cercò con lo sguardo qualunque accenno di movimento, tentando di capire da che parte stava andando Johnny; a un certo punto fra la sterpaglia in fondo al cortile c'erano alcuni pali telegrafici disposti fianco a fianco come pararuote, per impedire agli automezzi di finire troppo in là facendo manovra e di urtare contro i muri, e Nick sospettò che l'altro li avrebbe usati come protezione. Non si sbagliava. Scorse per un attimo Johnny mentre si alzava, a un paio di metri dalla Scimitar, ma quando la Webley fu pronta a sparare, Johnny aveva già percorso quella distanza ed era di nuovo al coperto dietro
la macchina. Nick tenne la rivoltella spianata, aspettando che Johnny si facesse vedere di nuovo. Ma Johnny rimase dov'era. «Che cosa hai perso, Nick?» gli gridò Johnny dal punto in cui era nascosto. «La mira, o il sangue freddo?» Non sembrava affatto turbato, come se farsi sparare addosso fosse uno degli aspetti più comuni della sua giornata. «Ti avevo avvertito, Johnny» gridò di rimando Nick. «Sì, mi hai avvertito, ma non sei riuscito a farlo davvero, no? Non sei riuscito ad abbattermi come un cane. Quante persone hai ucciso finora? Dieci? Cinque? Una?» Johnny lasciò la domanda in sospeso per un paio di secondi, e Nick fletté rapidamente tutte le dita e strinse più saldamente la presa sulla Webley. Johnny riprese: «Non è proprio la stessa cosa che sparare a un bersaglio di carta, vero? Non è lo stesso che eliminare uno sconosciuto.» «Prova a uscire fuori» gli gridò Nick «e vedrai.» «Non funzionerebbe lo stesso, Nick. Qualunque cosa tu pensi di me, so che siamo ancora amici. Siamo sempre la stessa vecchia squadra. Guarda.» E per dimostrare la sua fiducia in quella teoria, Johnny uscì dal nascondiglio. "Fallo" pensò Nick. Johnny si era scostato dall'auto, con tutt'e due le braccia in alto - non in segno di resa, ma per offrire un bersaglio migliore. Forse prima lo aveva mancato, ma Nick non poteva sbagliarlo anche così. "Fallo." Ma sapeva già che il momento era passato. «Ascolta» disse Johnny. «Non preoccuparti per questo. Lo so com'è, ti perdono. Anch'io mi ero davvero arrabbiato, laggiù... voglio dire, per te e Alice. Ma non mi è servito a niente. Non mi ha dato sollievo vederla soffrire.» «Tu sei malato, Johnny» disse Nick, ancora con la rivoltella spianata e chiedendosi se la stilettata che provava nel sentire il nome di Alice pronunciato da Johnny sarebbe stata uno stimolo sufficiente per indurre la mano armata di pistola a obbedire. "Ricorda la catena" si disse. Johnny insistette: «Vuoi dire che non lo sai?» «Sapere cosa?» «Non è morta, Nick.»
Per un attimo Nick quasi gli credette. In gran parte perché voleva credergli, e in parte perché era evidente che Johnny ci credeva davvero. Arretrando lentamente verso la Scimitar e restando bene in vista, Johnny continuò: «Le parole non servono a niente. Posso dimostrartelo.» Con una mano sola, sollevò il portellone posteriore. Poi si chinò in avanti e allungò la mano all'interno, e Nick pensò di colpo: "È un trucco, ora si tuffa dentro e rotola sui sedili per mettersi al volante e partire", ma Johnny cominciò a tirare fuori un lungo involto molle, simile a un sacco, in cui Nick riconobbe una forma umana prima che fosse fuori per metà. Era stato avvolto in una tela incerata, e legato con la corda come una crudele parodia di una mummia in un sarcofago. Johnny l'aveva appena estratta quando dovette lasciarla cadere per il peso, e atterrò pesantemente. Dopo aver urtato il terreno si agitò un poco, un lieve movimento che era il massimo consentito dalla corda. Non era granché. Ma era vita. "L'hai vista morta" lo ammonì la voce in fondo alla mente di Nick, ma lui la udì appena. Rammentò improvvisamente il sogno della notte prima, che fino a quel momento non era riuscito a ricordare. Johnny stava indietreggiando. «Non ho le idee troppo chiare su quello che è successo» ammise. «C'è un tale pasticcio assurdo qui dentro, a volte.» Guardò Nick dritto negli occhi, senza ombra di malizia; solo confusione e ansia, e un autentico desiderio di fare ciò che era meglio. Aggiunse: «Non voglio lasciarla andare... ma penso che sia più al sicuro con te.» Johnny continuava a indietreggiare; ora stava girando di nuovo dietro alla Scimitar. Nick non fece niente per fermarlo. La Webley gli era ricaduta lungo il fianco. «Abbi cura di lei per me, Nick» gli disse Johnny, e poi salì rapidamente in macchina. Nick si stava già muovendo quando il motore della Scimitar si accese, e correva quando l'auto partì. Johnny sterzò e girò dietro di lui in un ampio circolo, e alla mente di Nick balenò l'idea che tutta la manovra poteva essere stato un trucco per attirarlo allo scoperto in modo che Johnny potesse investirlo. Ma l'auto sobbalzava sui detriti, diretta verso il cancello, e quando Nick raggiunse la sagoma legata e s'inginocchiò vicino a lei, sentì il cancello di legno che sbatteva mentre la Scimitar lo superava in corsa. Johnny era sparito, l'accelerazione improvvisa della sua auto non era ormai che un'eco sulla strada deserta all'esterno, mentre Nick lavorava sul-
la corda. Forse qualcuno nella zona aveva sentito gli spari, era impossibile dirlo. Se era così, e se avevano denunciato quello che avevano sentito, Nick non voleva restare nei paraggi un minuto più del necessario. Riuscì a sciogliere il cappio che le stringeva il collo e, quando la mise a sedere e abbassò l'improvvisato cappuccio di tela rigida, il resto le ricadde intorno al corpo. Lei aveva i capelli sugli occhi e, ansimando di sollievo, li gettò all'indietro. Era una donna che Nick non aveva mai visto in vita sua. Riuscì a camminare a fatica, mentre lui la sosteneva portandola fuori del cortile. Poteva avere al massimo sedici anni. La sua borsa di tela era sul bordo della strada, dove Johnny l'aveva lanciata un minuto prima; Nick fece sedere in macchina la ragazza e andò a prenderla. La lampo si era rotta quando era stata scaraventata a terra, e Nick ficcò dentro in fretta i pullover e la biancheria che sporgevano dall'apertura. Quando lanciò la borsa sul sedile posteriore e risalì in macchina, lei si stava asciugando gli occhi e si soffiava il naso con qualcosa che sembrava la velina del contratto di noleggio presa dal cassettino del cruscotto. «Mi dispiace» gli disse. «Ho messo dentro la mano, e l'ho scambiato per un fazzoletto di carta.» «Serviti pure» disse lui, e avviò la macchina per andarsene di lì. Lei gli disse come si chiamava. Gli spiegò che aveva commesso l'errore più grave della sua vita chiedendo un passaggio a Johnny giù al Red House, e raccontò che lui l'aveva guardata in un modo che l'aveva spaventata al di là di ogni immaginazione. Da tre metri di distanza probabilmente non si sarebbe notato niente, disse, ma se prendevi una maschera di Halloween e ci mettevi dentro una candela l'effetto sarebbe stato più o meno lo stesso. Aveva creduto di essere riuscita a seminarlo, ma si era sbagliata. Lui aveva semplicemente seguito il camion che le aveva dato un passaggio e quando l'avevano depositata sulla banchina, a meno di dieci chilometri di distanza, aveva aspettato che fosse sola e poi si era avvicinato. Quella volta era stato più plausibile. Aveva spiegato di appartenere alla polizia. «Mi ha fatto perfino vedere un tesserino» gli disse. «Che cosa avrei dovuto pensare? Sembrava serissimo, in quel momento: ha detto che aveva un aspetto orribile solo perché era in missione segreta. Ha detto che c'era stato un paio di casi di violenza carnale su ragazze che facevano l'autostop
e che mi avrebbe portato fino alla più vicina strada statale.» «E poi?» «Poi ha cominciato a chiamarmi Alice. A dirmi quanto gli dispiaceva. Ma ormai era troppo tardi, ero già salita in macchina.» «Non ti riconosceva più?» «Non credo che sapesse nemmeno su quale pianeta stava. La prossima volta seguirò la prima impressione.» «Be'» disse Nick «noi sappiamo chi è. Vuoi essere coinvolta?» «No, se posso farne a meno. Mi accontenterei di un passaggio fuori città.» «Dopo questa storia?» «Conosco alcuni camionisti» rispose lei sulla difensiva. «Me la caverò benissimo.» Nick fece come voleva lei. Era quasi certamente minorenne e in altre circostanze l'avrebbe consegnata agli agenti in uniforme del posto, ma invece la portò fuori città, dalla parte occidentale, dove passava la maggior parte del traffico del porto. Ormai era pomeriggio inoltrato e la luce del giorno cominciava a disfarsi nella trama della prima sera, ma lei sembrava convinta di aver risolto i suoi problemi. In uno dei grandi svincoli periferici superarono una Range Rover della polizia che si era fermata a controllare il flusso del traffico. «Cercano lui?» chiese la ragazza. «È probabile.» Nick calcolava che il meccanismo della caccia all'uomo fosse già scattato, anche se non aveva incontrato pattuglie; aveva fatto una breve telefonata da una cabina lungo la strada dopo che Johnny lo aveva portato a vedere Alice, giusto per assicurarsi che la trovassero e la recuperassero prima che la marea potesse trascinarla via, e da allora si era sforzato di restare fuori del quadro ufficiale. Sapeva fin troppo bene come sarebbe andata: avrebbero scoperto che lui ne sapeva molto più di loro, e poi lo avrebbero relegato da qualche parte per toglierlo di mezzo. Il piano di Nick era di restare al centro dell'azione, ma proprio per quel motivo doveva continuare da solo. Qualche ora prima, nel pomeriggio, aveva cercato i notiziari saltabeccando da un programma all'altro sull'autoradio, ma di Johnny nessuna notizia. La ragazza domandò: «E se cambia macchina?» «Non importa» rispose Nick. «Non ha intenzione di lasciare la zona.» La fece scendere in un posto di ristoro per camionisti a una ventina di chilometri dalla città, una versione più decrepita del Red House, con gli
autocarri allineati fuori come bestioni diventati troppo grandi per la stalla. Ormai era quasi buio e il locale aveva un'atmosfera fumosa e vivace. Nick rimase in macchina e la guardò mentre correva verso la porta ed entrava, con l'espressione del viaggiatore che dopo un lunghissimo viaggio arriva finalmente a casa. Era impossibile scorgere granché attraverso le vetrate appannate, ma gli sembrò di intravedere alcune sagome che si alzavano dai tavoli all'avvicinarsi della ragazza e di sentire fiochi echi di saluti prima che la porta si chiudesse, escludendoli. Nick non avrebbe saputo spiegarlo, ma per un attimo provò una sensazione che era quasi invidia. Ma poi distolse il pensiero da lei, e voltò l'auto per tornare nella direzione da cui era venuto. "No, Johnny" pensò. "Non sfuggirai. "E ora che ti ho trovato una volta, lo farò di nuovo. "Prima che ti trovino gli altri." Verso le nove, Johnny cominciò ad avere fame. Gli venne all'improvviso, come una rivelazione; aveva guidato senza meta, su e giù lungo la strada costiera e per gli stretti viottoli di campagna che attraversavano fattorie e villaggi, percorrendo parchi coperti di foreste e aggirando campeggi chiusi, quando la sua mente parve imbattersi in una di quelle isole di lucidità in cui usciva da se stesso e si vedeva con momentanea chiarezza, anche se il sogno continuava a chiamarlo come un'amante che lo volesse con sé fino all'alba. Fermò la macchina in una piazzola di sosta fra i boschi e saltò la barriera per entrare in uno dei campeggi; fu abbastanza facile forzare un paio di roulotte, ma erano state parcheggiate lì per la stagione morta e dalla spedizione non ricavò neanche un bicchier d'acqua. Poi qualcuno venne a controllare il posto con una torcia e un cane - aveva sfondato le porte con un paio di grosse pietre, e probabilmente aveva fatto un bel po' di fracasso - e così dovette abbandonare del tutto l'idea. Prese a calci il cane e fece prendere uno spavento al vecchio scemo entrando nel raggio della torcia col soprabito svolazzante e le braccia alzate come uno zombie uscito da un film di serie B, e il vecchio scemo mollò la torcia e fuggì a gambe levate. Johnny tornò indietro, risalì in macchina e ripartì in cerca di qualche prospettiva più allettante. La Scimitar cominciò a singhiozzare mentre attraversava la periferia di una cittadina commerciale nell'interno, a un'ora circa dalla parte settentrionale della città. A quel punto l'indolenzimento che aveva scambiato per
fame si era trasformato in un dolore serio e persistente, e il fastidio dell'auto era un'aggiunta ben poco gradita ai suoi problemi; ma almeno era su una strada illuminata e in un punto vicino a un centro abitato, quindi cominciò a cercare un posto dove fermarsi. La Scimitar stava perdendo rapidamente velocità. Vide il segnale del parcheggio di una stazione ferroviaria, svoltò e stava per entrare, quando la macchina gli morì sotto come un cavallo sfiancato. "Poteva andare peggio" pensò "poteva andare peggio." Scese con movimenti rigidi e si aggrappò allo sportello perché rischiava di perdere l'equilibrio. "Tienti saldo, Johnny" disse a se stesso, poi prese la mira e puntò verso l'atrio principale della stazione. A quell'ora non c'era nessuno a controllare le barriere. Una volta, ai tempi dei treni a vapore, quello era stato un edificio di importanza regionale, ma ormai era una fermata su una linea a due binari che attirava traffico sufficiente a giustificare un'edicola di giornali (chiusa) e un piccolo posto di ristoro, e fra un treno e l'altro era moribonda come una vecchia chiesa abbandonata. Johnny scese una larga scala di ferro battuto per raggiungere il livello dei binari; le grandi stazioni di una volta lo avevano sempre eccitato e gli facevano lo stesso effetto perfino in quel momento, anche se aveva tanti altri problemi che gli si affollavano nella mente e richiedevano la sua attenzione. Bene, avrebbero dovuto aspettare. Ci sarebbe arrivato, a suo tempo. Gli uffici del capostazione erano bui ma il posto di ristoro era illuminato, e poco più avanti c'era una zona del binario dove erano stati allineati alcuni carrelli portabagagli pronti per il carico su qualche corsa più tarda. Tutto quello che non era in ferro battuto era di mattoni o di pietra, e le superfici erano striate da infiltrazioni d'acqua nei punti in cui la pensilina in alto perdeva. Johnny superò un paio di distributori automatici sul binario ed entrò dalla porta del posto di ristoro. Da quella parte del bancone non c'era nessuno," una ventina di tavoli, tutti vuoti, e l'unico suono proveniva da una di quelle assurde macchinette mangiasoldi con i frutti che aveva le dimensioni di un piccolo pianoforte. Il personale arrivò sotto forma di un adolescente rosso di capelli, con le orecchie a sventola e le lentiggini, che stava dietro il banco in una specie di uniforme con un berrettino di carta. Si ritrasse leggermente quando Johnny puntò su di lui e gli disse: «Senti, ho un problema.» «Davvero?» disse il ragazzo, tutto cortesia e nervosismo. «Già, ho appena messo dei soldi in uno dei distributori automatici e non
è successo niente.» «Quale?» «Non ricordo esattamente, uno di quelli là fuori.» Sapevano entrambi che stava mentendo. Ma il ragazzo non ci teneva a contrariarlo e a Johnny semplicemente non importava, punto e basta. Qualunque cosa Johnny dicesse, il ragazzo avrebbe accettato; era tardi, lui era solo e la ferrovia non era sua, e Johnny trasudava una tale aria di pericolo trattenuto a stento che qualsiasi cosa non fosse piena cooperazione era strettamente riservata agli eroi. E il ragazzo, pensando che avrebbe sempre potuto fare l'eroe un'altra volta, disse: «Vuol essere rimborsato, allora.» «Non voglio farti avere dei guai» disse Johnny. «Che ne dici se prendo della roba per un valore equivalente e ci dichiariamo pari?» «Per me va bene.» Johnny si stava già servendo di sandwich e altre cibarie dal bancone. Disse: «Lo sapevo che l'avresti presa così. Passami un paio di quei panini dolci, per favore.» E il ragazzo disse: «Certo» e obbedì. Rimase a guardare mentre Johnny si riempiva le braccia di cibo. Sembrava che prendesse due di tutto. Dopo un po', il ragazzo si azzardò a dire: «Doveva essere proprio un mucchio di soldi, quello che ha perso.» «Sì» disse Johnny «era un biglietto da venti sterline. Aspetterò il treno qui, d'accordo?» E mentre Johnny trasportava il suo carico a un tavolo vicino a una finestra che dava sui binari, il ragazzo rispose: «Perché no?» Johnny scaricò tutto sul piano di formica e si lasciò cadere su una delle quattro sedie di plastica che erano fissate in modo permanente al tavolino. Trattenne il fiato per un attimo, e poi si permise finalmente di rilassarsi. Perfino Dio si era concesso una pausa dopo sei giorni passati a mettere insieme l'universo, e Johnny aveva l'impressione di aver lavorato altrettanto sodo. Strappò l'incarto del primo sandwich, e lo addentò. Meno di un minuto dopo, quasi al primo boccone, l'appetito sembrò spegnersi. Alzò gli occhi per vedere se il ragazzo lo osservava, ma pareva che facesse del suo meglio per non farsi notare dietro il bancone. Saggia mossa. Un solo passo falso, e Johnny lo avrebbe scaraventato sul ripiano e l'avrebbe fatto secco; niente di personale, era semplicemente il modo più pulito di procedere. E ormai lo aveva fatto abbastanza spesso da cancellare
ogni traccia di colpa che poteva essere rimasta dopo la caduta; lo aveva fatto perfino ad Alice. Johnny abbassò la testa. Ad Alice. Non riusciva a capire come la fame aveva potuto svanire così in fretta, lasciandogli solo il dolore. Accigliandosi, sbottonò il soprabito e lo aprì. Era incollato alla pelle. Quando lo staccò, fu come se all'improvviso fosse stato trafitto al fianco da una lancia e la punta della lancia fosse stata estratta. Aveva sanguinato molto, dentro il soprabito. Il sangue era quasi tutto coagulato, ma proprio sotto la gabbia toracica era ancora umido. Quando sollevò il lembo del soprabito che aveva scostato, vide un puntino luminoso nel tessuto; un piccolo foro netto nella stoffa, quanto bastava per farci passare dentro un dito. Fu tentato di piangere; invece risistemò il soprabito e lo abbottonò di nuovo, rimettendo tutto a posto come a dire che era tutto in ordine, che non c'era niente che non andava. Restò seduto un attimo a strofinarsi gli occhi, poi si alzò di scatto. Quando uscì sul binario, si rese conto a stento che era arrivato un treno; lo choc lo stava aggredendo in fretta, e camminava come se fosse sotto il martellamento costante di un temporale. Aveva la testa piena di martelli e il corpo in fiamme. Al ragazzo dietro il banco del buffet, dava l'impressione di una persona che sta per vomitare e cerca di raggiungere il gabinetto senza mettersi a correre; ma la cosa più importante per il ragazzo era che se ne stava andando, con il vantaggio supplementare che aveva abbandonato intatta quasi tutta la roba che aveva preso. La preoccupazione principale del ragazzo era rimettere tutto sul banco prima che il supervisore notturno passasse a prelevare gli scontrini, e così non era nemmeno vicino alla finestra quando Johnny raggiunse la scala e cominciò a salire. Uscendo nella notte, Johnny sentì partire il treno alle sue spalle, in basso. Respirò una boccata d'aria pura, e si diresse verso la Scimitar. La macchina non volle partire. L'avviamento girava ma il motore non si accendeva e, quando finalmente pensò di studiare le indicazioni sul cruscotto, vide che la spia del carburante indicava VUOTO. Be', era finita. Scese lentamente e si guardò attorno; nel parcheggio c'erano cinque o sei vetture e lui tentò qualche sportello delle più vicine, ma erano tutte chiuse a chiave. Niente che non potesse affrontare - la soluzione più semplice e veloce era un rapido taglio nella guarnizione di gomma del finestrino, seguito da uno strappo per asportare tutto il vetro - ma ener-
gia e concentrazione lo stavano abbandonando in fretta. Considerò la possibilità di salire sul sedile posteriore della Scimitar e addormentarsi, ma la scartò. Lo stavano cercando, dopo tutto. Batté affettuosamente sul tettuccio prima di allontanarsi. Le auto erano a posto. Era la gente che ti faceva promesse e poi ti tradiva. Lasciando accese le luci e la portiera aperta, Johnny si allontanò nell'oscurità. Più o meno all'ora in cui Johnny si allontanava lungo la circonvallazione in cerca di una macchina o di un passaggio o di un posto caldo per nascondersi, Nick si rendeva conto che nelle ultime ventiquattr'ore aveva descritto una specie di circolo, perché era sera tardi e lui era di nuovo lì, di nuovo sul molo, a guardare in su verso le finestre buie di Alice. Dopo avere scaricato l'autostoppista era passato in una decina di posti dove Johnny avrebbe potuto rifugiarsi, ma come battuta di pesca era stata una delle più infruttuose. Johnny si era rintanato per un po', era la sua congettura. Gli era passato per la testa che Johnny poteva perfino tornare in quella casa, ma gli sembrava poco probabile; la principale ragione per cui Nick si trovava lì era che non aveva nessun altro posto dove andare. La porta che dava sul molo era chiusa a chiave, ma il paletto era assurdamente facile da togliere. Avanzò nel buio della sala giochi e si diresse a intuito verso la scala; dopo aver urtato contro un paio di macchinette e aver brancolato a tastoni, trovò l'interruttore della luce e riuscì a salire. Il salotto gliela ricordava tanto da farlo quasi star male. Non riuscì nemmeno a dare un'altra occhiata alle vecchie foto intorno allo specchio. Avrebbe dormito sul divano, se fosse riuscito a dormire. Lei non avrebbe avuto più bisogno del letto, ma l'idea di usarlo in quel momento gli sembrava sbagliata. Si sedette, esausto. La Webley era un peso scomodo contro il fianco e così la tirò fuori dalla giacca e poi la tenne in mano, chiedendosi se aveva energia sufficiente per smontarla almeno in parte e pulirla. Ma non credeva che avesse troppa importanza. Probabilmente anni di incuria avevano corroso l'interno della canna e deformato la rigatura, e non c'era da stupirsi che i due colpi contro Johnny fossero andati evidentemente a vuoto. Il miracolo era che quella dannata arma non gli fosse esplosa in faccia. L'aprì, la ricaricò e fece girare il cilindro. Era quella l'unica ragione per
cui aveva mancato il bersaglio, non era vero? Quella, e il fatto che anche il miglior tiratore - cosa che Nick certamente non era - era condizionato dalla fondamentale imprecisione di qualsiasi pistola oltre una certa distanza. Nick aveva saputo perfino di un agente che si era trovato sopra il bersaglio, aveva sparato due colpi a bruciapelo mirando alla testa e, fortunatamente per il povero disgraziato a terra, lo aveva mancato tutt'e due le volte. In confronto, il fallimento di Nick sembrava perdonabile. E perlomeno, in quanto errore di mira, era qualcosa che poteva sopportare. Un cedimento dei nervi invece... ecco, quello sarebbe stato tutta un'altra cosa. Posò la Webley sul tavolino da caffè e si appoggiò allo schienale. Una notte in macchina e un giorno sull'orlo di una crisi di nervi lo avevano scaricato come una batteria. Almeno aveva un posto dove poteva finalmente rifugiarsi e dove avrebbe potuto restare più o meno inosservato; aveva visto qualche pensioncina sul lungomare, ma l'unica esperienza che aveva fatto in una pensione prima di trasferirsi da Jennifer era bastata a scoraggiarlo per sempre. Restò seduto a lungo, accigliato. La porta sulla strada era chiusa col paletto. Non con il lucchetto, ma col paletto. Tirato dall'interno. Non era solo. «Dove sei stato, Nick?» chiese lei dalla soglia alle sue spalle. 28 Dapprima non si mosse. Lei aggiunse: «Ho aspettato qui da sola tutta la notte. Non sapevo se fosse andato via per sempre, o se sarebbe tornato, o che diavolo avrebbe fatto. Dove sei stato?» Lui non sentiva una parola. Era Alice. Si alzò lentamente e si voltò. Lei era in piedi sulla soglia, e stringeva in mano una grossa chiave inglese arrugginita presa dal laboratorio al piano di sotto. Sembrava sconvolta, e spaventata. Soprattutto, sembrava reale. «Avevo alcune faccende da sistemare» disse lentamente Nick. «L'ho sentito arrivare» spiegò lei. «Se non lo avessi sentito chiamare il mio nome, sarebbe entrato direttamente e non avrei avuto nessuna possibi-
lità. Ho dovuto nascondermi nello stanzino della caldaia. Avevi detto che saresti tornato da me, Nick, e invece non lo hai fatto.» «Era solo?» «C'era una donna fuori, in macchina. Non so chi fosse.» «Credevo che fossi tu.» «Non mi somigliava per niente.» «Non c'era bisogno che ti somigliasse, dopo che Johnny aveva finito con lei.» Passò un istante prima che lei afferrasse. La vide abbassare gli occhi sulla pistola sul tavolino, e tutta l'ira e l'amarezza parvero abbandonarla di colpo. Lasciò cadere la chiave inglese. «Oh, Nick» mormorò. «Pensavo che tu sapessi.» A Nick parve che nessuno dei due si fosse mosso, ma all'improvviso si trovarono al centro della stanza, e si abbracciavano così forte da farsi quasi male. Alice gli teneva la testa affondata contro la spalla e Nick premeva il viso sui capelli di lei, che profumavano di acqua di mare e di miele. Sembrava che nessuno dei due volesse lasciare l'altro per primo. Lei seguitava a dire che le dispiaceva. Mentre lui era in giro a cercare Johnny, probabilmente lo aveva bollato dentro di sé come un inetto, un incostante, uno che faceva promesse e non le manteneva... la peggiore delle delusioni in una vita di speranze rinate contro ogni previsione. E cosa aveva fatto, lui? Aveva braccato Johnny Mays. Non a causa di quello che Johnny aveva compiuto, capì ora Nick, ma a causa di quello che credeva avesse compiuto. Ma ora il quadro era cambiato. «Ho la sensazione che mi stia trascinando a fondo con sé» disse. «Non so più che cosa è reale e che cosa non lo è. Potrei svegliarmi in questo momento e tu potresti essere davvero...» Lei lo respinse in fretta e gli mise un dito sulle labbra, per zittirlo. «Non sono morta più di quanto lo sia lui» disse. «Senti.» E spostò la mano sulla guancia, e la sfiorò dolcemente. Lui chiuse gli occhi a quella carezza. «Avevo tutto così chiaro in mente» le disse. «Per qualche ora, lì dentro, tutto è andato a posto.» «E adesso?» «Adesso non so.» «Cosa possiamo fare?» Si separarono, un po' in imbarazzo. Il momento magico era passato, rapido come il postale della notte, fuggitivo.
Nick rispose: «La scelta è la stessa di sempre, immagino. O ce ne stiamo qui seduti aspettando che cali la mannaia... oppure fuggiamo, e speriamo che lo affronti qualcun altro...» E a questo punto esitò; ma Alice completò la frase per lui. «Oppure usciamo» disse «e lo troviamo per primi.» Johnny si trovò una tana verso mezzanotte. Due studenti universitari gli avevano dato un passaggio sulla circonvallazione, e lui era rientrato nel cuore del suo territorio seduto sul sedile posteriore di una Cortina scassata. Era stato fortunato che lo avessero preso a bordo, perché era molto improbabile che qualcun altro si sarebbe fermato per lui; anche loro erano sembrati un po' incerti quando lo avevano visto da vicino, ma lui aveva già aperto la portiera ed era salito. Si comportò nel migliore dei modi, intrattenne quella che giudicava una conversazione cortese - anche se un paio di volte li vide scambiarsi occhiate nervose, e si domandò che cosa esattamente avesse detto per turbarli - e in generale si sforzò di dare l'impressione di una persona perfettamente a posto che era soltanto un po' stravagante di aspetto, e quale studente universitario non era pronto ad accettare una cosa simile? Gli chiesero dove voleva essere lasciato, e rispose sulla strada costiera. Disse che avrebbe indicato loro il punto. «Qui?» vollero sapere quando finalmente lo disse, e lui rispose che lì andava benissimo. Così lo scaricarono nel buio, con appena una scheggia di luna visibile, su un tratto desolato di una strada anonima a circa quattrocento metri dal mare. Ma Johnny sapeva quello che faceva. Scelse un sentiero fra la ginestra spinosa, un sentiero di sabbia che biancheggiava al chiaro di luna. Lo seguì oltre la linea della vecchia ferrovia abbandonata, la stessa linea che una volta correva fino alla punta del promontorio e che il tempo e lo spostamento della costa avevano deformato e interrotto. Il fianco gli doleva. Era un'autentica fatica. Ma c'era ancora del lavoro che lo aspettava. Superò l'ultima duna. I vecchi cottage di legno sulla spiaggia erano appena duecento metri più avanti, ormai. Nessuno aveva la luce accesa. Erano lì da tempo immemorabile, cinque in fila, non uno uguale all'altro e ciascuno con un giardinetto recintato da uno steccato che conteneva esattamente la stessa sabbia ed erba ispida che
c'era tutt'intorno. Il cottage in fondo era stato un vagone ferroviario in un'esistenza precedente, gli altri erano baracche estremamente semplici che erano state ingrandite con portici, rimesse e finestre di foggia strana e canne fumarie sbilenche e, a volte, una stanza supplementare che forse una volta era stata una piccionaia. Strettamente riservati all'uso estivo, erano sopravvissuti al loro tempo e ormai erano tenuti insieme più che altro da vernice fresca e affetto. Johnny scelse il terzo della fila, e forzò la porta senza troppi problemi. L'interno era mediocre e accogliente, con assi verniciate di coppale e guarnizioni di bachelite. Alcuni opachi ramaioli alle pareti, vecchie copie del Readers' Digest fra due fermalibri sulla mensola del caminetto, un paio di librerie a vetri con altre letture per le vacanze. Ancora libri in camera da letto, e un grande letto matrimoniale coperto da una trapunta dall'aria ammuffita. La cucina era minuscola, i rubinetti erano spaiati, i fornelli erano di marca Baby Belling, scheggiati; ma quando aprì la dispensa, trovò una scatola di cereali coperti di muffa e qualche scatoletta arrugginita. Prese una delle scatolette. Spaghetti. Buoni. Con quella e un cucchiaio, rientrò nel salotto per sedersi vicino al focolare spento. «Pensi che sarà difficile trovarlo?» chiese Alice. Erano tre ore che non parlavano d'altro. Nick stava in piedi alla finestra, guardando fuori nella notte oltre lo spettro della sua immagine riflessa, e Alice era seduta sul divano-letto chiuso, con le braccia intorno alle ginocchia piegate. Nick rispose: «Dipende da quello che gli passa per la testa. Chiunque avesse un briciolo di buonsenso sarebbe già ben lontano oltre le colline.» «Ma Johnny?» «Non lo so. Oggi l'ho trovato nel primo posto dove sono andato a cercarlo. Come se dividessimo lo stesso genere di pensieri, ricordando gli stessi vecchi luoghi. Aveva ragione. Vent'anni di separazione, e siamo ancora troppo legati, e la sensazione non mi piace.» «Rallegrati, Nick» disse Alice. «Almeno hai una cosa da festeggiare.» «Ah sì?» ribatté lui, voltando le spalle alla finestra. «E cosa?» Ma poi vide il viso di Alice indurirsi, e si accorse in ritardo che aveva perso del tutto contatto con il ritmo dei suoi pensieri. «Ehi» disse «lo so, scusami.»
«Pensavo che il fatto che io sia ancora viva potesse significare qualcosa per te.» «Significa, significa.» «Allora cerca di dimostrarlo.» Nick attraversò la stanza per sedersi vicino a lei. Le disse: «Dai la colpa anche di questo al grande Johnny Mays. Dai la colpa all'ombra che ha oscurato tutto. Vederti sana e salva è stato il regalo più bello che abbia mai ricevuto.» Alice lo stava guardando con un'ombra di sospetto. «Sarà meglio che parli sul serio, Nick» gli disse. «Ci puoi contare.» Lei sostenne il suo sguardo per un attimo prima di distoglierlo. La tacita intesa fra loro era chiara; per quanto riguardava i loro rapporti, la giuria era ancora riunita. Erano accadute troppe cose, e troppo in fretta. La gente ha bisogno di tempo, e Johnny aveva preso il loro. Aveva fatto precipitare le cose e poi li aveva gettati l'uno verso l'altra, facendoli diventare goffi e incerti quando si trovavano insieme. Alice riprese: «Ammettiamo di trovarlo prima della polizia. E allora?» Ma Nick poté soltanto alzare le spalle. «Non lo so.» «Qual è la pena per avere sparato a un verme, di questi tempi?» «Non sono nemmeno sicuro che dovremmo farlo, adesso.» «Non credi che lo meriti?» «Non so dire che cosa chiunque possa meritare.» Lei reagì a quelle parole, punta sul vivo; si raddrizzò, con gli occhi scintillanti che lanciavano un avvertimento, e disse: «Non cominciare a commiserarlo, Nick. È la cosa più pericolosa che tu possa fare, in questo momento. Non commiserarlo, non perdonarlo, non permettergli un passo in più se esiste qualche possibilità di fermarlo. Perché è a questo che mira, Nick, mira a me.» Si batté sul petto per dare enfasi alle sue parole. «Si sta facendo largo verso di me e non gl'importa delle sofferenze degli altri perché quello che vede in ognuno di loro è il mio viso. Puoi immaginare che cosa significa questo per me?» «Non credo di poter giudicare nessuno, ecco tutto.» «Be', se si avvicina di nuovo così tanto» disse Alice con intensità «sarà meglio che tu lo faccia!» Nick le posò la mano sul braccio, come per calmarla; lei aveva raggiunto una furia simile al riverbero di un campo in fiamme, ed era un calore rosso di odio e paura. «Va tutto bene» le disse, calmandola «non si avvicinerà
più tanto. Sarò con te, questa volta.» «Anche se significasse doverlo fermare per sempre?» «Anche così.» Cominciò a fare effetto. Lei distolse lo sguardo, tirò un respiro profondo, si asciugò gli occhi. «Qualcosa è cambiato fra noi, non è vero?» disse, esprimendo quello che pensava anche Nick. Ma lui eluse la domanda. «Penso di poterlo fronteggiare» disse «se ne avrò la possibilità. Credo di sapere che cosa è diventato.» «Cosa? Il Principe delle Tenebre vestito col cappotto della Croce Rossa?» «No. Semplicemente un bambino che non ha saputo ridimensionare i suoi sogni crescendo.» «Credi davvero?» «Ne sono piuttosto sicuro.» Lei sembrò poco impressionata dalla sua riflessione. «Bene» disse, scostandosi da lui e alzandosi in piedi «in effetti ho sentito dire che un bambino distruggerebbe il mondo, se solo ne avesse il potere.» Passò nella stanza accanto; e, pochi istanti dopo, Nick sentì scorrere i rubinetti mentre lei riempiva d'acqua il lavandino per sciacquarsi dal viso le lacrime di collera. Più o meno alla stessa ora, nel parcheggio della stazione ferroviaria, Bruno stava a guardare mentre la squadra del turno di notte della Scientifica strisciava sopra e dentro la Scimitar abbandonata come un groviglio di serpenti in tuta bianca su un teschio gigante. Avevano acceso grossi riflettori e disposto paraventi per avere un po' di discrezione, e stavano esaminando la macchina centimetro per centimetro. Qualunque cosa trovavano capelli, terriccio, sangue, ruggine - veniva contrassegnata e fotografata, poi si prendeva un campione che veniva chiuso in una bustina. Gran parte dei dati che raccoglievano erano fatti concreti; un semplice controllo sulla targa aveva rivelato a Bruno quello che gli occorreva sapere, che era proprio quella la vettura rubata in una casa a un chilometro circa dal punto in cui Johnny Mays aveva abbandonato la Morris di Mad Jack. Che fosse stato Johnny a prendere la Scimitar era ormai fuori dubbio; la donna scomparsa insieme con la macchina era stata ritrovata in un porticciolo sulla costa la
sera prima, in seguito a una telefonata anonima. Era stata frustata, in modo rapido e spietato, con un pezzo di catena trovato sul molo, e poi era stata gettata nel fango dove era annegata, troppo debole per sollevarsi abbastanza e poter respirare. Bruno aveva avuto meno di un'ora di preavviso per mettere insieme una squadra e portarla nel territorio di competenza della polizia di un'altra contea, dove era stato accolto con cortesia formale e nessuna deferenza. Aveva chiesto la massima pubblicità, il viso di Johnny mostrato nei notiziari delle TV regionali e su tutti i giornali locali, fotografie dell'auto, nomi delle vittime, qualunque cosa potesse stimolare la coscienza civica e portare a rapidi risultati; come risposta, aveva ricevuto un velato monito a ricordare che era un collega in visita, e che aveva diritto soltanto al nome in caratteri piccoli sul cartellone. Nessuno finora era convinto che fosse Johnny Mays il responsabile dell'ultimo omicidio; il sovrintendente capo incaricato del caso era più propenso a supporre responsabilità familiari, e aveva convocato il marito sconvolto per interrogarlo. Del poco tempo che Bruno aveva trascorso nella stanza al Railway Hotel, gran parte era stato dedicato a telefonate ai suoi superiori in sede. Gli avevano fruttato ben poco; i poliziotti locali dovevano agire a modo loro, e Bruno nella migliore delle ipotesi avrebbe fatto da spettatore. Bene, forse ora le cose sarebbero cambiate. Scese l'ampia scala fino all'altezza dei binari. Il posto di ristoro era stato riaperto e c'erano dei clienti all'interno; attraverso i vetri vide un paio di agenti in uniforme, che fissavano imbronciati il bancone vuoto. Aperto sì, ma non in attività. Bruno aveva già parlato al supervisore del turno di notte, che ora veniva messo al torchio da due agenti investigativi locali; ma Bruno non si fermò ad ascoltare. Puntò direttamente sul ragazzo che era seduto tre tavoli più in là, in attesa del suo turno; un'auto era andata a prenderlo a casa sua circa dieci minuti prima. Dava l'impressione di essersi infilato i vestiti sul pigiama. Un uomo spettrale, dall'aria preoccupata, era seduto vicino a lui. Bruno li salutò con un cenno della testa. Dalla tasca interna della giacca tirò fuori l'ultima foto di servizio di Johnny Mays, una Polaroid dai colori spenti, e la mise sul tavolo. Domandò al ragazzo: «Ieri sera hai lavorato qui?» «Fin verso le nove» rispose il ragazzo. Pareva che nessuno gli avesse detto niente sul motivo per cui era lì; aveva l'aria nervosa e diffidente di chi si aspetta di essere aggredito nel buio da uno sconosciuto.
«Hai visto l'uomo della foto?» La studiò per un attimo, poi annuì. «È entrato poco prima dell'ora di chiusura.» «Che cosa voleva?» «La solita roba che vogliono tutti in un posto di ristoro. Panini dolci, biscotti, fiocchi di cereali e una lattina di Coca alla ciliegia. Ma poi ha lasciato quasi tutto quando è corso fuori a prendere il treno.» «Niente scherzi» disse Bruno. «Quale treno sarebbe?» «Penso che fosse quello delle 8,20, in ritardo.» «Così lo hai visto salire a bordo con i tuoi occhi?» «Be'» disse il ragazzo con una lieve esitazione che Bruno attribuì al nervosismo «sì, l'ho visto.» «Indicami dove si era seduto.» Gli agenti investigativi locali ora li stavano guardando, dimenticando il loro interrogatorio, mentre il ragazzo faceva strada lungo la fila di tavoli fino a quello vicino alla vetrata dove Johnny Mays si era seduto col bottino. Bruno stava pensando che, se Johnny aveva preso il treno, avrebbero dovuto fare un controllo su tutte le fermate lungo la linea. Il primo passo sarebbe stato parlare al capotreno; Johnny doveva aver viaggiato quasi certamente senza biglietto, e il capotreno poteva ricordarsi di lui. Se non altro, avevano accertato che si era diretto fuori zona. Come minimo, avevano stabilito quello. «È stato qui poco più di un minuto» stava dicendo il ragazzo mentre si spostavano. Il padre li seguiva affranto, come un uomo pagato per partecipare a un funerale. Bruno esaminò il tavolo. Era di formica nuda, lievemente segnato da tracce asciutte nei punti in cui era stato ripulito con uno straccio umido. Domandò: «Come ti è sembrato?» «In che senso?» «Stanco? Nervoso? Eccitato?» «Tutto insieme.» Bruno si era accovacciato per dare un'occhiata sotto il tavolo, ma s'interruppe per guardare un attimo il ragazzo. Il suo tono era amichevole, confidenziale. «Te la sei fatta sotto dalla paura, eh?» disse. «Avrebbe dovuto vederlo per capire» ammise il ragazzo. Bruno si dedicò di nuovo all'ispezione, attento a non toccare il tavolo o qualsiasi altra superficie intorno.
«Non preoccuparti del tuo onore» gli disse. «Con uno come lui, era l'atteggiamento migliore. Chi fa le pulizie, qui?» «Chi è di turno.» «Bene» disse Bruno, raddrizzandosi «qui c'è un punto che ti è sfuggito.» Guardò uno degli agenti locali, che aveva abbandonato l'interrogatorio del supervisore di notte per qualcosa che sembrava molto più interessante. «Fate un prelievo per il controllo sierologico» suggerì Bruno, indicando qualcosa che era gocciolato sul sedile di plastica e aveva macchiato il pavimento. «O è sangue o è salsa per hamburger, e penso che gradiremmo tutti sapere di quale dei due si tratta.» 29 Quando Johnny si svegliò all'alba, il suo primo pensiero fu che si trovava di nuovo nel cottage di Mad Jack nella brughiera; che il tempo non era passato e che in realtà aveva sognato, e non era successo niente che non si potesse sistemare. Ma poi tentò di muoversi, e il fianco gli fece male, e capì che era esattamente nello stesso pasticcio di quando era strisciato sotto le coperte muffite, la sera prima. Che non c'era davvero modo di tornare indietro; c'era soltanto la prospettiva di continuare la fuga, e fare di tutto per mantenere il vantaggio. Sospirò. Se era quello che doveva fare, lo avrebbe fatto. Quale altra scelta aveva? Si alzò con movimenti rigidi e si raddrizzò. Qualcosa nel fianco parve andare a posto, una fitta bruciante seguita da un senso di sollievo abbastanza tollerabile. Scostando il soprabito con precauzione, diede un'occhiata. L'emorragia sembrava finita, anche se gli aveva lasciato la camicia ridotta a una crosta che non osava staccare dalla pelle per paura che ricominciasse a sanguinare. Mentre si abbottonava di nuovo la giacca per nascondere il danno, guardò il giardino dietro il cottage sulla spiaggia fuori dalla finestra incrostata di salsedine; come quello sul davanti, era incolto e seppellito dalla sabbia, e pareva che lo steccato intorno fosse stato razziato per ricavarne legna da ardere. Oltre lo steccato si stendevano le dune. Fra le dune poteva nascondersi. Una volta aveva pensato di potersi nascondere fra le dune per sempre. Andò a cercare qualcosa da mangiare. Il rubinetto dell'acqua fredda sputacchiò un paio di volte e l'acqua scaturì rugginosa, ma dopo mezzo minuto circa cominciò a scorrere limpida.
Johnny aveva trovato cereali in scatola e una confezione di latte in polvere e ora nell'armadietto delle pentole sotto la dispensa scovò un televisore portatile in bianco e nero dietro alcuni vecchi puzzle e giornaletti per bambini. Lo collegò alla presa e lo accese - appena arrivato aveva creduto che non ci fosse la corrente, ma poi aveva trovato le valvole e le aveva rimesse a posto - quindi manovrò la sintonia finché non trovò un programma di cartoni animati. E in compagnia di Inch High, Private Eye, si sedette al tavolo della colazione con una ciotola e un cucchiaio. Avrebbe dovuto eliminare gli studenti. Potevano sentire qualcosa e dire dove lo avevano lasciato. Ma d'altronde, se lo avesse fatto... si sarebbe ritrovato fra le braccia un'altra macchina che scottava e due cadaveri da far sparire. "E ammettiamolo, Johnny" disse a se stesso "finora non siamo stati esattamente diligenti nel coprire le tracce, vero?" Eliminare la gente era diventato molto più facile di quanto avesse mai creduto possibile. Era un po' come imparare a camminare; una volta che avevi fatto da solo quei primi passi traballanti, non c'era verso di tornare indietro. A ripensarci, i segnali c'erano già tutti quando lo avevano mandato per la prima volta ad assistere a un'autopsia. Cristo, che giorno era stato. Si ricordava ancora di aver esitato nella scelta del pranzo, nel timore di doverselo rivedere tutto davanti agli occhi. La prima sorpresa era stata la disposizione del luogo; si era aspettato che i cadaveri fossero riposti ordinatamente nei cassetti come in Quincy, invece erano stesi su lettighe coperte da lenzuoli in una stanza refrigerata, con i vestiti in un sacchetto accanto a ogni cadavere. Aveva dovuto attraversare la stanza refrigerata per raggiungere la sala delle autopsie. I teli erano fissati male e c'era molta pelle in mostra, ma lui non aveva avuto un'autentica reazione a nessuno di loro, finché non era passato vicino all'ultimo e aveva visto dei ricicoli sbucare dal punto in cui il telo di cotone era stato avvolto intorno al viso di un uomo; allora d'improvviso tutto era diventato reale, come schiacciare con la macchina una scatola di cartone e sentire un grido scaturire dall'interno. C'erano due sale per le autopsie, e la prima era stata usata per quasi tutta la mattinata; due inservienti stavano lavando il pavimento di piastrelle, che sembrava allagato di succo di barbabietola. Il tavolo d'acciaio con la complessa disposizione di beccucci dell'acqua e canali di scolo era stato già pulito ed era vuoto. Il tavolo nella sala accanto no. Là c'era il caso di Johnny, un ragazzo morto per una pugnalata al collo. Johnny a quell'epoca non era stato molto più vecchio di lui. Il ragazzo era già pronto, disteso sul tavolo, con il giovane patologo che disponeva gli
strumenti sopra un piatto sospeso. La testa del ragazzo era stata voltata di lato, scoprendo le ferite; esangui e asciutte, non sembravano affatto ferite vere. Sembravano tagli netti nella gomma tesa, con gli orli scostati a rivelare gli ingranaggi segreti al di sotto. E Johnny aveva pensato: "Ehi, non è poi tanto male." La lezione di quel giorno era stata semplice e rivelatrice per lui. In parole povere, era che la morte non era poi granché, soprattutto quando toccava a qualcun altro. I cadaveri erano semplicemente merci usate, senza valore sentimentale; probabilmente ce n'era uno solo che gli sarebbe seccato enormemente trovarsi davanti, ed era proprio quello che non avrebbe visto mai. Il patologo aveva fatto commenti sullo stato del fegato del ragazzo e Johnny aveva detto: «Magnifico, ne prenderò un chilo per il cane.» Ma questo significava guardare indietro. Lui invece doveva guardare avanti. Doveva proprio tentare di mettere un po' di ordine in quello che stava facendo e stabilire in che direzione andare. Curvo sulla scodella, guardò oltre lo schermo e tentò di fare l'inventario della situazione. 1. Era stato ferito da Alice. Il tipo peggiore di ferita, l'essere respinto, quella sofferenza che ti porti dentro per tutta la vita e forse ricordi perfino in punto di morte. 2. Visto che Alice era fuori della sua portata, si era sfogato con gli altri. Ogni nome nel libro nero era stato una controfigura di lei, ora se ne rendeva conto; usare la falce su di loro era stato in gran parte uno spreco di energia. Era lei quella che avrebbe dovuto cercare, dimenticando il libro nero e tornando all'archetipo. 3. Ormai Alice era morta. 4. Ma Johnny soffriva ancora. E in ogni caso l'aveva amata. 5. Quindi era stato tutto inutile. Forse aveva bisogno di una pausa. Poteva stabilire la sua base nella zona «anzi, proprio lì» ma spostandosi lungo la costa. C'erano tante altre città con altre sale giochi, alcune di esse con altre Alice Craig, dove poteva trovare quello che cercava; poteva perfino trovare qualcosa come il momento in cui tutto era cominciato ad andare storto, la parola esatta in seguito alla quale la vita aveva cominciato a deviare dal sentiero luminoso che lui aveva sempre saputo di meritare. Allora avrebbe potuto fare una scelta diversa, e tutto sarebbe finito bene. Poteva accadere? Johnny abbassò gli occhi sulla ciotola. Qualcosa nella colazione aveva un sapore strano, e non era soltanto il latte. La superficie dei cereali sem-
brò incresparsi sotto i suoi occhi. Aguzzando un po' lo sguardo, si accorse che la ciotola brulicava di minuscoli vermi. Quella roba era rimasta sullo scaffale più a lungo di quanto avesse pensato. Senza badarci, riportò lo sguardo sui cartoni animati. E continuò a mangiare. Né Nick né Alice erano dell'umore giusto per fare colazione. Alice era andata in cucina e aveva aperto gli armadi per esaminare le scatolette e le altre provviste che aveva comprato due giorni prima - era passato davvero così poco tempo? - ma poi aveva rinunciato all'idea. Avevano dormito separati, come la prima volta. In quel momento Nick si trovava nel salotto, sul letto richiuso a divano con qualche lembo di lenzuolo che fuoriusciva dai bordi, e stava controllando la Webley almeno per la quinta volta in mezz'ora. Alice era in bagno; era uno spettacolo che non voleva farle vedere. Non gli piaceva nemmeno vedere se stesso allo specchio mentre lo faceva. Aprì la giacca. Aveva tagliato la fodera in modo che la rivoltella potesse stare più al sicuro là dentro. Una parte della sua mente gli diceva che avrebbe dovuto usarla, che qualsiasi fossero i motivi, si era impegnato ad andare fino in fondo in quella faccenda. Un'altra parte della sua mente gli diceva che era pazzo. Alzò gli occhi verso la porta. Alice lo stava osservando. Gli rivolse un sorriso nervoso. «Il mio cavaliere dalla lucente armatura» disse. «No, Alice» disse lui. «Ti prego.» Il sorriso di Alice svanì. «Stavo solo scherzando» rispose. «Bene» disse Nick, e le voltò le spalle per abbottonarsi la giacca sulla pistola. «Che parte ha Frazier in tutto questo?» domandò il vicecapo della polizia locale con espressione dubbiosa. Non stava guardando Bruno, ma una coppetta di fichi verdi sciroppati sul tavolo del buffet dell'albergo. Li assaggiò a titolo sperimentale con il cucchiaio sul piattino e passò oltre. Bruno lo seguì. Rispose: «Frazier è armato e pericoloso, ma più che altro per se stesso. Ha preso dal deposito delle prove una vecchia rivoltella di merda che non spara da quando Adamo era bambino. Non sa che Mays è salito sul treno ieri sera, quindi non credo che ci sia pericolo a lasciarlo scorrazzare sulle
dune, mentre noi ci occupiamo del problema principale.» «Ha avuto fortuna alla ferrovia?» «Mays dev'essersi imbucato nella toilette mentre il capotreno faceva il giro. Immagino che possiamo restringere le possibilità alle due stazioni con il sistema di sicurezza più fragile, senza controlli alle uscite. Ora vorrei parlarle della pubblicità a livello locale.» Portarono i vassoi a un tavolo vicino alla finestra; le alte finestre della sala da pranzo guardavano sull'atrio della stazione, che era coperto e pareva immerso in un perpetuo crepuscolo. La sala dove si trovavano era stata rinnovata di recente, in stile col resto dell'albergo, e sembrava la visione che uno scenografo può avere di una sala da ballo nella Russia zarista. Tutto quello splendore, rifletteva Bruno, e ancora servivano la marmellata in quegli orribili contenitori di plastica che soltanto un fornitore all'ingrosso poteva apprezzare. Lasciò scegliere il tavolo al vice-capo - erano tutti liberi tranne un paio, con tanti posti apparecchiati e vuoti da creare un effetto un po' spettrale - e posò il vassoio di fronte a lui. Era ben lontano da casa, e dalla mensa del posto di polizia. Bruno non aveva avuto molto successo, fino a quel momento, ma intuiva che durante la notte la marea era cambiata. La presenza del vice-capo quella mattina ne era la conferma; Bruno e la sua piccola squadra non erano più outsider da tollerare, ma a un tratto diventavano l'occasione migliore per tutti di uscirne facendo una bella figura. Ed eccone un esempio. Il giorno prima, la politica era stata orientata verso il blocco totale delle notizie, nei limiti del possibile; ora parlavano di manifesti e comunicati stampa e foto di Johnny Mays al telegiornale delle sei. Bruno domandò: «Qualche accenno al fatto che è uno di noi?» «Lei vuole scherzare» rispose il vice-capo. «Verrà fuori quando saremo pronti, e non prima. E ascolti, sarà bene che non si sbagli sul conto di Frazier. È già abbastanza grave dover ammettere la presenza del Fantasma dell'Opera, senza metterci anche Bronco Billy che si affibbia la sei colpi e va a dargli la caccia.» «Non succederà niente» disse Bruno, guardandosi intorno nella sala; una donna della squadra del CID veniva verso di loro fra i tavoli tenendo in mano qualcosa che sembrava il foglietto di un messaggio telefonico. I lividi avevano cominciato ad attenuarsi, o forse aveva trovato un modo per mascherarli. «Frazier è sano di mente» aggiunse. «Solo un po' emotivo, tutto qui.»
«Be', lei lo conosce.» «Non bene» ammise Bruno, spingendo indietro la sedia per prepararsi all'arrivo di Jennifer. «Ma ho qualcuno nella squadra che lo conosce.» Johnny aveva deciso che se quella doveva essere la sua base, tanto valeva che si mettesse a suo agio. Lasciando la TV accesa in cucina - proprio come a casa - frugò in giro negli armadi finché trovò un pacchetto di fiammiferi usato a metà che gettò, scatola e tutto, sulla grata aperta del camino nella stanza principale. Il fianco lanciò un paio di volte fitte di avvertimento; quando accadeva, lui doveva fermarsi e aspettare che si calmasse. Non poteva girarsi troppo, o piegarsi troppo. Sopra i fiammiferi aggiunse alcune vecchie copie del Readers' Digest prese dalla mensola, e poi si fermò. Aveva sentito sbattere la portiera di una macchina all'esterno. Johnny tornò in cucina e spense il televisore, poi tornò indietro per appostarsi vicino a una delle finestre. Ora sentiva anche alcune voci. C'era un'ingiallita tendina a rete che diminuiva il rischio che lo scorgessero, ma fece attenzione lo stesso mentre si sporgeva in modo da poter vedere una fetta più larga del mondo esterno. Una grossa Citroën familiare era ferma sul sentiero davanti al cottage vicino, con il portellone aperto. Un uomo più o meno dell'età di Johnny stava caricando nel bagagliaio una grossa scatola di cartone; la scatola era stracarica e si piegava, minacciando di cedere sul fondo, ma l'uomo ce la fece. Per terra, vicino a lui, c'erano un ventilatore e un paio di stufette elettriche in attesa del loro turno. Mentre Johnny guardava, una donna con i capelli scuri uscì dalla casa con una scatola più piccola sormontata da una lampada da lettura. Attaccata alle sue gonne c'era una bambina di cinque anni circa, che portava un tostapane e rischiava di inciampare nel filo. O erano i ladri più rispettabili del mondo, oppure stavano vuotando la casa prima di chiuderla per l'inverno. «Joanne» sentì gridare la donna, rivolta alla bambina «partiamo fra poco, quindi non andartene in giro. Resta vicino alle case. Joanne, vuoi stare a sentirmi?» E dalla bambina, che aveva depositato con diligenza il tostapane al centro del sentiero e poi era uscita dalla visuale di Johnny, sentì un fioco: «Vado in giardino.» Be', se non altro la privacy sarebbe stata garantita, una volta partiti loro. Finché non si faceva vedere, era improbabile che gli dessero problemi. Fermandosi soltanto per prendere un cestino da lavoro a forma di asinello da uno scaffale e gettarlo sulla grata insieme alle riviste, passò in camera
da letto per dare un'occhiata agli armadi là dentro. Nel tessuto della casa c'era una storia ben precisa, per chi si curava di leggerla; non la solita favola di re e regine, ma la storia di persone insignificanti che vivevano la loro vita e superavano le loro delusioni e a volte erano felici. Di bambini che crescevano e persone che invecchiavano. Conchiglie raccolte e conservate, paccottiglia vinta al luna park tanto tempo prima, certificati di premi scolastici dentro libri di lettura che nessuno leggeva da tempo. L'interesse di Johnny si esaurì dopo che ebbe sfogliato un paio di titoli senza trovare una sola scena spinta; i libri finirono sul mucchio destinato al fuoco, e Johnny passò alla cassapanca della biancheria sotto la finestra. La vecchia cassapanca di pino, scoprì, con il coperchio ricurvo tutto scheggiato e le guarnizioni di ottone brunite, era stata adattata a ripostiglio dei giocattoli. O meglio, era piuttosto un cimitero dei giocattoli; giocattoli troppo infantili, giocattoli non apprezzati, giocattoli troppo rovinati per essere tenuti in casa ma accettabili nella casa per il weekend. L'unico materiale combustibile là dentro erano i libri da colorare e gli albi a fumetti, e un paio di giochi da tavolo in scatole di cartone. Li gettò sul pavimento e scavò fra le automobiline Dinky ammaccate per vedere se c'era qualcos'altro, ma non trovò nulla. Fece per alzarsi. Si fermò. Si piegò in avanti e, con una smorfia per il risveglio improvviso del dolore al fianco, raccolse uno dei volumi rilegati dal mucchio in disordine. Era una raccolta di Valiant. Vecchia di oltre vent'anni, con gli angoli consumati ma i colori ancora vividi. Era un ricordo vero, quello, o soltanto un altro scherzo dell'immaginazione? Era passato tanto tempo, era così difficile dirlo. Rimase fermo come se gli fosse capitato per caso fra le mani il Santo Graal. Aveva amato Valiant. Cristo, che fumetto era. Robaccia, lo aveva definito suo padre; quello stesso Frank Mays le cui letture consistevano unicamente nel Daily Mirror e nello Sporting Life e in qualche copia di una rivista pornografica chiamata Parade che veniva tenuta in cima al guardaroba, al di fuori della portata di Johnny. Aprì il volume, e sfogliò le pagine. Sorprendente. Ecco lì tutto, conservato come in una bolla magica: Capitan Hurricane (quello della furia scatenata), Hawk Hunter, Jason Hyde... qualcuno aveva risolto i cruciverba scrivendo in grosse maiuscole infantili, ma per il resto, a parte i margini ingialliti, le pagine erano intatte. Qualcosa attirò la sua attenzione. Alzò gli occhi sulla finestra. Una bambina di cinque anni lo stava guardando dal giardino.
Non era vicina alla casa, ma Johnny era vicino alla finestra, e dal punto in cui si trovava era difficile che lei non lo vedesse. E inoltre lo stava guardando negli occhi... come poteva essere più chiaro di così? Doveva essersi intrufolata da uno dei varchi nella staccionata. Non sembrava spaventata o sorpresa. Soltanto seria. Indossava un paio di blue jeans, una felpa di TinTin e minuscole scarpette da tennis. I capelli biondi cominciavano già a scurirsi. Per un momento, Johnny si vide attraverso i suoi occhi: con la barba lunga, debole, stravolto, con i vestiti spiegazzati in cui aveva dormito già parecchie volte. Sentì una trafittura, e stavolta non era di dolore; era di vergogna. Si sentì un richiamo dalla parte opposta della casa. La bambina lo guardò ancora per qualche secondo. Johnny provò l'impulso di salutare con la mano, di cercare almeno di spiegarle... non è come sembra, in realtà ci sono tante altre qualità in me... ma da dove cominciare? E poi era già troppo tardi, perché lei si staccò e corse via. Solo una bambina. Una bambina che non conosceva nemmeno. Non si mosse. Attese di sentire le voci. «Mi sembrava di averti detto di non allontanarti» disse l'uomo, proprio al limite della portata delle orecchie di Johnny, come un'eco in un barattolo di vetro. «Ero solo là dietro.» «E che cosa stavi combinando là dietro?» «Sono andata alla casa vicina e ho visto un mostro.» «Non ci sono mostri qui, sciocchina. Non è stagione di mostri.» «Questo è in vacanza.» «Com'era, allora?» Ecco che arrivava il momento. Johnny si rattrappì per l'ansia. La bambina rispose: «Era orribile. Stava leggendo i fumetti.» «Avanti, saluta la casa fino al prossimo anno.» «Ciao, casa.» Non venivano a cercarlo. Le portiere della macchina sbatterono e, al secondo tentativo, il motore si accese. Johnny sentì le ruote girare per un attimo a vuoto sul fondo sabbioso del vialetto prima di avviarsi; e mentre si muovevano udì ancora una volta la voce della bambina, che lo chiamava dal finestrino posteriore aperto. «Ciao, mostro» gridò. Il rumore dell'auto si allontanò fino a svanire, lasciando soltanto il vento e il mare e i pochi gabbiani che si libravano sulla spiaggia.
Poco dopo, anche i gabbiani si erano allontanati. Johnny Mays rimase immobile alla finestra, col vecchio libro stretto al petto. Aveva del piombo nel cuore. Era pesante, e faceva male. Molto di più, ne era sicuro, di quanto avrebbe mai potuto fare il proiettile che aveva nel fianco. 30 Nick si appoggiò al tetto della macchina, guardando oltre, e scosse la testa. "È incredibile quello che si può realizzare" pensò "armati solo di avidità industriale e di un bulldozer." Disse ad Alice: «Be', un altro ricordo che morde la polvere. Questo lo ricordi anche tu, per caso?» «No. Ci stiamo spingendo ben oltre il mio vecchio terreno di caccia, ormai.» Dal punto in cui si erano fermati, avevano un'ampia visuale di proprietà non ancora completate del genere che i costruttori chiamano "case per dirigenti": scatole di mattoni con le finestre appena installate e un pantano di fango e argilla dove alla fine sarebbero sorti giardini a più livelli. Una piccola scavatrice tossicchiava all'estremità opposta del cantiere; a quella distanza, sembrava un camion Tonka a Legoland. «Questa era la discarica cittadina» spiegò Nick. «Il paradiso in terra, quando hai nove anni. E ora guardala.» «Il prezzo del progresso» disse Alice. «Pare che a nessuno importi più niente di offendere la vista.» Risalirono in macchina, e Nick ripartì. Cominciava a essere a corto di idee. Alcuni posti erano esattamente come li ricordava, altri erano cambiati al punto da essere irriconoscibili; l'unico elemento che li accomunava era l'assenza di Johnny Mays. La fiducia di Nick cominciava a vacillare. Il loro mondo segreto era sembrato senza limiti, un tempo; era un po' deprimente scoprire che si poteva coprirlo tutto in macchina nel giro di una mattinata. Lanciò un'occhiata ad Alice. Guardava scorrere il paesaggio piatto senza mostrare nessuna espressione. Nick si chiese se non avrebbero fatto meglio a tornare in città, magari per controllare all'Esercito della Salvezza e negli altri ostelli; doveva pure dormire da qualche parte, no? O forse avrebbero dovuto restare nella zona del cantiere e guardare nelle case vuote, almeno in quelle con il tetto, dove un vagabondo poteva trovare un posto asciutto
in un angolo al riparo della torcia del guardiano notturno. Se non lì, allora dove? Alice lo stava guardando. «Ti è venuto in mente un altro posto» disse. «Forse» disse Nick. «O forse no.» Puntò di nuovo verso la strada costiera. Mentre passavano in mezzo a campi aperti e prati bassi che un tempo erano stati paludi salmastre, attraverso villaggi minuscoli con chiese cadenti e lungo fattorie che si erano estese fino a sembrare impianti industriali, Nick le spiegò dei vecchi cottage sulla spiaggia. In quella stagione dell'anno, avrebbero offerto a Johnny un rifugio perfetto. «Avevamo l'abitudine di pasticciare tutto il tempo da quelle parti, d'inverno» disse Nick. «Ce ne stavamo alla larga d'estate, quando c'erano i proprietari, ma durava solo qualche settimana. Non era come se fossimo degli intrusi. Era piuttosto come se lo fossero loro.» Alice non sembrava esattamente dubbiosa; poco convinta, piuttosto. Disse: «E Johnny se ne ricorderà?» «So con certezza che se ne ricorda. Ne ha perfino parlato, una volta. Se fossi al suo posto, è là che mi rifugerei.» «Sembri piuttosto sicuro.» «No. Tutto quello che so è che quadra ed è giusto. È un posto che ti dà la sensazione di essere lontano milioni di chilometri da tutto il resto e che il tempo non conti nulla.» «E se è cambiato anche quello?» Ma Nick aveva già esplorato quel terreno, quasi come primo atto del suo ritorno. «Non è cambiato» rispose. Erano quasi in vista del mare, a circa tre chilometri dalla meta, quando una Metro bianca della polizia li superò procedendo nella direzione opposta. Nick mantenne una velocità regolare e guardò nello specchietto. Era la prima automobile che vedevano da qualche tempo, a parte un'autocisterna fumante che aveva sorpassato alla prima occasione. «Oh, magnifico» disse. «Tienti forte, potrebbe diventare pericoloso.» La Metro stava facendo manovra in fretta nel vialetto del cancello della prima fattoria disponibile. Nick accelerò a tutto gas e loro furono proiettati contro lo schienale dei sedili mentre l'auto presa a nolo scattava. La Metro non era una vettura adatta a un inseguimento, ma neppure la loro lo era. Lo stavano cercando per via della Webley, non poteva esserci
nessun'altra ragione; tanti saluti alle sue speranze di riportarla nel deposito delle prove e poi trovare un modo per far sparire le ricevute dal registro. Controllò di nuovo lo specchietto; per il momento aveva perso la Metro dietro una curva, ma proprio mentre lui guardava, l'auto della polizia ricomparve sulla strada alle sue spalle. Un'altra curva la fece sparire, ma non per molto. Chiunque fosse al volante, era in gamba. Nick si chiese quale copertura avevano organizzato nella zona, e se avrebbe incontrato un'altra unità più avanti lungo la strada. In quel caso, non gli sarebbe rimasta altra possibilità che arrendersi con grazia. Poteva fare testacoda nel vialetto di un cancello e tagliare per i campi, ma era più o meno garantito che una scelta del genere sarebbe finita ben presto con un tuffo in un canale di irrigazione. Guardò Alice. Si aggrappava con una mano al cruscotto, e teneva gli occhi chiusi. «Detesto tutto questo» gli disse. Aprì gli occhi quando lui aprì il finestrino, facendo entrare aria fredda nella macchina. Stava guidando con una mano sola e sbandavano per la velocità, ma Nick tenne duro finché incontrarono un dosso e la Metro sparì, e allora lui gettò fuori la manciata di proiettili che portava ancora in tasca. Sparirono nel vento e lui fece per afferrare la rivoltella, ma poi ricordò dove si trovavano; stavano correndo parallelamente alla scarpata della vecchia ferrovia abbandonata, sul lato della terraferma, e così cambiò presa sul volante e afferrò il freno a mano. Alice stava guardando indietro. «Possono vederci?» le chiese. «Non ancora.» Lui pigiò a fondo il pedale del freno e contemporaneamente tirò il freno a mano e girò il volante. Le ruote si bloccarono, la parte posteriore della macchina cominciò a sbandare. Alice ebbe appena il tempo di dire: «Oh, merda» e poi si trovarono di fronte a un varco quasi ostruito dalla vegetazione, Nick lasciò andare il freno e la macchina imboccò a razzo uno stretto tunnel con non più di sessanta centimetri di spazio ai lati. Con una slittata e un sussulto, si fermarono. Nick spense il motore, e si girarono tutti e due a guardare indietro. La Metro superò l'entrata della galleria a velocità così alta da sembrare una pagina di un vecchio libro di figure animate per bambini; sarebbe bastato un batter di ciglia per mancarla. Nick si sporse dal finestrino aperto per ascoltare, ma riuscì a sentire soltanto il lugubre ululato del vento nel
tunnel; allora abbassò gli occhi e vide che le ruote erano affondate fino ai mozzi nella sabbia molle. Alice stava guardando fuori dalla sua parte. «Riusciremo a disincagliarci?» domandò. «Non ne vale la pena» rispose Nick aprendo lo sportello. «Da qui possiamo proseguire a piedi.» Entrambi dovettero scivolare fuori nello spazio angusto fra la macchina e la parete della galleria; ormai largamente in disuso, era destinata solo ai pedoni, e l'auto la bloccava quasi del tutto. Emergendo alla luce e sulla spiaggia se la lasciarono alle spalle, in agguato come una bestia in una caverna, con gli odori di olio bollente e gas di scappamento che le aleggiavano intorno come bizzarri e persistenti feromoni. Il vento era freddo e tagliente e corroborante. Alice si tolse le scarpe e le tenne in mano, controllando la sabbia asciutta davanti a sé per evitare vetri rotti o merde di cane. Da quelle parti c'era abbondanza delle due categorie, ma quando superarono la prima linea di dune la sabbia cominciò a diventare pulita. Scesero faticosamente, con la sabbia che scivolava sotto i loro piedi e li attirava in basso come un'ondata, e raggiunsero un sentiero battuto largo appena quanto bastava per un solo veicolo. «Oltre la prossima altura» promise Nick, e la promessa si avverò. I cottage sulla spiaggia si trovavano circa quattrocento metri più avanti, proprio come aveva detto. Sembravano sospesi fra la vasta riva del mare e l'ancor più vasto cielo, con la lunga spiaggia davanti e il terreno ondulato e instabile dietro. Sgangherati e precari a vedersi, aspettavano che il mare e la sabbia risolvessero le loro divergenze in modo che l'uno o l'altra potesse finalmente reclamarli. Dalla canna fumaria riparata con lastre di lamiera del terzo edificio della fila, si levava un filo sottile di fumo. Nick annuì, come se fosse quello che si aspettava. «Lo stesso posto, perfino» commentò. «Di quando?» «Entrammo là dentro, una volta. Per sfida. Johnny mi disse che era pieno di fantasmi, e io gli credetti. Poi gli raccontai una storia di gente che era entrata ed era letteralmente svanita, e lui ci credette.» Alice avanzò. «Lo farò uscire» disse. Nick la chiamò, ma non riuscì a fermarla. Lei camminò in avanti allo scoperto e verso la fila di cottage, e Nick non ebbe altra scelta che seguirla.
Quando arrivò a portata di voce, lei cominciò a chiamare Johnny per nome. Nick avrebbe voluto tuffarsi su di lei e tapparle la bocca - non avevano già avuto ammonimenti sufficienti su quello che Johnny poteva fare? - ma non era abbastanza vicino ed era già troppo tardi per richiamarla. Era quasi al cancello, ormai, e Nick tentò in ritardo di estrarre la Webley; s'impigliò nella fodera tagliata della giacca, e stava ancora cercando di liberarla, quando la porta del cottage sulla spiaggia si aprì e Johnny Mays uscì alla luce. Aveva un aspetto orribile. Era pallido ed esangue, con cerchi neri sotto gli occhi. Si era gettato sulle spalle una coperta che gli faceva da strascico quando si muoveva; sembrava lento, concentrato, inspiegabilmente zoppicante. Con un'intensità di concentrazione che sembrava quasi dolorosa, si diresse verso Alice. Lei non indietreggiò. «Adesso, Nick» disse in tono incalzante. «Fallo adesso.» Nick esitò, e i nervi di Alice cedettero. Indietreggiò di scatto, rischiò di inciampare e poi corse a rifugiarsi dietro di lui. Johnny continuò ad avanzare. Devastato com'era, sembrava inarrestabile; come un cadavere vivente in un grottesco film dell'orrore, animato da un'ossessione che trascendeva la morte. «Cristo, Nick» disse Alice «fallo!» Johnny cominciò ad accasciarsi. Era già in ginocchio quando Nick si mosse e lo sostenne per le spalle prima che cadesse faccia avanti sul terreno. Alice rimase a guardare, col viso che tradiva lo sbalordimento mentre Nick aiutava Johnny a rimettersi in piedi. «Dammi una mano» le disse Nick. «È ferito.» Ma lei si limitò a seguirlo mentre guidava Johnny all'interno. «Gli avresti permesso di raggiungermi» disse. «Per fare cosa? Guardalo.» Lei non volle superare la soglia quando Nick accompagnò Johnny fino al letto. La casa era un disastro; tutti i cassetti e gli armadi erano stati aperti, e tutto il contenuto era stato rovesciato sul pavimento. Johnny si stese, con un ansito di sollievo. «Dovrebbe essere curato» disse Nick. «Pensaci tu» ribatté Alice con freddezza. «Non voglio stare qui dentro con lui.» Poi gli voltò le spalle e uscì dalla casa.
Stava già allontanandosi lungo il sentiero quando Nick arrivò alla fine del vialetto del giardino; unì le mani a coppa e le gridò: «Non esiste un telefono per chilometri e chilometri!» Ma lei non si voltò né guardò indietro, e nemmeno diede segno di aver sentito; continuò soltanto a camminare, figura solitaria in un paesaggio deserto, che si allontanava e probabilmente usciva dalla sua vita per sempre. Voleva rincorrerla, scusarsi, spiegare in qualche modo. Ma non avrebbe dovuto avere esitazioni... E, pensando a Johnny, Nick esitò. Con gesti stanchi, rientrò in casa. E si trovò a guardare la canna della sua rivoltella carica. «Lei non conosce i vecchi posti come noi, eh, Nicky?» disse Johnny. Si era sollevato per metà sul letto; sembrava ancora pallido e disfatto, ma i suoi occhi erano ardenti e vigili. «Mettila giù, Johnny» disse Nick con calma. «Ora basta.» Johnny sorrise a metà. «Non è la verità?» ribatté, e con la mano libera si sollevò un poco di lato e alzò il soprabito per mostrare il fianco inzuppato di sangue. Nick non riuscì a distogliere lo sguardo finché Johnny non lasciò ricadere il soprabito sulla ferita. «Bel colpo» disse Johnny. «Mi spiace di averti insultato. Per un po' ho creduto di aver imparato finalmente il trucco.» «Quale trucco?» disse Nick. La sua stessa voce gli suonava distante, come se provenisse da qualcun altro. «Semplice. Se desideri qualcosa con intensità sufficiente, cominci a credere che non possa fare a meno di accadere. Non dirmi che non ci hai mai provato.» «Non negli ultimi vent'anni. Non è un trucco che si possa imparare, Johnny. Puoi imbrogliare soltanto te stesso.» Johnny sorrise di nuovo, anche se era più che altro una smorfia di dolore. «Il buon vecchio Nick» disse. «Mi corregge sempre. Mi rimette sempre sul binario giusto. Dov'eri, tutte le volte che ho avuto bisogno di te?» «Avevo altri impegni, Johnny.» «Ma ora sei qui.» «Sì» rispose Nick, e tese la mano per avere la pistola. «Su, andiamo.» Ma il sorriso di Johnny svanì mentre armava il cane, e Nick si fermò di colpo. «Non è ancora finita.»
31 Se n'erano già andati quando Bruno fece entrare il Gruppo di Supporto Tattico, poco più di un'ora dopo. Dopo aver lasciato la casa sulla spiaggia, Alice aveva attraversato la linea ferroviaria abbandonata ed era ridiscesa sulla strada; pochi minuti dopo aveva fermato la Metro bianca della polizia, che stava tornando indietro lentamente in cerca dell'auto a nolo svanita. La conducente, una donna poliziotto bionda e robusta, aveva ascoltato la storia di Alice e aveva afferrato la radio. Bruno e i suoi uomini avevano raggiunto il posto in meno di mezz'ora; il carrozzone dell'emergenza aveva cominciato ad arrivare quasi subito. C'erano auto, c'erano furgoni, c'erano cani, c'era un'ambulanza; Bruno aveva mandato avanti un paio di esploratori a sorvegliare la casa dalle dune senza farsi vedere, ma aveva tenuto tutti gli altri dalla parte del binario che dava sull'interno finché non era stato pronto a muoversi. Gli osservatori non avevano visto nessun movimento, non c'era stata risposta quando Bruno aveva usato l'altoparlante; e quando due squadre armate eseguirono un approccio al coperto con ingresso simultaneo dalle due parti dell'edificio, si trovarono l'una di fronte all'altra. «Non possono essere andati lontano» disse il sergente del plotone a Bruno. Erano fermi in mezzo al caos che Johnny aveva fatto nel salotto; in alto, gli uomini della squadra si stavano arrampicando sul tetto per controllare eventuali nascondigli. «Non sono venuti dalla nostra parte, quindi devono essersi addentrati ancor di più nel promontorio. Se vuole il mio parere, sono intrappolati come un paio di scarafaggi in un barattolo.» «Non perda tempo in chiacchiere» disse Bruno. «Faccia isolare il promontorio da una costa all'altra e cominci un rastrellamento. Dobbiamo prenderli prima di sera.» Il sergente guardò dalla finestra, verso il mare. «E se ci fosse qualche rifugio al largo della costa?» «Non voglio sprecare tempo ad aspettare» disse Bruno. E non vedo grandi possibilità che uno dei due cammini sulle acque, no? Uscì all'aperto. Avrebbe potuto andare meglio, avrebbe potuto andare peggio. Dal lato negativo: Mays, Frazier e un'arma non registrata. Dal lato positivo: una lunga striscia di terra che si restringeva spingendosi in mare per circa sei chilometri, senza nessun posto in cui rifugiarsi. Li avrebbero incalzati fino alla punta, se necessario. Un supporto dall'aria sarebbe stato di aiuto; era
stato promesso, ma finora l'elicottero militare era ancora a terra in una base aerea a un'ottantina di chilometri per lavori di manutenzione. Quello, e il fatto che la squadra tattica era fuori per un'esercitazione senza nessuna attrezzatura quando avevano ricevuto la chiamata, avevano cominciato a dare a Bruno la sgradevole sensazione che niente sarebbe filato liscio come probabilmente sarebbe apparso sui giornali la settimana seguente. "Per amor di Dio" pensò "che sia una faccenda pulita." Jennifer aspettava vicino alla macchina, secondo le istruzioni. «Sta bene?» le domandò, e lei annuì. «Ha ricavato qualcos'altro di utile dalla donna?» «Solo che a quanto pare le piacerebbe davvero vedere un finale alla Bonnie e Clyde» rispose Jennifer. «Non ho nessuna ragione per amare Johnny Mays, ma vicino a lei mi sento Madre Teresa.» «E su Frazier?» «Lei pensa che Nick potrebbe schierarsi da una parte o dall'altra? Non so che dire.» Bruno si guardò attorno. Uomini in giubbotto antiproiettile sciamavano dovunque sulle dune; alcuni imbracciavano fucili ad alta precisione con mirino telescopico, altri portavano armi bianche. Un paio di pastori tedeschi grossi e irsuti tiravano il guinzaglio degli istruttori e si divertivano più di quanto facessero da secoli. Da quanto aveva sentito alla radio della macchina, uno dei furgoni si era già insabbiato avvicinandosi. «Si attacchi all'altoparlante» disse a Jennifer. «Voglio che tutto sia spostato giù ai crocevia. Possiamo installare una base e fare almeno finta di essere organizzati.» Jennifer si mise all'opera. Il posto che Bruno aveva in mente era uno di quelli che avevano superato arrivando lì; il Bluebell Shop and Café, costruito nell'anno 1837, a 534 metri dal mare. Potevano mettere in allarme i proprietari e installare un centro di comando, e magari pensare seriamente a una minestra e due o tre panini al bacon. Poteva anche darsi che tra mezzora Frazier e Mays fossero seduti nel retro di una Land Rover, ma Bruno non ci avrebbe scommesso. Aveva partecipato a un gran numero di operazioni e aveva notato una sola regola comune; che la perversità degli avvenimenti contrari al senso comune tendeva al massimo. Dentro di lui, Bruno si stava già preparando alla notte. Non faceva mai male prepararsi al peggio. E dopo tutto, non era ancora detto che sarebbe andata proprio così.
«Che cavolo è questa?» domandò Johnny. «È una rete, Johnny.» «Lo vedo da me che è una rete, ma che ci fa qui?» Avevano raggiunto il confine della riserva naturale della penisola, e Johnny stava fissando la rete come se fosse piovuta sulla Terra da un'astronave di passaggio. La spinse, e la rete rimbalzò elastica all'indietro. Lui scosse la testa, come se non riuscisse semplicemente a crederci. «Ho tentato di dirti che niente è rimasto lo stesso» osservò Nick. «Anche quello che sembra come una volta, ce lo siamo lasciato tutto alle spalle. Non c'è modo di tornare indietro, Johnny. Non nel modo a cui stai pensando.» Ma Johnny scuoteva ancora la testa, come se non volesse accettare quello che sentiva. Teneva la Webley nell'altra mano, penzoloni lungo il fianco come se gli stancassse il braccio. Nick non riusciva a capire da dove attingeva l'energia; considerando il suo stato, Johnny sarebbe dovuto essere lungo disteso, circondato da persone che si sforzavano di tenerlo in vita. Invece sembrava consumarsi dall'interno, splendendo come un bengala; e Nick aveva il sospetto che, come in un bengala, la fine del processo non avrebbe lasciato niente che valesse la pena di salvare. «Andiamo» disse Johnny, e si lanciò sulla rete. Era alta non più di un metro e sessanta; i ragazzi che erano stati un tempo l'avrebbero scavalcata in pochi secondi riportandone appena qualche graffio. Johnny si arrampicò e si dibatté e si issò in alto; la presa sulla Webley non facilitava le cose, ma lui riuscì a tenerla stretta. Nick poteva solo restare indietro a guardare. Poteva voltarsi e allontanarsi, e Johnny non avrebbe potuto farci niente. Invece rimase. Johnny ormai era in cima e tentava di scendere, ma era rimasto impigliato. Il soprabito era per metà dall'altra parte, cosicché più si dibatteva, più s'impigliava. Si fermò un attimo e rimase appeso alla rete come una grande falena. «Nick» invocò, ancora deciso ma senza fiato. «Sono impigliato, Nick. Mi serve una mano.» E così Nick scalò la rete metallica, si lasciò cadere dalla parte opposta e poi si protese in alto per liberare Johnny. Lui si abbatté ai piedi della rete. Sembrava eccitato, ma Nick sapeva che doveva essere quel tipo ingannevole di euforia che colpisce un subacqueo
poco prima che l'aria si esaurisca. «Ascolta, Nick» disse Johnny. Nick ascoltò. In lontananza, poteva sentire abbaiare. Johnny disse: «Hanno i cani.» «Non c'è dubbio.» «In realtà prova quanto ci stimano, non ti pare?» «Credo che ne farei volentieri a meno.» Johnny riuscì a risollevarsi un po'. «Siamo tu e io contro il resto del mondo, Nick, proprio com'è sempre stato. Sai che cosa penso? Penso che esiste un modo per tornare indietro, dopo tutto. Non è questa la prova?» Nick non disse niente. Johnny lo guardò. «Lo sento, Nick. È come la risposta a tutto, ed è appena più in là della nostra portata. Abbi un po' di fede, Nick, ti prego.» Nick guardò indietro oltre la rete. «E se invece ti raggiungono prima?» Il viso di Johnny era serio. «Allora sono carne da cani, Nicky, lo sai.» Si rialzò barcollando, e fece segno a Nick di seguirlo. E lui obbedì. Lunga sei chilometri e mezzo, larga in certi punti appena duecento metri; chiunque avesse dato un'occhiata a quella lingua di terra avrebbe pensato che era l'ideale per stanare qualcuno, ma si sarebbe sbagliato. Per dirne una, c'era la macchia; era fitta e a tratti alta, e ciò significava che si poteva passare a pochi metri da qualcuno senza nemmeno vederlo. Se quel qualcuno non voleva essere trovato, non doveva fare altro che cercare un buon nascondiglio e restare in silenzio per un po' e, a meno che il cacciatore non avesse fortuna, era quasi come se possedesse un mantello che rendeva invisibili. L'altro problema risiedeva nella conformazione della terra stessa; non esistevano linee rette, non esistevano superfici piatte, e lo scenario sembrava cambiare in modo radicale almeno tre o quattro volte per chilometro. La tattica migliore, secondo Johnny, era guadagnare terreno il più possibile prima che la caccia fosse organizzata sul serio. Il primo tratto sarebbe stato il più rischioso - lì la striscia di terra toccava il punto più stretto ed era stata in gran parte liberata dalla vegetazione al tempo della guerra, quando erano state gettate parecchie basi in cemento per le baracche Nissen dove il terreno era più o meno pianeggiante - e quindi puntò in discesa verso la strada. Era asfaltata per i primi cento metri o poco più, ma ben presto cedeva il posto a una pista approssimativa fatta di lastroni in cemen-
to. Nick lo seguì, pensando che bastava che un paio di uomini su un solo automezzo varcassero il cancello e sarebbe finito tutto; ma mentre una parte di lui sperava che accadesse, un'altra parte sperava con altrettanto fervore che non accadesse. Era questa seconda voce a sorprenderlo di più; non il fatto che esistesse, ma che fosse rimasta silenziosa dentro di lui per tanto tempo. Nick sapeva che non c'era modo di riportare indietro l'orologio, non come voleva Johnny. Ma lo seguiva ugualmente. In un paio di minuti raggiunsero un punto dove la strada si biforcava; c'era una nuova strada d'asfalto liscio e c'era quella vecchia pista in disuso, che spariva in una larga pozzanghera e sotto mucchi di fango e terriccio. La nuova strada deviava a destra, la vecchia proseguiva sulla sinistra. Senza esitazione, Johnny sguazzò attraverso la pozza e si arrampicò sui mucchi di terriccio. Più in là, la pista era stata lasciata in balia della ginestra spinosa, della gramigna e della bardana; Johnny vi si tuffò in mezzo come un orso in uno stagno, tenendo le mani alzate per evitare l'ortica pungente e sbandierando la Webley come una specie di totem. Quando Nick guardò indietro dopo qualche metro, si accorse che la sterpaglia era ritornata più o meno al suo posto dietro di loro. Perfino Tonto avrebbe fatto fatica a ritrovare la loro pista. Il sentiero li portò quasi fino alla spiaggia; in quel punto c'erano vecchie trappole per carri armati, blocchi appuntiti di cemento rinforzati con pietre e fil di ferro arrugginito. Erano semisepolti nella sabbia soffice come blocchi di antiche piramidi, monumenti a faraoni morti da tempo; e per giunta faraoni tirchi, a giudicare dalla qualità del cemento. I detriti arrivavano in alto con la marea e poi si arenavano intorno e dietro di essi; bottiglie vuote di shampoo, taniche di plastica azzurra, bombolette spray e un grosso fusto di latta così ammaccato e arrugginito che era impossibile capire che cosa avesse contenuto. Scesero scivolando sulla spiaggia. Johnny si voltò di scatto per fronteggiare Nick, rapido e sveglio. Troppo sveglio. Guardandolo in faccia, Nick si sentì molto spaventato per lui. «Ecco il piano, Nick» gli disse. «Ci spingiamo avanti il più possibile adesso, e poi ce ne stiamo rintanati fino a sera. Dovunque possiamo, controlliamo le spiagge.» «In cerca di cosa?» Ma Johnny non rispose. Si stava già voltando e proseguiva il cammino
lungo la spiaggia. Per un tratto fu faticoso. Videro uccelli sorpresi dal loro passaggio levarsi dalla macchia ai margini del terreno. Videro rami d'albero privi di corteccia e sbiancati dal mare. Trovarono un pullover perso chissà quando da un marinaio, trovarono un guanto di tela da pescatore, con le dita rinforzate; videro perfino una ruota di trattore completa, con il bordo esterno sepolto per metà e il centro pieno di schisto fine, come il setaccio di un cercatore d'oro. «Considerando questa collezione di oggetti bizzarri e fantastici» disse Johnny «trovare una barca a remi non sarebbe chiedere troppo, vero?» Ora Nick capiva. Una volta avevano trovato una barca a remi dipinta di azzurro arenata sulla riva verso terra. Mentre si avvicinavano era sembrata completa, ma poi girandoci intorno avevano visto che gran parte della fiancata opposta era scomparsa. Pareva che fosse stata addentata, sbranata e poi sputata da Behemoth il Mostro Marino, e le sue costole di legno erano ricoperte di sabbia della spiaggia. Ma era passato molto tempo. Ormai non c'era niente là che li portasse via in quell'Avalon che attendeva i bambini sperduti e quelli in cerca della loro identità di un tempo. Nick lanciò un'occhiata indietro. Aveva appena colto un'eco da un punto verso la terraferma; sembrava un altoparlante, anche se non riusciva ad avere un'impressione chiara di quello che veniva detto, e gli rivelava che la ricerca si andava restringendo. Anche Johnny l'aveva sentito. «Non è stupenda la tecnologia?» disse, e con la Webley accennò a Nick di proseguire. Risalirono a fatica la parte più alta della lingua di terra superando il letto asciutto di un ruscello, ricoperto di felci, e arrivati in cima s'imbatterono nella prima traccia del passaggio della vecchia ferrovia. Ne restava poco più che traversine di legno argenteo quasi sepolte e sgretolate. Sembravano orientate in una direzione folle, perché puntavano come una freccia verso il mare; Johnny le seguì e poi cominciò a scendere, dirigendosi evidentemente verso l'altra riva. Nella baia c'era bassa marea. Era ampia e piatta come uno specchio infinito, il mare lontano che sfumava nel cielo lontano con la massa della terra distante a segnare la linea di demarcazione fra i due. Si accovacciarono vicino alla strada mentre Johnny controllava in tutt'e due le direzioni, e poi si lanciarono attraverso la macchia spinosa come due conigli. Johnny incespicò mentre correva, ma si riprese e proseguì senza aiuto. Si fermarono un attimo a riposare, ai piedi di uno dei pali della luce che
fiancheggiavano la via verso il faro lontano sulla punta, come croci romane sulla via Appia. Johnny si accasciò a terra, ansimando, con la schiena appoggiata al palo. Nick si accovacciò vicino a lui. «Ti stai uccidendo, Johnny» gli disse con serietà. Johnny per un attimo non riuscì a parlare, così scosse la testa due volte con forza per compensare. «Sto benissimo» riuscì a dire infine. «Sì, lo vedo.» «Sto benissimo» insistette Johnny. Ci misero quasi quattro ore a coprire gli ultimi tre chilometri. Le soste di Johnny per riposare diventarono più frequenti, e duravano più a lungo. Rimasero per un po' sotto i resti di un ponte a trespolo sul quale era passata la ferrovia scomparsa, e sentirono Bruno all'altoparlante pattugliare la strada a meno di venti metri e lanciare appelli a loro perché si consegnassero. Oltre alla linea ininterrotta di uomini che avanzavano verso l'esterno dalla terraferma, c'erano pattuglie di ricerca che si diramavano a caso dalla strada; una arrivò vicino a scoprirli, ma Nick e Johnny avevano trovato un osservatorio ornitologico crollato, fatto di vecchie assi e lamiera ondulata, e vi si erano rintanati tirandosi sopra il tetto di lamiera appena il gruppo di ricerca si era allontanato dalla strada sottostante. I due avevano trattenuto il respiro quando uno dei cercatori era passato incespicando fra la sterpaglia a un tiro di sasso, ma l'uomo non aveva visto niente. Un'altra volta si nascosero dentro una garitta di cemento con le finestrelle alte chiuse da tavole di compensato, che era stata così completamente riassorbita dalla sabbia e dalla vegetazione da svanire quasi come un tempio maya nella giungla; là Johnny si sedette con la fronte appoggiata alle ginocchia, e quando Nick tentava di parlargli pareva che non lo udisse nemmeno. "Basta" pensò Nick e si alzò, con l'idea di raggiungere la strada e aspettare la prossima pattuglia; ma era arrivato appena alla porta quando sentì il caratteristico suono del cane della Webley che veniva armato, e senza neanche guardare Johnny tornò indietro e riprese il suo posto contro la parete. Nessuno dei due disse una parola. Nick appoggiò la testa al cemento per riposare, e si chiese quale fosse lo scopo originario della conchiglia di cemento che offriva loro riparo. Era come tutte le altre cose che avevano visto fino a quel momento; l'intera penisola sembrava un posto di intenzioni perdute e smottamenti e duro lavoro disfatto dal tempo. Guardò Johnny, piegato in due e sfinito, e si chiese di nuovo che cosa esattamente si aspettava di trovare. Per qualche istante appena, là dentro, si lasciò trasportare
dalla fantasia; riuscì quasi a credere che quello che aveva scambiato per un mondo di ombre fosse invece un mondo di verità assolute, che Johnny fosse morto e in qualche modo fosse riuscito a fuggire dall'inferno per una breve evasione, e che mentre lui fuggiva, i demoni si erano scatenati nella caccia per riportarlo indietro. Vide se stesso scendere sulla strada e alzare la mano per fermare la pattuglia di passaggio; e l'autopattuglia si sarebbe accostata lungo la strada, e lui si sarebbe trovato di fronte una BMW striata di alghe che conteneva quattro facce cadaveriche illuminate dal verdastro bagliore infernale del cruscotto. Senza aprire gli occhi, Johnny disse: «Dovrei uccidermi. Sono morto in ogni caso, dopo quello che ho fatto, lo sai.» Per un momento, allora, Nick fu convinto che Johnny gli avesse letto nel pensiero. Ma la verità era che Johnny sembrava non avere nemmeno la forza di leggere un giornale. Nick disse: «Questo non è vero, e tu lo sai.» Johnny aprì un occhio solo. «Lo credi?» «Lo credo.» «Non voglio dire che mi faranno fuori. Ma mi ficcheranno in una stanzetta con una grossa serratura alla porta. Probabilmente mi imbottiranno di droga e diventerò vecchio guardando Fraggle Rock e mangiando con una forchetta di plastica. Verrò picchiato dalle infermiere e probabilmente rivedrò la luce del sole una volta al mese. Non sto dicendo di meritare una vacanza, Nick. Ma non credo di poter sopportare questo.» Poi tirò un respiro profondo, che sembrò rianimarlo un po'; quanto bastava, in ogni caso, per consentirgli di alzarsi in piedi e fare un passo per ritrovare l'equilibrio mentre i suoi giroscopi si rimettevano in funzione in ritardo. «È ora di riprendere la marcia, Nicky» disse, barcollando verso l'apertura della porta e facendo segno con la pistola, e ancora una volta Nick lo seguì. La luce stava per svanire quando, circa mezz'ora dopo, raggiunsero finalmente il loro rifugio. 32 Jennifer non sapeva con certezza come si sentiva. Partecipare a una grande operazione, lontano dalla base e in una posizione chiave, era fantastico; ma trovarsi confinata nel Bluebell Café a poca distanza dall'azione,
con alcune idee annotate in fretta da Bruno e praticamente nient'altro da fare... be', quello non era affatto fantastico. Divideva la sistemazione con due sergenti in uniforme tanto ansiosi di soffiarle gli incarichi che a un certo punto era stata costretta a esplodere e dire a uno di loro di togliersi dai piedi; non aveva importanza che le fosse superiore di grado, aveva almeno tre anni meno di lei ed era arrossito, poi si era stretto nelle spalle e si era allontanato. Ora loro due probabilmente parlavano di lei ogni volta che usciva per raggiungere uno dei furgoni, e non ci voleva un quoziente d'intelligenza da genio per intuire in che razza di termini. Bene, facessero pure. Lei aveva altre cose per la testa. La salvezza di Nick, per esempio. E Alice Craig, per dirne un'altra. Jennifer sapeva che era assurdo, ma non poteva fare a meno di pensare ad Alice come all'altra donna, quella che le aveva portato via Nick; non contava il fatto che fosse stata Jennifer a mettere Nick alla porta, e che soltanto in seguito loro due si fossero ritrovati. Forse era quello il problema. Loro avevano una storia, un posto dove andare, in cui Jennifer non avrebbe mai potuto avere accesso. In quel momento Alice era seduta in un angolo del Bluebell, in fondo, vicino alla vetrata. Se si era accorta dell'attenzione di Jennifer, non lo dimostrava. Stava semplicemente seduta al tavolo, col mento appoggiato alle mani, guardando fuori le varie squadre e plotoni che si riunivano e ascoltavano gli ordini e controllavano le armi. Giubbotti antiproiettile, caschi, fucili, mirini telescopici, pistole, perfino rivelatori a raggi infrarossi che potevano scrutare nella vegetazione più fitta; vista da lì, sembrava la più memorabile delle cacce alla tigre. La seconda ondata di agenti stava per partire quando Jennifer andò a portare una radio di scorta alla squadra sul campo, laggiù nel punto in cui un tempo sorgevano le baracche Nissen. La strada era stretta, a una sola corsia, e non c'era spazio per passare. Lei suonò il clacson per informarli che era lì; probabilmente con i caschi affibbiati e la visiera abbassata non l'avevano sentita avvicinarsi. Si spostarono per far passare la macchina, ma se la presero comoda e lei sentì qualcuno battere un colpo sul tetto quando cominciò a riprendere velocità. Lanciò un'occhiata allo specchietto. Gli uomini sembravano un esercito cupo di macchine ancor più cupe, mentre tornavano a serrare i ranghi sulla strada. Quando tornò al Bluebell, il tavolo di Alice Craig era deserto. «Dov'è andata?» domandò. La donna non era esattamente affidata alla responsabilità di Jennifer, ma lei era l'unica che se ne fosse occupata fino ad allora. I due sergenti la guardarono senza espressione.
«Non è fuori?» disse uno di loro. «Lo chiedo a voi. Ha detto qualcosa?» Uno dei due scrollò le spalle. L'altro si allontanò. Non era un problema loro. Così Jennifer uscì e andò verso il crocevia sabbioso per guardarsi attorno. C'erano furgoni della polizia e personale di polizia e la Land Rover della guardia costiera che era appena arrivata. Sulla strada del promontorio c'era una barriera temporanea e due auto parcheggiate di traverso per rinforzarla, ed era tutto. Quando si voltò per rientrare nel caffè, vide che uno dei due uomini l'aveva seguita fuori. Era il più giovane, quello al quale aveva fatto quasi una scenata. Sembrava leggermente imbarazzato. «Ha detto qualcosa, per la verità» ammise. «L'ha sentita?» «L'ho afferrato appena. Guardava la squadra in partenza e poi si è alzata e ha detto qualcosa, del tipo che avrebbe fatto quello che era venuta a fare. Poi è uscita.» «Non l'avete fermata?» «Dove poteva andare?» Con il promontorio sbarrato e la spiaggia vietata, poteva soltanto allontanarsi a piedi. Jennifer guardò lungo la strada. Era lunga e diritta. E, per quanto poteva vedere Jennifer, era deserta. «Quella è per noi, Nicky-boy» disse Johnny. Erano quasi arrivati in fondo alla punta; ancora quattrocento metri o poco più, e non avrebbero avuto nessun altro posto dove andare. Poco più indietro, lungo il promontorio, la linea dei battitori avrebbe continuato ad avanzare a ritmo costante. Ora il giorno cominciava a scivolare via, per cui si rannicchiarono sulla terra sempre più scura sotto un cielo di madreperla; guardarono in basso la spiaggia, nel punto scelto da Johnny come nascondiglio a breve termine, il posto in cui avrebbero potuto scomparire fino a buio fatto. Poi, secondo i calcoli di Johnny, sarebbero potuti uscire come un paio di pipistrelli per coprire la distanza rimanente lungo la spiaggia fino alla punta. Se avessero tentato prima, quasi certamente li avrebbero visti; la spiaggia non offriva nessuna possibilità di riparo, una volta allo scoperto. «Oh, certo» disse allora Nick. «Ora sembra magnifico, ma manterrà il suo valore quando vorremo venderla e tornare nel mondo civile?»
Proprio sotto di loro sorgeva una linea di fortificazioni in cemento, ciascuna più alta di un uomo e probabilmente del peso di un piccolo autocarro. Diventavano sempre più nere e coperte di muschio via via che si avvicinavano alla linea dell'acqua. Poco più in là, proprio al limite della terra, c'era una tozza scatola posata su una zattera di cemento. La piattaforma era stata pian piano erosa dalla marea, cosicché l'intera struttura si era inclinata verso il mare come una grande lastra di ghiaccio fluviale. «Non c'è un minuto da perdere, Nicky» disse Johnny, e si alzò vacillando per avviarsi a passi incerti verso la scatola. Agli occhi di Nick cominciava a sembrare uno spaventapasseri folle, una creatura uscita da un incubo. Non poteva fare a meno di pensare che, qualunque cosa Johnny credesse d'inseguire, avrebbe sempre ballato appena al di là della sua portata mentre lui si sforzava di ricordarne il nome. La scatola non aveva porta. All'interno, il pavimento fortemente inclinato era coperto di sabbia. Le finestre erano strette feritoie sotto le quali c'erano cavalletti per mitragliatrici coperti di ruggine, e sull'ottagono di mura qualcuno aveva graffito nomi e date con le chiavi, o forse con monete. Per quanto Nick riusciva a vedere a quella luce scarsa, nessuna delle date sembrava risalire a più di un anno prima. Evidentemente i segni svanivano in fretta. Johnny si lasciò cadere a terra vicino a una delle finestrelle, da cui poteva guardare verso la riva. Si stese, e Nick si sistemò dalla parte opposta. «Dannazione» disse Johnny sbirciando fuori nel crepuscolo incombente. «Che cosa c'è?» «Avremmo potuto organizzare un picnic.» Nick non poteva quasi credere alle sue orecchie. «Sei veramente troppo» disse. «Lo so» ammise Johnny «lo so.» E poi, un istante dopo, aggiunse: «Ma dovremmo lo stesso organizzare un picnic. Qualche panino, un paio di Wagon Wheels...» «Potremmo presentarci a una delle pattuglie. Ci darebbero da mangiare.» «Non se ne parla.» «Be', valeva la pena di tentare.» «Sì, buona questa, fatti venire altre idee.» Johnny fece una lieve smorfia mentre si aggrappava al cavalletto della mitragliatrice e cambiava posizione, ma appena si fu rimesso comodo lanciò un'occhiata in tralice a Nick. «Sono contento che tu sia qui con me» disse. «Bene, almeno uno di noi lo è.»
«Nessuno ti costringe a restare.» «Andiamo» disse Nick, e indicò la Webley che Johnny non mollava da quasi quattro ore. «Che mi dici di quella?» Johnny sollevò la pistola e la guardò come se avesse dimenticato che la impugnava. Disse: «Questa? Avresti potuto riprenderla in qualsiasi momento avessi voluto. Ho perso il conto delle volte che ci hai rinunciato. Tieni.» E senza il minimo segno di preoccupazione lanciò la rivoltella attraverso il bunker. Nick la prese al volo, goffamente. Johnny aggiunse: «Sono stufo marcio di portarla. Mettila da qualche parte al sicuro per me.» Nick esitò per un attimo. Poi rimise la pistola dentro la fodera tagliata della giacca. Osservò Johnny per qualche minuto. Sembrava più o meno a suo agio, in quel momento; teneva ancora la mano aggrappata al cavalletto per maggior sicurezza - il tappeto di sabbia e la pendenza del pavimento rendevano facile scivolare e finire ammucchiati contro la parete più in basso - ma si era rilassato, per quanto era possibile. La morbida luce serale cancellava dal suo viso alcune delle linee dure, e le ombre sempre più fitte nel bunker facevano il resto. Per il momento, almeno, era di nuovo Johnny. Nick domandò: «Come va il fianco?» «Sto cercando di non pensarci.» «E funziona?» «Aiuta.» Guardò fuori ancora per qualche altro istante. E poi cominciò a cantare piano, fra sé e sé. Passò un istante prima che Nick riconoscesse la melodia. Johnny storpiava ancora le parole, e lo sapeva; stava semplicemente aspettando che Nick si unisse a lui. Ogni notte me ne sto qui seduto alla finestra, guardando fuori, solo come un... Nick riuscì ad accennare un sorriso, scuotendo la testa e coprendosi gli occhi per un attimo. Quando li riaprì, fu per vedere Johnny che lo guardava di sottecchi e sogghignava. «Non arriverò mai più avanti di così, lo sai» disse Johnny. «È quello che temo.» Johnny riportò la sua attenzione sul paesaggio all'esterno. «Se qualcuno ti dice che esiste qualcosa come la pace, non crederci. Il massimo che puoi aspettarti nella vita è restare un passo avanti agli altri.»
«È tutto qui?» «A meno che non riesci a trovare qualcosa di meglio.» Un breve lampo di dolore gli passò sul viso quando cambiò leggermente posizione, ma appena si fu sistemato sembrò passare. «Lo sai che ti ho sempre invidiato» disse. «Tutto quello che desideravo, tu lo avevi. E non sto parlando di cose che si possono comprare.» «Ora stai facendo una trave di una pagliuzza.» «No» ribatté Johnny «non credo. Ti dirò di che cosa mi sarei accontentato, però.» Nick rispose: «Di trovare il marinaio morto sulla spiaggia.» «Sì.» Ma poi Johnny si accigliò. «Come facevi a sapere che avrei detto quello?» «Ho tirato a indovinare. Non era difficile, Johnny.» «Forse non ora. Non da qui. Ma per un po', laggiù a Smallville tu sei stato il re della città. Mi faceva male quando ci pensavo. Ti dirò una cosa che non ho mai detto a nessun altro, Nicky. Io detestavo essere un bambino.» «Chi non lo detestava?» «No, voglio dire sul serio. Quando sei un bambino, hai tutto, tranne il potere. Non vedi l'ora di crescere e realizzare tutte le cose che sogni, perché senza il controllo non sono altro che quello, sogni. Essere un bambino è peggio che stare in prigione. Non importa quanto credi di essere speciale, sei dentro con gli altri, che ti assillano finché non riescono a spegnerti tutto quello che hai dentro. Io non volevo che succedesse questo. Volevo davvero diventare qualcuno. Ma prima ci sei stato tu e la spiaggia, e poi c'è stata Alice. Immagino che te lo abbia raccontato.» «Mi ha detto che vi eravate lasciati, nient'altro. Capita a tutti.» "E ad alcuni di noi più spesso che ad altri" pensò di aggiungere Nick, ma non lo fece. «Ma non a me, Nicky, mai a me. Io sono Johnny Mays. È stato come se la terra mi si aprisse sotto i piedi, e quando ho guardato nell'abisso mi è sembrato che si estendesse all'infinito. Io non ero benedetto, Nicky. Dio non mi aveva prescelto per uno scopo speciale, dopo tutto. Almeno con te e il marinaio era stato un puro caso, non era qualcosa che tu avessi premeditato contro di me... ma con Alice era diverso. Era come se lei avesse dato una sbirciatina giù in fondo alla mia anima e poi avesse alzato gli occhi, scuotendo la testa e dicendo, no, non va bene. Io l'amavo, Nick. L'amo ancora. Per me non ha importanza che sia morta.» «Non è morta.»
Johnny non afferrò subito il significato di quelle parole, Nick se ne accorse. Ci vedeva sempre meno, a mano a mano che la luce svaniva, ma era impossibile fraintendere l'incomprensione ottusa nello sguardo di Johnny all'altro capo del bunker. Nick aggiunse: «Tu sei così frastornato da sensi di colpa e fantasie che non riesci a ricordare chi hai ucciso e chi no.» «L'ho vista cadere.» «Era un'altra.» Lo sguardo di Johnny non vacillò. «Dimmi che mi stai solo prendendo in giro, Nick. Dimmi che questo è soltanto un trucco.» «Nessuno ti sta prendendo in giro.» Finalmente il messaggio arrivò. Johnny cominciò a tirarsi in piedi, brancolando goffamente. «Lo sai che cosa significa questo?» disse. «Per te non cambia niente, Johnny.» «Sì, invece! Cambia tutto! Significa che non è troppo tardi per tornare indietro.» «E gli altri che hai calpestato lungo la strada?» «Innocenti passanti, Nick. Sai com'è.» Forse fino a quel momento Nick aveva pensato che ci fosse qualcosa da salvare in Johnny; era difficile capire con certezza che cosa pensasse, nel groviglio di vecchie lealtà e insicurezze che avevano impedito a Nick di scegliere la soluzione più semplice: stordirlo e tenerlo prigioniero finché l'ambulanza non li avesse raggiunti. Era andato con lui perché era convinto che, finché non fosse davvero finita, Johnny poteva essere recuperato in qualche modo; ma in quel preciso istante si rese conto che Johnny era davvero perduto. Credeva ancora che, per quanto male avesse fatto, avrebbe potuto continuare a plasmare il mondo soltanto grazie alla forza del desiderio. Bastava dirgli che Alice era viva, nonostante tutto, e la prendeva come una prova. Era un bambino, e aveva potere, e in fondo non sapeva fare altro che distruggere. Una luce fioca inondò il bunker, e scomparve. E poi di nuovo. «È ora di muoversi» disse Johnny. Si spostò e divenne una silhouette sfrangiata sulla soglia al passaggio dell'ondata successiva di luce. Nick si alzò a fatica e uscì dietro di lui, in tempo per vederlo saltare giù dal bordo della piattaforma di cemento sulla sabbia, un metro e mezzo più in basso. Johnny lanciò un grido di dolore quando urtò il terreno e rotolò via, ma quando Nick saltò e scese il pendio seguendo un percorso meno accidentato, Johnny era già in piedi e stava
per metà correndo, per metà incespicando nella direzione del raggio luminoso. Il faro. Johnny era diretto verso il faro; c'era del metodo in quello che faceva, dopo tutto. Ne fosse cosciente o meno, doveva pensare a quella volta che avevano corso per tutta la strada fino al faro nella convinzione di essere inseguiti da alcuni ragazzi più grandi. Nick non riusciva nemmeno a ricordare perché, ma ricordava bene che uno di loro era Billy Burton, il fratello maggiore di Brian. Billy gli era rimasto impresso perché si era rotto la testa in una caduta durante una vacanza sui laghi, un paio d'anni più tardi, ed era sembrato del tutto guarito, finché non era stato colpito da uno spettacolare attacco epilettico dopo essere stato investito dalle luci stroboscopiche alla sua prima serata in discoteca. Come evento significativo di tutta una vita, quell'inseguimento non era niente di speciale; i ragazzi grandi non si erano mai fatti vedere e probabilmente avevano abbandonato la caccia dopo i primi cinquecento metri, ma Nick e Johnny si erano fatti a piedi il resto della strada fino alla torre del faro e avevano bussato furiosamente alla porta. Dopo qualche minuto il guardiano aveva aperto e li aveva guardati con sorpresa; gigantesco (dal loro punto di vista) e barbuto, era un marinaio di navi mercantili, ormai in pensione, che da allora era rimasto per sempre nella mente di Nick come una specie di Babbo Natale marinaro. Non era soltanto a causa del suo aspetto, ma per il fatto che secondo la leggenda non odiava niente più dei bambini - il che dimostrava quanto fossero disperati quando avevano salito i gradini della sua porta - e la leggenda si era rivelata un mucchio di frottole. Li aveva fatti entrare e messi a sedere e aveva ascoltato la loro storia e, dopo averli accompagnati su a vedere la grande luce, aveva avviato la sua Ford Popular e li aveva riportati lungo il promontorio fino al punto in cui avevano lasciato le biciclette nascoste sotto un cespuglio di ginestra spinosa. Billy e gli altri non si vedevano più in giro. La luce passò, come un lento battito cardiaco. La sera scendeva in fretta; il cielo ormai era diventato grigio e greve come piombo martellato su un mare di mercurio, ed era striato da scaglie incandescenti di nuvole disposte in una fascia sottile all'orizzonte. Johnny stava correndo, un'ombra compatta contro la marea che saliva, mentre in alto sopra di lui le prime stelle, le più luminose, cominciavano a trapuntare il cielo. Nick riuscì appena a vedere che Johnny si era incurvato e si piegava un poco sul fianco ferito, col cappotto che gli svolazzava intorno come il mantello di un vampiro.
Poi inciampò e cadde, di schianto, come se gli avessero tagliato i fili. Nick pensò: "Ecco, è finito" ma prima ancora che il pensiero fosse completato Johnny si stava rialzando. Nick lo chiamò per nome. Sapeva che gli altri avrebbero sentito, ma era troppo tardi perché facesse differenza. Johnny era in piedi, e ancora una volta aveva ripreso a correre. Così Nick gli andò dietro, sapendo che, qualunque cosa accadesse, Johnny stava coprendo le ultime centinaia di metri di libertà. Nick lo raggiunse alla base del faro. Johnny era fermo e guardava in alto. L'ingresso era lì, a meno di cinque metri da lui, e la porta era aperta; s'intravedevano all'interno altre porte e un accenno delle stanze al di là. La scala era caduta di lato, ed era quasi sepolta nel fango. Restava solo una parte della piattaforma in cima, marcita sulle putrelle di ghisa che l'avevano sostenuta. Da una di esse pendeva un tratto di grossa corda arancione, muffita e ricoperta di alghe. Le finestre più in alto sulla torre erano state sbarrate, e la lanterna del faro era stata smantellata e rimossa. Nessun guardiano. Nessuna protezione. Nessuna speranza di perdono. Nick disse: «Avrei potuto dirtelo io, Johnny. Lo hanno chiuso e hanno impiantato una nave-faro. Qui non c'è niente da anni.» Johnny fu lento a reagire. Dopo aver guardato in alto la torre scura ancora per alcuni secondi, spostò di scatto la sua attenzione verso il basso. Barcollò per un attimo, fece un passo per riprendere l'equilibrio; e poi, prima che Nick potesse afferrarlo e trattenerlo, si rimise in movimento. Nick lo aveva quasi raggiunto, ma c'era ogni sorta di detriti caduti dalla torre abbandonata affondati nel fango intorno alla base, e fu rallentato da pali della luce e da impalcature che riusciva appena a vedere. Johnny si muoveva come un uomo che corre sull'acqua. Correva verso l'esterno e intorno alla base del faro, e quando Nick lo rivide, era sceso al limite dell'acqua e vi stava entrando. Proprio davanti a lui, circa un miglio marino al largo, c'era la nave-faro che aveva preso il posto del faro abbandonato. Il suo raggio spazzava la superficie mentre Johnny sguazzava per raggiungere la nave, apparentemente senza accorgersi nemmeno delle onde che s'innalzavano intorno a lui. La coscienza tornò quando la prima grossa ondata lo colpì al torace; lo sollevò e lo lasciò ricadere, facendogli quasi perdere l'equilibrio. Nick lo vide barcollare e lo sentì lanciare un urlo; si tuffò per aiutarlo, mentre una seconda ondata travolgeva Johnny.
Cristo, era fredda. Nick lottò contro la pressione della marea, innalzando spruzzi e attingendo a riserve che non sapeva di avere. Johnny stava tornando a galla e si dibatteva, sputando acqua salata, e Nick riuscì ad afferrarlo per il colletto e risollevarlo in aria. Il viso di Johnny emerse. «Che cosa ne pensi, Nick?» disse con ansia. «Posso sistemare tutto, no? Nessuno si è fatto male. È stato tutto uno sbaglio.» Nick guardò negli occhi il migliore amico che avesse mai avuto. E disse, dolcemente: «Certo che puoi, Johnny. Ancora per un po'.» Lo lasciò andare. Johnny ripartì, puntando verso la luce irraggiungibile. L'ondata successiva ruppe la sua andatura, ma non lo fermò. Johnny allargò le braccia per mantenere l'equilibrio, e riprese ad avanzare. Il primo sparo lo raggiunse alla nuca e lo proiettò in avanti. Il secondo lo colpì al corpo, e lo mandò sott'acqua. Ritornò a galla e Nick prese la mira per il terzo, ma si capiva già che non ce ne sarebbe stato bisogno. Era bastato il primo. Nick lasciò ricadere la Webley lungo il fianco. La testa gli faceva male. Si domandò se ci fosse qualcuno a riva che poteva dargli un'aspirina. Quando si voltò a guardare indietro, scorse i fari sulla strada; anzi, da lì poteva arrivare con lo sguardo fino alla curva leggera del promontorio verso la terraferma, e laggiù c'erano altre luci che avanzavano poco oltre la linea della rete di confine. Qualcuno doveva aver sentito gli spari, e probabilmente anche il suo grido. Ma non si sarebbero avvicinati prima di aver formato un cerchio e avere stabilito esattamente che cosa accadeva all'interno. Si voltò di nuovo verso il mare. La marea stava riportando Johnny, che galleggiava a faccia in giù, col sangue scuro che si allargava come una nuvola sotto di lui. Quando raggiunse il fondale basso, riacquistò all'improvviso tutto il suo peso. Era come se cercasse di alzarsi, e la pesantezza del soprabito fradicio lo trattenesse. Fu sollevato e trascinato indietro, sollevato e trascinato indietro, le sue mani artigliarono la sabbia e la sabbia gli sfuggì fra le dita. Nick lo guardò per qualche istante. Poi si voltò, e cominciò a risalire la riva. La sabbia molle che i suoi passi proiettavano all'indietro faceva un suono simile a qualcuno che lo seguisse. Era un suono spettrale. Solo che Nick non lo udiva.
FINE