MARGERY ALLINGHAM MORTE DI UN FANTASMA (Death Of A Ghost, 1934) John Lafcadio... l'uomo che si vide come il primo pittor...
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MARGERY ALLINGHAM MORTE DI UN FANTASMA (Death Of A Ghost, 1934) John Lafcadio... l'uomo che si vide come il primo pittore d'Europa e che noi rimasti riconosciamo come l'ultimo. K.J.R. in "The Times", 16 aprile 1912 Avvertenza Queste storie, i suoi personaggi e tutto il quartiere nelle immediate vicinanze della Piccola Venezia sono frutto della fantasia dell'autrice e non fanno alcun riferimento ad avvenimenti, persone viventi o dati topografici. Nota sul signor Albert Campion Questo giovanotto è un avventuriero nel senso migliore del termine e si direbbe che le sue attività, delle quali io faccio già da molti anni la cronaca, rientrino in due classi distinte. Ci sono quelle che sono state chiaramente picaresche, come nel caso di Mystery Mile, le vicende relative a Pontisbright, pubblicate sotto il titolo di Sweet Danger, e parecchie altre. Ma di tanto in tanto la sua figura ricompare su uno sfondo di difficoltà meno ricche di colore ma forse ancora più drammatiche e gravi, come nella tragedia di Cambridge, Police at the Funeral, e, adesso, nella storia presente. I due tipi di esperienza sono distinti e può essere forse sorprendente che riguardino la stessa persona. Comunque, anche noi, nella maggior parte, abbiamo un lato serio e uno più frivolo e il signor Campion non fa eccezione alla regola. M.A. Lafcadio, John Sebastian. Accademico Reale, n. 1845, m. 1912. Pittore. Entrato nello studio di William Pakenham, Accademico Reale, 1861. Vissuto in Italia 1865-1878. Prima esposizione all'Accademia Reale 1871. Membro dell'Accademia Reale 1881. Accademico Reale 1900. Sp. 1880 Arabella Teodora, f. di sir J. e lady Reid di Wendon Parva, Sussex. Un f., John Sebastian, n. 1890. Morto in guerra 1916. Fra le opere più celebri: Fanciulla alla fonte (National Gallery), Gruppo sotto il sole (Tate Gal-
lery), L'adorata Belle (Louvre), Ritratti di tre giovani uomini (Boston), L'incontro dei Magi e Ritratto satirico (Yokohama), ecc. ecc. Anche Collezione in prestito di quaranta opere distrutta a Mosca 1918. Cfr. Vita e opere di Lafcadio, voll. 1, 2, 3 di Max Fustian. L'iconoclasta vittoriano di Betsy Fragonard. La tragedia di Mosca di Max Fustian. L'uomo Lafcadio di Max Fustian. Biographic d'un Maitre de Peinture à l'Huile di Ulysse Lafourchardière. Weitere Bemerkungen zur Wahl der Bilder von John Lafcadio di Günther Wagner. Dal Chi è nell'Arte di Weber. LAFCADIO, J. Vedi Charles Tanqueray, Lettere a (Phelps, 15 s) Dent: Dizionario degli Autori 1 Interno con figure Esistono, fortunatamente, pochissimi che possano dire d'essere stati presenti a un omicidio. L'assassinio di un'altra persona da parte di chiunque abbia un minimo di cautela, in un mondo civile, tende a essere un affare privato. Forse è proprio questo particolare a fornire la spiegazione dell'incredibile interesse del pubblico per i dettagli anche dei più sordidi e i meno intellettuali esempi di questo crimine, lasciando così sospettare che, ad avere tanta attrattiva, sia il segreto piuttosto che il fatto in se stesso. È dunque un peccato, almeno considerando la rarità estrema dell'avvenimento, che il generale di brigata, sir Walter Fyvie, brillante conversatore e uomo in grado di apprezzare con interesse una distinzione tanto sottile, avesse lasciato il ricevimento nella Piccola Venezia alle sei e venti, dopo aver salutato sulla soglia il suo vecchio amico Bernard, vescovo di Mold, perdendo in tal modo lo spettacolo dello straordinario delitto che avvenne in quel luogo stesso, meno di sette minuti dopo. Come il generale fece notare in seguito, la faccenda fu ancora più irritante in quanto il vescovo, uno specialista delle più raffinate varietà del pecca-
to, non dimostrò di dare il giusto valore a tale fortuna. Alle sei e venti del giorno precedente, e cioè esattamente ventiquattrore prima che il generale incrociasse il vescovo sull'uscio, le luci del salotto al primo piano della Piccola Venezia erano accese, e Belle in persona (la modella de L'adorata Belle, il quadro del Louvre) era seduta vicino al fuoco, in conversazione col suo vecchio amico Campion, venuto a bere una tazza di tè. La casa di un uomo famoso che è già morto da un certo tempo, se è sempre conservata nelle condizioni in cui l'ha lasciata, finisce quasi necessariamente per assumere un vago aspetto da museo se non ha ottenuto quello di sacrario abbandonato, dalle corone appassite e dalle ghirlande in disfacimento. Forse per capire a fondo il carattere di Belle, è significativo il fatto che, nel 1930, la Piccola Venezia fosse rimasta ancora così spiccatamente la casa di John Lafcadio: come se il pittore si trovasse ancora nello studio in fondo al giardino a lottare, bestemmiando e sudando, coi suoi colori, per costringerli a comporre un altro di quei quadri tempestosi che tanto avevano affascinato e turbato i suoi contemporanei di perbenismo. Se la signora Lafcadio non era più la Belle riprodotta sui quadri del marito, era ancora l'adorata Belle. Secondo lei, non essere mai stata bella era un vantaggio: infatti anche ora, e cioè a due mesi dal settantesimo compleanno, il suo volto aperto e rugoso, che ricordava in modo tanto sorprendente il Ritratto della madre dipinto da Rembrandt, conservava il sorriso e la vivacità di chi non ha mai temuto di apparire in una luce meno vantaggiosa. Quel giorno la vecchia signora portava una di quelle cuffie inamidate di mussolina che, fino a cinquant'anni prima, erano l'orgoglio delle contadine normanne. La portava con la disinvolta certezza che fosse un ornamento fuori moda, ma originale e che le donasse in maniera incredibile. L'abito nero era orlato di bianco intorno al collo, e sulle scarpe scollate spiccava vistosamente una fibbia di marassite. La stanza in cui Belle sedeva era altrettanto priva di qualsiasi forma di convenzionalismo. Era una stanza personale, parte di una casa abitata da un vero essere umano, piena di oggetti antichi, ma anche di comode poltrone. A forma di L, questo salotto comprendeva l'intero primo piano della vecchia casa sul canale e anche se niente vi era stato rinnovato dalla guerra in poi, si era salvato dalle eleganti banalità di Morris e dagli orrori del conformismo edoardiano. E Belle si faceva un vanto, affermando che sia lei
sia Johnnie non avevano mai comperato nulla che non fosse di loro gusto; quindi i tendaggi di damasco rosso cupo, per quanto scoloriti, erano ancora meravigliosi; il tappeto persiano, consumandosi, aveva acquistato la morbidezza della seta, e la grandiosa caminiera che occupava tutta la parete stretta della stanza e che proveniva da un altare fiammingo, aveva assunto tonalità più smorzate col tempo e s'intonava perfettamente col muro gialliccio. La cosa più strana era che lo schizzo di Réjane, di Fantin-Latour, lo studio di piede in gesso di Rodin, e l'orso bianco impagliato regalato a Lafcadio da Jansen dopo il ritratto che l'artista gli aveva fatto nel 1894, convivessero anche loro con eguale armonia, e che fra i cento altri oggetti bizzarri o curiosi di cui la stanza era strapiena, nessuno stonasse. Il visitatore della signora Lafcadio le sedeva di fronte. Era un tipo che non ci si sarebbe aspettati di trovare in una stanza simile e in tale compagnia: un giovane magro, pallido, dai capelli biondi lisci, e gli occhiali cerchiati di corno. L'abito che indossava era un piccolo capolavoro, e l'impressione generale che si riportava dalla vista di quel personaggio era che si trattasse di persona beneducata e leggermente distratta. In quel momento se ne stava seduto, battendo lievemente le palpebre mentre osservava la padrona di casa, con i gomiti appoggiati ai braccioli della poltrona e le lunghe mani incrociate in grembo. Erano vecchi amici e la conversazione, a poco a poco, era scivolata nel silenzio già da qualche attimo quando Belle alzò gli occhi. «Mah!» esclamò con una risatina che era stata famosa nell'ultimo decennio del secolo passato. «Eccoci qui, mio caro: due celebrità a confronto. Non è buffo?» L'altro le lanciò un'occhiata. «Io non sono una celebrità» protestò con calore. «Lascio queste vanità alle vecchie signore che ci sguazzano.» Gli occhi castani della signora Lafcadio sorrisero. «Anche a Johnnie piacevano» fece. «Nel periodo di impopolarità di Gladstone che seguì la faccenda di Gordon, qualcuno offrì a Johnnie di fare il ritratto del ministro. Ma lui rifiutò, e scrisse a Salmon, il suo agente: "Non vedo perché dovrei tramandare ai posteri l'immagine del signor Gladstone".» Campion osservò la sua interlocutrice con aria contemplativa. «In questo periodo dell'anno viene sempre fuori un nuovo aneddoto su Lafcadio» disse. «Li inventate voi?» La vecchia signora abbassò modestamente gli occhi.
«No» rispose. «Ma qualche volta li miglioro... un poco.» A un tratto si animò tutta. «Albert, non siete venuto in veste ufficiale, non è vero? Non penserete che qualcuno voglia rubare il quadro, vero?» «Spero proprio di no» ribatté il giovane, allarmato. «A meno che l'abilissimo gallerista Max non abbia organizzato un colpo di scena.» «Max!» esclamò la signora Lafcadio ridendo. «Oh, mio caro, ho pensato una cosa deliziosa sul suo conto. Il suo primo libro su Johnnie, uscito dopo la distruzione della collezione Loan a Mosca, s'intitolava L'arte di John Lafcadio vista da uno che lo conosceva. L'ottavo libro è uscito ora. Si chiama Le opinioni di Max Fustian sull'arte. Le opere di John Lafcadio studiate dal critico più eminente d'Europa.» «Vi dispiace?» domandò Campion. «Dispiacermi? E perché? Johnnie si sarebbe tanto divertito. La cosa gli sarebbe sembrata comica. E poi, pensate quale onore: per diventare famoso è bastato a Max parlare di John. Per conto mio sono famosa solo perché sono stata sua moglie. La povera cara Beatrice si considera famosa per essere stata la sua Ispirazione, e quella benedetta Lisa, che ci tiene meno di tutti noi, in realtà è famosa anche lei nelle vesti di Clitennestra, e della Fanciulla alla fonte.» Sospirò. «Credo che questo faccia piacere a Johnnie più di tutto il resto.» Belle guardò il compagno con una smorfia quasi di scusa. «Mi sembra sempre che lui ci osservi da qualche parte, sapete.» Campion annuì gravemente. «Aveva il marchio della celebrità» fece. «È straordinario come duri la sua fama. Direi che, dal punto di vista della volgare pubblicità, quel suo testamento è stato un colpo di genio. Quale altro artista al mondo ha mai tirato fuori dodici nuovi quadri dieci anni dopo la sua morte, convincendo mezza Londra a venirli a vedere uno dopo l'altro per dodici anni?» La signora Lafcadio rifletté con aria seria sull'osservazione del giovane. «Forse è vero» convenne. «Ma in realtà Johnnie non vedeva così la faccenda. Sono sicurissima che l'unico suo scopo è stato di tirare un colpo mancino a quel povero Charles Tanqueray. In fondo, è stata una specie di scommessa. Johnnie credeva nel proprio lavoro e immaginava che dopo l'interesse momentaneo che sarebbe seguito alla sua morte, la sua pittura sarebbe passata nel dimenticatoio: come avvenne infatti. Ma si rendeva anche conto che, dato il reale valore delle sue opere, il pubblico lo avrebbe riscoperto, e aveva calcolato che ci sarebbero voluti dieci anni per questa riabilitazione.» «Una magnifica idea» ripeté il giovane.
«Tutto questo» riprese la vecchia «non c'era nel testamento ma in una lettera. Non l'avete mai vista? L'ho qui nella mia scrivania.» Alzatasi con sorprendente agilità, Belle attraversò velocemente la stanza, dirigendosi verso una grande scrivania antica, e, aperti uno dopo l'altro i cassetti in disordine, ne tirò fuori una busta che portò trionfalmente al giovane. Campion prese rispettosamente quella reliquia e spiegò il foglio di carta sottile coperto dalla bellissima grafia di Lafcadio. La vecchia signora, in piedi vicino a lui, sbirciò al di sopra della sua spalla. «L'ha scritta poco prima di morire» disse. «Scriveva sempre lettere. Leggetela ad alta voce. Mi fa ridere.» E Campion lesse. Mia Belle, quando tornerai, vedova inconsolabile, dall'abbazia di Westminster, dove diecimila cretini avranno sparse, spero, le loro lacrime su qualche bella frase scolpita nel marmo in onore del loro idolo defunto (non lasciare che sia il vecchio Folliot a metterci mano, non voglio essere commemorato da putti col pancino da negri o da angeli con un seno solo), quando tornerai voglio che tu legga questo foglio per aiutarmi ancora una volta come hai sempre fatto. Mi accorgo che quell'idiota di Tanqueray, col quale ho chiacchierato poco fa, aspetta con ansia la mia morte, ha su di me un vantaggio di dieci anni, per godersela liberamente, dando sfogo al suo gusto esecrabile e alla sua mentalità sdolcinata, senza il rischio di venir disturbato dal confronto con me. Non che quell'individuo non sappia dipingere; noi accademici ce la caviamo sempre, come fotografi ambulanti. È la sua mentalità, e il suo stile, con quel codazzo di contadinelli, in brache lunghe, cani umanizzati e marinai perduti in mare, che deploro. Gli ho detto dunque che gli sopravviverò senz'altro, dovessi morire per riuscirvi; e mi è venuto in mente un sistema per raggiungere lo scopo. Lascerò dodici quadri, imballati e sigillati. Insieme a questi vi sarà pure una lettera per il vecchio Salmon, con precise disposizioni. Non devi lasciar toccare nulla di tutto ciò per cinque anni dopo la mia morte. Poi manderai le casse da Salmon così come stanno; dovrà aprirle lui, una per anno, e incorniciare i quadri che sono tutti numerati. La domenica precedente alla cerimonia commemorativa in onore dei fondatori dell'università di Oxford, dopo il decimo anniversario della mia morte tu aprirai il mio studio e,
diramati numerosissimi inviti, metterai in mostra il primo quadro e così via per dodici anni. Salmon si occuperà dei problemi pratici, come la vendita ecc. Probabilmente i miei lavori avranno acquistato valore col tempo, e così verrà un mucchio di gente, se non altro per curiosità. (Se fossi dimenticato, mia cara, fa' le mostre per amor mio, e guardati i quadri da sola). Comunque, il vecchio Tanqueray mi avrà fra i piedi per altri ventidue anni, e se resiste, tanto meglio per lui. Molti cercheranno di persuaderti ad aprire le casse prima dell'epoca fissata insistendo nel dire che sragionavo quando ho scritto questa lettera. E tu, che sai benissimo come io non sia mai stato sano di mente nel senso più convenzionale del termine, saprai come rispondere. Ti abbraccio, mia cara. Se fra il pubblico della prima mostra vedrai una vecchia signora, non dissimile dalla defunta nostra regina, che Dio la benedica, sappi che quello sarà il mio fantasma, travestito. Trattalo dunque col dovuto riguardo. Tuo dev.mo marito. John Lafcadio (Probabilmente il più grande pittore dopo Rembrandt) Campion ripiegò la lettera. «L'avete davvero trovata tornando dal funerale?» domandò. «Macché!» rispose la signora Lafcadio rimettendo la busta nel cassetto. «L'ho aiutato io a scriverla. Siamo rimasti alzati fino a tardi, una sera che Charles Tanqueray era stato a cena da noi. Però a far tutto ha pensato Johnnie. Voglio dire che non ho mai visto i quadri imballati. Quanto alla lettera, mi è stata mandata dalla banca con tutte le altre carte di mio marito.» «E questo è l'ottavo anno che si espongono i quadri» fece Campion. L'altra annuì, e per la prima volta un'ombra di tristezza comparve nei suoi occhi sbiaditi. «Già» disse. «Certo, molte cose non si potevano prevedere. Il povero Salmon è morto meno di tre anni dopo Johnnie e poco dopo Max ha rilevato la ditta dai suoi esecutori testamentari. Quanto a Tanqueray, è sopravvissuto a John di appena un anno e mezzo.» Il signor Campion non nascose la propria curiosità. «Che razza di uomo era Tanqueray?» chiese. «Un uomo intelligente» disse la signora Lafcadio arricciando il naso.
«Le sue opere si sono vendute più di quelle di qualsiasi altro nel decennio fra il 1890 e la fine del secolo. Ma gli mancava il senso dell'umorismo. Era senza fantasia e sentimentale in modo sconvolgente quando c'erano di mezzo i bambini. Penso che il lavoro di Johnnie non sia stato guastato dal conformismo dell'epoca proprio per quella sua inqualificabile antipatia nei confronti dei bambini. Volete venire a vedere il quadro? È tutto pronto per la gran giornata di domani.» Il giovane si alzò. Lei lo prese sottobraccio e scesero le scale. La vecchia signora lo guardò con un delizioso sorriso d'intesa. «È tutto un po' come la mensola del camino nella fiaba di Andersen, sapete?» mormorò. «In questa casa sembriamo quelle sue statuette di porcellana che si svegliano una sola sera all'anno. Nel pomeriggio di domani torneremo ad assaporare un po' della nostra antica gloria. Io sarò la padrona di casa, donna Beatrice fornirà la nota decorativa, e Lisa si aggirerà con la sua solita aria desolata, povera donna. Poi gli invitati se ne andranno, il quadro sarà venduto... forse quest'anno tocca alla Galleria di Liverpool... e ci riaddormenteremo per un altro anno.» Sospirò e scese con aria un po' affaticata l'ultimo gradino che dava sulle mattonelle del pavimento del vestibolo. Dal punto in cui si trovavano i due si vedeva la porta a vetri che dava sul giardino dove si ergeva il grande studio costruito da John Lafcadio nell'88. La porta dello studio era aperta, e la famosa "sedia del Maestro", che si diceva balzasse agli occhi di tutti i visitatori che mettevano piede nella casa, era visibilissima. Belle alzò le sopracciglia. «C'è la luce accesa!» esclamò, soggiungendo subito: «Ah, ma certo, c'è Tennyson Potter. Lo conoscete, vero?» Campion esitò. «Ho sentito parlare di lui.» «Oh, allora...» La vecchia lo prese da parte e riprese a voce più bassa anche se non esisteva la più remota possibilità che qualcuno potesse ascoltarla. «Sapete, è un tipo così difficile! Abita in una casetta nel giardino con la moglie... una creatura così cara! John gli ha permesso di costruirsi uno studio qui tanti anni fa, quando siamo venuti ad abitarci noi... Quell'uomo gli faceva pena. Così i Potter se lo sono costruito e da allora hanno sempre vissuto qui. È un artista: incide sull'arenaria rossa. Ha inventato lui il sistema, che naturalmente non ha mai preso piede, perché le sue stampe finiscono per somigliare enormemente alle comuni litografie... e così il poveretto si è amareggiato l'esistenza.» Ripreso fiato, Belle continuò in fretta,
con la sua voce dolce: «Potter fa una piccola mostra delle sue incisioni, così le chiama lui, ma in realtà sono litografie, in un angolo dello studio, come tutti gli anni. Max ci si arrabbia, ma Johnnie gli aveva sempre permesso di esporre con lui quando era possibile, e così mi sono imposta.» «Non riesco a immaginarvi così energica.» Gli occhi della signora Lafcadio luccicarono. «Oh, lo sono stata!» esclamò. «Ho detto a Max di non fare l'ingordo e di comportarsi da persona educata. Quel ragazzo ha bisogno di una tirata d'orecchi ogni tanto.» Campion rise. «E lui cosa ha fatto? Si è gettato ai vostri piedi affranto e pentito?» La signora Lafcadio sorrise con la più innocente malizia di questo mondo. «Come è affettato, vero?» fece. «Temo che Johnnie gli avrebbe reso la vita impossibile. Mi ricorda la mia buona nonna, così ricoperta di pizzi, gale e trine che non si capiva mai dove finivano. Da bambina me lo domandavo: a un certo punto non ce n'erano più oppure lei non era che un fagotto di bambagia rosso cupo? Bene, eccoci qua. Non è una delizia, questo studio?» Percorrendo il sentiero coperto che, attraverso il giardino, univa la casa allo studio, i due entrarono nel salone dove John Lafcadio aveva lavorato, e dove continuava a ricevere anche dopo morto. Lo studio all'esterno non aveva nulla di bello, essendo in gran parte costruito in bandone ondulato, ma l'interno rifletteva ancora molto della magnifica personalità del proprietario. Era uno stanzone arioso, col pavimento di legno lucido, un lucernario, e due enormi caminetti alle estremità. A nord c'era una galleria bassa sotto la quale erano sistemati una serie di armadi salvati da una fattoria ricostruita intorno al 1890. Sopra si aprivano cinque lunghe finestre, alte circa tre metri e mezzo, con una magnifica vista su Regent's Canal. Dietro al camino più vicino alla porta, c'era una stanzetta per i modelli e un gabinetto, cui si accedeva da un piccolo arco sotto la galleria nell'angolo verso ponente. Quando Belle e Campion entrarono nello studio, era accesa solo una lampada che lasciava gli angoli della stanza immersi nel buio. Non c'era fuoco nel camino di fronte alla porta, ma nell'altro era in funzione una stufa antiquata, che rendeva il luogo caldo e accogliente. Dall'ombra, il famoso ritratto di Lafcadio, opera di Sargent, dominava la stanza dal suo posto d'onore sul caminetto scolpito. Di dimensioni più grandi del normale, il quadro aveva tutta la forza, la verità e la dignità del-
le opere migliori dell'artista, ma sorprendeva in esso un elemento di spavalderia che solo in un secondo tempo si capiva caratteristico del soggetto e non del pittore. Nel ritratto John Lafcadio appariva come un autentico personaggio. Non si trattava, nel suo caso, di aver nobilitato con la pittura una nullità, tutt'altro! Piuttosto vi si ritrovavano tutte le singolari caratteristiche che ne avevano fatto un grand'uomo del suo tempo. È indiscutibile la verità di quanto hanno notato i vari critici, e cioè che quel ritratto sembrava, quanto all'espressione, un gemello del Cavaliere ridente di Van Hals. Lafcadio aveva cinquant'anni a quell'epoca, eppure ben pochi capelli grigi si scorgevano nella zazzera rossa e i tratti del volto erano giovanili. Sorrideva, con le labbra schiuse sui denti bianchissimi, sotto i baffetti simili a quelli del Cavaliere. Lo spolverino da lavoro in tela bianca era sbottonato e ricadeva in pieghe sciolte. Gli occhi scuri e lucenti erano arroganti nonostante il sorriso. Ma il quadro ormai è talmente conosciuto, che sarebbe superfluo descriverlo più a lungo. Belle, guardandolo, si baciò una mano. Era un gesto che faceva sempre, e amici e conoscenti lo interpretavano, a seconda del loro temperamento, come un'affettazione, un sentimentalismo, o l'espressione di un tenero affetto coniugale. Il quadro della mostra annuale, appoggiato a un cavalletto vicino al fuoco, era coperto con uno scialle. Campion aveva osservato tutto l'ambiente prima di rendersi conto della presenza nello studio di un personaggio silenzioso. Era un uomo alto, in maniche di camicia, che si agitava davanti a una dozzina di cornici in legno bianco appese ai pannelli degli armadi sotto la galleria vicino alla stufa. Questi si voltò verso Campion quando si sentì osservato, e il giovane scorse un volto acceso, magro e malinconico, con degli occhi chiari e umidi, piuttosto ravvicinati sopra la stretta attaccatura di un naso enorme. «Il signor Potter» presentò Belle «e il signor Campion. Voi due vi conoscete, vero? L'ho condotto qui a vedere il quadro.» Il signor Potter mise la mano fredda e magra in quella del visitatore. «È molto bella la tela di quest'anno... molto bella» fece con voce profonda e indicibilmente triste. «Eppure... non so: "bello" non è il termine esatto, forse. "Forte"... o "potente"... o "significativo" sarebbe più giusto. Non so... non saprei. L'arte è una padrona difficile da accontentare. È una settimana che cerco di sistemare i miei lavoretti. È molto difficile. Uno annulla l'altro, sapete come succede.» E l'uomo gettò uno sguardo disperato verso
l'angolo dal quale si era fatto avanti. Belle tossicchiò prima di parlare. «Questo è il famoso signor Campion, sapete?» disse. «Non il...» L'uomo alzò la testa e nei suoi occhi passò un lampo. «Oh, dite sul serio? Davvero?» e gli strinse un'altra volta la mano. Ma il suo interesse dileguò immediatamente e lui tornò a lanciare uno sguardo afflitto verso il suo angolino. Campion udì l'ombra di un sospiro al suo fianco, e Belle parlò. «Bisogna che mostriate le vostre stampe a Campion» fece. «È un ospite d'eccezione, e possiamo permetterci certe libertà con lui.» «Oh, non valgono nulla, assolutamente nulla» replicò Potter, angosciato; ma, voltandosi con aria più contenta, condusse i due verso la sua piccola mostra. Alla prima occhiata Campion si rese conto che la depressione dell'artista era giustificata. L'arenaria rossa non si presta alla litografia, e sembrava un peccato che Potter, il quale trovava già assai difficile il semplice disegno, avesse scelto un mezzo d'espressione così infido. E poi quelle stampe, che parevano rappresentare degli esemplari di botanica assai imprecisi e approssimativi, erano di una monotonia angosciosa. Il signor Potter ne fece notare una che rappresentava un vaso di narcisi e un bicchiere capovolto. «Una volta il duca di Caith ha comprato una copia di questa» disse. «È stato il secondo anno da quando abbiamo messo in atto questa idea di Lafcadio di una mostra postuma. Nel 1923. Adesso siamo nel '30, dunque sette anni fa. Poi non è andata più anche se ne ho esposta una copia ogni anno. Con l'arte, si fanno magri affari.» «È una materia interessante» fece Campion sentendo di dover dire qualcosa. «A me piace» rispose l'altro con semplicità. «Ma stanca molto. Le pietre sono così pesanti. Difficili da stampare, capite... ed è faticoso immergerle nell'acido e tirarle fuori. La pietra di quella stampa lì pesava diciotto chili e mezzo, e non era nulla in confronto a qualche altra. Mi stanco da morire. Basta, andiamo a vedere il quadro di Lafcadio. È molto bello; forse un po' acceso, un po' acceso di tono, ma molto bello.» Attraversata la stanza, i due si avvicinarono a Belle che, tolto lo scialle che copriva il cavalletto, stava armeggiando con la spina dell'illuminazione indiretta intorno alla cornice. «È un'idea di Max» fece, districandosi dal filo. «La gente si trattiene fino
a tardi, e vien buio. Ah, eccola.» Di colpo il quadro fu visibile. Di grandi dimensioni, rappresentava il processo di Giovanna d'Arco: in primo piano dominavano le schiene scure dei giudici e fra le loro maniche color porpora s'intravedeva la fanciulla. «È mia moglie» fece Potter a un tratto. «Se n'è servito spesso come modella, sapete? Bel lavoro, vero? Tutto quell'ammasso di colori. È molto caratteristico. Glielo dicevo sempre... per scherzo, si capisce...: "Fortuna che i colori li fai tu, John, altrimenti non potresti reggere alla spesa". Vedete quell'azzurro della sciarpa? È l'azzurro Lafcadio. Nessuno ne conosce ancora il segreto. Quello del color porpora s'è dovuto rivelare per pagare le tasse di successione. Sono stati Balmoral e Huxley a comprarlo. Adesso chiunque se ne può procurare un tubetto per pochi scellini.» Belle rise. «Voi e Linda non vi date pace per la diffusione di quel segreto. Dopo tutto, se il mondo possiede le tele di mio marito, perché non dovrebbe possederne i colori?» «Ah» fece Potter. «Vi ricordate l'aneddoto dell'uovo di Colombo? Dopo che lui glielo ha mostrato, sono stati capaci tutti di farlo star dritto. Il segreto era semplice, bastava un colpetto e un'incrinatura a una estremità. Però il primo a pensarci è stato Cristoforo Colombo.» Belle sorrise. «Albert» chiese «da quel meraviglioso investigatore che siete, avete mai scoperto il vero significato di quella storia?» Campion ammise di ignorarlo. «L'uovo era sodo, naturalmente» replicò la vecchia signora, allontanandosi con una risata. Potter la seguì con gli occhi. «Non è cambiata» osservò. «Non è cambiata per niente.» Poi si voltò di nuovo verso il quadro. «Ora lo copro» fece. «Lafcadio era un tipo che si serviva volentieri. Era un grand'uomo e un grande pittore. Si andava d'accordo noi due. Con qualcun altro, invece, no. Ricordo che mi diceva: "Potter, hai più buon senso tu nel tuo gluteus maximus di quanto ne abbia in corpo complessivamente il vecchio Charles Tanqueray e quei cervelloni della sua maledetta commissione artistica". Come sapete, Tanqueray godeva di maggior popolarità presso il pubblico a confronto di Lafcadio. Ma il vero grande uomo era Lafcadio. Adesso lo vedono tutti. La sua opera è buona... molto buona. Un poco accesi di tono i colori... Ma molto bella.» Stava ancora borbottando quando Campion lo lasciò per raggiungere Belle sull'uscio. Lei lo prese di nuovo sottobraccio mentre rientravano in casa.
«Povero Potter!» mormorò. «È così deprimente. C'è una sola cosa peggiore di un artista che non sa disegnare e che si illude di riuscirvi: è l'artista che non sa disegnare e che se ne rende conto. La sua è una condizione disperata. Ma John gli voleva bene. Credo fosse per via delle pietre. Mio marito era orgoglioso della propria forza, e si divertiva a trasportarle da un posto all'altro.» La signora Lafcadio s'interruppe bruscamente, entrando nell'atrio, alla vista di una donna ritta in cima alle scale, e vestita in modo tale da far credere a Campion che si fosse mascherata. «Belle!» esclamò la donna in tono tragico. «Devi proprio far valere la tua autorità. Lisa... ah, ma c'è qualcuno con te?» La strana creatura scese le scale, e Campion ebbe modo di guardarla bene. La riconobbe: era quella donna Beatrice che nel 1900 aveva causato un certo scalpore negli ambienti artistici. A quel tempo lei, già trentenne, possedeva la bellezza imponente caratteristica di quel periodo. Vedova, con una piccola rendita, donna Beatrice aveva la capacità di rimaner ferma all'infinito, e Lafcadio, che sapeva sopportare qualunque cosa per amore della bellezza, era rimasto entusiasta di lei. La gente di poco cervello l'aveva soprannominata l'"ispiratrice" del maestro. Le leggende che correvano sul conto di donna Beatrice erano due. Si diceva che, nei primi tempi in cui si pavoneggiava nello studio, la bella creatura si era avvicinata a Belle, e con la sua dolce voce inespressiva le aveva mormorato: "Belle, devi essere forte. Quando un uomo è grande come il maestro, una donna sola non basta a riempirgli l'esistenza. Dividiamocelo, mia cara, e lavoriamo insieme per la causa immortale dell'arte". E Belle, grassottella e sorridente, le aveva dato un colpetto sulla spalla opulenta, sussurrandole nell'adorabile orecchio: "Ma sì, cara, ma sì, senz'altro. Però bada che Johnnie non lo venga a sapere". Secondo l'altra leggenda Lafcadio non aveva mai permesso alla modella di aprir bocca in sua presenza; o meglio l'aveva persuasa a tacere, dicendole semplicemente che lei raggiungeva il sommo della bellezza quando il suo volto era immobile. Per il resto era una donna inglese qualunque, senza nessun diritto né al "donna" né al "Beatrice". Pochi sapevano il suo vero nome: era un segreto che lei conservava gelosamente. Ma se aveva accettato la consegna del silenzio mentre Lafcadio era vivo, morto lui, aveva dato prova di un'inaspettata forza di carattere, risoluta com'era a non abbandonare quella posizione
di gloria riflessa che aveva goduto per tanto tempo. Nessuno sapeva con quali mezzi fosse riuscita a persuadere Belle a ospitarla, ma è un fatto che la modella occupava due stanze al secondo piano di casa Lafcadio, dove coltivava il suo hobby di fabbricare gioielli "artistici", e di praticare varie forme di un misticismo semireligioso cui si era convertita da qualche tempo. Quel giorno donna Beatrice indossava un lungo abito fiorentino di broccato rosa-antico dalle notevoli reminiscenze di Burne-Jones, tagliato però secondo i canoni della moda attuale, di modo che, perduto il suo vero carattere, era ridotto a sembrare una specie di vestaglia che copriva dal collo alle caviglie la magra figura della modella. Per completare l'abbigliamento, si era drappeggiata sulle spalle una lunga sciarpa rosa e argento le cui estremità le si attorcigliavano intorno con la grazia un po' sciatta di una ninfa su una copertina del "Punch". L'acconciatura dei capelli era ancora quella del 1900, ma le trecce d'oro erano scolorite, e ormai vi si intramezzava molto argento. Un cordone nero che, scendendo dai capelli, si univa a una batteria acustica posata sul petto, dava all'insieme una nota stonata. Di udito sempre difettoso, donna Beatrice era ormai completamente sorda all'infuori di quando si portava dietro quell'aggeggio che rappresentava un affronto alla sua vanità. Al collo aveva una catena di argento lavorato, opera delle sue mani, che le penzolava fino alle ginocchia appesantita da una croce barocca in smalto. Era una figura non esente da un pathos che metteva vagamente a disagio, e provocò nel giovanotto l'irresistibile confronto con una rosa schiacciata, un po' iscurita sul bordo dei petali e quasi senza nessun valore sentimentale, ormai. «Il signor Campion?» Una mano stranamente ossuta strinse quella del giovane. «Avete veduto il quadro vero?» La voce era dolce e volutamente vibrante. «Che emozione è stata rivederlo dopo tanti anni! Mi sembra oggi quando stavo sdraiata nello studio mentre il maestro lo dipingeva. Gli piaceva avermi vicina quando lavorava. Ora so che avevo sempre un'aura azzurra in quei tempi, e da lì veniva la sua ispirazione. Naturalmente mi diceva che la cosa doveva restar segreta... segreta perfino per Belle. Ma a Belle questo non dispiaceva. È tanto cara, Belle.» Beatrice rivolse alla vecchia signora un sorriso affettuoso e al tempo stesso sprezzante. «Sapete che ne ho discusso con la dottoressa Hilda Bayman, la Mistica.
Dice che Belle dev'essere un'anima vecchia... cioè, come potete comprendere, che è già stata sulla terra molte altre volte prima d'ora.» Campion si sentì invadere dall'imbarazzo. Quella vanità volutamente coltivata e quel culto dell'egoismo superiore gli apparvero leggermente nauseanti. Belle rise. «Come mi piace sentir raccontare queste cose» disse. «Spero sempre che sia un'anima vecchia, ma buona e cara. È tornata Linda? Era da Tommy Dacre» continuò, rivolgendosi a Campion «che è rientrato ieri sera dalla Provenza dopo tre anni di lavoro d'affresco. Che tragedia! Gli studenti un tempo dipingevano le volte delle cattedrali; ora fanno i soffitti dei cinematografi.» Il bel viso di donna Beatrice assunse un'espressione petulante. «Non so nulla di Linda» fece. «È Lisa che mi preoccupa, e di questo volevo parlarti. Quella stupida si rifiuta di mettersi domani l'abito da Clitennestra. Dovrebbe cedere un pochino, data l'occasione, così, invece, ha semplicemente l'aspetto di una cuoca italiana. In conclusione, ognuno di noi assomiglia sempre a quello che è il suo carattere... Belle, si può sapere perché ridi?» La signora Lafcadio strinse il braccio di Campion. «Povera Lisa!» esclamò con una risatina. Due macchie rosse si formarono sugli zigomi di donna Beatrice. «Senti, Belle, sono rassegnata a che tu non ti renda conto della solennità della giornata di domani» fece «ma almeno potresti cercare di non rendere ancora più difficile il mio compito. Dobbiamo servire il maestro e tener vivo il ricordo del suo nome, e accesa la fiaccola.» «È per questo la povera Lisa si deve mettere un abito viola che le sta stretto, e abbandonare la sua cara cucina? Mi sembra un po' crudele. Stai attenta, Beatrice. Da parte di madre Lisa discende dai Borgia. Se la stuzzichi, ti ritroverai con l'arsenico nel minestrone.» L'imbarazzo generale venne fortunatamente interrotto dal suono del campanello della porta d'ingresso e dall'apparizione quasi immediata di Lisa in persona sulla soglia della cucina. Lisa Capella, scoperta da Lafcadio sui colli di Vecchia una mattina del 1884, era stata portata in Inghilterra dal pittore, che l'aveva tenuta come la sua migliore modella finché, tramontata la sua bellezza, la donna non era passata al servizio di Belle, alla quale era profondamente affezionata. Ora, all'età di sessantacinque anni, e dimostrandone molti di più, Lisa era ormai una vecchia avvizzita e un po' impressionante col suo volto scuro e rugoso,
gli occhi neri e mobilissimi, e i capelli candidi tirati indietro sulla fronte. Vestiva completamente di nero, col solo tocco vivo di una catena e di una spilla d'oro. Lanciando uno sguardo testardo e cattivo a Beatrice, la donna le passò vicino senza far rumore camminando con le pantofole di feltro sulle mattonelle colorate, e spalancò il portone. Una corrente d'aria fresca, un po' umida per via del canale, invase l'atrio, e di colpo una nuova personalità fece irruzione nella stanza con la stessa prepotenza e corposità di un odore. Max Fustian faceva così il suo ingresso, senza sfacciataggine e senza chiasso, ma irresistibilmente, e con la medesima sicurezza con cui il protagonista compare in scena a dire le sue prime battute in una novità teatrale. Gli astanti udirono la sua voce, profonda, strascicata, affettata fino all'inverosimile. «Lisa, siete deliziosamente macabra stasera. Quando Ecate mi aprirà l'uscio dell'Ade, vi somiglierà certamente. Ah, Belle! Siamo pronti! E donna Beatrice! Oh, c'è anche l'investigatore! Salute a tutti!» Uscito dall'ombra, Fustian appoggiò affettuosamente una mano bianchissima sul braccio di Belle, mentre l'altra, tesa, si atteggiava a un abbraccio che comprendeva Campion, donna Beatrice e Lisa che già si allontanava furtivamente. Osservando l'aspetto di Max Fustian ci si meravigliava che la sua personalità, stravagante e fantastica com'era, non avesse mai superato i limiti del ridicolo. Era un uomo piccolo, bruno, pallido, con la mascella azzurrognola e un grosso naso. Gli occhi, lucenti e scimmieschi, erano segnati da occhiaie profonde. I capelli neri erano tagliati a zazzera in modo da sembrare una parrucca. Anche nell'abbigliamento il nuovo arrivato mostrava la stessa trasandatezza voluta. La giacca nera a doppio petto era di linea morbida e la cravatta a papillon era annodata con un bel fiocco sotto il colletto della camicia di seta. Gettato il cappello a larghe falde e l'impermeabile nero su una cassapanca dell'atrio, Fustian si era fermato a contemplare i presenti con aria radiosa, immobile nel suo gesto di saluto. Quarantenne, Max sembrava più giovane, e ci teneva. «È tutto pronto?» La stanchezza indolente della sua voce aveva qualità ipnotizzatrici, e senza nemmeno avere il tempo di rendersene conto, i tre personaggi si trovarono nello studio. Potter non c'era più, e il salone era immerso nell'oscurità. Accesi i lumi,
Max gettò intorno un'occhiata rapida e onniveggente come quella di un prestigiatore che controlla la sua attrezzatura di scena. Con la fronte aggrottata, si volse alla padrona di casa. «Cara Belle, perché insistete nell'esporre quelle orribili litografie? Riducono la mostra di domani a una specie di fiera di beneficenza.» E indicava sprezzantemente le opere del disgraziato Potter. «Trovo che Max ha ragione, Belle» interloquì donna Beatrice con la sua cantilena lamentosa. «Laggiù ci sarà il tavolino con esposti i miei gioielli, e mi pare proprio che basti. Voglio dire... quadri d'un altro nel suo studio... è un sacrilegio, non è vero? Le vibrazioni non sarebbero quelle giuste.» Ritornando col pensiero a quella sera, alla luce degli avvenimenti successivi, il signor Campion, più di una volta, se la prese con se stesso per la propria mancanza di obiettività. Vista in retrospettiva, dopo la tragedia, gli pareva impossibile di aver trascorso tanto tempo nel cratere di un vulcano inattivo senza udire il rombo dell'eruzione che stava per verificarsi. Eppure quella sera non si accorse di nulla all'infuori di ciò che appariva in superficie. Max, senza far caso alle parole della sua alleata, guardò la signora Lafcadio con aria interrogativa. Lei lo fissò scuotendo il capo, come se fosse stato un cagnolino disobbediente e poi vagò con lo sguardo per lo studio. «Il pavimento sta bene così, vero?» chiese. «Fred Rennie l'ha pulito, e Lisa l'ha lucidato.» Fustian si strinse nelle spalle, quasi contorcendosi, ma, dopo questa muta protesta, cedette senza insistere oltre. In un attimo ritrovò la propria disinvoltura, e Campion, osservandolo, si rese conto di come avesse fatto quell'uomo a insinuarsi nella parte di entrepreneur di Lafcadio. Attraversata la stanza a grandi passi. Max alzò di scatto lo scialle che copriva il quadro e indietreggiò di qualche passo per contemplarlo con aria rapita. «A volte la bellezza è simile alla testa della Gorgone. Ci si impietrisce guardandola» disse. La voce non era per niente affettata, e il contrasto fra il tono e le parole conferiva a quella frase stravagante una sincerità di passione che colpì tutti, compreso lo stesso Max che l'aveva proferita. Campion si accorse con stupore che gli occhietti scuri di Fustian si erano riempiti improvvisamente di lacrime. «Non si può non vibrare per il verde quando si pensa a quel quadro» fece donna Beatrice con desolante idiozia. «Il bel verde mela, il colore della
terra. Quello scialle aiuta tanto lo spirito, mi pare.» Fustian rise piano. «Il verde è il simbolo del denaro, vero?» mormorò. «Proiettando una luce verde sul quadro, lo venderemo. Basta, la mia parte l'ho fatta. Domani tutta Londra sarà qui. Soldati, poeti, pingui sindaci ad acquistare per le loro città, l'intellighentia, i diplomatici. Ho saputo stasera che vengono gli ambasciatori... e, naturalmente, il clero.» Fece un ampio gesto con la mano. «La Chiesa panciuta, dalle vesti di porpora.» «Il vescovo viene sempre» interloquì Belle, modesta. «Che cara persona, veniva a trovarci anche quando non c'erano quadri da esporre.» «Verrà la stampa» proseguì Max «e verranno i critici, miei colleghi.» «Al guinzaglio come cani da caccia, immagino» fece Belle, impaziente. «Non vi dimenticate di mettere uno scellino nel contatore, altrimenti dopo le sei sprofonderemo nel buio. Magari non avessimo messo quell'aggeggio quando abbiamo impiantato la nostra scuola di ballo durante la guerra!» Donna Beatrice trattenne il fiato ostentatamente. «Belle mi avevi promesso di non parlare mai più di quella scuola. È stato quasi un sacrilegio.» Belle sospirò. «I titoli lasciati da Johnnie erano in ribasso, e avevamo bisogno di denaro» fece. «Se non avessi fatto mettere un contatore automatico non sarei mai stata in grado di pagare il conto della luce. E ora...» S'interruppe bruscamente. «Oh! Linda! Mia cara, come sei pallida!» Tutti si voltarono di colpo, mentre la nipotina di John Lafcadio si avvicinava al gruppo a grandi passi. La figlia dell'unico figlio dell'artista, ucciso a Gallipoli nel 1916, era "decisamente Ariete" secondo donna Beatrice. A ben rifletterci, questa definizione non era del tutto lusinghiera perché significava "figlia di Marte", spirito giovane e connesso con uno dei livelli più bassi del cosmo astrologico. A un occhio non altrettanto illuminato appariva sotto l'aspetto di una ragazza di venticinque anni, robusta, energica, e somigliantissima al nonno. Aveva gli stessi capelli rossicci e ribelli, la bocca larga e gli zigomi alti. La sua era una bellezza moderna e una personalità irrequieta e violenta traspariva da ogni suo gesto. Con Belle si capivano alla perfezione, ed erano legate da un immenso affetto. Gli altri ne avevano un po' paura, salvo il signor Campion, forse, il quale aveva molti strani amici. In quel momento il pallore della ragazza era impressionante, mentre gli occhi, sotto alle sopracciglia folte, le ardevano in un'espressione quasi di ferocia. Salutato Campion con un cenno del capo, Linda rivolse uno
sguardo insolente a Max e a donna Beatrice. «Tom è nell'atrio» fece. «Adesso viene. Ha portato qualche fotografia dei lavori che ha fatto per la biblioteca Puccini. Sono bellissimi. Suppongo che a voi non sembreranno tali, eh, Fustian?» Max sorrise. «Dacre ha tutte le doti di un uomo di grande ingegno» ribatté «ma fa male a cambiare i suoi mezzi d'espressione. Solo con la tempera è capace di fare qualcosa di veramente buono. A volte mi ricorda Angelica Kaufmann.» «Infatti i pannelli che ha fatto per la biblioteca sono a tempera.» «Ah, davvero? Ho visto la fotografia di una di quelle figure. L'ho presa per il cartellone pubblicitario di un'acqua minerale.» Nel tono di Max si era insinuato un tono quieto e sprezzante che era un capolavoro. «Ho visto anche la modella che ha portato con sé dall'Italia. Vuol imitare Lafcadio anche in questo.» La giovane si voltò di scatto, ancora più pallida. Sarebbe sicuramente esplosa se Belle non fosse intervenuta in tempo. «Ma insomma, dov'è questo figliolo?» esclamò. «Sono tre anni che non lo vedo, e siamo vecchi amici. Mi ricordo benissimo quando è venuto qui da bambino la prima volta, tanto bene educato e serio serio. Disse subito a John che cosa pensava di un suo quadro, e John lo prese sulle ginocchia e lo sculacciò per la sua sfacciataggine... anzi sua madre si offese molto. Ma mio marito, dopo, apportò delle modifiche a quel quadro.» Donna Beatrice chiuse con una risatina educata quella rievocazione delle pessime maniere di Lafcadio, e intanto il soggetto della conversazione entrò nella stanza. Thomas Dacre, uomo di grande abilità tecnica, trentasettenne, artista poco noto e ossessionato dalle proprie manchevolezze, sembrava una copia mal ridotta e avvilita dell'Apollo del Belvedere, con in più gli occhiali cerchiati di corno. Faceva parte del grande esercito di uomini giovani che si erano visti portar via dalla guerra cinque degli anni più importanti della loro vita e che si risentivano amaramente di questo fatto senza rendersene bene conto. La sfiducia in se stesso, che era già parte integrante del carattere di Dacre, appariva aggravata da un forte shock riportato in guerra, che l'aveva ridotto ad andare incontro a qualunque sacrificio morale pur di raggiungere il benessere fisico. Il suo fidanzamento con l'energica Linda aveva sorpreso tutti quando il pittore l'aveva annunciato prima di partire per l'Italia. Si supponeva tuttavia che ognuna di quelle due anime senza pace avesse trovato conforto nella comprensione dell'altra.
Il giovane si avvicinò a Belle, che lo accolse con quell'entusiasmo che formava gran parte del suo fascino: «Mio caro, sono contenta di vederti. So che hai lavorato bene. Hai portato qualche fotografia? Johnnie diceva sempre che saresti diventato un grande uomo.» Dacre arrossì. Belle era irresistibile. Ma vergognandosi subito di provare piacere per queste parole, si strinse nelle spalle e rispose sgarbatamente. «Sono un povero decoratore di cinematografi» fece. «Chiedetelo a Max. Lui almeno la riconosce, una pittura commerciale, quando la vede.» Ma Belle era infaticabile. Infilò il braccio sotto quello del nuovo arrivato. «Raccontaci qualcosa» disse. «Hai alloggiato nell'antico studio di San Gimignano? E la povera vecchia Teodora è ancora viva? Continua a cucinare in quel modo atroce? Pensa che Johnnie, una volta, ha costretto uno dei suoi bambini a mangiare un'intera omelette che lei ci aveva mandato di sopra per cena. Naturalmente quella disgraziata ha dovuto fare da infermiera al poverino tutto il giorno seguente.» Questo aneddoto che gettava luce su un lato sconosciuto del carattere del grand'uomo venne accolto come si doveva, anche se Max non era disposto a rinunciare a lungo al suo posto di prim'attore. Lanciò uno sguardo malizioso dagli occhietti scintillanti alla ragazza che aveva acceso una sigaretta e stava contemplando il dipinto del nonno con l'espressione critica ma imparziale di chi se ne intende, e tornò a rivolgersi a Dacre. «Come si trova a Londra la bella Rosa-Rosa?» domandò. «Che nome romantico, vero? Rosa-Rosa.» «La tua nuova modella?» domandò Belle. Il giovane annuì. «Una delle Rosini. Ve la ricordate? È una bastarda, di padre tedesco, credo. Una figura molto moderna. La ritraggo da quasi un anno, ormai. Ma ha dei brutti piedi.» Belle annuì con aria saggia. «Tutte le Rosini hanno i piedi tozzi. Non ricordate Lucrezia? Che scalpore intorno al suo nome trent'anni fa. Pretendeva di discendere dalla modella di Andrea del Sarto, ma si stancava molto facilmente e non voleva lavorare.» «Quella ragazza vi deve esser diventata indispensabile» interloquì Max con voce languida, lanciando uno sguardo a Linda «se l'avete portata con voi fin qui malgrado tutte le complicazioni dei permessi di lavoro e via dicendo.» Dacre guardò il suo interlocutore con pigra sorpresa. «Certo che mi è
necessaria!» esclamò irrigidendosi. «Una modella che sappia il suo mestiere, che non sia orribile e che abbia un buon carattere è la cosa più difficile al mondo da procurarsi. Questa qui sta in posa come un sasso.» «Quale straordinaria aggiunta al menage di Drury Lane! E qual è stata la reazione del bravo D'Urfey al fascino della gentil signorina?» Max, che sembrava volere assumere apposta un atteggiamento offensivo, lanciò di nuovo una rapida occhiata a Linda. A un tratto, questa parve accorgersi delle manovre del mercante. «RosaRosa è la più bella creatura ch'io abbia mai visto» fece con calma minacciosa. «Ha la figura di una delle zingare di John e un viso diabolico. Matt e Tom cadono in una crisi isterica a ogni parola che dice. Quanto a voi siete un piccolo botolo ringhioso, vile e maligno.» Poi, avvicinatasi a Max di un passo, lo schiaffeggiò forte col dorso della mano, lasciando un segno rosso sulla gota giallastra. Il gesto improvviso e inaspettato aveva rivelato lo stato d'animo di Linda con tale evidenza, che nella stanza regnò un silenzio assoluto finché lei non fu scomparsa. Soltanto allora Campion ebbe la rapida visione di un pericolo che si celava sotto a quella strana messinscena montata così solennemente per ubbidire al capriccio di un morto. Max rise accigliato e ricoprì il quadro col panno, in modo da voltar le spalle agli astanti. Dacre seguì la ragazza con gli occhi, aggrottando la fronte rabbiosamente. Donna Beatrice osservò: «Ariete, Ariete» con il sublime compiacimento di chi è felicemente persuaso di essere diverso da tutte le altre creature del genere umano. Quanto a Belle, le labbra atteggiate a una piccola smorfia pietosa e gli occhi castani lucidi di pianto, si limitò a mormorare con aria di rimprovero: «Oh, mia cara... mia cara!» 2 La domenica della mostra Ai bei tempi della fine del secolo scorso, quando Arte e Accademia erano sinonimi nelle concezioni del pubblico in genere, la domenica che precedeva la consegna delle opere da sottoporre al giudizio della Commissione artistica diventava occasione di gran festa. In ogni studio del Regno Unito si teneva un'esposizione solenne dei lavori che si volevano mandare alla selezione. Poiché capitava molto spesso che quei quadri venissero esposti lì per la prima volta, le riunioni servivano a un utile scopo e, mentre si consumavano tè e sherry in abbondanza, venivano discussi molti misteri
della tecnica. Il successo con cui ogni anno Max Fustian riusciva a elevare l'esposizione del quadro di Lafcadio al grado di uno dei principali avvenimenti della stagione mondana, era da considerarsi una prova dell'eccellenza da lui raggiunta nell'arte della pubblicità. Per i giornali la cerimonia era una vera manna, perché fungeva da preambolo all'inaugurazione della Mostra Estiva della Reale Accademia. Lafcadio, sempre in anticipo sui tempi, appariva ancora molto moderno al pubblico, e inoltre l'elemento di mistero collegato alla comparsa del quadro annuale, aggiunto alla curiosità circa l'ente pubblico o al mecenate che immancabilmente ogni anno lo acquistava, rendeva quell'esposizione un fatto di cronaca a effetto sicuro. Dunque, in quella domenica di marzo del 1930, le finestre polverose delle polverose case gialle di Swallow Crescent rifletterono un po' della vecchia gloria quando una fila di automobili si allineò contro la tozza balaustra di pietra che costeggiava il canale. La Piccola Venezia cessava di essere solamente decrepita e squallida per diventare interessante bohémienne, mentre Fred Rennie, magnificamente sereno nel suo grembiule di pelle e camicia vermiglia, si metteva sulla soglia a ricevere gli invitati. Rennie era un altro personaggio dell'originale giardino di Lafcadio. L'artista lo aveva raccolto da bambino in una barca piena di ammalati che navigava sul canale, e se l'era portato a casa a mescolar colori. Ricevuta dal pittore un'educazione piuttosto approssimativa, Fred aveva servito il padrone fedelmente, macinando le tinte e sperimentando miscele secondo l'uso degli antichi. La vecchia rimessa in fondo al giardino era stata trasformata in laboratorio, e Fred dormiva in uno stanzino costruitovi sopra. Dopo la morte di Lafcadio, Rennie, respinte le offerte di vari fabbricanti di colori, era rimasto con Belle, e insieme a Lisa costituiva tutto il personale di servizio della casa. Neanche il servizio militare era riuscito a sradicarlo di lì. Quanto alle amicizie femminili, dipendeva dalle barche del canale e, di conseguenza, le sue relazioni erano forzatamente di natura transitoria. Il brav'uomo conduceva vita pacifica, e probabilmente era lui, dopo Fustian, quello che si godeva di più la cerimonia della mostra annuale. Il costume che indossava era frutto della fantasia di donna Beatrice, dato che gli stracci che aveva indossato da ragazzino nello studio di Lafcadio non erano davvero adatti per un'occasione così solenne. Era un omino agile, dai folti capelli neri, gli occhi mobili, e le mani
macchiate e corrose dagli acidi. Accolse Campion come un amico. «C'è folla, signore» mormorò rispettosamente. «Molta più gente dell'anno scorso, direi.» Attraverso il grande atrio, Albert stava per dirigersi verso lo studio, quando, giunto nell'angolo scuro vicino alle scale del sottosuolo, si sentì tirare per un braccio. «Signore! Un momento, per piacere.» Era Lisa, di pessimo umore, e molto a disagio in un vestito rosso cupo, di stoffa lucida, che era stato visibilmente allargato alle cuciture. Osservandola così, nella penombra, con gli occhi scuri che lo fissavano scintillanti, Campion, per un attimo, intuì come doveva essere apparsa quella mattina sui colli di Vecchia. Ma subito tornò a essere la vecchia italiana rugosa e vizza di sempre. «Volete venire su a vedere la signorina?» fece. «C'è anche la signora Potter in camera. La signora Lafcadio mi ha detto di stare attenta a quando sareste arrivato e di pregarvi di salire a persuadere la signorina a venire nello studio. Sono troppo in pochi a ricevere. Tanto più che donna Beatrice non può allontanarsi dal tavolino dei gioielli.» Il disprezzo con cui furono pronunciate le ultime parole era indescrivibile. Campion, che spesso, a causa del suo ruolo di "confidente universale", quasi una specie di bravo zio, si vedeva affidare strani compiti, accettò questo senza stare a pensarci. Disse qualche parola a Lisa e salì le sei rampe di scale che conducevano al terzo piano dove, in una stanzetta sotto il tetto, Linda aveva il suo studio. Sul pavimento non c'erano tappeti e le finestre erano senza tende. L'ambiente odorava orribilmente di pittura a olio, mentre tutti gli arnesi tipici di un vero studio, e cioè uno studio che serve per lavorare e non per ricevere, erano ammonticchiati per terra. Linda, con i gomiti appoggiati al davanzale, guardava fuori. La signora Potter era in piedi in mezzo alla stanza ingombra. Era una donnetta mal vestita, con i capelli grigi tagliati corti, le mani agili, e una tale aria di attiva praticità che subito la classificava come una di quelle "ancelle" dell'arte capaci di adempiere qualunque incombenza. Esperta ricamatrice, abile legatrice di libri, la Potter manteneva se stessa, e, a quanto si diceva, anche il marito, con alcuni corsi di pittura in scuole eleganti, e con qualche lezione privata. Rivolgendo uno sguardo incerto a Campion, attese che lui sì presentasse. «So perché siete venuto. Belle vuole che io scenda» fece, senza che l'altro avesse il tempo di aprir bocca. «Ho fatto io da modella per quel quadro.
Sapete... preferisco non contare gli anni che son passati da allora! Basta! Provate voi a parlare a Linda. Cercate di persuaderla a scendere. Dopo tutto, non bisogna sciupare questa giornata, non è vero?» Scappò via con aria indaffarata, lasciando dietro a sé un odore di aula scolastica. Siccome la ragazza non si muoveva, Campion distese un fazzoletto sull'unica sedia della stanza, e si sedette, rimanendo a lungo fermo con aria modesta, ma sentendosi terribilmente fuori posto. Poiché la padrona della stanza continuava a rimanere dov'era, lui tirò fuori il portafoglio dal taschino interno della giacca e ne estrasse un ritaglio di giornale. Sistemandosi meglio gli occhiali sul naso, cominciò a leggere ad alta voce. La mano morta parla ancora. Oggi, in un angolino dimenticato della nostra stupenda Londra, il fantasma di uno dei più grandi artisti dei nostri tempi, riceve gli esponenti della mondanità e della fama per l'ottava volta secondo un programma che deve svolgersi lungo una decina di anni. Ambasciatori, prelati, signore dell'alta società si incontreranno per discutere il nuovo dipinto di John Lafcadio che ci giunge dall'ai di là di un vuoto di anni. Siete imbarazzati all'idea di incontrare una duchessa? Chissà che il vostro destino non sia quello di frequentare i circoli della nobiltà. Ma dovesse la vostra condizione sociale essere più modesta, ricordatevi che da un momento all'altro può capitarvi di affrontare una difficile prova mondana. Cosa rispondereste, per esempio, se un personaggio di casa Reale vi rivolgesse la parola? Rimarreste muti come pesci o scoppiereste in una risatina isterica, guastandovi in tal modo l'occasione più bella che potreste mai avere di... Non un gesto dalla persona affacciata alla finestra. Campion buttò via il ritaglio con aria disgustata. «Non dicono altro» fece. «E se provassi a cantare qualcosina?» Ci fu ancora un lungo silenzio, poi la ragazza si voltò e venne verso di lui. Campion rimase impressionato dal "suo" aspetto. Il pallore della sera precedente si era mutato in un colore livido. Gli occhi avevano uno sguardo minaccioso, e la bocca appariva di una fermezza anormale mentre tutto il corpo aveva una rigidità impressionante. «Ah, sei tu» fece. «Cosa sei venuto a fare?» Senza aspettare risposta
Linda attraversò la stanza, e presa una spatola cominciò a grattar via dei pezzetti di colore dall'abbozzo di un quadro posato sul cavalletto. Tutta intenta alla sua opera di distruzione, la ragazza teneva il viso vicinissimo alla tela. Campion, comprendendo in che stato di tensione era la ragazza, balzò in piedi e l'afferrò per le spalle. «Non fare la stupida» esclamò. «E per amor del cielo risparmiami una scenata.» Il vigore inaspettato del gesto produsse l'effetto voluto. Le mani di Linda le ricaddero lungo il corpo. «Cosa succede?» fece Campion, più dolcemente. «È colpa di Tom?» La ragazza annuì, e per un attimo i suoi occhi espressero soltanto un'ira sprezzante. Campion si mise a sedere. «È una faccenda seria?» «Non lo sarebbe, se io non fossi un'imbecille.» Parlava con rabbia, e con palese disperazione. «Non l'hai vista, vero?» domandò dopo un attimo di silenzio. «Chi? La sua modella?» Il giovane sentiva di essere giunto al nocciolo della questione. La risposta lo impressionò. «Sono i discorsi della gente che mi fanno uscire di senno. Non capiscono nemmeno la realtà dei fatti» esclamò Linda. «È mezz'ora che Claire Potter cerca di spiegarmi che secondo lei le modelle quasi non sono esseri umani, e anche se un uomo ne conduce una con sé dall'estero, non vuol dire che ne sia innamorato. Come se questo c'entrasse! Se Tommy si fosse innamorato di Rosa-Rosa, la situazione sarebbe chiarissima e non proverei quello che provo, cioè una gran voglia di ammazzarlo!» Andò a un armadio, frugò nel disordine che c'era all'interno, poi tornò da Campion, tenendo in mano un album da disegno. «Guarda» fece. Voltando distrattamente le pagine, Campion sentì aumentare gradatamente il proprio interesse. Si mise a sedere più dritto e si riaggiustò gli occhiali sul naso. «Perbacco, sono buonissimi» fece. «Dove li hai trovati?» Linda gli strappò l'album di mano. «Sono di Tommy» disse. «Di prima che partisse. E ora fa della roba che non andrebbe bene nemmeno sulla copertina di una rivista. Ti rendi conto che ha portato qui quella ragazza per farne dei manifesti pubblicitari per specialità medicinali? Ha buttato via
tutto. Sembrava già che avesse fatto una pazzia ad abbandonare l'olio per la tempera. Ora, mettersi a fare di questa roba equivale a un suicidio.» Campion, impressionato dai disegni, capiva il pensiero della ragazza, ma non riusciva a spiegarsi lo stato di indignazione in cui era piombata. Dopo tutto, se in questo mondo di indifferenti, il fuoco dell'arte pura era morto nel cuore di un uomo, non lasciandovi che la scoria dell'avidità di guadagno, la cosa non meritava un tale biasimo. Tentò di spiegarlo a Linda. Ma la ragazza gli si rivoltò, furiosa. «Certo» esclamò. «Non ho nulla da ridire contro il commercialismo. Ma pone un uomo su un piano diverso. È insopportabile che Tommy si aspetti da me gli stessi sacrifici cui aveva diritto come artista. Se non avesse portato qui Rosa-Rosa tutto ciò non sarebbe venuto fuori... almeno non con questa violenza.» «Se permetti» la interruppe Campion blandamente «non capisco cosa c'entri Rosa-Rosa in tutto questo.» «Sei veramente duro di comprendonio» fece la ragazza. «L'ha sposata, è chiaro. Altrimenti come poteva farla entrare e rimanere per sempre in Inghilterra? Ecco a cosa alludeva Max ieri sera. Ed ecco perché l'ho schiaffeggiato. Come dico, se Tommy si fosse innamorato di lei, sarebbe più scusabile.» Finalmente Campion capiva il motivo di tanta indignazione. Linda gli si avvicinò. «Non capisci che se avesse continuato a lavorare come prima, non mi sarebbe importato nulla? Non mi sarei sentita insultata ieri sera quando lui ha suggerito di metter su casa insieme, noi tre. Soltanto il fastidio di farla venire in Inghilterra a risiedervi in permanenza sarebbe già un motivo sufficiente per il matrimonio. Ma se lui ne ha semplicemente bisogno per i lavori commerciali che sta facendo vale ben poco, vero? Oh, magari fosse morto!» Campion non poté fare a meno di provar pietà per lei, pur non condividendo il suo punto di vista. Era chiaro che l'offesa non era immaginaria. «Non parlarne a Belle» fece la ragazza in fretta. «Si arrabbierebbe, e non servirebbe a nulla. La nonna è terribilmente convenzionale.» «Anch'io» replicò l'altro. Seguì un silenzio «Senti, è meglio che io scenda» riprese finalmente Albert. «Non mi pare di poter dire nulla su questa brutta faccenda. Ma se c'è qualcosa che posso fare, dimmelo.» L'altra annuì distrattamente, e lui pensò che tornasse alla finestra, ma non aveva ancora raggiunto il primo pianerottolo che gli venne dietro e scesero insieme. Quando giunsero nell'atrio, il flusso dei visitatori era diminuito, e s'in-
crociava ormai con quello della gente che usciva. Campion e la ragazza furono bloccati sulla scala da due vecchi che si erano fermati sul primo gradino per chiacchierare. Vedendo la coppia soffermarsi vicino a loro, questi si salutarono in fretta, e mentre il generale di brigata sir Walter Fyvie, usciva rapidamente dal portone, Bernard, vescovo di Mold, attraversava a gran passi l'atrio diretto verso lo studio. 3 Assassinio al ricevimento La nebbia che saliva dal canale si era molto infittita, e Campion lo notò mentre, nel fascio di luce proveniente dallo studio, seguiva il vescovo lungo il sentiero asfaltato. Lisa aveva tirato le tende dei finestroni per nascondere il cielo giallastro e malinconico, e il calore e l'aria profumata della sala affollata davano un senso di conforto dopo l'umidità del giardino. Il ricevimento volgeva alla fine. La maggior parte degli invitati se n'erano andati, ma nel grande studio risuonavano ancora conversazioni vivaci. Max aveva ben validi motivi di rallegrarsi per la sua abilità di organizzatore. La riunione era stata la più brillante della serie. L'ambasciatore con i suoi satelliti si aggirava ancora intorno al quadro che dominava la sala, e fra la folla della minutaglia mondana e artistica spiccavano numerosi gli astri di prima grandezza. Ma se Max era il trionfatore, Belle condivideva gli onori della giornata. In piedi in mezzo allo studio, la vecchia signora accoglieva i suoi ospiti, vestita con un abito di velluto nero di taglio semplice e austero come sempre, ma con la cuffia da contadina di rigido organdis guarnita di pizzi. Campion si guardò attorno. L'occhio gli cadde allora su donna Beatrice, impressionante visione in verde e oro, che parlava di psicomanzia con un vecchio signore allibito che Albert riconobbe per uno scienziato di fama mondiale. Nello sfondo, negletto e abbandonato, stava il triste Potter, che, con brividi di disperazione, lanciava continue occhiate verso la malinconica mostra delle proprie stampe. Campion udì Linda trattenere il fiato, e voltandosi, la vide fissare il lato opposto della stanza. Seguendo il suo sguardo, scorse Tommy Dacre appoggiato al tavolo su cui erano esposti i gioielli cesellati dalle Artigiane dei Metalli Preziosi protette da donna Beatrice: il pittore, vestito con ne-
gligenza, volgeva la schiena al tavolo, sedendo sull'orlo. Vicino a Tommy si trovava una ragazza dall'aspetto talmente strano che subito Campion capì come dovesse essere la famosa Rosa-Rosa, principale responsabile dell'ira che ribolliva nell'animo di Linda, creatura semplice e primitiva. Non si sarebbe detto che la modella fosse nata nel Sud. La sua figura era strana e angolosa, e le si vedevano attraverso il leggero vestito grigio i muscoli perfettamente sviluppati. I capelli biondi e ricci erano divisi in mezzo con una scriminatura e le pendevano obliquamente intorno al capo. Il volto era bello, ma irregolare. Gli occhi scuri e malinconici dalle sopracciglia arcuate sembravano quelli di una Madonna fiorentina, ma il naso era lungo e aguzzo, e le labbra sottili e ricurve. Come tutte le modelle nate Rosa-Rosa si muoveva pochissimo, e solo per passare da una posa all'altra. In quel momento stava ascoltando Dacre che le parlava in italiano, col capo gettato all'indietro, le mani sprofondate nelle tasche e il cappello nero schiacciato sotto al braccio. La ragazza, china in avanti, col mento un poco all'insti, e tutto il peso della persona appoggiato su una gamba, lasciava pendere le braccia lungo i fianchi. Era una posa che assomigliava a un movimento arrestato a metà, perfetta nel suo genere, e completamente inaspettata e originale. Linda, seguita dal giovane, attraversò la stanza dirigendosi verso la coppia. Il sorriso di Dacre scomparve alla vista della fidanzata, ma si mostrò così poco imbarazzato che Albert, che non conosceva il mondo degli artisti, rimase colpito ancora una volta dalle loro stravaganze. Presentato a Rosa-Rosa, Campion capì ben presto la legittimità dell'ira di Linda. La modella, oltre alle qualità estetiche, possedeva anche un'altra caratteristica del suo mestiere: era indicibilmente stupida. Le avevano insegnato a non pensare durante la posa affinché nulla la potesse indurre a mutare d'espressione. «Ho portato Campion ad ammirare i gioielli» fece Linda. Dacre scivolò giù dal tavolo, voltandosi pigramente a guardare gli oggetti esposti. «Donna Beatrice me li ha lasciati in custodia» replicò. «Voleva scambiare quattro parole con qualcuno. Forse ha paura che qualche invitato voglia scappare con le sue cianfrusaglie... un cleptomane, o che so io. Che roba orrenda, vero?» Tutti e quattro si soffermarono un momento a guardare l'opera delle industriose donne artigiane, rimanendo presto sopraffatti da quell'avvilimen-
to che vien sempre provocato dall'inutilità alleata alla bruttezza. Rosa-Rosa indicò un paio di orecchini di lapislazzuli. «Belli» disse. «Non toccare» replicò il giovane, respingendole la mano come si fa con una bambina invadente. La ragazza non reagì che con uno sguardo vuoto, e subito ricadde in una posa che esprimeva una rispettosa sottomissione. Campion sentì Linda tremare al suo fianco. La situazione era molto tesa. «Cosa te ne pare della pièce de résistance?» domandò la signorina Lafcadio, indicando un paio di forbici dalle sottili lame azzurre lunghe un palmo e dal manico così incrostato di pezzi di corallo e di corniola che sembrava impossibile adoperarle. «Giocattoli» esclamò una voce dietro al gruppo. «Giocattoli abbastanza stupidi.» Max si trattenne un momento dietro le spalle di Campion. «Fareste meglio a guardare il quadro, amico mio. Temo che vada a finire all'estero. Ancora non posso dir di più... capite? Ma... in un orecchio... la cifra è fantastica.» Fustian si allontanò velocemente, e i tre giovani ebbero la soddisfazione di vederlo cadere sotto le grinfie di donna Beatrice. «Odioso snob» esclamò Dacre. Rosa-Rosa approvò tale affermazione con un gesto di una volgarità così eccessiva e sorprendente da coglierli completamente di sorpresa. Dacre arrossì e la rimproverò con asprezza nella sua lingua. Lei non diede l'impressione di essere rimasta male, ma, piuttosto, meravigliata, e indietreggiò di qualche passo. Linda guardava ancora le forbici. «Che peccato sciupare così dell'acciaio» fece. «Le lame sono bellissime.» Per la prima volta l'investigatore sentì il pericolo nell'aria. Non dipendeva dal tono di voce della ragazza, di questo ne era certo, eppure un'ondata di paura lo assalì senza ragione apparente. Campion non era tipo da credere ai presentimenti, e, irritato dal fenomeno, se lo cacciò di mente al più presto. Una risata di Dacre lo distrasse dai propri pensieri. «Max è nelle peste» esclamò Tommy. «Guardate!» La scena era veramente comica. Donna Beatrice stava cicalando a tutto spiano con Fustian. Conoscendola, Campion rabbrividì, pensando ai probabili argomenti della conversazione; e intanto la vittima faceva sforzi vani per fuggire. Linda, che fissava la coppia con attenzione, rise con di-
sprezzo. «Gli racconta di quella volta nel bagno turco, quando le dissero che somigliava alla Venere di Rokeby. La storia è tutta qui, ma lei la fa durare delle ore. Quando attacca su questo argomento nessuno può fermarla, e oggi non si può nemmeno insolentirla perché si è tolta il cornetto acustico.» «Credo» disse Rosa-Rosa con una naïveté da bambina «che adesso andrò al gabinetto» e si allontanò lasciandoli tutti vagamente imbarazzati. Fu allora che Campion, scorgendo Belle rimasta sola un momento, le si avvicinò per salutarla. «Oh, caro» fece la vecchia signora, parlando con quel suo tono affettuoso che dava a ogni nuovo arrivato l'impressione che lui, e soltanto lui, fosse il personaggio importante per il quale il ricevimento era stato organizzato. «Come sono contenta che siate venuto! Che pigia pigia, eh? Non sarebbe forse piaciuto a Johnnie? Guardatelo con quel sorriso che gli va da un orecchio all'altro!» E accennò con la cuffia al ritratto di Sargent. «Sono tanto stanca.» Tacque un attimo per riprendere fiato e, appoggiandosi pesantemente al suo braccio, girò intorno gli occhi scrutando ansiosamente i visitatori. «C'è whisky al seltz su, in galleria» mormorò. «Credo che Max ci abbia organizzato un vero e proprio bar con i cocktail. Io, a rigor di termini, non dovrei dare la mia approvazione. Non so davvero se è il caso, o no. Non riesco a togliermi dalla testa l'idea che il gin sia talmente volgare! Perlomeno lo si giudicava sempre così, quando io ero giovane. Adesso, invece, visto che lo hanno nobilitato, suppongo che sia accettabile. Guardate un po' il nostro buon, vecchio vescovo» continuò, praticamente senza tirare il fiato. «Eccolo, laggiù. Non è una cara persona? Non raccontatelo ad anima viva... ma il suo calzolaio gli mette un piccolo rialzo negli stivaletti. Io lo so perché una sera è venuto qui a cena ma aveva i piedi talmente bagnati che gli ho fatto togliere gli stivaletti e lui si è seduto davanti al fuoco con un'imbottita sulle ginocchia. Ricordo che abbiamo parlato del peccato.» «John Lafcadio vi dovrebbe essere molto grato» fece il giovane. «È una riunione molto brillante.» L'altra sospirò con un mormorio di soddisfazione, mentre gli occhi scoloriti le luccicavano. «È magnifico» fece. «Mi sembra di aver di nuovo trentacinque anni. Tanta gente... e tutta in ammirazione di Johnnie. Va così bene: tutti sono gentili, stupiti, ed entusiasti.» Mentre Belle pronunciava le ultime parole si udì in alto un leggero ron-
zio e di colpo i lumi si spensero, lasciando la compagnia nella completa oscurità, appena attutita dal rosseggiare dei caminetti. La vecchia signora strinse istintivamente più forte il braccio di Campion. «Lo scellino nel contatore!» mormorò con voce roca. «Oh, Albert, me ne sono dimenticata!» L'effetto immediato dell'oscurità improvvisa fu, come sempre, una pausa nella conversazione, qualche risatina scema, qualche frase mormorata, e il rumore prodotto da una persona che inciampa. Poi l'educazione ebbe di nuovo il sopravvento, e le conversazioni ripresero in tono sommesso. Campion si frugò nelle tasche. «Ho la moneta adatta» disse. «Lasciate fare a me.» E si accinse ad attraversare la stanza con cautela. La maggior parte dei presenti aveva avuto il buon senso di star fermo, ma qualcuno si muoveva qua e là apparentemente senza scopo. Albert giunse con difficoltà fino alla porticina sotto la galleria, ostacolato anche da Potter, che, stanco di stare in piedi davanti alle sue litografie, si era seduto, appoggiando la sedia contro la porta. Fu proprio mentre spostava la sedia che notò un certo movimento sull'altro lato dello studio, dalla parte del tavolino dei gioielli; ma lì per lì la cosa lo lasciò indifferente. Affrettandosi nel corridoio gelato, e trovato il contatore automatico, Albert vi inserì lo scellino. Rientrando immediatamente nella stanza illuminata, notò di nuovo dell'agitazione vicino al tavolino, e per un momento gli venne l'idea assurda che i gioielli fossero stati razziati dai presenti. Subito dopo però si accorse che si trattava invece di uno svenimento. Una o due persone si erano avvicinate a un corpo ripiegato sul tavolino mentre gli altri invitati facevano di tutto per ignorare l'accaduto. Come per miracolo si era già formata una lunga fila di gente che prendeva commiato dalla padrona di casa. Max, un po' emozionato per l'incidente, ma con sangue freddo mirabile, si associò a Belle nei convenevoli, mentre donna Beatrice si avviava verso l'uscio per stringere la mano ai suoi conoscenti. Lisa e Fred Rennie si trovavano nel gruppo vicino al tavolo e, volgendo gli occhi da quella parte, Campion vide il servitore chinarsi e tirar su la persona svenuta per portarla nella stanzetta-spogliatoio dei modelli attraverso quella porticina che lui stesso aveva varcato poco prima. Vedendo che non poteva fare altro, il giovane si unì alla coda dei visitatori che se ne andavano.
I saluti parevano durare all'infinito, e la fila si muoveva lentamente. Dovevano essere passati almeno sette minuti, e Albert, distratto, era avanzato di un paio di metri appena, quando si rese conto della presenza di Lisa che lo fissava come se volesse richiamare la sua attenzione con la sola forza magnetica. Colto lo sguardo di Campion, la donna gli fece un cenno chiamandolo presso di sé, energicamente. Uscito dalla fila, il giovane si affrettò verso di lei. Lisa lo condusse fin sotto la galleria, attanagliandogli le carni del braccio con le dita ossute. Quando si furono sottratti alla vista dei presenti, si voltò a guardarla con aria interrogativa e rimase sbalordito dal suo aspetto. La donnetta inguainata nell'attillato abito rosso cupo lo stava fissando e il suo viso giallastro era una maschera di terrore. Quando parlò, le labbra parevano irrigidite, mentre la voce le passava a fatica dalla gola. «Il signorino Dacre!» esclamò. «È morto. E le forbici... oh, signor Campion, le forbici!» Albert sostenne la vecchia fra le braccia, vedendola barcollare. 4 Non sono stata io! Una lunga fila di persone usciva lentamente dallo studio. Un senso di disagio era disceso sulla riunione, per quanto la maggior parte dei presenti ignorasse che era accaduto un fatto così grave, e che uno degli invitati giaceva morto nella stanzetta dei modelli, circondato da un gruppo di gente affranta. Forse tutti gli estranei avrebbero lasciato la casa senza saper nulla della tragedia, se Rosa-Rosa non si fosse precipitata nello studio urlando. Le grida attirarono l'attenzione generale e tutti rimasero impressionati dall'aspetto della modella. Il suo volto, reso eccezionalmente espressivo, rivelava un tale terrore che non era possibile rimanere indifferenti. I capelli biondi ricci come quelli di un angelo del Botticelli, le penzolavano in ciocche arruffate intorno alla testa; gli occhi sbarrati parevano incupiti e infossati dall'orrore, e la bocca larga, e adesso livida, aveva assunto la forma di una O sul suo viso. «Madre di Dio! È morto! Mio marito morto... assassinato!» Le sue parole erano state pronunciate in uno stridulo italiano, ma subito le grida ripresero in inglese. «Ucciso! Assassinato! Colpito allo stomaco. Con le forbici.» Ci vollero tre secondi a Max per attraversare la stanza e afferrarla per le
braccia, mentre il silenzio stupefatto degli astanti si saturava di orrore. Fustian parlò sottovoce, e a lungo, a Rosa-Rosa nella sua lingua natale, e la modella si mise a piangere così forte e con singhiozzi così animaleschi da ferire ancora di più i nervi già scossi dei presenti. La maggior parte di loro, dimenticando ogni educata ipocrisia, rimasero fermi a bocca aperta e senza parole, a seguire con gli occhi Max che trascinava la ragazza verso la porticina sotto la galleria. Subito dopo essi videro con stupore sir Gordon Woodthorpe, l'eminente clinico che si trovava fra gli invitati al ricevimento, uscire dalla medesima porticina, con i capelli bianchi arruffati, e due macchie rosse ai lati della gola mentre si passava nervosamente la lingua sulle labbra, un'abitudine contratta nell'infanzia e che non lo aveva più abbandonato. Avvicinatosi rapidamente a Belle, che era in piedi vicino all'uscio, disinvolta e serena in mezzo all'atmosfera d'incubo che l'avvolgeva, sir Gordon parve insistere per assumersi un penoso dovere al suo posto, ma la vecchia signora respinse l'offerta con dolcezza. Appoggiata pesantemente al braccio del medico, la signora Lafcadio disse con voce alta e ancora chiara e armoniosa nonostante l'età e l'emozione: «Signore e signori» la sua voce si arrochì, e rimase un momento silenziosa, guardando i suoi ospiti con bocca tremante. Calò subito il silenzio. Il momento era drammatico e coloro che avevano rapidamente accantonato lo sfogo di disperazione di Rosa-Rosa come uno sgradevole incidente, provocato da un'ubriaca o da un'isterica, si voltarono di scatto ad affrontare la velata paura che li aveva segretamente assaliti. «Miei cari» continuò lei accorata «è accaduta una cosa terribile. È avvenuta... insomma... è avvenuta una disgrazia.» La voce le tremava senza vergogna, e il termine affettuoso rivolto inconsciamente agli ascoltatori conferiva al suo annuncio una verità maggiore, rendendo inoltre più diretta la sua preghiera. Belle continuò a parlare, sempre appoggiandosi pesantemente al braccio del dottore, mentre gli altri la ascoltavano con il fiato mozzo, provando quel tuffo al cuore e quel vago senso di nausea che compaiono sempre prima di sentirsi riferire il peggio. «Un giovane che fino a quindici minuti fa era con noi è morto. È morto qui, in quel momento di oscurità. A sir Gordon sembra... sembra necessario che nessuno si muova finché non arriverà la polizia.» Belle girò intorno gli occhi imploranti, come se volesse supplicare tutti di capire. «Certo non posso ordinarvi di rimanere se volete andarvene» riprese.
«Sarebbe assurdo. Date le circostanze non posso che chiedervelo per favore. Non posso dirvi di più. No so altro nemmeno io.» Terminato il discorsetto, Belle andò a sedersi su una poltrona all'altro lato della stanza, accompagnata da sir Gordon, conscio della propria responsabilità e della propria posizione di protettore della padrona di casa. Un'altra vecchia signora, lady Brain, amica di Belle da molti anni, le si avvicinò rapidamente, e il chirurgo, con un sospiro di sollievo, ne approfittò per tornare presso il cadavere, fingendo di non vedere le occhiate che gli lanciavano gli amici i quali lo avrebbero fermato volentieri. C'erano molte strane particolarità nel delitto avvenuto alla Piccola Venezia, ma nessuna di esse si poteva riferire alla qualità o varietà dell'intelligenza di chi era stato presente a riceverne il primo shock. In Inghilterra, la media dei delitti è di circa centocinquanta all'anno. In maggioranza, sono di natura semplice e sordida, e di regola la somma complessiva delle capacità intellettive di chi è presente alla loro scoperta, risulta inferiore alla norma. Ma qui, alla Piccola Venezia, al momento del delitto, si trovava raccolto un certo numero di persone, tutte di spicco nel loro campo, in maggioranza reclutate dalla classe dei professionisti di successo. Una volta filtrata la notizia della tragedia e assimilato lo shock, la reazione istintiva degli astanti fu abbastanza banale in quanto la metà maschile degli invitati si raccolse in un gruppetto di personaggi dalla faccia grave e dalla voce piena di importanza, ansiosi di far fronte comune e proteggere le loro donne, mentre le suddette donne si ritraevano in disparte e, con l'abitudine alla segretezza che è una loro caratteristica, si mettevano a conversare a gruppetti con la voce, e gli occhi, bassi. Non appena si poté stabilire che la vittima era un giovanotto ben poco conosciuto anche solo di vista da chiunque, le strane particolarità di quella strana riunione cominciarono a farsi sentire. In novantanove casi su cento, coloro che avevano ascoltato Belle si erano preoccupati di cogliere il senso delle sue parole, e non tanto il loro significato letterale; cioè si rendevano conto che era stato commesso un delitto e, per di più, un delitto misterioso (oltre a essere avvenuto nelle loro immediate vicinanze) e, quindi, con l'eccezione di due o tre creature, non solo rare ma anche diverse dalle altre, ogni uomo e ogni donna cominciarono a considerare l'accaduto valutando soprattutto in quale modo e fino a che punto li avrebbe toccati. Ci fu chi rimase sgomento al pensiero della notorietà che l'avvenimento
avrebbe comportato, mentre altri se ne mostrarono spudoratamente eccitati, e immediatamente i fili entrarono in tensione, gli ingranaggi si misero in moto e una cinquantina di piccole commedie cominciarono a essere rappresentate. L'abbronzato, robusto e piuttosto sciocco accompagnatore dell'ambasciatore, i cui occhi avevano avuto un lampo a sentir le parole di Belle e il cui cervello era pronto a cogliere gli eventuali sviluppi di qualsiasi situazione, si concesse la riflessione che, se uno stupido agente di polizia si fosse lasciato persuadere a perdere le staffe per un attimo e a rivolgere una domanda incauta a Sua Eccellenza, si sarebbe potuto farla passare per un'offesa, con il rischio che si verificasse uno sgradevole incidente, evitato solamente per mezzo del tatto e dell'acume dell'accompagnatore, appunto, della suddetta Eccellenza. Intanto, all'altra estremità della sala un militare la cui acuta intelligenza, insieme alla insospettata abilità, lo aveva reso di valore incalcolabile al ministero degli Esteri, stava pensando, mentre scrutava l'ambasciatore con il suo giovane compagno, che una tempestiva telefonata in ufficio non doveva essere difficile da fare e che, nel frattempo, occorreva servirsi di tutti i mezzi possibili e immaginabili per condurre fuori da quella casa l'ambasciatore con il suo accolito, prima che un qualsiasi stupido poliziotto si cacciasse in mezzo. Di conseguenza cominciò a spostarsi, senza dare nell'occhio, verso la casa. Max Fustian, in piedi nell'ombra vicino alla porticina, gettando una rapida occhiata intorno a sé, scoprì con molta soddisfazione che l'unico giornalista rimasto della schiera che aveva invaso lo studio poco prima, era il grosso Cleethorpe dell'insignificante "Daily Paper". Questo tipo, sempre poco sicuro di sé, stava proprio per precipitarsi all'assalto di Belle, quando Max giunse in tempo a fermarlo. «Forse potrò dirvi io quello che volete sapere» fece. Nel mormorio untuoso della voce di Max risuonava la nota dura della disperazione. «Dovete stare molto, molto attento a quello che dite!» esclamò. Il carattere timoroso del giornalista lo rese facile preda del suo interlocutore, e fra i due iniziò una conversazione assai seria. In fondo allo stretto corridoio, in piedi sotto a quel contatore in cui aveva deposto uno scellino così tranquillamente appena un quarto d'ora prima, Campion esitava. Alla sua destra si trovava la porta della stanza dei modelli dalla quale era appena venuto fuori. Aveva ancora ben chiara nella men-
te la scena a cui aveva assistito lì dentro. L'ambiente sapeva di chiuso e di polvere. Il tavolino da toelette era nudo e il sofà verde appariva liso come un mobile da rigattiere. Era su quel sofà che avevano adagiato il cadavere. Nonostante la sua lunga dimestichezza coi delitti, l'investigatore non era tanto incallito da rimaner insensibile davanti allo spettacolo. Inoltre era abbastanza umano per considerare la propria posizione. Pochissimi sapevano qualcosa sul suo conto. Prima di tutto portava un nome falso. La maggior parte dei suoi amici e conoscenti sapeva vagamente che Albert era il figlio minore di un grande personaggio, e che aveva assunto l'ufficio di investigatore ufficioso e di confidente universale prima per hobby e poi per mestiere. I suoi successi erano stati numerosi, ma per mille ragioni Campion preferiva rimanere dietro le quinte ed evitava la pubblicità come la peste. Qualcuno assicurava che fosse in realtà un gregario del vasto esercito di agenti di Scotland Yard il cui lavoro si svolge in segreto. Campion avrebbe respinto energicamente l'insinuazione: comunque aveva molti amici alla Centrale di Polizia. Quella sera, a ogni modo, si trovava in un serio imbarazzo. Nella sua qualità di ospite in casa di amici, sentiva di dover fare tutto il possibile per aiutarli. Conosceva abbastanza bene la legge e la giustizia inglesi per rendersi conto che, in un caso di omicidio, le indagini sono spietate e la punizione inevitabile. Non vi era il minimo dubbio sull'identità del colpevole. Campion aveva presente l'espressione di Linda quando si era voltata dalla finestra di camera sua, dirigendosi verso di lui. Infermità mentale, era chiaro. Rapidamente, considerò l'eventualità dell'insufficienza di prove. I manici delle lunghe forbici affilate spuntavano ancora dal gilè di lana grigia di Dacre. Sir Gordon Woodthorpe aveva avuto il buon senso di non sfilare l'arma dalla ferita prima dell'arrivo del medico legale. Dal momento che sui manici lavorati non c'era la minima superficie liscia, era difficile che vi fossero rimaste delle impronte digitali. Tuttavia... Era sconvolto quando pensava a Linda. Perché la ragazza gli sembrava proprio il tipo emotivo e privo di autocontrollo che poteva cedere con facilità a un impulso improvviso. C'era da meravigliarsi che avesse aspettato fino a quando era mancata la luce. Naturalmente, anche se le cose fossero andate il più liscio possibile e qualsiasi accusa fosse stata lasciata cadere per mancanza di prove, l'avrebbero spedita in manicomio.
Si passò la mano sulla fronte. Era madida di sudore e si accorse di essere gelato. Dio, che cosa terribile era successa! Povera Linda. E povero, tragico, insopportabile, piccolo mascalzone, quello che si trovava cadavere nella stanza accanto. E poi c'era la modella, probabilmente innamorata di lui. Lisa, adesso, cercava di calmarla, parlandole bruscamente nella sua lingua, mentre lacrime cocenti le scendevano sulle guance vizze. Bisognava agire subito, si disse Campion riacquistando il controllo di sé. Sì, agire prima che qualche poliziotto di ronda rendesse tutto più complicato. Si ricordò che il telefono era nell'ingresso e che la porta alla sua sinistra dava in giardino. Occorreva scovare subito l'ispettore Stanislaus Oates: il più furbo e insieme il più cordiale funzionario di Scotland Yard. Era domenica pomeriggio: probabilmente il poliziotto era in casa. Correndo, Albert si rammentò il numero di telefono di Oates: Norwood 4380. Nello studio l'atmosfera si faceva insopportabile. Ogni tanto cadeva un silenzio generale, che pesava. A una o due persone cominciavano a cedere i nervi. Nessuno si lamentava apertamente, soprattutto per riguardo a Belle, la quale con magnifica forza d'animo e con tipico buon senso rimaneva ferma al suo posto, ben sapendo che la sua sola presenza bastava a tenere sotto controllo la situazione. Le piccole commedie continuavano, e alcune erano tragicommedie. Herbert Wolfgang, l'ometto saltellante, roseo e pacioccone che voleva sempre vedere stampato il proprio nome in cima agli articoli di cronaca mondana e pettegolezzi che scriveva, e la cui carriera, un po' troppo fatta di luci e ombre, stava per chiudersi nel modo più vergognoso, a detta dei suoi ex amici, autori di altri, svariati trafiletti sui giornali. Si passò la mano sotto il colletto duro e considerò la situazione. Eccolo davanti a un autentico colpo di fortuna. Un dono divino! E tutti erano presenti, fra l'altro. Girò gli occhi intorno a sé, osservando quei visi pallidi e ansiosi, e gli venne quasi da ridere. Troppo bello per essere vero. Uno dei suoi più lucrosi lavoretti collaterali consisteva proprio nel fare da agente pubblicitario per le signore più in vista nella società mondana. In quella sala, c'erano al momento almeno quattro delle sue clienti. E ora, probabilmente per la prima volta da quando le conosceva, eccole effettivamente "dentro la notizia". Un fremito gli percorse le dita: che smania di picchiettare sui tasti della macchina per scrivere! Intanto prendeva nota mentalmente. Bernard, vescovo di Mold, perfino lui era presente! E non era quella l'attrice che recitava al Daly? Non solo,
ma per un autentico colpo fortunato, si vedeva fra gli altri anche sir Jocelyn! Il Signor Wolfgang diventò pensieroso. Sir Jocelyn stava per essere invitato ad assumere una carica presso la Casa Reale. A meno che il signor Wolfgang non prendesse una cantonata, sir Jocelyn aveva trafficato per vari anni per conseguire tale onore. Una faccenda pericolosa, sotto certi aspetti, la nomina tanto attesa. Molto logicamente, sir Jocelyn poteva essere ansioso di evitare qualsiasi genere di pubblicità, soprattutto se legata (sia pure alla lontana) alla sua persona, una pubblicità di un genere particolarmente spiacevole. C'era da pensare che il facoltoso e ambiziosissimo baronetto fosse interessato alla soppressione del suo nome dalla piccola, vivace e sarcastica rubrica del signor Wolfgang? Il piccolo farabutto dall'aria di cherubino cominciò a spostarsi in direzione della sua vittima. Tutto solo, le mani incrociate sul dorso, i piedi lievemente scostati per tenere più confortevolmente in equilibrio la grossa pancia, colui che aveva acquistato il dipinto stava scrutandolo con aria tetra. Bisognava pensare che questa maledetta faccenda influisse sul valore del quadro? E perché diavolo la polizia non si faceva vedere? Era vergognoso: una persona facoltosa, una persona importante come lui, costretta a rimanere lì a quel modo per colpa di un brutto affare con cui era chiaro che non aveva assolutamente niente a che vedere. Campion rientrò così silenziosamente che nessuno notò la sua venuta: quindi poté parlare un momento con Belle senza essere notato. «Ho telefonato all'ispettore Oates di Scotland Yard» mormorò. «Tutto a posto. Dice che viene subito, ma che è inutile trattenere la gente. In fondo si conoscono tutti, e poi se qualcuno si fosse voluto affrettare ad andarsene dopo... dopo che la luce si è riaccesa, avrebbe potuto farlo facilmente. Ho visto io stesso uscire una trentina di persone.» Non la guardò, mentre parlava. Non si sentiva la forza di affrontare i suoi dolci occhi castani colmi di lacrime. Belle, appoggiandosi al braccio di lui, si alzò. «Lo dico subito» fece. Si avviò verso l'uscio, figura solitaria ed estremamente coraggiosa. A poco a poco i mormorii cessarono e tutti gli occhi si rivolsero interrogativamente verso la padrona di casa. Questa aprì la bocca per parlare, ma, mancandole la voce, si avvicinò semplicemente alla porta e la spalancò invitando con un gesto i presenti a uscire. La fila di gente si rimise in moto, un po' più in fretta di prima.
Belle si teneva dritta, stringendo meccanicamente la mano agli ospiti, e sorridendo appena alle parole di condoglianza e di rammarico. Campion vinse la tentazione di rimanerle vicino. Vi erano altre cose da fare. Il giovane scomparve dalla solita porticina sotto la galleria e infilatosi in giardino dalla porta posteriore, entrò in casa dalla parte della cucina. Intuì che doveva esserci una scala di servizio, la trovò e salì fino al pianerottolo dello studio di Linda, senza incontrare anima viva. Rimase in ascolto fuori dell'uscio. Nessun rumore proveniva dall'interno. Campion non era uno stupido. Linda fin dall'inizio del pomeriggio si trovava in uno stato di nervosismo acuto e quindi non si faceva illusioni su quelle che dovevano essere le sue condizioni mentali al momento. Era preparato a trovarsi faccia a faccia con una pazza. Dopo aver bussato senza ricevere risposta, Campion aprì l'uscio pian piano, e vide la stanza immersa nell'oscurità. «Linda» chiamò sottovoce. Nessuna risposta. Tastando lungo la porta, Albert trovò l'interruttore. Ma illuminato di colpo lo studio, si accorse che era vuoto. Stava per andarsene, quando, apertosi un altro uscio in fondo alla stanza, Linda entrò. Appariva straordinariamente calma nel suo pallore. Si pose un dito sulle labbra. «Zitto» mormorò. «Rosa-Rosa è qui in camera mia, addormentata. Le ho dato una forte dose di bromuro. Non si sveglierà per un pezzo.» Campion si era preparato al peggio, ma le parole di lei gli fecero scorrere un brivido giù per la schiena. «Santo cielo, Linda! Cos'hai fatto?» L'esclamazione gli era sfuggita suo malgrado, mentre si precipitava nella stanza accanto. Rosa-Rosa, col volto arrossato e gonfio di pianto, giaceva sul letto, e sembrava immersa in un sonno abbastanza normale. Campion si chinò sopra di lei, osservandola con attenzione e le tastò il polso appoggiato sulla coperta. Raddrizzatosi finalmente, voltandosi, scorse Linda che lo osservava con un'espressione di stupore che andava lentamente mutandosi in orrore. Quando Albert tornò nello studio, la ragazza, seguendolo, gli toccò un braccio. «Cosa intendevi dire?» domandò senza fiato. Campion la guardò, mentre gli occhi chiari gli si annebbiavano dietro le lenti. «Cosa intendevi dire?» insistette la ragazza.
Lui si passò la mano sulla fronte. «Non so neanch'io cosa pensavo, Linda.» La poveretta si aggrappò a uno sportello dell'armadio per non cadere. «Albert» esclamò «non sospetterai per caso che sia stata io a uccidere Tommy?» Non ricevendo risposta, la ragazza si tirò indietro, con gli occhi spalancati dal terrore. «Albert, tu credi che io sia pazza!» Campion tacque ancora, e Linda si coprì la bocca con la mano, come per trattenere un grido. «Cosa devo fare?» domandò con voce roca. «Cosa devo fare?» A un tratto si mosse, afferrando l'uomo per le spalle. «Amavo Tommy... o almeno così credevo: ero irritata con lui, ma non fino a questo punto... non tanto da impazzire. Mi ero già allontanata da lui quando le luci si sono spente. Ero all'altro capo del tavolino. Ho sentito qualcuno muoversi nell'oscurità, e poi la caduta di un corpo, anche se non mi sono resa conto di quanto era avvenuto. Oh, Albert, mi credi, vero? Dimmi... dimmi che mi credi!» Campion la guardò. La testa gli girava. Non se lo sarebbe mai aspettato: era l'ultima eventualità a cui fosse preparato. La guardò ben bene in faccia, lesse una supplica angosciosa nei suoi occhi e disse in tono pieno di sincerità: «Sì, mia cara. Ti credo, e che il cielo mi aiuti.» 5 I fatti L'ispettore Oates, seduto nella biblioteca della Piccola Venezia con un blocchetto di carta bianca sotto gli occhi, aveva sul volto freddo e un po' stanco un'espressione malinconica. Le ultime tre ore erano state snervanti. Vi saranno forse dei poliziotti che si divertono a strappare segreti a dei testimoni recalcitranti, che sono felici di stabilire senza possibilità di errore l'identità delle persone che si possono più presumibilmente sospettare, e il tutto, una sera di domenica, ma Stanislaus Oates non era di quelli. Aveva trovato l'intera faccenda molto noiosa, molto spiacevole e, con probabilità, foriera di innumerevoli fastidi. L'ultimo teste aveva lasciato allora il salotto dov'erano riuniti i familiari dei Lafcadio, dirigendosi verso la biblioteca, dove Oates lo aspettava con impazienza. Quando la porta si aprì, e un agente in divisa si affacciò ad annunciare il signor Campion, l'ispettore, respinto il blocco degli appunti,
alzò il capo con vivo interesse. Albert entrò nella stanza con la sua solita aria assente e affabile. Se gli occhi esprimevano ansietà, le lenti la nascondevano. L'ispettore guardò il nuovo venuto con aria solenne. E a Campion venne in mente una scena analoga nello studio di un direttore di scuola molti anni prima. Anche allora aveva provato la stessa apprensione, la stessa sensazione di una calamità incombente per quanto, fortunatamente, la questione da dibattere non fosse affatto stata così grave. «E allora?» chiese Oates usando più o meno la stessa inflessione di voce scelta dal vecchio "Buggy", e quasi le stesse parole. «Come hai fatto a trovarti immischiato in questo pasticcio? Hai un bel fiuto per scovar delitti. Vuoi sederti?» L'amicizia di vecchia data che legava i due uomini non influiva minimamente sui loro rapporti professionali. Per i primi due o tre minuti il dialogo fu talmente formale da aumentare sensibilmente la preoccupazione di Campion. «Oates» si decise a dire «ti comporti come se tutto fosse già risolto, e non mancasse che l'arresto materiale del colpevole. È così?» L'altro alzò le spalle. «Lo temo. Sembra molto chiaro, no? Sarà penoso per te, come amico di famiglia, eccetera, eccetera. Tuttavia» proseguì più lentamente «dobbiamo ancora raccogliere delle testimonianze. Per il momento non ci sono prove sufficienti per procedere a un arresto. Nessuno l'ha vista agire, capisci.» Campion sbatté le palpebre. Veder confermata all'improvviso una propria paura, per quanto attesa tale conferma sia, è sempre un brutto shock. Appoggiandosi allo schienale della poltrona, guardò l'amico con espressione seria. «Oates» fece «sei sulla strada sbagliata.» L'ispettore lo guardò incredulo. «Eppure mi conosci da tanti anni» disse. «Mi conosci da tanti anni e stai cercando deliberatamente di impedirmi di procedere... secondo... quello che è...» «Il tuo dovere» Campion riprese impacciato. «No. Mi conosci abbastanza» proseguì «per renderti conto, come mi auguro, che, in faccende come queste, non seguo la mia coscienza. Perché la mia coscienza non ha niente a che vedere con tutto ciò. Se fossi convinto che Linda Lafcadio ha ucciso il fidanzato e che potrei servire una buona causa, gettandoti la polvere negli occhi, potendolo fare, ti garantisco che lo farei.»
L'ispettore bofonchiò. «Bene, così sappiamo come regolarci» disse in tono amabile. «Ma come facevi a sapere che avrei scoperto la colpevolezza della ragazza?» «Be', è la teoria più semplice» disse Campion. «Non ti vorrei offendere, Stanislaus, ma in genere ti butti con entusiasmo sulla pista più facile.» «Non mi offendo affatto» ribatté Oates risentito. «Tu, d'altra parte, perché hai avuto la fortuna di imbatterti in qualche caso interessante, non devi aspettarti che ogni volta ti capiti la stessa fortuna.» Tuttavia qualche cosa nel modo di fare dell'amico aveva turbato l'ispettore. Nelle ultime indagini che avevano svolto insieme, le teorie fantastiche di Campion erano risultate esatte, e Stanislaus, superstizioso nonostante il suo mestiere, aveva cominciato a considerare Albert come una specie di mago, che con la sua stessa presenza trasformava i casi più chiari in tortuosi labirinti di avvenimenti inattesi. «Senti» fece in tono persuasivo, abbandonando il tono da maestro «una ragazza passionale, nervosissima, va incontro al fidanzato che arriva dall'estero. E scopre che lui ha condotto con sé una bellissima modella, e dopo poco viene a sapere che l'ha sposata. Il giovane mascalzone le propone allegramente di mettere su un ménage à trois, e Linda rifiuta, giustamente. Il traditore viene a una festa. La poveretta si trova per caso vicino a lui, pazza di gelosia, quando le luci si spengono. Quelle maledette forbici sono a portata di mano. Che orribili arnesi, Campion! Le hai vedute? Be', la ragazza si trova nell'oscurità. Allora perde la testa, ed ecco fatto. Cosa ci potrebbe essere di più chiaro, di più semplice? È lampante. In Francia, sai, se la caverebbe. Qui mi aspetto che arriveremo a un verdetto di insanità mentale.» Campion fissò l'amico. «Lo sai bene che tutto questo non basta per formulare un'accusa» fece. «C'è un movente plausibile, ecco tutto.» L'ispettore lo guardò, turbato. «Te l'ho già detto che non avevo prove sufficienti» replicò. «Non te l'ho detto forse?» L'altro si chinò in avanti. «A parte la storia della ragazza» insistette «che cosa sai di preciso? Hai trovato impronte digitali sulle forbici? Il colpo è tale da poter essere stato vibrato da una donna? Non è stata molto abile l'assassina a penetrare proprio nel cuore della vittima con una sola pugnalata, data al buio?» Oates si alzò in piedi. «Se ti metti a fare l'avvocato difensore...» comin-
ciò. «Ti sto rendendo un ottimo servizio, mio caro. Perché affezionarti a una teoria sbagliata solo per il fatto che è la prima a venirti in mente? Oppure ti sei già occupato di un delitto svoltosi in questi termini? Ci sono delle impronte sulle forbici?» «Non dirmi che non le hai viste» ribatté il poliziotto e quando Campion assentì, si strinse nelle spalle. «Allora, lo sai da te che era impossibile ce ne fossero. Non ho mai visto un oggetto così stupido. Del buon acciaio sprecato.» Il giovanotto sbatté le palpebre. Ricordava di aver già udito una frase molto simile a quella, e gli parve di rivedere la scena quando, insieme a Linda, aveva chiacchierato con Dacre e la sua stranissima moglie. Solo per un attimo la sua fiducia in Linda vacillò ma, quando gli venne in mente l'episodio di poche ore prima nel suo studio, la sentì riconfermata, e più salda. «Basta, questo punto è chiaro» fece allegramente. «E il colpo? È possibile sia stato vibrato da una donna?» «Ne ho parlato con sir Gordon Woodthorpe e col nostro dottor Benson.» La malinconia s'impadroniva nuovamente dell'ispettore. «È stato un colpo stranissimo, sai. È forse la sola ferita d'arma da taglio che possa uccidere un uomo istantaneamente... cioè, senza che la vittima abbia il tempo di emettere neanche un gemito. Le forbici si sono infilate sotto lo sterno, penetrando nel cuore. Le lame erano abbastanza larghe e grosse per distruggere l'organo completamente. Non credo che l'assassino abbia mirato al punto giusto: direi che era impossibile aver la sicurezza di azzeccarlo. I due dottori hanno confessato che neppure loro ci sarebbero riusciti. Immagino che gli artisti conoscano bene l'anatomia, ma c'è voluta lo stesso un bel po' di fortuna.» «Sei proprio sicuro che una donna avrebbe la forza di vibrare un colpo del genere?» azzardò ancora il giovanotto. «Mah!» E l'ispettore aprì le braccia. «Mia madre non ce l'avrebbe fatta, e dubito che la tua ci sarebbe riuscita. Ma queste fanciulle moderne sotto tutte muscoli, come i ragazzotti. Il colpo era forte, lo ammetto, ma non tale da richiedere un braccio erculeo. E poi, Campion» qui Oates abbassò la voce «c'è una tara di pazzia in famiglia, non è vero?» «Pazzia? No, certo. Non ne ho mai sentito parlare. Sei su una pista sbagliata Stanislaus.» «Quella donna che vive in casa con loro, è forse parente dei Lafcadio?»
Il poliziotto consultò i suoi appunti. «Ecco qui: Harriet Pickering, alias donna Beatrice. Mi sono reso conto che mi avrebbe tenuto in piedi fino a mezzanotte anche se mi fossi limitato a interrogarla sui fatti più comuni, e allora l'ho rimandata a più tardi. Ebbene, senza ombra di dubbio, quella è un classico tipo di isterica; vicinissima allo stato di pazzia, direi. Sai di chi parlo... di quella che ha il cornetto acustico» continuò Oates, irritato dal volto inespressivo di Albert. «Non mi riusciva di cavarne nulla, e così l'ho affidata ai medici. È venuta fuori con una storia fantastica di luci attorno alla mia testa. Raccontava di aver visto delle luci anche intorno alla testa della vittima. C'erano di mezzo anche il colore indaco e i sentimenti più bassi. Oltre tutto sembrava mascherata. Forse non sarà da manicomio... ma non è certo compos mentis, poveretta. Chi è quella donna? E cosa fa qui?» Campion fece del suo meglio per tracciare all'ispettore una breve biografia di donna Beatrice, mentre l'altro sgranava gli occhi, stropicciandosi i baffi come se volesse strapparseli. «Davvero!» esclamò. «L'ispiratrice dell'artista? Non credevo che Lafcadio fosse uomo da avere simili avventure.» «Infatti» replicò Campion «non credo che i suoi rapporti con la signora Pickering abbiano mai varcato i limiti del più assoluto rispetto.» «Ah! Be', ecco che rientriamo nel campo della pazzia» riprese Oates. «Tutta la gente che abita qui è stranissima. La cuoca è un'ex modella; e che mi dici di quella coppia stravagante che abita in una rimessa in giardino? Credo che finirai per scoprire che qualcuno è pazzo. Per conto mio, di pazzia qui ce n'è dappertutto.» «E la signora Lafcadio?» osò chiedere Campion. L'altro sorrise. «A lei non pensavo» fece. «È davvero piacevole incontrare una donna vera, dato che sono tanto rare. Le ho detto che dovrebbe andare a distendersi. E ora bisogna che tu la prepari al peggio: credo che dovremo arrestare sua nipote.» «Faresti uno stupido errore.» L'ispettore tacque per qualche momento. «Se vuoi liberarti di quei baffi, perché non te li radi?» disse Campion. L'ispettore rise e lasciò ricadere la mano. «Basta» fece «in fin dei conti tutto rientra nella ordinaria amministrazione. Quel Rennie mi sembra un uomo intelligente. Gli ho chiesto una lista degli invitati. Non si sa mai, può saltar fuori qualcosa. La ragazza aveva il movente e ha avuto l'opportunità d'uccidere. So che non bastano, ma sono
nove punti su dieci a suo carico. Vuoi andare tu dalla vecchia signora, Albert, mentre parlo con Rennie? Ah, ma prima dimmi se hai visto qualcosa. Manca la tua deposizione. Dove ti trovavi quando è successo?» «In corridoio. Stavo mettendo uno scellino nel contatore.» «Si capisce!» esclamò l'ispettore con amarezza. «Quasi sicuramente eri l'unico dotato di una certa tecnica di osservazione, e non ti trovavi sul posto al momento giusto!» Oates accompagnò l'amico fin sulla porta. «Vedi, la storia del contatore è un altro punto misterioso» disse. «Nessuno può aver fatto spegnere la luce a un momento prestabilito. Tutti i fatti ci inducono a credere che l'assassino abbia compiuto un gesto impulsivo, pazzesco, che per caso gli è riuscito. Segui la pista della follia; vedrai che ti condurrà in porto.» «Se arresti quella ragazza, non troverai nessuna prova a suo carico» fece Campion, girando la maniglia dell'uscio. «Questo è il guaio» ribatté l'ispettore. «In tal caso non potremo giungere a una condanna, ma tutti resteranno convinti che la colpevole è lei.» «È proprio questo che temo» disse Campion e uscì. 6 Il bel gesto Campion salì lentamente fino in salotto, riflettendo sulla situazione assurda in cui si trovava. Temeva l'incontro con la famiglia Lafcadio, sapendo che Belle si sarebbe rivolta a lui in cerca di consolazione, e non sentendosi in grado di confortarla date le circostanze. L'atmosfera glaciale della tragedia pervadeva tutta la casa. Perfino l'aria del vestibolo era gelida e, nello stesso tempo, stranamente soffocante. Era necessario avvertire le padrone di casa dell'intenzione dell'ispettore; Campion se ne rendeva conto; e poi c'era la questione della pazzia. Più pensava al suo compito, meno gli piaceva. Aperto l'uscio del salotto, entrò. Erano tutti lì, eccetto Linda e Rosa-Rosa. Belle era seduta sulla solita poltrona vicino al fuoco, proprio come la sera prima. La vecchia signora era molto seria, ma senza traccia di debolezza nel volto. Con le mani intrecciate in grembo, fissava il fuoco, la bocca stretta in una piccola smorfia di compassione. Lisa piangeva silenziosamente, raggomitolata in una sedia bassa vicino
alla padrona. Ogni tanto si tamponava gli occhietti neri con un fazzolettone bianco. Dall'altro lato del caminetto, donna Beatrice, l'unica che si fosse cambiata di vestito, era avvolta in un abito di georgette nero, con una catena d'argento alla cintura e una grande croce pure d'argento appesa al collo. Max passeggiava su e giù per la stanza con impazienza. Come donna Beatrice, si era reso subito conto delle drammatiche conseguenze che sarebbero derivate dal delitto e pur non servendosi dell'evento a scopo pubblicitario, ne traeva evidentemente una certa soddisfazione. Nella peggiore delle ipotesi era pur sempre una novità nel piccolo palcoscenico della sua vita. E poi c'era un interrogativo in sospeso; lo scandalo avrebbe recato vantaggio alla reputazione di Lafcadio oppure danno? Con uno sguardo distratto a Campion che entrava, Max ebbe un gesto di finta desolazione. L'accoglienza di donna Beatrice fu più teatrale. La donna si alzò in piedi. «La vostra aura» esclamò. «La vostra aura... Entrando, sembravate una fiamma... una vigorosa fiamma cosmica.» Lisa borbottò una protesta nella sua lingua natale, e Belle tese la mano per calmarla. Donna Beatrice ricadde a sedere. «Le vibrazioni di questa casa sono terribili» continuò. «L'aria è piena di spiriti malvagi che si affollano. Li sento che mi opprimono, mi logorano. Per te tutto va bene, Lisa. Ti passano vicino. Ma io sono in armonia con la coscienza superiore, e so che siamo tutti in pericolo. L'atto infame ha messo in moto milioni di vibrazioni. Dobbiamo essere molto forti. Io devo essere molto coraggiosa.» Belle distolse gli occhi dal fuoco, e lasciò che il suo sguardo dolce si soffermasse sull'altra donna. «Harriet» disse «non ti ci beare.» Era la prima frase maligna che le avessero mai sentito dire, e per questo fu eccezionalmente efficace. Max si lasciò sfuggire un sorriso, Lisa smise di tirar su col naso; quanto a donna Beatrice emise un suono come di gallina impaurita. Poi, con enorme dignità, cercò di imporre nuovamente la propria autorità. «Cara Belle, dovresti riposare. Questa terribile faccenda ci dà sui nervi, a tutti. Io riesco a sopportarla soltanto perché sono uno spirito reincarnato. Chissà quante altre volte ho superato simili emozioni!» Belle, rassegnata all'irrimediabilità dell'isterismo, finse di non sentire, tendendo la mano a Campion.
«Venite a sedere qui, caro» lo invitò. «Ditemi, chi stanno per arrestare?» Il giovanotto le lanciò una rapida occhiata. L'acutezza di quella donna lo sorprendeva sempre. Poi si accorse che tutti lo guardavano ansiosi di notizie. E si rese conto allora di essere il solo amico di quella gente, l'unico anello che li legasse alla polizia. «Sentite, Belle» fece, trattenendo la mano di lei nella sua «la mia domanda è un po' strana, ma ho bisogno di sapere se qualcuno fra gli invitati, o...» esitò un momento «o fra voi, vada soggetto ad accessi di furore. C'è stato qualche incidente di questo genere in passato? Non violenze verbali, capite, ma... insomma, non vi ricordate se qualcuno di vostra conoscenza abbia mai attentato alla vita altrui?» Qualunque fosse la risposta che Albert si aspettava, l'effetto della sua domanda fu impressionante. Un gemito di dolore e insieme di spavento risuonò al suo orecchio, mentre Lisa, pallida come una morta, si alzava e usciva barcollando. Ci fu una ventata di aria gelida mentre la porta si spalancava e, poi, lo scatto sommesso mentre si chiudeva, che echeggiò nell'ambiente silenzioso. «A quanto pare anche Lisa è partecipe di una consapevolezza superiore» Max mormorò con voce lenta, venata di scortesia, mentre donna Beatrice trasaliva. La stretta della mano di Belle, chiusa in quella di Campion, si fece più forte. Donna Beatrice si strinse nelle spalle. «Così, finalmente, è saltato fuori. Non appena ho visto quelle forbici ho capito che avevano qualcosa di strano. E quando le ho toccate ho provato una vaga repulsione. Avrei dovuto capirlo... avrei dovuto capirlo!» Campion guardò Belle. I suoi occhi erano acuti dietro le lenti, e le sue maniere si erano fatte autorevoli. «Credo che dovreste spiegarmi questo mistero» fece. «Cos'è successo?» La vecchia signora non si decideva a parlare, ma donna Beatrice si slanciò nel racconto con un entusiasmo assai poco caritatevole. «Qualche anno fa» cominciò «Lisa mi ha assalita senza ragione nello studio, in uno scoppio di furore incontrollabile.» «Beatrice!» Belle tendeva la mano come per interrompere il racconto. «Sciocchezze! Non si può tener nascosta una cosa simile. Campion ha chiesto la verità, e bisogna dirgliela. Dopo tutto, dobbiamo difenderci. Quando ci si trova ad affrontare una creatura giovane non del tutto equilibrata, bisogna essere pratici, e proteggerci.»
Albert ascoltava pazientemente; anche Max aveva interrotto la sua passeggiata per la stanza, fermandosi dietro la poltrona di Belle a osservare il volto placido di donna Beatrice. E lei, accorgendosi che tutti stavano ad ascoltarla, raccontò la sua storia con una finta e garbata esitazione che gli altri trovarono insopportabilmente irritante. «Fu quando il maestro era ancora vivo» attaccò, abbassando gli occhi come faceva sempre nel pronunciare quel nome. «Lisa cominciava a perdere la sua bellezza... voglio dire, ogni traccia di bellezza. La disgraziata mi confidò di sentirsene turbata, e io tentai di consolarla parlandole della bellezza spirituale. Naturalmente in quei tempi avevo poca esperienza, altrimenti mi sarei resa conto che ogni discorso del genere era sprecato con lei. Comunque, la poveretta andò su tutte le furie, e mi assalì. Da allora sono stata costretta molte volte a ricordarle l'incidente. Lì per lì non la denunciai perché il maestro non volle, ma non ho mai dimenticato quel giorno. Alzai le braccia per ripararmi il volto, e ne ebbi un taglio profondo quasi un centimetro nei due avambracci. La cicatrice si vede ancora sul braccio sinistro. Tentava di sfigurarmi, capite!» Campion guardava stupefatto l'ex modella. Sembrava impossibile che la donna non si rendesse conto della gravità dell'accusa che stava formulando. «Ecco a cosa pensava Lisa, scappando dalla stanza poco fa» continuò donna Beatrice. «È comprensibile, vero?» Belle osservava l'investigatore con ansia. «Sono passati venticinque anni» fece. «Più di venticinque anni. Credevo che tutti avessimo dimenticato l'incidente. John ne fu tanto sconvolto, e la povera Lisa era così pentita e addolorata! Bisognava proprio tirar fuori tutto questo?» Ma Campion aveva un'aria rassicurante. «Non credo» disse. «Dopo tutto il fatto di oggi è ben diverso, non vi pare?» Donna Beatrice tese verso il giovane l'indice bianco e sottile. «So che bisogna essere caritatevoli» commentò «e mi rendo conto che bisogna agire secondo il bene. Ma c'è qualcosa che Belle non ha detto, e che mi sembra significativo. Fu con un paio di forbici che Lisa tentò di ferirmi. Le aveva in mano, per caso, mentre le parlavo.» «Oh, Beatrice!» esclamò Belle con un amaro rimprovero nella voce. «Come hai potuto...!» Ma Campion non si era lasciato impressionare. Pensava che qualunque donna, nella situazione descritta da donna Beatrice, sarebbe stata tentata di
far tacere quell'insopportabile voce con la prima arma che le fosse capitata sotto mano. Quindi scosse il capo con aria decisa. «No» fece. «Oates non sospetta affatto di Lisa.» «Naturale!» replicò donna Beatrice. «Spero che non sospetti di nessuno di noi! È evidente che quel povero Dacre, confuso e sconnesso, si è ucciso. Ho già detto all'ispettore che ieri sera vi erano dei raggi marrone e indaco intorno al capo del poveretto. Provate un po' a leggere tutto quello che gli studiosi più autorevoli dicono a proposito dei raggi marrone e indaco. Suppongo che neanche l'ispettore metterà in dubbio l'autorevolezza di uomini come Kunst e Higgins. Quei raggi significano violenza, depressione e abbassamento del tono cosmico. Un caso semplicissimo di suicidio. In fondo, è l'unico modo caritatevole di interpretare quanto è successo.» «Dite di aver visto dei raggi?» esclamò Max, fissandola con i suoi incisivi occhi scuri. «Siete pronta a giurare in un'aula di tribunale di aver visto raggi di luce colorata circondare la testa del ragazzo Dacre in un momento qualsiasi della vostra esistenza?» Donna Beatrice ebbe un lampo di incertezza nello sguardo che subito dileguò. «Sì» rispose nel suo solito tono esasperante. «Anche adesso vedo raggi che circondano le vostre teste. E nella vostra aura, Max, ci sono troppi colori scuri, sapete?» Lui continuò a fissarla incupito, con visibile irritazione. Poi le fece un profondo inchino. «Mia cara signora, siete superba» mormorò, e le voltò le spalle con un gesto esagerato di esasperazione. Ma donna Beatrice seppe tenergli testa. «Non agitatevi tanto, Max» disse. Belle appariva distratta. Gli occhi castani si erano fatti pensosi, mentre le labbra le si muovevano nervosamente. A un tratto si rivolse ad Albert. «Caro» fece «bisogna bene ch'io lo sappia, prima o poi, vero? Cosa c'è? Che sospettano? Linda?» Campion le strinse la mano che teneva ancora nella sua. «È solo un'idea stravagante di Stanislaus» disse senza convinzione. «Nulla di preoccupante, si capisce.» Belle annuì senza ascoltarlo. «Oh, Dio mio!» Max e donna Beatrice abbandonarono per la sorpresa le loro bizze. «Linda!» esclamò l'ispiratrice di Lafcadio. «Oh, che orrore, che infamia! Oh, Belle, dobbiamo far qualcosa.» Fustian si pose faccia a faccia con Campion. Sembrava meno artefatto e più umano di quanto il giovanotto lo avesse mai veduto.
«Un'altra cantonata di Scotland Yard?» domandò amaramente. Ormai immerso fino al collo nei guai, Campion cercò di tenersi a galla alla meglio. «Ma» disse «c'è il movente, intanto. È assurdo, si capisce, ma il fatto che Dacre avesse sposato Rosa-Rosa ha suggerito all'ispettore...» S'interruppe. «Dacre ha sposato quella piccola modella?» esplose donna Beatrice. «Oh, che orrore! Oh, povera Linda! Capisco quel che deve provare. Povera figliola! Dovrei andare da lei?» Sembrò che Max e Campion avessero avuto la stessa idea perché si mossero simultaneamente, come se fossero pronti a trattenere la brava donna anche con la forza, se fosse stato necessario. Belle lasciò che sul suo viso si disegnasse un'espressione grave e severa. «Non fate la sciocca, Harriet» disse. «Dobbiamo farci coraggio, unire le forze e pensare qual è la soluzione migliore. Logico che la povera bambina è innocente, su questo non si discute neanche, ma non tutti lo sanno bene come noi. Albert, mio caro, cosa dobbiamo fare?» Donna Beatrice scoppiò in singhiozzi. Ma quando cominciò a tirare su col naso, sia pure con la massima delicatezza, questo che forse è il suono più irritante del mondo, fece aumentare a tal punto la tensione nel salotto che divenne insostenibile. Belle tremava. Campion la vedeva sforzarsi di trattenere le lacrime per riflettere. Lì per lì Max era stato dimenticato, cosicché quando parlò con la sua voce esageratamente strascicata, tutti sussultarono. «Miei cari» fece «non vi agitate. Vedo che la situazione va chiarita immediatamente, e se mi permettete di telefonare, Belle, credo che tutto si sistemerà in modo soddisfacente.» Avvicinatosi all'apparecchio con il suo solito fare baldanzoso, formò un numero. Gli altri stettero in ascolto, come avviene sempre quando qualcuno telefona, perché origliare a questo modo è qualcosa di irresistibile per tutti. «Pronto. Siete voi signora Levy? Sono Max Fustian. Posso parlare un momento con Isadore?» Campion si rammentò che Isadore Levy era quell'individuo astuto e muscoloso, socio di Fustian nella sua galleria d'arte in Bond Street. «Pronto, sei tu caro? Senti. Non ho molto tempo. Manda la signorina Fischer alla mostra di Picasso. Sa quali sono le mie idee, e bisogna che il mio articolo questa settimana lo faccia lei. Adesso senti...» e continuò, senza badare a una domanda rivoltagli dal suo interlocutore. «L'america-
no... sai a chi alludo... verrà probabilmente domani. Mostragli solo il Degas. Capito? Niente altro. Solo il Degas. Va' da solo alla vendita del castello di Leamington. La nostra offerta massima è quindicimila: non un soldo di più. Deve bastare... non discutere... deve bastare.» Si pose in ascolto, e quando parlò di nuovo, la sua voce, a furia di voler sembrare indifferente, non formava quasi le parole, tanto che Campion arguì che Fustian si trovasse in preda a un'eccitazione tremenda. «Sì» diceva il mercante d'arte al telefono «sì, starò assente per due o tre giorni: forse di più. Come? Importante? Sì, da un certo punto di vista, è una faccenda importante...» Alzò l'apparecchio e guardò lo sconcertato gruppetto intorno al fuoco. Quando ebbe la conferma di aver ottenuto la loro attenzione, tornò a dedicarsi alla telefonata. La mano gli tremava, e gli occhietti scuri scintillavano. «Amico mio, perché insisti tanto? Ebbene sia: non so quando tornerò. Il mio ritorno è dubbio. Sì... Capisci, sto per scendere da quel lugubre poliziotto che c'è giù, nella sala da pranzo dei Lafcadio.» Alzati gli occhi, continuò, rivolgendosi sia al gruppo raccolto nella stanza sia al suo interlocutore. «Sto per confessare un delitto, ecco tutto.» 7 La confessione «Dunque voi avete ucciso volontariamente, signor Fustian? Ebbene, se non vi dispiace, sedetevi e raccontateci chiaramente e brevemente come e perché l'avete fatto.» La voce lenta dell'ispettore si levò di una freddezza impressionante nella stanza la cui atmosfera vibrava ancora di tutta la drammatica eloquenza dell'annuncio di Max Fustian. Il dramma parve farsi più intenso, più serio, e si delineò meglio la differenza fra la realtà e la commedia. Intanto un agente, seduto a un'estremità della lunga tavola di mogano, respirava forte, tenendo pronta la matita per scrivere. Oltre all'ispettore e a Fustian, anche Campion si trovava nella stanza, appoggiato con aria di apparente distacco alla libreria, la testa bionda un po' china, le mani in fondo alle tasche. L'illuminazione sembrava fievole, in modo addirittura fastidioso, e l'atmosfera della stanza fredda e soffocata.
Max era eccitato, per non dire esaltato. Macchie febbrili gli arrossavano le guance giallastre, e gli occhi gli brillavano in modo innaturale. «Volete una confessione ufficiale, ispettore? Va bene, è nell'ordine naturale delle cose. Mi chiamo Max Fustian. Ho quarant'anni...» «Lasciate andare, signor Fustian.» Di nuovo la voce paziente e priva di emozione dell'ispettore diede una nota genuina alla scena (un po' da istrione) di Max. «Sappiamo tutto. Non occorre che ci facciate una dichiarazione formale finché non conosciamo i fatti. È molto importante procedere per gradi in un caso come questo. Non bisogna far sbagli in principio. Se si parte bene, tutto riesce più facile dopo. Non parlate troppo in fretta perché Bainbridge deve scrivere ogni vostra parola. Riflettete prima di parlare. Ciò che si scopre in seguito è quasi sempre basato sulle dichiarazioni fatte in principio, e una parola pronunciata ora ha più peso di una dozzina dette domattina. Dunque, cominciate dal momento in cui avete deciso di uccidere quel signore.» Max guardò il poliziotto dal volto grave e dalla parola lenta con sommo disprezzo. Come pubblico pronto a manifestare la propria ammirazione, l'ispettore era un fallimento. «Protesto contro questa procedura burocratica» esclamò. «Non capite che sto cercando di rendermi utile? Se non mi fossi fatto avanti, voi vi trovereste ancora in alto mare. Mi son deciso iersera a uccidere Dacre. Non so con precisione né quando né come, ma appena ho saputo che quell'imbecille aveva sposato Rosa-Rosa, facendo un simile affronto alla signorina Lafcadio, ho capito che era necessario toglierlo di mezzo. Il movente era puramente altruistico. Sono afflitto o dotato, secondo il modo di vedere, dalla mania di prendermi a cuore i guai altrui.» Si era messo a passeggiare su e giù pronunciando le frasi, corte ed esplosive, con una chiara presunzione, quasi infantile. L'ispettore lo scrutava gravemente e l'agente scriveva senza mai alzare il capo. Campion sembrava sprofondato nei propri pensieri. «Non ho avuto il tempo di stendere un piano. L'occasione mi si è presentata, e l'ho colta. Quelle forbici mi avevano affascinato fin dal principio. Quando la luce si è spenta, ho capito che il momento era propizio. Il resto è stato semplice. Ho attraversato lo studio senza rumore, e, afferrate le forbici, l'ho colpito. Il ragazzo è caduto con un gemito. L'arma mi è rimasta in mano. Puliti i manici, l'ho lasciata cadere sul suo corpo e mi sono allontanato. È stato semplicissimo. Non mi pare di aver altro da dire. Volete che
venga subito con voi? C'è un posteggio di tassì all'angolo della strada. Forse Campion sarà così gentile da dire a Rennie di chiamarne uno.» Oates grugnì. «Non c'è fretta, signor Fustian» disse con calma. «Lasciateci fare a modo nostro, per favore. Ho due o tre domande da farvi. Bainbridge, leggete la descrizione del ferimento.» L'agente si schiarì la voce e lesse alcune frasi senza espressione e senza punteggiatura. «Ho attraversato lo studio senza rumore e afferrate le forbici ho colpito il ragazzo è caduto con un fremito l'arma mi è rimasta in mano puliti i manici l'ho lasciata cadere sul suo corpo e mi sono allontanato.» «Ah, Bainbridge» fece l'ispettore «la parola esatta è gemito.» «Grazie, signor ispettore» replicò l'agente correggendo lo scritto. «Già, già» riprese Oates «va tutto bene fin qui. Ora, signor Fustian, supponiamo che queste siano le forbici. Volete prenderle in mano, per favore?» Preso un righello dal tavolo, l'ispettore lo porse con serietà al mercante d'arte. «Tu, Campion, vieni a fare la parte della vittima, per piacere. Dacre sedeva sull'orlo del tavolo dove erano esposti i gioielli: credo che vi stesse appoggiato, con le mani sul ripiano. Vuoi assumere questa posa, Campion?» L'interpellato si avvicinò cortesemente, mettendosi nella posizione indicata dall'amico. Ci volle un po' di tempo perché questi fosse soddisfatto, ma finalmente, con un passo indietro, l'ispettore si volse a Max. «Dunque, signor Fustian, volete mostrarci con quel righello il modo preciso in cui avete colpito la vittima?» «Ma è una cosa ridicola... insopportabile!» La voce di Max si era fatta acuta per l'esasperazione. «Ho confessato. Cosa volete ancora?» «Pura burocrazia, signor Fustian. Vogliamo fare le cose come si deve. Ci si risparmiano tante noie alla fine. Dunque, rifate esattamente i gesti che avete compiuto nello studio al buio. Vi siete avvicinato alla vittima. Fingiamo che abbiate già afferrato le forbici.» Max fissava l'uomo, con gli occhi luccicanti. Tremava per l'eccitamento e la rabbia. Tuttavia riuscì a controllarsi, e con una spallata sprezzante, fece il suo solito sorrisetto acido. «E sia» rispose. «Se avete voglia di divertirvi, perché no? Guardate bene, e imparate come si commette un delitto.»
Afferrato il righello, Fustian alzò il braccio in aria, abbassandolo rapidamente fino a un centimetro dal panciotto di Campion. «Ecco» esclamò. «Semplicissimo. Dritto fra le costole fino al cuore. Proprio un bel colpo. Confesso di esserne piuttosto soddisfatto.» L'ispettore annuì senza commenti. «Rifatelo, per favore» insistette Max ubbidì. «Ho alzato il braccio così, riabbassandolo con tutta la mia forza.» «Avete trovato resistenza?» domandò inaspettatamente Oates. Fustian alzò le sopracciglia. «Mah, ho... ho sentito la resistenza del panno del gilè, e credo di aver sfiorato un osso, ma è accaduto tutto così presto. Temo di non possedere una mentalità fredda come la vostra, ispettore.» «È molto probabile, signor Fustian.» Nel tono di voce del poliziotto trapelava una certa impazienza. «E cos'avete fatto poi, cioè dopo aver superato la resistenza dell'osso?» «Ho sentito Dacre che si accasciava. Poi.... ah, vediamo... poi ho asciugato i manici delle forbici col fazzoletto, lasciandole cadere sul suo corpo. Quindi mi sono allontanato. Avete altro da chiedermi?» Oates parve riflettere. «No» rispose finalmente. «No, credo che non ci sia altro. Sedetevi, prego.» «È proprio necessario tutto questo tergiversare?» La voce strascicata di Max si era fatta lamentosa. «Dopo tutto, questa faccenda è snervante per me, ispettore, e sarei contento di farla finita.» «Ne saremmo contenti tutti, signor Fustian» replicò il poliziotto in tono di leggero rimprovero. «Ma si tratta di una faccenda seria. L'omicidio porta alla pena capitale, ricordatevene. Quindi, come dicevo, non vogliamo commettere nessun errore fin dal principio. Datemi quel foglio di appunti, Bainbridge, per piacere. Grazie. Dunque, voi avete attraversato la stanza al buio, afferrando le forbici. La luce si è spenta per puro caso. Fu una sorpresa per tutti. Su questo non c'è il minimo dubbio. Abbiamo testimonianze secondo le quali, quando la luce si è spenta, voi stavate discorrendo con la signora Harriet Pickering a una distanza di quattro metri e mezzo dal tavolo al quale la vittima stava appoggiata. Noi abbiamo tre deposizioni che lo dichiarano concordemente. Dunque, secondo il vostro racconto, voi avete dovuto attraversare la stanza per impadronirvi delle forbici.» «Non solleveremo dubbi su questo fatto» continuò l'ispettore, trattenendo con un gesto Max, che stava per scattare. «Voi dichiarate (abbiamo in-
sistito su questo punto, e ci avete descritto il vostro atto col gesto e con la parola) di aver alzato il braccio armato, abbassandolo con la forza, e vincendo la resistenza del panciotto, nonché quella di un osso sfiorato dalla lama.» «Ora, tutto questo ci porta alle constatazioni seguenti: primo, il colpo che ha ucciso Tommy Dacre è stato vibrato assai scientificamente dal basso in alto. Secondo, siccome la vittima indossava un gilè di lana e non un panciotto, l'arma ha trovato ben poca resistenza. Le lame sono penetrate sotto alla costola inferiore, raggiungendo direttamente il cuore, e causando una morte quasi istantanea.» Max, rigido e bianco sulla sua sedia, fissava con gli occhi lucenti il volto dell'ispettore. Questi appariva leggermente preoccupato e molto serio. «Torniamo alla vostra deposizione, signor Fustian. Voi dichiarate di aver estratto le forbici e di averne ripuliti i manici, lasciandole poi cadere sul corpo di Dacre. Metto in dubbio questo punto perché in realtà l'arma è rimasta conficcata nella ferita finché non l'ha tolta il medico legale. Inoltre, i manici non erano stati ripuliti.» «Mi pare che non ci rimanga altro da considerare, se non la questione del movente. Noi studiamo molti delitti ogni anno, che vengono commessi quasi tutti per ragioni elementari, e a volte anche molto giuste. L'assassino altruista è rarissimo, ma naturalmente non possiamo sapere se voi non siate uno di quei pochi finché il medico legale non ci avrà fornito una perizia sul vostro stato mentale. Tuttavia vorrei proprio risparmiarvi una visita medica. Non mi pare necessaria, date le contraddizioni cui ho accennato.» Max fissava l'ispettore. «Intendete forse dire che si respinge la mia confessione?» domandò con freddezza. Oates, prima di rispondere, ripiegò il foglio di appunti dell'agente, riponendolo nel portafogli. Poi lo guardò. I suoi occhi un po' affaticati avevano la solita espressione gentile. «Infatti, signor Fustian» fece. «Proprio così.» L'altro non disse nulla, e dopo un breve silenzio fu l'ispettore a riprendere la parola. E lo fece con estrema pacatezza e in tono amichevole ma inaspettatamente autoritario. «Sentite, signor Fustian» disse. «È bene che voi comprendiate la vostra posizione. Noi dobbiamo scoprire la verità. Senza dubbio voi avete agito per ottime ragioni. Avete pensato che una giovane donna stava per venire arrestata, e avete voluto risparmiarle questo shock. Probabilmente pensa-
vate che fossimo su una falsa pista, e vi è parso che qualunque mezzo fosse buono per impedirci di far soffrire un'innocente. Apprezzo la vostra generosità, ma dovete rendervi conto che così facendo perdete il vostro tempo, e ci fate perdere il nostro.» «Ah, è bene che sappiate, prima di andarvene, che la signora Pickering ha dichiarato di aver conversato con voi durante il periodo di oscurità; dunque capite che il vostro bel gesto non ci ha illusi neanche un momento. Buonasera.» Vi fu un attimo di silenzio; poi Max si alzò lentamente e uscì senza una parola. I poliziotti udirono i suoi passi veloci allontanarsi lungo il corridoio. Oates fece un cenno all'agente, che uscì a sua volta. Solamente allora Campion scambiò un'occhiata con l'amico. «Che brutta commedia» osservò. L'altro grugnì. «Ne capitano continuamente di casi simili. Li chiamano esibizionisti, vero? Comunque, siamo al punto di prima. Non si è guadagnato nulla. Lascio altre ventiquattrore di libertà a quella ragazza, per vedere se dovesse accadere qualcosa di nuovo. Ora sarà meglio che vada a fare il mio rapporto. Belle cose accadono in un pomeriggio di domenica!» Campion accese una sigaretta. «È incomprensibile» fece. «Hai ragione di dire che la sola persona al mondo che avesse qualche motivo per uccidere un giovanotto insignificante come Dacre, era Linda; ma io sono sicuro che non è stata lei. Sarei pronto a scommetterci i miei ultimi spiccioli. Naturalmente» aggiunse con ottimismo «può essere stato un caso. Può darsi, cioè, che non fosse Dacre la vittima designata. Dopo tutto, l'intera faccenda è molto curiosa: un colpo allungato al buio che raggiunge perfettamente il bersaglio, e via dicendo.» «È un imbroglio» fece l'ispettore, malinconicamente. «L'ho capito subito, appena mi hanno telefonato nel pomeriggio» continuò in tono concitato, come se fosse una di quelle persone che credono nei presentimenti. Batté un dito sulle carte che aveva davanti. «A giudicare dalle deposizioni, sembra di essere in un manicomio. Fra tutte, sono appena una o due le dichiarazioni un po' precise. Quella della signora Potter è una delle migliori. Sembra una donna che sa il fatto suo. Ma il marito è la persona più indefinibile. Sai cosa ti dico Campion? A volte mi chiedo come riescano a campare. Lo sa Dio se non è già una gran fatica quando si hanno tutte le rotelle che funzionano. Eppure sono tipi che non muoiono. C'è qualcuno che pensa a loro.»
Campion accompagnò l'amico fino alla porta, e mentre attraversavano insieme il vestibolo, l'uomo di cui stavano parlando uscì frettolosamente dalla sala da pranzo. Il volto rubicondo e malinconico di Potter esprimeva una tristezza ancora più profonda del solito, e gli occhi sembravano impauriti. «Oh, sentite, vorrei tornare nel mio studio» fece. «Mi pare inutile rimanere qui ancora. È una faccenda molto triste, si sa, ma dobbiamo pur vivere. Voglio dire che la vita deve continuare, no? Qui non servo a niente.» Il disgraziato stava sulla soglia della sala da pranzo, e due volte durante il suo breve discorso gettò uno sguardo inquieto nella stanza che gli stava alle spalle. Appariva così agitato che i due poliziotti istintivamente diedero un'occhiata nella medesima direzione. Ciò che scoprirono li riempì di stupore. Distesi davanti al fuoco, due piedi infilati in un paio di comode scarpe marrone si intravedevano dal vano della porta. L'ispettore entrò nella stanza, scostando Potter che protestava debolmente. «Va bene» fece Oates «non c'è nessuna ragione perché voi non possiate tornare nel vostro studio. Non abitate qui, in giardino?» «Sì, sì» e Potter continuò a muoversi davanti all'ispettore in un futile tentativo di nascondergli una figura distesa sul pavimento. I suoi sforzi furono vani, tuttavia, e Campion, seguendo l'amico, si trovò a fissare la signora Potter stesa ai suoi piedi, col volto paonazzo, i capelli in disordine e gli occhi chiusi, che russava. Il signor Potter, con un'alzata di spalle, abbandonò scoraggiato ogni tentativo di nascondere la moglie. Poi, quando il silenzio, prolungandosi, si fu fatto opprimente, aprì bocca, come per scusarsi. «È mia moglie» disse in tono imbarazzato. «L'emozione è stata troppo per lei, capite. È molto sensibile, come accade spesso alle donne energiche.» «Fareste bene a metterla a letto» ribatté disinvolto l'ispettore. «Ce la fate?» «Oh, sì, sì. Non ci vuol niente.» Potter, parlando, spingeva i due intrusi verso l'uscio. «Buonasera.» «Buonasera» rispose Oates. «Vieni, Campion?» Mentre scendeva i gradini, l'ispettore lanciò un'occhiata al compagno. «Hai visto?» domandò. «Che stranezza, eh? Chissà che cosa significa.» Il volto di Albert esprimeva un leggero imbarazzo. «Non mi sono avvicinato molto» osservò «ma mi pare che...» «Oh! Era ubriaca, senza dubbio» lo interruppe l'altro. «Non hai veduto la
caraffa sulla credenza? Deve aver scolato un bel bicchierotto di whisky per ridursi in quello stato. C'è chi lo trangugia così di colpo, sai, e allora fa l'effetto di uno stupefacente. Ma vorrei sapere perché lo ha fatto. Cos'ha in mente che preferisce dimenticare? C'è qualcosa di molto strano in tutto ciò, Campion. Be', vedremo.» 8 Piccole cose Il mistero del delitto nella Piccola Venezia si sarebbe forse trascinato a lungo a questo stadio del suo svolgimento fino a diventare un argomento tabù a Scotland Yard e uno scandalo ormai scontato a Bayswater, se non fosse intervenuto un colloquio del funzionario dalla faccia grave del ministero degli Esteri con il suo ufficio. La diplomazia dettava ancora legge e aveva una considerevole importanza in un'epoca come quella, in cui le conferenze internazionali avevano un ruolo primario; il ministro degli Interni entrò in azione e la stampa si mostrò stranamente priva di interesse per l'omicidio. Un'inchiesta, condotta con molta discrezione, venne seguita da un funerale in forma privata e i resti di Thomas Dacre furono seppelliti nel cimitero di Willesden senza che la polizia dedicasse ulteriore attenzione a questo fatto. E casa Lafcadio si sarebbe calmata immergendosi nuovamente nella sua solitudine per non uscirne più, se non fosse accaduta una seconda tragedia improvvisa e impressionante come la prima. Da nemmeno tre settimane dalla morte di Dacre, Campion sedeva tranquillamente nel suo appartamento in Bottle Street, quando arrivò Linda. Questa entrò rapidamente, con la figura giovanile stretta nel cappotto. Era una ragazza di tipo moderno e originale, e ancora una volta Albert notò quanto somigliasse a Lafcadio. La stessa vaga espressione ribelle, la stessa disinvoltura, la stessa sicurezza palese di essere una creatura d'eccezione. Non era sola. L'accompagnava un tizio che rimase simpatico a Campion prima ancora che gli venisse presentato. Il nuovo arrivato somigliava alla compagna: forte, ma senza rigidezza, largo di spalle e stretto di fianchi, aveva i capelli chiari, un naso imponente, che denotava un carattere deciso, e gli occhi azzurri e ridenti, anche se un po' timidi. Diede l'impressione di essere felicissimo di conoscere Campion e rivolse alla stanza lo sguardo
aperto e pieno di approvazione di un bambino in vena di far amicizia. «Questo è Matt D'Urfey» fece Linda. «Aveva lo studio in comune con Tommy.» «Già, già. Ho visto alcuni vostri schizzi a penna, se non sbaglio» fece l'investigatore. «Probabile» rispose il giovane, senza orgoglio. «Bisogna pur vivere. Che bella casa!» Attraversata la stanza, D'Urfey si fermò davanti a un piccolo Cameron appeso sopra la libreria, lasciando Linda a continuare la conversazione; e la ragazza si gettò immediatamente nell'argomento che le stava a cuore. «Senti, Albert» cominciò. «Si tratta di Tommy. Sta succedendo qualcosa di molto strano.» Campion le gettò uno sguardo acuto e i suoi occhi chiari si fecero improvvisamente gravi dietro le lenti degli occhiali. «Ancora?» domandò, aggiungendo subito: «C'è qualche novità?» «Credo di sì.» Nella voce di Linda risuonava il solito accento di sfida. «Naturalmente puoi fare l'uomo superiore, ma non è possibile ignorare i fatti. Ecco perché ho portato Matt: guardalo, ti sembra forse tipo da immaginare qualcosa che non esiste?» Il soggetto di questo dubbio complimento guardò i due di sfuggita con un radioso sorriso, sprofondando poi nuovamente nella contemplazione del quadretto. «Mia cara Linda» fece Campion con voce suadente. «Non ho ancora saputo i fatti a cui alludi. Che cosa è successo?» «Niente di concreto: ecco quello che mi esaspera.» I grandi occhi grigio-verdi della ragazza si colmarono a un tratto di lacrime. Albert sedette. «E se raccontassi tutto al tuo affezionato investigatore?» suggerì. «È proprio quello che voglio fare. Sono venuta apposta. Ecco: l'assassino di Tommy non si accontenta di avergli tolto la vita. Vuole anche cancellare ogni ricordo di lui. Tutto qui.» Campion era un tipo bonario, dotato di infinita pazienza. Piano piano riuscì a calmare la ragazza tanto da cavarne uno strano racconto. «I primi a scomparire sono stati quei disegni di Tommy che ti avevo mostrato il giorno prima della mostra» fece la ragazza. «Ti ricordi? Erano nell'armadio del mio studio. Forse dodici o quattordici. Schizzi, quasi tutti, ma li avevo conservati perché erano ottimi. Li ho cercati la settimana scor-
sa perché volevo fare una piccola mostra delle opere di Tommy... niente di grandioso, capisci; soltanto poche cose sue in una piccola galleria. Ma non volevo che scomparisse del tutto come artista... perché aveva qualcosa, no?» La sua voce, sempre un po' tremula e vibrante, fu lì lì per spezzarsi; con uno sforzo si dominò e riprese più decisa. «Dunque, prima di tutto ho scoperto che quei disegni erano scomparsi. Ho buttato all'aria ogni cosa e ne ho chiesto a tutti, ma non c'era traccia: erano spariti come non fossero mai esistiti. Poi, non sono riuscita a trovare una galleria disposta a fare la mostra.» S'interruppe fissando Campion. «Ti rendi conto che non si può trovare in tutta Londra una galleria che accetti di accogliere una mostra delle opere di Dacre? È un complotto, Albert: un vile, miserabile complotto che mira a cancellare Tommy per sempre dalla memoria degli uomini.» Campion appariva leggermente turbato. «Ma, cara» fece dopo una pausa «non credi che... che la tragica fine di Dacre abbia qualche rapporto con tutto ciò? I proprietari di gallerie non brillano davvero per delicatezza, ma forse hanno avuto paura di venir accusati di voler approfittare dello scandalo per scopi pubblicitari. Perché non aspettare un anno o due per presentare Dacre al pubblico, quando ogni eco spiacevole dell'accaduto sarà svanita?» La ragazza alzò le spalle. «Può darsi» ammise. «Anche quel verme di Max dice la medesima cosa. Ma questo è appena la metà, o un quarto di quanto è successo. Capisci, Albert, non sono scomparsi solo i disegni che avevo io. Tutto quello che ha fatto Tommy in vita sua va sparendo. Qualcuno lo odia tanto da volerlo cancellare completamente dal mondo.» Matt abbandonata la contemplazione delle pareti, si avvicinò a Linda con passo indolente. «Certo è strano che dei ladri abbiano pensato di svaligiare la nostra bicocca» disse. «Cosa c'era di proprietà di Tommy, dopo tutto? I colori e una camicia. Della mia roba non hanno toccato nulla, grazie a Dio.» «Ladri?» esclamò Campion. «Ma sì, non ve lo ha detto Linda? Credevo fossimo venuti per questo.» D'Urfey appariva stupefatto. «L'altro ieri sera mentre mi trovavo al Fitzroy, qualche pazzo è entrato nella nostra bicocca portando via tutto quello che apparteneva a Tommy. I vestiti, una vecchia tela o due, tutti i colori,
i pennelli, eccetera. Strano, no? Da un lato mi ha fatto piacere; sapete, roba d'altri. Ma mi è sembrato curioso, e ne ho accennato a Linda. Così, dato che tutta la roba di quel poveretto sta prendendo il volo, lei ha pensato di venir qui.» Campion ascoltò con grande attenzione lo stranissimo racconto. «Dicendo che tutte le sue opere stanno scomparendo, cosa intendi dire?» domandò. «Proprio questo» rispose Linda. «Seigals, in Duke Strett, aveva alcuni disegni di Tommy, e poco dopo la sua morte li ha esposti su una bacheca a sinistra della porta d'ingresso (ha così poco spazio in vetrina). Ebbene, l'intera bacheca gli è stata rubata durante l'ora di colazione, quando la strada è quasi deserta. Nessuno l'ha veduta scomparire. Poi ci sono i lavori che Tommy aveva lasciato nello studio di Firenze. Uno sconosciuto li ha comprati tutti il giorno dopo il delitto. Ho scritto ai proprietari dello studio la settimana scorsa, e ieri mi è arrivata la risposta.» La ragazza esitò, continuando poi in tono imbarazzato: «Tommy doveva molti soldi a quella gente, pare, e così sono stati ben contenti di accettare una qualsiasi offerta per i lavori rimasti in loro custodia. Sembra non sappiano chi sia il compratore. Ho telegrafato perché mi diano qualche particolare, ma a tutt'oggi non ho ancora ricevuto alcuna risposta.» «È stranissimo» commentò. «È stranissimo il furto nella... nella... vostra bicocca, come la chiamate. Dite che hanno rubato soltanto la roba di Dacre?» «Be', hanno preso un mio vecchio spolverino» rispose D'Urfey con noncuranza «ma tutto il resto apparteneva a lui. Non era difficile la cernita» soggiunse poi. «Dacre era ordinato, e poi era tornato da poco, e la sua roba era ammucchiata in un angolo dello studio, ancora quasi tutta imballata. Quello che mi ha sorpreso è che sia venuto in mente a qualcuno di salire fin lassù. Non ci vuol niente a entrare, capite, ma a che scopo disturbarsi?» «Dove si trova il vostro studio?» chiese l'investigatore. «In Christian Street. In fondo a Shaftesbury Avenue» spiegò l'altro subito. «È quella stradina di fronte al Prince's Theatre e parallela a Drury Lane. È un appartamento di due stanze sopra al negozio di uno straccivendolo. Ora che si arriva in cima, il tanfo si è dileguato, oppure uno ci ha fatto l'abitudine... non so bene se il motivo sia l'uno o l'altro» aggiunse con franchezza. «Non è un brutto posto. I servizi igienici sono praticamente inesistenti, però bisogna tener conto della posizione centrale e via dicendo.
Chiunque potrebbe entrare in qualunque momento a portar via ogni cosa, ma nessuno l'ha mai fatto. Non ne vale la pena!» «Nessuno ha visto salire il ladro, immagino? Gli inquilini di sotto, per esempio?» «No. La fioraia del primo piano, una certa signora Stiff, sta fuori tutta la sera. Il negozio al pianterreno si chiude alle cinque, e c'è buio pesto fino alle otto. Abbiamo pochi lampioni dalle nostre parti... li rompono i monelli... e così dalle nostre parti... li rompono i monelli... e così è stato facilissimo entrare. Non è nulla di grave, ma è curioso, vero?» Campion ci pensò un momento. Linda lo osservava con aria grave, ma gli occhi vivaci del signor D'Urfey si erano già distratti, affascinati da una stampa di Currier e Ives che, evidentemente, gli aveva colpito la fantasia. Vi si avvicinò per osservarla meglio. Campion, dopo una breve riflessione, fece una domanda delicata: «È la moglie di Dacre? Non può aver pensato che quella roba le appartenesse?» «La moglie?» Matt si staccò a malincuore dalla stampa che lo aveva rapito. «Ah, Rosa-Rosa: l'avevo dimenticata. Sì, ho pensato subito a lei. L'ho interrogata, ma non ne sa nulla. Anzi, è furibonda per la sparizione del baule. Sembra ci fosse dentro un suo bustino che Tommy non le lasciava mai indossare. Ci era molto affezionata. È stupida, ma sembra proprio che questo indumento fosse un retaggio degli avi. Che cosa te ne pare, Linda?» «Rosa-Rosa non ha preso nulla.» La ragazza parlava con l'aria convinta di chi esclude ogni possibilità di discussione. «Non so nemmeno io perché mi sono rivolta a te, Albert. Non so cosa mi aspettassi» esclamò all'improvviso. «Ma sta succedendo qualcosa di strano, qualcosa che non capisco.» Le sue mani abbronzate ebbero un gesto desolato. «Pensa che ormai non posso metter la mano sul minimo oggetto che gli sia appartenuto... né un disegno, né un pennello, nulla.» Campion, alzandosi, le batté sulla spalla. «Credo di poterti consolare in parte» fece, con una punta di orgoglio nella voce. «Ho di là un disegno di Dacre. Te lo regalo, se vuoi.» Affrettandosi a uscire dalla stanza, il giovane vi tornò quasi subito con un pacco avvolto in carta marrone, e lo posò sulla scrivania. «Devo confessare di aver fatto anch'io l'opportunista» fece, tagliando lo spago. «Ho telefonato a Fustian, l'indomani della mia visita allo studio Lafcadio, per dirgli che avevo veduto qualche lavoro di Dacre e ne ero rimasto colpito. Immagino che Max sia andato a rifornirsi da Seigals, perché quando mi sono recato alla sua galleria aveva una mezza dozzina di dise-
gni di Tommy da mostrarmi. Ne ho comprato uno, ma siccome partivo per Parigi il giorno stesso, me l'ha conservato lui fino a ieri. Non l'ho ancora aperto. Mi piace moltissimo. È una testa di ragazzo, uno spagnolo, credo.» Albert sciolse l'involto di carta marrone, scoprendo il cartoncino dell'imballaggio. «Ecco» continuò, togliendo vari fogli di carta velina «è già montato, e...» La voce gli morì in gola, mentre a Linda sfuggiva un'esclamazione: la cornice era vuota, e nonostante le febbrili ricerche fatte subito nell'imballaggio, della Testa di ragazzo di Tommy Dacre non vi era più la minima traccia. 9 L'arte del vendere «Mio caro, è una cosa incredibile! Assolutamente incredibile!» Max Fustian passeggiava in su e in giù sul lussuoso tappeto che ornava il pavimento del salone principale della sua elegantissima galleria; e le sue esclamazioni di stupore venivano sottolineate da una grande esuberanza di gesti. La Galleria Salmon in Bond Street era stata radicalmente trasformata quando Fustian l'aveva acquistata, e ora essa rispecchiava efficacemente il gusto e l'acume commerciale del proprietario. Eccetto qualche quadro scelto con grande cura, la mercanzia di Fustian veniva tenuta delicatamente in disparte, e un visitatore ignaro avrebbe potuto immaginare di esser penetrato casualmente nella dimora privata di un personaggio di immensa ricchezza il cui gusto fosse talmente raffinato da giungere quasi alla negazione totale. Le pareti acusticamente isolate attutivano tutti i rumori della strada e in questa atmosfera ovattata comune alle gallerie d'arte, alle cattedrali e alle banche, la voce affettata e melodiosa di Max stonava meno che nel salotto di Belle. Campion osservava il compagno con interesse appoggiandosi al bastone da passeggio. «Mi è parso di dovervi informare» concluse in tono di scusa perché gli sembrava quasi un sacrilegio menzionare qualcosa di tanto ordinario e banale come il contenuto di un pacco, avvolto in spessa carta marrone da imballaggio, in un'atmosfera così sublime.
«Mio caro Campion, avete fatto bene.» Max mostrava una condiscendenza regale. «Ho mandato a chiamare l'uomo che ha fatto il pacco. Il disegno non c'era nella cornice, avete detto? Incredibile! Ma sapete, stanno succedendo cose straordinarie dopo la morte di quel disgraziato: le cose più impensate. Ne è capitata una anche a me; ve la racconterò. Se avete visto Linda... poverina! Com'è bella nel suo dolore!... avrete saputo della sparizione dei disegni di Seigals. Fino a stamani credevo che voi, Campion, foste l'ultima persona in Londra, e forse al mondo, a possedere un esemplare delle opere di Dacre.» Con movenze da danzatore di balletto classico, si avvicinò lentamente a un astuccio di metallo dalla squisita cesellatura, l'unico oggetto che avesse posto su un tavolo di noce scolpito in modo eccelso che, a sua volta, condivideva solo con due seggiole d'epoca William e Mary il privilegio di essere l'arredo della sala. Il signor Campion rifiutò una sigaretta egiziana che aveva uno strano aspetto poco attraente e, forse, invece era particolarmente pregiata. «Allora voi siete d'accordo con Linda nel supporre che qualcuno stia tentando di distruggere sistematicamente ogni traccia dei lavori di quel poveretto?» Max alzò le sopracciglia, allargando le mani bianche e affilate. «Chissà?» fece. «Tutto è possibile. Per conto mio, non me ne preoccupo granché. Dacre aveva talento, certo, ma chi non ne ha oggigiorno? Ce ne sono a migliaia come lui... a migliaia! Il talento non basta, Campion. L'amatore moderno richiede il genio. Povero Dacre! Povero mediocre Dacre! Soltanto la morte ha potuto renderlo interessante.» Albert sorrise. «Dacre condivide questo privilegio con molti altri artisti» azzardò. Gli occhietti neri di Max luccicarono un attimo. «È proprio vero!» esclamò. «Ma forse bisogna esser grati a Dacre per aver saputo morire in un modo insolito. Quanto alla sparizione delle sue opere è una cosa proprio romantica. A questo proposito, quello che è successo a me è curiosissimo. Io non ero un ammiratore di Dacre, ma avevo di lui una cosetta... uno studio di una mano... niente d'importante, ma che mi piaceva. L'ho fatto incorniciare in un modo abbastanza carino. Una mia trovata: la cornice era scolpita in pietra. Si accorda a meraviglia con certi disegni a matita. I grigi si armonizzano e l'ho appeso in sala da pranzo sopra a una bellissima madia secentesca.» S'interruppe, fermandosi in un gesto che a Campion parve voler suggerire il ricordo di una visione piacevo-
le. «Era una mia piccola vanità tenere una rosa di un certo colore in un vaso di peltro a sinistra del quadro. Formava un piccolo gruppo di oggetti, la linea appariva spezzata, e mi piaceva che così fosse. Ebbene, l'altra sera, tornando a casa, mi sono accorto che qualcuno ci era entrato. Solo da poche, piccole cose, mi capite? Una sedia non allineata, un cuscino appoggiato al bracciolo sbagliato del sofà. Piccole cose ma l'occhio ne è infastidito. Anche se niente era in disordine, ho intuito subito che qualcuno aveva girato per le stanze. Sono corso in camera da letto. Anche qui, la stessa storia. Piccole cose spostate. E nel preciso momento in cui sono entrato in sala da pranzo, sono rimasto folgorato. Il vaso di peltro con la rosa si trovava proprio sotto il quadro. In fretta e furia mi sono avvicinato e ho visto che la cornice era vuota. Il disegno ne era stato tolto con molta abilità. Devo confessarvi, Campion, che da principio sono stato portato a sospettare di Linda, per quanto non sapessi immaginare come avesse fatto a introdursi in casa mia. Ma dopo averle parlato, mi sono reso conto, naturalmente, che non sapeva nulla, e che era perplessa quanto me. Tutta la faccenda sembra assurda, non è vero?» «Il disegno non c'era più?» disse Campion che pareva improvvisamente istupidito. «Dileguato.» Max agitò le mani in aria. «Sparito di punto in bianco. Assurdo, vero?» «Straordinario» ribatté l'altro seccamente. La conversazione venne interrotta dal sopraggiungere di un ragazzo pallido, dall'aria alquanto spaventata che sguazzava in quello che evidentemente doveva essere un abito smesso di Fustian. «Ecco Green, l'imballatore» fece quest'ultimo con aria di chi presenta una creatura privilegiata. «Avete saputo dell'incidente, Green?» Il ragazzo appariva stupefatto. «Non capisco come sia accaduto, signor Fustian. Il disegno era in ottimo stato quando l'ho imballato.» «Siete certo che il disegno ci fosse?» Max fissava il ragazzo con occhi lucenti e tondi come perline. «Dove signore?» «Domando» insistette il padrone pazientemente, ma con energia «domando, caro Green, se siete certo che ci fosse un disegno in quella cornice che avete imballato con tanta cura per mandarla al signor Campion.» Le guance pallide del disgraziato si fecero di fuoco. «Ma certo, signore. Non sono mica pazz... voglio dire, ne sono sicurissimo.»
«Vedete?» Fustian si rivolse al suo visitatore con il gesto di un prestigiatore che rimuove un drappo nero per far apparire qualcosa. Campion si rivolse al ragazzo: «Cosa ne avete fatto del pacco dopo averlo confezionato? Me l'avete consegnato subito?» «Nossignore. Voi avevate detto di non volerlo ritirare subito, e così l'ho lasciato per circa una settimana su uno scaffale nella stanza dove ci laviamo le mani, signore.» «Nello spogliatoio degli impiegati?» esclamò Max con gelido stupore. «Il bellissimo disegno del signor Campion è rimasto su uno scaffale dello spogliatolo degli impiegati per quasi una settimana? Ma, Green, vi pare ammissibile?» «Dovevo pur metterlo in qualche posto» replicò il disgraziato stimolato alla ribellione da quel miscuglio di ingiustizia e di mistero. «Capisco» fece Max freddamente. «Dunque nel corso di un'intera settimana chiunque può aver manomesso il bellissimo disegno del signor Campion. Andate pure, Green.» Il ragazzo, affranto, uscì mentre Fustian si rivolgeva ad Albert con un gesto desolato. «Gli impiegati!» esclamò. «Oh, gli impiegati!» L'altro sorrise cortesemente, ma i suoi occhi pallidi si erano fatti pensosi dietro alle lenti. Questo nuovo incidente che aggravava il mistero della Piccola Venezia era davvero sorprendente. Dapprima era stato propenso a sospettare che Linda fosse preda di un'immaginazione morbosa. Poi gli era venuto in mente che le sparizioni dei disegni fossero dovute alla speculazione di qualche mercante d'arte che giocasse al rialzo. Ma per quanto esistano dei commercianti capaci di far incetta dell'opera di un artista morto in circostanze tragiche, non s'è mai presentato il caso che uno di questi sia giunto a commettere un furto per impadronirsi anche dei suoi abiti smessi. D'altra parte, nel proprio ambiente, Max appariva un essere più comprensibile che in casa Lafcadio. Il suo modo curioso di esprimersi faceva molto meno colpo in una galleria d'arte. Campion incominciò a osservarlo con maggior interesse: si rendeva conto che l'ispettore non lo aveva preso nella giusta considerazione. Fu in quel momento che Isadore Levy, grasso e intelligente, si avvicinò frettoloso a Fustian, mormorandogli qualche parola in un orecchio. Albert vide gli occhietti neri del mercante luccicare. «È arrivato, eh?» fece. «Vengo subito.» Campion si affrettò a congedarsi. Negli ultimi minuti si era accorto che
nella galleria erano tutti in preda a un'eccitazione repressa. «Tornerò» disse. «O forse potreste telefonarmi.» «Mio caro, non andatevene.» Il tono di Max esprimeva la massima sincerità. «Ho qui un cliente.» Abbassò la voce. «Sir Edgar Berwick... sì, il deputato. Ci tiene a passare per un conoscitore di arte fiamminga.» Infilato il braccio sotto quello di Campion, Fustian condusse il giovanotto con sé allontanandolo dalla porta d'uscita e parlandogli a bassa voce. «È proprio divertente. Vuol fare un dono alla galleria d'arte del suo collegio elettorale, e credo di possedere qualcosa che lo dovrebbe interessare. Venite, dovete essere presente al colloquio: voglio completare la vostra educazione. Ci tengo. E poi» soggiunse con improvvisa ingenuità «io sono più efficace se c'è qualcuno che mi ascolta. Voi vi interessate di psicologia, non è vero? Assisterete a un esperimento interessante.» Seguendo Max nel salottino che, insieme all'ambiente che aveva già veduto, formava il corpo principale della galleria, Campion si rese conto che la rappresentazione era già incominciata. La stanza stretta e lunga, con i suoi riflettori e l'alta boiserie di legno grezzo, era pronta per l'imminente contesa. Il quadro in questione era disposto su un cavalletto in fondo alla sala, nella quale l'unica altra nota di colore era data da una tenda di velluto drappeggiata su un uscio. Per uno strano caso, o per un ingegnoso calcolo, la tenda aveva lo stesso colore azzurro vivo del dipinto. L'effetto era piacevolissimo. Quando Albert entrò nel salottino, nascondendosi modestamente dietro al padrone di casa, sir Edgar stava già in piedi davanti al quadro. Era un uomo di mezza età, molto dignitoso. La sua carnagione era rosea e l'espressione bellicosa: in quel momento aveva l'aria di chi si crede importante e ha un'assoluta coscienza del proprio valore. Campion, fingendo di interessarsi a una fila di antiche stampe tedesche appese a una parete, ebbe modo di godersi l'incontro dei due uomini. Max gli parve magnifico. Avvicinatosi al pomposo cliente con un giusto miscuglio di deferenza e di cordialità, gli si pose vicino a osservare il quadro con la soddisfazione tranquilla di chi sa di essere un conoscitore. Sir Edgar rimase tanto a lungo in contemplazione, che Campion ebbe il tempo a sua volta di farsi un'idea non solo di quel quadro ma anche di tutti gli altri che erano esposti nella galleria prima che il colloquio fra il mercante e il compratore riprendesse. Non era un esperto di pittura a olio, ma dal posto dove si trovava, poteva vedere che si trattava di un interno fiammingo alla maniera di Jan Steen.
Il dipinto rappresentava un battesimo in una stanza piacevole e pulita, nella quale si svolgevano intanto varie scenette secondarie. Pareva in buono stato, eccetto che per una screpolatura abbastanza grossa, in un angolo. Finalmente, quando Campion, terminato il giro della galleria, fu tornato alle stampe tedesche, sir Edgar si scosse, rivolgendosi a Max: «Interessante» esclamò. «Decisamente interessante.» L'altro parve strapparsi da un'estasi. Staccando a fatica gli occhi dalla tela, lasciò che un enigmatico sorriso gli sfiorasse il labbro. «Già» mormorò. «Già!» Chiusa questa prima avvisaglia prudente, i due ripiombarono nel silenzio. A un tratto, sir Edgar parlò di nuovo. «Posso vederlo senza cornice?» «Naturalmente.» Max alzò una mano, e come per magia due aiutanti in grembiule di panno verde si fecero avanti, e, tolta la bellissima cornice, misero a nudo il quadro, che così sembrava assai meno importante, davanti all'occhio indagatore dell'uomo politico. Seguì un esame accurato della tela, davanti e dietro, con l'aiuto di una piccola lente d'ingrandimento, e interrotto da qualche grugnito e da qualche osservazione tecnica dei due avversari. Fatto ciò, la cornice venne rimessa a posto, e i due uomini tornarono alla contemplazione di prima. Sir Edgar un po' più roseo e con i capelli arruffati dopo tanto lavoro, Max più tranquillo ed enigmatico che mai. «Né firma né data» fece il deputato. «Già» replicò Fustian. «Non c'è che la pittura in sé che possa provare l'autenticità dell'opera.» «Si capisce» ribatté l'altro subito. «Si capisce.» Poi, di nuovo, silenzio. «Non c'è notizia di questo battesimo nel catalogo delle opere di Steen» insinuò sir Edgar infine. Max alzò le spalle. «In tal caso non vi sarebbe modo di discuterne» rispose con una risatina. Il visitatore rise con lui. «Infatti» fece. «Senza dubbio l'epoca è quella.» Fustian annuì. «Non abbiamo che il quadro stesso su cui basarci» fece «e naturalmente sorgono molti dubbi. Tuttavia vi sono alcuni dettagli che voi, esperto come siete in materia, dovete pur riconoscere: la tela a grana incrociata, la figura seduta in primo piano. Vedete come assomiglia a Steen. È strano come quegli artisti amassero farsi l'autoritratto.» «Naturalmente» soggiunse con un'alzata di spalle «non ne so più di voi. Come vi ho detto, il quadro mi è capitato per le mani nel modo più inno-
cente. L'ho comprato da Theobald in gennaio, pagandolo millequattrocentocinquanta sterline. L'ho esaminato molto bene, si capisce, e sono giunto alle mie conclusioni. Non posso garantirvi che sia un autentico Steen. Non lo so di sicuro nemmeno io. Quasi quasi sarei propenso a non crederlo. Dopo tutto, fortune simili non capitano più oggigiorno. Almeno, non a me. Uno Steen firmato è stato venduto nella stessa occasione per duemilasettecento sterline e A.T. Johnson, che l'aveva comprato, ha continuato a tirare su il prezzo anche in questo, finché a millequattrocentocinquanta me l'ha lasciato.» «Ma quello che conta» soggiunse con un gesto improvviso che pareva volesse accantonare un argomento così poco interessante come il denaro «è il quadro in sé. In questo gruppetto qui, per esempio» le sue lunghe dita tracciarono per aria un cerchio immaginario «c'è spirito e allegria. C'è qualcosa di indescrivibile. Non vi pare?» «Ah, certo.» Sir Edgar appariva impressionato. «Certo. Arriverei anche più in là, Fustian. Siete sempre troppo diffidente, voi. Il disegno di quel bambino e quel drappeggio, per me sono di Steen senz'altro.» «Infatti» ribatté Max con disinvoltura. «Infatti. O forse di un allievo.» «Un allievo?» Sir Edgar studiò questa eventualità, ma la respinse scuotendo il capo. «Tuttavia» riprese, sentendo forse di essersi impegnato troppo «avete ragione, non si può essere sicuri.» «No» disse Max. «No. Nel primo catalogo si accennava a un dipinto intitolato Il primo compleanno. Se il bambino fosse più grande.. ma, no! Anche supponendo che quei primi cronisti non siano stati molto accurati, ho la vaga idea che la scoperta di un nuovo dipinto con quel nome metterebbe in discussione la validità del quadro che porta tale titolo nella collezione viennese.» Sir Edgar tirò fuori di nuovo la sua lente d'ingrandimento, e osservò a lungo il dipinto. «Basta» fece alla fine. «Vi farò sapere la mia decisione. Avete detto millecinquecento? Intanto, tenetemelo da parte.» Max esitò, poi, con l'aria di chi ha preso una decisione, sfoderò la sua ultima carta con un'abilità che a Campion parve magistrale. «Sir Edgar» disse «mi rincresce di darvi una delusione, ma mentre stavamo qui ho riflettuto, e devo dirvi sinceramente che non credo che questa tela sia uno Steen. Non posso dunque darvi la minima garanzia. È un quadro delizioso, sembra autentico... ma senza documenti che lo provino non
credo di potermi arrischiare a pronunciarmi in merito. No, no. Lasciamo stare! Non credo che sia uno Steen.» Gli occhi lucidi e un po' avidi di sir Edgar sorrisero. «Ufficialmente» mormorò. «No, nemmeno ufficiosamente» fece. «Temo che la mia dichiarazione debba essere categorica. Non credo che questo sia uno Steen. E se voi non lo comprate per millecinquecento sterline, io lo rimetto in vendita di nuovo con questa riserva.» Sir Edgar rise. «Prudente» fece. «Troppo prudente, Fustian. Dovreste fare il diplomatico. Mettetelo da parte per me.» Campion passò nell'altra stanza. Il colloquio era terminato. Max lo seguì pochi minuti dopo, con aria felice. Gli occhietti neri sprizzavano gioia, e, pur non accennando all'accaduto, faceva capire chiaramente che il suo era stato un trionfo. Si separarono con infinite scuse da parte di Fustian, il quale promise che avrebbe ritrovato la Testa di ragazzo, anche se fosse stata nascosta in capo al mondo. Campion si avviò per Bond Street con la mente in subbuglio. La sparizione dei disegni di Dacre era strana e fastidiosa però sapeva di non essere preoccupato per questo, ma piuttosto per qualcosa che era successo da poco, per un fatto che il suo subcosciente aveva afferrato e tentava di fargli intendere. Seccato, si sforzò di pensare ad altro. 10 La chiave Quando Campion andò a trovare Belle tre giorni dopo la sua visita alla Galleria Salmon, il suo interesse per la morte di Dacre era ancora soprattutto accademico. La polizia rappresentata dall'ispettore e dal suo sergente aveva un'opinione ben precisa dell'accaduto; e questa si era cristallizzata nel loro cervello quando ogni indagine era cessata e la loro curiosità si era sopita. Ma Albert, ogni volta che vedeva Linda, si convinceva sempre più che la ragazza fosse innocente, e che non gli nascondesse nulla. Per lui, però, la questione non appariva risolta tanto che, salendo le scale, diretto al salotto, provò una curiosa sensazione. Come se vi entrasse per
la prima volta e vi notasse qualcosa di misterioso, di inospitale, come se perfino le pareti si mostrassero nemiche e ansiose di nascondergli gelosamente il loro segreto. Il salotto di casa Lafcadio aveva il solito aspetto: il fuoco era acceso, e Belle vi sedeva vicino in una poltroncina bassa, le mani tese verso la fiamma. In quelle poche settimane trascorse dopo il delitto, la signora Lafcadio era molto invecchiata. Appariva più magra e più fragile di prima. Gli occhi castani sembravano più opachi, e l'accoglienza, per quanto affettuosa, più distaccata. I due evitarono di alludere al delitto nei primi minuti del loro colloquio, in attesa che Lisa portasse il tè, ma la sua presenza era inevitabile e perfino i trofei di John Lafcadio sparsi qua e là per la stanza parevano aver perduto parte del fascino da quando una realtà tanto sordida quanto violenta aveva invaso il loro rifugio. Assieme al vassoio, arrivò anche l'inevitabile donna Beatrice. Questa, ignorando ogni ritegno, si gettò a capofitto nel delicato argomento con quell'aria di falso coraggio che viene assunta da certa gente per descrivere i più disgustosi dettagli delle proprie malattie. «Campion» fece, tendendogli una mano straordinariamente muscolosa «almeno voi non ci trattate da lebbrosi. Appena entrata ho sentito un'aura azzurra in quest'angolo, e mi sono detta: finalmente ecco un amico.» Albert, che si era dimenticato l'esistenza del suo complesso dell'arcobaleno, rimase un po' sconcertato. «Niente affatto» fu la sua risposta, data molto maldestramente e non a tono; poi si alzò per aiutare Lisa indaffarata intorno al tavolino da tè. La vecchia italiana gli rivolse un sorrisetto pieno di gratitudine, guardandolo da sotto le palpebre giallastre e a questa espressione ne subentrò immediatamente un'altra di odio diretto alla Ispirazione ignara che era andata a prender posto nella poltrona Stuart dall'alto schienale dall'altra parte del focolare. Donna Beatrice continuava ancora a vivere la situazione drammaticamente. Rientravano infatti nella tradizione dei dolenti in lutto l'abito di pesante velluto nero, la croce d'argento cesellato e il delicato fazzolettino di pizzo. I dolci occhi di Belle si posarono su di lei un po' stancamente. «Niente notizie, nessun nuovo sviluppo. Il segreto sta diventando opprimente» osservò donna Beatrice con evidente piacere mentre accettava una tazza di tè. «Ditemi, signor Campion, la polizia ha rinunciato vera-
mente a occuparsi di questo caso, oppure sono là, in agguato, a sorvegliare... ad attendere il momento di spiccare un balzo?» Campion lanciò un'occhiata a Belle quasi implorando aiuto, e la vecchia signora glielo diede generosamente. «Preferirei non parlarne, Beatrice, se non ti rincresce» fece con voce di preghiera. «Invecchio, e vorrei non dover pensare a cose sgradevoli.» «È una debolezza la tua, cara Belle» replicò l'Ispirazione in tono volutamente gentile. «Ma se preferisci, parliamo d'altro. Ditemi, Campion, secondo voi l'arte moderna quale tendenza mostra? Sta degenerando oppure rivela un ritorno al primitivismo?» Mezz'ora dopo, quando Campion stava cominciando a domandarsi come mai donna Beatrice fosse sfuggita all'assassinio, visto che nella Piccola Venezia c'era un omicida al largo, Max arrivò. Fece il solito ingresso teatrale, baciando la mano di Belle e inchinandosi davanti all'altra signora più giovane e poco ci mancò che non allungasse un buffetto a Lisa, ma parve leggermente seccato della presenza di Campion. La conversazione si aggirò quindi su argomenti generali, lasciando donna Beatrice nell'ombra. «Linda si trova spesso con quel giovane D'Urfey» osservò Fustian a un tratto. «Li ho incontrati mentre uscivo da casa Potter poco fa. Ero stato da Claire.» «Sembra un bravo ragazzo» replicò Belle. «Mi ricorda il povero Will Fitz-Simmons prima che diventasse famoso.» Donna Beatrice fece uno strano gesto. «Non è tipico di Belle?» disse. «Temo di essere più schifiltosa. A me tutta questa infatuazione di Linda per l'amico del suo fiancé assassinato sembra vagamente morbosa.» Gli occhi di Belle si fecero duri. «Mia nipote non è né morbosa né infatuata» disse con improvviso vigore e Max che aveva aperto la bocca per dire qualcosa, la richiuse senza aver parlato. Campion, studiando sempre più attentamente Max, si rese conto che questi non era un essere artefatto e insulso come sembrava e comprese come avesse saputo farsi un posto fra i critici moderni pur non avendo nessun talento eccezionale. Il suo cervello tortuoso e furbo poteva assumere inaspettatamente un'agilità impensata. Sogguardandolo adesso, semisdraiato elegantemente sul divano, con il viso piccolo e olivastro, gli occhi pieni di vivacità, rivolti verso le fiamme del camino, lo giudicò una personalità interessante. «Spero che la vostra tattica dell'altro giorno abbia avuto successo» disse.
Il mercante si volse verso di lui pigramente, ma con un sorriso lusingato. «Un successo completo, grazie» rispose. «L'affare si è senz'altro concluso.» Campion si rivolse a Belle. «Ho avuto la fortuna di assistere alla vendita di un quadro antico» raccontò. «Uno spettacolo emozionante. Ditemi» aggiunse, rivolto a Max «c'era davvero da dubitare sull'autenticità del dipinto?» «Affatto.» La voce di Max era più strascicata che mai. «Affatto.» Belle alzò gli occhi di colpo. «Che quadro era?» domandò. «Niente che vi possa interessare, cara signora» replicò Fustian, come desideroso di lasciar cadere l'argomento. «Un interno alla maniera di Steen.» Il tono disinvolto non ingannò la vecchia signora, la quale, chinandosi in avanti, lo fissò attentamente. «Non era per caso un scena di battesimo?» Dapprima Max tentò di sfuggire allo sguardo di Belle, ma finalmente, con una risatina, si volse verso di lei. «C'era un bambino, infatti.» «Il quadro è caratterizzato da molte tonalità di azzurro e c'era una figura inginocchiata in primo piano?» L'altro gettò un'occhiata a Campion. «Confesso che è proprio così» rispose ridendo. La signora Lafcadio si appoggiò allo schienale della poltrona, con gli occhi spalancati in un'espressione di rimprovero, e le guance avvizzite color del fuoco. «Max, che vergogna!» esclamò. «Che vergogna! Quel povero vecchio Salmon si rivolterebbe nella tomba se lo sapesse... anzi, lo sta facendo senz'altro. È un atto disonesto, mio caro!» «Ma, mia adorabile signora Lafcadio» Max sorrideva ancora «non capite. Non ho mai detto che quella scena di battesimo fosse un autentico Steen. Campion può testimoniarlo. Anzi, no dichiarato al mio cliente che secondo me il quadro non era affatto di Steen. Gliel'ho venduto con l'accordo ben chiaro che non gli avrei dato la minima garanzia in proposito. Non è vero, Campion?» Albert non fu costretto a rispondere, perché Belle intervenne col suo fare impulsivo. «Quel quadro» esclamò «come sapete benissimo, Max, l'ha dipinto il vecchio Cornelius Van Pipjer. Vi ricordate la sua vedova? Abitava in Cromwell Road. Ci faceva tanta pena. Ricordo così bene la morte di quel
poveretto. Certo, sono passati parecchi anni da allora; il padre di Linda non era ancora nato.» Fustian abbozzò un sorriso. «Dunque il quadro è antico davvero!» esclamò. Gli occhi di Belle si annebbiarono un momento; poi sorrise anche lei. «Dimentico sempre di essere tanto vecchia» fece. «Si capisce, la povera Hester Van Pipjer non è dei vostri tempi. Ma ricordo bene quel quadro. Ce n'era una mezza dozzina che John persuase Salmon a comprare. Van Pipjer era un semplice copista, ma quel quadro l'aveva inventato lui alla maniera di Steen. Non aveva mai voluto darlo via, ma morendo lasciò la vedova in miseria, e così John l'ha convinta a disfarsene. Ricordo che Salmon si arrabbiò molto per essere costretto a pagare il quadro originale quanto le copie. Capite, queste le poteva rivendere per quel che erano, ma un'imitazione dall'antico fatta da un ignoto non valeva quasi niente. La signora Van Pipjer fu ben contenta di ricevere quel denaro: pianse tanto, poveretta.» Max continuò a sorridere, scherzosamente, con gli occhi che gli brillavano. «Cara Belle... che dono avete! Toccate tutto con le dita fatate della poesia. Ve ne accorgete, Campion? La vecchia vedova olandese in lacrime, che si asciuga gli occhi con una cocca del grembiule mentre il mio imponente predecessore, in tutta la sua munificenza di grand'uomo in finanziera le fa scivolare nel corpetto dell'abito le ghinee d'oro!» «Max, non ve la caverete così.» Belle scosse il capo, adirata. «Fra l'altro il vecchio Salmon non si sarebbe mai sognato di far scivolare ghinee nel corpetto di nessuno, anche se è un fatto che portasse la finanziera. Però la signora Van Pipjer non si è mai vista in grembiule e, casomai lo avesse avuto e ci stesse piangendo dentro, sarebbe stato impossibile infilarle delle monete nel corpetto. Ma non è questo il punto. Quanto vi hanno dato per quel quadro?» Campion guardò altrove. Fustian chiuse gli occhi. «Millecinquecento» fece. «Millecinquecento! Oh, Max, andate via di qui. Mi fate orrore.» Donna Beatrice rise con un po' d'invidia. «Molto abile, questo Max!» esclamò. «Non lo incoraggiare!» La vecchia signora era fuori di sé. «Oh» aggiunse senza molta logica. «Che colpo di fortuna sarebbero stati quei soldi per Hester. Aveva una figlia così carina... Tisica, se non sbaglio.» Fustian scoppiò in una risata. «Ma mi fate torto, Belle! Se l'ho detto, al
mio cliente, che il quadro non era di Steen!» «Allora perché l'ha pagato millecinquecento sterline?» «Perché» replicò l'altro altezzosamente «perché quell'uomo era un imbecille orgoglioso convinto che io mi potessi sbagliare.» «Gli avrete perlomeno detto che il quadro era antico?» «Non gli ho detto niente. Ha parlato sempre lui. Non è vero, Campion? Ha detto che la tela era antica, dell'epoca di Steen, cioè, e l'ho confermato. Era vero. Il vostro amico Van Pipjer doveva averne uno stock. Molto utili.» «Siete molto furbo, Max» fece la vecchia. «Ma non siete buono.» La reazione di Fustian a queste parole, fu tipicamente maschile. Inginocchiatosi vicino alla signora Lafcadio si lasciò andare in una lunga disquisizione. «Lasciate che io mi spieghi, cara signora. Voi mi giudicate a priori. Se aveste visto quell'uomo sareste stata d'accordo con me. Lo avreste convinto che il quadro era uno Steen, glielo avreste venduto per tremila sterline sperperandole successivamente sui discendenti di Hester Van Pipjer. E avreste fatto bene.» Allargò un braccio, lanciato nella perorazione. «Eccolo lì, quell'uomo ben pasciuto, troppo ignorante, vanitoso, con una ridicola lente d'ingrandimento, che sarebbe stata perfetta tra le mani di un poliziotto da farsa, che si trascinava carponi sul mio pavimento, parlando di tessuto e di pigmento come se conoscesse il significato di queste parole! Perché faceva tutto questo?» Balzato in piedi, si mise a passeggiare per la stanza, esaltandosi alla propria eloquenza, con gli occhi accesi dalla fiamma della giustizia. «Voleva appropriarsi a buon mercato di un quadro importante per regalarlo alla galleria d'arte di un'orribile città, i cui abitanti egli aspira di rappresentare in Parlamento. Sapete come adopererò quel denaro? Comprerò un'automobile. Il candidato rivale del mio cliente ha una fabbrica in cui lavorano centinaia di migliaia di operai. Io comprerò una sua macchina, e così il denaro che quell'idiota avrebbe dovuto spendere a favore dei bambini poveri del suo collegio elettorale, servirà ugualmente a beneficiarli; e in più avranno anche il quadro.» «Sono perfettamente d'accordo con lui!» esclamò donna Beatrice. «C'è troppa gente che s'illude d'intendersi d'arte.» Belle alzò le sopracciglia. «Mi sembra» fece «che questo ragionamento tenda a fare di due neri un bianco, e inoltre, non so come, salta fuori un'au-
tomobile di lusso.» Solo Campion non apriva bocca. Stava assimilando i fatti uditi poco prima, e li paragonava al colloquio cui aveva assistito nella Galleria Salmon. Gli pareva di trovarsi sull'orlo di una scoperta straordinaria, e di grande importanza. I due uomini uscirono insieme poco dopo, diretti verso una stazione di tassì sul ponte della ferrovia. Pioveva, ed era già molto buio, nonostante la primavera. Max sembrava di ottimo umore. Camminava spavaldo, con l'enorme cappello nero sulle ventitré. «La memoria dei vecchi!» esclamò Max. «E che coincidenza! Straordinaria, eh? È stato proprio un pomeriggio istruttivo.» Campion rifletteva febbrilmente. A un tratto, l'idea che gli era affiorata nel cervello fin da quando era uscito dalla Galleria Salmon due giorni prima, gli divenne chiarissima, facendogli scorrere un brivido per la colonna vertebrale. Ciò che aveva notato col subcosciente alla Galleria Salmon era la somiglianza evidente fra i discorsi di Max col deputato, e la sua confessione all'ispettore Oates. A parte la differenza di tono, i punti di contatto erano impressionanti: la sincerità apparente, la spavalderia, il coraggio, la compiutezza dell'opera. Ora Campion conosceva l'altra facciata della storia del quadro, e un nuovo pensiero, un pensiero stupefacente, lo afferrò. E se anche la confessione avesse avuto una doppia faccia? Se anche quello fosse stato un esperimento di doppiezza sopraffina? Lanciò uno sguardo alla figura al suo fianco, che camminava nella strada londinese deserta, e provò quello strano fenomeno fisico che viene comunemente descritto come "sentirsi gelare il sangue nelle vene". Più ci pensava, più ogni punto gli si chiariva. La confessione di Max era stata distrutta troppo facilmente dall'ispettore. Era l'invenzione di un egoista isterico e affettato, quale appariva Fustian di primo colpo, e quale Oates riteneva che fosse in realtà. Ma Campion ormai conosceva meglio quell'uomo. Sapeva che non si trattava di un idiota qualunque; inoltre pareva che il suo fosse uno di quei cervelli strani e tortuosi che non solo preferiscono prendere le vie pericolose, ma ignorano addirittura il rischio, come ignorano la verità. In questa nuova luce, la confessione di Max appariva una menzogna doppiamente ingegnosa: e, in tal caso, la deduzione che se ne doveva trarre era terrificante.
Campion, in quel momento si riscosse dalla sua meditazione perché si stava avvicinando un'auto, nella quale Max lo invitò a salire. Declinata l'offerta, Albert rimase solo sotto la pioggia a seguire con gli occhi la macchina che si allontanava. Intanto Fustian, seduto in automobile, si toglieva il cappello, appoggiandosi allo schienale con una risatina. Per un po' rimase in felice contemplazione della propria furberia, ma poi, aggrottando le sopracciglia, socchiuse gli occhi neri e lucenti. Pensava alla signora Potter. 11 Prima del fatto La mattina di quel giovedì che doveva esser l'ultimo giorno della sua vita, la signora Potter si alzò un po' più presto del solito, perché aveva molto da fare. Scesa dal letto che, durante il giorno, si trasformava in divano, di fermò un momento a riflettere. La camicia da notte copiata da una figura greca in una illustrazione era seminascosta da una liseuse patetica tanto era brutta, ma le serviva a tenere al calduccio braccia e collo, trascurati dal drappeggio di stoffa leggera del modello originale. I suoi capelli grigi erano in disordine, e il volto pallidissimo. Aveva dormito male. Potter si era già alzato, e si era rinchiuso nella baracca in cui preparava e stampava le sue litografie. Per un'ora non sarebbe comparso di certo. Sua moglie si vestì meccanicamente, con la fronte segnata da rughe di nervosismo. Lo studio era pieno di correnti d'aria oltre che piuttosto scomodo e di conseguenza la sua atmosfera volutamente anticonformista aveva qualcosa di triste. La scuola di arredamento che aveva un debole per i fiaschi di Chianti e gli scialli zingareschi adesso non faceva pensare più alla autentica vie de Bohème quanto piuttosto alla messinscena per una produzione teatrale di dilettanti; e il romantico e pittoresco squallore adatto al coraggio della gioventù, nella mezza età era semplicemente desolante. Claire si mise al lavoro, avvolgendosi in un grembiulone di foggia vagamente russa. Era il giorno della lezione del marito nella scuola di Blakenham: bisognava farlo uscire in tempo. Sforzandosi di metter da parte il pensiero terribile e sconvolgente che la perseguitava notte e giorno da tre settimane, la signora Potter riuscì a pen-
sare agli impegni della giornata. Bisognava mandare al comitato i biglietti da distribuire per la mostra degli acquarelli. Poi c'erano da correggere i lavori del Circolo Artistico Gitano, e segnarvi dietro una breve critica: "Attenzione al valore dei toni!" oppure "Ancora quelle macchie! Evitare il verde veronese". Rifatto il letto, e stesavi sopra la stoffa a righe, la donna infilò i cuscini nelle fodere da giorno, ammonticchiandoli in un angolo per dare una "macchia di colore". Quindi si lavò nel lavandino di cucina. Non si era mai identificata con il movimento dei sudicioni e quindi si dedicò con attenzione alla cura della propria persona. L'ultimo tocco fu una spolveratina sul volto con una cipria a base di polvere di riso che comperava sciolta e, a volte, vendeva in graziose scatoline dipinte a mano. Si muoveva agilmente e con metodo, ma quella mattina la sua sveltezza non era disinvolta come al solito. S'interruppe un momento, assalita da un'ondata di calore che dalla schiena salì fino al capo, lasciandola tremante, con gli occhi pieni di lacrime. Viveva da tanto tempo in un mondo fatto di piccole cose che l'intrusione di un avvenimento grave nella sua esistenza quasi non le riusciva razionalmente accettabile e invece produceva in lei una strana reazione fisica. Prese i pennelli intinti nella trementina per pulirli prima di preparare la colazione, ma li lasciò cadere di colpo, rovesciando il recipiente al suono di un passo fuori dall'uscio. Subito la signora Potter si adirò con se stessa per la propria sbadataggine, ricordandosi che non poteva trattarsi che di Lisa o di Fred Rennie che le portavano il giornale del mattino. Ci volle del tempo perché la donna osasse guardarlo. Non era certo tipo da credere ai presentimenti, ma una sensazione d'irrequietezza e di terrore era andata crescendo in lei in quella settimana e adesso le era diventata insopportabile. Era come se si sentisse alitare intorno la tragedia. Afferrato finalmente il giornale, ne scorse le colonne di cronaca, sentendosi sempre più sollevata via via che si accertava di non trovarvi nessun nome familiare. Tornò quindi risoluta al suo lavoro quotidiano. C'era tanto da fare, e così poco tempo. Quando si aveva un autentico temperamento da artista, sembrava un peccato dover passare tutto il tempo lavorando. Cominciò a pensare all'Italia, al paesino su, fra i monti, sopra Sanremo, dove si poteva mettere il cavalletto vicino alla chiesa, sedersi all'ombra e godersi quelle luci. Tutte così nette, limpide e spavalde; come colori usciti
direttamente dal tubetto. Si ripeté queste riflessioni a voce alta come se provasse un conforto particolare a farlo. Se non fosse stato per William e la loro terribile povertà, e quell'incessante susseguirsi di cose che andavano fatte, sarebbe tornata in quel paesino. Per un attimo, mentre stendeva la tovaglia rustica sul tavolo antico a ribalta, fu colta dal desiderio invincibile di andarsene subito, abbandonando tutto in una fuga improvvisa. Ma questo impulso di auto-preservazione sfortunatamente venne respinto subito. Ci avrebbe pensato col tempo. Se i nervi non le avessero retto, sarebbe partita in autunno. Ma oggi bisognava parlare con Rennie di certe tinte. E alle tre e mezzo sarebbe venuta la signorina Cunninghame a prendere la sua lezione. La giornata si annunciava piena di impegni. C'era stata un'epoca in cui il giovedì piaceva alla signora Potter. Le piaceva essere indaffarata; le piaceva quel po' di importanza che ricavava dalla posizione di segretaria del Circolo Artistico Gitano; ci godeva a far notare alla distintissima e facoltosa signorina Cunninghame dove il suo gusto un po' datato da persona ultraperbene non si fosse mostrato all'altezza delle esigenze del dipinto. Ma quel giovedì era differente. Potter entrò in casa proprio mentre la moglie metteva la colazione sul tavolo. Claire lo guardò entrare come se lo vedesse per la prima volta, rendendosi conto senza possibilità di dubbio che quell'uomo non avrebbe potuto assolutamente darle una mano per tirarla fuori dalla terribile situazione in cui si trovava. Non l'aveva mai stimato molto, ma guardandolo ora a mente fredda, la donna si domandò come mai fosse arrivata a sposarlo. Eppure anche nei giorni sereni di trent'anni prima, a St. Ives, doveva pur essere stato evidente che il peso portato nel cuore da quel giovanotto dall'aria triste non era il genio, bensì la deprimente convinzione di non possederlo affatto. E queste considerazioni erano particolarmente tristi perché Potter quella mattina era felice. Senza colletto, con i vecchi calzoni sformati ai ginocchi e dietro, e i piedi nudi nelle ciabatte, il litografo era allegrissimo. La malinconia era quasi scomparsa dal suo volto mentre agitava con aria trionfante davanti agli occhi della moglie un foglio di carta giapponese. «Una bellezza!» esclamò. «Mia cara, quest'ultima pietra va magnificamente. Temo di essere un po' sudicio. Sai, l'inchiostro. Ma guarda! Questa
intensità non si potrebbe raggiungere incidendo su una pietra comune. L'ho sempre detto che l'arenaria è una materia nuova e importante e con questa stampa lo proverò.» Allontanate le stoviglie, l'artista posò il foglio sul tavolo, lasciando una ditata nera sulla tovaglia. La vista del proprio misfatto fu la prima amarezza della mattinata per Potter, il quale, appoggiandovi sopra in fretta una mano, lanciò un'occhiata alla moglie. Ma questa, per fortuna, non lo guardava. Gli occhi fissi alla finestra, Claire aveva sul volto un'espressione che il marito non le conosceva. Sembrava come impaurita, quasi dolce. Senza saper perché, Potter se ne rallegrò molto, e ne trasse tanto coraggio da tirarla per una manica. «Guarda» le disse. «È buona vero? Volevo chiamarla Paesaggio della vecchia Bayswater, ma forse troverò un titolo più moderno dato che è riuscita così bene. C'è il ponte della ferrovia, vedi. È proprio bella vero? Queste ombre, qui...» Claire taceva sempre, mentre il marito si entusiasmava per la litografia. «Stavo pensando di incorniciarla e di appenderla laggiù al posto di quella stampa dei Medici. In fondo, un'opera originale è sempre meglio di una riproduzione.» «Su, William, non fare lo sciocco. Mangia! Ho tanto da fare.» La signora Potter gettò la stampa sul divano, rimettendo il piatto davanti all'incisore. «Sta' attenta, cara. Non è asciutta. Una così bella stampa! Mi ci è voluta l'intera mattinata.» La disperazione si insinuò di nuovo nella voce del poveretto, il quale, mentre consumava umilmente la colazione diventata fredda e poco appetitosa, appariva invecchiato, sciatto e alquanto sudicio. La donna mangiò a sua volta come se soltanto la distrazione la trattenesse dal trovare il cibo cattivo. Aveva di nuovo sul volto quell'espressione di timore che il marito scambiava per dolcezza, e che lo indusse, dopo un'occhiata alla stampa per rassicurarsi sulla sua incolumità, a chinarsi in avanti per parlarle. «Ti senti bene, Claire? Mi sei sembrata nervosa e diversa dal giorno del ricevimento.» Con grande sorpresa di Potter, la moglie gli si rivoltò contro con un vigore inatteso. «Non è vero. Sto benissimo. Comunque, il ricevimento non c'entra affatto. Fa' presto. Devi prendere la corsa delle dieci e trenta da Liverpool
Street.» «Va bene.» La malinconia dell'incisore era ormai tornata a dominarlo completamente. «Mi rincresce di dovermene andare così» fece. «Mi sarebbe piaciuto tirarne ancora una o due. Certo, alla signora Lafcadio farebbe piacere averne una. Dare lezioni è uno strazio» riprese. «È già difficile insegnare a chi ha voglia d'imparare, ma a quei ragazzi l'arte non interessa affatto. E questo rende tutto più difficile.» La signora Potter non gli diede risposta ma continuò a sorseggiare il caffè dal bicchiere filtré del servizio che avevano portato dal Belgio. Evidentemente non stava affatto pensando a lui. Lo sguardo di Potter tornò di soppiatto alla litografia. «Appesa là, starebbe molto bene» disse. «La luce è buona e lo rende più interessante. Credo che lo metterò in cornice e lo appenderò se non ti spiace, cara.» «Là non lo voglio, William. Ho dedicato tempo e fatica a rendere questa stanza com'è. Ci vengono i miei allievi a prender lezione e, per me, è importante che rimanga così com'è.» La signora Potter si stava accorgendo che, a mostrarsi così ferma, si sentiva più sollevata. Come se non bastasse, poi, la questione dell'arredamento di quella stanza era sempre stato motivo di discordia fra loro e lei si era sempre vantata, nel segreto del suo cuore, per non aver mai concesso alla propria personalità di venir oppressa da quella del marito. Il fatto che questa fosse una precauzione superflua non le era mai passato per la testa. In genere il signor Potter cedeva senza lottare ma quel giorno si sentiva eccitato dal trionfo, imbaldanzito dal successo. «Eppure, mia cara» osservò con dolcezza «ci sono delle persone alle quali i miei lavori piacciono. Qualcuno potrebbe entrare, vederla e mostrare il desiderio di comprarne una copia. Se ben ricordi, una volta c'è stato il duca di Caith che me ne ha comprata una. Gli piaceva.» «William, taci. Non sopporto queste chiacchiere.» Il tono con cui la signora Potter aveva parlato era venato di isterismo e talmente imprevisto in lei che suo marito venne ridotto al silenzio e rimase a guardarla a bocca aperta per lo stupore. Il pasto continuò in silenzio, e poi Potter, triste come sempre, tornò nella sua baracca. Alle dieci meno un quarto ne uscì per recarsi a scuola, e la moglie, vedendo la figura disordinata di lui lasciare il giardino, con i ciuffi di capelli che gli sbucavano di sotto al cappello, e la carta marrone in cui erano av-
volti i suoi disegni che gli sventolava sotto il braccio, pensò con sollievo che fino alle sette non lo avrebbe più veduto, e gli fece un cenno di saluto. Se avesse immaginato che non lo avrebbe mai più riveduto, c'è da dubitare che il suo adieu sarebbe stato molto più cordiale. Nell'opinione di sua moglie, il signor Potter era una persona insopportabile. Quando Claire ebbe sistemato gli schizzi dei Gitani ed ebbe sbrigata qualche faccenda domestica, era l'una, e la donna si recò da Fred Rennie per prendere un tubo di biacca olandese. Il pianterreno dell'antica rimessa, dove venivano ancora preparati i colori segreti di Lafcadio, somigliava molto a un laboratorio d'alchimia. Rennie non aveva nulla dello scienziato e svolgeva il suo lavoro basandosi sullo strano metodo primitivo insegnatogli dal pittore. Il luogo era in un disordine indescrivibile, e ciò rendeva nulle le possibilità di rubare i segreti del procedimento. Soltanto Rennie riusciva a raccapezzarsi in mezzo a quei banchi ingombri, dove i veleni, gli avanzi di cibo, e i costosi colori puri erano sparsi in fagottini di carta sudicia. File di vecchi barattoli di marmellata contenevano miscele preziose. L'odore di trementina era soffocante. Fred stava lavorando, ma alzò la testa e sorrise, vedendo entrare la signora Potter. Non gli era molto simpatica. Gli sembrava una ficcanaso pedante e la sospettava di tentar di comprargli i colori a prezzo inferiore a quello di costo; sospetto d'altronde più che fondato. D'altro lato, anche Claire aveva poca simpatia per Fred, perché questi non le mostrava nessuna deferenza e la trattava da pari a pari. Per trovare la biacca, Rennie dovette spostare vari mobili e poi, finalmente, raggiunse l'armadio in fondo alla stanza dove teneva i prodotti finiti. Mentre lui le voltava le spalle, la Potter si avvicinò al banco ove lui stava lavorando, non perché fosse spinta da un interesse speciale, ma perché, per abitudine, ficcava sempre il naso nel lavoro altrui. Il gesto era stato anzi così meccanico, e la sua mente così assorta, ossessionata com'era dal suo segreto tremendo, che tornò in sé, sobbalzando quando Rennie le tese un grande cartoccio pieno di polvere bianca. «Prendetene un pizzico» fece. Un poco sorpresa da tanta familiarità, gli rispose seccamente. «Cos'è?» «Arsenico» rispose l'altro, ridendo fino a sentirsi male. Strano tipo, quell'uomo.
Consegnata la biacca, Rennie fu irremovibile nel corso della solita discussione sul prezzo, congratulandosi con se stesso, quando la cliente fu uscita, per averla punita per la sua curiosità. La signora Potter ebbe pochissimo tempo per il pranzo. Un negozio di Church Street che si occupava della vendita dei suoi acquarelli le telefonò per ordinarle della roba appena tornò dalla visita a Rennie, e quindi passò un'ora a impacchettare i suoi lavori, attaccarvi i prezzi e farne la spedizione. Rientrando, ritirò un pacco di blocchi da incisione che un commesso di Salmon aveva lasciato per lei presso Rennie, ma ormai non mancava che un quarto d'ora alla venuta della signorina Cunninghame. Si fece una tazza di Bovril e si sedette a berla vicino alla finestra dello studio. Fu quello il primo momento di calma della giornata. Eppure si scoprì a pensare che quel poco tempo, sola con se stessa, era anche troppo lungo. Era avvezza a tenere la mente occupata in tante piccole cose, ma ultimamente si era vista costretta a sforzarsi di non pensare affatto. Appena libero, il cervello tornava sull'unico argomento dal quale voleva fuggire, l'impossibile e tremenda cosa che le era capitata e che aveva reso secondario ogni altro interesse. Fu dunque con una sensazione di sollievo che udì aprirsi il cancello del giardino, e i passi pesanti della signorina Cunninghame che si avvicinavano. Nascosta la tazza vuota, Claire si alzò per ricevere l'allieva, atteggiando il volto a un vivace sorriso professionale. La signorina Cunninghame era un tipico esemplare di un certo genere di donna: grassottella, distinta, di mezza età, e priva di ogni talento. Il tailleur sportivo, la camicetta di seta e il feltrino avrebbero potuto appartenere a qualunque maestra di provincia. Ma era ricca e aveva una passione insaziabile per l'acquarello. Fisicamente la signorina Cunninghame non era molto gradevole. Gli occhi azzurri erano troppo vicini, e la bocca circondata da mille rughe come se gliel'avessero cucita con lo spago. Era solita portare ogni quindici giorni i suoi lavori alla signora Potter per averne critiche e consigli. Ne aveva una cartella piena, quel giorno, essendo appena rientrata da una vera e propria orgia di pittura a Rye. «Un tempo splendido» disse con la voce fievole, un po' affettata. «Ho dipinto di continuo. Sono posti dove le sfumature di colore sono magnifiche. Ed eravamo una vera folla, noi pittori.» La signora Potter si accorse, improvvisamente, di non sapere come ca-
varsela, un'esperienza, questa, che non ricordava di aver mai avuto in una simile situazione, ma il tempo splendido, i colori nei dintorni di Rye e gli acquarelli della signorina Cunninghame le parevano diventati inspiegabilmente sciocchi e vani. La sua allieva si tolse i guanti di capretto marrone e si accinse ad aprire la cartella con l'espressione smaniosa di una bambina che sta preparando una sorpresa. La signora Potter si accorse di avere gli occhi vitrei e lo sguardo fisso mentre aspettava e, quando una dozzina o giù di lì di paesaggi verdeggianti, orribili tanto gli slavati soggetti si assomigliavano, le vennero allargati davanti sul tavolo, si costrinse faticosamente a dire le osservazioni giuste, a ricordare le frasi conosciute e le parole sfruttate, le giuste inflessioni di stupore e di gratificazione che l'allieva si aspettava e per le quali, a suo tempo, l'avrebbe pagata. Passata l'emozione che provava sempre nel mostrare le proprie opere, la signorina Cunninghame sedette, preparandosi a far quattro chiacchiere con la maestra. «Nessuna novità?» domandò abbassando la voce, e chinandosi in avanti con aria confidenziale. «Cioè» continuò «l'ultima volta che sono venuta è stato subito dopo il... il dramma. Vi ricordate? Eravate tanto agitata che sono rimasta appena una decina di minuti. Poverina! Non state molto bene nemmeno adesso. Sono stata fuori Londra, e quindi non so nulla. I giornali hanno detto ben poco, vero? Ma una mia amica che ha il fratello al ministero degli Esteri, dice che la polizia ha abbandonato l'inchiesta. È vero?» La signora Potter si lasciò cadere su una seggiola di fronte alla signorina Cunninghame non perché avesse voglia di chiacchierare ma perché le gambe non la reggevano più. Sentiva la fronte imperlata di sudore sotto la frangia, e si domandava fino a quando sarebbe durata quella terribile reazione fisica all'argomento che non osava affrontare. La sua allieva continuava il discorso, con l'orribile avidità di chi ha rotto il ghiaccio su un argomento difficile: «Voi ne sapete qualcosa? La polizia ha pochi riguardi, non è vero? Ne sono sempre stata convinta. Dev'essere stato terribile per voi. Lo conoscevate bene, vero? È stato vostro allievo?» «Chi? Dacre?» ribatté la Potter. «Oh, no. No, non gli ho mai insegnato niente.» Avrebbe potuto aggiungere che sarebbe stato impossibile, ma il suo istinto era di star ferma e di parlare meno che poteva. Un po' come se si trovasse nel bel mezzo di una marea di traffico e che la sua unica speranza fosse di rimanere immobile.
Qualcosa che pareva quasi un sorriso di soddisfazione filtrò da sotto la maschera di finta simpatia della signorina Cunninghame. «Voglio dire che l'inchiesta è stata buffa, non è vero?» fece la signorina Cunninghame. «I resoconti sui giornali erano così vaghi. Hanno detto che Dacre era sposato. Ma non era fidanzato con la signorina Lafcadio? O sbaglio?» Claire si sforzò di parlare. «Lo era stato» rispose «ma il matrimonio era andato a monte, prima che lui partisse per l'Italia.» «Ho capito.» La signorina annuì, stringendo le labbra. «Certo» riprese a un tratto, spalancando gli occhi in modo impressionante «l'hanno assassinato, vero? Oh, scusate, se ho adoperato questo termine, ma è stato proprio ucciso, no? Pugnalato, vero? Vedo, però, che preferite non parlarne. Forse è troppo penoso.» Quegli occhi sembravano diventati addirittura diabolici. La signora Potter si domandò se le si vedevano scendere le gocce di sudore sotto la frangia. Quella chiacchierona sembrava trasformata in un demonio dalla chiaroveggenza sovrumana, capace di strappare la verità dal fondo del suo pozzo. Claire si difese debolmente. «È stato un gran colpo» fece. «Ma io non c'entro proprio niente.» «Si capisce» esclamò ridendo la signorina Cunninghame. «Si capisce, mia cara, altrimenti non sareste qui. Ma mi domandavo... non avete nessuna idea sul mistero? Da qualcosa che la signorina Richards si è lasciata sfuggire... si direbbe che ci sia di mezzo anche un ambasciatore.» «Non che sia stato lui, mi capite. Ma la signorina Richards pensava che... potessero essere stati i bolscevichi. Non intenzionalmente, sapete, ma per propaganda, come le suffragette. Si sentono raccontare certe cose! Suppongo.» Continuò nel tentativo di cavare qualcosa di sensato dalla sua interlocutrice che aveva la faccia impenetrabile ed era letteralmente annientata, oltre che in preda a un terrore profondo. «No» replicò l'altra con voce atona. «Non ne ho la minima idea.» Dopo aver riposto i disegni, e giunta al punto di andarsene, la signorina Cunninghame, che si era trattenuta più del solito, fece un ultimo sforzo. «Povera signora Lafcadio!» esclamò. «Così vecchia! Dev'essere stato un gran colpo per lei. È terribile rimanere all'oscuro in questo modo senza che nessuno sappia niente della verità.» La signora Potter afferrò la maniglia dell'uscio. «Già» fece con voce incerta. «Nessuno ne sa nulla. Questo è il terribile.»
«Appunto» ribatté la sua allieva allegramente; e se ne andò. Rimasta sola, la signora Potter gettò uno sguardo all'orologio. Erano le quattro e mezzo. William non sarebbe tornato che alle sette, e fino a quel momento era libera. Inutile preparare la cena. Alle sette meno un quarto sarebbe venuta Belle a invitarli: "Sei così occupata il giovedì, mia cara; sono certa che non hai avuto tempo di preparar nulla". Era accaduto così ogni settimana da sei anni. L'invito sembrava improvvisato ogni volta, ma era ormai tradizionale e non c'era ragione di supporre che questo giovedì sarebbe stato diverso dagli altri, se lei non avesse avuto quella strana sensazione di un incombente pericolo. Confusa com'era, girò gli occhi per la stanza finché si fermarono su un certo oggetto. Ma li distolse subito. No: questo no. A un tratto tutta la camera divenne miracolosamente nitida davanti al suo sguardo. La vide chiaramente come non le era mai successo prima. Ignorava naturalmente che fosse l'ultimo che dava a un ambiente così pieno di ricordi per lei, ma è certo che in quel momento vide tutto in una nitidezza magica. Fu proprio nell'attimo in cui, immobile, osservava questo fenomeno, che il telefono squillò. 12 Cosa dobbiamo fare? Fu Belle a trovare il cadavere: la dolce, cordiale, vecchia Belle con la sua cuffia bianca che svolazzava alla brezza, e le sottane tirate un po' su perché non si insudiciassero nell'erba rugiadosa. Si fermò un momento sulla soglia dei Potter a tagliare una rosa secca rimasta sulla pianta striminzita che si arrampicava sul porticato. Sorpresa di non ricevere risposta al suo bussare, si avvicinò all'uscio di cucina che era aperto. «Claire!» chiamò. «Claire, sei occupata? Posso entrare?» La sua voce risuonò nella casetta e si spense; allora, dopo un momento di attesa, Belle entrò nello studio. Claire Potter era distesa bocconi sul divano, le braccia abbandonate e, per fortuna, il collo nascosto dai cuscini. La sua figura piccola e tozza, avvolta nello spolverino, si intonava così bene con la stoffa del divano che per un momento gli occhi di Belle non riuscirono a vederla. Si guardò attorno, un po' delusa di trovare la stanza vuota.
Si era decisa a sedere per aspettare, risparmiandosi le fatiche di una seconda visita, quando si accorse del corpo disteso sul divano. Vi concentrò tutta la sua attenzione. Col fiato mozzo, esclamò: «Claire! Non ti avevo vista! Che è successo?» Ma il corpo della Potter giaceva accasciato e informe come un mucchio di vestiti gettati sul divano. La signora Lafcadio si chinò su di lei, il volto arrossato e con pietà quasi materna. «Non stai bene figliola? Claire!» Posata una mano sulla spalla molle e cedevole, Belle tentò di sollevare quella povera cosa avvolta nello spolverino. «Coraggio, cara. Fatti forza, Claire. Siediti.» Sotto il debole sforzo della vecchia, il corpo si alzò, e per un istante il volto di Claire fu visibile. Pelle bluastra, occhi dilatati e orrende labbra socchiuse risaltarono contro l'arancione vivido dei cuscini. Le vecchie dita di Belle abbandonarono la presa, e il volto orribile tornò a sparire nei guanciali. Poi Belle si rizzò con un movimento lentissimo. Il suo viso era pallido e gli occhi castani stranamente inespressivi. Per qualche secondo rimase incerta: poi si mosse decisa, e con una agilità straordinaria. Gettato uno sguardo intorno, e visto che l'ambiente appariva ordinato e normale ne uscì a passo lieve quasi per rispetto alla strana superstizione secondo la quale i morti hanno il sonno leggero. Tornò nella cucina. Lo specchietto sul lavandino la impressionò rimandandole l'immagine di una vecchia traballante e dalle labbra esangui. Si fermò per ricomporsi. A ogni costo, per il bene di tutti, non ci dovevano essere né scompiglio, né scene penose. Nessuno doveva provare lo shock di scoprire inaspettatamente quel volto tanto terrificante. Povera Claire. Povera Claire così pratica, così intelligente. Dopo un attimo, convinta di esser riuscita ad assumere un aspetto quasi normale, si preparò a fare quanto occorreva. Dall'uscio di cucina vedeva il sentiero che conduceva alla baracca di Rennie. «Fred!» chiamò piano. «Fred, vieni un momento.» Credeva di parlare con voce naturale, ma il colorista, lasciato il banco, le si precipitò incontro col viso preoccupato. «Cosa c'è, signora?» domandò, afferrandola per un braccio per sostenerla. Belle lo guardò e le tornò in mente, per quanto strano fosse fra i terrori e
il dolore che vi si affollavano, come le era apparso la prima volta che l'aveva visto, un bambinetto di cinque anni stracciato e sporco, sulle ginocchia della mamma. «Cosa c'è, signora?» ripeté lui con ansia. «Vi sentite male?» Tanta premura proprio in quel momento infastidì la vecchia signora che diventò brusca e pratica. «Vieni, non voglio che ci vedano da casa» fece rientrando nella cucina. Quindi riprese, mentre l'uomo la seguiva, sorpreso: «La signora Potter è distesa nello studio. L'ho trovata poco fa: morta.» «Morta?» ripeté l'altro. «Ne siete sicura?» «Sì. Entra, ma non toccarla, poveretta.» Fred tornò poco dopo, col volto scuro e la fronte aggrottata. «Tornate a casa, signora» fece. «Non è bene che abbiate visto uno spettacolo simile. Tutt'altro. Bisogna che andiate a distendervi: a tirar su i piedi» aggiunse goffamente. «Rennie, non fare lo stupido.» Belle aveva assunto di nuovo la sua solita autorità. «Ci sono parecchie cose da fare. Il povero Potter tornerà alle sette, e non possiamo lasciarlo entrare in quella stanza. Prima di tutto bisogna chiamare un dottore.» «Sissignora. Bisogna chiamare qualcuno. È inutile che la signora Beatrice lo sappia subito.» «Certo» replicò la vecchia, e soggiunse involontariamente: «Fred, sono contenta che il tuo padrone non ci sia più.» L'altro annuì serio. «Si sarebbe agitato» osservò, riprendendo dopo una pausa. «Sarà meglio chiamare il dottore della signora Potter. Abita qui, nel Crescent. Gli telefono?» Belle esitò. «No, direi di no. Ti potrebbe sentire donna Beatrice, e non voglio dare l'allarme in casa.» «C'è il telefono della signora Potter nello studio.» Belle scosse il capo. «No. Non è rispettoso di fronte a una morta. E poi credo che non si debba toccare nulla nella stanza; neanche la minima cosa.» «Non toccare nulla?» cominciò Rennie. «Ma signora, non credete forse che... voglio dire, credete che la sua morte non sia naturale, e che sia accaduto un altro...?» «Non so cosa pensare» fece Belle. «Va' ad avvertire il dottore, e conducilo qui.» «Ma non posso lasciarvi sola, signora.»
«Sciocchezze» ribatté questa. «Ubbidisci.» Ma quando Rennie se ne fu andato, con passo volutamente disinvolto fino al cancello e poi di corsa appena fuori, Belle si rammentò di Campion. Avviatasi a passo lento per il sentiero del giardino, chiamò Lisa. «Lisa» disse «aspettami sulla soglia di casa Potter. Non lasciar entrare nessuno finché non torno.» Al telefono, fece di tutto per apparire tranquilla, ma per Campion il messaggio della sua vecchia amica giunse come un'invocazione disperata d'aiuto. «Albert» disse «siete voi, mio caro? Mi chiedo se non potreste venire da me. Sì, immediatamente. Al più presto. No, no, niente di proprio grave. Niente di allarmante. Ma vi sarei proprio grata se voleste venire qui. Sentite, Albert. Prendete un tassì.» Furono queste ultime tre parole a convincere Campion che doveva essere accaduto qualcosa di serio. Come molti della sua generazione, Belle considerava i tassì alla stregua dei telegrammi, erano misure di emergenza. «Vengo subito» rispose. E dal telefono gli giunse il sospiro di sollievo di lei. La vecchia signora aveva appena riagganciato che donna Beatrice comparve in cima alle scale. «Con chi parlavi?» domandò, sospettosa. «Con Campion. Viene a trovarmi.» Donna Beatrice si accontentò di questa risposta, e Belle poté tornare in giardino. Lisa usciva dal portico mentre la sua padrona compariva all'altra estremità del sentiero. La sua pelle era grigiastra, e gli occhi lucenti e neri sembravano spaventati. «Sono entrata» disse, senza aggiungere altro. «Oh, Lisa!» Le due vecchie si guardarono. «Com'è morta?» «Non so. Aspetto il dottore.» «Aspetterò anch'io» ribatté Lisa; e le due donne sedettero in cucina, finché Rennie non tornò col medico. Il dottore Fettes era un giovane tranquillo, dalle spalle quadrate; i capelli folti gli nascevano bassi sulla fronte; possedeva la caratteristica di apparire inespressivo senza sembrar stupido. Fettes osservò i tre personaggi spauriti radunati nella cucina, che lo fis-
savano con occhi fiduciosi; e quando Belle gli ebbe spiegato che Potter si trovava a scuola e che non sarebbe tornato prima delle sette, andò a vedere quella che era stata Claire Potter. Lisa lo accompagnò. Cedendo alle sue insistenze, Belle le lasciò volentieri quello sgradevole compito. Rennie, portata una sedia per la padrona, le rimase vicino come una sentinella. Dalla porta della cucina un angolo dello studio, con il suo vistoso arredamento, era ben visibile. Ma tutto quel colore e la scelta di quegli oggetti erano calcolati: scialli zingareschi e fiaschi di Chianti dovevano creare un dato effetto. Belle non lo degnò di uno sguardo e, piangendo, cominciò a girarsi e rigirarsi la fede nuziale intorno al dito. Campion la trovò così, seduta sull'uscio di cucina, a testa bassa, che si rigirava in grembo le vecchie dita. La signora alzò il capo sentendolo avvicinare, e al giovane venne l'impulso di baciarla, prendendole una mano fra le sue. «Che cosa è successo?» Belle gli raccontò tutto con voce pacata, e Albert, ascoltando, sentì il gelo dell'orrore scendergli giù per la schiena. «L'avete trovata voi per prima?» «Sì.» «Siete sicura che sia morta?» «Oh... oh, sì. Certo, caro. Proprio morta. Povera Claire, così vivace!» A Belle stavano per mancare le forze mentre parlava, e l'investigatore dovette sostenerla. Tuttavia si rifiutò di rientrare in casa a distendersi. «Il dottore mi vorrà parlare» fece. «Mi ha detto di rimanere.» Fettes tornò finalmente in cucina, e fu presentato a Campion, il cui nome non gli riuscì nuovo; quindi cominciò a far domande ai presenti. «Signora Lafcadio» chiese «quando siete entrata nello studio e avete trovato la... la signora, avete toccato qualcosa?» «No.» La vecchia signora parlò decisa, «Nulla, eccetto... lei. L'ho sollevata, l'ho vista in viso e sono venuta subito qui.» «Capisco. Non avete per caso aperto le finestre? O le porte?» «No.» Belle era sorpresa. «No.» «Quanto tempo sarà passato fra la vostra scoperta e l'arrivo di quest'uomo in casa mia?» «Cinque minuti... dieci al massimo.» «Davvero!» Il giovane dottore aggrottò le sopracciglia, abbandonando le domande indirette.
«Sarò sincero con voi, signora Lafcadio. Non avete sentito odore di gas entrando nello studio?» «Gas? Ma dottore, non credete che Claire... Cioè...» «Non avete sentito odore di gas nella stanza, dunque?» «No.» La vecchia scosse la testa. «No. Non ho notato nulla di insolito. Le finestre erano come sono adesso, credo. Non ci ho badato.» Fettes sospirò. «Mah, sono le sei e mezzo passate. Sarà meglio che io aspetti il signor Potter.» Belle gli toccò la manica. «Quel poveretto non potrà aiutarvi granché» fece. «È stato fuori tutto il giorno, e questa disgrazia gli butterà a terra il morale.» Il medico parve riflettere. Conosceva Potter e non si faceva illusioni sulle capacità pratiche di quell'uomo, anche in condizioni normali. Inoltre non ignorava che Potter abitava lì grazie al mecenatismo dei Lafcadio e, incerto sulla strada da scegliere poiché non sapeva cosa esigesse l'etichetta in questi casi, optò per la più facile. «Francamente, signora» disse. «Non mi sento di rilasciare un certificato di morte naturale. Occorre un'inchiesta.» Belle annuì senza commenti. Campion prese in mano la situazione, e il medico, che lo conosceva di fama e sapeva del chiasso che era seguito alla prima morte misteriosa nella Piccola Venezia, ne fu ben contento. Belle si lasciò persuadere a tornare in casa sotto la protezione di Lisa, mentre Campion telefonava all'ispettore Oates. Lo chiamò dall'apparecchio di casa Lafcadio, lasciando il dottore di guardia allo studio dove giaceva il cadavere. «La stanza si può dire intatta» fece. «Ho pensato che forse saresti venuto volentieri subito. Sì, il medico è qui... Sembra incerto... parla di asfissia.» La voce stanca di Stanislaus divenne vivace, quasi eccitata. «Bravo Campion. Lascia tutto com'è finché non arrivo io. Sapevo che qualcosa del genere sarebbe accaduto. La ragazza c'è?» Albert si passò una mano sulla fronte. «Senti» rispose «non posso discutere per telefono.» «Non occorre» replicò Oates, il quale sembrava addirittura felice per le notizie avute. «Sarò da te fra dieci minuti.» E riagganciò. 13
La polizia all'opera La scoperta che Linda si trovava a Parigi da vari giorni per condurre certe indagini per conto suo, pur facendo vacillare la convinzione dell'ispettore sulla sua colpevolezza, non arrivò a dissiparla del tutto. Oates si sentiva intralciato, ma non vinto, preferiva conservare la sua reticenza professionale fino a quando non si fossero presi in esame i fatti e la sua teoria non fosse stata dimostrata giusta nel modo più lampante. Il dottore ripeté al poliziotto la sua impressione che la morte della signora Potter fosse dovuta ad asfissia, rifiutando di dire altro prima dell'autopsia. Campion, attento, silenzioso, rimase nello studio mentre gli altri si occupavano delle tragiche formalità del caso. Da principio Oates fu gaio quanto il suo carattere gli permetteva. Ecco un caso di omicidio premeditato, almeno a quanto la sua esperienza gli suggeriva, che, in genere, la polizia riusciva quasi sempre a risolvere con successo. Il delitto, poiché ormai si era persuaso che fosse tale, sarebbe stato sottoposto all'attento esame della polizia. Senza indebiti ottimismi, si poteva pensare che le indagini si sarebbero concluse con il pieno successo. Però, via via che nuovi particolari venivano alla luce, nacquero nella sua mente quello stupore e quella sorda irritazione che dovevano arrivare a esasperarlo in seguito. Intanto dovette ammettere che la signora Potter era morta asfissiata senza che si notasse su di lei la minima traccia di violenza, e apparentemente senza che l'aria fosse satura di gas. Per mezz'ora forse, mentre i fotografi e gli esperti in impronte digitali erano al lavoro, non accadde nulla di nuovo. Nell'ottimismo dell'ispettore si insinuò una certa testardaggine, e via via che ogni ricerca risultava infruttuosa, la sua aria di bonaria sicurezza si faceva più cocciuta e meno convinta. Fred Rennie fu interrogato attentamente, essendo una delle ultime persone che avevano visto viva la Potter, ma non si poté cavare da lui altro che una descrizione accurata dell'acquisto della biacca olandese da parte della poveretta. La prima luce sul mistero che andava infittendosi si ebbe dall'agente Downing, che era stato messo di guardia davanti allo studio; dopo aver visto Lisa raccogliere furtivamente in un'aiuola la tazza in cui la morta aveva
bevuto il Bovril a mezzogiorno, l'aveva sorpresa subito dopo nell'atto di risciacquarla. Trionfante, l'agente la condusse davanti all'ispettore, presentandogli la tazza sospetta, ma ormai lavata. Lisa stava in piedi sulla soglia, col volto illuminato dalla lampada; la donna e l'agente, dal volto arrossato per l'emozione, formavano un quadro indimenticabile. Gli occhietti neri vivaci scintillavano sul viso coperto da una sottile rete di rughe e le davano un'espressione di straordinaria scaltrezza. Appariva spaventata ma, forse, era l'unica emozione che quel viso sapeva riflettere. L'ispettore la osservò con sfiducia, ma quando aprì bocca la sua voce era cordiale. «La signorina Capella e io ci conosciamo» fece. «Ci siamo già veduti.» Lisa annuì. «Già. In occasione dell'altro delitto.» «Delitto?» Oates si gettò sulla parola. Ma la vecchia, come se non si rendesse conto di essersi tradita, guardava il poliziotto con un'espressione misteriosa che in realtà nascondeva la stupidità e la debolezza. «Cosa vi induce a credere che la signora Potter sia rimasta vittima di un delitto?» «Ho visto la sua faccia. Non è morta di morte naturale. I morti comuni non hanno quell'aspetto.» «Ah, l'avete vista in faccia?» fece l'ispettore. «Quando siete venuta a prendere quella tazza, eh?» E le indicò la grossa tazza di ceramica colorata, a un solo manico, che l'agente Downing teneva ancora in mano soddisfatto; ma se sperava di vedersi crollare davanti la vecchia sconvolta, Lisa si rivelò una delusione. «Si, è stato quando ho preso la tazza» ammise Lisa, inumidendosi le labbra mentre gli occhi le scintillavano più che mai. «Ah!» L'ispettore rimase quasi imbarazzato da tanta sincerità. «Voi non negate, dunque, di aver preso la tazza in questa camera dopo la morte della signora Potter, e di averla poi lavata?» La nota trionfante che risuonava nella voce di Stanislaus parve avvertire Lisa che quel dialogo era qualcosa di più di una conversazione comune. Subito strinse le labbra, mentre gli occhi le si facevano opachi e del tutto inespressivi. L'ispettore ripeté la domanda. Ma Lisa allargò le braccia in un gesto significativo. «Non parlo più» dichiarò. Dopo vari tentativi falliti di farle cambiare idea, Oates si rivolse a Cam-
pion. «Tu la conosci» fece. «Falle capire che ha detto troppo per fermarsi così, adesso.» Una volta messa in sospetto, era difficile convincere la vecchia, e ci volle un quarto d'ora d'insistenze perché si decidesse a parlare. Finalmente acconsentì a dare qualche risposta esitante. «Sono entrata quando la signora è andata in casa a telefonare. Allora ho visto il volto della signora Potter... sì, e anche la tazza, e l'ho nascosta nell'aiuola.» «Ma perché?» domandò Oates. «Perché non potevo tornare a casa. La signora mi aveva detto di aspettarla davanti allo studio, e non volevo che ci entrasse nessuno, poiché la signora Potter era morta.» L'ispettore sospirò. Campion intervenne. «Perché avete portato via la tazza, Lisa?» La donna esitò. I suoi occhi vivaci lanciavano sguardi da ogni parte. «L'ho trovata lì» si decise improvvisamente a rispondere indicando lo scaffaletto sotto la finestra, sul ripiano inferiore dove Claire aveva infilato la tazza, sentendo arrivare la signorina Cunninghame. «E l'ho portata via per pulirla.» «Ma perché? Dovevate avere un motivo per fare una cosa del genere in un momento così terribile.» L'altra si voltò di scatto. «Infatti» esclamò con vigore. «Ho pensato ci fosse del veleno nella tazza, e che ci sarebbero stati dei guai. E così ho lavato la tazza perché in questa casa non ci fossero più dolori.» L'ispettore guardava la vecchia come ipnotizzato, mentre il volto dell'agente esprimeva gioia e meraviglia. Campion insistette ancora, ansioso: «Avete il dovere di spiegarvi!» «Non parlo più.» «Sì, invece! Dovete parlare, se no questi signori crederanno che siete stata voi a mettere il veleno nella tazza.» «Io?» il volto di Lisa esprimeva chiaramente l'orrore. «Ma perché?» Oates le si avvicinò di un passo. «È quello che vogliamo sapere.» E allora la donna cominciò a piangere lasciandosi cadere sulla seggiola più vicina. Era uno spettacolo molto imbarazzante.» Pareva che ormai il compito di cavare la verità di bocca alla vecchia
modella toccasse a Campion; infatti, questi tentò di nuovo. «Chi credete sia stato ad avvelenare la signora Potter, Lisa?» «Nessuno. Nessuno. Ho lavato la tazza nel dubbio.» «Ma via, Lisa, non è possibile. Volevate bene alla signora Potter...» «No, davvero.» La veemenza della donna piangente era impressionante. «Era una stupida. Una prepotente. Una stupida.» «Ebbene, allora» e Campion si asciugò la fronte «diciamo che la conoscevate bene. Se... se qualcuno l'avesse avvelenata, vorreste che lo punissero, vero?» «Sì» fece l'altra senza convinzione. «Allora dovete dirci chi credete sia stato a mettere del veleno nella tazza.» «Non credevo che ci fosse veramente... no, davvero... davvero... Ho lavato la tazza solo nel dubbio. Quando l'ho vista morta mi sono ricordata che era entrato, e allora ho pensato...» I singhiozzi aumentarono tanto da impedirle di parlare. «Via, via» fece Stanislaus, battendo la mano sulla spalla di Lisa «è meglio dire la verità. Non serve a nulla conservare dei segreti in una faccenda come questa. Chi avete visto entrare?» I singhiozzi di Lisa si fecero isterici. «Non so. Non ho visto nessuno. Non parlerò.» La stretta di Oates sulla sua spalla si fece più energica; poi provò a scuoterla leggermente. «Fatevi coraggio, via: chi avete visto entrare nello studio?» La voce autorevole sortì l'effetto voluto: Lisa cominciò a mormorare qualcosa fra i singhiozzi. «Non so nulla. L'ho visto soltanto entrare e uscire poco dopo, e quando l'ho vista morta, mi sono chiesta...» «Sì, sì, lo sappiamo.» L'ispettore parlava con impazienza. «Ma chi?» «Il signor... il signor Potter: suo marito. Sono sei anni che il giovedì prende la corsa delle cinque e mezzo per Chelmsford, arriva un po' prima delle sei e mezzo a Liverpool Street, e rientra in casa alle sette, e così quando oggi l'ho visto rincasare alle cinque, e uscire di nuovo un minuto o due dopo, ho pensato che stesse per accadere qualcosa.» L'ispettore, che nel frattempo si era messo a prendere appunti su un sudicio libretto, fece un cenno col capo all'agente. «Telefonate all'Ufficio Informazioni per avere il numero della scuola di Chelmsford e chiedete se il signor Potter è venuto via prima del solito og-
gi. Naturalmente, senza dire chi siete.» In attesa della risposta della scuola, Lisa venne messa alle strette circa l'orario. Al primo momento sembrò che mettesse il broncio e non avesse la minima voglia di essere d'aiuto, ma Oates dimostrò di avere una pazienza da santo e ben presto riuscì a convincerla a rispondere. «Erano le cinque meno un quarto all'orologio di cucina quando ho visto la signorina Cunninghame» disse la vecchia lentamente. «Quell'orologio era avanti di un quarto d'ora, dunque erano le quattro e mezzo. Poi ho sentito il cancello riaprirsi e mi sono affacciata per vedere se era il pescivendolo, ma invece era il signor Potter. Erano le cinque, perché ho guardato l'orologio. Vedete, per un momento mi sono spaventata, ho pensato di aver fatto confusione e che fossero già le sette.» «Ma allora, se l'orologio andava avanti, e segnava le cinque, in realtà mancava un quarto, no?» fece Oates, prendendo ancora appunti. «No. Erano le cinque davvero, perché quando è uscita la signorina Cunninghame ho capito che dovevano essere le quattro e mezzo e ho messo a posto l'orologio. Solo dopo ho dubitato di essermi imbrogliata sull'ora.» «Già» replicò l'ispettore seccamente, correggendo gli appunti. «Quanto tempo si è trattenuto il signor Potter nello studio?» «Non so. Non ho più guardato l'orologio, ma sarà rimasto dieci minuti.» «Dieci minuti. E com'è uscito? Aveva fretta?» Lisa ricominciò a piangere. Finalmente annuì. «Sì» fece. «L'ho notato. Camminava furtivamente come se non volesse farsi vedere. Ecco perché ho lavato la tazza.» L'agente tornava dal telefono. Era eccitatissimo. «Il signor Potter non è andato affatto a Blakenham» riferì. «Alla scuola hanno ricevuto un telegramma stamane alle dieci, che avvertiva che il professore era ammalato.» L'ispettore fece una smorfia. «Ecco» disse lentamente. «Ecco.» Tacque, e fu durante questo silenzio che Potter aprì il cancello del giardino. Sforzandosi di camminare con naturalezza e disinvoltura, attraversò il sentiero ed entrò nello studio. Fermatosi sulla soglia, sbatté le palpebre alla vista di tanta gente in casa sua, come se non distinguesse le varie persone e non capisse il significato della loro presenza. Aveva più o meno lo stesso aspetto di quando Campion l'aveva visto per la prima volta. Il viso magro e colorito, dall'enorme naso e dagli occhi lacrimosi, appariva malinconico anche nella sorpresa. Potter era straordina-
riamente in disordine. I capelli scomposti uscivano a ciocche di sotto al cappello, i fogli che teneva sotto al braccio sembravano sul punto di sparpagliarsi per terra e si trascinava pericolosamente dietro una stringa slacciata. Tuttavia, Albert notò, con preoccupazione crescente, che c'era una nuova nota nell'espressione di avvilimento e di disperazione che accompagnava sempre l'incisore: la nota sottile della paura. Ed essa divenne sempre più palese mentre il nuovo venuto guardava a turno i volti che lo circondavano. Lisa in lacrime che lo fissava come un cane che implora il perdono, il dottore sobrio e pacato, l'agente eccitato, Campion e l'ispettore dall'aria interrogativa. Tutti aspettavano la prima mossa da parte sua, e quando questa si verificò fu così naturale, ma nel medesimo tempo così orribile date le circostanze, che ne rimasero raggelati. Potter, osservato ogni visitatore, si era voltato verso la cucina. «Claire» chiamò. «Claire, c'è gente.» Si rivolse quindi agli astanti allibiti. «Mi rincresce che non abbiate trovato nessuno» disse, ricadendo nel suo solito modo di parlare svagato e sommesso. «Molto seccante per voi, seccante per tutti. Volete parlare con mia moglie, vero? Sarà qui a momenti...» L'agente si mosse, e spostandosi, lasciò scoperta la figura distesa sul divano sotto a un lenzuolo. Potter la fissò. Tutto il sangue del suo volto parve affluire al naso enorme, rendendolo grottesco e assurdo. Gli occhietti, così vicini al setto nasale, si fecero tondi e stralunati come quelli di un bambino spaventato. Si avviava già verso il cadavere, quando Campion lo afferrò per un braccio. «No» disse. «No, non ancora. Aspettate.» L'artista si voltò verso il giovanotto mentre l'incredulità gli aumentava tanto negli occhi da ridurli del tutto inespressivi. «È mia moglie?» Le parole erano appena mormorate. «È mia moglie?» Non aveva ripetuto la domanda ma sembrava che dai muri di quella stanzetta patetica giungesse l'eco. Campion si sentì soffocare come da un incubo. Annuì. Potter guardò gli altri. Il pianto di Lisa era l'unico suono nello studio. «Claire» disse l'artista con una voce in cui c'era sorpresa, incredulità e
disperazione. «Claire?» Liberatosi dell'investigatore si avvicinò al divano. Con immenso sollievo degli astanti non tentò nemmeno di sollevare il lenzuolo, ma, chinandosi, toccò il braccio gelido attraverso la stoffa. «Morta!» esclamò a un tratto, facendo un passo indietro. «Claire è morta!» Dopo aver fatto un giro per la stanza, il disgraziato si fermò voltando le spalle a tutti. Si vedeva la sua alta figura ergersi in una strana posizione nella luce dorata. «Morta!» ripeté con un tono di voce che non era mai stato tanto tranquillo. Poi i fogli e il misero cappello scivolarono a terra, e il dottore con un balzo afferrò Potter nell'attimo in cui stava per cadere privo di sensi. «È lo shock» disse Fettes, dando una tiratina al colletto floscio della camicia di Potter. «È lo shock.» 14 Qualcosa si piega «Non ricordo di aver mai provato un'emozione simile.» La signorina Cunninghame, rossa per l'eccitazione e per un inspiegabile senso di risentimento verso la tragedia che l'aveva sfiorata tanto da vicino, fece questa dichiarazione come se si trattasse di una confidenza importante. «Non ricordo davvero!» L'ispettore Oates era seduto nella capace poltrona in stile Chippendale col capo piegato da una parte, come un cane davanti alla tana di un coniglio. Campion era alle sue spalle. L'ispettore non avrebbe saputo spiegare il motivo per cui aveva invitato il pallido giovanotto ad accompagnarlo in quella specie di spedizione che sfidava il regolamento e l'etichetta, ma il fatto rimaneva, e così il signor Campion. Il salotto della villetta di periferia in cui si trovavano rifletteva l'elevata classe sociale cui la signorina Cunninghame apparteneva, nonché i suoi mezzi finanziari, discretamente solidi. Le pareti bianche, gli ottoni lucenti, il mobilio di pregio, le stoffe Morris di cinz erano di buon gusto e molto banali. Solo gli orribili acquarelli appesi qua e là nelle sottili cornici dorate davano un tocco all'ambiente. La zitella continuava a parlare. «Certo» aggiunse con un atteggiamento di autodifesa negli occhi «la si-
gnora Potter non era un'amica per me. Non c'è mai stata una vera intimità fra noi, non si parlava mai. Prendevo qualche lezione da lei, saltuariamente, perché sembrava una persona molto capace, e poi c'era tutto quell'ambiente ad attirarmi. John Lafcadio vive ancora in quella piccola colonia... o ci viveva» aggiunse dubbiosa, come se anche un fantasma importante come il suo difficilmente potesse sopravvivere a quell'ultimo terremoto. L'ispettore rimase in silenzio, ma attento, e la signorina Cunninghame si vide costretta a dire qualcosa ancora. «Quindi, capite» concluse con chiaro impaccio «non la conoscevo quasi. Povera creatura.» «Non si confidava con voi?» Oates sembrava deluso. «Oh no...» Parve per un attimo che la Cunninghame si dovesse mantenere sempre così discreta, ma l'aria di aspettativa dell'ispettore fu finalmente ricompensata. «Mi era parsa molto strana, oggi» soggiunse la signorina all'improvviso. Ma non c'è da meravigliarsene se doveva trovare la morte quasi subito, dopo. «Strana?» ripeté l'ispettore. Vedendosi compromessa, la zitella non si tirò indietro. «Stranissima» dichiarò. «Anzi, l'ho detto anche a lei che mi sembrava indisposta e quasi si è arrabbiata. Sembrava imbambolata.» «Dicendo imbambolata, intendete dire che la Potter vi parve in preda a una droga... a qualche stupefacente?» Gli occhi della signorina Cunninghame si spalancarono. «Stupefacente?» esclamò. «Ma come! Voi credete? Oh, se avessi supposto...» «Ma no.» L'ispettore si mostrò pazientissimo. «No. Cerco soltanto di scoprire una causa possibile per la morte della signora Potter. I dottori non l'hanno ancora capito, e siccome ci risulta che siate stata voi l'ultima persona a vedere la vittima ancora viva, è naturale che ci interessi sapere l'impressione che vi ha fatto.» «L'ultima persona! Davvero? Oh!» La momentanea sensazione d'importanza provata dalla zitella, fu di colpo cancellata da un pensiero nuovo. «Un'inchiesta! Non sarò chiamata a deporre, spero... Oh, ispettore, questo no! Non potrei... Non la conoscevo...» «Non siamo ancora sicuri di niente» mentì Oates. «Perché non mi dite tutto quello che sapete?» «Sì, sì, certo. Tutto.» Campion trovava un po' nauseante il patetico terrore della poveretta. «Ebbene, era strana. Come svagata. Non sembrava la
stessa. Ho cercato di farla parlare del... dell'altro dramma... del delitto. Mi faceva pena e credevo di confortarla.» La Cunninghame lanciò un'occhiata all'ispettore, ma i poteri onniveggenti che la signorina attribuiva alla polizia non vennero alla luce. Quindi si vide costretta a continuare. Disse in fretta: «Fu allora che mi parve imbambolata. Sentiva quello che le dicevo, poche domande fondamentali, affettuose, ma non rispondeva affatto. L'ho lasciata alle quattro e mezzo. Non mi ha nemmeno accompagnata. Sono uscita sola, ma non le deve essere successo nulla in quel momento, perché ho sentito squillare il telefono.» L'ispettore, che era tornato di cattivo umore e disperava ormai di poter cavare qualcosa di definitivo da quella teste, si riprese di colpo. «Avete sentito squillare il telefono alle quattro e mezzo?» domandò tirando fuori il libretto degli appunti. Alla vista di questo emblema della legge, la signorina Cunninghame entrò visibilmente in agitazione, ma ripeté quanto aveva dichiarato con la lentezza di una maestra che fa la dettatura. «Ho sentito squillare il telefono alle quattro e mezzo, mentre uscivo... Ho avuto l'impressione che la signora Potter fosse andata a rispondere» continuò rapidamente «ma non ne sono sicura. Non mi sono fermata ad ascoltare, naturalmente.» «Naturalmente» annuì l'ispettore. «Però mi sarei fermata» disse la signorina Cunninghame rivelando un certo coraggio morale «se avessi saputo quello che stava per succedere.» Oates, alquanto sconcertato da tale annuncio, tacque per un attimo, con evidente imbarazzo. «Ma, ecco, non lo sapevo, vero? Come potevo saperlo?» riprese vivace la signorina Cunninghame. «Ho semplicemente notato che era preoccupata. E adesso, ispettore, non sarà necessaria una mia deposizione, vero? Credetemi, sono sconvolta. In fondo, se non eravamo proprio amiche, ormai erano parecchi anni che andavo da lei e questo pomeriggio le ho parlato solo di pittura e dei miei lavori. La morte» aggiunse con l'aria soddisfatta di chi sa di essere nel giusto «è una cosa orribile.» «Sì» disse l'ispettore. «Sì, è vero.» Campion e l'amico, terminato l'interrogatorio, si avviarono a piedi per le strade tetre fiancheggiate da solide e antiche dimore trasformate in appartamenti d'affitto che occupano tutta la zona piuttosto deprimente che va da Maida Vale a Bayswater. Oates pareva desideroso di discorrere, e Albert
non domandava di meglio che di stare a sentire. «Buffo tipo, quella vecchia zitella» fece l'ispettore. «Ne incontro di simili solo nei casi d'assassinio. Sembra che riescano a restar fuori da ogni altro avvenimento. Il mondo è pieno di gente senza cuore.» «Ci ha detto due cose» replicò l'altro. Oates annuì. «Primo, la signora Potter era tanto agitata da non mostrare interesse ai discorsi della sua allieva, e secondo, è stata chiamata al telefono alle quattro e mezzo. La prima notizia può anche non voler dir nulla. Quanto all'altra, potremo forse approfondirla, e sarebbe un passo avanti. Strano, eh?» «Che cosa?» «Tutto. Due delitti così, l'uno dopo l'altro. Quando mi hai chiamato, oggi credevo di risolvere tutto in un'ora. Mania omicida della ragazza. I discendenti dei geni spesso sono un po' matti. Ma ora, capisci, non mi sento più così sicuro.» Campion si astenne da qualsiasi commento, e il suo compagno continuò a parlare, col volto serio e assorto. «Quella donna ti ha dato l'impressione di esagerare i fatti, o il contrario? Insomma, fino a che punto credi che fosse davvero agitata la signora Potter?» «Suicidio?» disse Albert dubbioso. «Chissà. Non ci sono prove né pro né contro, naturalmente. Non sappiamo nemmeno che cosa abbia provocato la sua morte. Odio fare ipotesi. Non servono a nulla. A ogni modo è meglio avere la mente sgombra da qualsiasi pregiudizio.» «Ah!» fece Campion, con gli occhi vaghi, mentre l'idea che gli lavorava in testa dal momento del delitto gli si presentava in tutta la sua assurdità. «Certo» borbottò l'ispettore «c'è anche quel Potter. La signora Lafcadio ha avuto veramente una buona idea di infilarlo a letto. Domattina sarà in grado di parlare. Non dovremmo nemmeno fare delle supposizioni finché non l'abbiamo interrogato.» «Comunque, non è possibile che Lisa e la scuola abbiano mentito tutte due» disse Albert, «No» ammise Oates. «No, è vero. Non me ne dimentico. Era lui che nascondeva qualcosa.» L'ispettore s'interruppe, osservando l'amico. «Se la prima frase che lui ha detto entrando in casa mirava a portarci fuori strada, do le dimissioni.» Tra parentesi, questa promessa non era stata mantenuta, perché Potter aveva finto davvero e con abilità incredibile.
Oates continuò: «Quella Lisa! È una pessima teste, ma onesta, direi. Probabilmente ha ragione quando parla di veleno. Se l'autopsia non rivela nulla, però, ricorreremo al laboratorio di analisi. Sono in gambissima, Campion. Nell'aula del tribunale saltano subito a giurare la presenza dell'una e dell'altra sostanza fino al milionesimo di grammo. E spesso ci azzeccano.» Campion alzò le spalle disgustato. «Veleno» fece. «Brutto metodo, comunque.» «Uhm» replicò l'altro, guardandolo. «Un colpo di coltello e, forse, un veleno. E ci sono, da queste parti, persone italiane. C'è da tenerlo presente.» «Lisa?» L'espressione di Campion rivelava l'incredulità più completa. «No, no. Non dico niente. Non rifletto nemmeno. È il cervello che mi ha preso la mano. Però, a volte, mi torna utile. C'è la moglie di Dacre... una strana ragazza. Sai chi è?» «Chi? Rosa-Rosa?» «Sì. Una Rosini, mio caro. È nipote o qualcosa di simile del famoso Guido. Abita sopra il negozio di lui, adesso, in Saffron Hill. Cosa sai di lei?» «Non capisco come il fatto di essere parente di un losco individuo legato al mondo delle corse possa collegare una persona con la morte di una rispettabile signora a Bayswater.» «Nemmeno io lo capisco» fece l'ispettore, sbuffando, ma vai la pena di tener presente la cosa. «Avanti, parla» lo esortò Oates. «È assurdo» fece Campion, scotendo la testa «eppure...» «Su, coraggio. Tanto siamo in piena pazzia. Siamo qui, o meglio io sono qui, per far luce sui fatti, non per sognare a occhi aperti, eppure da mezz'ora non facciamo che teorizzare come due dilettanti. Tanto vale andare fino in fondo. Che cosa ne dici?» Campion rifletté su Max Fustian e sui sospetti che gli erano nati nei suoi confronti. «No» disse finalmente «è troppo vago. È solo un'ombra di un'idea che mi è venuta in mente a proposito dell'uccisione di Dacre, ma questa nuova faccenda non rientra nel quadro che mi ero fatto.» «Il movente» esclamò Oates con veemenza. «Ecco l'unico anello che può collegare i due delitti... Trova il movente, e troverai l'uomo... o la donna.»
«Prima un delitto e poi un suicidio, allora?» Oates alzò le spalle. «Forse. Ma non credo. E poi, che movente poteva esserci per il primo delitto da parte della Potter? Ti dirò una cosa, però» continuò l'ispettore, rasserenandosi a un tratto. «Se questa volta si tratta di avvelenamento, acciufferemo il colpevole. L'uccisione di Dacre è stata spontanea... impulsiva. Chiunque avrebbe potuto essere l'assassino. Ma questa storia è diversa. Se è un delitto, è premeditato e calcolato. È improbabile che ci siano due assassini sguinzagliati contro la medesima famiglia, quindi dovrebbe trattarsi del medesimo delinquente e non credo riuscirà a farla franca una seconda volta.» E questo fu il secondo errore di Oates. Campion tacque, e l'amico camminò più in fretta. Raggiunto il canale, i due entrarono nella Crescent. Le facciate in finta pietra massiccia della Piccola Venezia apparivano malinconiche e misere sotto i lampioni. Le imposte erano chiuse, contrariamente al solito, come la porta. La casa era triste, piena di dolore. Un'automobile vistosa e luccicante, ferma davanti all'uscita, accentuava la meschinità della casa. «Di chi è?» domandò il poliziotto. «Di Max Fustian.» La voce di Albert esprimeva una grande sorpresa. Oates fece una risatina. «Sarà venuto a fare un'altra confessione!» fece. «Chissà... chissà» rispose Campion. 15 Come sono andate le cose Albert si sentì sicuro che era stato Max Fustian a uccidere la signora Potter appena lo vide. Il giovanotto non giunse a questa conclusione con un procedimento di deduzioni logiche e tranquille né per una di quelle splendide intuizioni sfolgoranti che balenano all'improvviso, bensì mediante quel processo del pensiero disordinato e poco rigoroso, a metà fra le due, che, però, è il più utile in genere, per venire a capo di qualcosa. Vedendo il mercante d'arte in piedi davanti al caminetto di Belle, col volto così pallido da sembrare bluastro, gli occhi esultanti, e il respiro un po' affannoso, Campion lo guardò pensando: "Ebbene, è stato lui". E poi: "Solo il cielo sa perché... o come l'abbia uccisa".
Oltre a Fustian, nella stanza c'era solo donna Beatrice. L'ispettore si era fermato a discutere col medico al piano di sotto, e Belle era occupata a consolare Lisa tormentata dai rimorsi. Sprofondata nella poltrona, l'Ispiratrice sedeva con le spalle ingobbite e gli occhi freddi, privi di espressione. Stava spiegando in toni drammatici l'accaduto, ma senza metterci il dovuto impegno. «Claire!» ripeteva fra sé. «Claire!» E ogni tanto: «Una donna così pratica! È incredibile.» Max, incontrato lo sguardo di Campion, lo salutò con un cenno della testa. «Che fortuna per Belle che siate potuto venire in suo aiuto così presto, caro Campion.» L'affermazione di quella voce soave e melliflua parve un poco più forzata del solito all'orecchio attento del giovanotto. «Quanto sono capitato qui, circa un'ora fa, la signora Lafcadio mi ha parlato della vostra bontà» continuò Fustian sempre con la nuova aria di superiorità insopportabile. «Mi stavo rallegrando con me stesso per aver ubbidito all'impulso di venire qui che ho avvertito mentre mi trovavo da Seyer. Non si possono ignorare certi presentimenti.» Per la prima volta Albert notò l'abito che Max indossava. Era un tight tagliato alla perfezione. «Eravate da Seyer?» gli domandò. «C'era una mostra privata dei pastelli della duchessa di Swayne» rispose Max. «Delicati. Vero sentimento. Li vendono a tutto spiano.» Campion sedette guardando il suo interlocutore. Per la prima volta in vita sua non si sentiva all'altezza della situazione e temeva di tradirsi. Max non era soltanto tranquillo: era felice. Un'aria di trionfo traspirava sotto la tristezza d'occasione. "Se l'è cavata. Sa di essere al sicuro." Questo pensiero, sorto come una nube fastidiosa, si mutò via via in certezza nella mente del giovanotto. Max parlava ancora del dramma: «Terribile» disse. «Tenibile. La donna più utile ch'io conoscessi.» Sospirò con sincero rimpianto. Albert alzò gli occhi, e incontrò il suo sguardo impertinente. Inutile illudersi. Max teneva in pugno la situazione. «Utile!» esclamò donna Beatrice drizzandosi sulla persona. «Ecco la parola che cercavo! Claire era utile.» «Povero Potter» fece Campion con voce incerta. «Dev'essere stato un
gran brutto colpo per lui.» S'interruppe goffamente. Max lo guardava sorridendo, col capo piegato da una parte e la bocca dai contorni pesanti atteggiata in una smorfia di inequivocabile, tollerante divertimento. L'indignazione, in cui si fondono senso di shock, collera, biasimo e impotenza, è forse la più demoralizzante, la meno controllabile delle emozioni. Campion, riacquistando con una certa fatica il controllo di sé, tentò con tutte le sue forze di osservare in modo imparziale l'uomo che aveva davanti, ma il pensiero che si rifiutava ostinatamente di andarsene dal suo cervello era che Max appariva molto sicuro di sé e doveva considerarsi assolutamente insospettabile. Donna Beatrice imitò il sorriso di Fustian, e l'effetto che ne risultò fu piuttosto macabro. Un suono di voci sulla scala pose fine all'incubo, e Campion si alzò in piedi vedendo entrare Belle con l'ispettore. Era una vecchietta traballante quella che occhieggiava da sotto a una cuffia bianca. La Belle che Lafcadio aveva amato e protetto, la Belle che era stata il suo appoggio, adesso pareva messa in ginocchio dagli orrori, troppi, che le si erano rovesciati addosso. Guardandola, Albert si sentì il cuore gonfiarsi di un odio spietato e genuino che lo invase tutto, ridandogli quella sicurezza e quella fiducia in se stesso che lo avevano temporaneamente abbandonato. Belle si appoggiava al poliziotto, il quale appariva più umano di quanto Campion ricordasse di averlo mai visto. «Sedetevi, signora» fece Oates. «Non preoccupatevi. Lasciate fare a noi. Siamo qui apposta.» Poi vide con sollievo che c'era anche Campion. «Devo andare all'obit... devo uscire col dottore» aggiunse. «Mi aspetta. Affido a te la signora Lafcadio.» Con un cenno del capo a Max e senza salutare donna Beatrice, l'ispettore uscì. Belle si lasciò accompagnare a una poltrona vicino al fuoco. Fustian non si mosse dal caminetto e Albert si accorse con spavento che a stento riusciva a trattenersi dal prendere a calci l'elegantissimo personaggio per toglierlo di mezzo. Al momento, comunque, era Belle che richiedeva tutta la sua attenzione. «Albert» mormorò, facendogli segno di avvicinarsi.«Ascoltate.» Lui si lasciò cadere seduto vicino alla sua poltrona, e la signora Lafcadio gli appoggiò una mano paffuta sulla spalla. «Sono preoccupata per Linda.
Se torna a casa e trova... questo, dopo l'altra emozione... capite cosa intendo dire? Cercate di trattenerla a Parigi, oppure preparatela prima che arrivi qui.» Campion posò una mano su quella della vecchia signora. «Va bene» disse. «Lasciate fare a noi. Avete sentito quello che ha detto Oates. Lasciate fare a noi.» Gli occhi castani di Belle si velarono mentre le lacrime le rigavano le guance. «Oh, caro, magari. Magari potessi!» «Ebbene, perché no, Belle?» Più seriamente di così, Campion non avrebbe potuto parlare. L'espressione vana era sparita dal suo viso e adesso rivelava capacità e decisione. «Albert» mormorò la vecchia. «Oh, mio caro, per amor del cielo, scoprite la verità e mettete fine a questo orrore.» Lo sguardo del giovanotto s'incontrò con quello lacrimoso della signora Lafcadio. «Lo farò» rispose piano. «Lo farò. Ve lo prometto, Belle.» Max parve non udire la conversazione, o, se l'udì, non mostrò il minimo interesse. Allontanatosi dal caminetto, si era diretto verso un armadio d'angolo in cui era conservata l'ormai inutile bacchetta d'avorio che era appartenuta a Wagner. La mattina dopo, quando giunse Stanislaus, Campion si trovava ancora in casa Lafcadio, avendo passato la notte nell'appartamentino di Linda. Oates sedette sul davanzale, raccogliendosi intorno le falde dell'impermeabile. E si mostrò vivace ed energico. «L'inchiesta è fissata per mezzogiorno» fece. «Non ci saranno che deposizioni formali, e poi un rinvio. È inutile che ci presentiamo. Aspetto che il dottore veda Potter prima di interrogarlo. Vuoi venire con me?» Campion accettò e s'informò sul conto di Belle. «Spero che sia a letto» rispose l'ispettore. «Ho raccomandato al dottore che la facesse coricare e che andasse poi in tribunale a giurare che né lei né Potter sono in condizioni di poter rilasciare la loro deposizione. È inutile imporre di nuovo una seccatura simile a quella povera vecchia. Come stai tu, a proposito?» La notte non aveva portato consiglio a Campion. Il giovane era ancora indeciso sul da farsi, non ricordava di essersi mai trovato in una situazione simile. Il contrasto fra la certezza delle sue supposizioni e la mancanza totale di prove concrete era, fortunatamente, nuovo per lui. Di una sola cosa
era sicuro. Il momento di confidarsi con l'ispettore non era ancora venuto. «Sto benone» disse. «Un po' perplesso, ecco tutto.» «Lo credo!» esclamò Oates secco. «Alla Centrale c'è l'inferno. Gli ordini sono di chiarire tutto e di finirla presto. L'immaginazione è una gran bella cosa. Venisse quel maledetto dottore, almeno!» Finalmente il dottor Fettes telefonò per avvertire che l'autopsia aveva richiesto tutta la notte e, se doveva presentarsi all'inchiesta, non poteva passare prima dalla Piccola Venezia. Tuttavia arrivò il dottor Derrick, suo sostituto, un giovanotto con i capelli biondo-rossicci e gli occhi azzurri carichi di sospetto. Potter fu dichiarato in grado si sostenere un interrogatorio, e i due amici entrarono nella camera degli ospiti di casa Lafcadio che, ai tempi della celebrità del pittore, aveva ospitato tanti personaggi famosi. Campion era già preparato a uno spettacolo penoso, ma la vista di Potter seduto nel grande letto a baldacchino, sostenuto da un monte di cuscini candidi, era talmente inaspettata da essere imbarazzante. Il caratteristico colorito acceso del disgraziato era scomparso, lasciandogli sul volto un labirinto di venuzze rosse. Gli occhi si erano infossati e parevano ancora più chiari di prima, come se volessero sparire del tutto, e la bocca era rilassata in una smorfia dolorosa. Sembrava invecchiato e spaurito. L'ispettore lo fissò serio. Per qualche secondo parve che Potter non si fosse nemmeno accorto della presenza dei nuovi venuti. Ma a un tratto alzò gli occhi. «Il sospetto che sia stato io a uccidere mia moglie è assurdo» disse. Parlava senza calore, e apparentemente senza molto sentimento. Oates si schiarì la voce. «Chi vi ha messo in testa un'idea simile?» cominciò con cautela. Per un momento gli occhi slavati dell'infermo indugiarono sul volto del poliziotto. «Ho sentito i discorsi di Lisa» tagliò corto. «È inutile ormai menare il can per l'aia. Le convenzioni, l'educazione, le affettazioni non servono più. Troppe affettazioni vi sono state nella mia vita. Troppe ve ne sono nella vita di ognuno. È tutto inutile...» L'ispettore lanciò uno sguardo all'amico. «È un gran peccato che la signorina Capella si sia messa di mezzo» disse serio. «Avrà delle grosse seccature per questo.» Se aveva sperato di scuotere Potter con quella minaccia, il poliziotto dovette rimanere deluso. L'interrogato, di solito il più cortese degli uomini, si
limitò ad alzare le spalle. «Non so che cosa farci» fece. «Vorrei restar solo.» «Suvvia, signor Potter» insistette Oates in tono conciliante. «Mi rendo conto che per voi è penoso parlare, ma la faccenda è urgente. Cercando di esservi d'aiuto, ieri, la signorina Capella ha fatto nascere un dubbio che dobbiamo chiarire... Mi ascoltate?» Il poliziotto ripeté la frase, e il disgraziato si mosse, facendo uno sforzo evidente per concentrarsi. «Sono solo, ormai» disse all'improvviso. «Sono libero. Posso andare dove voglio, fare quello che voglio. Magari fossi morto.» Seguì un silenzio assoluto. Campion si sentiva mancare il fiato, e Oates teneva gli occhi socchiusi. La situazione era penosa. Stanislaus pareva riflettere. Finalmente scosse la testa. «Devo sapere» fece. «Ditemi perché ieri avete mandato ad avvertire il preside dalla scuola che eravate a letto malato.» Potter guardò l'ispettore per un buon minuto prima di rispondere. «C'erano tante cose importanti da fare» rispose finalmente a fatica. «Ma nessuna di quelle cose è importante adesso. L'ho fatto per una ragione futilissima... una stampa di cui ero contento.» Potter sembrava stupefatto di questo suo ricordo. «Volevo mostrarla a qualcuno. Ero pazzo.» «A chi siete andato a mostrarla?» suggerì Oates. «A Bill Fenner, nel suo studio in Putney. Abbiamo passato l'intera giornata a discutere, a guardare quel foglio. Ho marinato la scuola, come un bambino. Come se tutto questo avesse importanza!» «Quando siete tornato?» domandò il poliziotto, prendendo nota mentalmente del nome e dell'indirizzo di Fenner. «Quando ci avete trovati tutti in casa vostra?» «Sì... credo di sì.» Lo sforzo di ricordare era evidentemente arduo, per l'infermo, e la fronte gli si aggrottò per un momento. Poi a un tratto, spalancando gli occhi, Potter guardò l'ispettore. «Ma no» riprese. «No, certo. È stato ieri. Sono tornato prima, ecco com'è andata. Ora capisco.» «Siete tornato prima?» «Sì. Alle cinque circa. È importante questo?» «Cercate di ricordare con esattezza» fece Stanislaus. «Lo so che è piuttosto difficile per voi» aggiunse, sedendosi sull'orlo del letto. «No» rispose l'altro, inaspettatamente. «No, ogni cosa è chiarissima anche se mi sembra che tutto sia accaduto molto tempo fa.» Rimase immobile, contraendo penosamente i muscoli del viso. «L'ho vista, ma non ho ca-
pito. Povera Claire mia, non ho capito.» «L'avete vista?» La voce tranquilla di Oates obbligava il disgraziato a seguire il filo del suo racconto. «Doveva essere già morta» riprese il signor Potter. «Quando sono entrato in casa alle cinque l'ho vista distesa, con il bicchiere per terra, e non ho capito... Anche allora...» Gli occhi del poliziotto si spalancarono di colpo. «Il bicchiere per terra? Non abbiamo trovato nessun bicchiere.» «L'ho lavato e l'ho messo nella credenza» ribatté Potter con semplicità. «Perché?» domandò Oates con aria stupefatta. «Un'altra falsità» rispose Potter. «Finzioni dovute a una certa educazione.» «Perché avete lavato il bicchiere?» insistette l'ispettore. «Era giovedì» rispose Potter. «Alle sette meno un quarto il giovedì sera viene... veniva... sempre la signora Lafcadio a invitarci a cena. Sapevo che era inutile cercare di scuotere la povera Claire, ma mi parve che se la signora non avesse veduto il bicchiere non sarebbe stato così chiaro il... lo stato in cui si trovava mia moglie. Così l'ho ripulito e l'ho rimesso nella credenza. Poi, sembrandomi che non ci fosse altro da fare, sono uscito nella speranza che nessuno mi avesse visto. Ora capisco quanto sono stato idiota. Ma quello che ho fatto non ha più importanza.» L'ispettore, che aveva estratto il taccuino, sedeva con la matita sospesa e una strana espressione negli occhi. Campion intuì i pensieri dell'amico, mentre gli tornava alla memoria la scena avvenuta nella stanza da pranzo di casa Lafcadio tre settimane prima. Rivide l'ambiente luminoso, le gambe rigide nelle calze e scarpe marrone che spuntavano dall'inquadratura della porta, e gli sforzi di un nervosissimo Potter per trattenere lui e Oates fuori dall'uscio. Il mistero della visita dell'incisore allo studio gli fu subito chiara. Il poliziotto si fece forza. I fatti erano sempre fatti e quando diventavano questioni importanti andavano trattati come elementi ufficiali delle indagini. «Quando avete visto vostra moglie, che aspetto aveva? Dove si trovava?» «Era distesa bocconi sul sofà, mezzo seduta, con il corpo contorto in modo che il volto rimaneva nascosto.» «Non vi siete meravigliato di trovarla così?» L'infermo si scosse con uno sforzo.
«Non avrei osato rispondere ieri» fece «perché ieri la cosa mi sembrava seria, ma ora è una tale inezia! Mia moglie spesso beveva alcol in un fiato e rimaneva priva di sensi per qualche tempo. Credo che l'effetto fosse rapidissimo. Una specie di droga, suppongo. Se qualcosa la agitava troppo... voglio dire, se sentiva a un tratto di non poter sopportare qualcosa... se la cavava così. Ricordo che la cosa mi preoccupava, mi spaventava e... Iddio mi perdoni... mi scandalizzava. Sembra ridicolo, adesso. Perché non avrebbe dovuto farlo?» «E così, quando avete visto vostra moglie distesa sul sofà avete creduto... avete creduto che fosse accaduta la solita cosa e non vi siete allarmato, vero?» Oates parlava con dolcezza incredibile e Campion si rese conto che doveva avere, come lui, la sensazione che Potter vivesse in un mondo nuovo e squallido nel quale i punti di riferimento familiari dovevano essere pochissimi. «Sì» rispose il disgraziato. «Ho pensato che fosse ubriaca.» «E così avete lavato il bicchiere perché la signora Lafcadio, venendo, non lo esaminasse, indovinando il vero stato della signora Claire?» L'incisore si mise a ridere. Era uno strano suono, senza nulla di melodrammatico, ma con un fondo di vera derisione. «Già. Idiozia.» «Perché avete lavato il bicchiere?» «Io...» Potter guardò il suo persecutore, e a un tratto gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Avevamo fatto un patto per le pulizie. Ognuno di noi lavava o metteva in ordine quello che gli capitava di trovare in giro. Ho sciacquato il bicchiere e istintivamente l'ho messo poi a scolare. Non potevo riporlo sporco nella credenza.» «Capisco» si affrettò a rispondere Oates, mostrandosi occupatissimo col taccuino. «Ebbene» fece finalmente «Dov'era la bottiglia?» «Non lo so.» «Via, signor Potter, ditemi almeno dove la teneva di solito.» «Non lo so.» La vittima aveva l'aria sconcertante di uno che sta dicendo una verità assoluta, ma che non lo interessa affatto. «Non l'ho mai scoperto. La cosa mi preoccupava, anzi. Santo cielo, quante cose mi preoccupavano! Ero pazzo. Quando Claire era fuori frugavo dappertutto. La casa era tanto ordinata... avrebbe dovuto essere facile. Ma non ho mai trovato nulla. Eppure tutte le volte che voleva, si faceva trovare in quello stato. Andava avanti da anni.» «Anni?» I due amici sentirono di penetrare in un segreto doloroso. La
visione tragica di quell'uomo distratto e impacciato, che umilmente e nervosamente proteggeva la moglie tanto più energica di lui, sembrava qualcosa d'indecente e triste, e che non andava messo spudoratamente a nudo. «Non così spesso da principio, ma sempre di più in questi ultimi tempi.» «Beveva soltanto quando era agitata?» «Oh, sì. Era forte. Non si è mai lasciata sopraffare. Solo quando le cose andavano troppo male.» «Capisco.» L'ispettore si alzò in piedi. «Grazie per l'informazione, signor Potter. È importantissima. Cercherò di non disturbarvi più, se posso. A proposito, vostra moglie non ha mai consultato un dottore per questo... per questa sua abitudine?» «Un dottore? No, non credo.» L'incisore sembrava blandamente sorpreso. «Lei e io eravamo i soli a saperlo, credo, per quanto altri possano averlo indovinato, e Claire non dava molta importanza alla cosa. Ero io che mi preoccupavo.» «Che cos'era?» domandò Oates. «Whisky?» «Non so. Non ho mai visto la bottiglia.» «Strano» commentò il poliziotto. «Dove lo comprava?» «Non credo che lo comprasse.» Potter fece questa straordinaria dichiarazione con la medesima disinvoltura con cui si era espresso per tutto il colloquio. L'ispettore si fermò in mezzo alla stanza. «E allora da dove provenivano gli alcolici?» «Ve l'ho detto, non lo so» ripeté Potter con paziente disinteresse. «Negli ultimi tempi, ogni volta che mia moglie era agitata la trovavo priva di sensi, di solito con un bicchiere vicino, ma benché cercassi dappertutto, non ho mai scovato bottiglie né altro. Una volta l'ho scoperta qui nella sala da pranzo di casa Lafcadio... c'eravate anche voi, ricordo... ma una volta sola. Altrimenti succedeva sempre nel nostro studio. Non credo che Claire comprasse alcolici, perché sono cari e i nostri mezzi erano così limitati che le sarebbe riuscito impossibile spendere senza che me ne accorgessi. Eravamo nella più nera miseria. Anche questo sembrava importante. Oh, come sono stanco!» Appoggiandosi ai cuscini, il poveretto chiuse gli occhi. Campion uscì con l'ispettore, asciugandosi la fronte. L'ispettore sospirò. «Sono cose come queste che mi fanno credere nella pena capitale» osservò in tono brusco. «Beccheremo questo individuo, Campion, e gli metteremo la corda al collo.»
16 Ciò che accadde la domenica «Nicotina» fece l'ispettore mostrando all'amico una copia del rapporto dell'analista. «Uno dei veleni più fastidiosi del mondo, preparato apposta dalla Provvidenza per intralciare la polizia nell'esercizio delle sue funzioni.» Campion e Stanislaus si trovavano nella biblioteca della Piccola Venezia. Era domenica mattina, due giorni dopo l'interrogatorio di Potter. A Campion sembrava che gli analisti, date le circostanze, fossero stati particolarmente solleciti e non mancò di farlo notare. «Credevo che, per un lavoretto del genere, ci mettessero almeno sei settimane» osservò. «Non quando l'intera Sezione è in subbuglio» rispose l'ispettore un po' brusco. «Vogliamo che la faccenda venga chiarita prima che la stampa decida di occuparsene a fondo. Disgraziatamente, invece, finora siamo riusciti soltanto a creare un pandemonio. Nel caso specifico di queste analisi, tutta questa agitazione ci è stata utile. Anche a quella brava gente non fa male, sai, essere messa sotto il torchio. Comunque, è interessante, non trovi? Parlo della nicotina. Sta diventando di moda, eppure fino a pochi anni fa si conosceva un solo caso in cui era stata adoperata a fini criminali. Ne sai nulla?» «Ben poco» rispose il giovanotto. «Basta una piccola dose per raggiungere effetti letali, vero?» «Quindici milligrammi di quell'alcaloide, ma anche meno, ammazzano un uomo in tre o quattro minuti... fra l'altro si paralizza il sistema respiratorio.» Oates parlava con indignazione. «L'ho vista ieri sera in laboratorio... Preferisco sempre cercare di saperne un po' di più a mano a mano che le indagini procedono. Ti stupiresti se ti dicessi quante cose so a proposito dell'arsenico» aggiunse. «I criminali dovrebbero dare sempre la preferenza all'arsenico. Questi veleni diversi dal solito ci creano un sacco di guai. La nicotina è incolore e volatile, ingiallisce se si lascia stappata, e, conservandola troppo a lungo, si solidifica. Ecco quello che ho imparato sull'argomento.» Campion studiava il rapporto. «Applicando il procedimento Stas-Otto al contenuto dello stomaco, abbiamo isolato milligrammi quattordici e otto di alcaloide Nicotina tabacum» lesse. «Be', questo è chiaro. Sarà facile rintracciare la provenienza
del veleno una volta stesa la lista delle persone sospette. Non si potrà comprare questa roba a chili, suppongo.» L'ispettore guardò l'amico con curiosità e poi disse con voce stanca: «Chiunque può comprare una scatola di sigari.» «Una scatola di sigari?» Gli occhi chiari di Albert si spalancarono. «Si può estrarne facilmente l'alcaloide?» «Per quanto ne so io, sì. Anzi, credo che con pochissima scienza e senza bisogno di strumenti particolari si possa tirar fuori da una scatola di Avana tanta di quella robaccia da tener occupati gli analisti per dei mesi; dunque, per quanto si facciano le solite ricerche, non spero molto di riuscire a risalire alla fonte. Il nostro avversario ha un cervello fino, Campion.» Albert esitò, aprì la bocca per parlare, ma, ripensandoci, tacque, e Oates non si accorse di nulla. «Avanti» fece. «Scendiamo in quel maledetto studio. Qui non abbiamo niente da fare. Questa stanza sembra diventata il mio ufficio privato dal giorno del delitto. Però la signora Lafcadio non fa nessuna rimostranza. Che Dio la benedica! Anzi, di tanto in tanto, mi manda una tazza di tè.» I due uomini, attraversato l'atrio, scesero le scale e si affacciarono alla porta del giardino. La casa dei Potter era vuota e abbandonata: c'era solo un agente in borghese accampato sotto il piccolo portico. Stanislaus, aperto l'uscio con la chiave, entrò. Ammantata di quella dignità che la tragedia le aveva dato, la stanza sembrava più piccola di quando Campion l'aveva vista la prima volta. L'aria sapeva di chiuso e di umidità anche se la casa era disabitata solo da poco tempo. Le librerie e i tavolini leggermente in disordine, in seguito alle recenti perquisizioni. Oates si guardò attorno, un po' esasperato. «Ecco» fece. «Nulla. Nessuna traccia di bottiglie in tutta la casa. Non una goccia di alcol.» «Non potrebbe averlo portato da casa Lafcadio in un bicchiere?» Campion parlava con poco entusiasmo, e l'amico alzò le spalle. «Mettendoci dentro il veleno da sé? Può darsi, ma non ci credo. Dove l'avrebbe tenuta, la nicotina? In tutta la casa non c'è una fiala, né una boccetta di pillole, niente che l'avrebbe potuta contenere. A parte il fatto che qualcuno deve pur averla vista entrare in casa, no? Lisa, per esempio, la cui finestra guarda proprio da questa parte.» Albert annuì distrattamente. «Le ricerche sono state accurate, suppongo.»
«Ho incaricato Richardson e la signorina Peters; li conosci, vero?» Campion ebbe una rapida visione dell'omone dall'aria quieta, con le mani piene di delicatezza e gli occhi attenti e inquisitori, al cui seguito c'era in genere la donnina dalle movenze da uccellino, che sapeva perquisire metodicamente, con dita rapide e pronte, cassetti e tavoli carichi di cianfrusaglie di ogni genere. «Allora, è chiaro» fece. «Vuoi dire che qui non c'è niente.» «Lo so.» «Non hanno trovato né alcol né veleno?» «Veleno!» l'ispettore esplose. «Mio caro, ce n'è a mucchi, qua dentro! Per cominciare, Rennie possiede chili di arsenico puro. Ci sono almeno due litri di acido cloridrico diluito nella baracca dietro la cucina e del mordente olandese che Potter adoperava per le sue litografie. Poi abbiamo trovato dei sali ammoniacali sul lavandino, senza contare un armadietto pieno di medicinali che mi sono sembrati tutti abbastanza pericolosi. Ma nessuna traccia di nicotina.» «Suppongo che sia proprio quest'abbondanza di veleni a portata di mano a rendere più attendibile l'ipotesi del delitto» disse Campion lentamente. «È questa la tua conclusione?» «Appunto» rispose Oates. «Se quel dottorino non fosse stato tanto scrupoloso, o se non l'avesse messo in sospetto l'assassinio di Dacre, molto probabilmente tutto si sarebbe risolto con una diagnosi di attacco cardiaco... che non si può dire sbagliata, in fondo... e la cosa non sarebbe andata oltre. Avrebbe rilasciato il certificato di morte, e tutto sarebbe finito lì. Qualcuno è stato furbo e intelligente, maledettamente furbo. Speriamo che lo sia stato un po' troppo.» Campion sedette vicino alla finestra. Appariva più pensoso del solito, tanto che Oates gli lanciò una rapida occhiata. Ma non cercò di farlo parlare, e si limitò solo a riferire che i periti di impronte digitali non avevano scoperto nulla d'interessante. «Il telefono era coperto d'impronte della vittima» fece. «A proposito, la Cunninghame ha insistito sul fatto di aver sentito squillare il telefono mentre usciva di qua, e così, tanto per fare le cose in regola, ho iniziato qualche indagine per rintracciare l'origine della chiamata. Non si può esser sicuri dell'esattezza del risultato: alla centrale telefonica non sono mai precisi; come potrebbero esserlo? Ma pare che il numero dei Potter sia stato chiamato a quell'ora da un apparecchio pubblico. C'è stato qualche intoppo nella comunicazione, ed è intervenuta la caposala, è così che ho potuto rin-
tracciare la chiamata. Ho parlato con tutte due le signorine, ma con scarso risultato. Hanno saputo stabilire l'ora, però: le quattro e trentuno. Questo dà ragione alla Cunninghame, ma non ci aiuta affatto.» «In che strada era quel telefono pubblico?» «In Clifford Street, Che cosa ti succede? Hai un'idea?» Campion, irrigiditosi sulla sedia, fissava il vuoto. Dopo un attimo, si tolse gli occhiali. «Senti. Stanislaus» fece «è meglio che te lo dica ormai. È stato Max Fustian a uccidere la signora Potter.» L'ispettore fissò a lungo l'amico. «Hai qualche prova?» domandò finalmente. «Nessuna.» Oates gettò il mozzicone nel caminetto spento. «A che ci serve saperlo, allora?» esclamò. «Per me è un conforto» ribatté Campion. L'ispettore accese un'altra sigaretta. «Raccontami tutto» disse. Campion si alzò e senza timore di essere preso per pazzo riferì all'amico tutti i più piccoli dettagli e i minimi sospetti che avevano fatto nascere in lui tale idea. Finito il racconto, il poliziotto si stropicciò i baffi pensosamente. «Mi piaci Albert» si decise a dire. «Hai del coraggio. Ma non possiedi la minima prova.» «Lo so.» «I sospetti fondati sono ben pochi!» Campion, che stava camminando avanti e indietro, si fermò in mezzo alla stanza. «È questo che mi fa rabbia, Oates. Eppure sono sicuro. Non vedi che se non possiamo accusarlo è solo perché i fatti nudi e crudi non ce lo permettono?» «Non so cosa vorresti di più» ribatté l'altro, malinconico. «Ma capisco cosa vuoi dire. Nulla è più ingannevole dei fatti. Tuttavia, esaminiamo la tua tesi, a partire dal primo delitto. Ti concedo che per provenire da una persona intelligente, la confessione di Max Fustian era eccessivamente ridicola, ammesso che volesse davvero farla apparire verosimile. Ma i fatti, ragazzo mio, i fatti! E il suo alibi?» Campion gettò uno sguardo furbo all'amico. «Chissà» fece. «Quando hai interrogato donna Beatrice, le hai chiesto di cosa parlassero, lei e Fustian, al momento in cui si è spenta la luce?»
Oates fece una smorfia. «Sì, e ne ho avuto un resoconto dettagliato: si trattava di un aneddoto interminabile su un imbecille in un bagno turco che ha scambiato la signora Pickering per un quadro... quella donna è fissata, mio caro.» «Era una storia lunga?» «Interminabile.» «Ti pare donna capace da lasciarsi interrompere da qualche osservazione?» Oates scosse il capo. «È inutile, Albert» disse. «Se cerchi di convincermi che Fustian si è allontanato appena si sono spente le luci lasciando donna Beatrice a discorrere da sola, e che sia tornato senza che lei si accorgesse della sua assenza, perdi il tuo tempo e il mio. Prova a pensare. Se tu mi parlassi al buio, ti renderesti conto se ci sono o no?» «Che prove avrei della tua presenza?» «Mi sentiresti respirare, per esempio, muovermi, forse tossire o brontolare tentando di prendere parte al discorso. Se mi allontanassi, anche con mille precauzioni, mi sentiresti. Di certo.» Campion annuì. «Lo so» rispose impacciato. «Ma lei, no. Me ne sono ricordato l'altro giorno. È sorda come una campana senza il suo apparecchio, e quella domenica non lo portava. Capisci, non sentiva nulla, ed era buio pesto.» L'ispettore si irrigidì. «Se lo era tolto? E perché?» «Vanità, suppongo.» «Accidenti!» Oates, appoggiato allo schienale della sedia, tacque. «Non è una prova concreta, però» disse finalmente. «Non abbiamo nulla da portare in tribunale, anche se ci riuscisse di far riaprire questa istruttoria. Come ho detto allora, è stata l'impulsività e lo slancio con cui è stato commesso quel delitto che ci ha battuti sin dal primo momento. La sorte favoriva l'assassino. Ma questa volta l'omicidio era premeditato. E, quindi, si combatte ad armi pari.» «Allora sei d'accordo con me?» «Io? Nemmeno per idea. Ho una mente aperta, io. Sospetto di tutti e di nessuno finché non ho le prove.» Oates sorrideva. «Hai altre rivelazioni?» Campion rimase serio. «Non riesco a immaginare il movente» disse con lentezza. «Nella vita di Max Fustian, il giovane Dacre e la signora Potter erano certamente le persone meno importanti del mondo.»
«Per tornare ai fatti» ribatté Oates con garbo «dov'era Fus... questo tuo indiziato fra le quattro e mezzo e le cinque di giovedì scorso?» «Ha avuto la bontà di dirmelo lui stesso» fece Campion. «Nella galleria d'arte di Seyer, a entusiasmarsi davanti ai pastelli di una duchessa. Il vecchio Seyer è un mio amico, e sono andato a fargli una visitina. Era tutto emozionato per la sua esposizione, e mi ha raccontato quello che volevo sapere senza bisogno che io insistessi. Max è entrato nella galleria alle cinque meno venticinque. Seyer se lo ricordava perché gli era parso tardi, dato che stava aspettando Fustian fin dalle prime ore del pomeriggio. La mostra si è chiusa alle sei e mezzo, ma il nostro amico è rimasto a chiacchierare con Seyer fino alle sette. Poi sono usciti a bere qualcosa: Seyer era fiero, ma anche un po' sorpreso del fatto che quel grand'uomo si fosse degnato di interessarsi a lui. A quanto ho capito, Max, di solito, non si comporta con tutta questa gentilezza.» «La signorina Cunninghame è uscita di qui alle quattro e mezzo» osservò l'ispettore. «Fustian è entrato da Seyer alle quattro e trentacinque, e vi è rimasto un paio d'ore, e intanto la signora Potter era morta, l'avevano ritrovata, ed eravamo arrivati qui anche noi. E quindi non potrebbe aver avuto che cinque minuti, quelli fra le quattro é mezzo e le quattro e trentacinque per agire. Non bastano, mio caro.» «Bastano per telefonare» fece Campion. «Che vuoi dire?» Campion si chinò in avanti, riprendendo a parlare: «Uscendo alle quattro e mezzo, la Cunninghame ha sentito squillare il telefono. Hai rintracciato l'origine della chiamata, scoprendo che proveniva da Clifford Street. Max è entrato da Seyer alle quattro e trentacinque. Ora, la galleria si trova appunto in quella strada, e dista quindici metri dalla cabina.» «Questa non è una prova.» «Lo so, ma è un sospetto fondato. Decine di persone possono aver visto Fustian telefonare. Ti ricordi in che modo appariscente era vestito? E poi, quasi tutti lo conoscono di vista da quelle parti. Non dovrebbe esser difficile trovare dei testimoni.» «A cosa ci conduce tutto questo?» L'interesse del poliziotto era ormai destato. «Supponiamo di poter dimostrare che quella telefonata era sua... e non sarà facile a ogni modo... e poi? L'ha avvelenata per telefono? Leggi troppi romanzi polizieschi!» Il giovanotto pallido con gli occhiali cerchiati di corno rimase insolitamente serio. «Può essere che la mia ipotesi sia campata per aria» fece «ma
sono pronto a scommettere qualunque cosa che è giusta. Senti, noi sappiamo, per averla vista, e per testimonianza dello stesso marito, che quando la Potter si trovava a un tratto di fronte a una situazione critica, si scolava un bicchiere di whisky e perdeva la conoscenza. Sappiamo che Potter ha creduto che la moglie si fosse ubriacata anche giovedì. Supponi che sia accaduto davvero.» «Ma che stavolta nel liquore fosse stata aggiunta una piccola quantità di nicotina?» «Già.» «Questa ipotesi merita di essere presa in considerazione» concesse Oates con prudenza. «La donna riceve una notizia terrificante al telefono; chi l'ha chiamata sa come reagisce di solito alle emozioni, e fa in modo che il delitto avvenga in un'ora in cui il proprio alibi è indiscutibile. Non c'è male, Campion.» «Credo proprio che sia andata così.» Albert parlava a bassa voce. «Pensa: tutto era così ben programmato. Fustian era sicuro che la signora Potter si sarebbe trovata in casa alle quattro e mezzo perché la Cunninghame, che avrebbe dovuto finir la sua lezione alle quattro e un quarto, si tratteneva sempre dieci minuti di più. Il marito si trovava fuori; era quello l'unico giorno della settimana in cui Potter usciva sempre. Quindi la disgraziata avrebbe bevuto il veleno e sarebbe morta senza testimoni. Certo l'assassino non poteva sperare che Potter, rincasando più presto, avrebbe anche lavato il bicchiere, ma era facile che il dottore diagnosticasse un attacco cardiaco o un avvelenamento acuto da alcol.» «Ingegnoso» fece l'ispettore. «Molto ingegnoso. E sembra attuabile. Ma vi sono troppi vuoti e troppe ipotesi. Come ha fatto l'assassino a mettere la nicotina nel whisky, e presumendo che ve l'abbia messa, a essere sicuro che la Potter non avrebbe bevuto prima della telefonata?» Campion rifletté. «Credo che la risposta all'ultima domanda sia questa: la vittima era in possesso del whisky avvelenato da poco tempo» disse poi. «Perfino Max, che è l'essere più ottimista della terra, non poteva correre il rischio che Claire si avvelenasse troppo presto. Dunque la risposta alla prima domanda è la seguente: bisogna che il whisky sia giunto alla Potter giovedì, in un momento qualsiasi della giornata.» «Fustian è venuto qui giovedì?» «No.» «E nemmeno all'inizio della settimana?»
«No. Ammetto tutto questo, ma ricordati che era una donna che parlava poco. Il whisky può esserle arrivato anche per posta. Fustian può averglielo dato in città. Sono tante le eventualità che non è possibile elencarle tutte ora. Ecco perché sono d'accordo con te nel ritenere che l'unica speranza che abbiamo sia quella di ritrovare la bottiglia del whisky avvelenato.» Oates si lanciò uno sguardo intorno. «La troveremo» fece con decisione improvvisa. «La troveremo. Fino ad allora non voglio trarre nessuna conclusione. Ma è certo uno spiraglio, ragazzo mio, un netto spiraglio. Vieni. Cerchiamo anche noi.» L'ispettore, pur senza usare i metodi dei professionisti, mostrò una meticolosità nelle ricerche che sorprese Campion. Ogni mobile della stanza rigurgitante di roba, ogni mattone traballante, ogni angolo che potesse anche lontanamente celare un nascondiglio, fu esaminato. Il soggiorno, la cucina e il retro-cucina, perfino la baracca degli attrezzi che c'era fuori, furono passati di volta in volta al setaccio. E Campion si trovò sempre più spesso di fronte ai piccoli segreti di casa Potter, alle piccole economie, a certe cose sciatte o trasandate che, a parer suo, erano di carattere privato e gli facevano sentire in modo particolare tutto il pathos di quella tragedia. Per quanto poco simpatico fosse stato il personaggio della signora Potter, colui che l'aveva uccisa era colpevole di aver anche distrutto una vita familiare e una casa che, senza di lei, non erano diventate che un mucchio desolato di roba inutile e senza valore. Rifiutato il cortese invito a colazione di Belle, i due uomini lavorarono fino alle tre e mezzo. Solo allora, accaldati, spettinati e sconfitti, sedettero a fumare una sigaretta nella stanza dove regnava il disordine. «Siamo a terra» fece l'ispettore. «Sono contento di essermene assicurato personalmente, però. Vedi bene che Richardson e la Peters avevano ragione. Non c'è niente.» A malincuore il giovanotto dovette annuire. I due investigatori erano ancora immersi in un silenzio senza speranza, quando Lisa bussò alla porta. «La signora Lafcadio dice che i signori devono prendere almeno una tazza di tè» fece posando il vassoio sul tavolo. «E giacché non vogliono venire in casa, gliel'ho portato qui.» Si fermò a servirlo, e Campion si accorse che gli occhi lucenti e curiosi di lei si soffermavano sulla stanza in disordine e su di loro che l'occupavano. Più che altro perché non sapeva a quale partito appigliarsi, il giovanotto tornò sul terreno già esplorato.
«Dopo la morte della signora Potter e prima della mia venuta, non è entrato nessuno qui eccetto la signora Lafcadio e Rennie?» «Vi ho detto di no» replicò Lisa con una certa dignità. «E l'ho detto anche a lui» soggiunse, accennando col capo a Oates. Questi fece un sorriso stanco. «È vero, signorina» fece. «L'avete ripetuto fino alla nausea.» Campion aggrottò le sopracciglia. «Qualcuno deve pur essere venuto» fece. «Almeno fin sull'uscio. Ecco, Lisa; sono venuti a ritirare qualcosa? Una cosa qualunque?» «Ve l'ho già detto» ripeté bruscamente la vecchia. «Non è venuto nessuno, eccetto il ragazzo della galleria d'arte.» I due uomini si fissarono con gli occhi sbarrati. La mano dell'ispettore rimase sospesa con la sigaretta penzoloni fra le dita, mentre Campion si irrigidiva sulla sedia. Lisa naturalmente non nascose la propria sorpresa per l'effetto riportato. Due macchie rosse comparvero sulle sue gote incartapecorite. «Non c'è niente di strano» fece. «Quel commesso viene spesso a quell'ora. Gli ho dato le matrici, e se n'è andato. Non gli ho lasciato vedere l'interno dello studio, naturalmente. È accaduto mentre la signora Lafcadio telefonava.» L'ispettore riprese possesso delle sue facoltà. Il suo sguardo duro e attento si fermò sul volto della vecchia. «Avreste dovuto dirmi prima tutto questo» obiettò. «Quando è venuto esattamente il commesso?» Gli occhi scuri della donna erano impauriti. «La signora Lafcadio era andata a telefonare» ripeté. «Ero appena entrata qui a vedere la signora Potter. Hanno bussato. Credo di essermi spaventata. Mi sono avvicinata all'uscio. Quando ho visto chi era ho detto di aspettare e ho chiuso subito perché non vedesse. Poi sono andata a prendere le matrici. Erano avvolte nel solito panno, gliele ho date e lui se n'è andato. Ecco tutto.» «Va bene» fece Oates con voce tranquilla. «Va bene. Cos'erano quelle matrici?» «Matrici di legno per xilografie.» Lisa trovava assai sconcertante l'ignoranza dell'ispettore. «Grossi cubi di legno pesante. La Potter li puliva e ne faceva delle stampe per lui.» «Per chi?» «Per il signor Max. È un'ora che ve lo dico. È venuto il suo commesso a
prenderli, e glieli ho dati.» L'ispettore guardò Campion con l'ombra di un sorriso sul volto. «E glieli ha dati» ripeté. 17 La corda allentata «Sebastiano Quirini? Ma, mio caro, faceva delle stampe meravigliose!» Belle sollevò le palpebre, e per un momento i suoi occhi persero quello sguardo atono e stanco, che Campion da qualche tempo vi notava con dispiacere. I due si trovavano di nuovo nel salotto, seduti vicino al fuoco il cui piacevole calduccio era diventato una necessità dopo la seconda tragedia, anche se la primavera non era eccessivamente fredda. Anche l'ispettore era presente al colloquio, avendo deciso con l'amico di non disturbare Potter, se non in caso di assoluta necessità, e di rivolgersi piuttosto alla vecchia signora per averne qualche informazione. «Credo si trattasse di una specie di segreto» fece questa. «Dunque, non parlatene con nessuno. Max ha scoperto una cinquantina di vecchi cliché del Quirini a Parigi, alla liquidazione della Societé des Arts Anciens. Era una ditta molto vecchia, che commerciava in oggetti antichi oltre che in quadri. Quando, per la demolizione del caseggiato, dovettero vuotare i magazzini che non erano stati riordinati da anni, saltò fuori un mucchio di roba. La cosa fece molto scalpore in quei tempi, tanti anni fa. «Ma questo non c'entra. Max in quell'occasione ci pescò matrici xilografiche, tutte annerite e incrostate d'inchiostro secco; qualcuna anzi era quasi inservibile; ne ha fatto pulire un paio scoprendo così che erano di mano del Quirini.» Oates sembrava ancora perplesso, tanto che Campion dovette fornirgli qualche spiegazione. «Si tratta di blocchi di legno, sui quali l'artista incide la sua opera» fece. «Variano molto di misura e di spessore. La stampa viene eseguita pressando un foglio di carta sottile, e qualche volta anche un pezzo di seta, sulla superficie inchiostrata del legno inciso. La signora Potter avrà sciolto il vecchio inchiostro, ripulendo le matrici per trarne delle nuove stampe, suppongo, vero Belle?» La vecchia signora annuì. «Claire era bravissima per queste cose» disse, e lo sguardo le si fece tenero. «Molto paziente e precisa. Le xilografie non
sono difficili a tirarsi, ma ci vuole tempo e attenzione. Max sentirà la mancanza di quella poveretta.» «Lavorava molto per lui, signora?» domandò Oates. «Oh, faceva tante cose, povera donna! Lavorava troppo, anzi. Vi sono tanti lavoretti segreti nel mondo degli artisti» continuò rivolgendo un pallido sorriso all'ispettore. «Cosette che richiedono una perfetta onestà oltre l'abilità manuale. Capite, Max voleva aver pronta tutta la serie dei Quirini per farne una mostra, e forse lanciarne la moda. Claire li aveva quasi finiti. Ci lavorava da due anni.» «Da due anni?» Oates rimase sbalordito. «Ma sì. Si trattava di un lavoro lungo e qualcuna delle matrici era in pessime condizioni. E poi quella poveretta faceva tante altre cose.» Oates lanciò uno sguardo all'amico. «La signora Potter non teneva quelle matrici nello studio, allora?» «Tutte?» disse Belle. «Oh, no davvero. Erano ingombranti e troppo preziose. Un commesso, quando veniva a ritirare quelle pronte, gliene portava delle altre. Mi ricordo di averlo visto spesso... è un ragazzo con l'aria da vecchio. Le matrici erano sempre avvolte in un panno verde. Claire faceva sempre di persona il pacco delle matrici ripulite prima che venissero a ritirarle. Ci teneva moltissimo: le toccava solo lei. Una volta mi trovavo nello studio quando ne arrivarono nuove e mi offrii di aiutarla a togliere l'involto. Mi trattò malissimo. Povera Claire! Era così insolito da parte sua quel modo di fare! Teneva le matrici su uno scaffale, sempre avvolte nel panno. Temo che Max la pagasse pochissimo, ma non si è mai lamentata.» Sospirò, abbassando gli occhi sulle mani paffute. «Era sempre così gentile con me» disse e, inaspettatamente, fece un altro commento. «E quel povero infelice di suo marito! Non c'è più nessuno che si prenda cura di lui. Lei sola se ne occupava! Che pietà!» Tacquero, ma l'imbarazzo di quel momento fu interrotto dall'arrivo di Lisa con un messaggio da parte di donna Beatrice, la quale mandava a chiamare l'amica. Poiché aveva scoperto di essere stata messa in disparte di fronte a molte altre questioni più importanti, aveva deciso di darsi ammalata, partendo dal presupposto sempre valido che, non potendo esigere l'attenzione altrui per merito delle proprie mirabili qualità, si poteva almeno tentare di dar fastidio al prossimo. Piuttosto di malavoglia, Lisa disse: «Non ha mangiato. Si rifiuta di prendere qualsiasi cosa se non ci siete voi. Dobbiamo lasciarla così fino a stasera?»
«Oh, no» fece Belle alzandosi. «Vengo. Povera creatura» osservò in tono di scusa, rivolgendosi a Campion. «È addirittura isterica. Molto cattivo da parte sua. Si rende così antipatica!» Poi uscì, seguita da Lisa, lasciando soli i due uomini. «Non permetteva a nessuno di aprire il pacco delle matrici» disse Oates, tirando fuori il taccuino. «Max la pagava poco, ma lei non si lamentava mai. Lavorava tanto per lui; incarichi delicati. Cosa stai pensando?» «Penso» ribatté Albert lentamente «che è molto probabile che Max fomentasse e aiutasse il vizio della Potter da molto tempo... da mesi, forse da anni. Pagandola poco e accontentandola in questo modo. Quando si presentò l'occasione gli fu facilissimo avvelenarla. Anzi, probabilmente fu tanto semplice che non seppe resistere alla tentazione.» Oates sospirò. «Infatti» annuì «e il guaio è che se le cose sono andate così, non lo acciufferemo mai. Un paio di quelle matrici avvolte in una stoffa possono formare un pacco abbastanza grande da contenere, diciamo una bottiglia piatta da un quinto di litro?» «Senz'altro. Il trucco è ingegnoso, Stanislaus.» «Maledettamente ingegnoso» confermò il poliziotto. «Ma sono tutte congetture. Basate su sospetti fondati, lo ammetto, ma pure e semplici congetture. Non un briciolo di prove. Parlerò col commesso, si capisce. A proposito: Rennie dice che mentre la signora Potter era fuori casa, il pomeriggio del delitto, lui stesso ha ritirato un pacco avvolto in una stoffa verde chiusa con un legaccio proveniente dalla galleria Salmon, e che l'ha lasciato sotto il portico dei Potter. Perché è tornato il commesso più tardi? Forse riuscirò a sapere qualcosa da quel ragazzo senza disturbare Fustian, perché è l'ultima cosa al mondo che vorrei fare, data la situazione. Su, Campion, andiamocene, al momento qui non c'è più niente da fare.» Albert rivide il poliziotto l'indomani a mezzogiorno nel suo gelido ufficio di Scotland Yard. Oates alzò gli occhi, sentendo entrare l'amico, e lo accolse con entusiasmo maggiore del solito. «Ho visto il commesso» fece, senza tanti preamboli. «L'ho acciuffato nella galleria d'arte prima che giungessero gli altri impiegati. È un tipo buffo... si chiama Green.» «Devo avercelo visto una volta.» «Ah, sì? Be', dunque lo conosci. Campion... credo che tu abbia ragione.» «Davvero? Cosa hai saputo?»
Oates sfogliò il taccuino dalle pagine sgualcite su cui prendeva i suoi appunti. «Le dichiarazioni del commesso concordano naturalmente con tutte le altre. Il ragazzo portava quei pacchi e li ritirava a intervalli regolari. Di solito si recava dalla Potter di sera perché Bayswater era lontano e quindi lasciava quella commissione per ultima. Tutto il materiale per fare l'involto era doppio, fra parentesi; vi erano cioè due panni e due cinghie, di modo che un pacco era già confezionato quando si consegnava l'altro.» «Green è mai stato presente mentre lo preparavano in galleria?» domandò Campion. «Mai. Gliel'ho chiesto con insistenza. Il ragazzo non era nemmeno sicuro del contenuto di quei pacchi. A quel che sembra Fustian aveva un debole per questi piccoli misteri, anche con i suoi dipendenti. Pare che avesse fatto un gran colpo al ragazzo, raccontandogli che era un mezzo genio, un grande finanziere con enormi disponibilità nel mondo degli affari. Quindi i pacchi gli venivano consegnati dal padrone, il quale li confezionava da sé, raccomandandoglieli come oggetti di valore e da trattare con molta cura. Ho avuto l'impressione che il ragazzo fosse convinto di essere un privilegiato a poter toccare, addirittura!, quegli oggetti. È un povero sciocco, che crede a tutto quanto gli dicono.» «Non c'è altro?» Campion sembrava deluso. «Aspetta. Gli ho spiegato, naturalmente, che interrogavo lui come interrogavo tutti coloro che si erano recati allo studio nel giorno del delitto... bisognava ben inventare qualcosa... e Green di sua iniziativa mi ha detto che era una cosa insolita per lui recarvisi due volte nella stessa giornata, e che questo era avvenuto quel giovedì per un presunto errore di Fustian. Pare che il commesso sia andato dai Potter all'ora di colazione a portare un pacco e a ritirarne un altro. Era stato lasciato in custodia a Rennie. Questo cambiamento pare fosse dovuto al fatto che, quella sera, doveva essere a Victoria Station, all'arrivo del treno da Parigi delle cinque e cinquantotto per ritirare alcune stampe. Si trattava di stampe su seta, sdoganate. Tornato alla galleria nel primo pomeriggio, Max lo aveva chiamato, spiegandogli di aver sbagliato nella confezione del pacco, e ordinandogli di andarlo a riprendere dopo aver compiuto la sua missione alla Victoria Station. Mi segui?» «Recatosi alla stazione, il nostro Green ha trovato che le stampe non erano arrivate. Gli ci è voluto un po' di tempo per accertarsene... mettiamo una ventina di minuti. Poi è andato allo studio, dove è giunto poco prima
delle sette, e dove Lisa gli ha consegnato il pacco che lui ha riportato in galleria. Là, ha trovato il padrone che l'aspettava. Green ne è rimasto sorpreso e poco dopo ha avuto occasione di stupirsi di nuovo quando, dopo avergli chiesto se aveva veduto la signora Potter, e avendo ricevuto una risposta negativa, Max gli ha dato una mancia. Poi il ragazzo è tornato a casa. È tutto quello che so.» «Straordinario!» fece Albert. «Interessante!» ribadì il poliziotto sempre consultando i suoi appunti. «Ah, a proposito, c'è un'altra cosetta. Ho domandato al ragazzo se sapeva cosa contenevano i pacchi. Ho risposto di no, ma poco dopo, quando eravamo più in confidenza, mi sono accorto che aveva in mente qualcosa. E finalmente è saltato fuori di che si trattava. Tre settimane fa Green ha lasciato cadere uno di quei pacchi mentre lo portava dalla Potter. Senza osare aprirlo per vedere il danno fatto, tremante e timoroso, il ragazzo lo ha consegnato alla pittrice. Dice di non aver ricevuto i rimproveri che temeva, ma di aver notato che all'atto della consegna il panno verde era bagnato. Ho insistito, ma non sono stato capace di fargli dire altro.» Campion si irrigidì. «Dunque avevamo ragione.» «Sì» rispose Oates. «Per quello che ci riguarda il mistero è risolto, ma non possiamo dirlo pubblicamente. È esasperante, vero?» L'ispettore si alzò e si avvicinò alla finestra. «Ancora un mistero insoluto, ecco cosa diranno i giornali. Questa volta non abbiamo in mano nemmeno quanto basta per autorizzarci a interrogare Fustian. Quel farabutto ci ha giocati. Mentre noi studiavamo se la Potter era morta avvelenata, lui se ne stava tranquillamente nella stanza da bagno della sua galleria a lavare la bottiglia.» «Ah, se Potter non avesse sciacquato il bicchiere!» esclamò Albert. Oates rifletté. «Non sono sicuro che questo ci avrebbe aiutato» disse infine. «Supponi che Potter avesse agito come una persona normale, trovando la moglie in quello stato. Dopo averla guardata e aver scoperto che era morta, il poveretto avrebbe chiamato un dottore, rivelandogli il vizio di lei. Con novantanove probabilità su cento, il medico avrebbe diagnosticato la morte per attacco cardiaco in seguito ad alcolismo acuto, e noi non saremmo stati nemmeno chiamati. È stato il mistero iniziale a farci partecipare alla faccenda.» Poi concluse: «Nulla. Nemmeno una prova contro di lui. Se l'è cavata, non c'è che dire.» «Cos'hai intenzione di fare? Di lasciar cadere le indagini?» «No, perdio!» l'ispettore pareva scandalizzato. «Credevo che te ne intendessi di procedure del genere. Noi poliziotti continueremo a tirare avan-
ti come vecchi terrier su una pista non più fresca. Ci spediremo da un reparto all'altro letterine glaciali e piene di disapprovazione. Ci riferiremo i fatti in via confidenziale e, di settimana in settimana, le nostre preoccupazioni diminuiranno. Poi salterà fuori qualcos'altro, ci troveremo impegnati lì allo spasimo e questa storia verrà accantonata.» Il volto giovane e triste di Dacre disteso nello stanzino dietro allo studio di Lafcadio; Potter, con la schiena voltata verso il divano dove giaceva, coperto, il cadavere della moglie; Belle, seduta in cucina a torcersi le mani; queste immagini passarono davanti agli occhi di Albert. Guardò Oates. «Almeno puoi trovare il movente» fece con amarezza. «Non si potrebbe prenderlo in trappola per questa via?» «Un movente non basta se è unito a delle prove dubbie» rispose tristemente l'ispettore. «E poi, forse non c'è nemmeno un movente.» «Cosa vuoi dire?» Le parole del poliziotto avevano fatto assumere forma ben definita a un pensiero pauroso che Campion aveva già respinto con orrore. Oates incontrò per un attimo lo sguardo dell'amico. «Tu sai cosa voglio dire. Non credo che ci sia nulla di logico, nessun movente ragionevole...» «Secondo te...» cominciò Campion. «Senti» lo interruppe l'altro. «Ammetto che quest'ipotesi sia sconvolgente, ma tu sai quanto me che quando un tipo di quel genere e di quell'età si trasforma a un tratto in un assassino, vuol dire che il suo senso dei valori si è guastato all'improvviso. Più furbo è, più tardi lo si acchiappa.» «Allora non credi che si possa far nulla per ora?» Il tono di voce di Campion era spento. «No, mio caro» fece l'ispettore. «No, mio caro, quell'uomo è stato troppo abile. Dobbiamo aspettare.» «Aspettare? Santo cielo, aspettare che cosa?» «Il prossimo delitto» fece Dates. «Non si fermerà a questo. Non lo fanno mai. La domanda, piuttosto è la seguente: chi sarà la persona che gli darà fastidio adesso?» 18 Affari rischiosi Il coroner era un uomo rispettabile, ma anche di buon senso, e dotato d'una innata avversione per gli scandali. In tribunale, la morte della povera signora Potter venne discussa da una
dozzina di persone che s'interessavano certo al caso, ma che avevano però anche le loro occupazioni private. Udite tutte le testimonianze, costoro giunsero a un verdetto sensato, anche se poco soddisfacente. Cioè, conclusero che la defunta era morta per avvelenamento da nicotina, ma non vi erano prove sufficienti per stabilire se si trattasse di delitto o di suicidio. La deposizione della tremante signorina Cunninghame a proposito del modo di comportarsi della sua insegnante nell'ultimo pomeriggio di vita contribuì notevolmente a togliere a buona parte del pubblico (se non altro) i dubbi che la giuria aveva manifestato e, poiché non c'è niente che l'uomo della strada trovi tanto noioso e deprimente come la storia di un suicidio, la faccenda venne lentamente dimenticata. La stampa, che aveva il dono (anzi, quasi la capacità di un veggente) di scoprire quanto ci fosse di poco convincente in una storia del genere fin dal momento in cui cominciavano a comparirne le prime, succose notizie sui tavoli della redazione, ne aveva relegato il resoconto nelle ultime pagine di cronaca non appena si era affievolita l'eco dette usuali proteste contro l'inettitudine della polizia e le autorità, interessate, se ne rallegravano in segreto. Soltanto Campion e l'ispettore sapevano qual era la realtà della situazione, e via via che lo scandalo svaniva nel passato e l'atmosfera della Piccola Venezia ripiombava in una pace apparente, il giovane si sentiva nello stato d'animo della zitella che vede spuntare le scarpe del ladro di sotto alla tenda proprio quando l'ultimo dei vicini sta rientrando in casa sua dopo un primo allarme infruttuoso. Continuò a frequentare casa Lafcadio nelle settimane successive, presentandosi con tutti i pretesti possibili e immaginabili. Belle era sempre contenta di vederlo mentre donna Beatrice lo accoglieva con l'avida affettuosità di un attore per il suo pubblico. Il signor Potter rimaneva chiuso nella sua camera quasi tutto il tempo, trasformato in una nuova creatura cupa e rozza, dalla vita segreta. Il dottor Fettes, quando si parlava di lui, scuoteva la testa. La vita quotidiana trascinava tutti gli abitanti di casa Lafcadio nel suo corso tranquillo, e sembrava inammissibile che dovessero venir coinvolti ancora da qualche dramma come era capitato quel sabato sera di aprile in cui, con Belle, avevano parlato del ricevimento dell'indomani. La prima avvisaglia di pericolo giunse inaspettata e impressionante. Un giorno Max fece agli eredi di Lafcadio una proposta con tutta l'affet-
tazione e la prosopopea che usava sempre mostrare nei suoi affari. Telefonò una mattina, per fissare un appuntamento per le tre. Giunto con un ritardo di tre quarti d'ora, si rivolse alla piccola assemblea di donne come se si trovasse davanti a un consiglio di amministrazione. Donna Beatrice, Lisa, Belle e l'impaziente Linda sedevano in ascolto nel salotto. Potter, unico altro abitante della casa, e D'Urfey, che lo era quasi diventato, furono esclusi dal conciliabolo dietro consiglio dello stesso Fustian. La vecchia stanza con le sue antichità scolorite era molto accogliente e aveva una gradevole atmosfera rallegrata dalla luce del sole pomeridiano che vi entrava a fiotti. Belle sedeva nella sua poltrona vicino al caminetto, Lisa sta in piedi al suo fianco, Linda era accoccolata sul tappeto, mentre donna Beatrice, distesa sulla chaise-longue, si preparava a godersi gli avvenimenti. Max rimase in piedi; la solennità del momento lo faceva apparire più alto. Il suo aspetto già per natura pittoresco era notevolmente esagerato dall'ultima trovata in fatto di vestiario: un panciotto ottocentesco in tessuto fantasia. Si trattava indiscutibilmente di un capo molto bello. Le sue sfumature mauve, oro antico e verde si fondevano con eleganza; la cura con cui era stato confezionato era la dimostrazione di come avesse potuto preservarsi tanto a lungo, ma su una figura già abbastanza bizzarra come quella di Max, con la cravatta a fiocco svolazzante, e il nuovo abito primaverile dal taglio superbo, anche se un po' troppo ampio di proporzioni, aveva qualcosa di eccessivamente affettato. Perfino Belle, che provava quasi un piacere infantile per tutto ciò che era vivace e colorato, ne scrutò la foggia e le tinte sgargianti con aria dubbiosa. Linda, osservandolo cupa di sotto le fulve sopracciglia, pensò che in quell'ultimo mese la fatuità e l'enfasi di quell'uomo erano peggiorate notevolmente. La ragazza si rendeva conto tuttavia che, nonostante tutto, Max riusciva a non apparire ridicolo. Di tanto in tanto, nella sua parlata volutamente lenta, si insinuava un ben simulato accento forestiero. Inoltre la sua antica potenza, e il convincimento appassionato della propria grandiosità e forte personalità, con cui riusciva a gettare la polvere negli occhi di tutti coloro che facevano la sua conoscenza, erano aumentate e, insieme a tutte le sue altre eccentricità, contribuivano a far irradiare da lui un'atmosfera carica di elettricità che, francamente, dava fastidio. La frase con cui Max iniziò il suo discorso rifletté il suo nuovo modo di essere.
«Mie care signore» fece, guardando le sue ascoltataci come se quasi non le conoscesse «noi dobbiamo affrontare una situazione difficile. La nobile memoria di John Lafcadio, che ho difeso con tanto impegno, è stata profanata. Occorrerà tutta la mia forza, tutta la mia abilità, per rimetterlo sul piedistallo cui ha diritto. Per questo mi occorre il vostro aiuto.» «Oh!» esclamò donna Beatrice con un'espressione ottusa e soddisfatta insieme. Max le lanciò un sorriso di superiorità, continuando nella stessa vena oratoria: «Lafcadio era un grande pittore, non ce ne dimentichiamo. Questa disgrazia, questa macchia sulla sua casa, questa nube sulla sua memoria, non devono far dimenticare ai suoi ammiratori un fatto fondamentale: era un grande pittore.» Lisa ascoltava, fissando il volto dell'oratore con lo sguardo ipnotizzato di chi non capisce perfettamente. D'altro canto Linda dava segni di impazienza e avrebbe parlato se la mano paffuta di Belle, posata sulla sua spalla, non le avesse consigliato il silenzio. Max continuava, con la testa gettata all'indietro, lasciando cadere pigramente le frasi dalle labbra. Si era appollaiato sul bracciolo della capace poltrona che Lafcadio aveva avuto l'abitudine di far passare, senza il minimo fondamento, come appartenente a Voltaire. L'imbottitura di un color cremisi un po' sbiadito faceva da sfondo alla figura eccentrica di Max cedendole un po' della propria grandiosa magnificenza. «Naturalmente» fece con disinvoltura «vi rendete conto che non sarà possibile riprendere, nei prossimi anni, la farsa della mostra domenicale. Quella divertente trovata è finita male. Le meravigliose opere di Lafcadio non devono più entrare in quello studio profanato. Probabilmente bisognerà che voi lasciate questa casa, Belle. Il nome di lui dev'essere salvato dallo scandalo.» Belle si era messa a sedere più dritta al suo posto e stava osservando il visitatore con una certa meraviglia. «Ho riflettuto a lungo su tutto questo» Max intanto stava confessando con un sorrisetto di condiscendenza rivolto al gruppo delle donne. «Poiché non ci sono dubbi che sia stato mio il merito di far conoscere Lafcadio al pubblico, è naturale che consideri anche un mio dovere quello di fare il possibile per salvare il resto della sua opera dall'essere ulteriormente contaminato da questo piccolo scandalo disgraziato.»
«Infatti» mormorò donna Beatrice. Max accennò brevemente col capo verso il punto dove si trovava l'ex modella. Pareva divertito. Guardandolo, gli occhi castani di Belle sembravano più grandi e più intensi di colore, ma la vecchia signora non disse nulla e solo la lieve pressione della sua mano sulla spalla di Linda si accentuò. «Ecco quali sono i miei progetti» tagliò corto Max. «Il mio nome è stato legato troppo a lungo con quello di John Lafcadio perché io permetta alle considerazioni di carattere privato di impedirmi di provvedere alla sua salvezza in un momento simile.» Adesso il suo modo di fare non aveva più niente di artefatto, come le battute di attacco del suo discorsino, ma parlava in un tono vagamente didattico che era ancora più offensivo. «Anche se questo mi costa qualche notevole inconveniente di carattere personale, in autunno io porterò a New York i quadri di Lafcadio che ho ancora in consegna.» L'annuncio fu secco, e Fustian continuò il discorso senza aspettare il consenso degli auditori. «Per difficili che siano i tempi, credo che con la mia abilità potrò vendere un quadro o due. Gli echi delle disgrazie di questa casa saranno ormai spenti, ammesso che siano giunti fin laggiù. Dopo New York porterò le tele a Yokohama, fermandomi forse a Edimburgo, al ritorno, per vendere quelle che mi saranno rimaste. Mi rendo conto di correre un rischio, ma lo faccio volentieri come mio ultimo tributo a un uomo il cui genio ho avuto la gioia di far affermare.» Max tacque trionfante, agitando le mani. Belle non fece nessun cenno in risposta, ma donna Beatrice si chinò in avanti con il volto soffuso di rossore, la collana che tintinnava. «Caro» fece, con voce tremante di dolcezza voluta «mantenete vivo il suo nome. Mantenete accesa la fiaccola del maestro!» Fustian ricambiò la stretta delle sue dita ma poi le lasciò andare subito. «Sono venuto qui» riprese, lasciandosi elegantemente cadere nella poltrona «soltanto perché occorre il vostro consenso scritto, Belle, per portare i quadri all'estero. Ho qui i documenti. Firmateli, e penserò io a tutto.» Donna Beatrice si alzò con un fruscio di vesti, e raggiunse la scrivania d'angolo. «Siedi qui, cara» fece. «Al suo scrittoio.» Ma sembrava che la signora Lafcadio non l'avesse udita affatto. Max le
si avvicinò ridendo piano. «Cara Belle!» esclamò. «Non mi ringraziate? Non agirei così per nessun pittore al mondo.» Quando una persona mite si arrabbia improvvisamente l'esplosione che ne risulta è spesso più impressionante degli sfoghi di un violento. Belle Lafcadio si alzò con tutta la dignità dei suoi settant'anni. Due macchie rosse erano apparse sulle sue guance avvizzite. «Povero cucciolo vanaglorioso che non siete altro!» esclamò. «Mettetevi a sedere!» La frase sprezzante ebbe un effetto immediato. Pur non obbedendo all'ordine, Max si tirò indietro istintivamente, con la fronte aggrottata. «Cara signora...» protestò, ma Belle ormai era eccitatissima, e Lisa e donna Beatrice, ricordando l'ultimo scoppio d'ira di lei, verificatosi una ventina d'anni addietro, tacquero. «Ascoltatemi, ragazzo mio» fece la vecchia, con la voce vigorosa e sonante di quando aveva trent'anni. «La vanità vi ha dato alla testa. Certe cose non si dicono in genere o per educazione o per bontà d'animo, ma mi rendo conto che è venuto il momento di parlar chiaro. Voi avete raggiunto la posizione di cui godete solo perché avete avuto l'intelligenza di aggrapparvi alla giacca di Johnnie e di non mollarla più. Ammiro la vostra abilità nell'aver scelto proprio lui per sostegno, ma non dimenticate che la forza motrice è sua, e non vostra. Voi farete quel che potrete per salvare i suoi quadri. È vostro il merito di aver portato il suo nome davanti al pubblico! Perbacco, meritereste di esser preso a schiaffi! «John mi ha lasciato determinate istruzioni riguardo i suoi quadri. Per otto anni le ho seguite, e le seguirò per altri quattro, Dio permettendo. Se nessuno li compra, se nessuno viene all'esposizione, non importa. So cosa voleva John da me, e lo farò. Ora andate, se non volete che vi rimuova definitivamente dal vostro incarico. Fuori!» La vecchia signora rimase in piedi, col respiro un po' più affannoso del solito, e con le guance ancora arrossate. Max la fissava a bocca aperta. Una resistenza da parte di lei non era stata prevista, evidentemente. A poco a poco, tuttavia, ritrovò il suo autocontrollo. «Mia cara Belle» cominciò in tono aspro «capisco che la vostra età, e il periodo burrascoso che avete attraversato...» «Ma sentitelo!» esclamò la vecchia signora con gli occhi sfavillanti. «Non ho mai udito una simile impertinenza in vita mia! Volete tacere? Vi
ho detto di no. I quadri di mio marito rimangono qui.» «Oh, Belle, è ragionevole questo? Che nuvola rossa nella tua aura! Max è un uomo d'affari talmente abile, non ti pare...» La blanda protesta di donna Beatrice fu interrotta di colpo da uno sguardo della vecchia signora. Poi questa sorrise gentilmente. «Cara Beatrice» fece «ti spiacerebbe andare un momento di là? Si tratta di un colloquio serio. Lisa mia, vai pure da basso. Porta il tè fra un quarto d'ora. Il signor Fustian non si trattiene.» Donna Beatrice uscì con un fruscio da uccello spaurito. Lisa la seguì, e solo quando la porta si richiuse alle loro spalle, Belle rivolse lo sguardo alla nipote. «Vorrei fare quello che John mi ha ordinato, Linda» disse. «Tu e io siamo le sole interessate. Cosa ne pensi? Se perdiamo un po' di denaro, ti dispiace?» La ragazza sorrise. «I quadri sono tuoi cara» rispose. «Fa' quello che vuoi. Sai come la penso: se tu non desideri che siano portati all'estero, per conto mio la questione è risolta.» «Allora non se ne andranno da qui finché io sarò viva» esclamò Belle. «Finché sarò viva farò quanto è stato deciso fra me e John tanti anni fa.» «Assurdo e criminale» dichiarò Max. «Stupidità pura. Mia cara Belle, anche se siete la vedova di Lafcadio non dovete fidarvi troppo della vostra posizione. Quei quadri non appartengono a voi, ma al mondo. Come esecutore artistico di Lafcadio, insisto: le tele si devono vendere il più presto possibile, e la nostra unica speranza sta nelle grandi capitali estere. Non permettete che un cocciuto sentimentalismo degradi il lavoro di un uomo che evidentemente non avete mai apprezzato!» Aveva alzato la voce e i suoi movimenti, facendosi stizziti, avevano perduto la loro grazia studiata ed erano diventati stranamente infantili. La vecchia signora sedette nella sua poltrona. Sembrava che l'antico salotto nel quale si sentiva ancora tanto vivida la presenza del turbolento Lafcadio prendesse le sue parti. Scrutò freddamente Max. La collera era dileguata ma si era portata via anche tutto quel calore umano e quella cordialità che erano sempre stati una sua caratteristica. Al loro posto, ecco rivelarsi una nuova e insospettata Belle, una donna ancora forte abbastanza da affrontare implacabilmente tutto ciò che disapprovava, ancora abbastanza perspicace da giudicare l'adulazione per quel tanto di meschino che valeva e sufficientemente ricca di amici per potersi permettere di scegliere quelli
che preferiva. «Max» esclamò inaspettatamente «dovete aver passato la quarantina. Io ho più di settant'anni. Se avessimo tutti e due trent'anni di meno (e sarebbe l'unica soluzione per rendere appena appena sopportabile questa sgradevole esibizione) manderei Lisa a chiamare un tassì per spedirvi a domicilio. Non è possibile essere così maleducati in casa d'altri! Ora potete andare. In settimana mi farete riavere le quattro casse dei quadri di mio marito, senza riaprirle.» Fustian, in piedi, guardava la vecchia signora. «Volete davvero fare questa gaffe colossale?» Belle rise. «Sciocco e fatuo ometto che non siete altro» fece. «Andatevene subito e rimandatemi i quadri. E non vi comportate come se aveste di fronte il pubblico del Lyceum.» Max fece un passo indietro. Era livido e le sue palpebre sbattevano minacciosamente. «Devo avvisarvi che state facendo un grosso errore. Toglierci le sue opere è un passo gravissimo.» «Oh, benedett'uomo!» esclamò Belle esasperata. «Se Johnnie fosse qui, preferisco non pensare quale sarebbe la vostra sorte. Ricordo quella volta che è venuto un tale. Si è comportato in un modo vergognoso, né più né meno come voi quest'oggi. Poi Johnnie e McNeil Whistler lo hanno buttato nel canale. Se non ve ne andate immediatamente faccio chiamare Rennie in modo che la scena si ripeta.» Max batté in ritirata. Ma attraversata metà della stanza si fermò e si voltò: «Ve lo domando per l'ultima volta signora» fece. «Posso portare i quadri all'estero?» «No.» «Nulla potrà smuovervi dalla vostra decisione?» «Nulla» replicò Belle. «Dopo la mia morte potrete fare quel che vorrete.» La frase fu pronunciata con enfasi, e Campion, giungendo in quel momento, ne comprese tutto il valore mentre saliva le scale. Affrettato il passo per conoscere a chi fossero state rivolte quelle parole, il giovane si trovò faccia a faccia con Max, il quale usciva dal salotto, il volto sfigurato da un'espressione d'ira irrefrenabile. 19 La matassa si sbroglia
«Mio caro, sto invecchiando.» Belle era ritta davanti a un piccolo specchio ovale con la cornice di fiori bianchi in porcellana di Dresda appeso sopra la consolle dorata fra le due finestre. Si accomodava, parlando, la cuffia bianca, mentre il rumore dell'auto di Fustian si perdeva in lontananza. In realtà, la signora Lafcadio appariva più giovane di ' quanto non fosse sembrata negli ultimi giorni. La scenata di poco prima aveva risvegliato in lei l'ardore di un tempo, e vi era una traccia de L'adorata Belle del Louvre nel sorriso che rivolse a Campion. «Mi piacciono queste cuffie» osservò. «Hanno un'aria così pulita, non è vero? Che pettegolo è mai quell'uomo, mio caro! Mi ha parlato come se io fossi un rudere che vive della carità parrocchiale.» Albert si mostrò preoccupato. «Sono certo che vi sarete comportata come una vera signora.» «Tutt'altro» replicò la vecchia con aria soddisfatta. «Mi sono liberata di quell'uomo completamente e irrevocabilmente. Johnnie e io avevamo la regola di non adattarci mai a sopportare le persone che ci erano antipatiche e non ho intenzione di tradire l'abitudine di una vita intera. Ho privato il signor Fustian di ogni ingerenza negli affari di John Lafcadio. Gli ho detto che se vuole portare all'estero i quadri rimasti, dovrà passare sul mio cadavere.» «Oh, povero me!» fece Campion. Belle rise, ma Linda, che non aveva aperto bocca dopo la partenza di Fustian, lo osservò con aria pensosa. La nonna sedette. «Ora voglio il mio tè» fece. «Suona il campanello, cara.» Cinque minuti dopo, mentre sedevano tutti intorno al tavolo sorseggiando il tè versato nelle famose tazze di porcellana craquelée la sensazione di catastrofe imminente che aveva riafferrato Campion nel salire le scale, gli si presentò alla mente con piena chiarezza. Max in salotto, Max a un ricevimento, o nella sua galleria, poteva apparire un poseur ridicolo ed esagerato; ma c'era un altro Max, ancora sconosciuto a tutti, che, stando ai fatti, non era tipo da lasciarsi offendere impunemente. Insomma, quella non fu una riunione molto serena. Belle era eccitata e soddisfatta di sé; Linda era immersa in un silenzio inspiegabile; donna Beatrice, offesa, si era rifiutata di lasciare la propria camera; e Lisa si aggirava, servendo il tè, come un fantasma. Fra l'altro, in quel salotto la presenza di John Lafcadio era tuttora viva.
Se era stato dimenticato nella burrasca che aveva gettato la sua casa nello scompiglio, non appena le acque si erano calmate, aveva riacquistato tutta l'importanza di un tempo. E, per la prima volta in vita sua, Campion si sentì vagamente irritato da questo fantasma arrogante e pieno di prepotenza. La sua presenza dava un'atmosfera di fiducia e protezione a ciò che la circondava, ma, naturalmente, questa atmosfera non aveva nulla di genuino. Nei pericoli dello spirito e dove ci fossero trabocchetti mentali, la memoria di John Lafcadio poteva infondere coraggio ai suoi familiari ma, in un'aggressione materiale, com'era prevedibile, sarebbe stata di ben poco aiuto. L'arrivo di Matt D'Urfey fu un diversivo gradito. Il giovane si affacciò all'uscio con aria di rimprovero. «Ero relegato nel tuo studio» fece a Linda. «Non sapevo che si stesse prendendo il tè, qui.» «Mio caro» esclamò Belle, affrettandosi a circondarlo di premure smaccate «entrate e accomodatevi, Linda, mia cara, non ti sei occupata di luì come si doveva!» Osservando il nuovo arrivato, Campion scoprì di provare una gran simpatia per quella creatura ingenua e cordiale che giudicava il mondo uno strano tipo di ricevimento nel quale lui era capitato per caso. D'Urfey sedette vicino a Linda e accettò la tazza di tè che Lisa gli servì come se fosse stato il suo diritto, un po' da bambino o cucciolo che è stato trascurato e di cui ci si è finalmente ricordati. Nemmeno ora, però, la ragazza si mostrò loquace. Fissava il fuoco, con un gomito appoggiato sulle ginocchia. A un tratto si alzò. «Quando hai finito di bere il tè, Matt» disse «torna nel mio studio. Devo parlarti.» Presa una sigaretta da una scatola posata sul tavolo, l'accese e si diresse verso la sua camera con un cenno e un sorriso a Belle. D'Urfey si trattenne a bere il tè, senza affrettarsi, ma senza dilungarsi inutilmente; poi restituita gentilmente la tazza a Lisa, si alzò rivolgendo un sorriso alla signora Lafcadio e se ne andò. «Adesso devo andare a parlare con Linda» disse, e si dileguò. Belle lo seguì con gli occhi. «Come assomiglia a Will Fitzsimmons prima che si facesse una certa fama» disse. «È stato il successo a rovinare quel poveruomo. Ha cominciato a pensare solo ai soldi e, alla fine, è morto di depressione.» Campion fece una smorfia. «Che bella prospettiva per D'Urfey!»
La vecchia signora scrollò il capo. «Non credo. Avete visto i suoi lavori?» «Linda gli vuol bene?» domandò Campion. «Molto, credo.» Belle pareva contenta. «Vivranno insieme una vita disordinata e felice, e dopo tutto è questa la cosa principale. Sarebbe stata infelice con Dacre. È così raro che l'amore significhi felicità.» Albert stava ancora riflettendo su questo sviluppo inaspettato della tragedia, quando riapparve Linda. Nella sua voce risuonava una nota di decisione autoritaria che il giovane non vi aveva mai udito. «Albert» fece. «Ti spiacerebbe salire un momento?» «Qualcosa che non va?» «Dio santo, no! Perché? Vorrei mostrarti certi disegni.» Il tono, per quanto la ragazza si sforzasse di renderlo indifferente, non era naturale. Belle rispose con un cenno alla muta domanda che Campion le rivolgeva. «Andate, mio caro» fece. «Non verrò con voi. Ormai i quadri mi stancano. Alla fine, è quello che succede a tutte le mogli dei pittori.» Linda condusse l'investigatore nello studio dove questi l'aveva veduta il giorno della tragica mostra. La stanza era nel medesimo ordine di quella volta e, entratovi, il ricordo della signora Potter si presentò vividamente a Campion. Matt D'Urfey sedeva sul davanzale con le mani in tasca; gli occhi d'un azzurro maiolica avevano un'espressione intelligente ma distaccata. Linda si rivolse a lui. «È meglio mostrarglielo subito» disse. «Ma, certo» rispose il giovanotto. Nonostante le sue parole, D'Urfey sembrava volersi mantenere assolutamente neutrale. La curiosità di Campion si era risvegliata. «Di che si tratta?» domandò. Linda, avvicinatasi al famoso armadio, che in famiglia passava per il ricettacolo di tutto quello che si era perso per casa, ne tolse un pacco avvolto in robusta carta marrone. Posatolo sul tavolo e scostata una collezione di pennelli, barattoli di vernice, boccette di colore e strani rotoli di cotone oltre a varie altre cianfrusaglie, la ragazza si accinse ad aprirlo. Albert, di sopra la spalla di lei, guardava. Quando il rotolo fu spiegato, ci vide il disegno a matita, molto accurato, di una figura di donna con una camicetta lacera, un paniere fra le braccia, e
sul volto una strana espressione fra l'orrore e la curiosità. A parte il fatto che la modella che aveva posato era senza dubbio la signora Potter, Campion non notò nulla di speciale nello schizzo, che gli parve assai ben eseguito. Alzati gli occhi, vide che Linda lo osservava. «Non ci vedi niente?» gli domandò. «No» rispose l'altro. «Niente di speciale, cioè. Cos e? Uno studio per un quadro a olio?» La ragazza sospirò. «Aspetta un momento.» Nuove ricerche nell'armadio portarono alla luce un vecchio numero di una rivista d'arte, "The Gallery". Voltando le pagine con impazienza, Linda trovò finalmente l'illustrazione che cercava. Questa riproduceva a pagina piena un quadro a olio, raffigurante una crocifissione con la folla in abiti moderni. In primo piano si vedeva la donna del disegno, completata. Non ci volle molto nemmeno a Campion, per dilettante che fosse, a riconoscerla. Linda voltò pagina, mostrando al giovane la didascalia dell'illustrazione: Riproduciamo qui il settimo dei quadri postumi di Lafcadio, esposto a Londra lo scorso aprile. Questo lavoro, forse il meno notevole della serie lasciataci dall'artista, è tuttavia all'altezza delle ultime opere del brillante pittore. Il quadro è stato acquistato dalla Fondazione Warley per la Galleria di Easton. «Capisci ora cosa intendo dire?» Campion riprese il disegno in mano. «È di tuo nonno questo schizzo? Credevo che tutte le sue opere fossero state raccolte insieme.» «Infatti» replicò Linda. «Ma siediti. Durante il mio ultimo viaggio mi sono fermata a Parigi. Sai già che non sono riuscita a trovare nessun lavoro di Tommy. Qualcuno aveva girato prima di me, accaparrandosi ogni cosa. Ma mentre ero a Parigi, mi venne l'idea che quel poveretto avesse regalato qualche schizzo al vecchio D'Epernon, padrone di un orribile caffeuccio a Montparnasse. Sono andata a trovarlo. D'Epernon fa anche l'affittacamere, e Tommy stava da lui ogni volta che si fermava a Parigi.» Campion assentì per farle capire che la seguiva con attenzione e lei si affrettò a continuare. «D'Epernon non possedeva nessun disegno, ma certi vinai che abitano di fronte a lui si mostravano più compiacenti, e mi ripescarono questo. Pare
che avessero una figlia che Tommy corteggiava e alla quale aveva regalato lo schizzo per ricordo. Io l'ho comprato e l'ho portato qui. Adesso capisci dove voglio arrivare?» Campion provava la sensazione sgradevole di chi sa di apparire molto stupido. «Come mai questo disegno è finito nella mani di Dacre?» domandò. «Glielo avevi dato tu?» Linda afferrò la rivista. «Non sei molto intelligente» fece. «Guarda qui. Questo quadro, il settimo della serie postuma del nonno, fu tolto dall'imballaggio solennemente nella Galleria Salmon l'anno scorso, la vigilia della mostra domenicale. Nessuno poteva averlo toccato né averne rotto i suggelli prima di quel giorno. Ora Tommy, già sei mesi prima, aveva detto addio alla figlia del vinaio, che poco dopo si era sposata ed era andata a vivere a Aix col marito che fa il fornaio o qualcosa del genere. I genitori di lei mi hanno assicurato che quello schizzo era in mano loro da un anno e mezzo.» «Già» fece Campion, che cominciava a intuire la verità. «Ma dove si va a finire?» «Vedrai» rispose Linda amaramente. «Guarda la carta su cui è disegnato lo schizzo.» E alzò un momento il foglio contro luce. «Vedi la filigrana? E carta Whatman, leggermente ruvida. Questo tipo di carta non è stato messo sul mercato che sette anni fa. Mi ricordo di averlo visto per la prima volta quando studiavo all'Accademia.» «Dal che si può dedurre» interloquì D'Urfey dal davanzale «che è impossibile che sia stato papà Lafcadio a fare quel disegno.» Campion aggrottò la fronte. «Sei sicura che Dacre non possa avere visto il quadro prima dell'apertura ufficiale della cassa?» «E che l'abbia copiato? Non credo. I quadri sono custoditi gelosamente nella cantina di Salmon. Max li ha sempre circondati di mistero. Oh, Albert, non capisci a cosa voglio arrivare?» Albert la osservò con dolcezza. «Vuoi forse suggerire, suppongo» disse con calma «che è stato Dacre a dipingere il quadro.» «Lo dichiaro senz'altro» replicò Linda. Albert si alzò lentamente. Il suo volto era assolutamente inespressivo. Si era messo a guardare il canale e qualcosa di molto distante, in mezzo alla foschia, sulla riva opposta. «Se è vero» disse finalmente «si spiegano... molte cose.»
Linda lanciò un'occhiata all'investigatore e fece per aprir bocca, ma, pentendosi, tacque, giocherellando col disegno. Campion si distolse dai suoi pensieri. «È una storia piuttosto pericolosa, vero?» fece, tentando di mostrarsi disinvolto. «Cioè, non ne parlerei troppo in giro perché potresti cacciarti in un sacco di guai. Probabilmente tutto questo avrà una spiegazione innocentissima.» «Non credo.» «Ma, mia cara, come puoi esserne tanto sicura?» Campion, di proposito, le rivolse questa domanda in tono secco. «Ti ripeto che, se fossi in te, non aprirei bocca.» La ragazza lo fissò freddamente. «Starei zitta... come lo sono stata per due o tre settimane... se non mi sembrasse arrivato il momento di parlare. Vedi, Albert, sono assolutamente sicura che la settima tela, quella acquistata lo scorso anno dalla Fondazione Warley, è stata dipinta da Tommy e sono pronta a scommettere che, se ci sono ancora dei quadri nelle cantine della Galleria Salmon, almeno tre di essi sono opere sue.» «Mia cara, non si devono dire delle cose simili, senza una base sicura» osservò Campion. Era strabiliato. Matt D'Urfey, che aveva rinunciato ad ascoltare la conversazione e stava trafficando con alcuni disegni di Linda in un angolo, adesso interloquì di nuovo perché ne aveva un valido motivo: «Gli hai parlato di Lisa?» Albert si voltò di scatto. «Cosa nascondete voi due?» chiese. «Credetemi, a questo punto è un gioco pericoloso.» Linda lo guardò. «E così ci sei arrivato anche tu, vero? Io l'ho capito solo questo pomeriggio, ed ecco perché ho deciso di parlarti. Non vogliamo che Max se la prenda con la nonna, vero?» L'ultima frase della giovane fu così inaspettata e così rispondente ai pensieri di Campion, che questi per un momento ammutolì. Poi afferrò la ragazza per un braccio. «Cosa ne sai tu di questa faccenda?» chiese deciso. «Cos e questa storia di Lisa? Quella donna gravita sul nostro dramma come una miccia accesa. Non si sa dove finirà per esplodere.» «Lisa non presenta problemi» ribatté Linda tranquillamente. «È una creatura molto semplice, ecco tutto. La gente non capisce che ha una forma mentis diversa dalla nostra. Non ha mai avuto l'occasione di cambiarla. Era
una vera contadina quando è venuta qui. Non fa apposta ad apparire misteriosa: è che non sa cosa sia importante e cosa non lo sia. Quando sono tornata da Parigi l'ho fatta venir qui una sera e l'ho aiutata a ricordarsi di tante cose. Fra l'altro me ne ha detta una che spiega tutto. Questa: non è vero che il nonno abbia lasciato dodici quadri: ne ha lasciati solo otto. Lisa lo sa perché ha aiutato lei a metterli nelle casse e a chiuderle con i sigilli.» Campion, tolti gli occhiali, li pulì. Un enorme nodo della matassa si stava sciogliendo lentamente. «È stato difficilissimo farla parlare» continuò Linda. «Dovetti farle un'infinità di domande. Ma, da quanto ho capito, le cose sono andate così. L'anno prima che morisse il nonno, e cioè nel 1911, Belle stette malissimo. Aveva delle febbri reumatiche, e quando fu un poco migliorata, andò a rimettersi del tutto a Sanremo, in compagnia dei Gillimotts. Lui era poeta e lei dipingeva, se non sbaglio. Vi si trattenne sei mesi, e fu in questo periodo che il nonno imballò i quadri e organizzò il suo progetto. Fu così che Belle non vide tutte le tele. Claire, invece, le aveva vedute tutte, curiosando secondo il suo solito. Potter non c'era, forse dava lezioni in Scozia in quel periodo, e la casa era affidata a Lisa. Il nonno tenne segreta l'intera faccenda. Tutti pensavano che si comportasse in quel modo un po' strano per via dell'età mentre aveva delle ottime ragioni per agire così.» Linda s'interruppe. «C'è un punto che devi capire» riprese dopo un po'. «Forse ti riuscirà difficile crederlo mentre ti giuro che io lo trovo logico e naturale. Bisogna ricordarsi che il motivo principale che spinse il nonno a organizzare la cosa fu quello di prendere in giro Charles Tanqueray. Lafcadio lo odiava, e lasciò quella serie di quadri unicamente per scoraggiarlo. Per questo occorreva lasciarne molti. Voleva dar l'impressione al suo rivale di rimanere sulla cresta dell'onda per tanto tempo, ma non aveva che otto quadri disponibili, sui quali mise l'etichetta con la data d'apertura della mostra, 1924, 1925 e così via. Le ultime quattro casse erano dei puri e semplici trucchi. Lisa mi ha detto che le sembra che in una vi fosse un vassoio da cucina, e in un'altra il cartellone pubblicitario di una marca di birra. Sai, era il tipo di umorismo vittoriano, quello. Non che il nonno fosse pazzo... era proprio fatto così... una specie di buffone.» «Lisa mi ha raccontato tutto questo con molta serietà» continuò la ragazza. «Pare che abbia promesso al padrone di non parlare, ma non ha mai capito perché lui ridesse tanto mentre chiudevano le casse. Dice che era allegrissimo quando ebbero finito, e che bevvero insieme un'intera bottiglia di
Lafitte.» «Ma il trucco doveva per forza saltar fuori» osservò Campion. «Si capisce» ribatté Linda con impazienza. «Ma non aveva importanza. Vedi, Albert, Tanqueray era il più giovane dei due pittori, e al nonno è venuta l'idea che l'odiato rivale non aspettasse che la sua morte per mettersi in luce come l'unico glorioso artista dell'epoca. Così gli diede dieci anni di tempo per sfogarsi, ma con l'irritante certezza che dopo quel termine Lafcadio sarebbe tornato a galla, grazie a uno scherzo spettacoloso che l'avrebbe tenuto in vista del pubblico non per un solo anno, ma per dodici. Il fatto di non avere che otto quadri disponibili, e di non sentirsi in grado di farne altri (per quanto dipingesse ritratti fino all'ultimo giorno della sua vita), lo obbligò a truccare le ultime quattro casse. Forse pensava che dodici anni sarebbero bastati perché anche il suo rivale morisse. Il realtà il vecchio Tanqueray non visse nemmeno tanto da vedere il primo quadro della serie. Mi hai seguito fin qui?» Campion annuì. La matassa si andava sbrogliando. «Dunque» riprese Linda «il seguito è una specie di intuizione da parte mia, ma calza a pennello. Anni fa qualcuno, e credo ci sia poco da dubitare sull'identità di costui, sbirciò nelle casse, scoprendo il trucco. Del resto, quanto all'autenticità di un quadro, basta un'idea preconcetta per vincere mezza battaglia. Se il falso è abbastanza buono, è straordinario come anche i più competenti vengano ingannati. Qui tutto era pronto. Tutti sapevano che i quadri di Lafcadio erano dodici; tutti erano certi di dover vedere dodici quadri di Lafcadio. Anche se uno di questi era molto meno valido degli altri, come poteva venire in mente che non fosse di sua mano? Valeva sempre il suo prezzo. La reputazione di Lafcadio ormai era solida.» «Infatti» ribatte Albert, che trovava questa spiegazione assai chiarificatrice. «Quattro anni fa, prima di andare a Roma, Tommy si prese una stranissima vacanza e Matt te ne può fornire i particolari.» Scomparve completamente per dieci mesi circa. Nessuno ne ebbe notizie: nessuno lo vide. A quell'epoca stava tentando di fare il ritrattista, più o meno alla maniera di Lafcadio. Riapparso dopo la lunga assenza, Dacre abbandonò a un tratto la pittura a olio, recandosi a Roma a studiare il procedimento della tempera. «Ha vinto il Prix de Provence, non è vero?» interloquì Campion. «No. Ecco il punto. Ha vinto l'altro premio, quello della Fondazione Chesterfield, e Max faceva parte della giuria quell'anno.»
Campion rimase in silenzio per un attimo, riordinando mentalmente tutte queste notizie. «Dov'era la signora Potter durante la misteriosa assenza di Dacre?» domandò. «Sei più furbo di quanto credessi» fece Linda senza scortesia. «Strano a dirsi, quell'assenza corrisponde esattamente all'unico periodo fortunato che Claire abbia passato in vita sua. Quella poveretta infatti aveva ricevuto l'incarico di girare l'Europa centrale in cerca di antichità; così rimase all'estero per dieci mesi. Non ho mai saputo se abbia portato indietro qualcosa da là. Si sapeva che continuava a spostarsi da un posto all'altro, e quindi nessuno le scriveva, né si riceveva posta da lei. Naturalmente l'incarico le era stato dato da Max. Dunque, capisci, Claire era al corrente della falsificazione dei quadri, il che spiega... tutto.» «E l'ultima tela?» domandò Campion. «La Giovanna d'Arco?» «Oh, quella è autentica. È stato furbo Max, vero, a mescolare il quadro falso con gli altri? L'anno scorso l'opera esposta ha fatto nascere molte critiche e così questa volta ne ha tirata fuori una genuina.» «Ma senti un po'» protestò Campion, sempre turbato per il lato artistico della faccenda. «Un conoscitore dovrebbe pur notare la differenza! Intanto, i colori; e poi, perbacco, il genio dell'artista! Quello non si può fingere!» «Parli da dilettante» replicò la ragazza. «Non fidarti troppo dei conoscitori. Sono esseri umani. Del resto per Claire era facilissimo impadronirsi dei colori segreti di Lafcadio. Chiedeva sempre a Rennie tubetti di tinta. Quanto al genio non c'entra. Ti ho già detto che il settimo quadro è stato molto criticato, ma a nessuno è venuto in mente di dubitare della sua autenticità. Non era poi tanto brutto. Anzi, in sé era una bella cosa. Si poteva pensare senza difficoltà che fosse stato il nonno a dipingerlo. Non faceva sempre dei capolavori, sai?» «La questione della tecnica è la più difficile da risolvere. Bisognava copiare pari pari quella di Lafcadio. Temo proprio che Tommy lo abbia fatto, e dietro pagamento. Comunque, era già per conto suo un imitatore del nonno. E particolarmente abile nella pittura a olio. Insomma, non vedo perché non avrebbe potuto farlo. Anzi sono sicura che l'abbia fatto.» «Questo spiegherebbe...» cominciò Campion. «Questo spiega senz'altro» corresse Linda. «Intanto si capisce l'abbandono della pittura a olio da parte di Dacre. Doveva rientrare nei patti. Se in avvenire fosse sorto un dubbio sull'autenticità della Crocifissione, e degli altri tre quadri, per prima cosa tutti avrebbero cercato di scoprire chi fosse l'autore dei falsi. E se fosse risultato che esisteva un pittore, molto legato a
Max, e che dipingeva in una maniera molto simile a quella di Lafcadio, la risposta sarebbe stata estremamente facile, non è vero? Così Tommy ha dovuto abbandonare la pittura a olio. Questo non lo perdonerò mai a Max.» «Vi sarebbero altre cose più gravi da perdonargli.» La ragazza arrossì. «È vero» fece. «Non ho ancora digerito l'intera faccenda. La spiegazione completa del dramma mi è venuta in mente solo oggi, durante la discussione fra Max e Belle. Ecco perché ho deciso di parlare con te. Non credevo che lo sapessi già. Bisogna agire prima che Max se la prenda con la nonna. Non bisogna dimenticare che ha ancora quattro quadri: tre falsi e uno buono. Lui sa che l'unica opportunità per darli via, e possono valere fino a diecimila sterline l'uno, è di portarli all'estero, prima che il chiasso destato dai delitti sia calmato. È una buona pubblicità questa.» Campion si riscosse. «Bisogna tenere la bocca chiusa» fece. «Questa è la cosa principale. Una sola parola, e l'assassino ci sfugge, se non succede di peggio.» «Puoi fidarti di me» replicò Linda. «E D'Urfey?» Linda lanciò uno sguardo pieno di affetto alla figura simpatica, vestita di blu. «Non gli verrebbe mai in mente di parlarne» rispose. «Tra l'altro, è troppo pigro.» «Niente affatto, vero» interloquì D'Urfey con dignità. «Solo che non sono affari miei, ecco.» «Farai qualcosa, Albert? Non hai visto il volto di Max mentre usciva dal salotto, ma io sì. Sembrava pazzo.» Ma Campion lo aveva veduto, e si era già fatto un'opinione in proposito: e proprio per questo andò dal suo amico ispettore. 20 Una bella casetta «Già, già» fece Oates, dando un calcio alla stufa che, malgrado scoppiettasse allegramente, non riusciva a rendere meno gelido il suo piccolo e squallido ufficio. «Così la storia è completa. Sappiamo quasi tutto. Ma non possiamo fare assolutamente nulla!» Campion appariva eccitato come il poliziotto non lo aveva mai veduto.
Sedeva nella poltrona in cui di solito prendeva posto la persona in visita, al centro di un tappeto quadrato e alquanto liso, il cappello posato sul pavimento al suo fianco, le mani intrecciate sul pomo del bastone. «Non si può abbandonare tutto così, Stanislaus» disse con calore. «Quell'uomo è una continua minaccia.» Oates si stropicciò i baffetti. «Mio caro, non credere che io non mi interessi alla cosa» fece. «Anzi. Siamo tutti interessatissimi, qui. Non facciamo che una riunione dietro l'altra su questo caso. Le tue informazioni danno l'ultimo tocco a una storia affascinante. Ma non posso prometterti di entrare immediatamente in azione perché non c'è l'ombra di una prova concreta in tutto il tuo racconto. È inutile che te lo faccia notare: lo sai meglio di me.» Campion tacque un momento. In cuor suo, era già pienamente convinto che la risposta sarebbe stata quella ma non riusciva a liberarsi dalla crescente convinzione che la faccenda fosse urgente. «Sarebbe un grosso guaio per tutti se scoppiasse oggi uno scandalo a proposito di un falso Lafcadio» disse. «Ma se questo servisse a metter sotto chiave quel delinquente, confesso che non esiterei.» «Santo cielo!» esclamò Oates con impazienza «ma se è la prima cosa che mi è venuta in mente! Tuttavia ricordati che l'unica, tenue prova che abbiamo in proposito è il disegno di Dacre su quella carta di produzione così recente. Ma, tutto sommato, a cosa si riduce? A niente. Ora basta che Fustian confessi di aver permesso al giovane di vedere i quadri, ed ecco distrutta la nostra accusa. L'assassino risulta soltanto colpevole di una piccola indiscrezione, niente di più. Non basta, Campion. Nessuno più di me, ha voglia di eseguire un arresto. Mi assillano da tutte le parti per ottenerlo. Ma un errore adesso, e lo perdiamo per sempre. Bisogna esser prudenti. Dobbiamo aspettare.» Campion si alzò. «Sento che il caso è urgente» ripeté, ostinato. «Anch'io.» L'ispettore gli si affiancò. «Non puoi persuadere la vecchia signora a partire, oppure ad accondiscendere alle sue richieste? Intanto lo teniamo d'occhio. Al minimo atto illegale (si tratti anche di una contravvenzione alle regole del traffico), lo acciuffiamo. E qualora si azzardasse a tentare qualcosa di grosso contro chiunque, stavolta non saremo impreparati e lo acciufferemo.» Oates esitò, aggrottando la fronte. «Se la signora Lafcadio riesce a farsi rendere quelle casse, probabilmente risulterà che tre di esse contengono sempre la roba senza valore che vi aveva messo il marito. Ma, se per caso Fustian fosse così sciocco da mandarle i tre falsi, e lei
riuscisse a dimostrare che son tali, forse potrebbe intentargli un processo. Comunque, ho l'impressione che questo procedimento sarebbe pericoloso. Come credo di averti già detto, quando un uomo di quell'età commette un delitto, significa che qualcosa non funziona più a dovere negli ingranaggi della sua macchina mentale e chissà quando, e come, si fermerà. Ma questo lo sai anche tu; anzi, probabilmente è il motivo per il quale sei venuto da me oggi.» «Infatti» disse Campion serio. Il poliziotto tornò alla scrivania. «Ripensandoci» fece «credo che l'unica via per attaccare Max sia attraverso i quadri. Ci sono ancora una o due domande rimaste senza risposta. La prima è perché Fustian abbia ucciso Dacre solo ora e non prima che partisse per l'estero... per me, qui c'è odore di ricatto. La seconda, perché ci sia andata di mezzo anche la signora Potter.» «Temo che non lo sapremo mai» disse Albert. «Ma importa poco. Mi sembra chiaro che, mentre Dacre lavorava per Max, la disgraziata deve essere vissuta con lui in veste di serva, di modella e di guardiana. Ma se Fustian l'ha uccisa perché sapeva che era lui l'assassino di Tommy, o perché aveva minacciato di rivelare la falsificazione dei quadri, non credo che potremo mai più saperlo. Personalmente, propendo per la prima versione. Mi trovo in un vicolo cieco, Stanislaus. La caccia all'uomo non è il mio métier, è un lavoro adatto alla polizia. Al momento sono certo che se l'assassino farà un altro attentato, riuscito o fallito che sia, lo acciufferai, ma io mi trovo in una situazione diversa dalla tua. Voglio impedirgli addirittura di farlo, quell'attentato.» «Allora concentrati sui quadri» ribatté Stanislaus. «Concentrati su Dacre. A proposito: ricordi quella ragazza Rosini, moglie di Tommy? Subito dopo il primo delitto ho incaricato la polizia di Saffron Hill di tener d'occhio quella gente e di avvertirmi se succedeva qualcosa di diverso dal solito. Non avevo nessun motivo particolare di farlo, sai? Solo una questione di ordinaria amministrazione. Preferiamo tener d'occhio tutti quelli che sono coinvolti, sia pur alla lontana, con un caso di omicidio. Confesso che me ne ero completamente dimenticato quando stamattina ho saputo che frequenta uno strano giro di gente, e che li porta in campagna a passar la domenica. Il rapporto che mi hanno fatto gli agenti dice: "Destinazione presunta delle gite, una proprietà che la vedova Dacre ha ereditato dal marito". Certo, non c'è nulla di straordinario in questo» proseguì il poliziotto «tanto che dapprima non me ne avevano nemmeno parlato, ma l'ultima
domenica deve essere accaduto una parapiglia, perché gli amici sono tornati in città in condizioni tali da far credere di aver preso parte a una vera battaglia. Queste sono tutte le informazioni che posso darti. Possedeva qualcosa Dacre?» «Che io sappia, no» rispose Campion. Poi afferrò il cappello. «Vado a cercare Rosa-Rosa» fece. «Nessuna obiezione, immagino?» «Cerca di avere tatto... è superfluo che te lo dica. E non ti agitare. Quell'uomo viene sorvegliato passo per passo. Spero che non arriverà a prendersela con la vecchia signora, ma in tal caso lo acciufferemo.» Sulla soglia Campion si fermò. «Stanislaus» disse «credi che, sapendo quello che sai adesso, avresti avuto anche solo una opportunità su diecimila di salvare la signora Potter?» L'ispettore Oates era un onest'uomo. Si strinse nelle spalle. «Forse no. Certo che il metodo usato era molto ingegnoso!» «Sembra una caratteristica di Max Fustian, l'ingegnosità» fu il commento di Campion, che se ne andò sconfortato. Il giorno stesso, alle sei del pomeriggio si mise in cerca di Rosa-Rosa. Per ovvie ragioni, non voleva recarsi nel negozio di gastronomia dello zio della modella a Saffron Hill, ma tuttavia aveva un'idea abbastanza precisa del luogo in cui avrebbe potuto trovarla: un pub fra i più caratteristici di Londra, chiamato Robespierre, in Charlotte Street. Infatti, nella sala semivuota, il gruppo più numeroso di clienti era quello che circondava Rosa-Rosa seduta su un divano mezzo sfondato nella saletta interna, nell'angolo vicino al fuoco. Si trattava di un crocchio di quattro giovani, fra i quali Campion riconobbe i tratti duri di Derak Fayre, il caricaturista, i cui disegni crudelmente ironici e, a volte, vagamente osceni apparivano ogni tanto sulle riviste intellettuali. Gli altri tre erano sconosciuti ad Albert, per quanto ricordasse vagamente di aver veduto uno di loro, un tipo effeminato, recitare in uno spettacolo domenicale. L'ometto paffuto con la barbetta a punta e gli occhiali di vera tartaruga era uno straniero come il giovanotto italiano, seduto alla sinistra della signora Dacre, e che le teneva la mano. Rosa-Rosa non era per niente cambiata. Era senza cappello, e i suoi lineamenti non avevano la minima espressione. I capelli biondi le coprivano la testa in ondulazioni piatte simili a quelli delle figure dei bassorilievi. Il problema che preoccupava Campion, e cioè la maniera di introdursi in quel circolo, venne risolto istantaneamente. Mentre esitava, col bicchiere in mano, la modella lo vide.
«Oh!» esclamò. «Vi ho conosciuto quando hanno assassinato mio marito! Venite a sedervi qui con noi!» Questo saluto, pronunciato ad altissima voce, suscitò un certo scalpore nella sala. Gli avventori si voltarono a osservare la donna con curiosità, ma la cameriera grassoccia ed energica che li serviva non batté ciglio. Evidentemente la tragedia coniugale di Rosa-Rosa non le era nuova. Uno dei quattro uomini, il giovanotto paffuto, fece posto a Campion, che si infilò alla destra della modella con un bicchiere di birra in mano, spingendo quasi nel camino le gambe della sua seggiola. Dopo le parole con cui l'aveva accolto Rosa-Rosa, ogni presentazione pareva superflua. La conversazione riprese. «Mio zio mi condurrà da un avvocato» disse la giovane donna. «Quando ci porteranno in tribunale, faremo il diavolo a quattro. Gliela farò vedere io a quel mascalzone!» «Cosa farai, Rosa-Rosa?» domandò Fayre con un sorriso. C'era quasi una punta di malizia nella sua voce, come se volesse provocarla e spingerla a procedere con quella scenata. «Ecco quello che farò.» Con uno di quei cambiamenti improvvisi che le erano caratteristici, Rosa-Rosa, elettrizzata e sempre più scatenata, si esibì nel suo solito giochetto, un gesto, e una pantomima indescrivibilmente volgare, resa ancora più vivace dal contrasto con la sua immobilità naturale. Campion rimase un po' sconcertato. Era evidente che la scarsa conoscenza che Rosa-Rosa aveva dell'inglese non costituiva un ostacolo alle sue capacità espressive. «Sei sconcia, stupidella!» esclamò Fayre ridendo «Mi piacerebbe vedertelo fare più spesso.» «Continua con la tua storia» commentò il giovanotto barbuto in tono stanco e rassegnato. «Suppongo che saremo obbligati ad ascoltarla.» Rosa-Rosa gli mostrò una lingua lunga e sottile, poi fece un cenno al barista. Quando il problema delle nuove ordinazioni fu risolto, il ragazzo italiano le allungò un garbato scappellotto. «La villa è tua, no?» domandò. «Me l'ha data mio marito, quello che hanno assassinato» dichiarò. «Prima di partire dall'Italia mi ha detto che era mia.» «Amavi tuo marito, eh?» fece Fayre sorridendo. Di nuovo Rosa-Rosa mutò espressione all'improvviso. Si rannicchiò su se stessa, tanto da sembrare il simbolo della desolazione. Allargò le braccia e rimase immobile, il mento sul petto. «Lo amavo» dichiarò.
Era uno spettacolo stranissimo, e piuttosto spiacevole. Fayre lanciò un'occhiata all'investigatore. «Straordinario, eh?» disse. «Fa così ogni volta. Avanti, Rosa-Rosa. Non ho nulla di chiaro in mente, tranne che il marito che amavi ti ha lasciato quella villetta in eredità. E tu ci sei andata qualche volta con degli amici chiassosi. E l'ultima gita, la seconda o la terza?, è stata interrotta dai vicini indignati, che hanno detto che la casa era stata data loro in custodia dal vero padrone. Tuo zio si sta procurando un avvocato coi fiocchi e quando ti troverai davanti il vero padrone, ecco quello che farai...» Imitò il gesto di Rosa-Rosa e si alzò in piedi. «Devo andare» aggiunse. «Ho incontrato mia moglie oggi e ha detto che forse veniva a casa. Dovesse esserci al mio ritorno, tornerò con lei.» «Quello si illude» disse l'uomo con le basette non appena il caricaturista fu abbastanza lontano da non sentirlo. «Parla sempre così per far colpo sul prossimo o è convinto di quello che dice?» «Eva l'ha sposato e lo ha lasciato» intervenne il giovane paffuto con aria languida. «E non mi pare che abbia molta importanza quello che lui fa o pensa. Dunque, Rosa-Rosa, hai finito o dobbiamo sentirne ancora su questa lagna della tua proprietà rurale?» La signora Dacre lo occhieggiava con aria imbronciata. Poi sorrise e cominciò a bestemmiare nel crudo linguaggio di Salfron Hill. Il giovane paffuto la guardò indignato. «Che orrore» esclamò. «Antipatica. Cattiva bambina. Sudiciona. Se continui così ti butteranno fuori. Mi sembra che la situazione sia semplicissima. Prova la validità del testamento, e la casa è tua.» «Mio marito non ha lasciato testamento» replicò la modella. «Lo hanno assassinato.» «Oh, cielo, lo sappiamo!» esclamò l'attore. «Ma se non ha lasciato testamento, la casa probabilmente non è tua. Cosa importa? Vieni a stare a King's Cross. È molto più centrale e quasi altrettanto poco igienico.» Rosa-Rosa parve scandalizzata. «Quando un marito muore, tutto quello che possiede appartiene alla vedova» fece. «La casa è mia. Mio marito e io volevamo andare ad abitarci, ma lui è stato assassinato.» «Non mi pare che ci sia da vantarsi di una faccenda del genere» osservò il giovane paffuto. «Come?» «Dico che non dimostra una grande intelligenza essere la moglie di un tizio che è stato assassinato. A meno che non sia stata tu, naturalmente. A proposito, chi è stato?»
Rosa-Rosa gli descrisse il suo alibi. Campion intuì che faceva parte anche questo di quella esibizione a cui la costringevano immancabilmente i suoi compagni. Però la sua curiosità a proposito della misteriosa villa si era svegliata ormai. «Dov'è questa casa?» domandò. «A Heronhoe. Quando avrò parlato con l'avvocato di mio zio, ci verrete anche voi a fare una gita.» «Non andateci» fece il giovanotto inagrissimo che era attore. «Si trova in una località sperduta lontana chilometri e chilometri dal mondo civile; e poi i vicini ti crivellano di sassi. Guardate un po' l'occhio di questo disgraziato.» «È nel Sussex?» fece Campion tirando a indovinare. Rispose il ragazzo italiano: «No. È nell'Essex. Vicino a Halstead. Ho condotto io mia cugina laggiù con degli amici. Ci siamo andati varie volte. Ma sabato scorso abbiamo trovato tutto chiuso. La gente del villaggio non ci ha lasciati entrare. Dicevano che il proprietario abitava a Londra.» «Incredibile» fece Campion in tono incoraggiante. «Infatti» riprese il ragazzo, alla faccia del quale l'occhio nero dava un'aria assurdamente solenne. «Avevamo freddo e, con noi, c'era abbondanza di liquori. C'era stata una bella lotta. I giovanotti s'arrabbiavano, le ragazze gridavano, e i contadini ci hanno caricato con i bastoni, aizzando i cani. Poi siamo venuti via. Forse avevano ragione loro. Forse la casa non è di Rosa-Rosa.» La modella aveva ascoltato questo resoconto con la testa protesa fra i due uomini. Ogni linea del suo corpo angoloso rivelava un grande interesse. Adesso intervenne con veemenza: «È mia! Mio marito me ne ha dato una fotografia quando eravamo ancora in Italia.» «Un'istantanea» spiegò il cugino. «Sul retro c'era scritto l'indirizzo; fu così che ritrovammo la villetta. Era ammobiliata, ma non c'era nessuno, e così siamo entrati, scassinando la porta.» «Un modo di agire stupidissimo, se non eravate sicuri che la casa appartenesse a Rosa-Rosa» commentò il giovanotto con la barba che pareva annoiato da morire. Ma Rosa-Rosa si voltò verso di lui inviperita. «Niente affatto» esclamò. «È mia perché ci sono dentro tanti lavori di mio marito. Era un grande pittore. Se non lo avessero assassinato saremmo diventati molto ricchi. Me l'ha detto quando è morto. Dovevamo andare a stare nella villetta, dove lui avrebbe dipinto quattro quadri come gli altri.»
«Quali altri?» domandò il giovanotto con le basette. La ragazza alzò le spalle. «Non so. Mi ha detto così.» Campion trasse un profondo respiro. «Siete sicura che sono disegni di suo marito... quelli che si trovano nella villa?» «Oh, sì, sono di mio marito. Ce n'è un mucchio... alto così. Due armadi pieni.» «Heronhoe.» Albert non pronunciò la parola ad alta voce ma gli era rimasta impressa in modo indelebile nel cervello. «Tanti auguri, signora Dacre» fece. «Lei non tornerà nella villetta per un po' di tempo, vero?» «Ci tornerà quando avrà parlato con l'avvocato» interloquì il cugino. I suoi occhi, intanto, si erano soffermati su una ragazza dai capelli rossi, seduta a poca distanza; adesso, però, riportò la sua attenzione sull'argomento che, evidentemente, costituiva il soggetto più importante della conversazione nella famiglia Rosini. «Così, dopo, potremo tornar giù a vedercela con quei ragazzotti di campagna. Bali! È stata una baruffa coi fiocchi. Lancio di bottiglie e tutto il resto. E neanche uno sbirro per chilometri tutt'intorno. Quando poi scopriremo chi è quel poveraccio che dice di essere il proprietario, ci si picchierà ancora con più gusto.» Campion diede un'occhiata al cielo nuvoloso oltre la finestra. E si alzò. Attraverso le speranze e la paura che gli si affollavano nella mente, lo raggiunse la voce strascicata di Rosa-Rosa: «È una bella casetta.» 21 Un giorno in campagna Non era tanto il pensiero di essere sul punto di compiere un furto con scasso a turbare Campion mentre guidava la sua vecchia auto nei tortuosi sentieri campestri di quella parte dell'Essex che è quasi Suffolk, quanto il problema di individuare la casa. Trovato Heronhoe sulla carta, restava da sapere il nome della villetta e quello del proprietario, due cose abbastanza difficili da scoprire. Proprio per questo aveva preferito arrivare in piena luce e aveva dominato l'impulso di partire subito dopo aver ascoltato la storia di Rosa-Rosa. Partito alle sei di mattina da Londra, alle dieci era nel villaggio dopo aver smarrito la strada più di una volta. La strada principale, linda e simpatica anche se di modestissima importanza, aveva quel tanto di pittoresco che la faceva assomigliare alla mes-
sinscena di una commedia musicale e appariva animata e vivace sotto il bel sole primaverile. L'aria era limpida ma frizzante. Soffiava un venticello fresco e, sui castagni, le gemme erano tumide, gonfie, pronte ad aprirsi. Insomma era proprio una splendida giornata per un crimine come quello che Campion stava per commettere. Si fermò davanti al Leone Bianco, una costruzione grande e dalla forma irregolare che occupava più di quanto per giustizia le spettasse del lato sud della strada; e ottenne se non altro di essere accolto nella sala riservata ai commessi viaggiatori. Wm. Pudney, a dar retta alla insegna sopra la porta, aveva ottenuto dal governo di Sua Maestà la licenza di servire vini e liquori e di vendere tabacchi oltreché, per consuetudine veneranda, anche i pasti ai clienti di passaggio, eppure quella mattina, alle dieci, pareva poco disposto a fare una qualsiasi di queste cose per il giovanotto pallido e biondo al volante di quell'automobile dall'ardita sagoma sportiva. Campion non trovò particolarmente simpatico il signor Pudney. Era piuttosto giovane, magrolino, con la faccia rosea e uno di quegli accenti, nel parlare, che rivelano subito sia ben precise ambizioni di farsi passare per quello che non si è sia l'assoluta incapacità di realizzarle. «Mia mamma» si decise a dire il signor Pudney «vi troverà nella dispensa qualcosa da mangiare. Potete accomodarvi nella sala dei commessi viaggiatori.» Lo precedette in una specie di museo degli orrori alla destra del bar. Il locale aveva un vago odore di birra ma puzzava fortemente di tovaglie di tela cerata. Quanto all'arredamento si accordava, come pareva abbastanza logico, con tale atmosfera ma l'effetto generale era deprimente, soprattutto per l'aggiunta di qualche tocco di cattivo gusto in più come le tendine di pizzo, i numerosi ingrandimenti di fotografie che rappresentavano le fasi precedenti del ménage dei Pudney, i mobiletti in mogano scadente e i gingilli di vetro colorato. Campion intuì subito che fra i commessi viaggiatori e il signor Pudney mancava una vera e propria armonia di vedute. Quindi, senza por tempo in mezzo, passò al problema che lo interessava. «Passa molta gente di qui?» domandò con aria innocente, iniziando a mangiare le uova al prosciutto servitegli dalla madre dell'oste. «Niente automobilisti» disse il padrone in tono sdegnoso. «Ci teniamo poco agli automobilisti che ci rovinano la nostra bella campagna.»
Per difendersi Campion lasciò cadere nel discorso l'informazione che lui stava andando a Ipswich a trovare il padre. «È nel clero» aggiunse, per dare una piacevole nota di colore a quella fandonia. «Davvero?» Il signor Pudney mostrò subito un rispetto sorprendente. «Vi credevo un rappresentante di commercio. Perdonatemi. Ma abbiamo talmente tante persone da queste parti che prendono ordini per questo e per quello che la gente del posto si demoralizza.» Campion accettò di buon grado le scuse e il signor Pudney diventò ciarliero. «Abbiamo un circolo ciclistico l'estate. Gente per bene. E l'inverno c'è la caccia. Ma non tolleriamo i soliti gitanti che vengono da Londra. I ragazzi del villaggio aizzano addirittura i cani contro quella mala genìa.» Intanto Campion non poteva lasciarsi sfuggire la riflessione che non ci poteva essere per Rosa-Rosa posto meno adatto di Heronhoe dove passare il fine settimana. «Davvero? È successa realmente una cosa simile?» L'oste lanciò un'occhiata al cliente. «Per esempio mi hanno detto che c'è stata una gran gazzarra a Spendpenny sabato scorso» disse. «Cos'è Spendpenny? Una casa?» «Oh, no davvero.» Il disprezzo dell'oste era totale. «È un tugurio sudicio, una catapecchia. Certa gente è venuta giù e si è comportata in un modo abominevole. I custodi, che vivono nel villino adiacente, non hanno potuto far niente, così, per il sabato successivo hanno chiamato a raccolta un po' di uomini del villaggio e hanno fatto baruffa.» «Dov'è quest'orrendo posto?» domandò Campion. «Giù per Pope's Lane. Quel sentierino qui a sinistra che attraversa il villaggio. La casa ha sempre avuto una cattiva fama. In passato apparteneva a un pittore, e un pittore ha bisogno di modelle, capite?» «Naturalmente» replicò Albert in tono saggio e, pagato il conto, si avviò in macchina lungo Pope's Lane. La villetta Spendpenny si trovava a ottocento metri dal villaggio, in fondo a un sentiero incassato fra due argini sui quali crescevano frassini e arbusti di sambuco. Era una casa pittoresca, con il tetto a gobba, e i muri di legno che una volta dovevano esser stati incatramati, ma che ora, dopo trent'anni di esposizione a intemperie di tutti i generi, si erano fatti di un verde vellutato. Non vi erano altre case lì intorno. Il giardino abbandonato era disseminato degli avanzi anneriti delle erbacce dell'anno prima. Albert fu certo di esser giunto alla mèta del suo viaggio. Il cancello era
sfondato, e dov'era rimasto scheggiato di recente il legno spiccava più chiaro sulla patina verde-grigio della superficie. Si vedeva che il luogo era abbandonato, anche se c'erano delle misere tendine alle finestre, ma sul sentiero che conduceva all'uscio l'erbaccia era stata schiacciata da qualcuno che era passato da poco. Si soffermò un attimo a contemplare la villetta. La sua figura alta e dinoccolata gettava un'ombra lunga e sottile sul terreno, sotto la luce vivida di un tiepido sole. Inoltrandosi nel giardino, Campion si fermò di botto. La porta si era aperta con rumore. Per un attimo chi l'aveva spalancata dal di dentro rimase nascosto nell'ombra. Poi uscì sulla soglia consunta. «Mio caro amico!» esclamò Max Fustian. «Che bella sorpresa!» L'immediato pensiero che balenò a Campion non avrebbe potuto essere più tipico del suo carattere. Gli venne in mente che un'emozione come quella della pura e autentica sorpresa era una cosa rara e quando capitava di provarla faceva dimenticare tutto il resto, annullandolo. Ma evidentemente non era quello il momento di dedicarsi alla introspezione. Max gli veniva incontro. Max in abito sportivo, con le mani sudice e pezzi di ragnatela fra i capelli, appariva ancora più stravagante di quando si presentava in cappello nero e panciotto a colori sgargianti. «Com'è gentile da parte vostra esser venuto a trovarmi!» fece. «Entrate pure! La casa è in uno stato deplorevole di sporcizia, e temo non vi sia nulla da bere, ma almeno una sedia c'è.» «Siete voi il proprietario?» domandò Campion con una certa sfacciataggine perché non aveva ancora aperto bocca. «Ma sì, ho questo privilegio» rispose Max in tono spensierato, guidando l'ospite nella stanza principale della casa, una sala dal soffitto basso, pavimentata a mattoni, poco ammobiliata, e incredibilmente polverosa. Molti dei mobili erano sfasciati e c'era in giro un considerevole numero di bottiglie di birra vuote. «Cercavo una villetta da prendere in affitto» disse Albert, senza sperare di venir creduto, e senza tenerci molto, in fondo. «Mi hanno detto al villaggio che questa era disponibile, e sono venuto a visitarla.» «Giusto» ribatté Fustian con aria felice. «Sedetevi, prego.» A quanto sembrava, era soddisfattissimo di sé, e il visitatore ebbe l'impressione che il suo arrivo improvviso non gli avesse procurato il minimo fastidio. Campion provò un senso di scoraggiamento. Guardando Max si
domandò cosa mai potesse avere in mente quell'uomo. In quel momento scopriva che niente come l'aspetto di Max era più lontano da quella che è l'immagine dell'assassino qualche settimana dopo il suo delitto secondo la mentalità popolare, eppure si accorgeva di provare lo spiacevole convincimento che se avesse detto di punto in bianco "Statemi un po' a sentire, Fustian: avete ucciso Dacre e la signora Potter, vero?", Max avrebbe sorriso, rispondendo disinvolto: "Sì. lo so. Ma, caro amico, cosa potete farci voi? Pensate ad altro". Una situazione impossibile. Max, intanto, aveva tirato fuori una scatola di sigarette gialle di Cipro e, quando Campion lo pregò di lasciargli fumare uno dei suoi soliti Virginia, si strinse nelle spalle, rammaricato, e ne accese una per sé. «Non so se questa casa vi possa andar bene» riprese. «È molto lontana dall'abitato e manca totalmente di impianti sanitari. Ma visitatela pure. Guardate in ogni buco, in ogni angolo.» Campion alzò gli occhi senza muovere la testa, per un attimo gli parve che Max stesse per tradirsi: ma il sorriso scherzoso era scomparso dal volto di Fustian che era tornato a essere il solito personaggio pomposo e pieno di sé. «Tengo questa villetta per prestarla agli artisti» fece. «È così solitaria che quei poveracci non possono far a meno di lavorare. C'è una lavanderia là dentro che ho trasformato in uno studio. Venite. C'è un'unica stanza al pianterreno, oltre la cucina. Che tana, mio caro, che tana!» Dirigendosi per primo su per la scaletta, Max condusse Campion nelle due stanze superiori. Qui il disordine era incredibile, e Fustian rabbrividì. «Ho avuto degli ospiti sgraditi» spiegò. «Ho prestato la casa a Dacre qualche anno fa, e quella terribile Rosa-Rosa si è immaginata che il marito ne fosse il proprietario. A ogni modo ho sentito dai Raven, i bravi fittavoli che tengono d'occhio la villetta per conto mio, che ci era venuto qualcuno e, quando sono arrivato, mi sono sentito dire che "la signora Dacre era arrivata a prenderne possesso". Ha portato qui con sé la peggior genìa di pseudo-artisti di Clerkenwell.» Ridiscesi, i due uomini attraversarono la cucina, ed entrarono nello studio. L'ampia lavanderia era stata trasformata molto semplicemente: il pavimento di mattoni e il grande camino erano rimasti intatti; un finestrone aperto fra le tegole e una piattaforma in legno in fondo alla stanza erano le uniche aggiunte apparenti. Due grandi armadi ai due lati del camino, spalancati, mostravano l'inter-
no completamente vuoto. «Carino, eh?» La voce strascicata scosse Campion che fissava gli armadi. «Molto» annuì. «E non freddo» riprese l'altro inaspettatamente. «Anzi. Guardate il camino.» Gli occhi del giovane seguirono il gesto di Fustian, e si soffermarono a osservare qualcosa che significava per lui la rovina di ogni speranza. L'intero vano del camino era pieno di ceneri svolazzanti e di carta annerita, ancora calda a quanto si poteva dedurne dal tepore che ne veniva nella stanza. «Avete bruciato qualcosa?» domandò Campion. Gli sguardi dei due si incontrarono. Max sembrava felice. «Tutto» rispose. Poi abbassando la voce fino a ridurla un mormorio fra il serio e lo spavaldo: «Ho bruciato tutti i miei peccati, caro amico.» Poi, riprendendo il suo solito tono di voce, aggiunse: «Cinque scellini alla settimana. Si pagano ai Raven. Spero che non brontolerete, caro figliolo. Se vi mettete a dipingere, ve la do in prestito. Adesso datemi un passaggio fino alla casetta dei Raven in fondo al viottolo. È lì che ho lasciato la mia auto e sono venuto a piedi per i campi.» E Campion se ne andò a testa bassa. Mentre sulla strada la macchina nuova di Max volava verso Londra, Albert la seguiva a distanza, guidando la sua vecchia Bentley con saggezza e prudenza. Intanto rifletteva. L'ultimo briciolo di prove che avrebbe potuto condurre all'arresto di Fustian, era andato distrutto, forse meno di un'ora prima del suo arrivo. Non solo, ma lui aveva accettato di affittare una catapecchia. La giornata era finita con la completa vittoria di Max. Ma quella sera, Campion ricevette dal suo avversario un biglietto che gli parve incredibilmente ingenuo. Diceva che sarebbe stato carino incontrarsi un giorno o l'altro per andare a bere qualcosa insieme. 22 L'invito «Ho detto e ripetuto a Belle, signor Campion, che deve ricomporre la sua coscienza superiore mettendosi in armonia con l'Universo Cosmico; solo così la sua aura tornerà all'azzurro e al rosa naturale e tutto si sisteme-
rà.» Donna Beatrice, pronunciata questa straordinaria confessione di imbecillità, si accomodò meglio nella poltrona di broccato davanti alla finestra della camera da letto di Belle e sorrise. Con il viso alzato verso il sole, come se volesse piazzarsi su una posizione pari alla sua, quanto a dar conforto al genere umano. Belle era seduta sul suo letto, con uno scialle sulle spalle e una cuffia inamidata in testa. La coperta era cosparsa di lettere. Campion, seduto vicino al letto, scosse il capo vedendo le gote arrossate e gli occhi troppo lustri dell'ammalata. «Dormite un po'» fece. «Mandate via i visitatori e rifiutate definitivamente di riceverli. Lavatevi le mani dell'intera faccenda. Dimenticatela!» Belle gli gettò uno sguardo irato. «Non parlate così anche voi, Albert!» esclamò. «Non voglio rimanere a letto. Cos'è un po' di febbre? Non me ne preoccupavo mai da ragazza. Voglio andare da Fustian a riprendere quei quadri. Non voglio essere trattata come una vecchia rincitrullita da un piccolo impertinente che meriterebbe di essere sculacciato.» «Non posso più restare in una stanza dove c'è quest'aura» mormorò donna Beatrice. «Mi sento soffocare.» E fece la sua dignitosa uscita, sospirando profondamente appena prima di richiudere la porta. «Grazie a Dio, se ne è andata» disse la signora Lafcadio in tono truculento. «Quella donna è una sciocca.» «Perché non ve ne liberate?» fu la logica domanda di Campion. «Per sempre?» «Sì, mandatela via subito. Dev'essere estenuante vivere con una donna dalle... credenze soprannaturali... di quel genere.» «Oh, no! Non potrei.» Per un attimo fu come se, a parlare, fosse la Belle di un tempo. «È vecchia, poveretta. Questa è la sua vita. Johnnie le ha dato un falso concetto di sé e da allora ha tentato erroneamente di vivere cercando di esserne all'altezza. Quando stava per morire, mi ha detto: "Belle adorata, pensa tu per me a quella povera stupida di Beatrice. Era talmente incantevole una volta!". No, non devo mandarla via però sono contenta quando se ne va dalla stanza. E adesso, Albert, dovete dire a tutti che io sto benissimo e di preparare la vettura, così andremo in Bond Street a prendere quelle tele. Johnnie non avrebbe avuto un attimo di esitazione.» «No, Belle, questo... non potete farlo.» Campion era imbarazzato. «Sentite, lasciate che se ne occupi un avvocato, e intanto dormite un po-
co. Se no, vi uccidete.» «Frottole» disse la signora Lafcadio. «Se Johnnie fosse qui, saremmo andati insieme a prenderle. Dopo averle vendute per quel che se ne poteva ricavare, saremmo partiti per Capri e ci saremmo rimasti fino a quando i soldi non fossero stati spesi tutti. Io me ne sarei stata distesa al sole ad ascoltarlo raccontare tutta la storia, magari, aggiungendo qualcosa per renderla migliore.» Rimase in silenzio per qualche attimo e poi scoppiò a ridere. «I vecchi ridiventano bambini. Adesso che sono vecchia, capisco come tutto è differente. Ma quando vado in collera, me ne dimentico. E ora, Albert, consigliatemi voi. Che devo fare?» Riadagiato sui cuscini, il volto della vecchia signora perse via via il suo colorito acceso, e si fece pallido ed esausto. «Non posso lasciar tutto in mano all'avvocato» fece in tono lamentoso «perché lui mi consiglia di abbandonare ogni pretesa. Capite, la faccenda è molto complicata. John immaginava che avrei trattato sempre con il vecchio Salmon, che era un tesoro, e così non si è occupato gran che del lato legale del suo progetto. Ora, esaminandolo per bene, s'è visto che Max e io siamo corresponsabili dei quadri. Lui non può far nulla senza il mio consenso, né io senza il suo. È così seccante!» «Siete ancora in collera con Max?» La signora Lafcadio rimase in silenzio per un istante mentre le sue labbra avevano un fremito e gli occhi si facevano di nuovo cupi. «Sì, certo» disse. «Sono ancora molto, molto in collera. Assolutamente.» «Cosa pensate di fare?» «Non so. Non lo so affatto. Se porta i quadri all'estero, gli dovrò far causa, suppongo; una cosa lunga e noiosa.» «Volete dunque soltanto che tutto vada avanti come prima?» domandò Campion. «Cioè che i quadri rimangano in Inghilterra e che ogni anno si faccia la mostra secondo i desideri di John Lafcadio è così?» «Appunto.» Belle annuì con vigore. «Albert caro, pensateci voi. Parlate voi con Max. Fategli fare quello che gli chiedo. Non voglio più vedere la sua brutta faccia; vi do pieni poteri per agire al mio posto. Pensateci voi. Linda non è solo inutile, è dannosa. Figuratevi che mi consiglia di cedere in tutto.» Stando così le cose, la missione era parecchio delicata e Campion non poteva fare a meno di rendersene conto. Fra i cuori generosi è molto diffuso l'ottimistico convincimento che l'es-
sere umano medio, non appena viene a conoscenza dei guai o dei pericoli di un suo simile, si affretta a farsene carico non solo senza la minima esitazione, ma con gioia. Resta comunque il fatto che la gente la quale dice a se stessa "Qui si corre un pericolo serio e credo che farò meglio ad affrontarlo io piuttosto di questa povera creatura che ho di fronte" si può dividere all'ingrosso in tre gruppi. Ci sono i parenti che spinti dalla necessità di accollarsi una simile croce un po' dall'affetto e un po' dal senso del dovere, compiono sacrifici che hanno dell'incredibile. Poi ci sono quelli un po' eroi un po' ficcanaso, che in un momento di debolezza si buttano a capofitto nel pericolo come se si trattasse dell'elisir di lunga vita. E infine c'è quel piccolo numero di mortali che sono mossi un po' dalla compassione e un po' da un incredibile orrore di vedere la tragedia che si verifica sotto i loro occhi, i quali agiscono più che altro per il desiderio di risolvere il problema, sistemare ogni cosa e farla finita. Campion apparteneva a quest'ultima categoria. «Va bene» disse. «Va bene, ci penso io.» «Oh, caro, grazie tante. Posso dunque dormire tranquilla e sapere che tutto andrà a posto e i quadri rimarranno in Inghilterra?» Albert annuì. Adesso che aveva preso la decisione, si sentiva più sereno. Poi si alzò. «Dormite pure tranquilla. Mi occupo io di tutto. Forse mi ci vorrà un paio di giorni; dunque non vi preoccupate se tarderò.» «Ma certo.» Belle era stanchissima eppure nei suoi occhi passò un guizzo divertito. «È un piccolo essere immondo, vero?» disse in tono seducente. «Ho il sospetto che lo sottovalutiate.» «Davvero? Oh, ne ho piacere. Non mi garbava pensare di aver suscitato tutto questo scompiglio per niente soprattutto dopo le cose terribili che sono accadute qui, in casa.» Campion era già sulla porta quando lei lo richiamò indietro. «Avete letto la sua deposizione in tribunale, ieri, per il caso Stoddart? È stato convocato come esperto per la difesa, sapete?» Sì, Campion l'aveva letta, pareva che l'avessero fatto tutti a Londra, ma le lasciò ripetere la storia. «Il pubblico ministero ha detto: "Signor Fustian, a quanto ho capito, siete stato chiamato qui a dare il vostro giudizio dal collegio della difesa"» riprese la fievole voce dal letto. «E quel buffo omuncolo ha sorriso e ha det-
to: "Ho paura che mi sottovalutiate, sir James. Sono stato chiamato come giudice". Secondo me, è pazzo. Cosa ne dite?» «È più che probabile. Arrivederci Belle» fece Campion. «Dormite bene.» Sedette a lungo davanti al proprio telefono, riflettendo, prima di decidersi a chiamare Fustian. Era passata un'intera settimana dalla gita a Spendpenny, e non aveva ancora risposto al biglietto ricevuto da Max quel giorno stesso. Per fortuna il mercante era alla galleria, e Albert dopo aver dato il proprio nome a uno dei dipendenti e aver atteso per un tempo considerevole, riconobbe subito la sua famosa voce che, al telefono, sembrava ancora più dolce e armoniosa. «Caro amico, che piacere. Cosa posso fare per voi?» Campion riferì il messaggio di Belle in tutta semplicità e senza scuse. L'altro tacque finché il giovane non ebbe terminato. Poi si udì una risatina affettata. «Mio caro» disse Fustian «dunque vi volete proprio immischiare in questa storia? Non vi pare che la cosa non riguardi che gli esperti in materia?» «Non so proprio cosa dirvi» ribatté Campion prudentemente. «So soltanto che ho avuto l'incarico dalla signora Lafcadio di persuadervi a tenere i quadri in Inghilterra.» «Che deliziosa sciocchina» sospirò la voce melliflua. «Suppongo che nella vostra nuova veste d'ambasciatore anche voi assumerete lo stesso atteggiamento risoluto della sua mandataria, vero?» «Infatti» replicò Albert, aggiungendo con decisione eccessiva: «Dovrete passare sul mio cadavere.» «Che uomo coscienzioso! Dobbiamo vederci.» «Magari.» «Benissimo. Troviamoci domani al ricevimento della Società Cellini. Là combineremo.» «Quale Società Cellini?» domandò Campion. «Ma sì... al cocktail party che danno in onore della nuova biografia scritta da lady du Vallon. Urquhart ha fatto le illustrazioni, e la casa editrice White Hart l'ha stampata magnificamente. Non avete ricevuto l'invito? Ve ne mando uno subito. Io ci andrò alle sei e mezzo circa.» «Benissimo» fece Campion, soggiungendo con voluta chiarezza: «A proposito, Fustian, non preoccupatevi per quel disegno di Dacre. Sapete, la Testa di ragazzo. Ne ho un altro.»
«Davvero?» Ora la voce di Max era di una cautela evidente. Campion insistette: «Già. Una cosetta molto interessante. Uno studio per un quadro grande a olio. C'è lo schizzo dell'insieme in un angolo del foglio. Una Crocifissione. Ho riconosciuto subito la mano di Dacre.» «Mi piacerebbe vederlo.» «Lo vedrete senz'altro. Arrivederci a domani.» 23 Una sera fuori, a divertirsi Campion lasciò l'ispettore, dirigendosi verso Brook Street dove aveva luogo il ricevimento di cui aveva parlato Fustian. Quando vi giunse la festa era al colmo, il chiasso spaventoso. Infatti fu un domestico affranto quello che lo precedette per la scalinata di marmo dalla balaustra in ferro battuto e lo catapultò nel salone dalla boiserie verde, il soffitto decorato e i lumi in stile giorgiano alle pareti. Lady du Vallon, una donnetta agile, con uno sguardo tagliente, e i riccioli color rame, correva qua e là nel suo abito di un color foglia morta, stringendo la mano agli invitati. Campion, accettato un Martini dry al buffet, si guardò attorno in cerca di Max. Pareva che non ci fosse ancora, e mentre Albert cercava un angolo in cui sistemarsi ad aspettarlo, vide sir Gervaise Pelly, lo studioso di Cellini, fermo a pochi passi da un gruppo di famosi attori. Il grand'uomo sembrava preoccupato, ma vedendo una faccia nota, gli occhi gli si ravvivarono, e i due si andarono incontro. «Sono in un brutto pasticcio» bofonchiò avvicinandosi. «Guardate.» Socchiuse una mano, tenuta con finta indifferenza lungo il fianco, e Campion scorse un fazzoletto nel quale era avvolto un mucchietto di pezzi di vetro. «Era il piattino del gelato» sussurrò. «Non so cosa farne.» «Cacciatelo in tasca a qualcuno» Campion gli consigliò per venirgli in aiuto. Sir Gervaise si guardò in giro depresso. «Non vedo che donne» osservò. In conclusione fu Campion che gli tolse di mano il fazzoletto e lo consegnò a uno dei camerieri del bar in cambio di un paio di cocktail. Così sbarazzatosi di quel fastidio, Gervaise riprese il suo solito modo di fare truculento. «Non conosco nessuno» fece offendendo senza volere le celebrità che gli stavano accanto. «Non c'è la solita gente della Società
Cellini. È tutto diverso. Vorrei però vedere una copia del libro. Andiamo?» Campion si scusò, informandolo di avere un appuntamento con Fustian, notizia che parve cancellare ogni traccia dell'interesse dimostratogli fino a quel momento da sir Gervaise. Rimasto di nuovo solo, Campion notò vari conoscenti fra la folla; ma non si mosse per salutarli, concentrato come era nel pensiero del prossimo colloquio. Il chiasso e le chiacchiere continuavano febbrili intorno a lui. Pareva che nessuno, però, accennasse al libro tanto che non seppe mai quale titolo avesse, pur notando che erano presenti due editori e un critico dall'aria alquanto depressa. A un tratto vide Rosa-Rosa stretta al braccio di un famosissimo pittore, noto per la sua malignità quanto per le sue opere. Questi si trascinava dietro la ragazza come se si fosse trattato di un animale domestico piccolo e raro e la gente la guardava come se lo fosse veramente. La modella, senza vedere Campion, gli passò vicino con gli occhi spalancati, eccentrica nei suoi abiti vistosi. La carica di energia, vivacità e puro e semplice fascino personale dei presenti, raccolti in quella sala, non mancò di colpire Campion una volta di più. Intanto si scopriva ad attendere Max pressa poco nello stesso stato d'animo di chi aspetta un treno per una destinazione sconosciuta, con qualche dubbio, e una certa impazienza. C'era troppo gin nel tuo cocktail, pensò, e fece la riflessione che era un difetto comune dei barman non professionisti che, evidentemente, avevano paura di sembrare economi. Era già molto tardi, ma per quanto qualcuno dei visitatori cominciasse a uscire, il flusso dei nuovi arrivati era molto maggiore, tanto che la ressa andava progressivamente aumentando. Finalmente entrò anche Max, fermandosi a discorrere col cameriere nel corridoio, in modo da fare il proprio ingresso da solo, e non confuso in un gruppo di altra gente. Si fermò un attimo sulla soglia. Molti si voltarono a guardarlo, e per un momento in quella parte della sala vi fu un silenzio, che se non voleva esprimere il rispetto, tuttavia dimostrava un interesse e una curiosità momentanei. Che fosse un tipo pittoresco era innegabile. Campion, appostato nel vano di una finestra da dove vedeva la porta d'ingresso, ebbe dunque modo di osservare il proprio avversario. Questi indossava un abito grigio da pomeriggio un po' chiaro per la stagione, e un panciotto nuovo, molto appariscente. La stoffa di seta scozzese, con i colori dei Macdonald, per quanto un po' sbiadita, era sempre alle-
gra e vivace; e bottoni di onice completavano l'insieme. Il viso abbronzato, i capelli lunghi e il portamento vivace lo salvavano forse dal sembrare un avventuriero comune. Lady du Vallon, riconoscendolo, gli andò incontro tutta agitata, e Max, soddisfatto dell'impressione suscitata, si preparò a godersela fino in fondo. La conversazione dei due non aveva nulla di privato, e Campion tese l'orecchio, come tutti quelli che si trovavano lì intorno. «Com'è gentile da parte vostra essere venuto!» esclamò la biografa, permettendogli senza imbarazzo di baciarle la mano. «Non c'è di che, mia cara Erica.» Max con un gesto orgoglioso parve allontanare da sé ogni gratitudine, aggiungendo con l'aria di chi annuncia una sorpresa gradita: «Ho letto il libro!» «Davvero? Oh, signor Fustian, siete davvero troppo buono! Non me l'aspettavo proprio. Spero non ne siate rimasto troppo deluso.» «Affatto.» La voce di Max a furia di essere strascicata si faceva quasi incomprensibile. «L'ho trovato molto buono. Anzi... nobile. Mi congratulo. Perseverando, diventerete un secondo Vasari.» «Vasari? Lo storico? Vi... vi pare possibile?» Per un momento qualcosa che somigliava a una cortese sorpresa apparve negli occhi luccicanti di lady du Vallon. «L'ho detto» replicò Max solennemente. La vanità dell'uomo fu palese come non mai, e qualcuno, credendo che l'esagerazione fosse voluta, rise forte, rimanendo poi imbarazzato nel vedere che nessun altro sorrideva. La signora che sapeva perfettamente di aver scritto la biografia del celebre orafo solo per avere il pretesto di inserire nel libro da cinquanta a sessanta incisioni, parve un poco disorientata; ma non era una donna piena di coraggio. «Ho sempre veduto voi in quelle vesti, signor Fustian» fece, prendendo il toro per le corna. «Un Vasari moderno, voglio dire.» «Io? Oh, no, cara. Non un Vasari» Max sorrise. «Mi vedo piuttosto come un mecenate delle arti... un Medici, diciamo. Un Lorenzo de' Medici.» Rise, e i suoi ascoltatori, imbarazzati, furono ben contenti di unirsi alla sua risata, riprendendo le loro conversazioni più umane e più interessanti. Max chiacchierava ancora con la scrittrice, gesticolando, ma in tono più basso e non declamatorio come prima, quando un giovanotto magro e timido si unì ai due. Era Urquhart, autore delle xilografie; Max era chiaramente molto preoccupato.
Campion osservò il suo piccolo avversario dall'aspetto tanto bizzarro, studiandolo. Era un individuo pettegolo, vestito in modo ridicolo, di una vanità offensiva o comica, secondo l'umore di chi lo considerava, eppure forse nessuno nella sala affollata avrebbe avuto il coraggio di offenderlo di proposito. Per di più era un uomo che aveva ucciso due esseri umani negli ultimi tre mesi; il primo, in un impulso di odio pazzesco; l'altra a sangue freddo, dopo una lunga preparazione. E se l'era cavata impunemente tutte due le volte. A guardarlo sembrava impossibile. Campion, in quel momento, capì che lo avrebbe fatto fuori volentieri. Il maggior deterrente a un delitto privato, fu la sua riflessione, era probabilmente il timore radicato e superstizioso di aver la responsabilità di mettere fine a una vita umana, ma per un uomo pieno di sé in modo intollerabile come Max, un'obiezione simile, in caso di necessità, sarebbe stata rapidamente accantonata. In secondo luogo, un altro deterrente quasi altrettanto forte è la paura di essere scoperto e condannato, ma di nuovo, in questo caso la presunzione e il convincimento della grandezza dei propri poteri può rendere insensibili anche a tale terrore. La terza difficoltà, naturalmente, consisteva nel lato pratico della faccenda. Per quel che riguardava l'omicidio di Dacre, Campion era incline a pensare che la fortuna smaccata con cui aveva potuto essere messo in atto era una di quelle tragiche probabilità i cui risultati sono molto più rari e difficili da ottenere di quanto non si creda. Quel colpo allungato impulsivamente nel buio aveva raggiunto lo scopo prefisso con incredibile facilità e, durante le successive indagini, mai un solo sospetto aveva sfiorato l'assassino. La seconda esibizione di Fustian, d'altro canto, l'omicidio della signora Potter, era stato realizzato con ingegnosità, spietatamente, nel modo più perfetto, ma come Campion si accorse d'un tratto, nei suoi più minuti particolari non si era svolto meno ingegnosamente e raffinatamente di quei mille e mille piccoli intrighi che Max era abituato a realizzare nell'ambito della sua professione. Anzi, un volta che le maggiori obiezioni al delitto erano state superate, al resto occorreva soltanto quella sottigliezza, nonché delicatezza di tocco, di cui Max era dichiaratamente un maestro. Campion aggrottò le sopracciglia. Sapendo di essere la terza vittima designata, l'argomento lo interessava straordinariamente.
Fu allora, vedendo che Max si allontanava dalla scrittrice, che lo raggiunse. Fustian lo accolse con effusione: «Mio caro amico, che ressa insopportabile! Non c'è posto per respirare, per muoversi, per parlare. Perché mai veniamo a queste riunioni di piccoli cervelli!» Intanto i due si facevano largo fra la folla. Campion prese un cocktail, mentre il suo compagno ordinava uno sherry. Max, di ottimo umore, chiacchierava con tutti, salutando con qualche cenno del capo un'infinità di gente; ma Albert ebbe l'impressione che non godesse la simpatia di nessuno. I suoi modi affettati avevano ormai del farsesco e c'era chi gli rideva apertamente in faccia. Era in piedi, col bicchiere in mano e la testa buttata indietro, scrutando la folla e facendo i relativi commenti come se la osservasse al microscopio, quando Bee Birch, la pittrice militante degli atleti, gli si avvicinò con lo sguardo fiammeggiante e una rivista fra le mani. Era lei stessa una figura pittoresca nell'abito color pulce e un assurdo berretto alla marinara piantato saldamente sui morbidi capelli grigi. Le battaglie da lei combattute, a quanto si diceva, erano innumerevoli e la sua abitudine di dire sempre quello che pensava era il terrore delle padrone di casa che la invitavano. Si avventò su Max con la stessa agilità di un cavallo da guerra e gli cacciò la rivista spalancata sotto il naso. «Fustian, siete stato voi a scrivere questo ignobile pezzo che trasuda solo un effeminato snobismo?» Campion, che non poteva muoversi perché si trovava incastrato fra il tavolo del bar e Max, notò che la rivista si chiamava "Vita e Lettere". Quello era il numero più recente e l'articolo in questione era intitolato: Il dozzinale nell'arte. La firma era quella di Max Fustian. E, in più, c'era anche la sua fotografia che lo raffigurava brunissimo e con un'aria quanto mai drammatica. Pareva scontato che ci sarebbe stata una scena spiacevole. Max, però, rimase imperturbabile. «Cara signorina Birch» mormorò «ne sarò lusingatissimo.» Poi, prima che i presenti si accorgessero di quello che stava per fare, deposto il bicchiere e tirata fuori una penna stilografica enorme, d'oro massiccio, mise la sua firma alla foto, completandola con un ampio svolazzo, e le riconsegnò la rivista con un inchino appena accennato. Ammutolita per l'indignazione, la signorina Birch rimase radicata al suolo, dove si trovava, e Max, di conseguenza, poté battere in ritirata senza fretta. Finalmente, preso il braccio di Campion, si avviò giù per le scale. «Bi-
sogna che discorriamo a tavola della nostra faccenda» fece. «Non si può parlare in mezzo a una confusione simile. Non posso nemmeno bere uno sherry, ormai, senza che mi si raccolga una folla intorno.» Albert gettò una rapida occhiata al compagno, ma questi sembrava che parlasse sul serio. «Facciamo prima una capatina a casa mia» continuò. «Detto fra noi, voglio cambiarmi di panciotto. Poi andremo al Savarini, dove ho fissato un tavolo.» Campion non fece nessuna difficoltà. L'investigatore si chiedeva quale sistema avrebbe scelto Max per assassinarlo. Il ristorante Savarini sembrava un posto abbastanza sicuro. L'appartamento del mercante d'arte, in Baker Street, era uno di quegli appartamenti di lusso che si trovano all'ultimo piano dei grandi edifici. La stanza in cui Max condusse il suo ospite, scusandosi per l'assenza del cameriere, era di un'eleganza assai simile a quella della galleria di Bond Street; cioè, mancava poco che non fosse completamente spoglia. Le bellissime pareti di legno erano ornate da un solo Matisse sopra il caminetto, e il colore verde chiaro del tappeto si rifletteva in quello ancora più tenue nel soffitto a volta. Campion sedette in una immensa poltrona vicino al caminetto, mentre l'ospite, fatto scorrere un pannello nel muro, metteva in mostra un piccolo bar. «Se non vi dispiace, mio caro, io continuerò a mantenermi fedele allo sherry» fece Max, armeggiando abilmente in mezzo alle bottiglie. «Ma c'è un ottimo cocktail di mia invenzione. Lo dovete provare.» Campion si sentì un completo imbecille. «No, grazie» rispose. «Ho bevuto tutto il pomeriggio.» «Davvero? Oh, ma cambierete idea, di certo. So che di solito queste bevande fatte in casa valgono poco ma vi assicuro che la mia è magnifica. Però non vi darò la ricetta: la serbo per me, molto... molto gelosamente.» Pronunciando queste ultime parole, Max aveva versato alcune gocce di un liquido poco rassicurante in un piccolo shaker. «Ecco» esclamò un momento dopo, versando il cocktail in un bicchiere, e riempiendone subito un altro di sherry per sé. Campion, sprofondato nella gigantesca poltrona, rifletteva. Le probabilità che Max si azzardasse ad avvelenarlo proprio nel suo appartamento erano scarse, naturalmente; però, data la gravità della situazione, bisognava tener conto anche delle eventualità più impensate. Fustian parlava ancora. Ma Albert notò che la sua voce era meno strasci-
cata del solito, e che invece d'abbandonarsi all'usato languore, chiacchierava con vivacità. «Ora ci vuole la ciliegia» disse. «Questo è l'unico cocktail al mondo di cui la ciliegia sia parte integrale. La troverete squisita. È una ciliegia» insisté Max con aria decisa, e con un'inflessione di voce che risuonò sgradevole alle orecchie dell'ascoltatore «che non somiglia a nessun'altra che voi abbiate mai assaggiato finora... né assaggerete mai più.» Tolto dall'armadietto uno stuzzicadenti con infilato il rosso frutto, Fustian lo lasciò cadere delicatamente nel bicchiere. «Ecco, amico mio» disse, consegnando il tutto a Campion. «Se volete scusarmi, vado a indossare un panciotto meno vistoso.» L'altro rimase solo col bicchiere in mano, quasi incapace di credere alla realtà della scena. Si rimproverava la sua eccessiva impressionabilità e il sospetto che gli faceva vedere dei sottintesi in frasi innocentissime. Tuttavia l'investigatore non bevve, ma, tolto lo stecchino con la ciliegia sempre infilata, annusò con cautela il contenuto del bicchiere. Sembrava normalissimo: di colore un po' strano, forse, ma per il resto assai simile al gin comune che aveva bevuto per tutta la sera. Stava per lasciar ricadere la ciliegia nel liquore, quando una macchiolina bianca sul frutto richiamò la sua attenzione. Posato il bicchiere, la esaminò più attentamente. E il trucco gli si palesò subito. Il buco lasciato dal nocciolo era stato riempito con una crema grigiastra che sembrava ben poco raccomandabile. Campion provò qualcosa di assai simile alla delusione. Tutta quella ridicola messinscena era di un'ingenuità incredibile. Era questo l'uomo che aveva organizzato l'assassinio della signora Potter? Inaudito. Si domandò di quale veleno si trattasse questa volta, e quali sintomi il suo ospite, tornando, si sarebbe aspettato di trovare in lui. Vuotato il bicchiere nel caminetto, ne osservò la fiammata. Certo c'era molto alcol nel cocktail. Quanto alla ciliegia, l'investigatore la ripose accuratamente in una vecchia busta che si mise in tasca. Non era probabile che Max pensasse di far morire l'avversario in casa sua, per scadenti che fossero diventati i suoi metodi. Campion era ancora sorpreso per la puerilità del tentato omicidio, quando gli venne in mente che probabilmente Fustian ignorava fino a che punto lui lo avesse smascherato. Sapeva che l'autenticità del penultimo Lafcadio era messa in dubbio, ma non poteva supporre che la sua responsabilità nei riguardi dei
due delitti fosse stata scoperta. In tal caso il tentato omicidio non era poi tanto ingenuo! L'ingegnosità sarebbe subentrata in un secondo tempo. Per esempio, quando avrebbe dovuto nascondere il cadavere. O forse il veleno era lento. Chissà quali sarebbero state le mosse di Max in seguito? Intanto era chiaro che contava davvero di recarsi al Savarini. Ciò fu evidente non appena comparve sull'uscio. Si era cambiato il panciotto, ma indossava un abito più scuro, e sembrava allegrissimo. «Vi è piaciuto?» domandò prendendo il bicchiere deposto dall'ospite. «Non molto?» soggiunse, mentre l'altro esitava a rispondere. «Non vi piacciono gli amari? A me sì. Ma sono quasi le otto e mezzo. Scusatemi. Dovete essere affamato.» Il Savarini era affollatissimo, come il solito, e, seduti ai tavolini sparsi sotto al famoso soffitto di Du Parc, si trovavano molti degli invitati del Circolo Cellini. Campion riconobbe almeno una dozzina di persone, fra cui il giovane Farquharson, figlio dell'armatore, il quale guardando Albert, e più ancora il suo compagno, alzò le sopracciglia con aria interrogativa. Com'era snob quel bravo figliolo! Quanto a Max, il suo ingresso fu trionfale. Preceduto da Joseph, il solenne e baffuto capo-cameriere, si avviò con aria maestosa fra i tavoli affollati rivolgendo un cenno di saluto a ogni viso che si girava verso di lui. Evidentemente la cena doveva assumere l'importanza di un rito. Una tavola posta nel vano della finestra più lontana era stata riservata per i due uomini, i quali, sedendo sul divano imbottito, potevano godere lo spettacolo dell'intera sala. Joseph in persona sovrintendeva al loro pasto, che, a quanto risultò, era già stato ordinato in anticipo. Campion pensò che forse, dopo tutto, la sua morte non sarebbe avvenuta nel ristorante. Max parlò come conveniva a un ospite perfetto. «Ho preso la precauzione di lasciare al nostro buon maître la scelta dei cibi, caro Campion. Dobbiamo assaggiare del Cantonetti stasera, e per apprezzarlo bisogna berlo con delle vivande adatte. Sarà un pasto da buongustai, il giusto preludio alla nostra discussione sui Lafcadio.» Albert, dichiarandosi entusiasta di assaggiare qualsiasi piatto che Joseph gli avesse servito, si informò al riguardo del Cantonetti. Il nome gli era vagamente familiare ma altro non ricordava. «Il Cantonetti?» Max si mostrò giustamente inorridito. «Mio caro, è la più grande scoperta gastronomica del secolo. Il solo vino che la nostra generazione abbia dato al mondo civilizzato. Evidentemente, in Romania,
che è la sua patria, questo vino è conosciuto da secoli, ma, trasportandolo con i mezzi di una volta, il nettare si sciupava completamente. L'aeroplano, per fortuna, ha cambiato le cose.» Fatto un cenno a Joseph che stava in vigile attesa lì vicino, gli chiese: «È arrivato il Cantonetti?» «Sano e salvo signor Fustian, a bordo dell'aeroplano privato del signor Savarini.» Max espresse con un cenno la propria soddisfatta approvazione. «Portatelo» fece. «Lo berremo con l'omelette.» Mentre Joseph si allontanava velocemente, Campion tentò di ricordare. Nel bagaglio di cognizioni varie riposto in fondo al suo cervello, vi era senza dubbio una notizia riguardante il Cantonetti. Gli pareva si trattasse di un vino rosso, e che esistesse al suo riguardo qualche aneddoto, o comunque qualche fatto strano, e forse comico. Ma dovette smettere di sforzare la sua mente: proprio non riusciva a ricordare. Giunse il pranzo, e Albert concluse che la ciliegia che teneva in tasca doveva contenere un veleno a effetto ritardato; forse qualche veleno estratto dai funghi oppure una coltura di bacilli del botulismo. Vi erano funghi nella omelette, il che gli rafforzò la convinzione che l'ultima sua ipotesi fosse la giusta. Certo, era così: un veleno estratto dai funghi. Quanta ingegnosità, e come era sgradevole! E inoltre, che razza di tradimento nei confronti del povero Savarini! «Vi piacciono i funghi, spero?» domandò l'ospite con una premura senza dubbio eccessiva. Campion decise di stare al gioco: «Moltissimo» fece. E Max parve contento. La frittata era appena servita, che una piccola processione attraversò la sala, dirigendosi verso il tavolino dei due uomini. Joseph veniva avanti per primo, serio e dignitoso, con portamento superbo. Dietro di lui, imitandolo ridicolmente, avanzava un bambino con un vassoio su cui erano posati due bellissimi bicchieri a forma di gigli, con lo stelo lungo e affusolato e l'imboccatura ondulata. Chiudeva la fila il cameriere dei vini, un tipo solenne e contegnoso, con un cesto largo e basso. Nel cesto era adagiata la bottiglia. Joseph conferì la solennità di un rito alla stappatura della bottiglia. Questa era enorme, con i fianchi polverosi avvolti in un tovagliolo grande come un lenzuolo, e appariva così imponente che perfino Max ne fu soddi-
sfatto. «Siete preparato spiritualmente, signor Fustian?» mormorò il capocameriere con un sorriso, versando un poco del liquido vermiglio nel bicchiere del mercante d'arte e riempiendo fino all'orlo quello dell'ospite. «È tutto il giorno che ci prepariamo» fece Max allegramente. «Non è vero, Campion?» Se quattro o cinque cocktail costituivano una preparazione, Albert doveva senz'altro dare ragione al suo anfitrione. Quindi annuì, e Max sollevò il suo bicchiere ormai riempito come l'altro. «Alla vostra salute, mio caro» esclamò. L'altro sorrise. L'augurio non gli pareva dei più opportuni. Annusato l'aroma, i due assaggiarono e bevvero, mentre Joseph rimaneva impalato davanti alla tavola per solennizzare degnamente il momento. Il vino era davvero straordinario. Albert ne rimase stupito. Dopo tanti preparativi temeva una delusione, ma la bevanda sembrava non soltanto scusare, ma rendere legittima tanta cerimonia. Era più corposo dei chiaretti di Bordeaux; più intenso di colore e più abboccato ma senza essere pesante come i Borgogna e, per quanto differisse completamente dall'uno e dall'altro, non pareva tanto insolito di gusto da rovinare il palato. Campion, che conosceva molti vini, da quelli forti di Spagna a quelli orientali dallo strano sapore, non riuscì a trovare un termine di confronto col gusto del Cantonetti. Si trattava davvero di una scoperta. «Straordinario, vero?» Il mercante d'arte si appoggiò allo schienale, con gli occhietti luccicanti di gioia. «Il segreto è di berlo a lunghi sorsi. Non bisogna centellinarlo, ma ingoiarlo da divina bevanda qual è.» Il consiglio sembrava così buono, che Campion lo seguì senz'altro, pensando che il veleno non avrebbe dovuto fare effetto per altre due o tre ore almeno. Il Cantonetti fu messo magnificamente in risalto da una porzione di tournedos, e poi da un piatto assai saporito di fegatini di pollo e animelle; fu soltanto dopo il terzo bicchiere, mentre Joseph sorvegliava la distribuzione di bassi e piatti biscotti secchi e salati con formaggio rosso del Danubio, che Campion notò in sé qualcosa di strano. Il primo sintomo fu la difficoltà che provò in un primo momento a ricordarsi chi fosse Lafcadio, quando Max nominò quel famoso pittore. Cercò di farsi forza. Il Cantonetti evidentemente era molto più forte degli altri vini francesi. Irritato con se stesso, Campion guardò il compagno,
che aveva bevuto molto più di lui. Questi invece era perfettamente in sé, e osservava il mondo con la tolleranza benevola di chi ha cenato bene e con saggezza. L'investigatore s'impappinò a metà di una parola, e quella parte del cervello che è l'ultima a cedere all'alcol o agli anestetici, fu colta da panico. Si chiese se l'avessero drogato col cibo, ma un solo sguardo a Joseph lo rassicurò. Quel monumento di dignità non avrebbe mai accettato di farsi complice in un tentativo di omicidio sicuramente dannoso per il prestigio di quel locale. Inoltre, rifletté con rabbia, non si trattava di stupefacenti o d'altro: era ubriaco, ecco tutto. E il suo stato di ebbrezza peggiorava a ogni momento. Il Cantonetti. Guardò la bottiglia. La notizia che si riferiva a quel vino gli stava finalmente tornando alla memoria. Ecco che svaniva di nuovo. Qualcosa... qualcosa di vagamente comico. Rovesciò il calice vuoto e rise osservando le sottili schegge di vetro infilarsi nel formaggio. Fece notare a Max quanto fosse buffo quello spettacolo. E Max rise anche lui, in modo bonario e pieno di condiscendenza. Poi, di colpo Albert si vergognò di se stesso, e, adirato, tentò di cambiare argomento e di parlare di quadri. Solo che non gli veniva in mente nessun pittore, eccetto uno, dal nome impronunciabile, e che Max non aveva mai sentito nominare. Mangiò un biscotto d'orzo, e per un attimo la mente gli si schiarì. Si ricordò ogni cosa: il cocktail, la ciliegia che aveva in tasca, tutta l'orribile faccenda. Gettato un rapido sguardo a Fustian, vide che questi lo osservava con attenzione. A un tratto si sentì gelare. Aveva capito finalmente. Era un nuovo esempio di furberia a doppio taglio: il trucco caratteristico dell'assassino. Questi voleva che la ridicola ciliegia avvelenata venisse scoperta; ne aveva parlato con enfasi, e poi aveva lasciato Campion solo in modo che la osservasse, e, povero scemo, si distraesse dal vero pericolo. Il vero pericolo riguardava in qualche modo il Cantonetti. Albert avrebbe desiderato tanto di rammentarsi cosa ne era stato detto. Ormai il ristorante gli sembrava immerso in quella che gli pareva una sterminata distesa di nebbia, nella quale fluttuavano fantasmi confusi e ciarlieri ai quali, se ne convinse con una certa fatuità, doveva essere invisibile come loro apparivano a lui. Però sapeva chi era Fustian. Fustian gli stava vicino, e fra poco avrebbe fatto qualcosa di spiacevole. Non rammentava che cosa, ma sapeva che
doveva impedirglielo. Tutto era molto triste e difficile. Mangiò un altro biscotto. Dalla nebbia allegramente colorata che sembrava avvolgere il tavolo, Campion vide emergere un momento il volto di Joseph. Il giovane ebbe voglia di riderne, perché la testa pareva decapitata, e aveva l'impressione preoccupatissima. Il cameriere diceva qualcosa a Max, e Albert avrebbe voluto sapere di che cosa si trattava, ma era difficile afferrare il senso del discorso. «Non avrà dato importanza al vostro avvertimento, signor Fustian... nemmeno i più resistenti possono sopportare...» Ora parlava il mercante d'arte. Sembrava scusarsi. «Non potevo immaginare... mi ha dato la sua parola d'onore...» Campion tornò in sé ancora una volta, ma per un momento solo perché le capacità di assorbire l'alcol di un biscottino secco come quello erano modestissime. Per quanto la sua mente non fosse libera del tutto, pure le frasi udite avevano un significato anche per lui, e bastarono a risvegliare la sua memoria. Il Cantonetti. Il vecchio Randall ne aveva parlato... un vino meraviglioso purché non si avesse ingerito dell'alcol per ventiquatt'ore prima di berlo. Altrimenti, e specialmente se si era bevuto del gin, guai! Campion si sentì inondare di sudore. Il mondo si annebbiava di nuovo. «Se si è bevuto del gin...» Accidenti a questa risatina idiota... Non riusciva a dominarla... No... ecco... Randall aveva detto che, dopo il gin, il Cantonetti faceva ubriacare, ma non in modo normale. Un'ubriacatura "grandiosa", aveva detto; o forse "fantastica". Ebbene Albert si sentiva davvero fantasticamente ubriaco, e Max ne avrebbe approfittato per fargli qualcosa. Ma cosa?... Oh, Dio! Max lo avrebbe assassinato! Fissò il compagno, che adesso gli appariva grottesco e deforme. Era così buffo che il giovane non poté più pensare ad altro. Rise fragorosamente. Max lo imitò, come pure la gente nascosta dallo schermo di luci colorate che lo circondava. Tutti ridevano di tutto. Era un ambiente allegrissimo. Campion uscì dal ristorante quasi volando: sensazione esilarantissima. I suoi piedi non toccavano terra, ma, battendo col ginocchio contro una sedia, la rovesciò. Nessuno se ne curò. Tutti erano tanto felici, felici quasi come lui. Tutti sorridevano, tranne Joseph. Il volto del cameriere era ma-
linconico e scandalizzato, e appariva assai buffo mentre navigava a mezz'aria, senza che si vedesse il resto del corpo. Max gli stava vicino, ma non volava. Camminava piuttosto in fretta, oscillando su e giù, e urtando il compagno, ma era felice anche lui. Una volta ancora Campion si rammentò del proposito nefando di Fustian, e fu nell'atrio, quando il giovane Farquharson gli si parò davanti, a un palmo dal suo. L'espressione di stupore dipinta su quel viso ben noto dissipò per un attimo l'ebbrezza di Albert, tanto che afferrò il braccio dell'amico... Il giovanotto poteva rappresentare davvero l'ultima ancora di salvezza per lui. «Io... io corro un pericolo» farfugliò Campion con serietà; ma il volto di Farquharson si aprì a un sorriso. «Lo vedo, mio caro» fece. «Corri il pericolo di ruzzolare, se non stai attento.» Poi di nuovo non rimase che Max, quello sciocco di Max, con i suoi vestiti ridicoli. Campion scoppiò in una risata nel guardarlo, riprendendo il suo volo immaginario. Fuori la città era bellissima. Le strade bagnate luccicavano mentre le luci sembravano corressero via dai due lati. Ogni legame con la sordida realtà della vita si era infranto per l'ubriaco. Gli sembrava di essere diventato uno spirito incorporeo con Max come guida mortale. Naturalmente accaddero alcuni incidenti spassosi. Una volta, per uno spintone di Max, Albert inciampò contro un salvagente, cadendo lungo disteso, e una guardia dovette aiutarlo ad alzarsi, raccomandandogli di stare più attento in avvenire. Poi vi fu il portiere dell'Embassy che non volle farlo entrare perché era prescritto l'abito da sera, e che si era messo a ridere quando il giovane si era offerto di togliersi il panciotto per apparire più elegante. Campion si divertì un mondo quando il maggiordomo di sua zia, in Grosvenor Square, non lo riconobbe e, poi, finalmente, gli chiuse in fretta il portone in faccia. Col tempo, però, passò anche l'allegria. Albert si rese conto che stava camminando, e in modo alquanto incerto. Ed era sempre più conscio della presenza di Max. Questi pareva voler affrettare il passo. Non parlava quasi più. Campion cominciò a diffidare di lui. Nel subcosciente qualcosa lo avvertiva che quell'uomo era pericoloso. Ora i due si trovavano in un quartiere della città molto buio. Non si ve-
devano più danzare tante luci. Tuttavia si trattava di un quartiere che l'ubriaco conosceva. Anzi, lo conosceva benissimo. Fustian parlò, con voce chiara: «Ora dobbiamo andare a vedere quella ragazza a Watford.» «No» ribatté seccamente Campion. «Allora a Bushey.» «A Bushey sì, ma non a Watford» disse Albert, spinto da un impulso di reazione al volere di Fustian, il cui movente gli sfuggiva, ma senza provare per questo il minimo turbamento. «Come si va a Bushey? Non lo sapete vero?» Il tono di Max era diverso dal solito, quasi imperioso. Piuttosto che pronunciate da un altro, le sue parole sembravano a Campion un'espressione del proprio pensiero. «No» replicò con aria idiota. «Non lo so.» «Domandate» fece la voce. «Domandate al vostro club.» Questo magnifico suggerimento parve risolvere tutti i desideri del giovane. Ed ecco che, come per miracolo, il club gli si parò dinanzi. Raggiunti, traballando, i gradini d'ingresso, fece molta fatica a salirli. Max non c'era più. Ma un'idea si era fissata nella mente di Albert: come si fa ad andare a Bushey? Come diavolo si fa ad andare a Bushey? Lo chiese al vecchio Chatters seduto nella sua guardiola col giornale sulle ginocchia. Ma Chatters sembrava istupidito e voleva mandarlo via. Albert decise che il suo era un club che non valeva niente. Uscendo, ruzzolò giù per i gradini, e Chatters venne ad aiutarlo, ma quello scemo invece di spiegargli la strada da seguire per andare a Bushey, voleva chiamare un'autopubblica e spedirlo a casa. Di tassì non c'era traccia, però, e Albert procedette traballando per la strada buia, finché Max non gli fu accanto di nuovo. Albert lo trovava antipatico, e glielo disse, ma l'altro parve a un tratto voler affrettare il passo. Gli offrì un sorso di brandy porgendogli la sua bottiglietta tascabile, cosa molto buona e generosa da parte sua, perché faceva capire come, tutto sommato, fosse una brava persona. Nella fretta, però Albert doveva badare ai propri passi, perché camminare gli riusciva sempre più difficile, su un terreno che gli ondeggiava sotto i piedi. I due uomini tornarono in un quartiere più illuminato, ma che non procurò ad Albert l'ebbrezza di prima. Adesso infatti, invece di darsi a quella corsa velocissima che gli era tanto piaciuta, le luci avevano un moto incerto e oscillante. Inoltre, vi era più gente in giro. La folla usciva dai teatri,
riempiendo le strade, e questa calca, unita alla poca stabilità del selciato, rendeva assai difficile procedere. A un tratto, Campion riconobbe un odore ben noto. Era lo sbocco di Una stazione della metropolitana. L'ampia apertura luminosa sembrava assorbire la folla, e i due uomini si lasciarono trasportare dalla corrente. Sulla porta dell'ascensore l'istinto parve avvertire Albert di un pericolo impellente, e il giovane si fermò barcollando; ma la folla lo spinse, sostenendolo da ogni lato durante la discesa. Poi la medesima folla lo trascinò fino alla cancellata che si spalancò come le porte di una città che si arrende. Max stava alla sinistra del compagno, e lo teneva per un braccio. Dall'altro lato giunse un omone dal berretto a scacchi, che si era fatto largo a gomitate. C'era tanta gente, che i due perdettero il primo treno, emerso fragorosamente dalla galleria. Poi tutti si avvicinarono all'orlo della banchina per aspettare il treno successivo. Intanto un altro carico di gente era stato scodellato dall'ascensore, formando dietro a loro una massa compatta e fluttuante di persone in attesa. Di fronte alle uscite erano state poste delle transenne, per impedire che i passeggeri uscenti dai vagoni venissero respinti dalla massa dei partenti; ma Campion e la sua guida, incuranti dell'ostacolo, si posero proprio sull'orlo del marciapiede. Davanti a loro le tre rotaie, con quella centrale più elevata delle altre e carica di corrente ad alta tensione e al di là la parete della galleria, coperta di cartelloni pubblicitari. Campion aveva le vertigini. Il mondo gli girava intorno, oscillando come un aeroplano in un giorno di vento. Il suo malessere era intensificato dal calore e dalla folla che gli si agitava intorno come un enorme animale stanco. Eppure quel malessere non era tutto fisico. Il suo subcosciente lottava per dirgli qualcosa di vitale, per metterlo in guardia, e questo lo rendeva timido e pauroso. Max gli diede una gomitata. «Guardate quel cartellone. Lo vedete?» Campion alzò gli occhi dalle rotaie e fissò davanti a sé. Una società di assicurazioni aveva fatto dipingere una serie di arcate, disposte a cannocchiale una nell'altra, che si ripetevano apparentemente all'infinito. Sotto, la scritta GLI ARCHI DELLA VITA seguiva l'intera lunghezza del disegno, ma anche le lettere erano tracciate in modo da accrescere l'illusione ottica. La prima G era alta almeno mezzo metro e l'ultima A appena leggibile. La curva del muro aumentava l'effetto stranamente ipnotizzante, e incon-
sciamente l'ubriaco se ne sentì attirato. «Riuscite a contare gli archi?» mormorò Max, cercando di porsi alle spalle del giovane per indicargli col dito l'oggetto di cui parlava. Campion dovette fare un passo avanti per fargli posto, e subito lo spazio abbandonato da Fustian venne occupato da un altro viaggiatore, il quale pareva muoversi meccanicamente, senza alzar gli occhi dal giornale che teneva aperto davanti a sé. Contare gli archi. Contare gli archi. Contare gli archi. Uno, due, tre; poi altri tre, e ancora tre, e quattro, e... Uno e altri due e tre e sei... dodici, tredici, quattordici... di nuovo uno, uno e due... Albert tese la mano per aiutarsi a contare. Da lontano giungeva il rombo del treno. Uno e due e altri cinque... Uno e... La gente lo guardava. Qualcuno rideva; altri sembravano inquieti. Di nuovo un arco, due... bisognava avvicinarsi. Ora il treno fischiava, sempre più vicino. Uno e due e altri tre... Ormai sembrava a Campion di trovarsi in mezzo agli archi... Vide il treno, vide il grande faro verde sul davanti della locomotiva, capì la perfidia dell'attentato, e ne intuì l'ingegnosità diabolica; immaginò i volti dei testimoni al processo: Farquharson, una guardia, il cameriere, il vecchio Chatters. "Era indiscutibilmente ubriaco." "Ha inciampato nel salvagente." "Non era in sé." "Voleva andare a Bushey." Cercando di tirarsi indietro, sentì una fortissima resistenza; più che una resistenza, una forza contraria. Il nemico lo spingeva. Campion vacillò, si udì un urlo... Qualcosa colpì Albert allo stomaco, rimettendolo in piedi. Era il braccio dell'uomo del giornale. Il treno passò come un mostro ruggente e si fermò. Dietro ad Albert si svolgeva una lotta. Max e la folla urlante. Max fra le braccia dell'uomo dal berretto a scacchi. Nel corso di tutte le sue vicissitudini, Campion non si era ricordato dell'argomento di cui aveva discusso quella mattina con l'ispettore... e si era dimenticato degli agenti in borghese che lo avevano pedinato pazientemente fin da quando aveva lasciato Scotland Yard. 24 La mattina dopo «Pasta di mandorle» disse l'ispettore Oates. «Ecco cos'è, pasta di man-
dorle. Che abilità diabolica!» Ritto in piedi vicino allo scrittoio del salottino in Bottle Street, l'ispettore infilò a più riprese una limetta da unghie nella ciliegia appiccicaticcia. Erano già passate le due pomeridiane del giorno successivo all'attentato, e l'ispettore si trovava da mezz'ora in compagnia dell'amico. Campion era ormai tornato perfettamente in sé, eccetto che per un particolare: il suo carattere, di solito così affabile, aveva subito un mutamento completo, ed era con amara irritazione che adesso si rivolgeva al compagno. «Ora sai tutto» disse brevemente. «Ti ho raccontato la mia storia, e inoltre suppongo che tu abbia letto il rapporto dei tuoi agenti.» Un pallido sorriso illuminò il volto di Stanislaus. «Infatti» fece. «Un giorno te lo farò vedere, ma non ora. Credo che non ti piacerebbe troppo. La descrizione della tua notte di bagordi è molto spassosa. Ti sei dimenticato diversi incidenti perché eri ubriaco, mio caro.» «Ubriaco!» ripeté Albert con aria disgustata. «Se mai ti capiterà di avvicinarti alla morte più di quanto tu lo abbia fatto iersera, le sarai a tanto poca distanza da poterle rubare la falce» disse Oates con serietà. «Harris afferma che il treno gli ha sfiorato la manica mentre ti afferrava, e che la pressione sulle tue spalle era spaventosa. Per un momento ha avuto paura di venir travolto con te. Quel Fustian...» Scosse la testa. «Mi ha vinto» fece Campion seccamente. «Mi ha vinto, mentre ero io ad avere in mano tutte le carte. Sono stato tratto in inganno da quel finto avvelenamento. Non mi è balenato di essere ubriaco a tal punto da non essere in grado di far niente, salvo comportarmi come uno sciocco!» «Come sarebbe, ti ha vinto?» ribatté Oates. «Sei vivo, no? Harris e Richards non erano forse con te, anche se li avevi dimenticati? Sei stato salvato dal treno, e Fustian è in arresto. Cosa vuoi di più?» «In arresto, eh?» Albert parve rasserenarsi. «Sotto quale imputazione?» «Tentato omicidio. Può bastare, per ora.» Campion ricadde a sedere. «Ho il cervello ancora un po' annebbiato» disse, quasi scusandosi. «Ma, francamente, date le prove che abbiamo, non capisco come tu abbia osato agire così. Per quanto mi risulta, non abbiamo che le mie parole che lo accusino. Il fatto che due agenti in borghese mi seguissero può dimostrare una premeditazione da parte mia. Ci ha sconfitti ancora una volta, Stanislaus.» «Basta, l'arresto è stato fatto» replicò l'altro con aria ostinata. «Il giudice istruttore gli ha parlato stamani, e ora Max si trova in cella. Voglio che tu
venga a vederlo.» «Ma perbacco...» Albert era ancora assai irritabile. «A meno che tu non racconti l'intera storia, il che è impossibile, non vi sarà una ragione al mondo che spieghi perché mai io fossi convinto che Fustian avrebbe attentato alla mia vita. Quanto alle testimonianze degli agenti sul fatto che sia stato lui a spingermi, tutti sappiamo quanto poco valore viene attribuito alle deposizioni della polizia in casi simili; per il resto, tutti i presenti al fatto saranno pronti a dichiarare che ognuno spingeva il proprio vicino.» L'ispettore non fece commenti a questa requisitoria. Riposti gli avanzi della ciliegia nella busta, se la mise in tasca. «Si può anche farla analizzare» osservò. «Ma non credo vi sia dubbio sul fatto che è innocua. Vieni a vedere Fustian? È rinchiuso a Scotland Yard, per ora. Dopo l'interrogatorio ha voluto fare una deposizione per iscritto, e fra una cosa e l'altra è parso opportuno trattenerlo lì.» Sembrava che l'ispettore non volesse sbottonarsi troppo. «Una deposizione! Santo cielo, ha fatto una deposizione!» Campion si sentiva girar la testa. «Che tipo di deposizione ha fatto?» «Un lungo sproloquio.» «Senti, vuoi forse dire che ha confessato tutto?» «Non proprio. Almeno, non credo.» Il cattivo umore di Albert andava crescendo. «Che cosa ti succede stamani?» domandò. «Sei misterioso come un poliziotto alle prime armi.» Ma Oates non perse la propria affabilità. «È tardi» disse. «Vieni subito a vedere Fustian.» I due uomini uscirono. Dieci minuti più tardi, arrivarono a Scotland Yard e incontrarono, in un lungo corridoio di cemento dalle numerose e pesanti porte, un ometto col naso adunco e con gli occhiali cerchiati d'oro che andava in fretta. Era pallido e agitato. Data un'occhiata a Campion, il piccolo personaggio avrebbe proseguito senz'altro, seguendo l'agente che lo accompagnava, se Oates non l'avesse trattenuto. L'ometto era l'avvocato J.K. Pendle. Campion, riconoscendolo, sentì di doversi rassegnare alla propria sorte: Max aveva certo trovato una scappatoia legale, e apparentemente ne aveva già affidato la manipolazione a chi di dovere. «Va bene, avvocato.» Oates terminava la conversazione a bassa voce con lui. «Ci vedremo nel mio ufficio fra dieci minuti.» L'ispettore tornò al fianco di Campion. Poco prima di raggiungere una porta quasi in fondo al corridoio, davanti alla quale sedeva un corpulento
agente a capo scoperto, gli amici ne videro uscire due uomini che parlavano animatamente, ma a bassa voce. Albert riconobbe la fisionomia di uno di loro, ma non riuscì a ricordarsi chi fosse. Oates chiacchierò un momento con i nuovi venuti prendendoli da parte e Campion udì il proprio nome e la frase "parte civile" «Capisco.» L'uomo di cui Albert non ricordava né il nome né la professione lo guardò con la medesima espressione di curiosità e di mistero con la quale lo aveva guardato l'avvocato Pendle. Poi, abbassando la voce, riprese a parlare con l'ispettore. «Va bene» disse forte Oates. «Ci vediamo fra mezz'ora nel mio ufficio. Ci sarà anche l'avvocato Pendle.» Campion si rivolse all'amico che si avvicinava. «Senti, Stanislaus» fece. «Decisamente preferisco non venire. Mi sento troppo nervoso.» Ma l'ispettore non gli diede retta. A un suo cenno l'agente, che si era alzato in piedi, aprì la porta. Albert era ancora furibondo. Si sentiva in preda a quella forma di odio accanito e profondo, diretto contro un suo simile, che è un sentimento generalmente sconosciuto fra le persone sofisticate, e se ne vergognava. Lentamente entrò nella cella del suo nemico. Max fu l'unica cosa che vide: la prima e l'unica. Campion era osservatore e la pratica professionale aveva intensificato questa sua dote naturale, tanto che intere scene gli sì fissavano nella mente fin nei minimi dettagli. Ma questa volta non vide che una sola cosa che spiccava nell'ambiente. Non seppe mai com'era fatta quella cella. La finestra dalle grosse sbarre, i due uomini in camice bianco seduti in silenzio nell'ombra, la luce schermata: tutta la scena gli sfuggì completamente. Vide solo, disteso a terra, ciò che rimaneva di Max Fustian. Un Max Fustian dal sorriso furbesco sulle labbra flaccide. Campion rimase pietrificato. L'ira lo abbandonò di colpo, e al suo posto subentrò quello strano ribrezzo che è esclusivamente istintivo: il terrore atavico che si prova per tutto ciò che è contro natura. La disgraziata creatura parlò, pronunciando suoni dolci, strascicati, senza senso, con un'aria confidenziale che faceva orrore. L'ispettore, preso l'amico per un braccio, lo ricondusse in corridoio. «Scusami di non averti avvertito» fece. «Sta peggio di quando l'ho lasciato. Lo hanno trovato così stamani, quando gli hanno portato da mangiare. Ieri sera era violento, e così lo si è lasciato lì dentro a calmarsi. Lo hanno condotto dal giudice perché credevano fingesse. Non era nello stato in cui
è ora, ma stava già male. Dice di essere Lorenzo de' Medici, e che sa di esserlo da diverso tempo.» Campion taceva. «Fanno sempre così, sai» continuò lentamente l'ispettore. «Finché tutto va bene, questi disgraziati se la cavano, ma quando si trovano di fronte a qualche resistenza invincibile, non reggono più...» Albert si asciugò il volto. Ora ricordava chi era l'uomo incontrato nel corridoio. «Che cosa ne sarà di lui?» domandò con voce incerta. «Lo terranno in osservazione e rimanderanno la causa finché non sarà in grado di esser portato in giudizio. L'ambulanza è in arrivo» fece Oates brevemente. «Capisci, c'è anche la sua deposizione: cinquemila parole. C'è voluta l'intera mattinata per trascriverla. Confessa tutto: il tuo assassinio, fra l'altro, e anche di aver tramato l'uccisione di Girolamo Riario, principe di Romagna... ma questo è stato nel quindicesimo secolo.» «Quando sarà guarito» domandò Campion «insisterai lo stesso nell'accusa?» Oates scosse il capo. «Non guarirà. Hai visto il dottor Brainbridge? Lo ha visitato poco fa. Non si è sbottonato gran che, si capisce, questi specialisti sono fatti così, ma ha detto che "indubbiamente si tratta di paranoia". Fustian peggiorerà sempre, finché alla fine morrà. Ne ho visti tanti finire così.» «Ma è stato così improvviso...» mormorò Albert. «Ieri...» «Ieri era un genio» interruppe l'ispettore «e oggi è un pazzo. C'è forse tanta differenza? E poi, la cosa non è stata così veloce come credi. Ho parlato stamani col socio di Fustian, il signor Levy. Povero ometto, era preoccupatissimo. Dice che Max si era fatto sempre più strano da qualche tempo. Pare che in passato abbandonasse tutte quelle affettazioni nella vita privata, ma che ora le esibiva sempre. E poi, pare che ci sia anche dell'altro. Ieri è andato a un ricevimento indossando un panciotto scozzese. Cosa ci può essere di più pazzesco?» Campion gettò uno sguardo all'uscio ormai chiuso, e l'espressione degli occhi era adesso profondamente sincera. «Era il mio peggior nemico» disse con serietà «ma non gli avrei mai augurato una fine del genere.» L'ispettore sorrise. «No, figliolo» rispose con la voce piena di affetto. «Non l'ho mai pensato da parte di una persona come te.» 25 Belle, addio
Qualche giorno dopo la morte di Max Fustian, avvenuta nell'infermeria della prigione, Campion andò a trovare la signora Lafcadio, calpestando le foglie autunnali che coprivano il terreno polveroso. I due vecchi amici si fermarono nel grande studio a guardare l'ultimo quadro restituito dalla Galleria Salmon, e che era stato appeso sopra il caminetto. La tela rappresentava un interno tranquillo, buio, con le figure dalle tonalità smorzate e le luci stupende. Belle la indicò col capo, la sua cuffia bianca rifletteva la luce che penetrava dalle finestre. «È un quadro magnifico» disse. «John ci teneva che fosse questo a chiudere la serie. Ricordo così bene quando lo dipinse in Spagna.» «Cosa ne farete?» domandò Campion. «Lo terrete per voi?» «Credo di sì.» La vecchia signora parlava con dolcezza. «Sono successi tanti guai in seguito a quell'idea delle mostre annuali. Povero Johnnie! Le sue trovate portavano sempre a dei risultati disastrosi! L'anno prossimo lui e io dobbiamo dare il ricevimento solo per Lisa e la povera Beatrice.» Albert esitò. Si trovava su un terreno delicato. «Avete visto... gli altri tre?» domandò finalmente. «No» rispose Belle. «Il signor Levy, l'avvocato Pendle e l'ispettore mi hanno spiegato tutto, e ho capito come stanno le cose, i falsi si trovano ancora da Salmon, suppongo.» La vecchia signora s'interruppe, con un turbamento negli occhi castani, e con le labbra contratte. «Ho saputo che è morto» disse a un tratto. «Già» fece Campion. «Una brutta storia, Belle. Mi rincresce che ne siate stata messa al corrente.» La signora Lafcadio parve non udire, ma continuò a discorrere con la stessa voce tranquilla. «L'ispettore ha detto che Tommy Dacre ha cercato di ricattarlo e allora lui, persa la pazienza, e vista l'occasione favorevole, lo ha ucciso. Ma non mi pare possibile che Tommy fosse un ricattatore, vero? Era così buono da bambino!» Campion alzò le spalle. «Forse non gli sembrava di compiere un vero ricatto» disse prudente. «Da quello che si può dedurre dalle dichiarazioni di Rosa-Rosa e... e dalla confessione di "lui", Dacre era già stato pagato per i suoi quattro quadri, e aveva finito anche i soldi della sua borsa di studio. Avendo bisogno di denaro, ha dichiarato semplicemente che avrebbe dipinto altri quadri per il medesimo prezzo e nella medesima villetta. Ecco come sono precipitate le cose. Se... se l'assassino non fosse stato favorito
dalla sorte, quel delitto non sarebbe avvenuto.» «E Claire?» esclamò Belle con le labbra tremanti. «La povera Claire, in che cosa lo aveva offeso?» «Ah, era lei la sua più grave minaccia!» esclamò Campion. «Sapeva tutto, capite? Era stata messa al corrente della falsificazione dei quadri, e Dacre era stato affidato a lei durante la sua permanenza nella villetta. Lei indovinò chi era stato l'assassino di Tommy, e lo lasciò capire a quel mostro, forse il giorno stesso, quando venne a parlarci della vendita di Van Pipijer. I suoi nervi non hanno retto alla tensione, e quando ricevette da lui una telefonata in cui le diceva che la polizia era sulle sue tracce, reagì esattamente come sperava l'assassino, e morì.» Belle incrociò le mani sulla borsa da lavoro in cretonne che aveva con sé e, per qualche istante, tacque. «Quel suo povero marito» disse infine. «Il povero marito della povera Claire. Sta ricominciando a prendere un po' di interesse nel suo lavoro. E mi pare che le sue incisioni siano migliorate. Ma, Albert, che malvagità... una malvagità terribile e... che peccato!» Si allontanò da quella tela per andare a fermarsi di fronte a un'altra. Il ritratto di Lafcadio sorrise dalla sua cornice. Il Fratello Intelligente del Cavaliere Ridente e di nuovo Campion fu colpito dalla somiglianza. Spinto da un pensiero improvviso, si volse verso la vecchia signora, e incontrò il suo sguardo. «So a che cosa pensate» fece Belle. «Pensate al settimo quadro, quello comprato dal Museo di Easton. Il fatto che si trattava di un falso non è stato reso pubblico, e vi domandate quale decisione prenderò in proposito.» Albert fu sorpreso: effettivamente era di questo che si preoccupava. La signora aprì la borsa. «È un segreto» disse, consegnando un foglietto al giovane. Campion lo guardò con curiosità. Era la ricevuta di quattromiladuecento sterline rilasciate da una nota fondazione a beneficio degli artisti poveri. La data interessò particolarmente l'investigatore. «Due anni fa!» esclamò stupito. «Oh, Belle, lo sapevate.» L'altra esitò. «Sapevo soltanto che la Crocifissione non era opera di John» disse poi. «Vidi il quadro solo al momento dell'apertura della mostra, perché ero stata indisposta fino alla mattina, e poi avevo avuto troppo da fare per esaminarlo da vicino. Quando l'ho potuto guardar bene era già venduto, e tutti lo lodavano e lo ammiravano. Non mi sono resa conto di quanto era accaduto, né mi è venuto in mente di dubitare della buona fede della galleria d'arte.»
Campion sembrava molto perplesso. «E di chi mai avete dubitato, allora?» «Di Johnnie» replicò Belle. «Del mio vecchio, cattivo Johnnie. Ho creduto si trattasse del lavoro di un suo allievo. Immaginavo quanto si sarebbe divertito mio marito a imbrogliare tutti. Così...» «E così avete taciuto?» «Già. Ho pensato che fosse meglio. Ho speso i soldi della vendita in opere di beneficenza, stabilendo la regola che per l'avvenire i quadri dovevo vederli io per prima. Naturalmente, l'ottava tela era autentica, e, convinta che il trucco della penultima fosse stato un brutto scherzo di Johnnie, ho cercato di non pensarci più.» «Come ve ne siete accorta?» domandò Campion con curiosità. Gli occhi castani di Belle luccicarono. «Per via di quel bambino seduto sulla spalla di una figura in primo piano. Non sono mai stata un'intenditrice di pittura; non so nulla delle varie tecniche; ma Johnnie non ha mai dipinto in vita sua un bambino appollaiato sulla spalla di un adulto. Era una sua fissazione. Non poteva sopportarne la vista. Ne parla anche in una lettera a Tanqueray; perché non era sempre buono, in fondo. Dice a un certo punto: "La tua ignobile abitudine di dipingere anziani e sdolcinati campagnoli che portano in spalla la loro progenie dalla testa grossa e, probabilmente, anche portatrice di qualche tara ereditaria, mi ripugna. Ogni volta che vedo uno di quei bambini che sembrano gonfi, la testa che spicca al di sopra di quella del padre mi vien voglia di tirarla giù e spiaccicarla come quella parte della sua anatomia, sempre tanto adeguatamente, anche se non elegantemente, coperta, nei tuoi quadri. E lo farei prendendola a pedate".» «Capisco» fece Campion. Gli pareva l'unico commento adatto di fronte a una prova così irrefutabile. «Non era per niente una brava persona» osservò Belle. «Chi? Tanqueray?» «No... quell'esuberante e vecchio Lafcadio» replicò la signora. «Però Tanqueray voleva bene al mio Johnnie. Povero Johnnie!» Campion non le aveva mai sentito nominare il padre di Linda, e nemmeno questa volta Belle si soffermò sull'argomento. «Non raccontate mai a nessuno la storia del settimo quadro, per favore» fece. «Dopo tutto, che importa? Oh, mio caro, cosa importano in fondo tutti i quadri?» Albert giurò di tacere. Incamminandosi a fianco della vecchia signora, la guardò. «Va tutto bene, ora?» chiese.
L'altra annuì con un sospiro. «Sì caro» fece. «Sì, grazie. Venite a trovarmi ogni tanto. Mi sentirò sola senza Linda.» «Senza Linda?» «Ha sposato Matt lunedì scorso a Southampton. Ho avuto ieri un biglietto» replicò Belle, tranquilla e serena. «Hanno scoperto che le cabine separate sulla nave per Majorca costavano di più di una licenza speciale di matrimonio e, visto che volevano assolutamente andare a dipingere, si sono sposati. Mi sembra molto ragionevole.» E Campion prese congedo. Anche quando fu scomparso continuò a restare lì, salutandolo con il fazzoletto. Quando, infine, non lo vide proprio più, rientrò in casa e chiuse la porta. Raddrizzò lo stuoino con il tacco della scarpa e procedette trotterellando lungo il vestibolo. Alla porta di cucina si fermò per mettere dentro la testa. «Beatrice e il signor Potter, stasera, sono fuori. Per noi due, Lisa, facciamo qualcosa di semplice» disse. «Sì, sì» rispose la vecchia senza voltarsi dai fornelli. Belle richiuse piano la porta e salì in salotto. Il sole, ormai al tramonto, inondava la stanza con la sua luce dorata, sfiorando le tinte un po' spente dei tappeti persiani e giocando con i toni di colore del tessuto della grandiosa poltrona di Voltaire. La vecchia signora si avvicinò alla scrivania e, prendendo la piccola chiave che portava al collo, in una sottile catena, la infilò e la girò nella serratura di un cassettino sotto la ribalta. Dal suo interno, foderato di tela verde, estrasse una piccola tela senza cornice. Si mise a sedere e appoggiò il dipinto sul piano della scrivania. Era un autoritratto di John Lafcadio, dipinto con quella tecnica impressionistica che sarebbe stata apprezzata solo molto tempo dopo. Vi appariva lo stesso volto dall'orgoglioso sorriso del ritratto di Sargent, ma con una differenza. La famosa barba risultava appena accennata mentre con tocchi vigorosi vi era tratteggiato il mento da debole, un po' sfuggente. Le labbra sorridevano e, nel sorriso, la loro carnosa sensualità vi era accentuata. I folti capelli ricciuti erano più radi e gli zigomi alti messi in un rilievo quasi caricaturale. Gli occhi ridevano o, almeno, uno di essi rideva. L'altro era completamente nascosto da un grottesco ammiccare. Era un ritratto crudele e rivelatore, la faccia di un uomo che, se per metà andava considerato un genio, per l'altra metà si dimostrava un buffone. Belle girò il dipinto. Di traverso, sul retro della tela, con i grossi caratteri che erano usuali al pittore, c'era scritta una sola frase: IL TUO SEGRETO,
ADORATA BELLE. La vecchia signora girò di nuovo il dipinto. Si sfiorò le labbra con la punta di un dito e poi l'appoggiò sulla bocca del ritratto. «Oh, Johnnie» disse tristemente. «Quanti guai, mio caro. Ma quanti, quanti guai!» FINE