APRIL SMITH NELL'INTERESSE DELLA LEGGE (North Of Montana, 1994) A Douglas Los Angeles, 1990 Parte prima SESSO ALLO STATO...
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APRIL SMITH NELL'INTERESSE DELLA LEGGE (North Of Montana, 1994) A Douglas Los Angeles, 1990 Parte prima SESSO ALLO STATO PURO 1 Insomma, sesso allo stato puro. Era l'apertura di campionato al Dodger Stadium e non avevo niente da fare, dovevo solo fermarmi lungo la Pico alla California First Bank per prendere la pellicola delle telecamere di sorveglianza; poi via verso la brezza fresca di Chavez Ravine, una gara di lanci fra Martinez e Drabek, un Dodger Dog, e senza dubbio uno di quei frappé al malto formato gigante che ti fanno sentire pieno e soddisfatto come un pallone grasso e scemo. Sto scambiando le due chiacchiere di rito con il direttore della banca rapinata il giorno prima. Naturalmente siamo già stati qui per le indagini preliminari, ma il direttore è ancora sconvolto e ha bisogno di parlare. È sulla cinquantina, un maratoneta con i capelli biondicci e le spalle curve, che sui calzoni grigi porta una giacca di madras blu con riflessi di un bel porpora scuro. Appesa al muro sopra la scrivania tiene una placca di metallo con Gli Obiettivi del Kiwanis International. In effetti dirige una struttura impeccabile. È una filiale nuova di zecca, lucidi pavimenti di quercia e grandi acquerelli di campagne fiorite nelle cornici di ottone. Le impiegate sfoggiano bei vestitini e perle finte, i loro colleghi hanno i capelli in ordine e indossano completi larghi di spalle, anche se non capisco come fanno a permettersi questo look, con la miseria che prendono. Accanto ai dépliant dei fondi d'investimento e dei prestiti ci sono perfino una caraffa di caffè e un vassoio di biscottini al cioccolato, posati sul tavolo a due passi dalla porta di servizio, da dove il rapinatore è uscito di scena con 734 dollari in contanti. Il direttore mi tocca il braccio con la punta delle dita ossute, tremanti. È la sesta rapina della sua carriera di bancario e ogni volta, dopo, gli viene un'emicrania paralizzante. È il vedersi davanti quella pistola, mi racconta
cominciando ad arrossire, e così cerco di tirarlo su di morale (mentre mi chiedo se come primo battitore sarebbe meglio Juan Samuel o Brett Butler), ricordandogli che viviamo nella capitale nazionale delle rapine in banca, che all'ufficio di Los Angeles del Federal Bureau of Investigation indaghiamo su una decina di rapine al giorno e quindi, specie se uno ha la filiale vicina agli svincoli di due autostrade, è molto probabile che tocchi a lui; però è anche molto probabile che nessuno si faccia del male, ecco perché i malviventi scelgono questi obiettivi, perché il rischio è ridotto al minimo. Sto perdendo tempo e non riesco nemmeno a scalfire la sua angoscia; dopo la violenta intrusione di una canna di pistola, quel bell'orologino svizzero lustro che è il suo mondo ormai è paurosamente deformato, impossibile contare sul fatto che continui a segnare l'ora giusta. Poi arriva l'Fbi, e lui si ritrova davanti un agente donna alta uno e sessantaquattro, che essendo oggi l'apertura di campionato non porta neanche l'autorevole abito grigio al ginocchio ma semplicemente jeans e maglietta, e, mi rincresce dirlo, scarpe da basket rosa. Non assomiglia proprio a un bravo confratello del Kiwanis Club, e con la sua corporatura minuta e la sua posa impaziente non trasmette affatto la sicurezza che quella spiacevole esperienza non si ripeterà. Devo salire su una scala per togliere la pellicola dalle telecamere. In metà dei casi la pellicola non c'è perché le guardie si scordano di rimpiazzarla, ma oggi è il mio giorno fortunato. In genere devo anche sopportare le spiritosaggini del mio partner, Mike Donnato, che adora farmi salire sulle scale: per guardarmi il didietro, dice, ma è solo una battuta, perché lui è sposato e con tutto che lavoriamo insieme da tre anni, una volta che ho cambiato il colore dei capelli, da neri a rossi, se n'è accorto dopo una settimana. Oggi Donnato è in vacanza e sono sola. Ho notato che non capita niente di buono, quando si è soli. Prendo la pellicola, metto un rullino nuovo nella telecamera, lascio il direttore mestamente seduto alla scrivania, intento a versare della tisana da un thermos in una tazza con su scritto Capitano, e salgo in macchina. L'ho parcheggiata all'ombra. Sto ascoltando un bollettino radiofonico sulle condizioni del traffico in direzione del Dodger Stadium quando vedo un uomo che scende da un'auto, si mette gli occhiali da sole e si tira sugli occhi la visiera del berretto da baseball, il tutto con un'aria più che sospetta. Si abbottona una camicia a maniche corte sull'altra che ha già indosso. E sotto la camicia c'è un rigonfiamento.
Mentre cerco di convincermi che dev'essere il poliziotto travestito assegnato alla banca dopo la rapina, l'uomo guarda proprio dalla mia parte. Mantengo un'espressione neutra, senza sorridere. Continuiamo a fissarci finché lui finalmente abbassa gli occhi, scuote la testa, e risale in macchina. A questo punto so soltanto che l'uomo è bianco e alto più o meno un metro e ottanta. Non so se è risalito in macchina perché gli sono sembrata un qualche tipo di poliziotto o perché ha scordato il libretto di risparmio, non so se sotto la camicia ha un walkman o una Browning automatica. Decido di prendere nota del numero di targa. Così porto la Ford dietro l'auto dell'uomo proprio mentre lui fa manovra per uscire e per poco non ci tamponiamo. Trascrivo la targa, metto la freccia, mi avvicino piano all'uscita del parcheggio come per girare a sinistra e andarmene per i fatti miei, e intanto sorveglio tutto nello specchietto senza muovere la testa, solo gli occhi. Appena mi vede svoltare, si rinfila nel parcheggio, spegne il motore, scende dalla macchina e scatta in direzione della banca. A questo punto mi arrabbio sul serio con Donnato che se ne sta a Catalina con la moglie mentre io affronto un rapinatore di banche da sola. In sette anni che pattuglio le strade avrò dovuto tirare fuori la pistola sì e no una dozzina di volte, e sempre con un partner o rinforzi in grande stile. Non siamo la polizia locale, noi. Non ci è consentito arrestare una persona sulla base di un sospetto. Prima dobbiamo presentare delle prove al vice procuratore generale e poi possiamo procedere all'arresto, a meno che qualcuno non stia commettendo un crimine. Le nostre operazioni vengono attentamente controllate. In vita mia non mi sono mai trovata in una situazione tanto instabile. Come perle di saggezza affidatemi da Mamma e Papà, mi lampeggiano nella mente due principi imparati alla scuola di addestramento: cerca di ragionare... e segui il regolamento. Se lancio un "211 in corso richiesta assistenza" lo riceve il Dipartimento di Polizia di Los Angeles, ovvero LAPD, e mi spedisce sei macchine a sirene spiegate mentre la sala radio del Bureau contatta la banca per verificare se è in corso una rapina. Se ho visto giusto, accerchiare in questo modo il tizio là dentro potrebbe provocare un disastro. Se mi sono sbagliata e quello è solo uno dei tanti scemi col berretto da baseball, gli altri della mia squadra saranno felicissimi di dover rinunciare a un pomeriggio di relax al Dodger Stadium. Torno indietro, parcheggio la macchina di servizio dietro un cassonetto e
cerco di ragionare: in questo momento il mio compito è fare in modo che all'interno della banca non accada nulla di grave. Gliela lascio rapinare e lo lascio venire fuori. Così saranno tutti felici e contenti, tranne il direttore che ormai sarà morto d'infarto nonostante un tasso di colesterolo senz'altro basso. La banca è assicurata, i clienti restano incolumi, e quando farò la chiamata saprò di avere un motivo fondato. Ascolto la radio della polizia che tengo in macchina, aspettandomi di udire l'operatore del LAPD che dice «211 silenzio, California First, 11712 Pico», il che significherebbe che uno di quei giovani cassieri così ben vestiti e addestrati ha premuto l'allarme silenzioso, ma sento solo l'aspro gracchiare delle comunicazioni di routine e il rombo delle due autostrade qui vicino, e intanto l'ansia sale a livelli intollerabili. Cosa faccio quando quel balordo esce dalla banca? Sarà in preda agli effetti di qualche droga, e correrà più forte di me... poi un'altra ondata di paura appena mi rendo conto che giubbotto antiproiettile e fucile a pompa sono chiusi nel baule. Tra parentesi, dal momento in cui quel tizio è entrato nella banca saranno passati sì e no novanta secondi in tempo reale, ma ormai sono davvero spaventata, sono convinta che là dentro è accaduto il peggio, che il bel pavimento di quercia è tutto inzaccherato dal sangue di cittadini inermi... e proprio mentre allungo la mano verso la radio per fare la chiamata eccolo che esce di corsa con una manciata di denaro in pugno, e guardandosi attorno butta via il berretto da baseball e si strappa di dosso la seconda camicia. Non ho ancora visto nessuna pistola, né mi è stato segnalato un reato, ma una persona prudente e ragionevole non si precipita fuori da una banca gettando via capi di vestiario, e in questo momento surreale la cosa mi sembra un principio giuridico di solidità eccezionale, più che sufficiente a giustificare il fatto che metto la mia macchina di traverso davanti alla sua, gli sbarro la strada appena chiude lo sportello, gli spiano la pistola in faccia e cerco di scoprire se ha voglia di incontrare il suo Creatore. Punto la mia 357 Magnum contro il finestrino del guidatore, a dieci centimetri dal suo orecchio. «Fermo, o ti faccio saltare la testa come un cocomero marcio.» Smette di trafficare con le chiavi e alza due occhi lacrimosi. «Sono nervosa, molto nervosa; non farmi usare questo aggeggio, sennò finisce che invece di ammazzarti ti lascio invalido per sempre.» I vecchi cliché funzionano benissimo, se vuoi che qualcuno si faccia un'idea molto rapida e molto chiara delle conseguenze dei suoi atti.
Sembra ipnotizzato dalla canna della pistola, che dal suo punto di vista deve sembrare un'arma enorme con dietro, a un braccio di distanza, la figura vaga e indistinta di una persona molto sicura di sé. «Voglio tutte e due le mani sul parabrezza, molto, molto adagio.» Gira le palme in fuori, e le fa aderire al vetro con un rumore di risucchio. Intorno al capo gli svolazza qualche ciuffo sudato di capelli ingrigiti. Contro il volante preme una pancia molle. Una parte di me nota che l'uomo sembra giù di tono. Irritato. Triste. «Non ti muovere, se ci tieni alla tua faccia.» Lui non si muove. «Ora apri lo sportello e fatti indietro.» Appena apre lo sportello gli caccio la pistola alla base del cranio e mi impadronisco dell'oggetto che porta alla cintura. È una pistola da starter. «Sdraiati per terra. Mani dietro la schiena.» Adesso che è bocconi sul cemento lo ammanetto. «Torna in macchina. Sul sedile anteriore. A faccia in giù.» Risale in macchina. Si sdraia. E l'ondata di adrenalina si ritira. Di colpo le mie percezioni diventano più acute, sento cose che prima non sentivo: la calura del sole di mezzogiorno, il fatto che non riesco a riprendere fiato, il sudore che mi scorre sotto le braccia e fra i seni. E non ho ancora effettuato quella famosa chiamata. C'è qualcuno che avanza nel parcheggio, oltrepassando le persone che si sono fermate, immobili come una serie di strane statue tutte rivolte nella stessa direzione. «Non ci posso credere, lei è ancora qui.» È il direttore della banca, anche lui col fiato corto. «Ci hanno appena rapinato un'altra volta...» poi, incredulo: «Lo ha preso!». «Ecco perché mi pagano così bene.» Sgancio la radio. A questo punto voglio fare la distaccata: «Qui auto 345. Ha appena avuto luogo un 211 alla California First Bank, 11712 Pico. Sono 10-15 con un soggetto, un uomo. Gradirei assistenza per svolgere indagini supplementari». Dall'altra parte c'è un attimo di silenzio. «Vuoi ripetere?» Be', quanto a distacco ormai ho dato il massimo. «Ho inchiodato quello stronzo appena fuori della banca!» Un'altra pausa. Poi: «Mi prendi in giro?». Sento la radio della polizia che ritrasmette la comunicazione mentre, rianimato, il direttore della banca, ormai mio vice nonché recentissimo migliore amico, salvato dalla disperazione dopo sette rapine e traboccante di
speranza nelle sorti della civiltà, corre per il parcheggio invitando la gente a «star lontano» dalla scena del delitto. Poi a un tratto arriva l'elicottero e tutte le facce si girano in su. Librandosi su di noi, un agente del LAPD tuona dal megafono: «Tutto bene?». Io gli faccio il segno internazionale per "tutto bene" - una bottarella con la mano sulla testa - e lui scivola via mentre il lèttone pazzo che ha preso la chiamata zigzaga nel parcheggio con la sirena accesa, insieme a un'altra dozzina di ragazzi della divisione Wilshire che vogliono verificare se le gomme e i freni delle macchine funzionano a dovere. È stato bellissimo. Il mattino dopo c'è la festa. Nella mia squadra c'è la tradizione del caffè con le ciambelle alle otto, e li trovo che mi aspettano quando mi trascino in ufficio dopo esserci rimasta fin quasi a mezzanotte per sbrigare il lavoro burocratico. Mi accoglie uno scroscio di applausi, insieme a una di quelle mani di gommapiuma verde lunghe un metro con le dita aperte nel segno della vittoria e a un altro simpatico souvenir dello stadio: un vassoio di cartone con un Dodger Dog ancora avvolto nella sua carta di alluminio, un sacchetto grande di noccioline e il mio frappé al malto preferito ridotto a un tiepido purè. «Abbiamo pensato a te per tutti i nove innings» annuncia Kyle Vernon. «Naturalmente, non ci saremmo mossi di lì per nulla al mondo.» Gli altri ridono. Non hanno dovuto lasciare lo stadio perché ho sistemato tutto da sola. «Col supervisore che è andato a leccare quelli di Washington, avremmo dovuto perderci la spettacolare corsa sulle basi di Sciosca alla fine del nono inning?» dice Frank Chang con un sorriso di complicità. «Cosa? Accidenti!» Intanto Mike Donnato, i piedi nei mocassini col fiocchetto incrociati sul piano della scrivania, si accarezza la barba bionda che comincia a ingrigire. È naturale radunarsi intorno a lui; ha dieci anni più di me, è il più anziano, il leader morale della squadra. «Allora, Donnato» lo stuzzico, «com'era l'Isola Catalina? Pace e bellezze naturali? Hai fatto le tue immersioni?» Lui storce il naso. «Hai avuto fortuna.» «Sei geloso.» «Uno aspetta per tutta la carriera un'occasione del genere. Non c'è giu-
stizia.» «Ma tu e Pumpkin avete visto tanti bei pesciolini.» «Se non sparisci faccio guidare te» minaccia pigramente Donnato. «Ehi, io non lavoro più qui.» «Credi che questo arresto sia il tuo lasciapassare per la sezione C-1?» «Oggi stesso scriverò la richiesta di trasferimento.» «Attenta, bimba. Duane Carter si sta dando un gran daffare per quel trasferimento al quartier generale» dice Kyle. Duane Carter è il supervisore della sezione e non è molto amato. «Carter ha fatto incazzare troppa gente» dice Barbara Sullivan, il nostro coordinatore antirapine, soprannominata Computer Umano. «Non lo assegneranno mai al quartier generale, lo lasceranno qui a marcire.» «Ti piacerebbe, eh?» «No, affatto» risponde lei, e fa roteare sulla collana d'oro il ciondolo con la perla che porta sempre. «Se deve marcire, che marcisca all'inferno.» «Comunque sia, Duane non ti renderà le cose facili» dice Kyle. «Gli piace tormentarvi, voi fighe.» Barbara fa una smorfia. «Parole sue, non mie» spiega Kyle scrollando le spalle. «Come afroamericano, pensavo che dovessi essere particolarmente sensibile agli stereotipi offensivi.» «Chiedo scusa.» Kyle imita il suo tono sostenuto. «Non ho portato il mio manuale di femminismo e non so come ribattere.» «Prova questa: "Crepa, stupida troia!"» dice Frank, e ridiamo tutti perché abbiamo appena finito un seminario sul multiculturalismo che è stato mortalmente noioso. «Carter non avrà scelta.» Come per tagliare corto, Donnato rimette i piedi sul pavimento e spezza una ciambella zuccherata. «È stato un arresto perfetto.» Sono lusingata. «Grazie.» Il suo sguardo è pieno di calore. «Ti sei appena guadagnata gli speroni.» Rosalind, una segretaria amministrativa che lavora qui da vent'anni, ci raggiunge. «Ana, posso parlarti?» «Festeggia con noi.» «Hai sentito dell'arresto perfetto di Ana?» le fa Donnato. «Se no, te lo racconta lei.» «Ana» ripete lei con impazienza, «ti devo parlare.»
«Dalle retta che è meglio» le sorride Kyle, che potrebbe essere suo figlio, ma oggi Rosalind non ha voglia di scherzare. Sta lì in mezzo alla stanza, e mi accorgo che ha un'aria strana. «Cosa c'è?» Mi prende in disparte. Parla a bassa voce. «C'è un messaggio per te. Brutte notizie, Ana.» Qualcosa è andato storto in un caso. Quale? Il mio cervello non si è messo in moto, stamattina. Sono ancora in quel parcheggio che gioco a Sheena, la regina della giungla. Ci mettiamo nel vano di una porta per avere un briciolo di privacy. Siamo faccia a faccia. Lei è anche più piccola di me. È costretta a guardare all'insù. «Violeta Alvarado è stata uccisa.» Devo aver sgranato gli occhi come un'idiota. Mi porge un bigliettino Post-it giallo con su scritto "Mentre era fuori..." con un nome spagnolo e un numero di telefono. Lo guardo, ma non mi dice niente. «Violeta Alvarado?» Rosalind annuisce. Ha gli occhi umidi, ingranditi dalla tristezza, una tristezza disponibile per il mondo in generale. Le sopracciglia si congiungono in un'espressione di simpatia che le è stata insegnata da chissà quanti lutti. Alza leggermente le spalle. Capisce la mia confusione. È naturale, quando ti senti dire una cosa simile. Mi prende una mano fra le sue. «Hanno detto che era tua cugina.» Mi osserva, paziente, attenta, aspettando che io comprenda. 2 La mia scrivania sta fra venti altre, allineate a coppie in una grande stanza senza divisori che chiamiamo il dormitorio. C'è un'illuminazione fluorescente gialla, e il mondo esterno si vede unicamente se Duane Carter lascia aperta la porta del suo ufficio e se si riesce a sbirciare dalla sua finestra che guarda a sud su Westwood. Ma da dove siedo io si gode solo il panorama di un lungo attaccapanni di metallo grigio attaccato a un'anonima parete beige. L'unico indumento appeso all'attaccapanni è una vecchia giacca sportiva color tabacco. Sulla schiena c'è scritto a pennarello nero "Travestimento Agente Antirapine".
Sul davanti, la giacca è stata decorata da generazioni di agenti con medaglie, suggerimenti, mappe e oscenità scarabocchiate con i mezzi più vari, dall'inchiostro verde al sangue autentico (rimediato grazie a un brutto scontro fra l'agente speciale Frank Chang e un classificatore). A forza di guardarlo dalla mattina alla sera, sono arrivata a pensare al Travestimento Agente Antirapine come a un collega - un veterano che le ha viste tutte, che conosce i nostri segreti e sa tutte le risposte ma è costretto al silenzio dal doloroso destino di invisibilità muta di un fantasma. Chi soffre di più nel suo isolamento? Lui o noi? Chiamo il numero segnato sul bigliettino. Mi risponde una voce di donna matura con il sottofondo assordante di una televisione ispanica: «Bueno?». «La signora Gutiérrez? Qui l'agente speciale dell'Fbi Ana Grey.» Lei comincia immediatamente a parlare spagnolo in tono concitato. «Mi dispiace. Non parlo spagnolo.» «No?» È sorpresa. «Non c'è problema. Parlo inglese. Condoglianze per sua cugina.» La mia intuizione sul balordo della banca era giusta, e probabilmente non mi sbaglio neanche stavolta: questo dev'essere un bidone. «Un attimo, signora. Io non ho nessuna cugina che si chiama Violeta Alvarado.» «Ma sì, parlava sempre di lei. Lei è la cugina importante che lavora per il governo.» Arrossisco al pensiero di essere, per chicchessia, "la cugina importante che lavora per il governo". «Mi dispiace, ma non ho mai conosciuto questa Alvarado.» «Io sono sicura che è lei. E adesso la sua famiglia ha bisogno di aiuto.» È talmente risoluta, talmente assurda che mi fa ridere. «Ma non è la mia famiglia! Senta, io sono nata a Santa Monica, in California...» «E la famiglia di suo padre veniva dal Salvador.» Di colpo mi sento estremamente a disagio. Sono anni che nessuno nomina mio padre. A quanto pare era originario del Centroamerica, ma non ho mai saputo di quale paese, visto che ci ha abbandonate quando ero piccolissima, e a casa mia questo è sempre stato un argomento tabù. Mia madre e io abbiamo vissuto con il padre di lei, un agente di polizia, e io sono stata allevata da protestante bianca; più bianca di così sarebbe stato impossibile, su su fino all'ultima curva delle corna sull'elmo dei nostri antenati vichinghi. È vero, ho i capelli neri, folti e ondulati, ma è la mia unica caratteristi-
ca mediterranea. Gli ispanici per me sono un'altra razza, non c'è niente da fare. Con maggior freddezza, ora, le chiedo: «Perché mi ha chiamato, signora Gutiérrez? Che cosa vuole?». «Non è per me, è per i bambini di Violeta. In questo paese non hanno nessuno che si prenda cura di loro.» Una parte di me si sta sforzando di convincermi che è tutta una montatura. Ho già immaginato il meccanismo del raggiro: trovano un poveretto appena morto. Chiamano un parente (vero o inventato) che non l'ha mai conosciuto. Cercano di spillargli del denaro "per i bambini". Prima o poi qualcuno si sentirà in colpa e manderà un assegno. Comincio a prendere appunti. Magari varrà la pena di aprire un caso. «Davvero?» Sto scrivendo. «E come si chiamano i bambini?» «Cristóbal e Teresa.» «Come mai si preoccupa per i bambini?» «Abito nello stesso palazzo. Ero diventata molto amica di Violeta perché veniamo tutt'e due dal Salvador. Bado ai bambini quando lei è al lavoro. Adesso però non hanno più nessuno perché lei è morta.» «Come è stata uccisa?» «È successo in mezzo alla strada, sul Santa Monica Boulevard, a due isolati da qua. Le avevano sparato tanti di quei colpi che non aveva più le mani. Quando l'hanno messa nella bara hanno dovuto infilarle dei guanti bianchi sui moncherini.» «Cos'ha detto la polizia?» «Non sanno niente.» Si sente un sospiro o un singhiozzo, e il tono della voce si fa disperato. «Chi penserà ai bambini?» La risposta più facile è quella professionale: «La metterò in contatto con un ufficio del Comune...». Mi interrompe: «L'ultima signora per cui lavorava Violeta le deve ancora dei soldi. Se lei riesce a farseli dare, ai piccoli penserò io finché non trovano una casa, non con degli estranei... con la famiglia». Pronuncia la parola "famiglia" in un tono intimo e convinto, nel modo disinvolto in cui le persone religiose nominano Dio; è imbarazzante. La mia sola famiglia è mio nonno e il mio stile di vita è perentoriamente ateo: un appartamento ammobiliato, con una sola camera da letto, a Marina Del Rey. La Plymouth Barracuda decappottabile del 1970. Sessanta, cento ore alla settimana al Bureau, un integratore dietetico per pranzo e tutti i giorni
trenta vasche in piscina. Gli avanzamenti di carriera pianificati con tanta minuzia che potrei già tracciare un grafico su carta millimetrata: una linea retta fino a diventare vice agente speciale Capo o anche la prima agente speciale Capo di un bell'ufficio, Denver per esempio: ed essendo una donna, per arrivarci mi ci vorranno almeno cinque anni in più di passettini perfetti di casella in casella, mai un millimetro fuori squadra: niente pasticci, niente errori, niente sprechi. Prendo il mio Rolodex e le dico: «La metterò in contatto con un'assistente sociale». «No» insiste questa estranea, con assoluta autorità, «non è giusto. Lei e i bambini avete lo stesso sangue.» «Ma è ridicolo.» «Violeta e suo padre venivano dallo stesso paesino.» «Che paesino?» «La Palma.» «Mai sentito.» «Violeta mi ha detto che è un posto piccolo, a circa centocinquanta chilometri da San Salvador, con una spiaggia di sabbia nera.» Tra i pochi frammenti che restano di mio padre c'è un cimelio misterioso ma reale come una scheggia di vetro levigato dalle onde: «Quando tuo padre era ragazzo, giocava su una spiaggia di sabbia nera». Sono scossa. «Signora Gutiérrez, mi dispiace, ma ho un'altra chiamata in linea. Le auguro buona fortuna.» Riaggancio e fisso il Travestimento Agente Antirapine. Le maniche sono vuote. Il cuore non ha peso. Dopo un attimo mi accorgo che l'interfono sta suonando davvero. Barbara Sullivan ha trovato qualcosa sulla rapina in banca. 3 Un'intera parete dell'ufficio di Barbara Sullivan è coperta di fotogrammi scattati nel corso di rapine in banca dalle telecamere. A un occhio non allenato, fatta eccezione per le differenze evidenti di sesso, razza e tipo di arma, le immagini sembrano praticamente tutte uguali, e avvicinarsi può dare la nausea, investiti come si è dal sentore chimico del liquido di sviluppo, sovrastati da un mare di immagini grigie che va dal pavimento al soffitto, quasi tutte così sgranate e sfocate che ci vuole la lente d'ingrandi-
mento per cogliere i dettagli. Per il Computer Umano le foto di sorveglianza sono il pane quotidiano, che va masticato con cura, inghiottito, digerito e trasformato in una massa di informazioni da immagazzinare nel cervello, pronte per un recupero istantaneo. Il Computer Umano non dimentica niente, comprese le piccolezze della vita privata degli altri. Prima che lei si sposasse con un altro agente, Barbara e io giravamo insieme per i bar frequentati da poliziotti, e lei sa ancora recitare l'ora e il luogo in cui ho incontrato tutti i miei ex. Si ricorda perfino nomi e gradi. Il compito del coordinatore antirapine è stabilire dei collegamenti fra le duemila e più rapine in banca commesse ogni anno nella contea di Los Angeles. La maggior parte dei rapinatori solitari fanno dieci o quindici colpi da meno di mille dollari, dileguandosi con facilità nel labirinto di autostrade, o tra le maglie larghissime della rete tesa da una polizia a corto di informazioni e di personale. Adesso che ci si sono messe anche le bande giovanili, le risorse sono ancora più scarse. La nostra percentuale di arresti non è grandiosa. Spesso è il Computer Umano che, meditando davanti a questo squallido fotomontaggio, ci fornisce l'indizio che porta a un arresto. Quando entro nel suo ufficio Barbara sta leggendo la rivista "People" che ritrae Jayne Mason in copertina, e intanto mangia un po' della torta di compleanno lasciata giù in mensa da qualcuno, cioccolato con in mezzo marmellata di lamponi. Me ne dà una fetta su un piatto di carta con il disegno di Topolino, completo di tovagliolo ben piegato e forchetta di plastica rossa. Mi sono portata la tazza, perché so che nella sua caffettiera personale tiene sempre in caldo del caffè aromatizzato alla cannella. «Questa storia di Jayne Mason mi ha completamente distrutta» dice senza alzare gli occhi dalla rivista. «Tutto il mio mondo è appena andato in pezzi.» Do un'occhiata alle foto capovolte, risapute come un album di famiglia. Anche adesso, a cinquanta, sessanta o chissà quanti anni, Jayne Mason resta una delle nostre vere e non effimere stelle del cinema. «È una drogata.» Barbara sbatte la rivista sulla scrivania e alza gli occhi con un'espressione sinceramente ferita, come se si trattasse di un tradimento personale. Io bevo un sorso di caffè. «Perché ti sorprende? È un'attrice. Naturale che si droga.» «Ma dài, andiamo! Jayne Mason? Il sogno prefemminista di tutte le ragazze americane? Ammetterai che è deliziosa, no?»
Gira la rivista verso di me per mostrarmi il famoso ritratto in bianco e nero di Jayne Mason a vent'anni appena compiuti, con gli zigomi stupefacenti che allora venivano descritti così: «Puri come le curve di uno Stradivari... toccanti come un'aria di Mozart suonata su quel violino perfetto». Barbara continua, impaziente: «Non ricordi i meravigliosi musical sentimentali di una volta?». «Odio i musical.» «Lei era angelica. Faceva sempre la parte della contadinella di buon cuore a cui è appena morto il papà, o della povera monella di strada che ha l'idea luminosa di allestire un musical e che poi scopre di avere la tubercolosi. Ma niente paura: il bel dottorino le salva la vita e lei diventa una grande star di Broadway.» Sto zitta. Barbara mi guarda di traverso, esasperata. «La tua idea di un film strappalacrime è Terminator.» «Esatto. Il robot muore, è una cosa tristissima.» «La Mason ha rifiutato il ruolo di protagonista in Gigi - grosso sbaglio perché all'epoca aveva una relazione tempestosa con Louis Jourdan.» È impossibile chiudere la bocca al Computer Umano: «Il suo primo ruolo drammatico è stato in I banditi, un famoso western con John Wayne». «Quello me lo ricordo perfino io. Facevano l'amore sul picco più alto dell'Arizona e si diceva che avessero scopato sul serio.» «Guarda qua!» Barbara prende la rivista e l'accartoccia. «È una tossica! Come una qualsiasi canaglia di strada.» Le tolgo di mano la rivista ed esamino una foto di Jayne Mason scattata la settimana precedente. Sta salendo su una limousine, ha gli occhiali scuri, indossa un abito di lino bianco fatto su misura e stringe un bouquet di rose gialle. Ha l'aria di una che va a prendere un aereo per Roma, e invece sta cercando di sfuggire ai fotografi ed è diretta al Betty Ford Center. Barbara sospira. «Mettevo sempre la sottoveste sotto l'uniforme della mia scuola cattolica perché Jayne Mason sembrava così sensuale e romantica quando la portava. La prima volta che l'ho vista alla cerimonia di consegna degli Oscar avevo tre anni, e da allora ho sempre guardato la trasmissione, sperando che ci fosse anche lei. Era la regina di tutte le reginette del ballo studentesco. Dio, come avrei voluto essere bellissima.» Ma i miei pensieri sono altrove. «È impossibile ricordare una cosa che ti è successa a tre anni.» «Non per me.» «Io non mi ricordo niente prima dei cinque anni. Di tutto il periodo che
abbiamo vissuto con il nonno a Santa Monica mi resta solo un vuoto.» Barbara mi lancia un'occhiata obliqua dall'orlo della tazza. «Ne hai parlato con il tuo medico?» «Perché? È normale.» Ma l'attenzione di Barbara si è spostata di nuovo sulla rivista. «Mi è dispiaciuto molto quando Jayne non ha sposato il presidente Kennedy. Sarebbero stati la coppia sexy del secolo. Nessuno porta più la sottoveste, ormai.» Poi, senza nemmeno una pausa: «Quando torna Duane?». «Dopodomani.» «Troverà ad aspettarlo una sorpresa speciale.» Barbara sorride. Di ossatura minuta, con i capelli ricci e quasi rossi lunghi fino alle spalle, con un naso impertinente e occhi azzurri ben distanziati, ha una laurea in biologia e la mia stessa aria da agente dell'Fbi, specialmente con un tovagliolo di Topolino infilato nello scollo dell'abito giallo di lana. Mi mostra una delle fotografie delle rapine. «Ecco il tuo bello.» È lui, con il berretto da baseball e le due camicie, in piedi davanti a uno sportello della California First Bank. Non punta una pistola, non fa assolutamente niente di drammatico. Sulla foto c'è stampigliato UNSUB, Unknown Subject, cioè soggetto sconosciuto. «Ed eccolo di nuovo.» Nella seconda fotografia porta altre camicie, un altro berretto da baseball e ha la stessa faccia gonfia, gli stessi occhi stanchi. «Stesso modus operandi» continua Barbara, indicando con la forchetta, «la pistola, il berretto da baseball, le stesse istruzioni: "Dammi i biglietti da cento e niente soldi segnati".» La seconda foto ha la dicitura UNSUB, Bank of the West, filiale di Culver City, 1984. Sono stupefatta. «Ma come fai?» «Vitamina A.» «Come fai a ricordare? C'è qualche trucco?» «Certo.» Si alza di scatto, getta i piatti nel cestino e si volta verso di me con le braccia conserte. «Quando ero una recluta, Duane Carter aveva preso l'abitudine di tenermi ferma, con la schiena contro un classificatore, e di suggerire in che modo avremmo potuto impiegare il resto del pomeriggio. Io lo allontanavo
con una risata e facevo la simpatica, "per non ferire i suoi sentimenti" poi, un giorno, con uno strattone mi ha fatto sedere sulla sua erezione e mi ha infilato una mano sotto la gonna.» «Barbara!» «Sì, be', avrei dovuto sparargli in fronte, a quello stronzo, e invece... non me la sono cavata troppo bene. Mi sono messa a piangere. Gli ho detto che avevo il fidanzato. Una bugia qualunque, insomma. All'epoca non si parlava ancora di molestie sessuali.» Fa roteare la perla prima in un senso e poi nell'altro. «Con la scusa di discutere un caso mi portava a pranzo e cominciava a dire, prendiamo la suite nell'attico del Beverlywood Hotel, a raccontare quanto sono grandiosi a letto i mormoni, che loro conoscono un eccezionale segreto erotico, ecco perché hanno tante mogli e tanti bambini... e invece la verità è che lui le donne le odia.» Guardo di nuovo la scolaretta cattolica di Chicago con il suo vestito giallo e la sua collana; perfino adesso, nella sua rabbia ossessiva, ha ancora un'aria signorile. «Mi dispiace che tu abbia dovuto sopportare una situazione simile.» «Dopo sposata mi sono fatta rimettere apposta nella squadra di Duane Carter. Per anni ha pensato di usare contro di me quello sporco segretuccio. Ma i tempi sono cambiati e stavolta sono in vantaggio io.» «Ma come? Per un'azione legale è troppo tardi.» «Lo tengo d'occhio e lui lo sa. Secondo te perché sono rimasta a fare il coordinatore antirapine per tanto tempo? È la posizione perfetta per tenerlo sotto tiro. Adesso, per esempio: incriminerai quel tizio per due rapine, avrai il trasferimento alla C-1 e questo lo farà impazzire perché tu sei una donna e ci sei riuscita, mentre lui non lo trasferiscono da nessuna parte.» Le metto un braccio intorno alle spalle. È un'amica. «Non sprecare la tua vita per Duane Carter.» «Sono felice così.» Rosee e sottili, le sue labbra si serrano in un sorriso forzato. «Un giorno» le dico «verrai con me dall'altra parte del muro.» «Va' con Dio.» Tre ore dopo sono al Metropolitan Detention Center in una stanza mal ventilata riservata agli interrogatori insieme al mio bello, che si chiama Dennis Hill. Gli ho rivolto delle domande quando gli ho comunicato i suoi diritti e gli ho fatto firmare il modulo FD395, ma lui si è rifiutato di parla-
re. Porta una tuta arancione con la scritta MDC sulla schiena e ha la stessa aria sbattuta di ieri, quando l'ho arrestato: le guance gonfie e non sbarbate, ciuffi grigi incolti che si mescolano ai riccioli della nuca. «Sei proprio un bravo rapinatore, Dennis.» I suoi occhi mi guardano. C'è dell'intelligenza, lì dentro. «Questo non è il tuo primo lavoro. Solo che finora non ti avevano mai preso. Giusto?» Lui non risponde. «Vuol dire che sei bravo. Non eccezionale. Però bravo.» Gli mostro le due foto, una del suo ultimo lavoro, l'altra che ormai è storia antica. «Abbiamo queste foto. Sei tu. Tutt'e due le volte.» Guarda le foto e alza su di me due occhi grevi. «Va bene così, Dennis. Non sei tenuto a dire niente. Ti abbiamo beccato due volte.» Rimetto le foto nella busta. «Col cazzo, mi hai beccato.» Le sue prime parole. Che amore. «Ah sì?» «Non conosci neanche lontanamente la verità.» «Perché non me la dici tu?» Posa tutt'e due le mani sul tavolo e spinge indietro la sedia. Involontariamente mi irrigidisco, anche se sulla porta c'è un poliziotto alto uno e novanta. Dennis si passa una mano fra i capelli unti. «Lo sai dove abitavo?» «A Parigi.» «Palos Verdes. In una casa che all'epoca valeva... diciamo mezzo milione di dollari.» «Come rapinatore devi essere più in gamba di quel che pensavo.» Scuote la testa. «Ero direttore delle vendite alla Hughes Aero-Space. Guadagnavo duecentomila dollari all'anno.» Fa una pausa, come per darmi il tempo di mettere insieme i pezzi. Ricordo la mia prima impressione quando l'ho affrontato nel parcheggio. Sembrava fragile... giù di corda, come si va giù quando si è stati troppo su. «Chi ti ha fatto cominciare con la neve?» chiedo con gentilezza. «Io e nessun altro. Mondanità. Fortissimo con le donne. Bella macchina. Mi piaceva scommettere sui cavalli. La gran vita, hai presente?»
Annuisco. «Poi ti ha preso la mano. Hai cominciato a vendere le proprietà per pagarti il vizio. E quando hai perso tutto ti sei disperato e hai rapinato una banca. È stato facile e l'hai rifatto.» È scosso da un tremito. «Ho un figlio. Mi è venuto a trovare stamattina. Mi vuole ancora bene.» Si morde un angolo dell'unghia del pollice. «Sei una persona intelligente, istruita, Dennis. Perché non hai cercato di curarti?» «Perché amo la cocaina.» Restiamo in silenzio per un po'. Ama la cocaina. Nessuno me l'aveva mai detto con più chiarezza e meno scuse. Ama la cocaina più di quanto ami suo figlio. Ho l'impressione di poter sentire il suo sudore, il sudore del poliziotto, e sulle pareti piastrellate di mattonelle luride tutti gli strati di sudore rancido di mille altri assassini, pederasti, stupratori, drogati, divi del cinema e ladri che dichiareranno con la stessa sicurezza disinvolta che l'hanno fatto per amore. E così l'amore li assolve e li rende innocenti. Mi alzo in piedi. «Chiamo uno stenografo e stendiamo la tua deposizione.» «Su cosa?» «Sull'altra rapina.» Naturalmente, non ha ancora confessato l'altra rapina. Ci provo. Ci spero. «Non ho fatto un'altra rapina.» Aspetto con calma, pensando, in qualche modo lo convincerò. Abbiamo un rapporto. Ritornerò con... Poi aggiunge: «Ne ho fatte altre sei». Il giorno dopo Donnato mi invita a pranzo al Bora-Bora, un ritrovo di studenti con le cameriere in shorts aderentissimi e camicie hawaiane, dove servono tutto in cestini di plastica e c'è un tale rumore che a malapena riusciamo a sentire le nostre voci. «È la tua grande occasione» dice. «Esci dalla massa.» «Mi mancherai, Donnato.» Scrolla le spalle e stacca un morso di burrito al pollo. «Ti devi muovere. Te l'ho detto: sette anni. Dopo sette anni si è maturi per un salto di qualità, vale per quasi tutti gli agenti.» «Secondo te la sezione Rapimenti ed Estorsioni è la mossa giusta?»
Gliel'ho già chiesto prima, ma voglio prolungare questo momento, non so perché. «Te l'ho detto, c'è meno pressione. Più casi impegnativi. Puoi frequentare qualche corso di specializzazione, e il supervisore è una brava persona.» Allungo la mano per togliergli delle briciole di tortilla dalla barba. «Cosa farai senza di me?» «Farò impazzire di desiderio qualche altra femmina.» «È questo che pensi di me?» «Ana, tu per me sei come un libro aperto.» «Quanto sei stronzo» gli dico. «Sei l'uomo più sposato che conosco.» «Per tua fortuna.» Muoio dalla voglia di una birra ma quando viene la cameriera ordino un altro tè freddo. «Dovresti vederti» dico al mio partner. «Non riesci a staccare gli occhi da quei calzoncini da ciclista in lycra.» «Ah, sono di lycra? Pensavo li facessero col prepuzio di una balena.» Ridacchiando insisto: «Insomma, non fingere che mi consideri speciale solo perché ti lascio per sempre». All'improvviso Donnato sembra stanco delle nostre piccole civetterie. Gli capita, qualche volta. Dice che il lavoro di strada è un gioco adatto ai giovani, anche se ha il corpo saldo e asciutto di un trentenne. Però ha tre bambini, e il suo cuore è tutto per loro. In qualche punto del percorso, il padre attento ha preso un vantaggio sull'agente dell'Fbi, anche se tuttora assolve i due ruoli con una devozione e un impegno che i più faticano a dedicare a uno solo. Si vede lo sfinimento che gli cala sopra, come un'ombra. «Ana, sei un'agente eccezionale. Sono molto orgoglioso di te.» «Ehi...» L'imbarazzo mi soffoca, ma devo dirlo: «Mi hai insegnato tutto quello che so. Credo che sia venuto il momento di ringraziarti». Distogliamo lo sguardo entrambi, a disagio. Il televisore del bar è acceso sulla Cnn e la guardiamo aspettando che arrivi il conto. Lui paga e ce ne andiamo. In ufficio mi faccio dare i moduli da Rosalind e passo il resto del pomeriggio a mettere nero su bianco una dichiarazione eloquente dei motivi per i quali dovrei essere trasferita alla sezione C-1, Rapimenti ed estorsioni. Proprio alle sei e mezza, mentre sto per andare a fare la mia nuotata, arriva una telefonata del sergente investigatore Roth del LAPD. «Ana? Sono John.»
Rimane zitto per un attimo. Anch'io. Con circospezione chiedo: «Dove lavori adesso, John?». «Divisione Wilshire, squadra pronto intervento.» Un altro silenzio. Ascolto il suo respiro pesante, senza sapere che altro dire. «Sarai impegnatissimo.» «Pensavo a te.» «Solo cose belle, spero.» Sono rimasta in piedi, con la tracolla della borsa da nuoto sulla spalla, già pronta ad andarmene, più lontana possibile dalla scrivania: il filo a ricciolo del ricevitore è tirato al massimo. All'accademia dell'Fbi ti insegnano che l'ansia è una risposta del corpo identica al riflesso fuga/aggressione: riascoltare la voce di John Roth mi provoca la stessa reazione fisica che avrei se, per usare il loro esempio, un uomo col passamontagna sulla faccia uscisse dal mio box doccia. «Mi sto occupando di un omicidio commesso un paio di settimane fa sul Santa Monica Boulevard. Una ispanica, Violeta Alvarado. Nessun parente tranne due minori, ma una vicina dice che la vittima era imparentata con un agente dell'Fbi che si chiama Ana Grey.» Aggiunge, con voce monotona: «Devi essere tu». Io, tesa: «Per forza». «Così questa è una telefonata di condoglianze. Mi dispiace.» «Non ti dispiacere. Non la conoscevo neanche.» Cedo alla trazione del ricevitore. Il filo si allenta mentre mi siedo e lascio scivolare a terra la borsa. «È davvero strano, John, che ti occupi tu di questo caso.» «Lo so.» Quando John Roth e io avevamo cominciato a fare sesso ci meravigliavamo di quanto fosse potente e istantaneo il nostro legame, come se una corrente segreta ci trasportasse oltre i piaceri consueti, in una laguna di desiderio ignota a tutti gli altri. Pensavamo di essere così inventivi, unici e sbalorditivi da scherzare sull'idea di fare un documentario o di posare per qualche artista mentre facevamo l'amore; ci guardavamo allo specchio e ci prendevamo in giro con dei nomignoli, "John" e "Yoko". Così adesso, un anno circa dopo che è finita, e molto male, forse stiamo pensando tutt'e due - io con gelido spavento - che forse il nostro legame tiene ancora; che l'universo ha trovato un modo bizzarro e inatteso per avvicinarci.
«Probabilmente abbiamo un sacco di cadaveri in comune» dice John. Rido nervosamente. Lui sembra incoraggiato. «Ho chiamato in via ufficiosa perché pensavo che volessi controllare la faccenda.» «Io non c'entro.» «La signora ha insistito...» Di colpo scatta il riflesso di fuga e il mio piede si mette a tamburellare sul pavimento come se avesse una volontà sua. «Senti, John. È strano, è pazzesco, è quello che vuoi ma è una questione chiusa. Non ho mai sentito parlare di Violeta Alvarado e sinceramente non me ne potrebbe fregare di meno, per cui ti prego di non chiamare più. Devo andare. Ho una riunione.» Riattacco e afferro i familiari manici di nailon della borsa, sento il peso delle pinne e dei guanti palmati, dell'asciugacapelli pieghevole e della sacca a rete piena di vecchie bottiglie scivolose di shampoo e di lozione idratante con l'etichetta sbiadita. Attraversando il dormitorio, cerco di concentrarmi su quanto sarà bello tuffarsi in acqua e sciogliersi nei primi cinquanta metri. Col procedere dell'allenamento, la paura svanirà; prima della fine dell'ora avrò dimenticato John Roth. 4 È venerdì sera e ho grandi progetti: farò la spesa e poi un bagno caldo. Barbara mi ha prestato Pericolo imminente di Tom Clancy e me lo voglio leggere a letto con una tazza di tisana al lampone. Ha le sue gioie, la vita monastica. Ocean View Estates è uno dei più vecchi complessi residenziali di Marina Del Rey. Nel 1970, quando io avevo dieci anni e impazzava l'epoca psichedelica, conobbe un momento di fama mondiale. Durante una delle famigerate feste con scambio dei partner che si tenevano qui, qualcuno sparse dell'LSD sulle patatine e tre persone completamente partite morirono lessate nella Jacuzzi. In seguito hanno cambiato il nome da South Sea Villas a Ocean View Estates, ma gli appartamenti per single, quelli per gli inquilini di passaggio e le foresterie delle aziende sono rimasti gli stessi. Il venerdì sera c'è ancora il "barbecue tutti insieme" e si presume che la gente esca dalla tana per radunarsi intorno a due o tre vecchie griglie bisunte, ma mentre trascino la valigetta e quattro borse di plastica con la spesa passando vicino alla pisci-
na, questo venerdì sera vedo solo una famiglia patriarcale del Medio Oriente con l'aria di essere appena arrivata, donne velate di nero aprono scatole di un giallo vivace, piene di pollo, tortillas, riso e fagioli comprati a El Pollo Loco. Il mio recentissimo addestramento multiculturale mi dice che stanno facendo una bella confusione. Io abito in un vicolo cieco, fra edifici a due piani di cemento marrone che portano ancora il nome assurdo di Tahiti Gardens. È piuttosto lontana dal garage, ma è casa mia. Sono sette anni che vivo in queste tre stanze ammobiliate. C'è di buono che non sono mai stata costretta a comprare un divano. Nella cassetta della posta ci sono un mucchio di cataloghi e una grande busta scura senza mittente. Avrei potuto aprirla anche subito, se non avessi dovuto trafficare con le borse della spesa combattendo con l'urgenza disperata di fare pipì. Adesso invece la busta è lì sulla credenza. Nell'aria viziata ristagna l'odore del detergente per la moquette; immagino che la carta da parati sintetica applicata sul calcestruzzo rivestito di pannelli non lasci traspirare i muri. Spalancando le pesanti porte finestre, esco sul balcone a godermi il panorama della più grande banchina artificiale per imbarcazioni da diporto del mondo, seimila barche lungo una fila ordinatissima di moli, una foresta semovente di alberi bianchi. Mi piace guardare le barche, anche se non mi è mai capitato di salire a bordo; faccio spaziare lo sguardo sulle manovre e sulle vele azzurre, sulle dolci curve degli scafi bianchi luccicanti di luce dorata. Un giorno o l'altro imparerò la vela. Tre quarti d'ora dopo ho messo via la spesa e sfoglio i cataloghi per scegliere chi mi farà compagnia a cena, se Eddie Bauer o J. Peterman. Scatta il timer e tiro fuori dal forno a microonde il pollo cordon bleu preparato da Boy's Market - un piccolo strappo alla regola - mi siedo su uno sgabello in cucina, e mi avvolge la nuvola di vapore profumato di crostini tostati e gorgonzola. Apro una Amstel Light. E la busta. Dentro ci sono le fotografie di un'autopsia scattate dall'ufficio del medico legale della contea di Los Angeles. Fisso le immagini stampate su carta lucida con una sensazione di incredulità sbigottita. Sono dei diciotto per ventiquattro, e più pornografiche di qualunque cosa io abbia mai visto o immaginato. Una targhetta riprodotta nell'angolo a destra di ciascuna fotografia identifica la vittima come v.
ALVARADO. Non c'è lettera di accompagnamento, e non ce n'è bisogno: le tracce della furia del mittente sono impresse dovunque, come impronte digitali. Prima ci sono le vedute dall'alto di un incrocio, con una freccia tracciata a matita grassa per indicare il probabile percorso della macchina. Poi una panoramica della zona: bar, ferramenta, angoli di strada, vicoli. Veduta d'insieme della scena del delitto; il corpo a faccia in giù sul marciapiede. Segnali bianchi triangolari vicino a una borsa volata a un metro e mezzo di distanza, altri segnali dove le pallottole hanno colpito la panchina di una fermata di autobus e un muro. Più vicino al corpo. La donna aveva piedi minuscoli, nudi. Chissà che ne è stato delle scarpe. I jeans aderenti con le cerniere alle caviglie hanno dei fiori bianchi ricamati sulle tasche. La camicia è ancora infilata nei calzoni, ma tutta la schiena è annerita dal sangue e da una cascata di capelli scuri che si confondono con l'ombra violenta creata dal flash. La faccia, nel profilo che offre alla macchina fotografica, è a forma di cuore, con le mascelle dischiuse, la lingua gonfia che fuoriesce dalle labbra nella classica posa della morte per soffocamento. Gli occhi sono socchiusi, ed è questo che richiama l'attenzione, nella foto, quelle schegge di ossidiana che luccicano tra palpebre indecise fra il tormento e il nulla. Le fotografie dell'autopsia vera e propria, da quando il corpo completamente vestito viene introdotto nel teatro anatomico e poi via via in ogni fase della procedura, sono di un'atrocità indicibile. Il peggio però - mentre siedo sullo sgabello di cucina, raggelata - non è tutto quel sangue sul tavolo, ma la prima fotografia del corpo nudo e supino sul marmo, quando è appena stato svestito e sembra ancora una persona. È una vergogna guardare così, senza pudore, una donna che non è più in grado di difendersi, gambe e braccia aperte nella morte, sporca di sangue, esibita brutalmente, senza più segreti. L'incredibile violenza necessaria a mutilare fino a questo punto un corpo umano è una efficacissima lezione di modestia. Mio Dio, penso, qualcuno si prenda cura di questa donna, copritela col lenzuolo, fate qualcosa ma ridatele la sua dignità. Le altre foto documentano il sondaggio delle ferite per estrarre le pallottole calibro 45. L'incisione a Y lungo l'addome fino all'osso pubico. La rimozione della gabbia toracica, che, mi dicono, viene eseguita con un paio di cesoie da potatura. L'esame degli organi interni. Alla fine, tutto ciò che resta della vittima, della violenza subita e dell'esame scientifico di quella violenza è una carogna scarnificata. Un rifiuto senza vita, e avanti il pros-
simo. Nel plico non c'è nessuna documentazione medica, tranne un modulo prestampato che dice IN ATTESA DI RAPPORTO DEL PERITO SETTORE. Rimetto le foto nella busta, scossa da quel che ho visto e sdegnata per il fatto che John Roth ha voluto mandarmele. Ma perché dovrei sorprendermi? Ha sempre preferito la tattica dello shock: telefonava a mezzanotte, spuntava ubriaco da dietro un pilastro nel garage. Sei mesi fa ho saputo che gli avevano dato trenta giorni di sospensione per aver sparato un colpo di pistola nel monte di lancio di un Campetto da baseball in un parco pubblico, nel corso di una festa fra poliziotti. Salto giù dallo sgabello e vado dritta in camera da letto. L'odore del gorgonzola surgelato mi dà la nausea. Faccio il suo numero senza pensare: «Piantala di buttarmi addosso questa merda». «Calmati, Ana. Sei fuori di te.» Dalla voce sembra fumato. L'ho trovato nel suo appartamento di Redondo Beach, e posso benissimo immaginarlo seduto al vogatore - l'unico altro pezzo d'arredamento è un NordicTrack - con addosso solo i calzoncini e con uno spinello in bocca. È giovane, come sergente investigatore; si è costruito un torace di prima categoria, ma porta ancora quel tipo di baffi alla Tom Selleck che andavano di moda negli anni Settanta, forse per distrarre gli sguardi dalle cicatrici dell'acne che gli solcano le guance. «Ana... cos'è che ti fa tanta paura?» È la stessa domanda che mi sussurrava a letto, sfidandomi ad andare più in là, fino a oltrepassare certi confini remoti. Quando gli dissi che ne avevo abbastanza, il bombardamento di fiori, messaggi sulla segreteria, fax, teneri pupazzetti con le braccia aperte, diventò aggressivo come il suo modo di fare sesso, esasperandomi al punto che una volta gli tirai un cazzotto e lo colpii alla mascella. Più mi sottraevo e più lui mi aggrediva, implacabile, sempre più irrazionale, finché non cominciai a girare sempre armata. «Perché l'hai fatto, John?» «Pensavo che volessi dare un ultimo sguardo a tua cugina.» «Vaffanculo.» «Dici a me?» Ride. «La tua sefiorita Alvarado era una spacciatrice.» Nella descrizione della signora Gutiérrez la sefiorita Alvarado era una madre che affrontava mille traversie per i suoi due bambini. «Cosa te lo fa pensare?» «È stato un omicidio su commissione.» Sono interessata. «Ci sono testimoni?»
«Un ragazzo di strada, un certo Rat, ha chiamato il 911 e poi, com'era logico, ha detto agli investigatori di non avere visto niente. Va be'. Le hanno sparato da un'auto in corsa. L'arma è un Mac-10 calibro 45 automatico, ci si può solo ammazzare la gente. Quindici colpi. La vittima è stata raggiunta da sette proiettili.» «Magari erano pallottole vaganti.» «Da' un'occhiata alla foto numero cinque.» Torno in cucina col telefono e prendo la foto numero cinque, quella che mostra il corpo dopo che è stato lavato per esaminare le ferite. Le pallottole di più di un centimetro di diametro non fanno bei forellini. Spaccano le ossa. Squarciano la trachea e causano emorragie toraciche. «È un macello.» «Hai presente quando ti fanno un'iniezione? Immagina che ti ficchino in corpo qualcosa della grossezza di una matita.» «Come si muore?» «Il sangue invade la cavità toracica e non riesci a respirare.» «Secondo te quanto ci vuole per annegare nel proprio sangue, John?» «Un paio di minuti» risponde, pratico. «Uno sta lì sdraiato e intanto ci pensa su. Guarda le mani.» Non ci sono mani, solo due moncherini insanguinati. «Le hanno fatto saltare via le mani» mi spiega. «Una punizione per essersi presa qualcosa che non le apparteneva. Ai grossisti di droga questi messaggi piacciono. È un simbolo che può capire anche un analfabeta.» È più facile parlare da colleghi, in un tono professionale. È un contesto senza rischi. Ricordo che c'era anche questo, nella nostra storia. «Qualche prova materiale che si tratti di droga?» «No, ma cosa fa una donna sul Santa Monica Boulevard alle cinque del mattino? O spaccia crack o batte.» «Un'insinuazione tipicamente maschilista.» «Esatto.» «Bravo.» «Questa Gutiérrez continua a seccarci, giura che la vittima era imparentata con Ana Grey del grande Fbi e che lo può provare.» «Provare come?» «Yo no sé, ma nel mio cervello obnubilato è passata l'idea che se la Alvarado spacciava e quei signori erano abbastanza incazzati da farla fuori, se vengono a sapere che tu sei una federale... Che cazzo ne so, magari ci può essere qualche conseguenza spiacevole.»
«Grazie del pensiero.» Adesso sento chiaramente che tira una boccata dallo spinello. E mentre soffia fuori il fumo: «Rilassati, Ana. Sarai felice di sapere che in questo periodo mi scopo la tenente della Omicidi». Di cosa avevo paura? John Roth aveva smesso di chiamarmi solo quando lo avevo minacciato di chiedere un'ingiunzione del tribunale. Qualche settimana dopo avevo trovato un tampax insanguinato appeso alla porta del soggiorno: un simbolo trasparente del fatto che John frequentava un'altra donna. Non l'ho mai affrontato, non ho mai avuto le prove, ma feci cambiare la serratura e smisi di uscire con gli uomini. «Ne sono lieta, per tutti e due.» Impossibile camminare o anche solo mettere piede sui balconi del condominio di North Hollywood dove abitava Violeta Alvarado; sono puramente decorativi, come se qualche grata di finto ferro battuto e qualche lampada spagnoleggiante potessero trasformare una scatola di cemento arancione in una hacienda. È un tipico esempio di edilizia popolare della West Coast, un'architettura sbilenca di trapezoidi in cemento precompresso che dà su un parcheggio scoperto, in modo che tutte le finestre si guardino e al centro si formi un cortile che rimanda e amplifica tutti i suoni. Qualcuno ha infilato una bicicletta fra la finestra di casa e la grata di metallo. Inutile dire che è al secondo piano, altrimenti la bici sarebbe stata smontata pezzo per pezzo attraverso le sbarre, come uno scheletro spolpato. Non c'è nessuno in giro, in questo lunedì mattina. Un ronzio mi apre il portone metallico deformato, passo sotto una scultura pensile che somiglia alle viscere di un organo a canne, evitando l'ascensore perché chissà cosa può esserci in agguato, e salgo due rampe di scale metalliche. Nell'appartamento c'è un odore di insetticida e di pesce fritto. Calpesto un sottile tappeto da quattro soldi color caffellatte che si arriccia sotto i miei piedi. Se non si inciampa nel tappeto, si rischia comunque di finire addosso ai cinque o sei bambini che si rincorrono in due stanzette. «È qui che abitava Violeta Alvarado?» «Sì, ma adesso ci vivo io.» La signora Gutiérrez mi fa accomodare su un divano di stoffa ruvida a scacchi verde pisello e gialli, di quelli che si trovano nei motel a dodici dollari l'ora di Tijuana. «Lei abitava con Violeta?» «No, avevo un appartamentino qui sopra. Un monolocale. Ho subito
chiamato il padrone di casa e gli ho chiesto se potevo prendere questo.» La signora Gutiérrez si accende una sigaretta. È una donna formosa, con una acconciatura inverosimile: i capelli sono tinti di un nero lucido, tagliati corti intorno alle orecchie e raccolti in alto sulla testa per poi ricadere fin sotto le spalle come una specie di mantiglia. Porta un abito giallo senza maniche, spietato con un corpo tozzo; la gonna corta mette in mostra le gambe grassocce e i piedi nudi con le unghie dipinte negli infradito di gomma. «Allora dopo che Violeta è stata uccisa lei ha preso il suo appartamento.» Osservo la sua reazione. Annuisce. «Dovevo sbrigarmi. Lo voleva un mucchio di gente.» È fiera di aver fatto una mossa abile. È abituata a lottare per sopravvivere. «Sono questi i figli di Violeta?» «Teresa e Cristóbal sono di là. Ho organizzato una specie di asilo. A San Salvador ero responsabile della cucina di un grande albergo. Avevo una bella casa bianca, un marito e due figli - tutti ammazzati dai militari.» «Mi dispiace.» «Qui non sono riuscita a trovare un buon impiego come quello. Così bado ai bambini mentre i genitori sono al lavoro.» I bambini sembrano puliti, sani e occupati a giocare tra loro con le poche bambole rotte e i cubi ammaccati che vedo in giro. Avverto un odore acido e pungente mentre la signora Gutiérrez si alza mormorando qualcosa in spagnolo e dalla culla traballante di legno, che cacciata nell'angolo com'è mi era del tutto sfuggita, toglie un bambino piccolissimo. Non mi muovo mentre lei cambia il bambino su un tavolino pieghevole, e guardo le stampe giapponesi appese alle pareti insieme a immagini di vulcani, cominciando a sospettare che le cose stiano semplicemente come sembrano: niente drogati, niente puttane, niente violenze sui minori, nessun imbroglio. La signora Gutiérrez si sistema il bimbo sulla spalla e gli dà qualche colpetto sulla schiena. «Sono molto contenta che lei sia qui» dice. «Sono venuta a pregarla di smettere di raccontare in giro che Violeta Alvarado era mia cugina.» La donna rimette il bambino nella culla, apre il cassetto di un comò di compensato, e tira fuori una piccola Bibbia piena di carte piegate. Toglie gli elastici che tengono insieme il tutto, arrotolandoli con cura intorno al polso per non perderli, pesca un biglietto da visita bianco e me lo dà. «Ecco perché so che è vero.»
Sotto il sigillo dorato, il cartoncino porta stampate in nero, a caratteri sobri, le parole FEDERAL BUREAU OF INVESTIGATION, Ana Grey, agente speciale, insieme all'indirizzo e al telefono del nostro ufficio di Wilshire. «Ci sono mille modi in cui poteva procurarsi il mio biglietto.» La signora Gutiérrez indica con un'unghia color bronzo. «Guardi dall'altra parte.» Girando il biglietto vedo scritto di mio pugno "Ufficio Immigrazione e Naturalizzazione, 300 North Los Angeles St., 213-894-2119". «È lei che l'ha dato a Violeta appena arrivò qui.» «Onestamente non ricordo.» «È stato sette anni fa.» Congiunge le mani sotto il seno e si appoggia allo schienale con un cenno affermativo soddisfatto. Deve essere successo quando ero una recluta ed ero di turno al servizio informazioni. Forse una giovane ispanica timida e tremante è salita nell'enorme grattacielo ed è venuta all'Fbi. Probabilmente non parlava inglese (la fantasia adesso si precisa, una contadina, umile, una gran massa di capelli neri) e io ho fatto scivolare l'indirizzo dell'ufficio immigrazione attraverso la fessura dello sportello, con un'aria condiscendente, dicendole con impazienza di provare altrove, troppo gasata dalle vere sfide che mi attendevano per ascoltarla, per badare a cosa farfugliasse in spagnolo quest'ennesima immigrante disorientata, e intanto lei si allontanava delusa dal doppio vetro a prova di proiettile che ci separa dal pubblico. Il biglietto che ho in mano sembra provare che una volta ci siamo incontrate. Mi domando se può essere andata così, se in qualche modo la mia arroganza può aver portato una giovane donna a prendere una strada dove l'aspettavano una scarica di mitra e una morte atroce. Infilandomi il biglietto nella tasca della giacca dico: «Che parentela ci sarebbe tra noi?». «Una volta mi ha detto che eravate cugine per parte di suo padre.» «Non so molto della famiglia di mio padre.» «Adesso le faccio vedere.» Si inumidisce le labbra e sfoglia le carte, reggendole col braccio teso e strizzando gli occhi. «Questa è la madre di Violeta, Constanza. Probabilmente è sua zia.» Nell'istantanea una donna di mezza età è in piedi in uno spiazzo che sembra circondato da una vegetazione lussureggiante. Ha i capelli neri
scarmigliati e delle ombre scure sotto gli occhi, ma sorride con calore. Indossa un abito bianco e nero con dei disegni a fiori arancione chiaro, è scalza e tiene in braccio un bambino. «Questa è la casa dove è cresciuta Violeta.» A me sembra piuttosto l'intelaiatura incompiuta di una casa, fatta di canne di bambù, tela e foglie, senza tetto e senza pareti. Ci sono fotografie dei fratelli di Violeta - altri presunti cugini - che scartocciano il granturco, e un'immagine sfocata di un pappagallo su una palma, coi colori sbiaditi in un verde acqua uniforme e spento. Scuoto la testa. Quelle foto non mi dicono niente. «La polizia pensa che Violeta fosse coinvolta in qualche storia di droga.» «Non è vero.» La signora Gutiérrez mi fissa con i suoi occhi castani, luminosi. «Pensano che sia stata uccisa per questo.» «Alla polizia sono matti. La conoscevo bene, Violeta. Lei della droga aveva paura. Non voleva far crescere i suoi figli in mezzo alla droga e alle bande, ecco perché risparmiava per tornare in Salvador. Era una brava persona» insiste, gli occhi pieni di lacrime. «Amava i suoi bambini. Nel nostro paese c'era una guerra, e lei è venuta fin quassù negli Stati Uniti per farsi ammazzare in mezzo a una strada.» Tiene il mozzicone della sigaretta sotto l'acqua corrente finché non si colora di un grigio malsano e poi lo getta con rabbia in una pattumiera metallica. «Dove lavorava?» «Faceva la governante da una signora di Santa Monica. Quella signora le doveva un mucchio di soldi.» «Quanto sarebbe un mucchio di soldi?» «Saranno...» Con un pugno sull'anca, fissa il soffitto biancastro. «Quattrocento dollari. Violeta era disperata. La signora era cattiva e l'ha licenziata.» «Perché?» «Non per colpa sua» dice seccamente. «Chieda alla signora. Ho l'indirizzo perché badavo ai bambini quando Violeta lavorava da lei. Guardi. Ecco Cristóbal e Teresa.» Due bambini attraversano la stanza correndo. La ragazzina potrà avere cinque anni, suo fratello tre. La bimba lo porta per mano vicino al frigorifero, riesce ad aprirlo dopo parecchi tentativi, e allunga la mano per cerca-
re qualcosa. «Te lo do io, corazón. Cosa vuoi?» «Il Kool-Aid.» Di colpo nell'appartamento irrompe una musica latina a volume intollerabile che sale dal parcheggio condominiale. Scosto le tendine sintetiche di un sudicio beige e vedo due giovanotti con uno di quegli enormi stereo portatili, che ridono, parlano forte e srotolano una canna di gomma in direzione di una Dodge Dart del 1975 che ha perso quasi tutta la vernice. Stanno per lavare quel rottame sprecando una mezz'ora d'acqua dell'acquedotto pubblico nel pieno di una grave siccità. Sento la tensione che mi irrigidisce il collo. «Cristóbal, Teresa, questa è la señorita Grey. Una cugina vostra e della vostra mamma.» Di fronte a me ci sono due bambini con la pelle dorata, gli occhi a mandorla e due tazze di plastica in mano. È impensabile che abbiano qualcosa a che fare con me. La bambina, senza sorridere, distoglie lo sguardo. Ha indosso un paio di calzoncini rosa e una maglietta striminzita e stinta che ha tutta l'aria di essere sopravvissuta agli anni Sessanta. Gli shorts verde militare del bambino sono di parecchie misure troppo grandi, ripiegati più volte alla vita e fermati con una spilla di sicurezza; la maglietta non ce l'ha proprio. «Tu lo sai dov'è la mia mamma?» chiede. «La tua mamma è in cielo» dice la signora Gutiérrez, arruffandogli i capelli neri e folti. «Te l'ho detto.» Ma il bambino ripete la sua domanda in tono implorante, rivolgendosi a me. «Tu lo sai dov'è la mia mamma?» La signora Gutiérrez fa schioccare la lingua in segno di simpatia e lo prende in braccio. «Vieni qua, Cris. Vuoi ballare con me?» Dondola i fianchi al suono della musica che fa tremare il pavimento; fa rimbalzare il bambino contro il suo corpo e risponde con una risata a piena gola, con un ampio sorriso a quel sorrisetto storto e sconcertato. «Teresa! Balliamo! Un po' di merengue!» La bambina è di fronte a me, immobile, con lo sguardo che non si posa su nulla in particolare. Attratta da lei, piego le ginocchia finché i nostri occhi sono alla stessa altezza, e poi, senza quasi rendermene conto, le sfioro la guancia con la mano. Lei si butta a quattro zampe e striscia sotto la culla, rannicchiandosi con le braccia incrociate, la faccia girata verso il muro. Sento un ronzio inquietante, remoto, che poi mi raggiunge all'improvvi-
so con una forza tremenda: fra i tonfi ritmati della musica, mi sento invadere da vampate di calore e da una paura nuda, incomprensibile. In preda al panico, resisto al bisogno di seguire Teresa sotto la culla, di rimpicciolire tanto da potermi nascondere in un posto piccolo e buio, di farmi minuscola, quasi immateriale come un ragnetto che riesce a sparire in una fessura dell'intonaco, al sicuro, perché se sei tanto piccola anche il tuo dolore dev'essere piccolo, abbastanza piccolo da essere trascurabile e poi, finalmente, svanire. Incredibilmente, hanno alzato ancora il volume della musica. La signora Gutiérrez raccoglie le carte e le rimette nella Bibbia. In un tono di tranquilla intensità che riesce a farsi udire nel frastuono mi dice «La prenda. Era di Violeta» e mi caccia il libro in mano. «Se anche riesco a farmi dare i soldi... Non saranno per lei...» grido, ma lei si è abbandonata a un'espressione distante, scivolando via in un fluido passo laterale; il bimbo che sorregge sul fianco è troppo stordito dai movimenti del ballo e dal volume della musica per piangere. «I soldi andranno ai bambini. E probabilmente li daranno in affidamento...» Stringo fra le dita il cuoio screpolato della Bibbia di Violeta Alvarado, e mi arrendo, sopraffatta; ho perduto la bambina nel suo dolore inesprimibile, e la signora Gutiérrez nei sogni del merengue. 5 Abbiamo motivo di credere che "Pericolo giallo" abbia colpito ancora. Questo appellativo infamante è stato affibbiato da Duane Carter, supervisore della squadra, a una giapponese sulla trentina, che veste in modo elegante, porta molti gioielli d'oro, ha le unghie lunghe sempre fresche di manicure e una spiccata preferenza per la Los Angeles Valley. Agisce mescolandosi alla clientela per cogliere di sorpresa i cassieri. Pensiamo che abbia al suo attivo una dozzina circa di rapine, la più recente alla Washington Savings and Loan di Sherman Oaks. Donnato e io rispondiamo al 211 e arriviamo sul posto quasi insieme alla polizia locale. Appena iniziamo i colloqui con i testimoni il mio cercapersone si mette a suonare. Quando chiamo l'ufficio, Rosalind mi comunica che Duane Carter mi vuole vedere immediatamente. La prego di dirgli di andare a quel paese, più o meno, perché ho un'indagine da seguire. E una volta finito, tre ore più tardi, me la prendo calma. Sono in vena di chiacchiere. Donnato sta sulle sue.
«Dopo qualche anno alla C-1 chiederò il trasferimento al quartier generale. Ho sempre desiderato vivere a Washington.» «D'estate Washington è una città di merda.» Siamo imbottigliati sulla superstrada 405, in direzione sud; in entrambi i sensi di marcia c'è un serpente immobile di macchine fra aride colline brune. «Peggio di così?» Donnato non risponde. Lascio perdere. Vive a Simi Valley, e per comprarsi la casa ha dovuto chiedere un prestito ai suoceri. Se tutto va bene è a un'ora da Westwood; stasera gli toccherà risalire il traffico in direzione nord, dalla parte opposta a dove stiamo andando adesso, e quando arriverà a casa, alle otto o alle nove, per un'ora farà i compiti col figlio maggiore, che ha un disturbo dell'apprendimento ed è una perenne fonte di preoccupazione. Quindici anni fa Donnato ha sposato una ragazza di Encino, e sposato è rimasto. Avevano dei problemi e si sono separati per sei mesi quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, ma all'epoca Donnato e io non eravamo ancora in confidenza e lui non ne parlava. Donnato oltretutto è una delle persone più oneste che io conosca («nella vita io seguo delle regole» mi ha detto una volta, e non scherzava) e secondo me, per quanto infelice fosse si rifiutava di tradire la fiducia di sua moglie. Quando si sono riconciliati il sollievo è stato generale - la Rocca di Gibilterra reggeva ancora - e come a voler ribadire il loro legame, subito dopo Rochelle e Mike hanno vinto insieme la nostra corsa annuale da Bakersfield a Vegas. Tutte le volte che ci si accosta alla sua scrivania si è costretti a vedere la foto incorniciata con loro due fradici di sudore che si baciano sopra il trofeo. «Non fare la stronza con Duane Carter» dice alla fine, emergendo dalle profondità di un silenzioso malumore. «Cioè?» «Ti ho sentita al telefono, mentre ti atteggiavi a miss Homoltodafare. Non lo stuzzicare. Carter è come un topo in trappola.» «Perché darebbe qualunque cosa per una promozione?» «Voleva il posto di Galloway, voleva dirigere tutto l'ufficio. Mettiti nei suoi panni: un newyorkese cattolico, nientemeno, che lo tiene per il collo.» «A quanto pare, Galloway è stato sveltissimo a capire che aria tira.» «Galloway cammina anche lui sul ghiaccio. È qua da otto mesi e si è sempre tenuto defilato, cercando soltanto di non commettere errori. Carter lo innervosisce.»
«Non ho niente da temere da Duane Carter» dico disinvolta. «L'arresto alla California First parla da solo.» Donnato grugnisce e non risponde. Io accendo la radio ma a lui non interessa "Sports Connection", perciò la spegne, guardando in silenzio fuori dal finestrino mentre io avanzo a fatica, un centimetro dopo l'altro, lungo l'arteria intasata e interminabile, auto, auto e ancora auto a perdita d'occhio. Duane Carter è nel suo ufficio e sta sbrigando delle pratiche quando finalmente arrivo; ho la sensazione che questa faccenda, di qualunque cosa si tratti, andrà più liscia se lo saluto con una frase un po' conciliante. «Scusa se ci ho messo tanto, ma c'era un traffico incredibile.» «Figurati se non lo so.» Duane viene da Austin, nel Texas, e ha l'accento inconfondibile di quelle parti. In un altro, questa intonazione pigra e strascicata potrebbe essere affascinante - ricorderebbe i cowboy dal cuore d'oro - ma in Duane è gelida e minacciosa, da pistolero senza il minimo riguardo per la vita umana. Quando ti si rivolge con quella parlata lentissima da bravo ragazzo d'altri tempi, sembra che ti punti con tutta calma una calibro 45 in mezzo agli occhi. Lo definirei un individuo antisociale ma la verità è che odia il suo prossimo. E lui non piace molto a nessuno, forse perché ha il viso completamente glabro. Sembra un adolescente malcresciuto: un quindicenne con la pelle di un pallore burroso e un grosso corpo molle e ingobbito. Ha la faccia tonda, i capelli neri, Usci e lucidi - con un ciuffo che gli scende sempre sulla fronte - e gli occhi neri, impenetrabili. Ha frequentato buone scuole, si è laureato a Georgetown, ma in lui c'è ancora un che di pericoloso e imprevedibile, una brutalità da paese arretrato che stona con tutta la sua cultura. Un collega mi ha detto che una volta Duane gli ha confessato di essersi sposato vergine. Afferma di non essere più praticante, ma ha fatto carriera al tempo che l'ufficio di Los Angeles era in mano alla "mafia dei mormoni". Li hanno dispersi quando una causa per discriminazione intentata da alcuni agenti ispanici ha spezzato la struttura di potere, e adesso qui sembra di stare in un manifesto per la Settimana della Fratellanza. Questo è successo prima che arrivassi io. A qualcuno dei ragazzi piace fermarsi a chiacchierare un po' con lui, per via della sua collezione di spade giapponesi ma, per una donna, varcare la soglia del suo ufficio è come entrare in
una cella frigorifera. Mi immagino sempre le carcasse delle agenti che mi hanno preceduto penzolare da ganci simili a scimitarre cesellate. «Dove sei stata ieri?» Ci devo pensare. A casa di Violeta Alvarado. «A North Hollywood.» «Come mai?» «Una questione personale.» «Durante l'orario di lavoro?» Dovrei incassare il colpo e lasciar perdere, ma me la sono presa perché sono due giorni che il capo è tornato e intenzionalmente non ha fatto nessun commento sull'arresto più sensazionale dell'anno. «Se guardi il mio cartellino ti accorgerai che sono stata in servizio per tutta la sera di martedì scorso, a scrivere la dichiarazione giurata sull'arresto alla California First Bank. Probabilmente totalizzerò un centinaio di ore lavorative, per quello.» Duane si limita a far rimbalzare una palla da tennis sulla scrivania e a guardarmi con gli occhi che luccicano. «L'ho guardato, il tuo cartellino. Ho visto anche la tua dichiarazione giurata, altrimenti perché ti avrei chiesto di tornare dalla Valley, questo pomeriggio?» Sento il morso della paura. «Perché?» «Hai combinato un pasticcio, cara mia.» «Come?» «Tu resta lì e pensaci su. Io vado a fare una pisciata e quando torno so che avrai la risposta, perché sei una ragazzina intelligente.» Mi lascia lì, paralizzata sulla sedia, ferita da un'umiliazione primitiva, come se stesse per farla addosso a me, la pisciata. Quando torna ho le mani sudate e il respiro affrettato. «Ho seguito il regolamento.» Poi, come una bambina, me lo lascio scappare di bocca: «È l'arresto perfetto». Duane si accomoda dietro la scrivania e ricomincia a giocherellare con la palla da tennis. «Sarebbe stato perfetto» risponde in tono neutro «se avessi detto a qualcun altro che cosa succedeva.» «Cioè?» «Non hai fatto la chiamata di 211 in corso.» Scoppio a ridere. Il sollievo è così profondo che viene voglia anche a me di fare pipì.
«Tutto qui?» «Non sapevi che cosa stava accadendo all'interno della banca.» «Non avevo modo di saperlo.» «Appunto, ragion per cui eri tenuta a fare la chiamata. Hai esposto te stessa e i civili presenti a un rischio irragionevole.» Non riesco a trattenermi dal buttare là una battuta. «È andata a finire bene.» «Come poteva finire malissimo.» «Be', invece no. Si vede che sono buona e me lo merito.» Sto a braccia conserte e con le gambe allungate davanti a me. Lo sfido, adesso. Battimi se ci riesci. «Sono contento che tu la prenda alla leggera, Ana.» «Quando si tratta di lavoro non prendo niente alla leggera, ma con tutto il rispetto, Duane, penso che tu sopravvaluti la situazione.» «No. Hai dato prova di scarso discernimento. Questa è la mia valutazione.» Ha usato le parole "discernimento" e "valutazione", e quasi mi si è fermato il cuore. "Discernimento" è una delle voci della scheda di valutazione semestrale. Se mi dà un giudizio negativo, rallenterà di anni la mia carriera nell'Fbi. So cosa devo dire, e mi pesa e mi disgusta come se mi costringesse non solo simbolicamente a leccargli il culo. «Messaggio ricevuto. La prossima volta farò la chiamata.» «No, Ana, temo che scusarsi non basti.» «Non mi sono scusata. Ho detto che la prossima volta farò la chiamata.» Duane mi guarda serissimo. Serio ed equilibrato, il papà che si preoccupa solo per il mio bene. «Vedo che hai presentato richiesta di trasferimento alla sezione C-1.» «Esatto.» «Ana, sai bene che io credo nell'assoluta trasparenza...» Questa non vedo l'ora di raccontarla a Barbara. «... e dunque voglio che tu sappia fin da subito che accluderò una nota alla tua richiesta.» «Che genere di nota?» «Scriverò che secondo il mio parere di tuo supervisore diretto, hai dato prova di scarso discernimento e non sei pronta per il trasferimento. Ti dobbiamo tenere vicino a casa per un altro po'.» Ormai sono irrigidita da un gelo polare. Riesco a malapena a piegare le
ginocchia. Chissà che muovendomi così, alzandomi in piedi lentamente, io non sembri disinvolta e rilassata. «Non è di tua competenza dare un giudizio del genere.» «Lo so. Spetta all'agente speciale Capo Galloway.» «E bisogna vedere che decisione prenderà.» Duane annuisce quasi con calore. «Staremo a vedere. Certo.» Passo accanto al centralino, ritiro due messaggi della signora Gutiérrez e proseguo verso la mia scrivania, anche se qui nel dormitorio le luci sembrano spaventosamente fioche, e in effetti su entrambi i lati del mio campo visivo c'è il buio, e il mondo si restringe a quel che ho davanti, cioè il mio telefono. Lo afferro con tutt'e due le mani tentando di scardinarlo dalla presa; nonostante sia ben inchiodato riesco a strappare il cavo dalle graffe che lo assicurano al pavimento, e finalmente ho abbastanza gioco per prendere il telefono e scaraventarlo contro la parete. Sento due braccia che mi circondano, l'odore della camicia inamidata di un uomo, e a un tratto sono sul pianerottolo, con la faccia contro il muro e le mani imprigionate dietro la schiena. Il mio naso è piegato. Sto respirando con la bocca, affannosamente. Mi lasciano andare le mani. Resto immobile. Le spalle mi dolgono per la torsione e lo strappo. «Ti sei calmata?» Annuisco, ancora faccia al muro. Quando dietro di me non percepisco più nessun movimento, mi giro e crollo a sedere sulle scale di metallo. Donnato è accanto a me. «Spero di essere stato l'unico spettatore della tua esibizione.» Mi strofino il naso con la manica. È graffiato, sanguina. Non sembra rotto. «Scusa. Ti dovevo portare fuori di là. Non sapevo se eri armata.» «Armata» ripeto con voce roca, come se con un fucile da assalto avessi potuto fermare quella spaventosa ondata di tenebre. «Quando ti ha chiamato col cercapersone, alla banca, ho capito che voleva fare il furbo. Ha costruito la sua carriera camminando sui cadaveri dei colleghi. Con te è la stessa cosa. Non farne una questione personale, dài.» Mi chino e mi prendo la testa fra le mani. Voglio sparire, lo voglio disperatamente. Diventare quell'esserino minuscolo nascosto in fondo al buio, trascurabile e solo. «Dimmi qualcosa» mi invita, con tanta gentilezza che mi scende una lacrima.
Scuoto la testa senza parlare. Non capisco queste emozioni travolgenti, senza nome. A quanto pare non riesco a dominare la mia voce. Passa qualcuno. Io distolgo la faccia. Donnato lo apostrofa in tono allegro: «Come stai?», e quello continua a scendere rumorosamente le scale. «La crisi del settimo anno» dice quando se ne sono andati. «Ah, davvero?» «A meno che tu non sia una psicopatica e me l'abbia nascosto per tutti questi anni.» Con un mezzo sorriso rispondo: «Ci ho provato». «Questa è una nuova versione di Ana Grey. Cosa succede?» Non so descriverlo. «Sono sotto pressione.» «Posso capirlo. Fatti offrire da bere.» Mi vergogno moltissimo di essermi comportata da sciocca, e non ho proprio voglia di sedermi a rimuginarci su. Se l'umiliazione lacerante di aver perduto il controllo non mi avesse intontita, avrei potuto udire la tenerezza nella voce di Donnato. «Grazie, ma è meglio se vado a sfogarmi con una bella nuotata.» «Sei troppo brava.» «Ehi, io sono perfetta.» «Ci provi. Ecco perché sbatti i telefoni contro il muro.» Stiamo tornando verso la porta che dà sul pianerottolo. Mi sento come se mi avesse investito un camion. «Non è solo per Carter.» Faccio uno sforzo per definire il problema: «È saltata fuori una storia strana che potrebbe coinvolgere la mia famiglia». «Tuo nonno sta bene, spero.» «Chi, lui? È sano come un pesce e passa il tempo maltrattando palline da golf a Palm Desert.» Mi sento meglio se penso a Poppy coi suoi bermuda gialli, sul campo da golf alle sette del mattino con gli altri vecchi rompiscatole - quattro poliziotti in pensione, figuratevi un po' la scena, che imprecano e si raccontano barzellette razziste lungo tutto il percorso - immersi nel calore infuocato di un'alba nel deserto e nel piacere infantile delle loro immutabili abitudini quotidiane. «Poppy se la cava benissimo» dico a Donnato. «No, è quell'altra gente.» «Parenti?» Donnato scuote la testa. «Portali a Disneyland.» La meravigliosa semplicità dell'idea mi fa scoppiare a ridere. «Va meglio?» Annuisco. «Posso lasciarti sola?»
«Sicuro.» Donnato mi stringe il braccio. «Che bel tricipite.» Quello sguardo ironico, affettuoso. «Va' a nuotare. Ci vediamo domani.» Quando rientro per prendere la borsa mi accorgo che il Travestimento Agente Antirapine è sul pavimento e stringe il mio telefono in un abbraccio ingarbugliato, con la gruccia vuota che sta ancora dondolando sull'attaccapanni. 6 Qualche giorno dopo salgo in macchina con l'intenzione di restituire un umidificatore. Gli ho cambiato l'acqua a intervalli un po' troppo irregolari, così lo scorso inverno ha smesso di funzionare, ed è rimasto ad ammuffire in camera da letto per tutta la primavera. Quando finalmente ho tirato fuori il serbatoio, verso Halloween, c'era un evidente rigoglio di nuove forme di vita. Il negozio dove l'ho comprato dà una "garanzia illimitata" e così puoi continuare a scambiare quello vecchio e puzzolente di pesce con uno nuovo di fabbrica, all'infinito e senza sentirti chiedere nulla. Lo so perché ho già fatto questo giochetto l'anno scorso, quando l'umidificatore originario si è seccato ed è morto. Eppure, nonostante l'eccellente idea di fare un salto a Century City durante la pausa del pranzo, sono ancora qua seduta in macchina, col motore spento. Ho trovato la Bibbia di Violeta Alvarado sul sedile del passeggero, fra una tonnellata di carte e di testi di diritto, e la sto fissando, sentendomi improvvisamente smarrita proprio qui, in mezzo al parcheggio del palazzo dell'Fbi. Con la stessa cautela della signora Gutiérrez, tolgo lentamente gli elastici incrociati e sfioro con un dito i fittissimi caratteri spagnoli, stampati su pagine impalpabili, delicate come carta velina; guardo di nuovo le istantanee, soffermandomi su quella della madre di Violeta con un bambino in braccio. Alle loro spalle, il paesaggio è d'un grigioverde brullo, spietato. Non sono mai stata ai tropici. Non posso sapere come sia la vita di quella donna e di quel bambino. Il mio passato comincia e finisce con il nonno; la sua infanzia in California, il viaggio di sua madre dal Kansas a qui, la sua devozione ai doveri e ai valori del suo lavoro di poliziotto durante l'espansione economica degli anni Cinquanta: è stato questo a formare la mia identità di americana purosangue e ottimista, e anche quando sono diventata adulta non c'è mai stato motivo di metterla in discussione, nemmeno in
parte. Sono costretta a farlo, adesso, mentre stringo fra le dita un foglietto strappato da un taccuino dove c'è scritto il nome di una donna bianca che forse ha licenziato mia cugina, un'ispanica. Si chiama Claire Eberhardt. Abita nella Ventesima, a otto isolati dalla vecchia casa di Poppy a nord di Montana, in quella Santa Monica dove ho passato i primi cinque anni della mia vita: era una cittadina di mare piena di bungalow eccentrici e ventosi panorami dell'oceano, e si è trasformata in un quartiere bene troppo affollato di costruzioni all'estremo lembo occidentale della vasta distesa che è Los Angeles. Esito ancora, mentre esco dal parcheggio, poi mi decido e svolto in direzione opposta a Century City e alla dolce prospettiva dell'umidificatore nuovo, verso ovest lungo Wilshire e poi sul San Vicente Boulevard. Di solito vengo a Santa Monica per lavoro, o per vedere un film al Third Street Promenade, ma la zona a nord di Montana proprio non è territorio mio. Questa è una terra di nuovi ricchi, dove gli appassionati del jogging di mezzogiorno passano sotto le infiorescenze scarlatte degli alberi corallo, correndo sulle larghe strisce d'erba al margine della strada. La Ford ha un'aria stupida accanto alle Mercedes, alle BMW, alle Toyota Land Cruiser che sono di moda adesso, mai violate da uno schizzo di fango. Imbocco il bivio per Montana Avenue e svolto dopo un campo da golf. L'aria è già piena dell'aroma dei fiori e dell'erba fresca appena innaffiata, dei pini e degli eucalipti. In cima alla salita, Montana Avenue potrebbe essere una qualsiasi anonima strada residenziale, ma appena oltrepassi una scuola e cominci a scendere, subito ti viene incontro una fila di negozi con i tendoni azzurri. Ho notato che i tendoni sono tipici delle zone eleganti. Su Montana Avenue ce n'è un mucchio: tendoni marrone con gli smerli bianchi, tendoni pseudo-modernisti tesi su cavi d'acciaio... I negozi senza tendoni compensano questa mancanza con le vetrine alte due piani e le insegne a effetto che ti fanno capire che genere di soldi ci vuole, per comperare qualcosa lì dentro: il genere tanti. Uomini e donne passeggiano comodamente, portando le borse degli acquisti o spingendo i bambini in carrozzina, e si divertono un mondo. Immagino che non abbiano nient'altro da fare tutto il giorno. Sui marciapiedi, i tavolini sono pieni di gente che pranza senza fretta sotto gli ombrelloni verdi, guardando il flusso ininterrotto di traffico che scende da Montana Avenue verso l'oceano, che si può scorgere all'altezza della Quindicesima,
un nastro azzurro e piatto all'orizzonte. Sono come ipnotizzata: qui il ritmo è diverso da quello del resto della città, e poi è il mio vecchio quartiere, anche se adesso non potrei mai permettermi di viverci. Passando accanto al glorioso Aero Theatre, ora imprigionato in uno smagliante centro commerciale, mi chiedo se da bambina ci ho mai visto un film, poi d'impulso svolto nella Dodicesima, alla ricerca della casa dove abitavamo. Eccola, subito dopo Marguerita, accanto a un grosso edificio moderno rosa e con le finestre rotonde: un vecchio villino californiano, che dev'essere stato costruito negli anni Venti, con il tetto a spiovente e, davanti, il cartello "In vendita" di un'agenzia immobiliare. Parcheggio senza spegnere il motore. La casa è minuscola: il piccolo faggio piantato nell'arido cortiletto basta a nasconderla per metà. Le pareti di legno sono dipinte di un color bronzo malsano, la porta d'ingresso e le rifiniture in una specie di marrone rossiccio. Ai lati della porta ci sono due stretti pannelli di vetro. L'unica decorazione è il pezzo di legno incurvato ad arco e sorretto da due pali che sorge davanti all'ingresso, come un cappellino coi suoi due nastri. Qualcosa colpisce il parabrezza; è la tonda capsula spinosa coi semi dell'albero della gomma che cresce vicino al marciapiede. Aspetto di sentire l'urto di qualche ricordo rivelatore, ma non c'è niente, qui, solo una vecchia casa abbandonata. Anche quella accanto è in vendita. È fatta di assicelle bianche, e così piccola da poter essere l'abitazione di una famiglia di topi campagnoli. Il divisorio di rete metallica che separa questi due relitti è stato abbattuto da tempo, come se i vicini avessero avuto delle difficoltà a far uscire la macchina da quel cortiletto. È curioso. Basta l'età di questo posto per figurarsi Poppy, bel giovanotto biondo dalla mascella forte, che varca energico la porta d'ingresso nella sua uniforme blu da poliziotto, mentre mia madre si affaccia fuori dalla cucina sullo strano portichetto laterale, sgusciando piselli e con un'acconciatura in voga al tempo della seconda guerra mondiale... Ma questa è immaginazione, non è un ricordo. Il mio primo vero ricordo è un fatto accaduto a ottanta chilometri più a sud. Era il primo giorno di asilo alla scuola elementare Peter H. Burnett di Long Beach, nel 1965, quando mia madre mi salutò sul marciapiede e se ne andò, senza commuoversi, mi parve. Prima di quel momento in cui mi spinse nel mondo, quando avevo cinque anni, ci sono solo buio e silenzio, ma dopo ricordo tutto: la sensazione di debolezza nelle ginocchia mentre attraversavo il cortile della scuola, da sola, verso l'edificio color sabbia.
L'esotica architettura art déco che lo faceva sembrare un castello scolpito nello zucchero scuro. Dell'interno, ricordo l'odore pungente dei colori a tempera e quello fresco dei libri nuovi, e la mia prima amica, Laura Levy, che portava due treccine ordinate. Il pomeriggio ci davano del latte che aveva un sapore acido. Poppy, mia madre e io vivevamo a Pine Street, in un quartiere di borghesia medioalta che si chiamava Wrigley. La maggior parte delle case erano state costruite negli anni Trenta, in stile rustico o in legno, ma la nostra era di mattoni rossi, e nuova di zecca. Le rotaie del tram passavano a due isolati di distanza, ed era un'avventura prendere il Pacific Electric Red Car fino in centro a Los Angeles per andare al Cinerama o alla May Company, un grande magazzino di lusso che non c'era neppure a Long Beach. Il Public Safety Building che ospitava il dipartimento di polizia, dove Poppy si guadagnò infine il grado di tenente, all'epoca aveva meno di dieci anni, e sembrava molto ardito con i suoi vetri blu mare e le colonne rivestite di piastrelle a mosaico. Erano gli anni Sessanta, e nella California del sud l'economia era in piena ripresa. Potrei continuare da qui in poi, con un milione di minuscoli ricordi di un'infanzia normale in una città costiera piena di sole dove gli agricoltori in pensione venivano a ritirarsi, fuggendo dagli inverni crudi del Midwest; una comunità conservatrice e alla buona prima che gli speculatori immobiliari s'impadronissero del centro e rimuovessero chirurgicamente fino all'ultimo brandello sussultante di vita. La sola fama che riuscii a conquistarmi alla Long Beach Polytechnic High School fu quella di capitano della squadra di nuoto femminile. Le mie materie preferite erano scienze e matematica. Il motto inciso all'ingresso della scuola recita ancora ENTRA PER APPRENDERE - ESCI PER RENDERTI UTILE, e credo di prenderlo ancora sul serio. Questo è tutto chiaro; ciò che non riesco a far entrare nel quadro è questo villino malconcio di Santa Monica, semisommerso nel preconscio. Mi sforzo di trovare posto in questa sua storia elusiva che mi tormenta. Che bambina ero? Dov'erano i miei rifugi segreti? Mi arrampicavo sul faggio? Chi abitava nella casa accanto? La memoria non mi risponde. Sto qui con le mani sul volante, e mi sento sciocca e vuota. Poi so soltanto che sto guidando in salita lungo una strada fiancheggiata da alti pini che gettano un'ombra densa. È chiaro che quando abitavamo qui stavamo nella zona più modesta del quartiere; man mano che procedo
crescono sia le cifre dei numeri civici sia le dimensioni delle case. Nella Ventesima i giardini ormai sono sfarzosi, i fiori sgargianti, con il rosso arancio violento delle buganvillee che spicca sui muri intonacati di bianco. Ovunque, a occuparsi del giardinaggio o dei lavori di costruzione sono degli ispanici. I camioncini che vendono cibo messicano per il pranzo degli uomini di fatica battono la zona insieme alle auto di una polizia privata, la Westec. Mi concentro su questi particolari per sfuggire a una tristezza crescente. So che è perché ho visto quella casa, e ora vorrei non averlo fatto. Noto una cameriera in uniforme che porta a spasso un cane e cerco di pensare a una battuta cinica, ma la tristezza non se ne va. Magari la sto confondendo con quella dei figli di Violeta, dev'essere Teresa con la sua pelle scura che mi figuro rannicchiata fra le pieghe di un abito inamidato, in mezzo alle margherite stentate che crescevano accanto alla casa di mio nonno: Teresa, non io. È Teresa a essere sola e in lacrime, non io. Gli Eberhardt abitano in una villa a due piani in stile mediterraneo moderno, nuova e spoglia. Ha un tetto di tegole rosse e due grandi finestre ad arco che danno sul soggiorno del pianoterra e richiamano la volta sul portone gigantesco. Un vialetto pavimentato in cotto s'incurva attraverso il prato mal tenuto, brunastro; qualche pianta cresce sullo sfondo dei muri bianchissimi, ma a parte un gruppo di giovani betulle vigorose, il posto ha l'aria arida e trascurata, come se dopo aver sborsato un milione e mezzo di dollari, ai proprietari fosse mancata l'energia per affrontare il problema della sistemazione del giardino. Immagino che per la maggior parte della gente una scatola di cemento da un milione e mezzo di dollari più un paio di piante basti e avanzi. Naturalmente in case come questa non c'è campanello, bensì un sistema di sicurezza, con un pulsante quadrato bianco da premere e un citofono. «Sì?» «Salve, mi chiamo Ana Grey e sto cercando Claire Eberhardt.» Dato che non sono qui per conto del governo, non mi presento come agente federale. «Sono io.» «Sono... un'amica... di Violeta Alvarado» dico, sempre parlando al citofono. «Le potrei parlare, Claire?» Una pausa. «Violeta... Non lavora qui.» Reprimo la voglia di dire, per forza, è morta. Sono stanca di parlare con questo aggeggio. «Lo so. È questione di un minuto.»
«Va bene. Mi aspetti.» Silenzio. Sta arrivando. Nel frattempo posso esaminare la porta d'ingresso - larga un metro e mezzo e alta due volte il normale, con una finestra a mezzaluna sopra, legno scuro, forse mogano con una specie di rifinitura che vuole imitare un effetto grezzo. Proprio mentre mi sto chiedendo che bisogno si può avere di una porta così grande, ecco che si apre. La donna tiene in braccio un bambino di un paio d'anni che le appoggia la testolina sul collo nudo. «Peter si è appena svegliato da un sonnellino» spiega, e si gira per farmi vedere le guance arrossate e gli occhi lucidi di Peter. Hanno i capelli neri e lucidi tutt'e due, neri al punto da avere dei riflessi violetti, lunghi riccioli sciolti il bambino, quelli di lei sbucano in disordine da una fascia elastica rosa rialzata sulla fronte, come se volesse soltanto tenere lontano le ciocche. «Sono Claire.» Porta una felpa grigia col cappuccio e le maniche tagliate e calzoncini larghi color turchese che dovrebbero nascondere qualche chilo di troppo. Non ha il reggiseno. Perfino con quei capelli pazzeschi e i fianchi abbondanti riesce ad essere attraente, anzi provocante; ma si vede che non si è curata del suo aspetto, come se bastasse avercela fatta a venir via da dovunque abitasse e vivere, adesso, a nord di Montana. Anche se sembra che si sia appena svegliata da un sonnellino insieme al figlio, ha un rossetto color fragola. La mia prima impressione di Claire Eberhardt è che sia incompiuta come la sua casa. Ti aspetteresti che prendesse possesso della soglia di casa sua con l'orgoglio e la convinzione della proprietaria, e invece si tiene un po' all'interno, curva sul bambino, insicura. Sembra che mi guardi e non mi guardi contemporaneamente. «Mi dispiace doverla disturbare, ma si tratta di Violeta Alvarado.» «Cosa c'è?» «La signora Alvarado lavorava qui?» «Sì. Fino a tre mesi fa. Abbiamo dovuto chiederle di andarsene.» «Perché mai?» Inclina la testa in un modo singolare, come se volesse fissare l'angolo dello zerbino. «Le cose non funzionavano, tutto qui.» «Per quanto tempo è stata alle vostre dipendenze, prima che le chiedeste di andarsene?» «Quasi un anno. Perché?» Passa il bambino sull'altro braccio e mi si mette di fronte. Adesso capi-
sco il perché di quella strana postura: l'occhio sinistro devia un po' verso l'esterno, quanto basta per darle un aspetto lievemente scentrato che sembra imbarazzarla molto. «Temo di avere delle brutte notizie.» «Brutte notizie?» «Violeta Alvarado è stata uccisa.» Di colpo il bambino sembra troppo pesante per lei. Si volta e chiama «Carmen! Por favor!» con il peggiore accento spagnolo che si possa immaginare. Compare una nonnina color caffellatte che sembra appena scesa dalle Ande. Mostra i denti d'oro in un sorriso e fa per prendere in braccio il bambino, che si avvinghia al collo di sua madre. Bisogna aprirgli le mani a forza. Comincia a piagnucolare. La nonnina, sempre sorridendo, gli sussurra parole rassicuranti che non capisco e lo porta via mentre ancora piange a squarciagola, con le braccia tese verso la madre. Claire Eberhardt chiude gli occhi davanti allo spettacolo dell'angoscia di suo figlio e mi dedica la sua attenzione, chiaramente turbata. «Come è successo?» «Le hanno sparato da un'auto in corsa. Un paio di settimane fa.» «Le hanno sparato?» Annuisco. Si appoggia allo stipite col gomito e si toglie la fascia elastica, si passa la mano fra i capelli e poi comincia a tirarli forte come se volesse strapparli. Quando ricadono mi accorgo che il taglio all'altezza delle spalle è di precisione millimetrica, e che all'anulare porta una vera di diamanti. «Gesù Cristo, cazzo.» Nonostante i diamanti e il taglio di capelli, la signora non viene da un ambiente di colta eleganza. «Mi scusi, ma... Oh, signore. Aveva dei bambini.» «Lo so.» Resta lì a tirarsi i capelli e a fissarsi i piedi nudi. «Sono un'infermiera. Cioè, non lavoro da quando ci siamo trasferiti qua, ma ho visto...» le manca la voce «al pronto soccorso... ho visto cosa vuol dire, quando sparano a qualcuno.» È un'infermiera. Io sono un difensore della legge. Adesso lei vive in questa casa, ha dei domestici, ma forse non siamo poi così lontane. Siamo al servizio dei cittadini, tutt'e due. Il mestiere è quasi lo stesso: mettere ordine nel disordine. Alza gli occhi e per un momento riesco a fissare lo
sguardo nel suo. Abbiamo in comune una cosa che ci ha insegnato la professione: abbiamo visto che cos'è un corpo di giovane donna maciullato dalle pallottole. «Lei è una sua amica? Dev'essere stato un brutto colpo anche per lei.» Imbarazzata perché non è brutto come dovrebbe essere, forse, spiego: «Cerco di essere utile, per via dei bambini. Mi hanno detto che lei doveva del denaro a Violeta». «Non saprei.» «Quando se n'è andata. Circa quattrocento dollari.» «Ci pensava mio marito a pagarla.» «Allora preferisce che parli con suo marito?» «Guardi, preferirei che lei... che lei se ne andasse, e basta.» Mi fa un sorrisetto mogio, come se fossi tenuta a comprendere e scusare la sua confusione e il suo turbamento. E invece non capisco, perché qui c'è sotto qualcosa di più importante. «Mi sembra sconvolta.» Ha la punta del naso umida e rossa, gli occhi lucidi di lacrime. Scuote la testa e alza gli occhi al cielo come per non farle sgorgare. «Le è mai capitato di fare un grave errore?» «Io non sbaglio mai» ribatto. «Sono perfetta.» Questa le piace, e la invita alla confidenza. «Bevevo molto al liceo» continua, «ero capace di andare a Southern Comfort tutta la notte per poi svegliarmi fresca come una rosa, la mattina dopo.» C'è ancora della freschezza, in lei; forse è per via della pelle morbida e bianca, spruzzata di lentiggini, ma questa donna ha un che di spontaneo, di sincero. Una birra, e ti racconterà tutta la storia della sua vita; e la troverai interessante perché non si inventerà nulla. «Facevamo delle feste con chi capitava, marinavamo la scuola e andavamo a Revere Beach. Ne combinavamo di tutti i colori, tanto te la cavavi sempre. Ma poi con un ragazzo ci caschi sul serio, ed è sempre quello sbagliato. Le è mai capitato?» Mi fa pensare a John Roth e arrossisco. «Un paio di volte.» «Se l'è cavata?» Rispondo con uno sguardo ironico. «È da vedere.» Di colpo chiude la mano a pugno e dà un cazzotto allo stipite della porta di mogano. Mi chiedo se sia stato suo marito, il povero sgobbone che ha pagato la casa multimilionaria, l'errore a cui non potrà mai rimediare.
«Non picchierei tanto forte, se fossi in lei» consiglio. «Le case non sono più quelle di una volta.» «Ehi, siamo in California. Non deve crollare tutto comunque?» Ricambio il suo sorriso. «Che altro mi sa dire di Violeta?» «Era una bravissima ragazza.» «Secondo lei era coinvolta in storie di droga?» Claire Eberhardt sembra stupefatta. «No, affatto. Neanche per sogno. Era a postissimo. Una cattolica vera.» Tenta di ridere. «Non come me.» «Allora perché l'ha licenziata?» In un istante tutta la confidenza svanisce. Per quanto possa essere spontanea, vedo però che Claire Eberhardt sa chiudersi nella diffidenza granitica dei proletari. Ho superato un limite imposto dalla buona creanza e non c'è niente da fare; ha smesso di parlarmi, e basta. «Abbiamo solo... dovuto chiederle di andarsene. Mi scusi, torno subito.» Ha lasciato la porta aperta. Intravedo un ingresso alto due piani, con un lampadario di cristallo appeso lassù, nella stratosfera. E sta qui a discutere per quattrocento dollari? Torna, e ha in mano un biglietto da visita color pesca e un fazzoletto. A quanto pare è di nuovo agitata. «Dei soldi saprà tutto mio marito.» La osservo con occhio critico, cercando di far quadrare la descrizione della Gutiérrez, per cui la signora sarebbe "molto cattiva", con quello che vedo. Claire Eberhardt ha dentro qualcosa che la rode, ma non è cattiveria. Più facile che sia un senso di colpa. Sul punto di crollare, mormora «Mi dispiace tanto» e chiude piano la porta. Il biglietto reca scritto a caratteri grigi, RANDALL EBERHARDT, M.D., DANA ORTHOPEDIC CLINIC, con un indirizzo della Quindicesima, a sud di Wilshire, dopo l'ospedale, a dieci minuti da qui. Così lei è un'infermiera e lo sgobbone è un dottore. Adesso so come ha fatto Claire Eberhardt ad arrivare in questo quartiere. La Dana Orthopedic Clinic è un edificio vittoriano restaurato, situato nel centro medico di Santa Monica. La sala d'attesa, proprio come il biglietto da visita, è color pesca e grigia. L'impiegata della reception mi ha detto che, senza un appuntamento, per vedere il dottor Eberhardt dovrò aspettare. Per fortuna i sedili imbottiti - pesca e grigi - sono studiati per offrire la massima comodità e in effetti è rilassante star qui a leggere "Glamour". Dopo un po' m'innervosisco. Dopo un altro po' perdo la pazienza. Non
c'è nessun altro nella sala d'attesa. «Il dottore è in sala operatoria?» «No.» «È in clinica?» «Sì.» «E allora qual è il problema?» «Ha un paziente. Ci vorrà solo un altro po'.» L'impiegata della reception e io ripetiamo tre volte questa scenetta, e intanto passano altri tre quarti d'ora. Il mio piano è di metterla giù dura col dottore, di indurlo a firmare all'istante un assegno da quattrocento dollari, e di farla finita con tutta questa storia. Se nicchia lo minaccerò di intentargli causa per conto dei figli di Violeta. Ai dottori non piacciono le cause. Dovrebbe bastare a chiudere la discussione. Di nuovo mi trattengo dall'esibire il distintivo terrorizzando l'impiegata. Sarebbe contrario al regolamento. Un'ora dopo il dottore è ancora occupato, e mi prende il panico improvviso di tornare in ufficio prima che Duane Carter noti che sono fuori da tutto questo tempo. Rassegnata ad affrontare in un'altra occasione il dottor Eberhardt, ringrazio l'impiegata della reception per il suo prezioso aiuto e batto in ritirata fino al vicolo dove ho lasciato l'auto di servizio in divieto di sosta, e dove, infuriandomi ulteriormente, la trovo bloccata da una limousine nera. Avevo parcheggiato la Ford blu tra un palo del telefono e un cassonetto dei rifiuti, contro un muro di mattoni; adesso mi sta di fianco questa limousine che mi rende impossibile qualsiasi manovra. Ha le portiere chiuse a chiave, e l'autista non si vede. Se trattengo il fiato e cammino in punta di piedi riesco a infilarmi tra le due macchine e ad aprire la mia portiera di una ventina di centimetri: abbastanza da far scivolare dentro il braccio per azionare la sirena e l'altoparlante. «Al proprietario della limousine nera targa JM: lei sta bloccando il passaggio, la faccenda sarà segnalata alla polizia e la vettura rimossa...» La seconda chiamata e un paio di barriti della sirena fanno accorrere un autista in uniforme, corpulento e rosso in faccia, che ha in mano un cono decorato da un grosso ricciolo di gelato. «Ehi, signora, ha dei problemi?» «Sposti la macchina.» Mi squadra con aria di derisione. «Deve correre ai saldi di Penney?» Gli mostro il distintivo. «No. Sono dell'Fbi. Adesso sposti la macchina.»
Gli spunta un sorrisone. «E io sono della polizia di stato. Cioè, lo ero, prima di fare i bagagli e venire a Hollywood. Visto? Siamo fratelli di sangue. Tom Pauley. Lieto di conoscerti.» Mi offre una mano tozza. Gliela stringo. «Ti posso offrire un gelato allo yogurt?» «No, grazie.» «Ecco. Prendi questo. È vergine. Mai leccato.» «Mangiatelo tu, Tom. Io corro in ufficio a farmi sgridare.» Sguscio in macchina e metto in moto. «Già. Io sarò anche stato scemo, ma tu non sai che faccia avevi. Dovevo aspettare che controllassi la targa. Coi poliziotti faccio sempre così. E dopo sono tutti un: "Tom, cosa posso fare per te?", "Tom, puoi farmi avere un autografo per mia moglie?".» «Sei una celebrità, eh?» Inserisco la marcia, sperando che capisca. «Lo diventa automaticamente chiunque lavori per Jayne Mason.» Devo ammetterlo, sono rimasta di stucco, come lui già sapeva per esperienza; quel nome basterebbe a fermare anche il più permaloso dei poliziotti. «Dov'è Jayne Mason? A prendere uno yogurt?» «Dal dottore. Ecco perché ho dovuto parcheggiare sul retro. Scusa il fastidio.» Fa un cenno in direzione della Dana Clinic. «Credevo che fosse al Betty Ford Center.» «L'hanno dimessa.» «Guarita?» «Pare di sì, solo che ha sempre avuto dei problemi alla schiena. Ma non andare a spifferarlo in giro.» «Sicuro, Tom. Ci tengo moltissimo alla schiena di Jayne Mason.» Poi, per curiosità: «Si chiama Eberhardt, il suo medico?». Con un sorriso: «Lo sai che non posso divulgare questa informazione». Guardo verso il portone della clinica mentre la brezza dell'oceano spinge verso di me un odore dolciastro di immondizia, «Ecco perché mi ha fatto aspettare due ore.» «Oddio, mi dispiace. Aspettare tanto, c'è da friggersi il cervello. Io ci sono abituato. Ecco perché sono andato a prendermi qualcosa da mangiare.» Le porte grigie si spalancano e Jayne Mason esce in fretta e furia. Non va molto lontano: un braccio in una manica bianca la afferra per la spalla.
Lei cerca di divincolarsi ma il braccio non molla, la costringe a voltarsi e a guardare un uomo alto, robusto, coi capelli biondicci e gli occhiali da pilota, che indossa un camice bianco. «È quello il nostro dottore?» Tom annuisce. Il dottor Eberhardt - un bell'uomo di mezza età con un accenno di doppio mento - le tiene una mano sulla spalla, per non lasciarla scappar via. Lei porta una tuta da ginnastica rossa, scarpe da tennis, e un turbante rosso che le copre completamente i capelli. Lui è più alto, più giovane, più forte, ma è forte anche lei: una ballerina, e ancora snella. Atteggiato a una posa autorevole, lui le parla con calma, anche se lei sembra molto turbata. «Il dovere mi chiama» dice Tom, e getta nel cassonetto il gelato allo yogurt, intatto. Sposta la limousine in mezzo al vicolo, e poi, lasciando il motore acceso, esce, apre la portiera e aspetta. Lei non ha neanche bisogno di guardarlo perché Tom sappia quando è il momento giusto di fare la sua mossa. Mentre lei finalmente si allontana dal dottore con un'espressione imbronciata, ecco che Tom è proprio lì, a reggere con grazia la mano che lei gli porge e a guidarla sull'asfalto pieno di buche. Mentre si avvicinano vedo che sulla tuta di Jayne Mason c'è un ricamo con due gattini che giocano con un gomitolo di lana. Il gomitolo è di vera lana, i gattini sono di pelliccia e hanno lunghe ciglia scintillanti. Mi passano proprio davanti. La pelle della grande attrice è di un biancore latteo sullo sfondo cremisi degli abiti, che proiettano un lampo di colore sulla perfezione lucidissima della fiancata nera della limousine; è come se lei annunciasse il proprio avvento, creando in questo vicolo fetido un attimo così vivido e sorprendente che nemmeno la presenza di cento menestrelli vestiti d'oro avrebbe potuto oscurarlo. La limousine scivola via. Il dottor Eberhardt se n'è andato, le porte di acciaio grigio si sono richiuse. Mi chiedo se la moglie sappia quanta intimità ci sia fra il dottore e la sua celebre paziente; come le abbia sempre tenuto le mani sulle spalle e come lei, per quanto fosse arrabbiata, non si sia allontanata finché il tocco di quelle mani è stato su di lei. Manovro per uscire dal vicolo, immaginando Claire Eberhardt che, ignara di tutto questo, richiusa la porta di mogano di casa ci appoggia le spalle e piange un fiume di lacrime di rimorso sulla sorte di una povera domestica salvadoregna.
Parte seconda IL NITORE DEL DESERTO 7 Nel deserto tutto è nitido. Non te ne accorgi finché non sei a due ore di macchina da Los Angeles, oltre l'intrico infernale del downtown e l'interminabile bruttura di San Bernardino, oltre il più grande svincolo autostradale del mondo, dove la 605 incontra la 10 in un intreccio mozzafiato di nastri parabolici d'asfalto. Comincia laggiù, da qualche parte, quando a lato della strada cominci a vedere sabbia bianca, e all'orizzonte di questa vastità desolata non spuntano più i profili azzurro cielo dei sobborghi residenziali; quando l'aria, col diminuire dell'inquinamento, diventa leggera e trasparente e riesci a scorgere dettagli impensabili come le frane sui pendii delle montagne innevate, a chilometri di distanza. Quando rallenti per lasciare l'autostrada e di colpo cala un silenzio che ti permette di sentire il fruscio degli pneumatici sul velo di sabbia portata dal vento sulla rampa d'uscita, quando il sole al tramonto colora ogni singola spina di cactus sullo sfondo della sua luce porporina, allora te ne accorgi. Il nitore del deserto. L'assenza di movimento, di urgenza, di traffico, di gente. Un paesaggio misterioso e monocromo, punteggiato di vita. Il tuo corpo si calma. L'aria diventa spirituale: cioè, piena di umori che una cittadina piccola e volgare non basta a disperdere. Quando passi lungo la strada principale di Desert Hot Springs, in mezzo al suo sgargiante cattivo gusto, ti viene voglia di gridare, così, tanto per sentire come suona la tua voce quando somiglia all'ululato di un coyote libero e fiero, invece che allo squittio avaro e aggressivo che rivolgi di solito al tuo prossimo. Il condominio di Poppy non è un gran che visto quel che costa; è situato su un'altura che guarda a ovest su un centro commerciale vuoto con un Thrifty Drug e un supermercato Vons, un KFC e un noleggio di videocassette, tutto appena costruito, lucido asfalto nero senza neanche un segno di pneumatici e palme slanciate nelle fioriere in legno di sequoia. Caricando la spesa in macchina (se non penso a comprarmi io qualcosa finisce che bevo il Seagram's di sera e mi ingozzo di All-Bran la mattina), mi godo la lieve brezza e calcolo che quando la città sarà cresciuta tanto da far rendere questo gigantesco supermarket, ormai Poppy sarà morto e io potrò vendere il suo appartamento guadagnandoci un bel po' di soldi.
Lo so che mi prendo in giro e basta, a pensare cose come queste. Abbiamo sepolto mia madre che avevo quattordici anni; mia nonna se n'era andata prima che compissi un anno. Un altro viaggio al cimitero di Eternai Valley rescinderebbe il mio ultimo, esile legame familiare come se la Parca grinzosa, signora del fato, si servisse di un paio di cesoie arrugginite. Non sarebbe un taglio netto e facile, bensì un lento distacco pieno di lacerazioni e di dolore. Già mi vedo protendere le dita all'ultimo istante come per afferrare l'estremità della corda che mi sfugge, per non cadere nel vuoto, perché senza il mio Poppy non so chi sarei. In effetti, quando penso alle donne della mia famiglia mi diventa chiaro come il luccichio delle spine di cactus illuminate dal tramonto rosso sangue che per tre generazioni non abbiamo vissuto come persone libere, ma in funzione di quest'uomo. Nonna Elizabeth era la moglie di un poliziotto in una piccola città costiera, negli anni Cinquanta: che alternative poteva avere? Quando morì, mia madre, oltre a lavorare come impiegata nello studio di un dentista, fu investita del solenne dovere di badare a Poppy, e di preparargli i Koenigsberger Klops, le sue polpette preferite di vitello e maiale (quando faceva il turno di notte, mia madre si alzava alle cinque per scaldargliele nel forno). In questi ultimi dieci anni è toccato a me (Koenigsberger Klops esclusi). Ci parliamo al telefono parecchie volte alla settimana, e lo vado a trovare almeno una volta al mese. La mattina il mio primo pensiero è per Poppy, accompagnato ogni tanto da un'ondata di angoscia tremenda al sospetto che sia morto durante la notte, anche se so bene che è autosufficiente, e forte come una roccia. Quando mi pongo una domanda, è la sua voce che mi dice che cosa fare. Quando sbaglio, è la sua voce che mi punisce. Ho un bell'essere la grande agente federale armata di pistola e manette (sono leggere, si possono benissimo buttare in fondo alla borsetta con le altre cianfrusaglie) ma io misuro ancora il mio valore sui criteri del nonno. Fin dalla mia infanzia è stato lui il mio modello, per me e per mia madre, e ho sempre creduto che Poppy fosse nel giusto, innocentemente e senza riserve, come credo nella bandiera americana. Oggi sono venuta a trovarlo - mi fermerò anche stanotte - per fargli gli auguri in ritardo per il suo settantesimo compleanno, ma ormai le domande sulla mia presunta cugina, Violeta Alvarado, su mio padre e sul ramo ispanico disperso della famiglia stanno filtrando in fondo a tutti i miei pensieri; e dunque, quando, con i sacchetti della spesa, la torta di compleanno e il borsone arrivo sulla porta d'acciaio brunito, sentir abbaiare dall'interno non
mi entusiasma. Di sicuro è Moby Dick, uno degli amici stravaganti che Poppy si è fatto qui nel deserto, insieme alla sua simpatica muta di cani feroci Akita; li alleva in una baracca sperduta, incrociando illegalmente degli esemplari di razza con i pastori tedeschi per ottenere mostri dalla muscolatura impressionante, il mantello grigio pezzato, code a ricciolo e cervelli schizofrenici come il suo. I motociclisti e i poliziotti con una famiglia da proteggere glieli comprano a cinquecento dollari l'uno. «Fermi tutti! È l'Fbi!» intima ridendo Moby Dick aprendo la porta. Io gli rivolgo un debole sorriso. Il suo pancione immane e sobbalzante è quasi rivestito da una maglietta nera con su scritto "Affanculo le diete". Televisione accesa, lattine di birra sul tavolino del soggiorno. «Senti, i cani...» «Non c'è problema.» Li trascina sul balcone tenendoli per il collare, richiude le pesanti porte finestre e grida: «Commissario! C'è la tua ragazzina!». Poso la roba in cucina. Poppy tiene la casa in ordine. Lo scolapiatti è vuoto. C'è una scatola di crackers Keebler sulla credenza. Nel frigorifero tutto è a basso contenuto di sale e di colesterolo - a parte una caraffa di Bloody Mary e due bistecche New York. Perlomeno Moby Dick non si fermerà a cena. «Annie!» Eccolo che compare sulla porta, vestito solo di un asciugamano bianco intorno ai fianchi, vanitoso come al solito, lì a esibire il suo eccezionale, abbronzatissimo torace e le braccia fitte di muscoli nodosi da pesista. Anche se ha settant'anni, abbracciarlo a petto nudo è un contatto con la virilità che mi riporta alle domeniche pomeriggio all'YMCA su Long Beach Boulevard, con la ricompensa che mi spettava se battevo un perfetto stile libero per cinquanta metri: premere la guancia contro la forza di quel torace - i pettorali compatti, il fresco sentore di cloro sulla pelle, il pelo scuro arruffato intorno all'inutile capezzolo, le affascinanti pieghe di pelle sotto il mento, le spalle salde sotto i miei piedini nudi quando, come per magia, sollevandomi dall'acqua mi faceva balzare sopra la sua testa luccicante di gocce. Io non ho avuto un padre che mi insegnasse a nuotare; ho avuto Poppy. «Buon compleanno. Sei in gran forma.» «Niente male, per il settimo decennio su questa terra. Cosa bevi?» «Ho portato il mio.» Tiro fuori una bottiglia dal sacchetto.
«Vino bianco?» Scuote la testa. «Ecco com'è, la gente di Los Angeles.» Afferra una manciata di cubetti di ghiaccio: «Spero che mangi ancora la carne rossa». «La mangio e la scopo.» Gli ho rubato la battuta. Apre una lattina di Seven Up. «Bada a come parli.» «Scusa. Non vorrei offendere Moby Dick.» «Parlano così i Feebee?» Gergo da poliziotti per prendere in giro gli agenti dell'Fbi. «Pensavo che fossero dei bastardi istruiti.» Rido. Ecco, ci siamo. «Proviamo a fare i duri. Duri quasi come te.» Poppy è rimasto seduto in poltrona accanto al terrazzo, con addosso solo l'asciugamano, le gambe incrociate compostamente, a bere una Seven Up dopo l'altra; ormai il buio è calato da un pezzo, e l'aria condizionata, implacabile, mi fa rabbrividire. I cani sono ancora là fuori. Di tanto in tanto strofinano il muso contro il vetro vicino ai suoi piedi, come spiriti di cani evocati dagli Indiani di Agua Caliente, che una volta vivevano qui. Lo ammetto, l'altro motivo per cui sono venuta fin nel deserto è raccontare di persona a Poppy tutti i particolari dell'arresto perfetto alla California First Bank. Per raccontargli che ero sola. Che ho individuato il rapinatore, ho fatto le mosse giuste e l'ho ammanettato senza aiuto. Che le mie brillanti tecniche di interrogatorio hanno indotto il sospetto a confessare altre sei rapine. Che è stato bello come fare l'amore. A Poppy offro sempre cose come queste. Risultati. Doni. Lui di solito sta a sentire senza sbilanciarsi, lasciando capire che in realtà ancora non è abbastanza, anche se quando mi sono diplomata a Quantico lui ha assistito alla cerimonia in alta uniforme da tenente e si è messo a piangere. Eppure io continuo a tornare qui, sperando di aver fatto qualcosa di meglio, che finalmente Poppy sia contento. Moby Dick è un pubblico più incoraggiante, e mi ritrovo a recitare per lui. Segue l'azione come se si trattasse di un cartone animato della serie Police Academy (li segue con religiosa attenzione nella sua baracca, il sabato mattina), pestando i piedi calzati di pesanti scarponi Jordan e sbraitando: «Vai!». L'unica reazione di Poppy è di raccontarmi della volta che lui, una recluta ai primi servizi di pattuglia, da solo sbarrò la strada a un tale sospettato di omicidio sul sentierino a fianco del molo e lo inseguì sulla spiaggia. Era un sabato di luglio, una folla incredibile, quel tizio si tuffò nell'oceano e non fu più rivisto. «Wow, commissario, questa sì che è una storia» dice Moby Dick a
Poppy, con rispetto reverenziale. «Che altro è successo quando eri una recluta? Quando abitavamo a nord di Montana?» «Be', c'era il famoso Ladro Famelico» sorride Poppy, appoggiandosi allo schienale con la bibita in mano. «Fece un furto con scasso in un supermercato, rubò un migliaio di dollari e lasciò lì gli avanzi di due panini con la salsiccia.» Moby Dick ride, una via di mezzo fra uno sbuffo e un fischio nasale. «Sono passata davanti alla vecchia casa sulla Dodicesima» dico disinvolta. «Ho provato a ricordare com'era. Tu io e la mamma abbiamo mai abitato lì con mio padre?» «Te lo racconto io cos'è successo una volta» fa a un tratto Poppy, con gli occhi che brillano, ignorando apertamente la mia domanda. «Ti avevo portata con me alla stazione di polizia quando sentiamo una confusione tremenda, corriamo fuori per vedere che diavolo è, e caspita, è un elicottero militare che sta atterrando in mezzo al parcheggio.» Moby Dick chiede: «Perché?». «Per John Fitzgerald Kennedy.» Poppy annuisce, mentre noi restiamo zitti, confusi. «Non che il Presidente fosse effettivamente a bordo, ma a quell'epoca veniva spessissimo a Los Angeles - per andare un po' in spiaggia a casa di suo cognato Peter Lawford, dicevano, ma in realtà era per stare con Marilyn Monroe, e così il Servizio Segreto controllava le possibili zone di atterraggio dell'elicottero presidenziale. Avranno pensato che la stazione di polizia di Santa Monica era sicurissima, quei bastardi imbecilli, ragazzi, che pasticcio hanno combinato a Dallas.» Moby Dick dice: «Impressionante». Poppy ridacchia. «Avevano messo dei tizi a disegnare delle strisce nel parcheggio, quelli le segnano col gesso, poi atterra quell'affare enorme e con le pale soffia via tutto.» «Io l'ho visto?» «Tu?» Poppy mi guarda, sorpreso nel ricordare che nella storia ci sono anch'io. «Tu eri una bambina, ti eri spaventata per il rumore e la confusione. Mi stringevi la mano come se fosse stata la fine del mondo.» Io non ricordo niente. È una sensazione bizzarra, quando descrivono qualcosa che ti riguarda e tu non riesci a rammentare niente, è come fare sesso e non sentire niente. «È vero che il presidente Kennedy ha avuto una relazione con Jayne
Mason?» «Gambe fantastiche» commenta Poppy, di nuovo ignorando la mia domanda. «La chiamavano signorinella Raggiodisole, quand'era bambina, naturalmente. È diventata una bella sventola, da grande. I ragazzi avevano attaccato una sua foto, alla stazione. Jayne Mason l'ho vista una decina di anni fa a Vegas. Voce stupenda, niente da dire. Canta in un modo che ti fa venire da piangere.» Si tocca l'occhio con un dito, come se io non gli credessi. «Quelle sì che sono canzoni.» Moby Dick interrompe la fantasticheria di mio nonno con un bollettino urgente: «Questa te la racconto solo perché spero e prego che l'Fbi possa intervenire, ma ti avviso subito che quando scoppia il casino io sparisco. Sono invisibile, chiaro?». Salta fuori che ha sentito parlare di bambini sacrificati in riti satanici nella proprietà di Frank Sinatra a Palm Springs. Intanto io mi sono scolata la bottiglia. Lasciamo perdere le bistecche, ordiniamo due pizze e mangiamo la torta di compleanno. «Facciamo un salto all'Escapade» propone Moby Dick. Nelle mie condizioni attuali mi sembra un'idea divertentissima: «Dici quel locale con le due ragazze sassofoniste, le gemelle?». «Quelle bambole avranno almeno sessant'anni» mi corregge Poppy. «Io ricordo solo di aver bevuto dei Salty Dogs e di aver ballato con un fabbro in pensione» dico. «È morto. Mi dispiace, domattina alle sette ho il golf.» Poppy si mette una polo e un paio di calzoni di tela, e scendiamo tutti a far passeggiare i cani. È mezzanotte e ci saranno venticinque gradi. La luna è alta, ammaccata, gialla come un dente vecchio e morto. Moby Dick carica le bestie sul furgone, dipinto di grigio e nero con lo spray, e grazie al cielo se ne va. Prendiamo una strada più lunga, attraverso il centro commerciale, tanto per goderci l'aria della notte. Improvvisamente decido che è troppo tardi per rivangare le questioni di famiglia. Mi brucia ancora che Poppy abbia finto di non sentire la domanda su mio padre, e non voglio ritornarci su adesso. E poi sono stanca. È stanco anche lui. Dovrò alzarmi alle cinque per tornare a L.A. e prendere servizio alle otto. Un'altra volta. Magari per telefono. Eppure, sento la mia voce che dice: «Ho una cugina che si chiama Violeta Alvarado?». «Non che io sappia. Non con un nome del genere.» «Cugina dalla parte di papà.»
«Chi sarebbe papà?» È veramente sconcertato. «Mio padre. Miguel Sánchez. O Sandoval. Nessuno mi ha mai detto quale era il suo vero nome.» Dio, cosa succede? Solo a pronunciare quel nome ad alta voce, solo a vedere la tensione del nonno, un brivido freddo mi attraversa. Anche se sono avvolta dal tepore del vino bevuto mi sento di colpo vigile e spaventata. «Non sappiamo un granché su quel figlio di puttana, ti pare?» «Qualcosa dobbiamo sapere per forza. Veniva dal Salvador?» «Forse, non so.» «Com'era?» «Era un bracciante qualsiasi. Che t'importa?» «Sono curiosa.» «Lascia perdere.» Ho quasi trent'anni e ho ancora paura di far arrabbiare Poppy. «Si sono fatte vive delle persone che dicono di essere parenti.» «Cosa vogliono?» Cerco di riassumere. «Soldi.» «Tu sai cosa gli direi io, chiunque siano. Sparite, gli direi.» «A te non piaceva perché era ispanico?» «Non ho niente contro gli ispanici. Ero incazzato perché aveva messo incinta mia figlia.» Lo dice tranquillamente. In tono autorevole. Come se fare la storia fosse compito suo. «Poi quel figlio di puttana se ne va. La abbandona - vi abbandona. Cosa t'importa di uno che è scappato via? Sono stato io a tirarti su.» «Questo lo so, Poppy.» Gli prendo la mano. «Avresti preferito che restasse?» «No. Volevo che lei non lo vedesse mai più.» «Lei cosa ne pensava?» Poppy fa una specie di sbuffo. Un avvertimento. «Non conta cosa pensava. Aveva diciott'anni.» «Perché non si è mai sposata?» «Aveva te da crescere.» «Ma era carina. Usciva mai con qualcuno?» «Era una cosa che non incoraggiavo.» «Perché no?» «Era troppo giovane.» Rido. «Giovane? Ha vissuto con te finché è morta, a trentotto anni.»
Di punto in bianco mi mette un braccio intorno alle spalle. «È la gente di Los Angeles che te le racconta?» «Che mi racconta cosa?» «Queste cazzate multiculturali.» Sorrido, profondamente e pacificamente divertita. «Poppy... credo di essere io, l'incarnazione della multiculturalità.» Come si diceva dell'Ayatollah Khomeini: non capisce l'ironia. «Col cavolo. Tu sei americana, e se non ne sei fiera uno di noi due ha sbagliato tutto senza rimedio.» Va dietro a una palma a fare pipì. Gli dico da lontano: «La casa sulla Dodicesima è in vendita». «Mi sorprende che sia ancora in piedi.» «Chi abitava nella casetta bianca lì accanto?» «Una famiglia svedese. Nel vicinato erano tutti tedeschi o svedesi. Di quella gente mi ricordo che allora facevo i turni di notte, e il loro cane abbaiando tutto il giorno non mi lasciava dormire.» Sola, siedo sul ciglio della strada con le ginocchia strette fra le braccia. Mi sta venendo il mal di testa per le pizze gommose, il dolce pieno di saccarina e il troppo vino. Non mi piace più stare qui nel parcheggio. Anche se il cielo trabocca di stelle lucenti quaggiù è molto, molto buio e l'illuminazione stradale è scarsa. Un vento asciutto e costante soffia sulle palme, scuotendo le fronde con un rumore simile allo schiocco del cellofan. Ho i calzoncini corti e un top di jeans senza maniche, e mi sento vulnerabile. La pistola è nella borsetta, su in casa. Girato l'angolo di questo edificio c'è solo il deserto. Un vuoto nero. Il cuore mi batte forte. Continuo a sentire dei cani. No, adesso li riconosco, sono coyote che ridono come un branco di folli laggiù in mezzo al buio. Il parcheggio ha un'aria strana. Quello stronzo di un ciccione non avrà messo dell'LSD nel mio drink? Sto tornando a casa con Juanita Flores. Lei porta un vestitino senza maniche di cotone lilla, la gonna a piegoline orlata di passamaneria elastica rossa; è più grande di me, avrà otto anni. A scuola ha rubato un blocco di carta bianca per il romanzo che sta scrivendo, su due sorelle che vivono in una casa infestata dai fantasmi, e mi chiede di prendere qualche francobollo dal cassetto di mia madre per spedirlo e farlo pubblicare. Ha un'aria solitaria, come se nessuno la sorvegliasse mai, e non so dove abita. Ci siamo incontrate al campo giochi della Roosevelt Elementary School, e lei mi ha attirato nel suo mondo di vivide fantasie; spesso cammina da sola fino alla Dodicesima per cercarmi e continuare i
nostri giochi. In questo ricordo, che vedo nello stesso bianco e nero del parcheggio, un botolo di nome Wilson esce dal cortile della casa di mattoni dei vicini e ci sbarra la strada, abbaiando e ringhiando. Siamo terrorizzate e non osiamo proseguire. Juanita comincia a piagnucolare. So che devo salvarla. La trascino in casa mia. «Wilson è scappato! Juanita non può andare a casa!» Ci penserà il mio nonno poliziotto. Esce dal bagno con un giornale arrotolato, grande e grosso, oscurando quel po' di luce che riesce a entrare nel corridoietto della cucina. «Lei non può rimanere qui.» «Ma Wilson...» «Non voglio una ragazzina ispanica in casa mia.» Sto lì a guardare come una scema mentre lui accompagna alla porta la mia amica e la fa uscire. Scostando le tendine di pizzo che proteggono le strette finestrelle ad ambo i lati della porta, vedo Juanita, sola, incapace di muoversi per l'umiliazione e la paura. Davanti un cane che abbaia. Dietro una porta chiusa. Lentamente, un rivoletto giallo sgorga da sotto il vestitino lilla, formando una piccola pozza sulla soglia di casa nostra. Ma io sono al sicuro. Non mi buttano fuori. Anche se ho sentito chiamare "il messicano" quel ragazzo che era mio padre, è stato tanto tempo fa e non conta più; io non sono una ragazzina ispanica come Juanita Flores. Nell'ombra fresca alzo lo sguardo sul nonno, grata del suo amore. Da quel momento in poi, voglio essere proprio come lui. 8 È un'idea di Kyle Vernon, il pranzo mensile a cui ognuno contribuisce con una pietanza. Kyle, serio studioso di cucina francese e conoscitore di vini, una volta è riuscito a bidonare tre di noi colleghi e ci ha portato a un corso sulla preparazione della pizza che si teneva nella cucina privata di uno chef alla moda, sulle Hollywood Hills. Io, seduta su uno sgabello di bambù, mi bevevo il Chianti classico offerto dalla casa e intervenivo con osservazioni saccenti. Kyle era in estasi: sperava solo che la giornata non finisse mai. Le casalinghe di Brentwood se ne sono tornate a casa con le speciali pietre per cuocere la pizza e l'origano secco in rametti; io me ne sono tornata a casa privata anche dell'ultima illusione sulle gioie di preparare buoni pranzetti per l'uomo della mia vita.
Questo mese Kyle dimostra il suo talento con un paio di torte di mele, ricetta francese: le mele sono tagliate così sottili che deve aver usato un rasoio. Le fette sono disposte in cerchi perfettamente concentrici su uno strato di crema, e ricoperte da una gelatina arancione che lui definisce glassa di albicocca. «Ehi, Kyle» dico «non potevi andare dal fornaio? Ti risparmiavi un mucchio di fatica.» «Ana, è stato uno come te a mutilare la Pietà.» «Pietà. Pietà...» dico in tono meditativo, tanto per dargli corda, «non è un tipo di sandwich che fanno in Medio Oriente?» Barbara ha preparato le lasagne e Rosalind uno stufato al tonno. Il contributo di Duane Carter, manco a dirlo, è un chili alla texana così amaro e piccante che fa sudare. La madre di Frank Chang ha fatto i ravioli alla cinese e io metto sul tavolo un contenitore formato famiglia di Chicken McNuggets. Kyle sembra addolorato. «Mi chiedo, dobbiamo permettere che un prodotto semicommestibile deturpi questa tavola stupenda?» «Ehi, io non ho una moglie che mi fa la spesa.» «Cosa c'entrano le mogli? Io sono andato al Ranch Market, e ho personalmente esaminato ogni singola mela che ho messo in quelle torte.» «Perché sei un maniaco ossessivo che andrebbe curato.» «E Barbara? E Rosalind?» continua Kyle. «Hanno la moglie, loro? O non si sforzano di fare del loro meglio per la squadra?» «Lui ce l'ha, una moglie.» Indico Donnato, che alza gli occhi mentre sta togliendo il coperchio da una gigantesca insalatiera di plastica azzurra piena di lattuga; sopra la lattuga si alternano, disposti con cura, fettine di carota e ravanello e anelli di cipolla rossa e peperone verde, il tutto a creare una specie di caleidoscopio vegetale. «Ammettilo, Donnato. L'ha fatta tua moglie, l'insalata.» «C'è una prova schiacciante. Non ho mai conosciuto un uomo che sapesse usare i contenitori Tupperware» commenta Barbara nel suo tono asciutto. «La chiusura ermetica è troppo per loro.» Donnato svita il tappo di una bottiglia intera di condimento Blue Cheese e la rovescia tutta sull'insalata. «Mi dichiaro colpevole. Incatenatemi al muro e frustatemi.» «Come mi tenterebbe» gli sussurro, passandogli davanti per prendere i ravioli cinesi, che, lo so per esperienza, sono il piatto migliore. Al momento sembra che non reagisca. Tiene gli occhi fissi sulle posate
di plastica nera con cui rigira l'insalata; le posate prese dal cassetto della cucina superattrezzata della casa con prato di Simi Valley, dove i fiori sulle presine sono uguali ai fiori sulle tovaglie e i contenitori metallici allineati in ordine di altezza portano scritto Zucchero, Cannella, La vita è bella. Finalmente, dopo averci pensato un bel po', Donnato mi mette alla prova: «Se ti piace il genere, conosco un bar sadomaso sullo Strip». «Immagino che sarai un cliente fisso.» Ancora serissimo: «Lavoriamo insieme da tre anni, ma tu cosa sai di me, Ana?». Rido. «Ti ci vedo a fare tante cose, Donnato, ma chissà perché, il sadomaso proprio no.» «Che c'è di tanto divertente?» vuole sapere Barbara. «Donnato con un corsetto di cuoio nero.» Donnato fa una smorfia buffa, un'ombra di sorriso sotto la barba. «Te invece ti ci vedo» dice. «Annie Oakley vestita di pizzo nero.» Barbara mi dà una gran gomitata nelle costole e gli risponde con una battuta che non ascolto. I suoi occhi sfiorano i miei per un brevissimo istante - Annie Oakley vestita di pizzo nero? - poi lui distoglie lo sguardo e io sento un'inattesa vampata di calore in mezzo alle gambe, come quand'ero ragazzina. Nel dormitorio, alle nostre spalle, c'è un telefono che suona. «Ci vado io.» Automaticamente, Rosalind posa il suo piatto. «No, è per me.» Vedo la spia che lampeggia sul mio tavolo in fondo alla stanza. Appena sento la voce della signora Gutiérrez la piccola euforia erotica si dissolve, e lo stomaco mi si contrae in un nodo di ansia. «Stanno tutti male» mi dice. «Tutti i bambini hanno il raffreddore, e Cristóbal ha la febbre.» «Ha bisogno di un medico?» «Non credo. Penso che domani starà meglio. Gli do solo un po' di minestra.» Guardo i miei colleghi al di là del divisorio di vetro della sala mensa. Donnato, insieme a tutti gli altri, ascolta Duane Carter che tiene banco. Nonostante le spalle curve, Duane è il più alto. Dice qualcosa che fa ridere tutti. «Ha avuto i soldi dalla signora Claire? Aspettavo notizie.» «No. Le ho parlato, ma non è servito a niente.» «Come faccio a occuparmi dei bambini se non ho soldi?»
«Non lo so.» Mentre sono lì in piedi, Henry Caravetti, un impiegato della posta interna che soffre di distrofia muscolare, passa sulla sua sedia a rotelle elettrica e posa una pila di buste sulla mia scrivania. Gli faccio segno col pollice alzato. Le labbra pallide tirate in un sorriso tremante, stacca una mano inerte dai comandi, la spinge verso l'alto per ricambiare il gesto e scivola via. «Questi bambini sono la sua famiglia» dice rabbiosamente la signora Gutiérrez «ma lei non prova nulla per loro. Signora, la compatisco.» Riattacca. Mi siedo, e resto immobile. Mi sembra che mi assalgano da dentro e da fuori. A un tratto questa sensazione si trasforma in rabbia; rovisto freneticamente nei cassetti della scrivania, nel portafoglio e nelle tasche della giacca, e trovo il biglietto grigio e pesca della Dana Orthopedic Clinic in fondo alla mia valigetta di tela blu, insieme ad alcune pastiglie per la gola. Di nuovo domino l'impulso di qualificarmi come agente dell'Fbi per tagliare corto con le solite cazzate della reception, ma parlo di «una faccenda legale» e dico che è «molto urgente», e così riesco a farmi passare il dottor Eberhardt. «Mi scusi, non ho capito chi è lei.» Gli dico che sono una cugina della loro defunta domestica, Violeta. A dirlo suona strano, ma tengo duro. «A quanto pare, le dovevate ancora del denaro, quando ha lasciato il lavoro.» Con freddezza: «Era stata pagata». «Ha detto a un'amica che le dovevate ancora più o meno quattrocento dollari.» «È una follia. Non imbroglierei mai una domestica.» «Cerchiamo di non perdere tempo.» Io mi sento colpevole e profondamente combattuta, e lui è un medico che abita in una casa da un milione e mezzo di dollari con un lampadario di cristallo. «I figli di Violeta non hanno nessuno che si prenda cura di loro, va bene? Se mi permette un suggerimento, sarebbe corretto che lei, come ultimo datore di lavoro della madre, offrisse un contributo per il loro mantenimento.» «Un momento, signorina Grey» e sottolinea il signorina. «Io ho licenziato Violeta. Vuole sapere perché? Invece di sorvegliare i miei bambini, com'era suo ben retribuito dovere, stava in casa a chiacchierare con un'altra domestica. Per colpa della sua negligenza, la mia bambina, che ha quattro anni, è caduta in piscina e ha rischiato di annegare.» In tono remissivo replico: «Questo non lo sapevo».
«No, non lo sapeva, però mi ha appena rivolto delle accuse offensive.» «In ogni caso» continuo a insistere nonostante il terreno si sia fatto cedevole, «i bambini hanno bisogno di aiuto.» «E perché non farli aiutare da qualche istituzione statale? Io verso il cinquantun per cento del mio reddito allo stato, che dovrebbe dare assistenza a persone come Violeta. Persone, tra parentesi, che non sono nemmeno cittadini americani.» Un altro scoppio di risa dalla sala mensa. Segue una pausa di silenzio, come se riflettesse, poi il dottor Eberhardt sbuffa esasperato nel telefono. «Se lei pensava che le dovessi ancora qualcosa, farò un assegno tanto per chiudere la faccenda.» Lo ringrazio e gli dico di mandarlo direttamente alla signora Gùtiérrez. «Violeta è stata negligente, ma quel che le è successo è insensato e spaventoso, e mi dispiace per i bambini. Solo, non cercatemi più.» Mi rilasso sulla sedia, annuendo con aria trionfante all'indirizzo del Travestimento Agente Antirapine come se dovesse farmi le congratulazioni per aver risolto il problema di Teresa e Cristóbal. Lui non mi fa ciao ciao, non alza le maniche congiunte in segno di vittoria, e una piccola ombra raffredda il mio sollievo. La descrizione della negligenza di Violeta da parte del dottore non quadra con le reazioni di sua moglie alle mie domande. Claire Eberhardt ha chiuso l'argomento dicendo soltanto: «Abbiamo dovuto chiederle di andarsene, le cose non hanno funzionato». Se una cameriera lasciasse cascare in piscina mio figlio mi sentirei in diritto di fare critiche più decise. L'impressione che ho avuto incontrandola sulla porta finalmente si chiarisce: Claire Eberhardt si comportava come la classica persona sospetta che ha qualcosa da nascondere. Quasi a voler mettere in ordine le cose, comincio a guardare distrattamente la posta. E così trovo la lettera ufficiale dell'agente speciale Capo, Robert Galloway, che ha esaminato la mia richiesta di trasferimento alla sezione Rapimenti ed Estorsioni, e l'ha respinta citando «una nota sfavorevole» del mio supervisore, Duane Carter. Ritorno in sala mensa e resto lì in piedi a mani vuote mentre gli altri si tagliano delle belle fette dalle torte di Kyle, e Duane Carter racconta la storia di una spada Katana del quindicesimo secolo che vale centinaia di migliaia di dollari. Più resistente dell'acciaio moderno, eppure incredibilmente delicata; basta l'impronta di un dito per rovinare la lama; basta alitarci sopra per vederla arrugginire in mezz'ora, dice Duane. Gli uomini lanciano esclamazioni di meraviglia e le donne cominciano a
sparecchiare. Dico a Barbara: «Duane mi ha fottuto». «Come?» «Richiesta di trasferimento respinta.» «Accidenti.» Incrocia le braccia e ripete: «Accidenti». Parliamo a voce bassa. Serro la mascella per non lasciarmi andare a una collera che sento montare e che sta per sfuggire al mio controllo. Barbara si piega per togliere un piatto dalla tavola. «Questa è discriminazione.» Guardando oltre le sue spalle, vedo la finestra sporca dove sono appiccicati gli avvisi di partite di softball e di gite per fare immersioni subacquee, e le forme indistinte della gente anonima che attraversa l'ingresso. Qualche volta vorrei tanto il conforto di una madre. «Se è discriminazione, finirà immediatamente.» Fingendo di non cogliere lo sguardo di avvertimento di Barbara mi avvicino a Duane e lo affronto, proprio qui, al nostro pranzo mensile. «Senti, Duane.» «Sì, Ana?» «L'agente speciale Capo ha respinto la mia richiesta di trasferimento.» Il chiacchiericcio tace. «La tua nota sfavorevole ha influito molto sulla sua decisione.» Duane dà un'occhiata ai miei colleghi, che hanno capito l'antifona, e trattiene un sorriso. «Mi dispiace che ti sia andata male.» «Ti dispiace davvero, Duane?» «Naturale» dice Donnato di punto in bianco. «Adesso dovrà sopportarti per altri sette anni.» E intanto fa un cenno piegando la testa all'indirizzo del nostro supervisore, come se lo commiserasse per quanto è difficile e impegnativo trattare con le donne, a tutti i livelli, oggi come oggi. Odio Donnato quando si mette a mediare fra me e Duane, anche se lo fa credendo di proteggermi. «Penso che ce la farò, a sopportarla» scherza Duane. «Se mi costringi a restare in questa sezione, Duane, ti prometto che alla fine resterà in sella uno solo di noi due.» Il sorriso di Donnato diventa una smorfia di disgusto preoccupato, come se io, recluta dilettante, fossi uscita allo scoperto nel mezzo di uno scontro a fuoco mentre lui e tutti gli altri veterani furbi si sono messi al riparo e hanno intenzione di restarci. Non posso aiutarti, mi dice con una scrollata
di spalle; c'è solo da chiedersi se rimarrà qui a guardare mentre mi fanno fuori. Ma invece di scaricarmi addosso il suo arsenale, Duane sorprende tutti afferrando una sedia e mettendocisi a cavalcioni, cosicché adesso siamo faccia a faccia e posso osservare la grana finissima della sua pelle bianca come porcellana, e i pochi peluzzi scuri e dritti sotto il labbro inferiore. Mi chiedo se si rada, qualche volta. «Perché ce l'hai con me?» Vuole essere disarmante, e naturalmente lo è, con questa chiacchierata a cuore aperto affrontata in pubblico; Duane tenta di farmi passare dalla parte del torto, di mettere in cattiva luce la mia aggressività di fronte al suo sincero turbamento. Io so che Barbara non ci casca, e neanche Donnato, ma tanto hanno lasciato la stanza, insieme alla maggior parte degli altri, che improvvisamente hanno avuto una gran fretta di tornare alle scrivanie. «Ti potrei rivolgere la stessa domanda.» «Ma è questo il punto. Non è vero che ce l'ho con te, Ana. Se sono duro con te, è perché puoi benissimo sopportarlo. E forse anche, francamente, perché ne hai bisogno. Hai la tendenza a essere un po' troppo bellicosa.» «Così è per il mio bene che mi hai negato il trasferimento.» Duane ignora il mio sarcasmo. Si concentra per non perdere il filo nella sua esibizione di sincerità, e la cosa gli richiede un certo sforzo. «A suo tempo, spiccherai il volo come un missile e nessuno ti fermerà. Ma non è necessario avere tanta fretta. Cristo, non hai neanche trent'anni, no?» Ho appoggiato le natiche contro l'orlo di uno dei tavoli marrone della sala mensa. Porto una gonna nera corta, calze nere e tacchi alti, e mi sento disinvolta e sexy a star lì a braccia conserte, palpando il morbido maglione bianco che ho indossato per il nostro pranzo mensile, quello con lo scollo di pizzo semitrasparente. Duane Carter mi osserva con l'innocenza neutra di un adolescente che per oggi ha smesso di appiccare incendi, e sta in ginocchio a giocare con le macchinine come quando aveva sei anni. «Resta il fatto che ho compiuto un arresto perfetto alla California First Bank, e che mi merito una ricompensa, non una punizione.» «Sto cercando di spiegarti che non è una punizione, questa...» «Certo che lo è. Mi vuoi punire perché sono una donna.» Chiude gli occhi e scoppia in una risata sonora. «Spero che tu non lo creda sul serio.» «Sicuro che lo credo, e te lo proverò. Intenterò una causa per discrimi-
nazione sessuale contro di te e il Bureau.» Duane si alza e spinge via la sedia. Ha ficcato le mani in fondo alle tasche per cercare i fiammiferi rubati o l'altro oggetto che è la fonte di quella forza psichica distruttiva. L'innocenza è scomparsa, e le fiamme nere divampano di nuovo nei suoi occhi. Non ci è voluto poi molto. Fin dai tempi della causa collettiva intentata dagli agenti di origine ispanica, l'Fbi è rimasta sotto tiro; anche un'altra causa promossa da agenti di colore ha suscitato un grande interesse. So benissimo che le alte sfere dell'Fbi non tollererebbero accuse di discriminazione contro l'ufficio di Los Angeles. Dopo un paio di conversazioni con gli avvocati, scopro che la mia posizione è molto solida. Tanto solida che alla vigilia della scadenza dei termini entro cui intentare causa, l'agente speciale Capo Robert Galloway convoca Duane e me nel suo ufficio per un'apposita riunione. Non ero mai entrata nell'ufficio d'angolo di Galloway, con il vasto panorama sul downtown di Los Angeles, la moquette più elegante e le poltrone nuove a grandi quadri chiari. «Ho dovuto risalire alle origini di questa faccenda per capirci qualcosa» esordisce Galloway nel suo accento di Brooklyn, «e adesso afferro il senso delle vostre rispettive posizioni.» Galloway ha diretto la divisione Crimine organizzato dell'ufficio di New York per diciotto anni, eppure non c'è nemmeno un filo grigio nella sua fitta chioma nera e ondulata da irlandese. Porta sempre dei maglioni a collo alto - il suo tratto distintivo - e mai camicia e cravatta, in qualunque occasione e con qualunque tempo, dando adito a voci di tracheotomie, ferite di arma da fuoco, cicatrici da intervento per cancro alla gola... Ma fuma ancora il sigaro, e dunque o lo muove un desiderio di morte oppure, come tutti noi, si sforza di essere un indipendente, a modo suo. Sono le dieci e mezza, e il fitto, basso profilo urbano di Los Angeles si staglia contro una foschia lattea e abbagliante che per mezzogiorno avrà lasciato il posto a cieli limpidi e a una temperatura di venticinque gradi. Per caso sia Duane che io ci siamo messi un completo blu scuro con camicia bianca, e sembriamo una coppia di addetti alle prenotazioni al banco di una compagnia aerea. Sul tavolino accanto al divano Galloway tiene dei ricordi del tempo passato a New York; ci sono anche un modellino della Statua della Libertà, e uno stemma ovale in bronzo della divisione investigativa del Dipartimento
di polizia di New York. Galloway lo prende e lo soppesa. Chiedo a che cosa serve. «È una fibbia da cintura. Regalarmi la cintura intera costava troppo.» Indica la pratica che tiene sulle ginocchia. Non è rimasto dietro la scrivania: si è seduto vicino a noi, come suggeriscono i manuali di management, per far vedere che siamo tutti uguali. Sta lì con le gambe comodamente accavallate e un sigaro spento fra i denti. «Tornando a quell'arresto alla banca... mi sembra che Ana abbia senz'altro fatto un lavoro notevole. Accerta che qualcuno sta commettendo un reato, e da sola individua e immobilizza il malvivente, che così viene tratto in arresto senza incidenti dal LAPD... E poi» scuote la testa e ride «salta fuori che quello scemo ha altre sei rapine sul groppone!» Ride e ride. Ride finché tossisce e diventa rosso in faccia. Duane Carter non sorride nemmeno. Punta su Galloway il suo sguardo da assassino folle. Ricordo quello che mi diceva Donnato sulla loro rivalità e sento un brivido gelido, chiedendomi se lo senta anche Galloway. «L'agente speciale Grey non ha chiamato per richiedere assistenza, e così ha messo in pericolo se stessa e i civili.» Galloway si asciuga gli occhi. «Hai ragione. Secondo la procedura, avrebbe dovuto fare una chiamata di 211 in corso.» Ha lasciato cadere il braccio su un lato della poltrona, ma stringe ancora la pesante fibbia, e se la rigira in mano con una calma implacabile. «Ha ragione dal punto di vista tecnico.» Faccio dondolare con impazienza la gamba. «Ma si sbaglia quando mi nega il trasferimento perché...» «Ho detto fin da subito che avete entrambi una motivazione sensata» mi interrompe bruscamente Galloway. «Smettila di tenere il broncio, Ana, ti fa venire le rughe e non è il caso, sei troppo giovane e carina.» Inarca le sopracciglia, sfidandomi a rispondergli per le rime. Io invece prendo esempio da lui e scoppio a ridere. È più uno sbuffo che una risata, ma almeno non sono imbronciata. «Non eliminerò la nota di Duane.» Ciò significa che rimarrà per sempre nella mia scheda personale. Altre persone la leggeranno, senza conoscere i fatti, e daranno per scontato che lo sbaglio era mio. L'iniquità di una simile decisione mi fa scattare in piedi. «Ma questa è un'ingiustizia!» «Nessuno dice che devi essere d'accordo.» «Infatti non sono d'accordo. Mi oppongo nei termini più recisi e sono si-
cura che la Commissione mi appoggerà.» Mi fermo, senza fiato. L'equilibrio delle forze è mutato con un'impressionante rapidità. Adesso mi fissano entrambi, al sicuro nelle loro poltrone, mentre io faccio scenate in mezzo alla stanza. Il peggio è che nello sguardo di Duane c'è la compassione. «Be', se ti calmi un po'» prosegue Galloway «ti comunico l'altra parte della mia decisione.» Mi risiedo. «Non eliminerò la nota di Duane... ma approverò anche la richiesta di trasferimento di Ana.» «Scusa» dice Duane «ma non ti pare di essere almeno un pochino in malafede? Come puoi fare tutt'e due le cose?» «Approvo il trasferimento di Ana in via condizionale. Se dopo un periodo di prova sembra che sia adatta al lavoro, allora la trasferiremo definitivamente alla sezione Rapimenti ed Estorsioni.» «Che cazzata gigantesca.» Secondo me, è un compromesso magistrale. «Quale sarebbe la condizione?» chiedo con interesse. Galloway si alza e va alla scrivania, a mettere il sigaro mezzo masticato nel posacenere insieme ad altri due mozziconi fradici. «Ti assegno un caso. È una faccenda di droga. Voglio vedere come te la cavi.» Mi sporgo in avanti pronta a balzarci sopra, di qualunque cosa si tratti. «Mi è arrivato dall'ufficio del Direttore. È il genere di caso che loro definiscono "di alto profilo".» Non so dire se Galloway sorrida perché mi fa un regalo o perché trova che le parole "alto profilo" siano particolarmente divertenti e meritino un sogghigno ironico. Nel frattempo, Duane si è tanto rabbuiato che ha la faccia quasi dello stesso colore del suo completo blu scuro. «Jayne Mason sostiene che il suo medico l'ha fatta diventare dipendente dalle medicine che le prescriveva.» C'è un momento di silenzio stupefatto. Ci aspettavamo i colombiani, i messicani, i Crips e i Bloods. «Dovevi essere su Marte per non sapere che Jayne Mason è stata ricoverata varie volte al Betty Ford Center» prosegue Galloway. «Be', adesso sostiene che è tossicodipendente per colpa di un medico senza scrupoli che si chiama Eberhardt.» Duane: «È di nostra competenza?».
«Sostiene che gli stupefacenti che le dava venivano dal Messico.» Galloway mi lancia un fascicolo. «Fragilino come appiglio» osserva Duane. «Guardati l'articolo 18 del codice federale, prevenzione dell'abuso di droghe, o magari il 21, Distribuzione Illegale.» Sono senza parole. So benissimo che sarei obbligata a informare immediatamente l'agente speciale Capo del conflitto di interessi a cui mi espone questo caso. Che la mia sedicente cugina, morta in circostanze misteriose, ha lavorato proprio per il dottor Eberhardt. «A me sembra un caso di esercizio doloso della professione medica» insiste, «il che lo dirotterebbe alla sezione Reati dei Colletti Bianchi, mi sbaglio?» «Come ho detto» ripete con fermezza Galloway «il caso viene dall'ufficio del Direttore.» Ha fatto capire a tutt'e due il valore politico della faccenda. «Lo tratterò con discrezione.» «Discrezione un cazzo» sbotta Galloway. «Sarà meglio che ci arrivi in fondo, in modo che io possa apparire mediamente intelligente.» Usciamo dalla stanza. Duane ha già oltrepassato la soglia quando Galloway mi sfiora la spalla. S'è rimesso in bocca il sigaro. «Adesso non c'è motivo di intentare quella causa, vero?» «Penso che tu sia stato molto giusto.» «Mi fa piacere sentirlo.» Duane mi aspetta nell'ingresso. «Caso prestigioso» dico, gettando indietro i capelli. «Caso schifoso» ribatte lui con un largo sorriso di felicità, e se ne va tranquillo. Non conta cosa ne pensi Duane Carter, questa è l'occasione per avanzare di una dozzina di caselle sul grafico della mia carriera, o addirittura per schizzare via e puntare dritto al cielo. Se si tratta di Jayne Mason, deve per forza essere una cosa grossa. Nella mia mente, conoscere già le persone coinvolte si è trasformato da motivo per un conflitto d'interesse in un incredibile vantaggio. Sto pensando a quel giorno, quando dal vicolo dietro la clinica ho visto insieme Jayne Mason e il medico che lei accusa. Lei, vestita di rosso, si sottraeva alla sua stretta, e a lunghi passi frettolosi si dirigeva verso la limousine. Ma ora ricordo qualcos'altro. Un particolare curioso. Il dottore
teneva in mano una rosa. Una rosa gialla dal lungo stelo. Partita la limousine, aveva gettato la rosa nella spazzatura e il pesante portone si era richiuso di colpo alle sue spalle. 9 Il primo passo da fare è raccogliere tutte le informazioni sul dottor Randall Eberhardt che si possano trovare nelle varie banche dati elettroniche. Inserisco il suo nome nel nostro computer interno, che mi informerebbe di eventuali arresti avvenuti in qualunque punto del globo, e scopro che non ce ne sono. Controllo al dipartimento motorizzazione se ci sono denunce per guida pericolosa, guida in stato di ebbrezza o eccesso di velocità, ma anche qui niente da segnalare. Con un'ingiunzione, ottengo dalla compagnia telefonica l'elenco di tutte le telefonate interurbane fatte sia dalla clinica, sia dall'abitazione della Ventesima: cerco qualcosa che indichi un traffico di droga, ma scopro solo che gli Eberhardt continuano a chiamare spesso amici e parenti di Boston. I grossi schedari girevoli che teniamo nel seminterrato, "l'obitorio", documentano tutti i reclami presentati al nostro ufficio dai cittadini, per telefono o allo sportello; la ricerca minuziosa di due impiegati tra i più svegli non dà nessun risultato. L'Ordine dei Medici della California mi dice che nessun altro paziente ha mai accusato di alcunché il dottor Eberhardt. Mi confermano che si è laureato alla Harvard University e alla Harvard Medical School, e che ha completato un internato di specializzazione in ortopedia al New England Deaconess Hospital. È nato a Cambridge, Massachusetts, e si è diplomato alla Buckingham, Brown e Nichols, un liceo privato di lusso. Contatto la sede di Boston e richiedo un controllo approfondito dei precedenti, sottolineando che il caso è urgente, di primaria importanza e che ci è stato assegnato dall'ufficio del Direttore. La pista di Boston sembra promettente. Qualunque sia la causa che ha spinto Eberhardt ad abbandonare la retta via, deve per forza risalire a prima del suo trasferimento in California. Magari c'è un motivo ricorrente. Richiedo l'autorizzazione per un viaggio sulla East Coast, nel caso si renda necessario. Una volta sistemate queste faccende, ripenso alla questione della domestica del dottor Eberhardt, e a ciò che io sola so di lei. Ho riposto in un cassetto della scrivania la magra documentazione riguardante Violeta Alvarado, e ogni tanto mi capita di darci un'occhiata: una Bibbia, qualche i-
stantanea, le foto dell'autopsia che testimoniano la sua morte violenta. Sì, è vero, ho sentito dire che era una gran lavoratrice e una madre affettuosa, e ho visto i suoi bambini. Potrebbe anche risultare che era veramente mia cugina, ma il mio lavoro mi obbliga a mettere da parte i sentimentalismi e a considerare solo i fatti. E più li considero, più mi convinco che la teoria del sergente John Roth è esatta: Violeta Alvarado era implicata in un traffico di droga, forse per conto del suo ex datore di lavoro, il dottor Randall Eberhardt. Nel mio campo si fanno spesso queste costruzioni ipotetiche, modelli di comportamento umano simili all'origami poliedrico appeso alla lampada da tavolo dell'agente Michelle Nishimura. Le ho visto creare oggetti straordinari con la carta, complicatissime piegature eseguite in fluide sequenze, la pura logica della forma che rende resistente il più fragile dei materiali. Ormai ho fatto rimbalzare per un centinaio di volte contro un muro immaginario la piccola sfera della possibilità che Violeta Alvarado sia implicata nel caso di Jayne Mason, e trovo il coraggio di telefonare a John Roth. Gli ci vuole qualche giorno per richiamarmi, perché sta lavorando da infiltrato. Il suo atteggiamento non cambia mai, il che mi irrita profondamente. «Perché cazzo ti dovrei fare un favore?» «Fallo a te stesso il favore, e chiudi un caso di omicidio una volta tanto.» «Perché dovrei rovinare la mia media?» «Hai già avuto il referto dell'autopsia?» «No.» «Insomma, com'è catalogato il caso?» «Sotto la voce "Chi se ne frega" per "Chi se ne frega di una messicana morta?".» Lontanissimo, oltre l'orizzonte, si alza una folata di vento, e la avverti solo per un sottile mutamento nell'atmosfera, che da asciutta si fa umida, un po' come il trasalire delle foglie dei pioppi al presentimento di un temporale... E, stranamente, il consueto frastuono si acquieta e lascia udire solo quel suono gonfio di afa e di urgenza, che si ripete ancora e ancora. Con voce contratta lo ammonisco: «Era nata in Salvador e aveva dei bambini». «Come un altro milione di messicani morti.» «Stronzo.» Nella sua risata c'è una sfumatura di isteria selvaggia, come se fosse fat-
to. «È la tua brillante deduzione, John, ricordi? Era sul Santa Monica Boulevard alle cinque del mattino. L'hanno ammazzata in un modo che sembra intenzionale, sparando da un'auto. L'hanno mutilata delle mani, e questo significa un assassinio su commissione.» «Ma che brava.» «Lavorava per un medico che è stato accusato da Jayne Mason perché secondo lei le prescriveva troppi psicofarmaci. Poteva essere un suo contatto con gli spacciatori. Ti chiedo di riaprire il caso.» «Ho altre faccende in ballo.» «Questa è di prima grandezza.» «Anche la mia erezione.» Mi mordo le labbra. Ne sento la mancanza, lo ammetto. «John, dagli una svegliata a quelli, d'accordo?» Mi chiedo se la mia vulnerabilità sia tanto evidente per lui quanto mortificante per me. «Un medico che prescrive troppi psicofarmaci è come un pompiere piromane» dichiara Barbara. «Un matto.» «Non necessariamente. Potrebbe farlo per calcolo.» «Vuoi dire ricatto, estorsione?» Ci siamo incontrate alla fotocopiatrice e attraversiamo insieme l'atrio. «Potrebbe anche prendere una percentuale da una farmacia o da una compagnia di assicurazioni, ma ho controllato i suoi conti in banca e le carte di credito; è a posto.» «Allora non si tratta di soldi, ma di potere.» Queste congetture le fanno brillare gli occhi. «Te lo immagini cosa dev'essere per un dottorino perbene e noioso, tenere Jayne Mason sotto il suo controllo?» «Ai medici piace avere del potere sulla gente» concedo. Certo, è un'ipotesi sensata. «Ma prova a immaginarlo, come si fa anche solo a visitare una donna così?» «Te lo farò sapere. Oggi pomeriggio vado a Malibu.» Barbara si dà un pugno sul petto e si piega in due in un parossismo di invidia. «Non ti preoccupare» la rassicuro, mentre lei continua ad ansimare, ammutolita. «Ti prometto che microfilmerò tutta la biancheria intima di Jayne Mason.»
Sbuco dal tunnel di Ocean Avenue sulla Pacific Coast Highway e il sole mi investe, alto sul mare; vertiginosi corridoi di cielo si aprono all'improvviso al mio fianco, senza costruzioni a sbarrare la vista. Perfino le palme sono minuscole, lassù sul ciglio della scarpata, mentre sfreccio su una strada angusta senza spartitraffico con le macchine che mi vengono incontro a cento all'ora. L'improvviso spalancarsi degli spazi mi fa girare la testa; mi distraggono le onde argentee disseminate di surfisti, i fuoristrada parcheggiati come capita sul margine esiguo della carreggiata, il succedersi di casette basse con il cortile che dà direttamente sulla strada; dev'essere micidiale infilarsi dentro a quei garage precari. L'oceano insidia la costa sulla mia sinistra, e guardando le grosse unghiate degli smottamenti sul fianco della collina alla mia destra, mi ricordo che durante le terribili tempeste dello scorso inverno erano rotolati dei massi sulle strade. A velocità costante, l'ordine del mondo si distende davanti a me mentre guido verso nord, rasentando l'orlo estremo del continente come una trottola in precario equilibrio fra la normalità e l'ignoto. Appena dopo la Pepperdine University mi lascio alle spalle tutta quella confusione volgare - i centri commerciali in stile spagnoleggiante e il traffico dei bagnanti. La strada si restringe, il paesaggio diventa idilliaco: allevamenti di cavalli fino alle montagne di Santa Monica, e a occidente panorami spettacolari del Pacifico, dove in un lampo cogli, di quando in quando, la spuma che si infrange in un'insenatura seminascosta in fondo a una scogliera rocciosa. Vedo subito Arroyo Road, segnalata da un piccolo cartello sbiadito. Dopo un'ardua svolta a sinistra mi ritrovo a guidare su una strada sterrata; giganteschi eucalipti dall'ispida chioma, evidentemente piantati molto tempo fa, la ombreggiano come un baldacchino. È sorprendente quanta terra riesca a nascondersi fra la statale e il mare. Uno steccato malfermo di tubi metallici corre lungo un prato di erba alta, dorata, dove pascolano due cavalli Appaloosa. E le guardie? mi chiedo. La strada disegna una curva attraverso il pascolo fino a un gruppo di sequoie. C'è una guardiola, ma è vuota, e la sbarra bianca è alzata; così, tiro dritto verso Foxtail Ranch, parecchi ettari di bosco e pascolo in riva al mare e spiaggia privata, comprati da Jayne Mason per due milioni di dollari negli anni Settanta. Ora valgono almeno dieci volte tanto. In un piccolo spiazzo coperto di ghiaia sono parcheggiate cinque o sei vetture; camioncini, la limousine con targa JM, e una Cadillac nuova color crema con rifiniture dorate che dev'essere di Magda Stockman, l'agente
dell'attrice; mi hanno detto che oggi sarà presente anche lei al nostro incontro. Una fitta vegetazione nasconde la maggior parte della casa. L'ingresso è una porta che si apre su un banale muro bianco accanto a un garage, niente di più. Mi accoglie un giovanotto dai folti capelli castani lunghi fino alle spalle. Certi uomini coi capelli lunghi sembrano dei disgraziati, certi altri divinità erotiche appena uscite dalla giungla: come questo, con le spalle muscolose, gli occhi vigili da animale, il costume da bagno sbiadito, la maglietta color magenta e i piedi nudi. «Mi chiamo Jan. C'era molto traffico?» «Meglio che a Westwood.» «È un po' complicato arrivare, ma dopo i più sono contenti di aver fatto il viaggio.» Seguo Jan attraverso un cortile, tenendo gli occhi fissi sulle sue caviglie potenti (lasciamo perdere i polpacci, di quelli non voglio nemmeno parlare) strette da due braccialetti intrecciati guatemaltechi. Mi piace che l'abbronzatura lo scurisca perfino fra le dita dei piedi - dita lunghe, prensili che è facile immaginare aggrappate all'orlo d'una tavola da surf oppure, sì, diciamolo, alla testiera d'un letto matrimoniale di ottone. «Ti piace la vita di spiaggia, Jan?» «Oh, sì. Prima facevo l'istruttore di windsurf.» «Non mi dire che Jayne Mason è una patita del windsurf.» «No, non lo è» mi risponde seriamente. «Che lavoro fai per la signora Mason?» gli chiedo, sforzandomi di restare impassibile. «Sono il suo assistente.» Il termine che a Hollywood significa segretario. Così, una bella mattina Jayne Mason è scesa in spiaggia e si è scelta un bel surfista che le decorasse la casa e le aprisse la posta. La sua totale mancanza d'immaginazione mi fa pensare che sia il suo segretario e niente più. Ti parla con quel tanto d'energia che basta a simulare un rapporto personale, mentre in realtà sta recitando la lezione come un portiere d'albergo. Io non gli interesso. Non si dà la pena di cercare i miei occhi. Gli interessa il suo corpo, e l'effetto che farà stasera da McGinty, in posa al banco del bar. Faccio caso a queste caratteristiche perché ho notato che di solito le persone assumono spesso segretari che assomigliano a loro stessi. Giriamo un angolo, e subito mi investe un odore di vecchia piscina - il
forte sentore di cloro e cemento bagnato - e infatti alla mia sinistra c'è una piscina ovale lunga una quindicina di metri, col fondo di piastrelle turchesi. Sul bordo, due sdraio in legno di sequoia coi cuscini a fiori gialli e verdi; per terra, un Frisbee. L'acqua ha un odore poco invitante, anche per una fanatica del nuoto come me. Immagino che gli unici a usare questa piscina siano i nipotini di Jayne Mason. Barbara mi ha detto che ne ha cinque, frutto di tre matrimoni. Entriamo in una grande taverna. Ci sono un finto soffitto a travi e una moquette verde trifoglio; mi blocco, faccia a faccia con Jayne Mason che sorridente, in abito da sera, mi porge un mazzo di fiori. Dopo un attimo di stupore mi accorgo che è solo una sagoma di cartone a grandezza naturale, ma è una presenza inquietante. «Posso offrirle qualcosa? Un caffè? Una Perrier?» «Va benissimo il caffè.» «Decaffeinato o normale?» «La benzina la voglio super.» «Arriva subito» dice Jan senza sorridere, ed esce. Ci sono poltrone girevoli marroni che sembrano barili, e i numerosi tavolinetti sono intarsiati di figure di fanciulle, colombe, soli e lune in vetro colorato. Un angolo bar completo di lavandino è stipato di ogni tipo di liquore, dal Glenfiddich alla crème de cassis, e coperto da file e file di oggetti ricordo. Benvenuti al Café Jayne Mason. Ci sono fumetti e caricature e fotografie in cui compare assieme a tutte le celebrità immaginabili, compresi gli ultimi cinque presidenti degli Stati Uniti; e, incorniciati, articoli di rivista dai titoli spiritosi che parlano dei suoi successi. Proprio al centro del bar c'è un enorme mazzo di rose gialle freschissime in un vaso di cristallo. La cosa strana è che le date, sui giornali, si fermano al 1974. Adesso capisco questa stanza. Perché le persiane siano chiuse. Perché i mobili, nonostante l'eleganza e la perfetta manutenzione, sembrino frusti, e l'aria sia umida e sappia di chiuso. Questa è una casa degli anni Settanta, e nessuno ha apportato un solo cambiamento da vent'anni. Questa stanza è stata pensata per fumare spinelli, bere liquori, flirtare e scopare e scappare dal sole californiano. È una scenografia perfetta per il tipo di piaceri che si godevano con quel modo di vivere e in quel periodo, conservata intatta perché Jayne Mason possa rivisitare quella sfolgorante immagine di sé ogni volta che varca questa soglia. Cammino su e giù per la stanza, cercando di indovinare quando è stata
usata l'ultima volta, e per che scopo. Niente posacenere. Niente cestini dei rifiuti. Il caminetto di pietra è pulitissimo. Ma proprio lì sopra, appeso così male che sta un po' discosto dal muro come fosse sul punto di cadere, c'è un quadro straordinario. Una marina di barche a vela che sfilano in acque verde blu percorse da un brivido di vento, tanto vivida che irradia luce, troppo vitale per lasciarsi imprigionare nella pesante cornice dorata, nella stanza fuori moda, nella casa sterile di una diva. Vedere una cosa simile dal vero è un trauma. Fisso avidamente il mondo dipinto sulla tela con tanta sensibilità e passione, commossa fino alle lacrime. La vitalità di questo quadro fa sembrare spento tutto il resto, compreso il mio cuore triste. «È un Manet.» Giro su me stessa. Non mi ero accorta che ci fosse qualcun altro nella stanza, a parte la sagoma di cartone di Jayne Mason. «Lo ha visto mentre girava un film a Maiorca. L'ho sempre incoraggiata a collezionare opere d'arte, ma non è un hobby adatto a lei. Il suo unico interesse è recitare, e questa è una fortuna per me. Sono Magda Stockman, la sua agente.» È una donna piuttosto robusta, una taglia quarantotto, ma vestita in un abito nero di lana orlato di bianco di taglio così elegante da farla sembrare snella. Ogni volta che si muove, si sente un fruscio: la fodera dev'essere di seta. Quando ci stringiamo la mano tanti braccialetti d'oro tintinnano come campanellini natalizi, e mi avvolge un'ondata di profumo denso e dolce. Calze nere, scarpe nere coi tacchi alti e sulla punta, due C dorate unite che anche una poveraccia come me sa riconoscere per quel che sono, il marchio di Chanel. «Ci sono altri quadri come questo?» «Solo alcuni piccoli Picasso. Va bene così, del resto. Jayne non è una che ama sedere accanto al fuoco a guardarsi i quadri. Ha bisogno di essere sempre in movimento.» Magda Stockman fa ruotare le mani l'una sull'altra come una piccola turbina, e i braccialetti tintinnano allegramente. L'accento è dolce, levigato, forse mitteleuropeo. Ho l'impressione che abiti qui da molti anni, ma che coltivi l'accento perché fa parte del suo fascino. Ha larghi zigomi da slava e una pelle ben idratata, senza rughe, che sembra bianchissima per contrasto coi capelli neri raccolti in una crocchia severa. Si è costruita con tanta cura che l'unico modo di definire la sua età è di situarla fra i cinquanta e i settanta.
«Mi dispiace doverla informare che oggi Jayne e io non siamo in grado di incontrarla. Abbiamo una riunione con gente che viene da St. Louis, e non possiamo interromperla. La preghiamo di fare le nostre scuse all'Fbi.» Mi si irrigidisce la schiena. «Il caso ci è stato assegnato dal Direttore. Ci hanno detto che era urgente.» «È della massima urgenza, infatti. Ma non oggi.» Un sorriso indulgente delle labbra lucide e dipinte di rosso. «Resti quanto vuole. Se desidera scendere in spiaggia, naturalmente è la benvenuta. Chieda a Jan, se le serve qualcosa.» Concessi trenta secondi del suo tempo al governo degli Stati Uniti, Magda Stockman esce in fretta, richiamata da un telefono che suona in qualche altra stanza. Jan ricompare reggendo su un vassoio d'argento un servizio da caffè di porcellana decorata a fragoline: bricco, tazza, piattino, zuccheriera, lattiera, tutto completo; servizio per uno, come sui vassoi per fare colazione a letto che si vedono in quei cataloghi di vendite per corrispondenza dove trovi le lenzuola da cento dollari, e si vede anche un cucchiaino d'argento su un tovagliolo di lino azzurro. Posa il vassoio con cautela, e poi si passa la forte, larga mano fra i capelli scuri. «Chiameremo il suo ufficio per fissare un altro appuntamento.» «A Jayne piacciono le rose gialle.» Immaginando che la chiamino tutti Jayne, ci provo anch'io. «Sì, le piacciono.» E questo è quanto. Mi lascia sola col caffè e il souvenir di Maiorca dipinto da Manet. Mai mi fu detto con tanta grazia di levarmi di torno. Scendo in spiaggia, perché no, il sentiero lungo i prati in pendenza sembra invitante, fiancheggiato da viole che palpitano al vento in combinazioni di giallo, rosso e azzurro che mi ricordano lo sventolio dei fazzoletti di mia madre appesi ad asciugare in cortile. Sul limitare della scogliera il vento di mare è abbastanza forte da far volare i capelli, e ti ubriaca come un elisir carico di promesse esotiche - laggiù ci sono le Hawaii, dopotutto, e la Cina. Ormai devo andarci per forza, non importa se l'umidità sciupa l'abito di lino beige che ho indossato per incontrare la stella del cinema; mi reggo al mancorrente - una catena metallica - della ripida scala di legno e scendo i cento metri a picco di roccia viva. Eccomi qua, seduta sulla spiaggia privata di Jayne Mason alle tre del
pomeriggio, con la sabbia che come uno specchio riverbera il sole proprio al giusto grado di calore, a guardare il bianco della schiuma sul verde delle onde. Assaporo l'aria salmastra: nessun rumore, nessun pensiero in testa, solo il vento; nessuna figura od opera umana in vista, completamente sola, e mentre mi dico che commetterei volentieri un reato passibile di pena capitale per avere qualcosa di simile, un uomo si arrampica a fatica sugli scogli che mi separano dall'insenatura accanto. Per un attimo è solo una sagoma nera sullo sfondo di vivida luce, e immagino che sia un fan di Jayne Mason o il fotografo di un rotocalco che sta tentando di entrare via mare nella sua proprietà. Mi alzo dalla cassapanca di legno rovinato su cui mi ero appoggiata, la mano che d'istinto corre alla pistola che porto sotto la giacca. Quando viene verso di me a passi pesanti mi accorgo che è Tom Pauley, l'autista della limousine. E che è nudo come un verme. «Tom» lo chiamo per dargli un avvertimento, «sono Ana Grey, dell'Fbi. Ci siamo incontrati in quel vicolo, ricordi?» «Sicuro.» Continua a camminare, finché non mi raggiunge. «Giornata fantastica.» Senza imbarazzo, apre la cassapanca. Dentro ci sono delle vecchie reti da pesca, dei vestiti, degli asciugamani piegati, e un frigo portatile rosso. Nel frigo, del ghiaccio, qualche bottiglia scura di birra messicana, succhi di frutta e mezzo cocomero avvolto nella pellicola di plastica. «Dio, Tom. Non possiamo continuare a incontrarci così.» Fa un sorrisetto. Ha le labbra screpolate e scottate dal sole. Spalle imbottite di grasso. Uno stomaco pallido e dilatato. Il solito pendaglio. E un paio di gambe storte del colore di un gamberetto di Santa Barbara lessato. «Fatti una birra.» «Prendo un succo di ribes.» «Come mai qui?» «Sono stata invitata.» «Da chi?» «Dal tuo capo.» «Indagate su qualcuno?» «Può darsi.» «Qualcuno del personale?» «Sì, Tom. Sappiamo tutto dell'imbroglio che organizzi.» Sorride, e inarca le sopracciglia sopra la bottiglia di Dos Equis. «Beccato.»
«Scappare puoi, ma nasconderti no.» Restiamo lì a guardare l'oceano e sono io a sentirmi un'idiota perché sono vestita, chissà perché. La marea sale più veloce, adesso. Gli scogli su cui Tom si è arrampicato ormai sono battuti dai flutti, ed è più difficile per un'altra figura, una donna, farsi strada oltre la scogliera, superare le rocce, attraversare il tratto sabbioso e raggiungerci. «Questa è Maureen.» Nuda anche lei. Maureen è una rossa molto magra, anzi troppo, come se soffrisse diun disturbo dell'alimentazione. Ha braccia ossute e cosce flaccide, due piccoli gonfiori sormontati da capezzoli piatti al posto dei seni, ma capelli fantastici. Ciocche di stupendi capelli rossi che le frustano il viso nella brezza che si fa più forte. Maureen prende per mano Tom e non dice niente. Sarà timida. Si allunga per togliere una camicia di jeans dalla cassapanca, ma invece di infilarsela, come speravo, la stende per terra e ci si sdraia sopra. Tom afferra un asciugamano e si siede a gambe incrociate vicino a lei, la sua figura di uomo di mezza età simile a un enorme cumulo di Crisco bianco e perlaceo accanto al delicato corpo da ninfetta della ragazza. Con una delle sue grosse mani si porta la bottiglia alle labbra, e con l'altra accarezza la giovane fronte lentigginosa di Maureen. «Ho l'impressione che abbiate voglia di restare soli.» «No, no. Siamo solo in pausa.» «È così che si fa la pausa caffè, a Malibu?» «Appena si può» sogghigna Tom. «Lavorate tutt'e due per Jayne Mason?» «Maureen si occupa dei suoi vestiti.» «Ho un'amica, Barbara, che, a causa delle privazioni di un'infanzia tragica, è ossessionata da Jayne Mason e dalla domanda: dove si procura i vestiti?» Maureen scrolla le spalle nude. «Li prende.» «Come, li prende? In un negozio?» «Agli studios.» Maureen tiene la faccia rivolta verso il sole, e parla senza aprire gli occhi. «Metti che lei è lì che parla con un attrezzista, magari gli fa l'imitazione di Greta Garbo e io intanto faccio marcia indietro con la macchina fin davanti al guardaroba e porto fuori degli scatoloni pieni.» «Pieni di che?»
«Della roba che indossava nei film. Secondo me è tipico di lei, questo.» «Questa abitudine c'entra in qualche modo col suo problema di droga?» «È finita, quella storia. Ha smesso di prendere droghe» mi dice Maureen in tono solenne. «Da un pezzo.» Tom si gira sul fianco e si puntella sul gomito. «Rubano tutti agli studios, Ana. Procedura operativa standard.» «Metti che uno dica: "Dove l'hai preso quel vestito?". E lei subito: "Oh, è del mio sarto personale, Luc de France", mentre invece è della Twentieth Century Fox. Adoro Jayne.» Maureen rivolge un sorriso ai raggi del sole. Mi accorgo che questa ragazzina avrà al massimo una ventina d'anni, e quasi altrettante cellule cerebrali. «Da quanto lavori per Jayne?» «Non saprei. Un anno circa.» «Non è un po' presto per avere una responsabilità così grossa? Non ci sono dei regolamenti sindacali?» «Maureen è un'assistente» spiega Tom. «È un'altra persona - anzi, altre persone - ad avere l'incarico di, insomma...» «Disegnare, comprare, provare» salmodia Maureen, come una bambina che recita la lezione. «Con-cettualizzare.» Fa una pausa. Corruga la fronte. «In realtà io non voglio occuparmi degli abiti.» «Ah no?» Finisco la bottiglia. «Ho un'idea grandiosa per una sceneggiatura.» «I grandi sogni della piccola Maureen.» Tom le scompiglia affettuosamente i capelli. «Maaagda la trova una buona idea.» Apre gli occhi quel tanto che basta per incenerirlo con lo sguardo. Lui sorride conciliante. Io lascio cadere la bottiglia vuota nel frigo. «Perché non ti fermi e non stai con noi?» propone Tom. «Per fare cosa?» «Qualsiasi cosa.» Guardo ancora al largo. Adesso le onde sono alte quasi due metri, grevi e formidabili. «Nella prossima vita. Piacere di averti conosciuta, Maureen.» Ritorno ai piedi della scogliera, afferro la catena e mi isso su per la scala. Quando arrivo in cima, appena con un po' di fiatone, ho la sorpresa di incontrare Jan, in piedi sul promontorio, con la parte superiore di una tuta da subacqueo e i capelli che gli ondeggiano sulle spalle nel vento. Guarda
verso l'oceano con un potente binocolo. «Delfini» mi spiega mentre gli passo accanto, senza staccare gli occhi dalle lenti. Chiaramente sta osservando i due amanti nudi. 10 In effetti Jan chiama, per "fissare" - e poi annullare e fissare di nuovo un altro appuntamento: dieci o dodici volte almeno. Io continuo a seguire gli altri casi, ma ogni volta che, a sentire Jan, la sua padrona è disposta a incontrarmi, le do la precedenza. Una volta vado fino a un ristorante italiano alla moda di Beverly Glen solo per sentirmi dire dal maitre che miss Mason non può venire, ma che mi prega di restare ed essere sua ospite. Scelgo un'insalata di mare che costa ventun dollari e quando arriva, con orrore vedo una specie di minuscola piovra, grande come una monetina, che striscia fuori dalle verdure miste fin sull'orlo del piatto per poi cascare sulla tovaglia. «Per servire i calamari freschissimi lo chef li mette vivi nell'insalata» spiega il cameriere «e poi li uccide con l'olio d'oliva.» Il giorno dopo, trovo una piovra di gomma appesa a un filo che penzola sulla scrivania. Quello che mi stupisce è che qualche collega - Kyle, probabilmente - si è preso la briga di fermarsi in un negozio di scherzi di Carnevale. Gli allegri burloni hanno anche fatto delle fotocopie di una foto di Jayne Mason e me le hanno attaccate sul muro, con scritto: "Vediamoci al Polo Lounge!", "Vediamoci in bagno", "Sei un amore, bambina!", "Ad Ana, la mia migliore amica". Adesso è "assolutamente sicuro, scolpito nella pietra", secondo Jan, che incontrerò Jayne Mason nell'ufficio del suo avvocato di Beverly Hills, lunedì prossimo. Risolta questa faccenda, posso dedicare tutta la mia attenzione a un importante colloquio con Les, un nuovo meccanico della AllMakes. Mi piace proprio far fare dei lavori sulla mia Barracuda. È una sfida donchisciottesca, tenerla ancora in strada. Anche se non sa spiegarmi perché il faro non funziona, mi dice che la cosa più giusta sarebbe cambiare tutto, fili e lampadina. Mi costerà sui trecento dollari, e bisognerà aspettare che arrivino le parti di ricambio. Mi accorgo che in fondo al dormitorio succede qualcosa, un piccolo tramestio come in occasione di un fatterello insolito, tipo qualcuno che vince cinquanta dollari alla lotteria, ma io cerco di dominare l'irritazione e
mi concentro su Les, su quant'era attraente stamattina alle sette, con la sua camicia di flanella sporca, i capelli col codino, le lunghe dita nere di morchia strette sul bianco del bicchiere di carta, con il vapore aromatico del caffè e il suo alito pesante che si mischiavano nell'aria fredda. Magari il vecchio Les è stato intimidito da quel pezzo di antiquariato, o semplicemente la sera prima aveva bevuto, ma usando un cacciavite invece di pasticciare si sarebbe accorto che la lampadina del fanale è intercambiabile con quella che la Chrysler usa in tutti i furgoncini Dodge. La si può comprare a dieci dollari in qualunque negozio di ricambi, ma mentre sto cercando di istruirlo il trambusto all'altro capo dell'ufficio cresce e si avvicina alla mia scrivania. Come quando si incita la squadra alzandosi in successione in uno stadio di baseball, ci sono file di gente che si alza in piedi, e nel giro di quindici secondi intorno a me non c'è più nessuno seduto. Il mio primo pensiero è che ci attaccano, che qualche pazzo è riuscito a superare la porta di sicurezza, ma nessuno porta la mano alla pistola e non c'è nessuna squadra della SWAT in arrivo. «Continua alla prossima puntata», prometto a Les, giro intorno alla scrivania per sbirciare sopra le teste dei colleghi, e mi vedo davanti un mare di camicie bianche che si apre per lasciar passare Jayne Mason che viene dritta verso di me. Non ho il tempo di chiedermi che cosa ci venga a fare, qui. Freneticamente, strappo dal muro le fotocopie del suo ritratto. Si staccano grosse scaglie d'intonaco che mi volano in un occhio. Ficco tutto nel cestino, cercando di assumere l'aspetto della seria agente dell'Fbi che Jayne Mason vuole incontrare. Poi mi rendo conto che sulla mia scrivania penzola una piovra di gomma. Do un'occhiata in fondo al passaggio fra le scrivanie. Al di sopra della folla scorgo i lucidi capelli neri di Magda Stockman, e il lampo d'oro dei suoi orecchini. Con delicata abilità, incanala il flusso di energia umana che circonda la sua cliente: le si mette davanti come una roccia, e mentre la guida la tiene al riparo, proteggendola dall'assalto della folla; l'espressione sempre benevola, lo sguardo esperto che fruga la stanza per essere sempre pronta ad anticipare il prossimo incontro. Essere alta più di un metro e ottanta le permette di vedere sopra molte teste. Calcolo di avere dieci secondi prima che mi raggiungano, e afferrato un paio di forbici salgo su una sedia, ma a due scrivanie di distanza il corteo all'improvviso svolta a sinistra, prosegue fino in fondo al dormitorio, e sparisce nell'ufficio di Galloway. Scendo a mani vuote, seguendoli con gli occhi sbarrati.
Di colpo Barbara Sullivan appare alle mie spalle con l'agilità di un derviscio, e mi conficca le dita nei deltoidi. «Ho avuto il suo autografo!» Mi caccia sotto il naso un blocco di carta gialla. Leggibilissima, una firma tracciata con cura attraversa l'intero foglio. Jayne Mason può trasformare un pezzo di carta in un'insegna, ti può cambiare la giornata attraversando una stanza. Quella donna è magica, e persino io che sono una miscredente mi sento esclusa, ferita e inadeguata perché non mi trovo dall'altra parte di quella porta. «Cos'avrà poi, questa Jayne Mason?» borbotto risentita. «Se non lo capisci da sola è inutile spiegarlo» sospira Barbara, e si allontana in fretta. «Vado a chiamare le mie sorelle a Chicago. Non ci crederanno mai.» Fa due passi, poi si ferma e si volta come se a un tratto vedermi la sorprendesse. «Cosa ci fai tu qui?» «Vedo se mi aggiustano il fanale.» Ho già composto di nuovo il numero della All-Makes. Inorridita, Barbara spalanca gli occhi. «Perché non sei nell'ufficio di Galloway?» «È venuta a trovare lui, non me.» Le rivolgo un sorrisetto rigido. «Ma sei pazza?» Mi strappa di mano il telefono. «Va' là dentro.» «Barbara, non posso piombare nel bel mezzo di una riunione...» «Vuoi aspettare un invito scritto?» Sparita dallo sguardo l'ingenua esaltazione, negli occhi le brilla lo stesso fanatismo che compare ogni volta che si nomina Duane Carter. «È il tuo caso, non lasciartelo portare via da quelli.» «È chiaro che la faccenda deve essere passata a un livello superiore.» Barbara mi afferra il braccio sotto la spalla in un modo molto spiacevole. «Va' là dentro, brutta scema.» La sua reazione mi sembra eccessiva, ma dico: «Vado». Mi lascia Ubera. Mi fa male il braccio. «Gesù Cristo.» Raccolgo una cartella di documenti e una lattina mezza vuota di Coca Cola e lentamente ancheggio verso la porta chiusa dell'ufficio di Galloway, alzando il braccio sano per ravviarmi i capelli; guardandomi alle spalle una volta sola incontro lo sguardo fisso e furibondo di Barbara. È la maggiore di sette figli, e sa essere rapida di riflessi e severa. Se avessi una sorella
maggiore come lei, solo Dio sa dove sarei oggi, ma certo non qui. Mentre sguscio nella stanza, Galloway sbraita cordialmente che stava proprio per chiamarmi. Avrebbe dovuto dirmi di portare una sedia, perché l'ufficio è strapieno. Jayne Mason siede da sola sul divano a grandi quadri chiari. Non riesco a staccare gli occhi dal suo viso; la naturale perfezione di quei lineamenti irradia luce proprio come il suo Manet. Porta un abito di chiffon color pesca con la scollatura rotonda, maniche lunghe coi polsini di pizzo che scendono a coprire le mani, balza al ginocchio e sandali in tinta col tacco alto. Magari più tardi deve andare a un ricevimento di nozze. Magda Stockman siede in poltrona alla sua destra, e due avvocati - di uno studio legale di Beverly Hills, mi dicono - stanno appollaiati su due sgabelli da dattilografa portati da un altro ufficio. Galloway accosta una sgraziata poltrona da scrivania di cuoio nero e mi fa cenno di sedere. È uno di quegli aggeggi molto maschili, "da manager", con lo schienale più alto della mia testa e il sedile che ondeggia incontrollabile sui cuscinetti a sfere, e io mi sento come una specie di bizzarro monarca rattrappito, sul punto di venire detronizzato dalla forza di gravità. Nel frattempo, Jayne e Magda hanno continuato una conversazione privata. «No, davvero, è divertentissimo, meraviglioso. Non si ferma mai» dice Magda. «Non riesco a credere che non sarà un grande successo.» «Ho sentito che c'è un finale strappalacrime.» «No, è stupendo.» «Piango in continuazione» dice Jayne. «Perché mai dovrei andare al cinema per piangere?» «Lui nel film è proprio adorabile, è un tesoro. E poi sono così veri, insieme.» «Torneremo a New York tutti con lo stesso aereo» le dice Jayne. «Non è carino?» Tutti i presenti hanno ascoltato educatamente senza capire una parola. Alla fine Jayne Mason prende atto anche della nostra esistenza e ci chiede: «Potrei avere un po' di Evian?». «Abbiamo delle bibite nel distributore.» Galloway fa cenno nella mia direzione. Io mostro la lattina. «Con tutto quello zucchero? Roba da matti.» «C'è l'acqua normale.»
«Alla mia dietista verrebbe un attacco isterico.» Galloway ha l'aria un po' avvilita, e i due avvocati si sono messi a cercare un telefono, ma la Stockman non ha fatto una piega. «L'acqua arriva subito, Jay.» E di nuovo mi colpisce, quella sua voce profonda, di gola, che si accorda così bene con l'autorità del corpo grande e solido, oggi vestito di un abito tra il marrone e l'oliva coi bottoni di ottone e la passamaneria dorata sulle maniche, un'elegante variazione su una divisa da ufficiale (Barbara saprebbe di quale stilista). Ha le gambe massicce - gambe da contadina - e le tiene ben piantate a terra, con le ginocchia strette; sulle calze marroni, scarpe in tinta col marchio C. La borsetta impunturata color oliva reca le stesse CC. Sfoggia più C di uno stormo di condor. Mentre la Mason dà l'impressione di essere nervosa, la Stockman è composta, autorevole. Si muove senza fretta e con decisione. I capelli neri raccolti nella crocchia accentuano gli zigomi e gli occhi un po' allungati, occhi che la sanno lunga. «No, davvero, possiamo mandarle a prendere dell'acqua» continua Galloway, confuso. «Al diavolo l'acqua, tirate fuori lo scotch!» grida allegramente la Mason, e noi scoppiamo a ridere. «Hai salutato la nostra agente dell'Fbi, Ana Grey?» suggerisce la Stockman. La stella del cinema mi guarda negli occhi, allunga la mano e istantaneamente, abilmente, mi mette al mio posto. Che nessuno si sbagli: siamo qui riuniti per soddisfare le sue necessità personali. Incespicando, scendo dalla poltrona di Galloway. Ho la mano sudata. La sua trema. «Abbiamo sentito parlare tanto bene di lei» mormora con un sorriso. Mi coglie di sorpresa. Non riesco a immaginare di cosa si tratti, né chi possa aver parlato di me. «Ci fa molto piacere che questo caso sia affidato a una donna» aggiunge la Stockman. «Ana è qui perché è brava, non perché è una donna» interviene Galloway, ficcandosi un sigaro in bocca. «Non si preoccupi, non ho intenzione di accenderlo.» «Ah, gli uomini e il loro cazzo» dichiara la Mason. «A Clark Gable ho detto, perché fumi il sigaro visto che ce l'hai già grosso come uno scimmione?» «Jay, non scherzare.»
«Le donne non hanno bisogno di fumare il sigaro o di portare la pistola per provare che sono capaci di godere.» I due avvocati ridacchiano piano come se avessero già sentito battute del genere. Galloway mi lancia un'occhiata divertita. «Non che non abbiamo bisogno di proteggerci, noialtre, questa è un'altra storia» continua miss Mason. «Dimmi, Ana, tu giri armata?» «Sì, signora.» «Benissimo» mormora, «così ci puoi difendere dagli avvocati!» Tutti i presenti stanno ridendo come matti quando si apre la porta e Maureen, la stessa Maureen che ho visto nuda sulla spiaggia privata, entra nell'ufficio con una bottiglia grande di Evian. «Siedi qua vicino a me, tesoro.» Jayne Mason scosta le pieghe del vestito per far accomodare Maureen, che viene presentata come "una ragazza piena di talento che bada al mio guardaroba nonché una mia cara amica". «Ci siamo già conosciute» rispondo io, anche se a vedere la sua espressione assente mi chiedo se Maureen abbia una vaga idea di dove e quando. Decisamente, vive "in un mondo tutto suo", come si dice. Oggi sembra la reincarnazione di un'altra epoca, con quelle lunghe ciocche di straordinari capelli rossi fermati da una fibbia di tartaruga, un vestito antiquato di rayon carico di collane di ambra e scarpette da corsa su un paio di calzettoni. «Mi dispiace, al 7-Eleven avevano solo questi.» Maureen tira fuori una confezione da cinquanta bicchieri di plastica da un borsone di canapa a tracolla, ne prende uno e versa l'acqua per Jayne. Magda Stockman ora si rivolge a Galloway: «Nel nostro colloquio, il Direttore mi ha assicurato che avreste considerato il caso con tutta la serietà e l'attenzione possibili». «Ed è così» dice Galloway. «Le dispiace se registriamo questo incontro?» «Speravo proprio che lo faceste, così avremo tutti una documentazione.» Galloway posa sul tavolino un registratore Panasonic e preme il tasto di avvio. Magda con un lieve cenno dice: «Jayne?». Jayne Mason si alza in piedi. Sbatte le palpebre. Congiunge le mani e se le stringe sul diaframma come se stesse per cominciare un concerto. «Quell'uomo, il dottor Eberhardt, mi ha fatto diventare dipendente dagli analgesici.» Si muove, adesso, volgendosi verso di noi, di tanto in tanto aggiustando
la balza della gonna, prendendo possesso dello spazio che la circonda. «Naturalmente mi fidavo di lui, ero una sua paziente. All'inizio le pillole mi aiutavano, ma poi ha continuato a darmene sempre di più finché mi è stato impossibile vivere senza. Sono diventata una drogata, adesso riesco ad ammetterlo senza vergognarmi.» Alza il viso, e si cala nella parte. «Che pillole erano?» chiede Galloway. «Dilaudid.» Dà un'occhiata alla Stockman per avere un segno di incoraggiamento, e poi prosegue: «Ha detto che era del comune Dilaudid confezionato in Messico, che così erano meno care, anche se a me le ha fatte pagare una fortuna, poco ma sicuro». Intervengo io: «Lei dove le prendeva, quelle pillole messicane?». Lei si volta di nuovo verso la Stockman, confusa. L'agente risponde per lei, con disinvoltura: «Il medico gliele dava nel suo studio». «Non scriveva le ricette?» «Sarebbe stato facile rintracciarle. È una persona intelligente» dice uno degli avvocati. «Tanto intelligente non direi» dice l'altro. «Distribuire un farmaco con obbligo di ricetta nel suo studio?» Ronza il telefono interno. Telefonata per miss Mason, che sparisce in un ufficio adiacente. Gli avvocati colgono l'occasione per fare le loro chiamate. Galloway spegne il registratore. Chiacchieriamo. Io vado in bagno. Un quarto d'ora dopo ricominciamo, con Jayne Mason drammaticamente stagliata contro la finestra. «Dove teneva il Dilaudid, il dottor Eberhardt?» Voglio saperlo di preciso, in modo che quando perquisiremo lo studio non possa prenderle al volo e buttarle nel gabinetto. «Nell'ambulatorio, in un armadietto chiuso a chiave. Aveva una scatola da scarpe piena di bottigliette e scatolette di pillole di tutti i tipi con le etichette in spagnolo. Me le dava così.» Ci penso su. Armadietto chiuso a chiave. Pillole in una scatola da scarpe. Il dottor Eberhardt sembra un imbecille. La persona che ho intravisto per un attimo su quella soglia era tutto il contrario: un uomo nel fiore degli anni con un brillante futuro, padrone di sé. Il controllo lo aveva perso lei, quel giorno. Ci sono altre interruzioni - miss Mason vorrebbe uno yogurt per arrivare fino all'ora di pranzo, però dev'essere magro, dev'essere al miele e nocciole, e a un certo punto non ne posso più.
«Signora Mason, con il dovuto rispetto, potremmo tornare all'indagine?» Galloway alza gli occhi al cielo. I due avvocati si irrigidiscono sugli sgabelli come avessero ricevuto una scossa elettrica nel culo, ma miss Mason e la Stockman si scambiano una risatina. «Te l'ho detto che era fantastica» dice l'agente all'attrice in tono rassicurante. E a Galloway: «Per favore, dica alla sua segretaria che miss Mason non prenderà altre chiamate» e fa segno alla sua cliente di cominciare. «Stavo girando un film alla Fox, una storia di spionaggio, ed era la scena dopo il cocktail party, quando buttano una bomba attraverso la finestra dell'ambasciata... E ballavo con Sean - è un tale amore! - che faceva la parte di mio marito, l'ambasciatore che viene ucciso... Provavamo per i piazzamenti di macchina, e ballavamo davanti a uno stupendo caminetto di marmo; io dovevo sentire degli spari in lontananza e sciogliermi dal suo abbraccio. Be', faccio un passo e di colpo mi cede la caviglia, Sean cerca di afferrarmi ma io cado proprio sulla gamba, tutta di traverso. Il pavimento era duro come un accidente. Che pavimento c'era, Maureen?» «Di tek.» «Cascatone sul pavimento di tek.» «Ed è andata dal dottor Eberhardt?» «Mi hanno avvolto la gamba nel ghiaccio, mi hanno messo su una limousine e poi Maureen e io siamo filate a centocinquanta all'ora giù per la Pico, vero, tesoro?» «Mi ha fatto male lo stomaco per tutto il tempo» dice Maureen con voce tenera e dolce. «Per te. Perché tu soffrivi così tanto.» «Grazie, amore.» Jayne le stringe la mano. «Lei era già paziente del dottor Eberhardt?» chiedo io. «Ecco, è qui che entra in scena il destino. In realtà non lo avevo mai incontrato. Volevano mandarmi alla Cedars ma io ho insistito per andare fino a Santa Monica dal dottor Dana, un caro, vecchio amico che conosco da anni. Il mio autista stava avvertendo del nostro arrivo con il telefono della macchina quando gli hanno detto che di recente il dottor Dana si era ritirato dalla professione e si era trasferito a Maui, e lo sostituiva questo giovane dottor Eberhardt di Boston. Ormai eravamo a metà strada, e io ero così tormentata dal dolore e così infuriata col dottor Dana che mi aveva abbandonata, che non sono riuscita a farmi venire in mente nient'altro.» «Com'è stata la visita del dottor Eberhardt?» vuole sapere Galloway. «Lei la definirebbe accurata e professionale?» «Come medico, è assolutamente fantastico. Molto intelligente. Molto
preparato. E affascinante. Mentre mi muoveva l'anca e mi faceva un male tremendo ho detto: "Sono proprio un coniglio, non sopporto il dolore", e lui: "Non mi prenda in giro. Ho visto bene il calcio nelle palle che ha dato a quel bandito!". Be', mi ha fatto ridere e ho capito che ormai mi aveva incantata.» «Qual è stata la diagnosi?» «Borsite trocononsocosa dell'anca. E mi ero strappata una cartilagine del ginocchio.» «Le cure prescritte?» Si rivolge a Maureen. «C'eri anche tu nella stanza. Cos'è che ha detto?» «Riposo, ghiaccio e fisioterapia.» Aspetto un momento. C'è silenzio, tranne che per il lieve ronzio del registratore. «Niente pillole?» «Cosa?» «Quella volta il dottor Eberhardt non le ha prescritto pillole, per la borsite all'anca?» Jayne Mason rinuncia al suo possesso dello spazio scenico per sedersi sull'orlo del tavolino, e si china verso di me fino a che il suo viso dista una trentina di centimetri dal mio. Sa di agrumi e di vaniglia. «Sarò molto onesta con lei» dice. «Non mi avrebbe dato quelle pillole se non gliele avessi chieste.» «Le ha chieste lei?» «Sì.» Anche da vicino ha una pelle perfetta. L'acquamarina degli occhi è cerchiato di verde, e vi splende il lucore innaturale di due grandi pupille nere. «Mi ha dato le pillole perché gli ho detto che dovevo tornare al lavoro quel pomeriggio stesso.» Parla adagio, deliberatamente. Vuole che io ci creda, a questa sua onestà nuda, occhi negli occhi, senza pudore. «Cioè, per poter lavorare nel film, anche se si era ferita?» «Ho avuto tanti problemi negli ultimi tre anni, Ana.» Mi parla in tono di intimità, ora, come se ci fossimo davvero incontrate in quel ristorante alla moda di Beverly Glen, due ricche signore che pranzano insieme mentre le piccole piovre si suicidano gettandosi giù dagli orli dei piatti. «Ho cambiato due agenti, un cosiddetto produttore mi ha fatto causa: non le so dire quanto è stata dura. Devo una grossa somma alla banca per la terza ipoteca sulla casa...» «Jay, restiamo in tema» la mette in guardia la Stockman. «È questo il tema. Ecco perché mi ha dato le pillole. Devo alla banca
cinquecentomila dollari. Se non pago, perderò la mia casa di Malibu. Ero obbligata a finire quel film, e mi creda» si alza in piedi, irrequieta, «era una vera schifezza.» Fa una smorfia, pensando a quel film schifoso, e si versa dell'Evian mentre noi aspettiamo. «Così ho fatto una proposta al dottor Eberhardt. Se mi dava le pillole in modo che potessi finire il lavoro, io avrei fatto gli impacchi di ghiaccio, la fisioterapia, tutto quello che voleva.» «Ha accettato?» «Doveva essere per una volta sola. Ma io sono stata debole, e lui ha approfittato della mia debolezza.» «Come?» «Se avevo mal di testa, mi ordinava delle pillole. Poi mi veniva una reazione e mi prescriveva qualcos'altro, finché non sono diventata un rottame, una tossica. Non ha mai detto: "Jayne, fa' la persona adulta e resisti". Era lui il dottore, e io mi sono messa nelle sue mani. Alla fine ho cominciato col Dilaudid e la dipendenza è diventata fisica, non potevo più controllarla. Il copione finisce così: che avevo bisogno del dottor Eberhardt e delle sue pillole per arrivare in fondo alla giornata.» «Lei ha avuto rapporti fisici col dottor Eberhardt, signora Mason?» «Assolutamente no.» «Le ha mai mandato delle rose?» «Io ho mandato delle rose a lui» ride. «Mando rose gialle a tutti, è il mio modo di dire grazie. E lui mi aveva sistemato l'anca.» «Dovete capire che quell'uomo ha distrutto la sua carriera» attacca la Stockman. «Chi volete che ingaggi una nota tossicodipendente per girare un film? Con tutta questa pubblicità negativa è diventato impossibile assicurarla, e senza assicurazione non può lavorare. Non ha fonti di reddito, e per colpa di amministratori incredibilmente incompetenti, Jayne Mason si trova ad affrontare una grave crisi finanziaria.» La Stockman fissa nei miei quegli occhi che la sanno così lunga: occhi da lupo, se li si guarda bene, con la calma del predatore. «Ma ha preso la decisione di non essere più una vittima. Come donna, lei può capire che coraggio ci vuole.» Se si pensa a quel che sto passando con Duane Carter, la frase mi tocca da vicino. «Ho combattuto le mie battaglie.» «Come tutte noi.» Però, direi che mi piace questa sensazione: per una volta, a essere esclusi
dalla conversazione sono gli uomini presenti. «Ana, io so che grazie a lei le cose possono cambiare: non solo per Jayne, ma anche per altre donne sfruttate che non hanno le risorse per ribellarsi e resistere.» La Stockman è un'attrice brava come la sua cliente, e mi vergogno di dire che mi affascina. L'adulazione - per me, per lei e me insieme - dà alla testa come il profumo intenso delle rose gialle, e avvolta in una nebbia anodina prometto di fare del mio meglio. Mentre Galloway ci accompagna tutti alla porta, faccio i complimenti a miss Mason per il suo vestito di chiffon color pesca. «Non è adorabile? È di Luc de France, il mio sarto personale.» «L'ho sentito nominare.» Sorrido a Maureen, che come una bambina tiene ancora per mano la Mason. Nel suo viso non c'è nulla che faccia pensare che ha colto la battuta. Ma del resto, non c'è quasi nient'altro. Due giorni dopo, la sede di Boston ci informa di aver trovato il filone giusto. Nel loro controllo dei precedenti del dottor Eberhardt hanno scoperto che una sua paziente, Claudia Van Hoven, sostiene di essere diventata dipendente da un farmaco per colpa sua, esattamente come Jayne Mason. Mi sono appollaiata sulla scrivania di Donnato in modo da non essere costretta a guardare la foto di lui con la moglie. «Lo sai quanto tempo ci vuole per farsi approvare una richiesta di viaggio, eppure Galloway mi ha detto di prendere un aereo domani e di tornare con la testimonianza della Van Hoven a carico del dottore. Un'ora con Jayne Mason e sembra un cucciolo che si rotola sulla schiena con le zampe in aria. Vuole una cosa? Gliela diamo. C'è da fare qualcosa? Agli ordini.» Donnato sta guardando le ultime statistiche sulle rapine in banca nella Orange County. Sono in aumento. «Lo vuoi un consiglio per Boston?» Sento sempre volentieri un suo parere. «Dimmi.» «Fanno i migliori panini con polpette del mondo.» Scuoto la testa, irrequieta. «Adesso che lavoro su Hollywood Galloway mi tratta diversamente.» «Questo non c'entra niente con Hollywood» osserva Donnato. «Ma dài! Se un povero cristo qualunque chiamasse l'Fbi e dicesse che il dottore gli prescrive troppi Percodan, secondo te io volerei a Boston per un controllo?»
«È una questione di politica» mi spiega pazientemente. «Magda Stockman è un'importante finanziatrice del Partito repubblicano. Frequenta gli Annenberg. È stata una dei "privati cittadini" che hanno pagato per il restauro della Casa Bianca sotto Reagan, non ti ricordi? Ah, già, avevi dodici anni.» «Eppure, quando una persona come Jayne Mason...» «Jayne Mason è solo un'altra attrice matta, e credimi, Galloway non si metterebbe mai a scodinzolare per una bella faccia.» Alza una mano per fermare le mie proteste. «È Magda Stockman la protagonista.» Scuote tristemente il capo e abbassa gli occhi sulla stampata. «Dovresti leggere "The New Republic" invece di "Engine Grease World."» «A me piace il grasso dei motori. Dovresti provare anche tu.» Lui fa finta di non sentire. Ridendo scivolo giù dalla scrivania. «Mi dispiace per te, Donnato. Chi potrai maltrattare, mentre sono via?» «Solo me stesso.» Fenomenale. Vado a casa presto per fare i bagagli e prendere un volo delle otto del mattino, diretta in una città dove non sono mai stata, per un caso affidato a me, senza supervisione tranne quella dell'agente Capo in persona. Mi frullano in testa tanti pensieri su quel che devo mettere in valigia e su cosa succederà una volta arrivata a Boston. A quest'ora grandi masse di luce pomeridiana giallo-bruna riempiono l'atrio del palazzo, ma la ressa di umani non è diminuita, da quando sono arrivata stamattina. C'è la stessa folla impaziente che aspetta di passare attraverso i metal detector sorvegliati da due guardie incredibilmente scrupolose, e all'esterno la coda per il rilascio dei passaporti è ancora più lunga, e se possibile più lenta. In questo atrio si incrociano le strade delle migliaia di persone che convergono qui da ogni parte del mondo, ed è impossibile risalire a tutte le storie e a tutti i percorsi: ma hanno una cosa in comune, disperazione, frustrazione e furia contro la burocrazia del governo degli Stati Uniti, un'ansia altamente infiammabile che mi mette sempre in allerta, quando attraverso questo pavimento di marmo. Magari è proprio perché sono sul chi vive, o forse ho un sesto senso che entra in azione quando c'è in ballo John Roth, e mi avverte che è nei paraggi un attimo prima che mi chiami: «Ana». Sì, avevo intravisto la figura appoggiata al muro, e avevo capito che era
John nonostante i capelli sudici lunghi fino alle spalle, la barba trascurata e i jeans strappati. La postura, lo sguardo famelico, fanno scattare il mio sistema d'allarme. «Sembri in gran forma.» «Tu sembri Serpico.» «Infiltrazione antidroga. Mi piace stare in mezzo alla feccia.» Gli manca un bottone della camicia, che si apre sull'ombelico. Il ventre è concavo, i jeans bassi sui fianchi. «La volpe che sorveglia le galline?» «Di fronte a te vedi Mr. Normalità.» Io annuisco. Può sembrare tutto tranne che normale. «Mi fai la posta?» «Ti aspettavo e basta. Mi abbandonavo a una piccola fantasia.» Fa un passo verso di me. Io faccio un passo indietro. «Ho qualcosa per te.» «Provaci e ti arriva un cazzotto così in fretta che...» «No» mi interrompe. «È per l'omicidio Alvarado.» Smetto di indietreggiare ma tengo una distanza di due metri buoni fra me e lui. «Sono tornato su quella strada e ho ritrovato il ragazzo, Rat, quello che ha visto quando le sparavano dalla macchina. Salta fuori che era in grado di identificare l'auto.» «Cos'è che gli ha rinfrescato la memoria?» «Sai com'è: si prostituisce, io minaccio di sbatterlo dentro e lui si sveglia. Dice che è stata una banda ma che la Alvarado non era il bersaglio. C'era in corso una consegna di droga, a pochi metri dalla fermata dell'autobus. I Bloods avevano nel mirino uno dei sospetti. L'hanno mancato. Alla Alvarado è capitato di trovarsi nel posto sbagliato al momento meno adatto.» «Sei sicuro?» «Il ragazzo è credibile.» «E le mani? O gliele hanno fatte saltar via tanto per provare un'emozione nuova?» «Il referto dell'autopsia dice che l'amputazione delle mani consegue al tentativo della vittima di ripararsi dalle pallottole.» Alza le braccia e se le incrocia davanti al viso. Adesso mi figuro la scena, anche troppo bene. Accelerando, un'auto svolta l'angolo. Pop-pop-pop e la gente di strada più esperta si abbassa per
mettersi al coperto. Violeta Alvarado, che chissà perché era là fuori da sola nel cuore della notte - ma innocente, era innocente - viene colpita più e più volte. Cerca di ripararsi dai proiettili, ma la sferzano con violenza formidabile, sono così incredibilmente veloci... «Non ci sono legami fra l'assassinio della Alvarado e il suo lavoro in casa del dottore. È solo capitata in mezzo a una sparatoria. Succede tutti i giorni.» Io non dico niente. «Non servirà per il tuo caso, ma almeno sai che tua cugina era pulita.» Le foto dell'autopsia mi passano davanti agli occhi come un atroce calendario porno. «L'ho fatto perché credevo che ci tenessi.» Sto pensando a come si nascondeva sotto la culla la sua bambina. E al bimbo, con quegli occhi scuri e sperduti. «Era tua cugina, vero?» Per qualche istante non gli rispondo. Adesso, posando un piede dopo l'altro sul pavimento di marmo mi avvicino con decisione finché non siamo faccia a faccia. «Sì, John. Era mia cugina.» Mi accorgo di aver guadagnato qualcosa, ammettendolo. Sollievo. Fiducia. Posso star qui, vicina a lui, e per la prima volta reggere apertamente lo sguardo di un uomo che mi ha fatto tremare. Riesco a vedere cose nuove, ad esempio la paura di John Roth. «Non ti strapazzare.» Gli tocco la spalla. «E grazie.» «Ehi» dice, scosso, preso in contropiede. «Non sono poi così conciato.» Ci guardiamo negli occhi per un altro attimo, poi me ne vado, uscendo dall'edificio ed entrando a passo svelto nel garage sotterraneo. Le due Coche che ho dovuto bere per affrontare il lungo pomeriggio mi hanno impastato la bocca, e non ne posso più di questi collant stretti. Appena in macchina, a forza di contorsioni me li tolgo. Molto meglio. Metto in moto ed esco in retromarcia. Vado a crocifiggere il dottor Randall Eberhardt. 11 Boston è un gigantesco ingorgo di traffico esattamente come Los Angeles, tranne che qui le auto sono ancora più addossate l'una all'altra, e si accalcano in stradine minuscole, tutte curve illogiche che un tempo erano sentieri per il bestiame.
O magari è perché sono arrivata all'ora di punta nel bel mezzo di una tempesta di nevischio primaverile. Sono bloccata sulla rampa di uscita del Logan Airport, a guardare i tergicristalli della Taurus a noleggio che spazzano via mezzelune di neve sciolta. Nei pochi attimi in cui il traffico si dirada tento con impazienza di imboccare la strada per Boston, la strada del passato di Randall Eberhardt, che dall'inizio mi è sembrata promettente. Ma nel calar della sera vedo solo le insegne abbaglianti del New England Aquarium e della Prince Spaghetti Sauce. Sto combattendo col riscaldamento perché non mi appanni i finestrini. Sono quaranta minuti che aspetto di entrare nel Summer Tunnel e guardo i tergicristalli che strisciando pigramente portano su grossi grumi di nevischio e poi li lasciano ricadere giù in lunghe penisole squagliate. Se lavorassi al caso insieme a Donnato, staremmo scherzando su questo tempo infame, comodi e al riparo nel tepore dell'auto come due amanti in viaggio verso un weekend clandestino; basta il pensiero a darmi una vampata d'imbarazzo, mentre il flusso del traffico accelera improvvisamente. Il tunnel non è un'esperienza erotica, bensì un'angusta, claustrofobica camera a gas, e all'uscita c'è un incomprensibile intrico di viadotti che mi fa prendere alla cieca una deviazione attraverso un quartiere di vecchi palazzoni a tre piani, dominato da grandi serbatoi di petrolio. Ritorno al viadotto, perdo la testa quando vedo l'indicazione per Cape Cod e devio di nuovo per ritrovarmi a Chinatown. Alla fine mi fermo a un distributore di benzina, chiamo l'ufficio e mi faccio passare l'agente speciale Lester "Wild Bill" Walker, che mi dice di non muovermi. Dopo venti minuti lo vedo scendere da un'auto di servizio verde, un omone imbacuccato con un berretto di lana e un impermeabile che viene alla mia volta sotto la cascata argentea di fiocchi ghiacciati; sembra una specie di orso polare da fiaba, alla luce dei miei fari. Quando abbasso il finestrino mi porge la mano guantata, la più gradita che abbia mai stretto, e quel semplice gesto - la mia mano nuda che sparisce nella sua zampa coperta di cuoio - dimostra quanto sono impreparata, in realtà, a questo viaggio. «Dove scendi?» «Allo Sheraton.» «Seguimi.» Risale in macchina e ci mettiamo in marcia. In qualche minuto arriviamo nel cuore del quartiere degli affari, in un angolo intatto del downtown dove
gli edifici non sono tutti grattacieli o ex magazzini ristrutturati in stile lezioso, ma vecchie fabbriche in mattoni o palazzi per uffici con la facciata di granito. È facile immaginare che qui, un secolo fa, i pescatori portoghesi vendevano eglefini sui carretti, gli impiegati arrivavano prima dell'alba per calcolare i profitti delle grandi banche, e dietro quelle grandi finestre a colonnine le ragazze irlandesi imbottivano materassi tra grandi nuvole di piumino d'oca. Il commercio prosperava, in questa viuzza tortuosa, allora come domattina e per i prossimi cento anni, ma stasera la via è deserta e buia, tranne che per la luce velata e rosea dei lampioni al sodio che scende su di noi insieme alla pioggia gelida. «Questo non è lo Sheraton, Wild Bill.» Abbiamo parcheggiato a un isolato di distanza l'uno dall'altra e ci siamo ritrovati su un angolo. Io tengo una mano sulla borsetta, dove c'è la 357 Magnum. «Pensavo di mangiare qualcosa» dice lui. Non c'è nessuno, ed è buio pesto. Neanche un negozio di liquori aperto. Neanche un bar illuminato. Il lungo volo e la fatica demenziale di guidare in fondo al nulla di Boston mi hanno disorientata, tranne che per una cosa: sono qui per inchiodare Randall Eberhardt. «Non ho tempo di fare del turismo.» Ma Lester si è già avviato. Apre una porta. Adesso vedo che dietro una vetrina sporca si muove della gente. Ci accolgono il tepore, il fumo di sigaretta e un frastuono da borsa valori. È un ampio stanzone disadorno con un grande banco di mogano, polverosi ventilatori di ottone e una parete di specchi che riflettono una tipica folla da downtown. Le valigette sono allineate ai piedi degli attaccapanni stracarichi. Tutti, uomini e donne, portano un completo. Io mi tolgo l'impermeabile e lo appendo a un piolo. Nel mio bleu marine e con la gonna che sfiora pudica il ginocchio mi si può prendere per una qualsiasi di queste donne avvocato o broker. È una sensazione che mi piace. I crocchi di persone che conversano e l'aroma pulito del whisky mi fanno sentire vivace e disinvolta, paradossalmente molto più che nella mia solita vita di Los Angeles, dove il semplice fatto di essere in pubblico ti fa spendere tutta l'energia. Ma c'è un'altra differenza: a Los Angeles vivo con la sensazione di essere costantemente giudicata. Qui non c'è nessuno che mi osserva. Il sollievo è così profondo che dopo cinque minuti in piedi tra questa folla di amichevoli estranei, il collo comincia a rilassarsi da solo, miracolosamente
sciolto e disteso come quello di un neonato. Lester ordina due Bloody Mary e ci parliamo gridando finché una donna sovrappeso con le guance butterate e i capelli gialli cotonati lo prende per il braccio, lo bacia sulle labbra e ci guida a un tavolo, apparecchiato con saliera e pepaiola alla buona, posacenere e bottiglia di salsa Tabasco. Passiamo tutt'e due ai martini vodka e ci servono immediatamente un vassoio di ostriche appena aperte. Io decido di dimenticare il jet lag. Lester è un soldato della vecchia guardia; è nell'Fbi fin dai tempi di Hoover, ed è per questo che hanno assegnato il caso a lui. Ormai ha finito di dare la caccia ai gangster. Un controllo su un medico laureato ad Harvard è più che adatto alla sua velocità di crociera. Con un incarico come questo, uno può bersi tutto il pomeriggio. Quando attacca il secondo martini prima che ci portino il menu mi rendo conto che questo locale non gli piace per il soffitto ricoperto di autentiche lamine di stagno pressato, ma perché si trova abbastanza lontano dal Government Center: così è difficile che ci capitino degli agenti, e lui può autodistruggersi in pace. Rosso in faccia com'è, sembra che per lui sia un grosso sforzo alzare la mano fino al petto massiccio e prendere da una tasca interna della giacca a quadretti verde muschio due fogli di carta ripiegati. «Qui dovrei avere ciò che ti serve...» li liscia con le mani tremanti. «Quella Van Hoven.» Fa una pausa per leccarsi le labbra e prendere un sorso di vodka; sì, sono proprio amici intimi. «Dicono tutti le stesse cose, di Eberhardt: bravo ragazzo, intelligente, ottimo atleta, buon medico, solite cazzate. Ma la Van Hoven lo ama proprio alla follia. Sostiene che le ha rovinato la vita.» «Ci possiamo fidare?» «Studia musica, perdio, suona il violino!» Mi rivolge un sorriso forzato: «Dài, Ana. Non ti facevo venire fino a Boston se pensavo che non fosse credibile». «È solo che c'è parecchio in ballo, tutto qua.» «È un pezzo che faccio questo mestiere, Ana. Non ti preoccupare. Non ti pianto in asso.» Mi viene in mente la sua manona che mi salva dalla notte gelida. «Nel vostro computer non c'è niente su Eberhardt?» «Fedina penale pulita. Niente cause per negligenza professionale. Per di più, nel 1985 è andato in Africa con una missione per non so che carestia.» «Oh, accidenti.»
«Non vuole dire che non sia diventato uno stronzo» suggerisce Walker, incoraggiante. «E sua moglie? Niente precedenti? Potrebbe essere coinvolta? Spaccia droga, gli spende tutti i soldi?» «Di sua moglie so solo che è infermiera. È così che si sono messi insieme, al New England Deaconess Hospital. Sono di qui tutti e due, cresciuti qua. Con la differenza che lui è un WASP del gran mondo di Cambridge e lei un'irlandese con le pezze al culo, senza offesa.» «Perché mai mi dovrei offendere?» «Qualche volta faccio delle gaffe. Ho pensato che potevi essere irlandese.» «No... ma lo pensano in molti.» «Armena?» «Spagnola, in realtà.» Sento che arrossisco. «Metà e metà.» «Una señorita spagnola. O forse» prosegue con tutta la galanteria che riesce a rimediare «dovrei dire señora?» «Señorita.» Annuisce. Senza nessun motivo, brindiamo. Quando arriva il cameriere, Wild Bill gli dice: «La señorita prende pesce e patatine». Al che incrocio le braccia sul tavolo, ci appoggio la testa e scoppio in una risata. Siamo molto ubriachi. L'aria è limpida ma si è formato uno strato di ghiaccio sul marciapiede. A braccetto, ci avviamo a forza di scivoloni verso le auto. Sento molto affetto per Wild Bill, capelli tinti di nero e tutto. Mi ci vuole un po' per uscire dal parcheggio, e una volta fuori mi accorgo che è ghiacciata anche la strada. La macchina verde mi aspetta all'angolo, le luci di posizione rosse inghirlandate dalle volute bianche del gas di scarico. Le tampono di brutto. Wild Bill scende. «È un'auto del governo!» Le braccia gli scattano in su e poi gli ricadono lungo i fianchi. Alla fine scuote la testa, ritorna scivolando in macchina, sbatte la portiera e cominciamo la nostra gita in slitta attraverso Boston. Mi sembra di procedere tutta di sbieco. A ogni incrocio c'è un incidente. La radio urla una vecchia canzone di Rod Stewart, Maggie May, fuori dai finestrini aperti, e il riscaldamento è così alto che rischia di fondere. Non riesco a calmarmi. Non so niente di questo posto, tranne che la sua complessità supera la mia immaginazione. Ci sono milioni di letti in questa città, come bozzoli in una colonia di farfalle, tutti con dentro
un individuo irripetibilmente unico con una storia unica e irripetibile, sul punto di nascere o riprodursi o morire, tutti tranne me: io non ho un letto, penso con l'autocompatimento indotto dalla sbornia, slittando per fermarmi a un semaforo, a un angolo, appena prima di una fila di vecchie case popolari di mattoni scuriti dal tempo. Da dietro una tendina chiusa di carta pergamenata filtra una luce calda. Magari proprio lì, in una stanza che non vedrò mai, in una città di cui non so niente, una madre sta sveglia a cullare il suo bambino, e quel bambino è in pace. Certo non mia madre, e certo non io. In casa c'era, sì, ma era una presenza vaga. Cosa faceva, insomma? chiedo imperiosamente nel mezzo di Commonwealth Avenue. Sorge la domanda, precisa e chiara come il cristallo. Perché non mi ricordo di mia madre che mi teneva in braccio o che mi coccolava, perché ero sempre sola nella mia stanza, sempre lì a sentirla piangere? Perché lei non mi avrebbe voluta, è la risposta ipocrita. Non aveva neanche vent'anni, era incinta e quel poco di buono del suo fidanzato l'aveva piantata. Era debole, e non sopportava l'idea di avere una marmocchia mezzosangue. Solo Poppy era abbastanza forte da amarmi. Quando arriviamo al Prudential Center, Walker mi fa cenno col pugno guantato dal finestrino dell'auto di servizio - graffiata e ammaccata, ora - e se ne va. Io mi imbuco in una specie di immane garage sotterraneo, ne risalgo con la valigia ed entro in un atrio identico a tutti gli altri atri d'America, poi salgo ancora più su fino a una stanza con un panorama stupefacente della città, tutto luci bianche e dure e provocanti luci rosse; mi siedo a un tavolo, inebriata, e allungo la mano verso il telefono d'istinto, senza pensare, egoisticamente, per l'indicibile nostalgia che mi fa subito cercare l'unica persona che mi abbia mai amata, e dopo l'8 delle interurbane faccio il numero della casa fredda come ghiaccio nel condominio di Desert Hot Springs, California, dove dorme il nonno, col desiderio struggente di scuoterlo dalla sua profonda immobilità e di riportarlo qui da me, ma il telefono suona a vuoto molte volte e rinuncio. Mi costringo a bere tre bicchieri d'acqua e mi tolgo tutto tranne gli slip prima di affondare nello spesso materasso soffice, mi tiro sotto il mento lenzuolo, coperta e copriletto pesante e sogno l'elicottero. Sono davanti alla stazione di polizia di Santa Monica e stringo la grande mano calda del nonno. La luce del tramonto tinge tutto di rosso, sembra di guardare attraverso l'incarto colorato di un lecca lecca Charms. L'elicottero del Presidente arriva in una tempesta di polvere di gesso arancione, col grosso ventre che incombe su di noi; ho il terrore che ci schiacci. L'elicot-
tero tocca terra e JFK scende, come galleggiando sui gradini, senza salutare, molto sobrio, ma c'è qualcosa che non va. Indossa un abito scuro. Ha la faccia di un pallore cadaverico e la testa è straziata da fori di proiettile insanguinati. È un morto che cammina. Sotto le coltri pesanti mi risveglio congelata, mummificata dalla paura. Il sogno non parla di JFK. Parla di mio padre, insanguinato e morto. Wild Bill Walker e io siamo seduti su una panchina in un campo giochi all'angolo nordovest dei giardini pubblici. Difficile dire in che direzione sia il nordovest, alle nove del mattino e quando la sera prima si è bevuto troppo. Ho fatto il giro del parco parecchie volte finché ho visto un tizio corpulento seduto lì da solo con l'aria da barbone con quel suo grande impermeabile e quel berretto, e ho capito che doveva essere per forza lui. Mentre aspettavamo sotto i cupi nuvoloni gonfi, ho cominciato a invidiare quel berretto e quelle scarpe pesanti con la spessa suola di gomma. Claudia Van Hoven ha insistito per incontrarci qui invece che a casa sua o in un altro posto. Ha un appartamento minuscolo, ha detto a Wild Bill, e suo marito, che fa degli studi post laurea, lavora di notte e di giorno dorme. E poi c'è anche il bambino, gli ha detto. I campetti sono strisce pelate di fango pressoché ghiacciato. Offro il viso al vento umido. Ormai aspettiamo da quasi un'ora e mezza, durante la quale ho ascoltato ogni particolare della cobaltoterapia a cui Wild Bill si è sottoposto cinque anni fa per un cancro alla prostata. Alla fine mi alzo in piedi, innervosita. «Ormai è troppo tardi.» «Verrà.» «Andiamo a casa sua.» Abbiamo già varcato il cancello di ferro del parco quando mi volto e vedo una donna snella con un lungo cappotto scuro e sciarpa rossa ancora più lunga che spinge una carrozzina attraverso le pozzanghere e dentro il campo giochi. «È lei» dice Walker, sollevato. «Te l'avevo detto che ci si poteva fidare.» Ci avviciniamo e scambiamo strette di mano. Claudia Van Hoven ha un sorriso vivace. È più giovane di me, poco più di vent'anni, tanto giovane da avere la pelle perfettamente liscia intorno agli occhi. «È da molto che aspettate?» Do un'occhiata a Wild Bill, che non dirà niente, lo so. «Siamo arrivati alle nove» le dico. Claudia ha un'espressione preoccupata. «Che ore sono adesso?» Guarda
l'orologio e fa una smorfia di sgomento, come se si fosse appena accorta di aver perso qualcosa. «Mi scuso. Non so come sia successo.» «Mia sorella ha quattro figli, tutti maschi» dice Wild Bill con una strizzata d'occhio bonaria. «Le capita di perdere dei giorni interi senza accorgersene, qualche volta.» La prende per il gomito e la fa accomodare sulla panchina, continuando a parlare dei nipoti e facendola chiacchierare del suo bambino. Comincio ad ammirare il suo stile. «Cosa succederà al dottor Eberhardt?» chiede Claudia. «Potrebbe essere radiato dall'albo dei medici» le dice Walker in tono grave. «Potrebbe andare in prigione.» Lei chiude gli occhi per un momento e poi guarda in lontananza, attraverso gli occhiali cerchiati d'oro; una piccola, antiquata montatura ovale come quelle che usavano i firmatari della Costituzione. È a capo scoperto. Il vento le scompiglia i capelli lisci e castani. Devono essere belli quando piega la testa per suonare il violino. «Lei desidera vederlo andare in prigione?» chiedo. «La donna arrabbiata che è in me lo vorrebbe.» Ci rivolge un sorriso rassicurante. «Niente paura: non la lascerò interferire.» Ha un modo un po' affettato di parlare ma sembra sincera. «Ci dica come è diventata paziente del dottor Eberhardt.» Il registratore non le dà fastidio. Spiega che nel marzo di tre anni prima attraversava la strada per andare a un concerto al Gardner Museum quando un ragazzo su una Datsun Z è sbucato da dietro l'angolo e le ha fatto fare un volo di sette metri per aria. Ha passato sei settimane in ospedale, completamente ingessata. Eberhardt era aiuto di ortopedia. «Parlava molto con me. Io ero intrappolata nell'ingessatura e lui mi parlava, e di questo gli ero grata.» Le spunta una lacrima e lei se l'asciuga. Rabbrividisco per l'emozione. Meglio che la risparmi per il banco dei testimoni, carina. «Avevo paura di non poter più suonare. Lui mi si è seduto accanto... e mi ha promesso che avrei suonato ancora.» Walker tira fuori un pacchettino di kleenex e gliene dà uno. «Non saprei per quanto tempo sono rimasta in cura, ma per mesi, tolta l'ingessatura, ha continuato a darmi le pillole.» «Che tipo di pillole, Claudia?» «Dilaudid. Valium. Halcion, quando non riuscivo a dormire. Ero così fatta che non riuscivo più neanche ad ascoltare musica.» «È stata in grado di ritornare al violino?»
Claudia scuote la testa. «È morta.» «Chi è morta?» «La musicista che è in me.» Spinge avanti e indietro la carrozzina, a brevi scosse. «Glielo dicevo di continuo a Eberhardt, che stava morendo.» «E lui cosa rispondeva?» «Mi chiedeva di avere pazienza, che per la guarigione ci voleva molto tempo, e mi dava altre pillole.» Sulla sua testa e sul bavero di lana scura del cappotto cominciano a luccicare le prime incerte gocce di pioggia. La capote della carrozzina è completamente abbassata; immagino che il bambino stia dormendo, dato che non l'ho né visto né udito. Non sento più le dita delle mani e dei piedi. Walker scrive su un piccolo notes. «Quanto tempo è durata, questa faccenda con Eberhardt?» chiede. «Per un anno dopo che mi hanno dimessa dall'ospedale. Poi è arrivato Alan e mi ha detto che facevo meglio a stargli lontana, che quell'uomo era pericoloso, che non mi diceva la verità.» «Alan è suo marito?» «È mio soccorritore.» Un sorriso trasognato si fa strada fra le lacrime. «Il mio più caro amico.» «Il dottor Eberhardt le dava delle ricette?» «Sì.» «E lei dove acquistava le medicine?» «Alla Bay Pharmacy sulla Mass Avenue.» «Fantastico.» Walker dice: «Controllo io» e prende nota. «Era dipendente?» chiedo. «Cioè, non riusciva a smettere con le pillole, anche volendolo?» «Sì.» La fisso negli occhi. «E allora come ha fatto a smettere?» «Alan mi ha aiutato. Era lì per quello.» «Claudia, secondo lei perché il dottor Eberhardt le prescriveva quei farmaci se sapeva che erano pericolosi?» «Ero depressa. Le fratture non guarivano. Magari ha pensato che gli avrei dato fastidio.» Si alza in piedi. «Meglio che porti a casa il bambino.» «Comincia a far freddo» concorda Walker, un eufemismo bostoniano per il principio di assideramento. «Torneremo fra qualche settimana per raccogliere la sua deposizione» le dico, camminando verso il cancello su due pezzi di legno insensibili e ba-
gnati. «E poi potremmo chiederle di venire in California a spese del governo per testimoniare contro Eberhardt. Lei accetterebbe?» «La donna arrabbiata che è in me non vede l'ora di salire su quell'aereo» dice Claudia con un sorriso. Spengo il registratore e ricambio il sorriso. «La porti con sé.» Walker e io stiamo correndo a cercare una cabina telefonica ad Harvard Square. Siccome hanno trasformato la piazza in zona pedonale, abbiamo parcheggiato le auto in doppia fila a tre isolati di distanza. Frotte di studenti e di senzatetto sembrano impegnati a intralciarci il cammino. Il mio aereo decollerà fra poche ore e devo ancora incontrare l'ex primario di Eberhardt all'ospedale. «Troppo rischioso» sbuffa Walker. «Ecco perché non ho voluto parlargli. Drizzerà le orecchie e dirà al tuo uomo che gli stiamo addosso.» «Correrò il rischio.» «È una sciocchezza, adesso che con la Van Hoven siamo a posto.» «Non siamo a posto finché non abbiamo conferma della sua versione.» «Perché non andiamo all'aeroporto a mangiare qualcosa?» Walker è prontissimo a lasciar perdere. Dopotutto sono le dodici passate e non ci siamo ancora fatti il primo Bloody Mary della giornata. Una donna di mezza età ha posato ai piedi di un telefono pubblico una borsa della spesa di tela con su scritto "Salvate gli alberi". Io afferro il ricevitore prima che lei riesca a togliersi i guanti e nello stesso tempo mi volto ad apostrofare seccamente Walker: «Devo tornare con qualche elemento concreto, se no mi spellano viva, non capisci?». Il dottor Alfred Narayan, capo dell'équipe ortopedica, sarà lieto di parlare con noi ma deve entrare in sala operatoria fra quarantacinque minuti. Non c'è problema. Schizziamo in auto e Wild Bill mi dà una dimostrazione di come si è guadagnato il soprannome, guidandomi con il lampeggiante rosso acceso in una corsa folle lungo il Memorial Drive, oltre il Boston University Bridge e fino a Longwood Avenue. Ho notato delle impronte di zoccoli incastonate nei marciapiedi di Boston, nei vari punti dove passò la famosa cavalcata di Paul Revere; be', per commemorare la nostra, dovrebbero mettere delle impronte di pneumatici. Il dottor Narayan ci aspetta al bancone delle infermiere dell'unità coronarica; è alto, slanciato, capelli ricci tagliati molto corti, occhi caldi e scuri, e pelle di un pallido olivastro. Porta una cravatta di seta rossa sotto il camice bianco inamidato. L'accento non è indiano, è quello di chi ha studiato
a Oxford, e tutta la sua persona profuma come i lillà in un'umida primavera inglese. «Deve trattarsi di una cosa seria, se mandano degli agenti federali» ci dice voltandosi indietro, mentre ci guida in fondo a un atrio sfiorando barelle e aste per fleboclisi. Non c'è tempo per i convenevoli. «Quando il dottor Eberhardt faceva parte della sua équipe, prescriveva molti analgesici?» «Solo il necessario.» «Non ha mai ecceduto nelle prescrizioni?» «Naturalmente no.» Walker: «Si è mai accorto che mancassero dei farmaci nel periodo in cui ha lavorato qui?». «No. Mai avuto problemi.» Il dottore passa con lo sguardo da me a Walker, sbalordito dal tono dell'interrogatorio. Walker mi rivolge una lugubre scrollata di spalle e va verso la finestra, oltre la quale un tram procede sotto gli alberi spogli. «Ricorda una paziente di nome Claudia Van Hoven?» Il dottor Narayan scuote la testa. «Tre anni fa» gli suggerisco ansiosamente «fu investita da un'auto. Eberhardt la prese in cura.» «Potrei richiedere la cartella clinica.» «Sarebbe fantastico.» «Lei mi sembra turbata» mi dice con gentilezza. «Perché non mi chiede semplicemente quel che davvero desidera sapere?» Quel che davvero desidero sapere è se il dottor Narayan lascerebbe sua moglie e i suoi quattordici bambini per vivere con me a South Kensington, ma invece gli chiedo: «Nel comportamento di Randall Eberhardt c'è mai stato qualcosa che l'abbia indotta a pensare che potesse sfruttare i suoi pazienti?». «Sfruttare i pazienti?» «Prescrivendo dosi troppo alte di farmaci. Facendoli diventare dei drogati. In particolare le donne, perché diventassero dipendenti da lui come medico.» «Completamente assurdo.» «Perché? Le frodi sanitarie sono un'industria con un fatturato multimiliardario.» «Randall Eberhardt è un medico abile e dedito alla professione, famoso e rispettato. Il suo lavoro è impeccabile, lo posso garantire. Se non mi crede, faccia controllare il suo curriculum da uno dei vostri esperti.»
«Aveva problemi finanziari?» «Dio mio, viene da una vecchia famiglia di Cambridge, ricca da generazioni. Non vedo proprio come potrebbe.» Walker, vedendo che non approdo a nulla e impaziente di arrivare al bar dell'aeroporto, dice: «Grazie, dottore. Dobbiamo prendere un aereo». Mi butto alla cieca e chiedo: «E il suo matrimonio?». Stiamo ripercorrendo il corridoio. Un poveretto con gli occhi fuori dalle orbite ci incrocia sulla lettiga spinta da un'infermiera, in un groviglio di fili e di tubi. «Sua moglie, Claire, era infermiera nel reparto di cardiologia. All'epoca la loro relazione era sulla bocca di tutti, questo sì, ma non saprei che altro dirle. Guardi, adesso devo andare.» Chiama una delle infermiere in divisa verde che lavora a un computer dietro il bancone. «Kathy Donovan! Venga a parlare con questi signori.» Kathy Donovan si infila la matita dietro l'orecchio e si alza dallo sgabello. È quel che si definisce gentilmente "formosa", grosso seno, grosso sedere e l'andatura da marine. «Kathy conosceva molto bene Randall e Claire Eberhardt. Chiedete pure se c'è altro che io possa fare.» Narayan ci stringe energicamente la mano e se ne va. «Come ha conosciuto gli Eberhardt?» «Claire e io siamo cresciute nello stesso isolato, a due case di distanza» dice Kathy Donovan con la sua voce roca. L'accento di Boston è pesante e sfacciato: dice "Claih" per "Claire". «Ero damigella d'onore alle sue nozze. Voi chi siete?» «Fbi.» Ride, a disagio. «Cos'hanno fatto? Non hanno pagato le tasse?» «Controllo di routine» risponde Walker scoprendo i denti gialli in un sorriso fasullo. Adesso è davvero in astinenza. «Vorremmo parlare con lei.» «Sono di turno fino alle quattro. Potremmo dopo.» Ciò significa che dovrei perdere l'aereo e prenderne un altro più tardi o passare un'altra notte a Boston, cose che non potrei fare senza autorizzazione. Ma non c'è nessuno che mi tiene d'occhio, e seguo il mio istinto. «Va bene. Ci vediamo dopo il lavoro.» «Dove?» «In un posto dove cucinino le polpette.»
Appena usciamo dall'ospedale Walker se la batte, dicendomi che torna in ufficio per controllare i duplicati delle ricette portate da Claudia Van Hoven alla Bay Pharmacy, ma sono sicura che si è infilato nel primo bar. Ho un po' di tempo, così vado in esplorazione. Si vede subito che intorno all'ospedale abitano molti professionisti. Prendo Huntington Avenue, costeggiando vecchi palazzi trasformati in condomini signorili: uno che sembra una residenza Tudor, e occupa un isolato, un altro con un tetto strampalato in stile Rinascimento pretenzioso; i passanti hanno un'aria così perbene nei loro velluti a coste, zainetti, gonne sotto il ginocchio, le strade sono così pulite e pretenziose da sembrare quasi ridicoli agli occhi disincantati di una californiana, uno stereotipo della vita confortevole delle classi alte; cosa fa questa gente tutto il giorno, va alla Boston Symphony? Comunque, quando svolto in Massachusetts Avenue seguendo le indicazioni di Kathy, le cose cambiano alla svelta. Mi raddrizzo sul sedile e sto più attenta. Di colpo il livello del reddito è caduto come un aeroplano che incappi in un vuoto d'aria, precipitando nella povertà nel giro di dieci secondi. Le vetrine dei negozi più grandi sono tutte coperte di assi inchiodate, o barricate da pesanti grate di ferro; gli unici esercizi aperti sono quelli a conduzione familiare. Ci sono gruppetti di uomini seduti, la schiena appoggiata al muro delle case, o che ciondolano sulla soglia di casermoni in mattone rosso istoriati di graffiti. Tengo lo sguardo fisso davanti a me perché non voglio essere testimone di una consegna di droga. All'improvviso mi trovo davanti due figure. Vado a cinquanta all'ora, ma sono costretta a frenare di colpo. Due ragazzine di colore hanno scelto proprio questo momento per attraversare la strada a passo di valzer col semaforo rosso, e si muovono con più lentezza possibile, abbastanza vicine alla mia macchina da sfiorare languidamente il cofano con le unghie lunghissime e ricurve dipinte di un violetto fluorescente, e piantandomi in faccia attraverso il parabrezza due occhi brucianti di sfida. Atteggio il viso a un'espressione neutra e tengo tutt'e due le mani sul volante, anche se so esattamente dove si trova la mia pistola, sul fianco destro, e quanto tempo ci vorrebbe ad estrarla. Aspetto che passino, ascoltando gli urli delle molte sirene che si incrociano nella zona. Alla fine le ragazze si rendono conto che non abbocco, e attraversano di corsa l'ultimo pezzo di strada, schivando le auto. Proseguo, ma adesso sono all'erta e così rimango per tutta Columbia Road, mentre costeggio case bruciate, terreni in vendita e di tanto in tanto una graziosa
residenza privata, reliquia di un tempo perduto; e su ogni cosa, il velo opaco di una caligine oleosa. Il cielo è bianco sporco, illuminato da dietro come attraverso un telone. Qui non ci sono lunghi tramonti primaverili. Mentre il pomeriggio crudo scivola verso la notte, sembra che tutto il colore venga aspirato via dal mondo, finché il panorama urbano somiglia a una fotografia stampata in sfumature metalliche di grigio. La comunità operaia di Savin Hill, arroccata su una salita che dà sulla Dorchester Bay, è ridotta alle facciate argentee delle casette di legno con gli occhi spenti e morti delle finestre buie, e intrichi di rami di un marrone disseccato; restano solo le insegne dei bar a illuminare la monotonia del crepuscolo con le promesse del rosso ciliegia. Parcheggio davanti alla chiesa di St. Paul, di fronte al Three Greeks Submarine Shop. Un vento freddo sferza l'acqua. A dieci isolati di distanza le chiese sono capannoni con le insegne scritte a mano in spagnolo; qui sono costruite con i mattoni dello stile neogotico, ma il profilo dei tetti s'incava come se gli avessero spezzato la schiena una volta per tutte. Dalle vecchie signore col cappotto informe e il fazzoletto da testa che spingono i carrellini della spesa vuoti, dalle macchine americane vecchie di dieci anni che arrugginiscono per la salsedine, si capisce che questo è un quartiere abituato a lavorare sodo ma molto stanco, svuotato dall'interminabile recessione del Massachusetts, accerchiato dall'ostilità di quartieri confinanti, con la baia alle spalle, senza via di scampo. Tiene duro solo perché le radici sono molto profonde. I casi di violenza domestica devono essere frequentissimi. L'infermiera Kathy mi aspetta all'interno del Three Greeks, fumando una sigaretta e leggendo un'edizione economica delle poesie di Robert Frost. Abbandonata la divisa verde dell'ospedale, ora indossa calzoni e camicia di jeans, e sembra una camionista. «Dovevo badare a mio padre e mia madre» esordisce. «Essere sicura che avessero qualcosa per cena.» «Abita coi suoi?» «Sono proprietari della loro casa e tirano avanti. A dire la verità, sono troppo vecchi per andarsene.» Spegne la sigaretta in un posacenere di cartone dorato e mi guarda. Mi guarda e basta. Il locale è caldissimo e odora di lievito di birra. Scrollo l'impermeabile. «Allora, Kathy» dico gentilmente, pensando che sia meglio stabilire un rapporto amichevole, «le piace fare l'infermiera nel reparto di cardiologia?»
«È un lavoro che appassiona. Sei sempre sul chi vive. Devi prendere delle decisioni in fretta, per esempio in un caso di tachicardia ventricolare devi decidere se fare la defibrillazione.» Sta facendo scena. Il libro di Robert Frost rientra nel quadro. Cerca di dire che in realtà lei è una persona intelligente e sensibile intrappolata in un corpo da ranocchia. E adesso mi sta fissando di nuovo con lo sguardo da ranocchio. Falso. Ipnotico. Ostile. «E Claire Eberhardt lavorava bene in quel reparto?» «Molto bene.» Annuisce lentamente. «Sopportava bene la tensione. Le piacevano le situazioni estreme. Gentile coi pazienti, sapeva bene cosa vuol dire prendersi cura di qualcuno. Ma era permalosa. Litigava coi medici.» «Per cosa?» «Le terapie. Tutto. Quando pensava che il paziente non ricevesse quello di cui aveva bisogno. I pazienti arriviamo a conoscerli molto meglio noi dei medici.» «Col dottor Eberhardt litigava?» «Perché? L'avrebbe portata con sé in California.» «È per questo che si è sposata?» «Non lo so» ride Kathy. «A me sembra un ottimo motivo. Vuole mangiare qualcosa?» Donnato aveva ragione. Le polpette all'italiana di Boston cucinate da un greco in un quartiere irlandese sono un'esperienza unica. È speciale, la salsa rossa che inzuppa la mollica del panino e la trasforma in una massa spugnosa; è emozionante inseguire la polpetta quando ti casca nel piatto di carta e ti costringe ad andare al banco per farti dare una forchetta con l'unto arancione che ti cola giù dal mento e venti tovagliolini di carta incollati alle dita. Mi riprometto di portarmi un panino con le polpette in aeroplano e di costringerlo a mangiarlo durante una riunione della sezione. «La casa dei miei è qui dietro l'angolo.» Kathy si appoggia allo schienale con un caffè nella tazza di carta e un'altra Parliament fra le dita. «I genitori di Claire abitano ancora due porte più in là.» «Eravate amiche intime, voi due?» «Intime non direi. Lei era nel giro delle ragazze pon-pon, con quelle lentiggini e quel bel corpicino, io in quello degli sfigati, naturalmente. Ma ci siamo frequentate molto. Siamo cresciute tutt'e due all'irlandese. Anche troppo. Ho persino fatto un corso sulla sociologia dell'alcolismo: potrei discuterne diffusamente, se le interessa» dice con amara ironia.
«Certo.» Ma lei lascia perdere. «Claire e io siamo state le prime ad andare al college, nelle nostre famiglie. Poi la scuola per infermiere. Non è mai stata presa in considerazione l'idea che potessimo studiare medicina.» «Ma lei ce l'ha fatta.» Kathy aspira una lunga boccata dalla sigaretta. «Ce l'ha fatta.» «E tu la detesti.» «No, affatto» dice, seccata. «Le auguro tutta la fortuna del mondo, laggiù in California.» Le lascio sbollire un po' la rabbia, e poi: «Cosa ne penseresti se ti dicessi che Randall Eberhardt ha prescritto troppi analgesici a un paziente?». Kathy risponde subito, senza pensarci: «Non ci crederei». «No?» «No. Randall è un bravo ragazzo.» «Non pensi che possa essere cambiato, in California? Nella corsa al successo?» «Randall è una di quelle persone contente così come sono. Perché dovrebbe cambiare? A meno che non ci siano problemi di soldi, o qualcosa di imprevedibile. O qualcuno che lo mette in mezzo.» «Allora forse è stata Claire a cambiare.» «Cosa vuoi dire?» «Magari voleva qualcosa di più dalla vita.» «Dalla vita Claire Eberhardt vuole una cosa sola, una bella scopata» sbotta Kathy Donovan. «Al liceo è stata la prima a perdere la verginità.» Annuisco, restituendole la smorfia complice. «A qualcuna deve toccare.» «Non è che fosse proprio una sgualdrina. Aveva un ragazzo, Warren Speca. Adesso è anche lui sulla West Coast.» «A Los Angeles?» «Molto vicino. Le ragazze del quartiere avevano organizzato una festa d'addio per Claire. Le abbiamo dato il numero di telefono di Warren Speca a, com'è che si chiama? Venice?» «Esatto.» «L'ho scritto su un modulo per ricette. "In caso di voglie acute, telefonare a Warren Speca." Le è venuto un colpo. È diventata rossa come un pomodoro.» «Era ancora cotta di Warren?» «Ah, questo non lo so. Non si frequentavano dalla fine del liceo. Per un
bel pezzo nessuno ha saputo dove fosse finito Warren. Aveva certi giri che» - ma stavolta si trattiene in tempo - «non erano molto chiari. Comunque, una volta che mia madre parlava con la sua salta fuori che fa l'elettricista proprio in questo posto che si chiama Venice, in California. Dico, un bello scherzo, no? L'unica persona che conosce in California è il suo ragazzo del liceo. Proprio il massimo, ho pensato.» Le do ragione e mi costringo a sorridere, assicurandomi di capire come si scrive esattamente il nome di Warren Speca. Abbiamo accartocciato piatti e tovaglioli di carta e buttato le nostre lattine di Diet Slice nella spazzatura. Mi sono fatta incartare in tre fogli di alluminio e mettere in un sacchetto di carta oleata il panino con le polpette per Donnato. Ringrazio Kathy per il suo aiuto e mi dirigo verso la porta. Se parto subito e non mi perdo posso prendere l'ultimo aereo. «Come si sta in California?» chiede appena ci investe l'aria della notte. «Benissimo. Ti puoi mettere in maglietta a dicembre. Pensi di trasferirti?» Le porgo il mio biglietto. Lei lo studia, colpita. «Chi lo sa.» Intasca il biglietto e mi guarda per la prima volta senza stare in guardia. «Mi sono ripromessa di andare ad abitare per conto mio l'anno prossimo, a Quincy.» Ho notato che la violenza ti arriva addosso molto in fretta, molto più in fretta che al cinema, anche più in fretta di quanto si possa immaginare. Ho lasciato Kathy un momento fa e sono a un semaforo su Cushing Avenue. Abbasso gli occhi sulla cartina, solo un attimo, per cercare la via più breve per l'aeroporto e mi tamponano abbastanza forte da sbattermi quasi contro il volante prima che si blocchi la cintura di sicurezza. Un attimo dopo il finestrino del passeggero esplode e un mattone mi colpisce la spalla così forte che il braccio diventa insensibile. Due mani guantate si infilano nel finestrino e afferrano la mia borsa dal sedile accanto. «Vaffanculo!» grida una voce maschile, e lui e la borsa spariscono. Esco dalla macchina con la pistola in pugno ma l'Oldsmobile di modello recente che mi ha tamponata sta già scomparendo nella notte. Non riesco a leggere la targa. Resto lì piantata in mezzo all'incrocio, stordita come una vittima qualunque, ad aprire e chiudere la mano destra indolenzita. Mi tolgo l'impermeabile e scrollo i frammenti di vetro, me li tolgo dai capelli. La donna che era due macchine dietro a me mi supera, non vuole sapere nien-
te di questa storia. Il mio distintivo federale e il biglietto aereo sono nella valigetta di tela chiusa nel baule, e grazie al cielo non si sono presi le polpette di Donnato. Risalgo in macchina e butto il mattone sul sedile posteriore. Tremo come una foglia. Il dolore mi irrigidisce i muscoli delle spalle e la schiena non sta tanto bene. Caccio dentro la marcia e imprecando spingo la macchina a settanta all'ora, con un vento gelido che penetra dal finestrino infranto, senza fermarmi ai semafori o per quegli stronzi di pedoni, concentrata su un solo pensiero: Fatemi uscire da questo cazzo di posto deprimente e mettetemi su un aereo per Los Angeles, sapendo che Claire Eberhardt, lasciando Savin Hill, pensava esattamente la stessa cosa. Quaranta minuti dopo, mentre zoppico verso il portellone aperto dell'aereo, ripenso a Claire Eberhardt che forse scendeva proprio da questa scaletta, il bimbo piccolo addormentato sulla spalla, la bambina per mano. Crede di scappare da quelle strade senza uscita, e invece arriva in California con il numero di telefono di un ex fidanzato del liceo scritto come se fosse una prescrizione medica, regalo delle fanciulle del quartiere. Era lui "il ragazzo sbagliato" di cui mi parlava sulla soglia di casa sua? Se è così, quante volte ha rifatto lo stesso errore? Se quello che volevano era distruggerla perché ce l'aveva fatta a iniziare una nuova vita, non potevano trovare un modo migliore. Quell'innocuo foglietto di carta era come una bomba a orologeria piazzata sull'aereo. I miei colleghi della task force Antiterrorismo si sono trovati di fronte un discreto numero di assassini incalliti e amorali. Ma quelli sono dilettanti paragonati ai terroristi che agiscono con abile, micidiale accuratezza all'interno della nostra cerchia d'amici; e come scoprirò presto, dentro le nostre famiglie. Parte terza TRAVELTOWN 12 Su Los Angeles la visibilità è di un milione di chilometri, l'aria tanto calma che mi sembra di scivolare fino a casa seduta in poltrona, una di quelle grosse poltrone di damasco verde con le frange degli anni Trenta, sulla quale veleggio sopra la città cristallina di Oz. Il taxista, un immigrato russo, mi fa: «Le previsioni dicono che arriva un brutto temporale», ma chissà, avrà frainteso l'inglese, perché è impossibile che piova così avanti nella stagione, specialmente in una sera così limpida.
Percorriamo Lincoln Boulevard con tutti i finestrini aperti. È mezzanotte, e sarebbe logico che mi appoggiassi allo schienale per sognare, ma ho la mente già pronta ad affrontare il nuovo giorno, tutta un ribollire di cose urgenti da fare, dalle telefonate alle società delle carte di credito alla verifica della situazione con Wild Bill. Il taxi mi lascia all'ingresso principale di Ocean View Estates, e mi faccio prestare venti dollari per la corsa dal guardiano notturno, Dominico, che ha cominciato a lavorare qui proprio quando sono arrivata io. Reggendo in mano la borsa da viaggio e sulla spalla buona la valigetta azzurra, cammino lungo il familiare labirinto di vialetti fino a Tahiti Gardens. Il rituale è sempre lo stesso: sono contenta di essere a casa, ma appena entro ho bisogno di aria fresca, e apro le porte finestre per salutare la brezza umida e la vista rasserenante di schiere di barche a vela pacificamente ancorate sotto la bianca luce brillante dei fari. Perfino dopo un'assenza tanto breve, la mia camera da letto mi sembra un luogo estraneo, una stanza d'albergo coi pochi mobili obbligatori scrupolosamente spolverati, in attesa del prossimo occupante; niente di personale o che parli di chi l'abita tranne una lieve traccia di profumo, White Linen, e un'antica trapunta fatta a mano che copre il letto a due piazze. Se fossi intrappolata da un incendio e potessi portare in salvo una cosa sola, prenderei la trapunta. Apparteneva alla mia bisnonna, la madre di Poppy, Grace, che nacque nel Kansas nel 1890 e arrivò fino in California al volante di una Ford modello T. È composta di minuscoli esagoni di tessuto stampato a fiorami sbiaditi, e si distingue bene il filo grossolano di cotone bianco usato per le cuciture. Le stoffe forse vengono dagli abiti da casa di qualche donna e dalle tende appese nella cucina di una fattoria illuminata da lampade a kerosene. Mi tolgo i vestiti che hanno lo stesso odore della cabina di un aeroplano, mi sdraio nuda sulla trapunta e penso al crocchio di donne che l'hanno creata, e immagino le loro dita che agucchiano tutt'intorno alla coperta, dita callose, dita magre e dure, che cuciono scampoli di stoffa nella flebile luce gialla; finché lavoravano, potevano stringere tra le mani il dolce legame della solidarietà femminile. E il mio legame dov'è? Ho voglia di succo d'arancia fresco. Sono tornata a Los Angeles, alla sensazione di essere sempre osservata, magari da una telecamera montata su una gru nascosta fra le ombre del soffitto e che mi fissa mentre sto sdraiata sul letto. Dovrei chiamare Poppy. Fuori il vento fa tremare le campanelle di ottone appese in terrazzo, e sembrano minuscole boe che
segnalano un pericolo a minuscoli battelli in lontananza. La telecamera si avvicina in una lenta spirale che termina sulla pupilla del mio occhio. Perché una parte di me ha sempre paura? Sto andando alla deriva verso il centro esatto di tutti questi minuscoli esagoni. È l'ora di Boston o l'ora di Los Angeles? E questo è il mio corpo vuoto o il corpo avido di Claire Eberhardt o il corpo di Violeta Alvarado, cremato e ridotto in cenere? Le misteriose istantanee della sua vita, sbiadite fino a un uniforme tono verde acqua, non si allontanano mai molto dai miei pensieri: fratelli allineati in un semicerchio solenne, nonna Costanza con un bambino in braccio, il pappagallo. Come sarà, crescere in una casa senza pareti? Dormire su una stuoia di bambù sulla nuda terra, avere una stagione tutta polvere e arsura e una stagione tutta pioggia e vapori d'umidità? Come sarà, vivere in una casa che lascia entrare tutto questo? E se andassi in Salvador e trovassi l'accampamento degli Alvarado? Se camminassi in quel paesaggio, passando accanto ai cugini che sgranano a mano il granturco essiccato, alle cugine che lo macinano in un molino, spianando in cerchio la farina e cuocendola su una pietra, e se poi m'imbattessi in Costanza e la chiamassi per nome? Chissà se alzerebbe gli occhi dal fuoco di legna su cui sta cucinando, e se alla vista di quella strana parente straniera avrebbe paura... magari continuerebbe semplicemente a fare tortillas, nient'affatto sorpresa di vedermi, o di sentire le notizie che ha temuto di ricevere fin dal giorno che sua figlia è partita per l'America. Mi sveglia l'acqua che batte sui vetri; mi rigiro nel letto e cerco il telecomando della tivù. La spalla sta meglio, ma le ultime vertebre della schiena sono rigide e dolenti. Appare sullo schermo Channel 9. Un vasto fronte d'aria fredda proveniente dal Pacifico sta portando nevischio e pioggia in tutta la West Coast degli Stati Uniti. Temperature intorno allo zero a San Francisco, grandinate nel corso della notte. Per domattina ci saranno sessanta centimetri di neve in Nevada, e ci sono altre formazioni temporalesche accumulate sull'oceano, come aerei in attesa di ottenere il permesso d'atterraggio dalla torre di controllo. Quando sento che ci sono degli allagamenti a Palm Springs, afferro il telefono e premo le due cifre del numero di Poppy, che ho inserito in memoria. «Poppy? Come stai? Sei all'asciutto?» «Ho appena passato una notte all'ospedale.» «Cos'è successo?»
Mio nonno non è mai stato in ospedale in vita sua. Si sarà affettato un dito coll'antiquato rasoio che gli ho sempre visto usare insieme alla crema da barba al mentolo. «Verso l'undicesima buca ho sentito una fitta alla pancia. Gli altri si sono spaventati e hanno chiamato un'ambulanza.» «Gesù, Poppy.» «Insomma, è stato uno spreco di tempo. Mi hanno tenuto lì in osservazione, ma non mi hanno trovato niente.» «Dev'essere stata la notte che ti ho telefonato» mi precipito a dire in tono di scusa, «ero fuori città per un'indagine, e non ha risposto nessuno. Mi dispiace tantissimo averti lasciato solo in questa...» Ma lui mi interrompe. «Cosa c'era di tanto importante nel cuore della notte?» «Mi sentivo sola.» Rido per non farla tragica, ma quando lui tace mi sento obbligata a dare spiegazioni al suo silenzio. «Ero ubriaca.» C'è una pausa, e poi: «Sei un'idiota». «Grazie, Poppy.» La sua voce è forte e ferma, la mia debole e spenta. «Hai un problema con l'alcol?» «No, non ho nessun problema con l'alcol.» «Non fare l'idiota, specialmente sul lavoro.» La sua aggressività scatena in me una furia cupa. «A quanto pare sei l'unico a pensare che sono un'idiota. Mi hanno assegnato un caso che coinvolge Jayne Mason.» «Che caso?» «Sostiene che il suo medico l'ha fatta diventare dipendente da certi analgesici che si procurava in Messico.» «Sei riuscita a incontrare Jayne Mason?» «Le ho parlato a lungo.» «Com'era?» «La donna dei tuoi sogni, Poppy.» «Andremmo d'accordo.» Probabilmente è così. «È un caso di prestigio. Ce lo ha assegnato il Direttore. Ecco perché ero a Boston.» «Sarà meglio che ti ci metti d'impegno.» «Perché, secondo te cosa faccio?» «E non fare idiozie.» Niente da fare. Impossibile vincere. Alla fine della conversazione con
Poppy sono esausta. Siedo sul bordo del letto nuda e tremante, travolta da un'ondata di senso di colpa perché mi sono arrabbiata con lui, castigandomi perché non ero lì quando è andato all'ospedale, a preoccuparmi di cosa possano significare quei dolori addominali... e invasa da una paura nuova, inespressa, gelida come la pioggia che scroscia di là dai vetri. Butto giù tre Tylenol e un po' di fiocchi d'avena, infilo i jeans e gli stivali di gomma al ginocchio, mi allaccio bene il parka, tiro su il cappuccio e sguazzo per i vialetti d'accesso allagati fino al garage freddissimo dove la Barracuda, immersa in venti centimetri d'acqua, si rifiuta di partire. «Resta pure a casa» mi dice Rosalind al telefono. «Stanno dicendo agli impiegati federali di non andare al lavoro a meno che non siano indispensabili per il loro dipartimento.» «Come me.» Mi mette in attesa, poi torna al telefono. «Infatti, cara Ana.» E prosegue, abbassando la voce: «L'agente Capo Galloway è appena passato di qua. Ti vuole in ufficio». Un'ora dopo Donnato si ferma con la macchina lungo l'accesso di servizio sotto il mio balcone e suona il clacson. Deve aver mostrato il distintivo al guardiano per entrare nel complesso residenziale. La pioggia è così fitta che mi basta correre fuori dall'atrio per inzuppare il giaccone. Salto dentro e sbatto la portiera. «Finalmente è morta, la Barracuda.» «No che non è morta, non voleva bagnarsi le gomme.» «Ma perché usi quel catorcio?» «È romantico.» «Con gli stessi soldi ti potevi comprare una Mustang come nuova.» «Ce l'hanno tutti, la Mustang. Nessuno guida una Barracuda riverniciata di rosso scarlatto come una vecchia battona.» «Ecco perché mi preoccupo per te.» Mi dà un caffè caldo nella tazza di cartone. All'improvviso mi torna la fame. «Che profumo qua dentro, sembra di essere dal panettiere.» «Ti ho comprato gli Zen muffins.» «No, davvero?» Gli Zen muffins sono dei grossi panini di farina integrale e mirtilli, e spesso mangio solo quelli per pranzo. Non è facile trovarli, e la gentilezza di Donnato mi commuove. L'aroma invitante del caffè, i finestrini appannati e fuori la pioggia - e il modo in cui evita di guardarmi direttamente -
risvegliano di colpo, con la brutalità di uno schiaffo, lo stesso desiderio illecito di quando, seduta in macchina, aspettavo di imboccare quel tunnel a Boston: il desiderio di essere veri amanti, io e Donnato, e che ogni momento passato insieme vada ad aggiungersi alla continua invenzione di un nostro mondo segreto. Ma dopo un attimo, come uno schiaffo sull'altra guancia, mi colpisce l'impossibilità, "l'idiozia", direbbe Poppy, di tutto questo. «Dovrei andarmene più spesso» dico con amarezza. «Ti dirò, mi manca parecchio il tuo bel sedere, adesso che ti hanno affidato questo caso di gran moda.» «Fattene una ragione: sono di gran moda, io.» Lui mi guarda. «Specialmente con quel cappuccio.» Lo tiro giù, imbarazzata. «A Boston ti ho preso un panino con le polpette ma l'ho lasciato in cucina.» «Che pensiero premuroso.» È distratto adesso, fa marcia indietro con cautela, sfiorando le foglie scure, coriacee, dei cespugli di agrifoglio lucidi di pioggia. «Sono venuto ad avvisarti che Galloway ha sete di sangue.» «Sangue di chi? Il mio?» «Di chiunque.» Siamo al cancello del complesso residenziale, di fronte a un semaforo rosso impazzito. Cinque o sei macchine si sono fermate, incerte, con l'acqua grigia fino ai coprimozzi. «Spero che a Boston tu abbia raccolto del buon materiale su quel dottore.» «È buono» dico con fiducia, ricordando le lacrime commoventi di Claudia Van Hoven nel parco. «Meglio che sia più che buono. Meglio che sia eccellente.» «È superlativo» ribatto seccata. «Sono i migliori indizi mai raccolti da un agente dell'Fbi fin dall'alba della storia, va bene? Ma perché Galloway ha la luna storta?» «È stravolto per via del casino cubano, sai, la storia della ragazza morta.» Fisso gli occhi sulla pioggia battente. Il casino cubano è stato un errore colossale degli agenti del nostro ufficio; in fatto di pubbliche relazioni, un fiasco incancellabile. «Sono fregata.» Donnato mette in moto e attraversa l'incrocio allagato. Robert Galloway ha fatto carriera a forza di essere più duro dei duri. Ha fatto il braccio di ferro con più di un padrino della mafia. Ha preso di petto
i peggiori gangster di New York, e ha fatto del lavoro d'infiltrazione fra i trafficanti di eroina del porto di Manhattan. Nei suoi ultimi anni di lavoro come specialista nel crimine organizzato, è stato costretto a trasferire la sua famiglia, che era stata minacciata, da Brooklyn alla Pennsylvania. A lungo andare, la separazione dai figli adolescenti gli è divenuta intollerabile, e controvoglia ha accettato la promozione a Los Angeles, anche se resta un newyorkese purosangue e crede ancora, secondo me, che qui siamo tutti un branco di scoppiati e di omosessuali. Galloway è un uomo d'azione e mentire non gli piace, dunque non è proprio la persona ideale per trattare con la stampa. Invece di glissare sul pasticcio cubano come avrebbe fatto qualsiasi burocrate senza pensarci due volte, Galloway si sente obbligato a rispondere sul serio alla domanda, che è la seguente: "Perché l'Fbi non è riuscita a impedire che una ex reginetta di bellezza ventiquattrenne dello Iowa venisse pugnalata a morte per trenta volte con un coltello da cucina lungo venticinque centimetri dal suo ragazzo, uno spacciatore cubano, quando il loro appartamento di Hollywood era sotto la nostra sorveglianza ventiquattr'ore su ventiquattro e i suoni dell'intero delitto, colpo dopo colpo, urlo dopo urlo, sono registrati su nastro?". «Galloway ha tenuto una conferenza stampa, ieri. Non è andata bene.» Stiamo salendo in ascensore a velocità missilistica, e il tepore che mi avevano lasciato nello stomaco il caffè e il muffin dev'essere rimasto al quarto piano o giù di lì. «Gli ha detto la verità? Che nessuno era in ascolto?» «Sì.» «Incredibile.» «È stata una figuraccia personale per Galloway, dopo quel suo discorso all'associazione forense sulla "guerra alla droga che sarà vinta o persa a Los Angeles".» «Direi che adesso sappiamo come finirà.» «Sta' pure tranquilla che tutti i Duane Carter del mondo sono lì che mordono le calcagna di Galloway come una muta di dobermann. Eppure» continua Donnato scrollando le spalle, «lo dicevo a Pumpkin stamattina sotto la doccia, non ci si può aspettare che manteniamo una sorveglianza diretta e ininterrotta su ogni caso.» Mentre attraversiamo il corridoio tra noi cala il silenzio. «Siete sposati da quindici anni e fate ancora la doccia insieme?» Donnato mi rivolge uno di quei sorrisetti penosi che lo rendono tanto caro.
«Lei stava facendo i gargarismi sul lavabo, va bene?» Inseriamo i nostri codici ed entriamo dalla porta riservata agli agenti. «Be', in un certo senso mi è piaciuto immaginarti tutto insaponato e scivoloso.» «Non ti fare troppe illusioni» mi risponde Donnato. La porta dell'ufficio di Duane Carter è aperta. Lui e altri due tirano una palla dentro un canestro. «Com'era Boston?» mi fa Duane. Certo non gli dirò che un disperato mi ha scippata a un angolo di strada. «Super!» rispondo, con un gran sorriso e il pollice alzato. Risponde al mio sorriso come se fossimo amici per la pelle. Appena mi siedo alla scrivania suona il telefono. È Jayne Mason. «Hanno una fotografia delle mie tette.» «Chi?» «Il "National Enquirer", il "Ladies Home Journal", che ne so?» Sentire quella voce familiare che mi parla all'orecchio direttamente e in tono confidenziale è come vederla comparire di persona qui nel dormitorio: una scossa elettrica al limite delle capacità di sopportazione dell'organismo. «Come hanno avuto la fotografia, signora Mason?» «Se ben ricorda, ieri era una bellissima giornata prima che cominciasse a piovere a dirotto, e mentre prendevo il sole nuda in piscina passa un elicottero. Lo so benissimo cosa volevano, quelli.» «C'erano delle scritte sull'elicottero?» «C'era scritto KTLA.» «È una stazione televisiva.» «Certo, cosa vuole che sia?» «Dunque lei ritiene che la KTLA volesse scattare delle foto osé per il notiziario delle sei?» «Per favore, un po' di rispetto per la mia intelligenza.» Sento del ghiaccio che tintinna in un bicchiere. «Ci sono tutti quegli operatori indipendenti. Mentre vanno a fare il servizio su un ingorgo di traffico passano sulla casa di qualche povera attrice innocente, puntano i loro viscidi zoom e pensano di farsi un diecimila facile facile.» Mi scappa un lieve fischio ironico. «Davvero? Così tanto?» «Per le tette giuste sì.» Devo ammettere che adesso mi ci ha fatto pensare. Sarà imbarazzata
perché è vecchio e avvizzito, o incazzata perché è sodo e provocante e li vale, diecimila dollari? «Voglio un'indagine dell'Fbi.» «Siamo un ente federale, indaghiamo solo sui reati federali. Non abbiamo competenza in questo campo. Le suggerisco di rivolgersi alla polizia locale.» «Ma lei è il mio agente dell'Fbi.» «Per l'esattezza sono una dipendente del governo degli Stati Uniti, signora.» «Datti meno arie!» dice irritatissima, e riappende. Non faccio neanche in tempo a posare il telefono che Galloway, in maglione a collo alto rosso acceso, un cumulo di carte fra le mani e il sigaro stretto fra i denti mi afferra per il braccio, mi fa alzare dalla sedia e mi trascina nel suo ufficio. «Cos'hai di tanto buono sul caso Mason?» Ci siamo. «Un'ex paziente di Eberhardt, Claudia Van Hoven. Sostiene che le sono stati prescritti troppi analgesici e di esserne diventata dipendente, proprio come Jayne Mason.» «Verrà a testimoniare?» «Sì.» «Partiamo con un mandato.» Fa per prendere il telefono e chiamare l'ufficio del procuratore distrettuale. «Credo che dovremmo aspettare.» «Perché?» È un momento difficile. Galloway mastica il mozzicone. Sarebbe facile lasciarlo telefonare e così mettere in moto centinaia di ingranaggi, e intanto starmene tranquilla a prendermi le pacche sulle spalle per aver fatto la mia parte, per aver portato a termine la missione di Boston... ma non sarebbe un gesto responsabile. Se a lui l'emozione offusca la vista, sono io che devo cercare di ragionare. Non possiamo buttarci a correre alla cieca tutt'e due come quel povero rapinatore di banche, Dennis Hill, là in mezzo al parcheggio con una manciata di biglietti di banca e una pistola da starter, con gli occhi rossi e i nervi a fior di pelle, pronto a tutto pur di non farsi acchiappare dai suoi demoni. «Credo che non dovremmo richiedere un mandato prima di aver condotto un'indagine sui precedenti della paziente.»
«Quando l'avremo?» «Sto aspettando una telefonata dalla sede di Boston.» Galloway lascia perdere il telefono. Alle sue spalle torrenti di pioggia scrosciano lungo le finestre appannate. «Lo so che ci tieni molto a questo caso.» «Jayne Mason non è un caso. Jayne Mason è una situazione politica complicata che aspetta solo di esplodere, proprio come la storia cubana.» Allunga un braccio verso il tavolinetto e fa un gesto di frustrazione. «Dov'è la tua fibbia portafortuna?» «Sparita.» Al posto di quella prende il telecomando, lo punta verso il televisore sullo scaffale, e preme con violenza il tasto. In perfetta sintonia con il suo umore il notiziario locale sta mostrando una ripresa aerea dal vivo di un camper da quindici metri, che spazzato via dal campeggio e trascinato dal diluvio si spacca in due contro un viadotto ferroviario; i rottami galleggiano verso il mare. Tutti e due fissiamo a occhi sbarrati la lenta inevitabile distruzione. Poi Galloway si alza in piedi, incapace di star fermo. «Il Direttore mi sta addosso. La stampa mi sta addosso. Il procuratore distrettuale mi telefona a casa...» «Jayne Mason ha chiamato qui.» «Come mai?» «Vuole che facciamo qualcosa per gli elicotteri che le volano sopra casa.» A Galloway quasi schizzano gli occhi dalla testa. «Questa storia va risolta prima che ci sfugga di mano.» Raccoglie una manciata di messaggi telefonici gialli. «Solo stamattina ho ricevuto tre chiamate dall'agente della Mason.» «Ho sentito dire che ha un certo potere personale.» Galloway fa una smorfia ed emette un breve fischio. «Tu non ne sai quasi niente, e io neanche.» «Ma tu cosa sai?» «Su Magda Stockman mi ha informato... diciamo una fonte ufficiale interna all'Amministrazione, quando ci hanno passato il caso. È un bel tipo. È arrivata in America dall'Ungheria durante la rivolta del '56, ha trovato lavoro da Macy's - vendeva rossetti - e siccome c'era tagliata si è messa in proprio, ha gestito un negozio alla moda di prodotti di bellezza sulla Madison Avenue, ha conosciuto una famosa attrice di Broadway ed è diventata
la sua agente.» «E la politica cosa c'entra?» «C'entra per via delle spiate sui suoi vecchi amici comunisti. A Washington c'era gente molto interessata a sentirle.» «Vuoi dire che non fuggiva dai comunisti...» Galloway annuisce. «Era una di loro. Un membro del partito. Ma più che altro un'opportunista.» «Così, è venuta in America...» «Pascoli più verdi.» Facciamo segno di sì con la testa contemporaneamente. «Fantastico, no?» Galloway scopre i denti in un sorriso da carnivoro. «Oltre a questa schifezza cubana, mi becco sul groppone anche la cocca dei Repubblicani.» «Tempi duri per il Bureau.» Di colpo ha smesso di ascoltare, ipnotizzato da una giornalista televisiva che porta un vestito blu elettrico con una camicetta di pizzo che spunta dalla profonda scollatura. «Qui c'è una lezione da imparare» medita. Io aspetto cortesemente di sentire quale. «Hollywood.» Faccio un sobrio cenno di assenso. Galloway distoglie lo sguardo dalla tivù, il viso sereno. «Magari dovrei assegnare a qualcun altro il caso Mason.» Mi attraversa un brivido ghiacciato di paura. «Perché? Io sono all'altezza.» Lui esita. «Vorrei che non mi ricordassi tanto mia figlia di quattordici anni.» «Non sono tua figlia e non ho quattordici anni. E non preoccuparti: non mi farò mettere incinta.» Galloway scoppia a ridere. O almeno scrolla su e giù le spalle tese in una passabile imitazione di risata. È dalla mia parte. Almeno per il momento. «Cos'altro hai su quel medico? A quali altre fonti ti puoi rivolgere, sempre che restino confidenziali? Vicini che non lo sopportano, dipendenti risentiti, il giardiniere, il postino, un'amante, cosa?» «Se c'è qualcosa, lo troverò.» Hanno ricominciato a trasmettere in diretta le scene della tempesta. Un pompiere solitario è rimasto bloccato in mezzo a una verde distesa d'acqua; con una mano si regge a un palo, con l'altra stringe un walkie-talkie. «Voglio delle prove oggettive per la fine della prossima settimana. Se è
colpevole, mettiamolo dentro» brontola Galloway. «Contaci.» Torna a posare lo sguardo sull'uomo intrappolato con l'acqua fino al petto. «Poveraccio.» «Non ti preoccupare. Arriva l'elicottero a tirarlo fuori.» Ma Galloway non sembra convinto. 13 Torno alla scrivania e mi impegno in un lungo colloquio con il Travestimento Agente Antirapine, sostenendo l'importanza fondamentale di completare il controllo dei precedenti di Claudia Van Hoven per accertarsi che sia una testimone attendibile. Lascio un messaggio in questo senso a Wild Bill presso la sede di Boston. Seguendo l'idea di Galloway di cercare qualcuno che conosca il dottore e abbia qualcosa da raccontare, esamino di nuovo il suo fascicolo e arrivo all'elenco che abbiamo richiesto alla società dei telefoni. Per un periodo di parecchi mesi, dalla casa degli Eberhardt sono state fatte moltissime telefonate a un numero locale che appartiene a Theodora Feign. Dopo aver sottolineato le chiamate con un evidenziatore risalta con chiarezza grafica che questa Feign ha un qualche legame con gli Eberhardt: in una sola settimana conto venti righe rosa. Il Travestimento Agente Antirapine e io lavoriamo in sintonia perfetta. Le chiamate sono state fatte perlopiù di giorno, e dunque ci troviamo d'accordo sul fatto che a telefonare dev'essere stata la moglie, magari a un'amica, forse l'unica che ha in California, qualcuno a cui la spaesata infermiera di Boston può confidare quanto si sente sola nella sua villa in stile mediterraneo moderno sulla Ventesima. Theodora Feign è proprio il tipo di fonte che Galloway sta cercando. Ma se la chiamo così, è facile che eviti di rispondermi e avvisi la sua amica del cuore, Claire, che l'Fbi le ha fatto domande su suo marito, bruciando l'intera operazione e rispedendomi a fare la passacarte. Per andare sul sicuro, dovrei parlare a qualcuno che sappia che rapporti ci sono tra Theodora Feign e gli Eberhardt. Chi potrebbe essere? Mi è bastato un giro in macchina nei dintorni per capire che a nord di Montana c'è una doppia società: bianchi benestanti e proletari ispanici che vivono in mondi paralleli. Quando le signore sono fuori, si vedono le governanti riunite in crocchi agli angoli ombrosi delle strade residenziali al-
berate, con le carrozzine e i bambini, mentre spettegolano in spagnolo a tutta velocità. Poco ma sicuro che l'argomento delle chiacchiere sono le donne bianche, quanto pagano, come dirigono la casa, chi ha un matrimonio infelice e chi è buona amica di chi. Se Theodora Feign era intima di Claire Eberhardt, è molto probabile che la governante, Violeta Alvarado, lo sapesse; e magari Violeta ne ha parlato con la sua buona amica, la coinquilina più anziana che veniva anche lei dal Salvador e badava ai suoi bambini; una comadre che la capiva e le era affezionata. Formo il numero della signora Gutiérrez e le dico che debbo rivolgerle alcune domande su mia cugina. Che tipo di domande? vuole sapere. Oh, su come viveva, su come è arrivata in America. Le fa piacere che io mi interessi alla mia famiglia, e accetta di incontrarmi domenica prossima. Naturalmente le storie su Violeta sono una bugia, e quel che voglio in realtà sono informazioni sui suoi datori di lavoro. Riagganciando il telefono lancio un'occhiatina compiaciuta al Travestimento Agente Antirapine, ma sento che mi disapprova: lui sa che è a me stessa che sto mentendo. Domenica pomeriggio c'è una schiarita, e anche se il cielo è coperto e la temperatura di dieci gradi, colgo al volo l'occasione di abbassare la capote della Barracuda, infagottandomi in stivali, bomber di cuoio, occhiali da sole da pilota e un berretto dei Dodgers indossato con la visiera all'incontrano. Quando mi fermo davanti al condominio di Violeta Alvarado, la signora Gutiérrez è già lì che mi aspetta insieme a Teresa e Cristóbal. Quando li saluto, i bambini muovono appena le labbra per rispondermi. Pensavo che si sarebbero entusiasmati all'idea di fare un giro sulla decappottabile, ma non aprono bocca. Il vento arruffa i loro lucidi capelli neri ma le facce rimangono prive di espressione. La signora Gutiérrez e io, sul sedile anteriore, scambiamo qualche parola sul tempo che farà domani, se riprenderà a piovere o no. Quando accelero imboccando Sunset Boulevard, con una mano stringe al petto una grossa pochette bianca, e l'altra se la posa sopra l'orecchio, come se bastasse per non far scompigliare la sua pettinatura spruzzata di lacca. E adesso? Devo tentare con le poche parole di spagnolo che conosco, per avviare una conversazione? Accendere la radio su una stazione ispanica? A loro farebbe piacere, o si sentirebbero insultati? Alla fine non riesco più a sopportare quel silenzio imbarazzante e scelgo una vecchia cassetta di Springsteen, trincerandomi nel mio spazio personale - mia la macchina,
mia la domenica e mia la musica - per i venti minuti che impieghiamo per entrare sull'autostrada e uscirne a Traveltown, nel Griffith Park. L'aria umida e carica di smog dall'altra parte delle Hollywood Hills sa di fumo di sigaro e ruggine vecchia. Nonostante il tempo incerto il parcheggio è mezzo pieno. Passiamo sotto qualche fragile eucalipto, e ci troviamo davanti a una stazione ferroviaria in miniatura dove è appena arrivato un trenino a vapore. «Hanno voglia di fare un giro?» domando alla signora Gutiérrez. Teresa scuote la testa per dire di no. Suo fratello la tiene per mano e basta. Porta una tuta con le Tartarughe Ninja. Vedo che ci sono dei tavoli all'aperto. «Hanno fame?» «Hanno pranzato, ma forse vorranno mangiare qualcosa.» Siamo un gruppetto inverosimile, io con i miei vestiti di pelle e il berretto, lei coi pantaloni aderenti a fiorami su fondo turchese e un maglione rosso largo come un barile, e i due orfani. Ordino dei nachos e degli hot dog cotti nel forno a microonde. Siamo circondati da feste di compleanno, più che altro di ispanici. Teresa e Cristóbal mangiano adagio e concentrati, come se gli avessero insegnato ad apprezzare ogni boccone, spalancando gli occhi sui regali chiusi nei pacchetti, sulla pignatta appesa a un albero, su un girarrosto portatile carico di pezzi fumanti di carne marinata e di lunghi porri interi che diffonde un aroma di aglio e di lime. Ogni gruppo è composto da una ventina o trentina di parenti, tranquilli e di buon umore. Le torte di compleanno sono elaborate, comprate in pasticceria. Teresa guarda senza invidia. Anzi, senza che sia possibile leggerle in viso un'emozione qualsiasi. «Mamá!» esclama di punto in bianco Cristóbal, eccitato, indicando col dito. «Lui crede che quella signora sia uguale a sua madre.» Gli accarezza la testa. «Pobrecito.» Una donna giovane e graziosa, che in effetti potrebbe sembrare una ricostruzione del corpo devastato che ho visto nelle foto dell'autopsia, tiene in braccio un bambino mentre toglie la carta di alluminio che copre un vassoio di frutta. Ride e strofina il viso su quello del bambino, che si aggrappa ai capelli ondulati che le scendono fino alla vita. «Ma Cristóbal capisce che...» mi riesce difficile finire la frase. «Lo sa che la sua mamma non torna.» Cristóbal tira sua sorella per il braccio. Lei continua a masticare distratta come se le indicassero un autobus di passaggio.
«Si ricorda se Violeta ha mai parlato di un'amica della signora Eberhardt che si chiama Theodora Feign?» «Vuol dire Teddy?» «Può essere.» «Oh sì, Claire e Teddy erano molto amiche. E anche la governante della signora Teddy, Reyna, era amica di Violeta.» «Insomma andavano d'accordo tutte e quattro.» «Non più tanto.» «Ah no?» «Teddy è molto arrabbiata con Claire.» «E perché?» «Io non so, ma Violeta era triste perché non vedeva più Reyna. E alle due bambine piaceva giocare insieme.» «Cos'è successo? Teddy e Claire hanno litigato?» «Oh, sì. Non si parlano più.» Questa è una buona notizia. Posso tranquillamente interpellare Theodora Feign. Per quel che mi riguarda, il pomeriggio è finito. Mi alzo e mi stiracchio, guardando così tanto per fare un fitto roseto spruzzato di qualche gocciolina di pioggia. Rivolgendomi di nuovo alla Gutiérrez m'informo cortesemente: «Il signor Eberhardt le ha poi inviato quell'assegno?». «Sì, l'ha mandato e io ho comprato i vestiti nuovi per i bambini.» Con fierezza, indica la tuta verde brillante di Cristóbal. «Poi ho scritto alla nonna per chiedere cosa vuole fare. Magari viene lei qui, magari i bambini tornano in Salvador e vivono con lei e il fratello grande.» «Violeta aveva un altro figlio?» «Sì, lo ha visto nelle foto. Il bimbo che la nonna tiene in braccio è il figlio più grande di Violeta. Lo ha lasciato là per venire in questo paese.» «Ma come ha fatto ad abbandonare un bambino piccolo?» «Per avere una vita migliore» mi spiega inarcando ironicamente un sopracciglio. «Lei lavora e manda i soldi a casa per la nonna e il bambino. Qui dentro» e si batte sul petto «le manca la mamma.» Fa scattare la chiusura della pochette; mentre nell'aria si diffonde un profumo di cipria, tira fuori un gran rotolo di fazzoletti di carta. «Adesso il bambino avrà otto o nove anni. Neanche sa che ha già perso la mamma.» Non abbiamo niente in comune, noi due, tranne una lieve spruzzata di pioggia: sui capelli, sulla panchina, su un centinaio di rose che stanno appassendo.
Lei china il capo e si preme due fazzoletti all'angolo degli occhi. È come se il Lutto in persona si fosse seduto fra noi sul cemento freddo, e ci avesse messo sulle spalle le braccia coperte di muschio. Mi sento addosso il peso della perdita subita dai bambini. Il cuore mi sprofonda nel vuoto di un identico abbandono, quel senso di angosciosa privazione che di tanto in tanto affiora e in un attimo ti travolge. Ciò che mi nasce dentro per me resta un mistero, un fiume sotterraneo senza sorgente. «Il sogno di Violeta era riunire la famiglia.» «Violeta e Cristóbal sono nati qui?» «Sì. Il padre se n'è andato.» Tira su col naso e richiude la pochette. «Se sono nati qui sono cittadini americani e pertanto affidati alla tutela dello stato.» La signora Gutiérrez è irremovibile come il tavolo di cemento. «Questo è sbagliato.» «Non spetta a noi giudicare. È la legge.» «La legge è sbagliata.» Bevo un sorso di limonata zuccherosa. Non voglio lasciarmi coinvolgere in una discussione. Sono un'agente del governo federale: ovviamente, credo che la nostra società debba, per obbligo e compassione, prendersi cura di chi non ha risorse, o di chi è fragile come Teresa, che ha gli occhi senza pupille di un angelo di marmo. La pioggerella è cessata, e attraverso un denso strato di nuvole si fa sentire il calore del sole. Vedo bene che per lei è una sofferenza anche solo star seduta qui all'aperto, lontana dai rifugi segreti che si è creata nell'appartamento, sola e senza protezioni sotto lo sguardo ottuso e abbagliante del mondo. «Quand'è il tuo compleanno, Teresa?» Lei guarda la signora Gutiérrez e non risponde. «Non mi dire che non lo sai.» Bisbiglia una data. «Cosa ti piacerebbe che ti regalassero?» «Un letto» dice Teresa senza esitare. «Non hai un letto? Dov'è che dormi?» «Sotto il tavolo della cucina.» Distolgo gli occhi e guardo in lontananza, le palpebre strette per difendermi dallo sfolgorio della luce, e penso che nonostante questi occhiali da sole forniscano, pare, la migliore protezione possibile contro i raggi ultravioletti, le lenti non sono abbastanza scure, no, affatto.
Teresa fissa il piatto vuoto. «Vuoi un altro hot dog?» Fa cenno di sì. Compro due porzioni di tutto ciò che offre il piccolo snack bar: popcorn, focaccia con gelato, tortilla chips, e guardo i bambini che fanno piazza pulita. «Gli dica di andare a giocare.» La Gutiérrez ripete in spagnolo la mia richiesta, ma i bambini non si muovono. Non è che ci sia molto da fare a Traveltown, se non hai una grande famiglia esuberante che è lì per il picnic. Magari lo avessi saputo, quando ho trovato questo posto sull'elenco telefonico. Si può visitare un museo dei mezzi di trasporto sistemato in un vecchio fienile buio e vedere una vecchia autopompa a cavalli che risale al 1902, o arrampicarsi sulle locomotive di treni defunti, metallici mostri arenati nel fango. Teresa e Cristóbal non hanno voglia di niente. Si aggrappano alle mani della Gutiérrez, si buttano per terra e abbracciano le sue ginocchia massicce. «Gli dica di giocare» ripeto con una punta di irritazione nella voce. Lei parla in tono più brusco e loro si trascinano controvoglia verso i treni. «Se non si riesce a rintracciare la famiglia, bisognerà dare in affidamento Teresa e Cristóbal» le dico parlando adagio, con la più completa e tranquilla convinzione, cercando di essere più chiara e meno emotiva possibile, come quando si informa un criminale dei suoi diritti. «Contatterò io stessa le istituzioni preposte.» Lei trattiene il fiato e si copre la bocca con tutte e due le mani. Le unghie, larghe e quadrate, sono dipinte d'un rosso terroso; sulle dita grasse, tre o quattro anellini da grande magazzino economico. «Io voglio bene a questi bambini!» grida. «Pensavo che lei li avrebbe aiutati.» «Va fatto quel che è giusto.» «Cos'è giusto? Violeta voleva avere una vita migliore. Guadagnare soldi in America e mandarli al suo bambino. Aveva solo diciotto anni. Ha preso un autobus per Tijuana da Mexico City e gli uomini sopra l'autobus l'hanno violentata, tutti, a turno, lì sul pavimento. È giusto?» «La legge esiste per questo.» «Si era appena staccata da un bambino piccolo. Aveva il seno pieno di latte. La legge non significa niente.» Cristóbal e Teresa sono lì che trafficano dietro la panchina e a un certo punto la Gutiérrez non ne può più. Si alza per vedere cosa combinano, poi
torna trascinando Cristóbal per un braccio. «Questa signora è la polizia» dice severa, mettendomelo di fronte. «Mostrale cos'hai fatto.» Cristóbal si rifiuta di alzare lo sguardo. Lei gli toglie con forza la mano di tasca. Nel pugno stringe un'automobilina di plastica che varrà poco più di mezzo dollaro. «L'ha presa da quella festa di compleanno laggiù.» Lo scrolla in malo modo. «Ladruncolo.» Mi pianta in faccia due occhi sfavillanti. So io cos'è meglio per i bambini, vero? E allora questa me la sbrigo io. Lo accompagno dall'altra parte dello spiazzo. «Non possiamo portar via le cose che non sono nostre» gli spiego con garbo. Arriviamo a una pignatta rotta; sparsi sull'erba umida ci sono caramelle e giocattolini. Lo conduco dal padre della famiglia che festeggia il compleanno. «Cristóbal ha preso questa macchinina, ma sa che non è giusto e vuole restituirla.» Il bambino resta lì rigido, la mano che serra il giocattolo lungo il fianco. «Va bene, tienila pure» dice l'uomo. Cristóbal mi scappa di mano e si rifugia da sua sorella. «Grazie» dico io miserevolmente. «Grazie infinite.» Lo penso davvero. Sono tesa, e fradicia di sudore malgrado l'aria frizzante. Non volevo portargli via quella maledetta automobilina. Non vorrei affatto essere qui, ma ho promesso ai figli di mia cugina, orfani di madre e di padre e oppressi dall'infelicità, privati del nutrimento dell'anima, un pomeriggio a Traveltown. E i pony ci stanno aspettando. 14 Durante la notte arriva un'altra tempesta. Lunedì mattina il cielo è bianco, la luce brunastra, e guido verso la casa di Teddy Feign sotto una fitta cortina di pioggia incessante. Scelgo di non passare davanti alla residenza degli Eberhardt o alla vecchia casa di Poppy sulla Dodicesima e mi tengo invece sull'arteria principale, il San Vicente Boulevard, dove si procede a rilento e spesso si devono schivare macchine in panne e rami di palma strappati dal vento. Parecchi delicati alberi corallo sono stati abbattuti dal temporale, le radici protese nell'aria, distrutti per sempre. Al semaforo sulla Settima giro a destra, in direzione del Santa Monica
Canyon. Sulla discesa la scassala Ford di servizio slitta per alcuni lunghissimi attimi, bloccandosi vicino a un semaforo con due ruote nel fango. Cerco di tornare sulla carreggiata ma non ho abbastanza forza nelle braccia e le mani mi scivolano penosamente sul volante. Resto lì a friggere di rabbia. Se dovrò chiamare un carro attrezzi sarà una cosa imbarazzante, e un enorme spreco di tempo. Ed ecco che sento un brivido sulla nuca. C'è qualcuno che si avvicina velocissimo da dietro. Invece di rallentare, una Range Rover mi supera accelerando, sterzando a bella posta dentro una pozzanghera e inondandomi i finestrini con una rumorosa spruzzata mista di ghiaia e acqua color della bile. Il guidatore, che porta un berretto da baseball, non fa neanche il gesto di voltarsi indietro. Un sasso si incastra sotto la spazzola di un tergicristallo e disegna un semicerchio sul parabrezza, con uno stridio raccapricciante come quando strisci le unghie sulla lavagna. Infuriata, lo sblocco con un getto azzurro e brillante di liquido lavavetri e inserisco la marcia. Passando dalla prima alla seconda, concentrata solo sul lamento delle gomme, faccio oscillare piano piano la Ford nella fanghiglia, lavorando di frizione; la cullo così finché non sento che finalmente gli pneumatici fanno presa e mi riporto sulla carreggiata, per filare via oltre la curva e giù per il canyon, maledicendo la Range Rover. Solo nel Westside una persona alla guida di un'auto da quarantacinquemila dollari può sentire il bisogno di deviare dalla linea di marcia per spruzzarti del fango in faccia. Il Santa Monica Canyon è una minuscola vallata tra gli altipiani a nord di Montana e il promontorio meridionale di Pacific Palisades, a quattro chilometri dalla villa degli Eberhardt. È situata al livello del mare e a poche decine di metri dalla spiaggia, con l'imboccatura aperta al soffio costante delle brezze marine, che restano intrappolate fra le pareti del canyon creando un microclima di sole eccezionalmente limpido, ombre profonde, aria fresca e salmastra. È diventato un quartiere esclusivo per avvocati e gente della televisione, ma la casa più stravagante è quella costruita da Teddy e Andrew Feign ai piedi della collina, in fondo a San Lorenzo Street. È un'enorme residenza in stile Tudor, rivestita per metà in pietra grigiobruna, con un'arcata coperta di edera sul vialetto di accesso. Ci sono due tetti gemelli a uno spiovente, tre grandi comignoli medievaleggianti. I grandi pannelli di vetro romboidali degli alti bovindi ti fanno pensare che da un momento all'altro stia per uscire dalla porta Biancaneve in persona. In effetti, se non guardi le palme dall'altra parte della strada, la casa dà
l'impressione di trovarsi nel Leicestershire, in Inghilterra, in una giornata di pioggia. Oltrepassato un cancello di ferro battuto, seguo un vialetto in pietra trasformato in un torrente in piena. Teddy Feign arriva subito: è una donna snella, attraente, che calza stivali alti di gomma gialla e tiene in mano uno straccio da pavimenti. Quando le spiego che sono dell'Fbi e che devo rivolgerle alcune domande su certi suoi conoscenti, il dottor Eberhardt e signora, le si illuminano gli occhi e mi invita a entrare. Come il guidatore della Range Rover, ha tutta l'aria di essere più che disposta a farsi un tuffo nel fango, se non altro per avere l'occasione di schizzarlo addosso a qualcun altro. La seguo in cucina. «Guardi qua, non è incredibile? Micidiale, no?» Sguazziamo nei due centimetri d'acqua che coprono il pavimento di quercia. Questa piccola inondazione ha un'origine piuttosto comica; in un ripostiglio l'acqua piovana filtra attraverso gli interruttori della luce e scorrendo lungo i muri forma un velo scintillante. Una ragazza in uniforme bianca a pantalone sposta metodicamente tutto ciò che si trovava nel ripostiglio. Scope, un aspirapolvere, mucchi di stracci bagnati, detersivi, vasi da fiori, racchette da tennis e un proiettore per le diapositive vengono disposti su un piano d'appoggio in cucina, via via che la ragazza li recupera uno per uno. Mentre la ragazza si muove con deliberata lentezza, la sua padrona va a duemila giri al secondo. «L'ho già visto questo film, tante grazie, non ho bisogno di rivederlo.» Schiaffeggia l'acqua con lo straccio e in un gesto futile sbatte un secchio contro il muro. «Con le piogge dell'anno scorso abbiamo avuto una frana di fango. Alle tre del mattino è venuta giù rombando tutta la montagna, ho creduto che saremmo morti tutti.» Attraverso le ampie finestre, oltre uno spazio in mattoni per il barbecue e i grandi vasi pieni di impatiens, vedo la collina fasciata da una benda di cemento. «La frana ha sfondato questo muro come un bulldozer, ha demolito tutto il retro della casa. Abbiamo finito di ricostruire la cucina appena un mese fa. Sono completamente fuori di me. Dov'è Dirk?» Continuando a passare lo straccio prende un radiotelefono ed esige infuriata che Dirk, a quanto pare l'appaltatore dei lavori, le venga chiamato col
cercapersone, raggiunto sul telefono della macchina, preso al lazo o comunque consegnato a domicilio, e subito. Le cucine non sono una delle mie passioni, ma se così fosse, questa sarebbe il mio sogno. Teddy Feign, senza smettere di sbraitare al telefono, mi fa cenno di accomodarmi su un comodo sgabello che ha perfino lo schienale, accanto a un blocco cucina con due lavelli in acciaio inseriti in una quindicina di acri di verde marmo levigato. La stanza è così grande che si sente l'aria frusciare sulle lunghe file di lucidi mobiletti bianchi. Si capisce che la cucina è nuovissima dall'odore di pittura fresca e dalla luminosità bianca e calda delle luci a incasso: il vapore e l'unto non hanno ancora velato i faretti. Riappende il telefono e tamburella le unghie perfettamente curate e dipinte di smalto trasparente sul bordo del piano di marmo. (Ma se usi lo smalto trasparente, perché andare dalla manicure?) «Caffè» decide. «Subito. E lei?» «Ottima idea. Conosce bene gli Eberhardt?» «Sono stata il loro spirito guida ai misteri della West Coast.» Fa abracadabra con le dita e una faccia buffa da spettro. «Si erano appena trasferiti qui, non conoscevano nessuno. Io li ho presentati, ho organizzato cene per loro, gli ho messo a disposizione il mio campo da tennis, ho persino detto che potevano usare gratis il mio allenatore...» Questa donna sputa più parole al secondo che pallottole un AK-47. «Ho indirizzato pazienti a Randall, ho fatto giocare i loro bambini nella mia piscina, anche se non è andata a finire tanto bene...» «Ho sentito che c'è stato un incidente.» Stranamente, la sua versione è molto succinta: «Laura è caduta in piscina, io non ero a casa, non si è fatta niente». Poi fa una pausa per snocciolare le altre sue gentilezze nei confronti degli Eberhardt: «E ho tentato senza riuscirci di far abbandonare a Claire quelle sue camicie di flanella a quadri di L.L. Bean». «Insomma, li conosce piuttosto bene.» «Intimamente. Cioè, prima che mi piantassero, ma questa è un'altra storia.» Apre gli sportelli di un mobiletto e raduna tazze, caffè e cucchiaini in rapida successione. «So che c'è stato qualche screzio fra lei e la signora Eberhardt.» «E lei come lo sa?»
«Non è stato difficile scoprirlo.» Mi guarda con curiosità e si assesta gli occhiali sul naso. Hanno una montatura pesante e nera, un po' da ingegnere eccentrico degli anni Cinquanta, ma sul suo viso delicato e pallido sembrano all'ultima moda. Dev'essere vicina ai quaranta, eppure porta i capelli di un biondo slavato in una zazzera da rock'n'roll. Indossa un maglione di cachemire nero e fuseaux di velluto liscio nero. L'unico tocco a spezzare tutto questo nero sono gli orecchini rotondi di diamanti, con pietre grandi come uvette. «Secondo lei, gli Eberhardt potrebbero avere problemi finanziari?» «Con gli incidenti degli atleti? Scherza? Randall ha una grossa clientela.» «Gli piace spendere molto?» Sbuffa. «Guida un'Acura.» «Lo ha mai visto assumere droghe?» «Mai.» «Gliene ha mai offerte?» «Io non prendo droghe.» «Magari ha prescritto dei sonniferi a lei o a suo marito, così, come favore.» «Mai successo.» «Mi parli del suo carattere. Le sembra uno di quei medici con la religione dell'egocentrismo?» «Randall?» Scoppia a ridere e tira le leve di un grosso aggeggio in rame, come quelli che ci sono nei ristoranti e servono per fare il cappuccino. «La prima volta che ho incontrato Randall Eberhardt correva per la strada con addosso soltanto un paio di calzoncini, e sventolava una braciola di maiale surgelata.» L'aggeggio sputa del vapore e lei si ritrae, mormorando: «Questa trappola mi ucciderà». Poi, con la macchina del caffè di nuovo sotto controllo, continua: «Ero andata a prendere Claire per uscire a pranzo insieme, e stavo scendendo dalla macchina quando ti vedo un bell'uomo con un torace notevole che rincorre per la strada un cane che si era infilato nel loro giardino sul retro, un botolo patetico che Randall definiva "un cane senza fissa dimora" perché negli occhi aveva lo stesso vuoto che vedi nei barboni. Non si lasciava avvicinare, neanche per farsi dar da mangiare, e alla fine è scappato via. Ecco, s'immagini: c'è una signora con un tailleur di Armarti che scende da una Mercedes e lui, che rincorre un cane bastardo con su dei
calzoncini da quattro soldi, non è per niente imbarazzato. Che tipo adorabile, ho pensato». La macchina sferraglia e si diffonde un ricco denso aroma mentre il caffè cola in due grandi tazze bianche. «In effetti, non riesco a immaginare cosa può aver fatto Randall per provocare l'intervento dell'Fbi.» «Me lo dica lei.» «Che ne so, magari ha fumato uno spinello negli anni Sessanta.» Le faccio un sorrisetto sciocco. «Lei ha detto che è stata amica intima di sua moglie, finché non l'ha mollata. Cos'è successo?» Teddy Feign ci pensa su. Non riesce a farmi raccontare quello che vuole sapere, ma già che c'è continuerà a stare al gioco un altro po'. «Ho incontrato Claire per la prima volta proprio in quel ripostiglio. Veniva giù acqua esattamente come oggi.» Indica accusatoria con il cucchiaino sporco di schiuma di latte. «Dopo la frana continuava a piovere e dovemmo stendere dei teli di plastica sulla collina per impedire che la casa restasse completamente sepolta. Avevamo bisogno di braccia. Erano le sei del mattino. Feci chiamare da Reyna i nostri conoscenti, dal primo all'ultimo, compresi i genitori dei compagni di asilo di mia figlia.» Nei suoi stivali di gomma, Teddy Feign attraversa il pavimento di quercia inondato e posa le tazze di caffè fumante sul ripiano. «Dei genitori, l'unica a venire è stata Claire Eberhardt.» Le trema la voce. «Erano arrivati i parenti di mio marito, e qualche hombre ingaggiato al volo davanti a un negozio di ferramenta, e quando torno a casa dallo Zucky's con il pranzo per tutti mi trovo davanti questa strana donna con i capelli neri, lunghi, fermati con una fascia di velluto e un maglione Fair Isle che cerca di asciugare quel ripostiglio - c'erano dieci centimetri d'acqua. Avevamo telefonato a tutti i genitori della classe di Diedre. Gente con cui eravamo stati alle feste di compleanno, al cinema, a cena... i nostri bambini avevano giocato insieme...» Prosegue, e si vede bene che le costa uno sforzo. «Claire Eberhardt neanche la conoscevo, ma è stata l'unica ad alzare il culo per aiutare un'altra persona. Ne fui tanto commossa che mi lasciai andare. Ho cominciato a piangere. Lei è un'infermiera, sa bene come si consola la gente. Così ci siamo sedute proprio qua a mangiare dei sandwich di pastrami caldo, e siamo diventate amiche.»
Bevo un sorso del caffè dolce e leggero. «Ci ho provato davvero, ad aiutare Claire. Era sperduta, quaggiù. Suo marito era occupato a far soldi e lei non sapeva come spenderli. Le ho detto di prendersi una governante e di non lasciarsi assorbire troppo dai bambini. Ma la verità è che era assorbita da Randall. Dipendeva completamente da lui. Ancora e sempre l'infermiera e il dottore.» «E lei ha seguito il suo consiglio?» «Oh sì, ci mancherebbe, io ero la sua migliore amica, mi chiamava dieci volte al giorno! Le nostre governanti erano amiche, i nostri bambini giocavano insieme... ma adesso ce l'ho a morte con lei.» «Perché?» «Ha smesso di chiamarmi. Così. Un fulmine a ciel sereno, subito dopo il quarto compleanno di Dee-Dee. Di colpo ha cominciato a trovare delle scuse e mi ha tirato quattro bidoni di fila. Si ricorda in seconda liceo, quando la tua amica del cuore smetteva di parlarti senza motivo? Ecco, per me è stato così, e ci sono rimasta male.» «Le ha chiesto che cosa era successo?» «Ha detto che era occupata.» Teddy Feign scuote la testa. «Io sì, che sono occupata. Ho rinunciato ai miei sabati per portarla a fare shopping. Altrimenti si compra un mucchio di roba da Neiman, fantastica secondo lei, e poi riporta tutto in negozio. Ma lasciamo perdere.» Teddy Feign appoggia il mento sulla mano e distoglie lo sguardo, ancora ferita da quel rifiuto, come una ragazzina. «Claire è rimasta prigioniera del Massachusetts. Randall in California è fiorito.» «E perché?» «È figlio di due medici.» Inarca le sopracciglia come per dire: ci arrivi? «È una pressione tremenda. Randall ha un'aria da persona tranquilla, ma si sente bene la spinta che lo muove. Ci faccia caso: sono qui da nemmeno due anni e lui è già uno dei migliori ortopedici della città.» Si spalanca la porta. Teddy Feign è tanto agitata che fa un salto perfino lì, nell'intimità della sua cucina. Entra di corsa una bambina. «Le presento Diedre. Attenta all'acqua, amore.» Diedre indossa una tutina e degli stivali di Minnie; ha i capelli a caschetto da sbarazzina, e un senso del suo rango in miniatura. «Lieta di fare la sua conoscenza» cinguetta con il mento all'aria e io penso: quando questa qui compirà quindici anni Teddy Feign non avrà scam-
po. Diedre è seguita da una donna di una certa età. «Reyna dice che posso giocare nelle pozzanghere» dichiara la bambina. «Ma sì, che bel divertimento» grida Teddy facendo il solletico a sua figlia e strappandole un sorriso. Mi presenta a Reyna, che mi stringe la mano. Pesante, sulla sessantina, Reyna è chiaramente speciale, rispetto alle altre governanti. Parla senza accento e porta un abito color bronzo stretto in vita, scarpe basse intonate, capelli castani tinti, e occhiali eleganti cerchiati d'oro. «Ha quasi smesso di piovere e Dee-Dee si è stancata di giocare in camera sua.» «Buona idea.» Mi piace, la dignitosa competenza di Reyna. Mi piace come accarezza i capelli di Dee-Dee. «Prenda un paio di stivali» invita Teddy. «Reyna e io calziamo la stessa misura!» Lo dice con un sorriso vivido, come se bastasse questa coincidenza a colmare tutta la distanza che le separa. Reyna è pratica. «Grazie. Vieni, Dee-Dee, vediamo quale paio di stivali della mamma può mettere Reyna.» Prende per mano la bambina, l'aiuta a scendere dalle ginocchia della madre e ci saluta con un sorriso cortese. Sono contenta che in America mia cugina avesse un'amica come Reyna. La pioggia è diventata una nebbiolina sottile con appena quel tanto di forza da scendere di traverso. L'aria è satura di umidità, e all'esterno il fitto fogliame è immobile, piegato verso terra dal peso dell'acqua. Il flusso di acqua lungo i muri è diminuito, e la cameriera ha un'altra bracciata di stracci bagnati e di presine da sgomberare. «Cosa sa dei rapporti fra Jayne Mason e il dottor Eberhardt?» «È stata la notizia dell'anno, quando Jayne è diventata sua cliente. Adorava Randall, lo interpellava per ogni minima cosa. È il motivo che gli ha impedito di venire alla festa di Dee-Dee: ha dovuto andare fino a Malibu perché Jayne aveva l'influenza.» «Claire era gelosa?» «Non sapeva come affrontare la cosa. Ogni volta che Jayne telefonava a casa lei ci restava secca. Io le ho detto di sfruttare la situazione, ma lei non sapeva come fare. Non sa essere diplomatica, ecco.» Suona il telefono. «Ciao cara, ti richiamo dopo» gorgheggia Teddy Feign, civettuola, «sto
parlando con l'Fbi.» Con tutta la solenne autorità del mio ruolo la ammonisco severamente a non spifferare in giro la nostra conversazione. «Mi scusi.» Si confonde subito; la sua fragile sicurezza si è già incrinata. «Prometto che non lo farò.» Imbarazzata, apre un cassetto e tira fuori un portacarte a fisarmonica. «Adesso dovrò far tornare quell'elettricista per aggiustare le luci del ripostiglio. Un'altra volta.» Tira fuori un biglietto: «Eccolo qua: Warren Speca». «Ho già sentito questo nome.» «Me l'ha dato Claire. Erano compagni di scuola alle superiori a Boston. Ha lavorato con Dirk alla ristrutturazione.» All'improvviso si indigna per la chiamata a vuoto. «Dove diavolo è finito Dirk?» Adesso ricordo quello che mi raccontava Kathy Donovan sull'ex di Claire, di quando le avevano fatto lo scherzo di darle il suo indirizzo di Venice. Dunque questa è la seconda volta che il nome di Warren Speca è collegato a quello di Claire Eberhardt. Una delle tecniche che ti insegnano all'accademia è come leggere a rovescio l'indirizzo su un biglietto. Fuori Diedre fa un mucchietto di sabbia bagnata su uno scivolo di legno mentre Reyna la sta a guardare al riparo dell'ombrello, calzando un paio di stivali da equitazione. «Quando le ho detto di prendere i miei stivali non volevo dire quelli di Ralph Lauren da quattrocento dollari, santo Iddio.» Teddy Feign sospira. Poi, disperando della sorte dei suoi muri immacolati e dei suoi pavimenti nuovi: «Cosa dovrei fare adesso?». «Aspettare Dirk.» Sul San Vicente Boulevard degli alberi caduti mi sbarrano la via del ritorno. Una squadra di operai devia il traffico lungo le strade dei quartieri residenziali. Io seguo una lunga fila di auto che costeggiano lentamente la vecchia casa di Poppy. Il cartello "In vendita" è ancora lì, e sotto la pioggia la casa sembra persino più malconcia e abbandonata. Stavolta non mi fermo, ma un ricordo mi segue. Sono in ginocchio sul pavimento di legno del soggiorno. È una buia mattinata di sabato, e attraverso le tende di pizzo che coprono le finestrelle ai lati della porta d'ingresso vedo scendere la pioggia. Ieri sono tornata da scuola con cinque minuti di ritardo e il nonno mi punisce facendomi stare
in ginocchio davanti al televisore spento, così non posso vedere il mio programma preferito. Mia madre va e viene dalla stanza ma non dice niente. Io fisso lo schermo verde e vuoto. Mi fanno male le ginocchia. È da un pezzo che premono sul legno duro. All'improvviso mi ritrovo a spegnere il motore nel garage del Bureau a Westwood. Non ho idea di come ho fatto ad arrivarci, né di come mai, protetta dall'abitacolo asciutto della mia macchina, io abbia le guance bagnate. 15 A Los Angeles, ogni anno ci sono sette giornate così spettacolose che ci si sente fortunati di essere vivi... e di possedere una decappottabile che funziona ancora. Quelle giornate arrivano dopo che la pioggia o il vento teso di Santa Ana hanno spazzato via dal golfo tutta la porcheria. Allora capisci perché ottant'anni fa qui riuscissero a girare film ogni giorno, in qualsiasi stagione: perché quando si alzavano la mattina trovavano il mondo già illuminato dal perfetto nitore del deserto. La luce naturale era tanto abbondante e tanto pura che faceva risaltare ogni singolo albero in un lontano aranceto, ogni sfumatura d'espressione sul viso di un attore in primo piano. Oggi è una di quelle sette giornate. Invece della macchina di servizio prendo la Barracuda, così posso guidare in autostrada con la capote abbassata. Guardando verso l'entroterra si vedono i picchi innevati a cento chilometri di distanza; dirigendosi a ovest, si distingue chiaramente ogni minima ondulazione delle montagne di Santa Monica, e ogni finestra delle torri di Century City brilla come fosse nuova. Vista rara, il cielo è pieno di nuvole bianche orlate di nero carbone, abbastanza gonfie da far trascorrere un brivido d'ombra su questa scintillante metropoli appena nata. Sono su di giri anche perché Wild Bill finalmente è riuscito "a scrollarsi di dosso i burocrati" e a ottenere il permesso di esaminare le ricette scritte da Randall Eberhardt per Claudia Van Hoven quando fu vittima di quell'incidente stradale. È stato costretto a presentare un'ingiunzione, ma ha detto che alla farmacia stavano cercandole proprio ora sul computer e mi ha promesso di inviarmi immediatamente una copia per fax. Sono fiera ed eccitata al pensiero di mettere le famose prove oggettive sul tavolo di Galloway, e in anticipo sulla scadenza di fine settimana. Un'altra indagine impeccabile di Ana Grey. Posso rimanere seduta in ufficio a fissare il fax o uscire all'aria aperta,
così decido di fare un'improvvisata a Warren Speca, che non ha risposto ai miei messaggi telefonici, per vedere se è al corrente delle attività della sua ex delle superiori e del marito medico. Nel caso che non sappia nulla, passeggerò sulla spiaggia di Venice e guarderò un po' l'oceano. La sede della Speca Electrical è un bungalow su uno dei canali. Kathy, l'infermiera di Savin Hill, Massachusetts, resterebbe a bocca aperta se vedesse che ci sono veramente dei canali a Venice, in California. Una volta c'erano anche ponti e gondole e un teatro lirico, che avrebbe dovuto portare la cultura sulla selvaggia costa del Pacifico: una conseguenza dell'ingenua idea di Abbot Kinney, secondo la quale se costruisci una città che fa pensare alla Rinascenza italiana ne risulterà automaticamente un Rinascimento. Dio sa che dura morte trovano i sogni ogni giorno, qui alla frontiera, ma Venice è stato uno dei nostri lutti più dolorosi; è vero che il parco di divertimenti The Pike è stato inghiottito dalla speculazione immobiliare della zona balneare, ma Venice era un'idea molto più grandiosa. Però i canali erano progettati male - non so se per ignoranza o per avidità (La storia dello Stato di California, lettura obbligatoria al mio liceo, non lo diceva) e quasi subito il mare cominciò a reclamarli. Le vie d'acqua di Abbot Kinney, che avrebbero dovuto portarci la cultura, continuarono a riempirsi di limo e si ostruirono fino a diventare pozze stagnanti piene di immondizia. Negli anni Venti i canali vennero dichiarati un pericolo per la salute dei cittadini e coperti d'asfalto. La minuscola casetta gialla di Warren Speca è appollaiata sulla riva di uno degli ultimi canali rimasti. Oggi sull'acqua c'è un velo iridescente di petrolio e le sponde sono affollate di anatre che imbiancano l'erba con le loro deiezioni. Dall'altra parte c'è solo cemento, un costoso condominio dopo l'altro; ma sul canale una fila di bungalow che probabilmente risalgono all'epoca di Abbot Kinney ha resistito agli speculatori. A giudicare dal legno che si deteriora, dall'intonaco scrostato, dai giocattoli stravaganti e dagli attrezzi da giardinaggio arrugginiti sparsi nei cortili, devono essere case in affitto di proprietà di un ostinato o di un pazzo. Come il villino di Speca, hanno tutti sbarre di sicurezza alle porte e alle finestre, il che guasta parecchio il loro fascino antico. Mi faccio guidare sul vialetto d'accesso dalla musichetta di una stazione radio; trovo un furgone in moto e un uomo in jeans consumati e stivali da cowboy che caricando in macchina l'ultima cassetta degli attrezzi chiude la portiera.
«Signor Speca? Posso parlarle un momento? Mi chiamo Ana Grey, sono dell'Fbi» e gli mostro il tesserino. Lui spegne il motore. Mentre scende dalla macchina lancia un'occhiata dietro le mie spalle, a qualcosa che improvvisamente ha catturato la sua attenzione. Giro su me stessa d'istinto, pensando a un membro della gang degli Shoreline Crips. «È una Barracuda del 1971?» dice, oltrepassandomi deciso. «Del 1970.» Adesso siamo sulla strada e lui ispeziona la mia macchina. «Bella verniciatura. È sua?» «Sì, è mia.» Non sembra per nulla sorpreso, e non sembra nemmeno che tragga delle conclusioni particolari. «E qui cos'ha, un 444?» «Avrei voluto qualcosa di meglio, ma non c'era l'aria condizionata. Non mi dica che è un fanatico delle Barracuda.» Warren Speca va al suo camioncino e torna con l'ultimo numero di "Hemmings Motor News". È più forte di me. Sento il cuore che mi dà un balzo. «È la mia lettura preferita prima di addormentarmi.» Lo sfoglia per mostrarmi tutte le pagine con le orecchie. «Anche la mia.» «Pensi a quante cose ci potremmo raccontare, a letto.» Fa scorrere lo sguardo sul mio petto e mi pianta gli occhi in faccia con un'espressione divertita, aperta e sfrontata. «Quanti chilometri fa con un litro?» «Cinque. Ma non è per il consumo che si comprano queste macchine.» «Come se non lo sapessi.» Certo, lo sa. Porta i capelli, ingrigiti anzitempo, in un taglio cortissimo da militare, e la bocca è piena, morbida e carnosa, il disegno delle labbra sensuale. Le guance segnate dal tempo, gli occhi che spariscono fra le rughe impresse dal sole. Sono proprio le sue labbra, simili a quelle di Paul Newman in La dolce ala della giovinezza, che gli hanno consentito di cavarsela in qualsiasi situazione fin dai tempi delle superiori; labbra che ti bisbigliano un invito a toccarle con le tue e a trasgredire tutte le regole. «La manutenzione com'è, buona?» «Mai niente di grave. Con queste piogge l'alternatore mi ha mollato. Capita che si scarichi la batteria, cose del genere.» «Ma scommetto che fa i cinquecento metri in quindici secondi.» «L'ho portata a centosessanta, di notte, in autostrada.» Warren Speca sfiora col dito il cuoio rosso del sedile di guida.
«Ragazzaccia.» «Era un inseguimento a tutta velocità attraverso cinque contee ed è finito con una sparatoria a fuoco incrociato, sa com'è.» Lui sorride. «Come quel poliziotto della tivù, com'è che si chiama, quello che guidava una macchina come questa.» «Mannix?» «Era identica alla sua?» «Identica.» Warren Speca guarda me e poi la macchina, annuendo lentamente. «Sono impressionato, sul serio.» «Be', mai come me.» Continuo a chiacchierare, credendo di avergli fatto imboccare una bella discesa comoda comoda. «Lei è l'unica persona che conosco a sapere che Mannix guidava una Barracuda.» «Negli anni Sessanta guardavo molto la televisione. Facevo anche tante altre cose.» «Con Claire Eberhardt?» Non batte ciglio. «Cosa c'entra Claire?» «Quando andavate a scuola insieme, vi immagino a bere birra, fumare qualcosa, sognare a occhi aperti guardando la tivù...» Infila le mani nelle tasche davanti. «Va bene. Che cazzo succede?» Lo sapevo che avrebbe reagito così prima o poi, e resto calma. «Non ci interessa quello che è successo una volta. Vogliamo sapere se siete in contatto adesso.» «Perché?» «Un'indagine di routine sugli Eberhardt.» Fa una pausa, cercando qualcosa sul mio viso. A quanto pare la trova, perché fa: «Non direi» e imbocca il vialetto, diretto verso il suo camioncino. «Che problema c'è?» chiedo, e finisco per seguirlo. «Nessun problema. Non sono obbligato a parlarle, perciò buona giornata.» Fa manovra con il furgone. «Tra parentesi» e si sporge dal finestrino, «Mannix guidava una Hemi Barracuda.» «Lo sapevo» dico io, con le guance in fiamme. Alza un dito per rimproverarmi e si immette sulla carreggiata. So che beccherò Warren Speca. Non può sfidarmi, poi ingranare la mar-
cia e sparire così. Rispolvero gli appunti del mio colloquio con l'infermiera Kathy nel locale di Boston. Ha detto che Speca "aveva certi giri" di cui non mi ha voluto parlare. Passo al computer e controllo le fedine penali. Prima che riesca a bere un altro sorso dell'ultimo disgustoso caffè della giornata, tutte le informazioni che mi servono compaiono in bell'ordine sullo schermo. Aspetto fino alle nove di quella sera per trovarlo a casa. Risponde con un "pronto" distratto, per niente all'erta. «Ciao, Warren. Ana Grey, Fbi.» «Sapevo che avresti chiamato.» «Ah sì?» «Mi vuoi invitare fuori.» Scartando in un attimo varie altre risposte, faccio: «A dire la verità ti telefono per parlare della condanna che ti ha comminato lo Stato di California per possesso di marijuana e cocaina a scopo di spaccio». «Storia antica... cosa c'entra adesso?» «Scommetto che quando hai richiesto la concessione della licenza hai scordato di segnalare che hai un reato grave in giudicato.» Segue una pausa, e poi: «Non capisco, Ana. Perché mi minacci?». «Voglio parlare con te di Claire Eberhardt.» «Io con te parlo solo alla presenza di un avvocato.» «Certo.» Sto bluffando, l'ultima cosa che voglio è un avvocato che metta sull'avviso l'avvocato degli Eberhardt. «Ma tu non c'entri, Warren, si tratta di Claire e suo marito.» «Non ho niente contro Randall» dice in tono cupo, sulle difensive. «Quasi tutti pensano che Randall Eberhardt sia un cittadino modello, ma secondo me tu la sai più lunga.» Warren accetta di incontrarmi il pomeriggio dell'indomani al bar sull'attico dell'Huntley Hotel, a Santa Monica. L'unico modo di arrivare al Toppers Bar è salire con l'ascensore esterno che si arrampica sul fianco dell'albergo come una pallottola di vetro. Due segretarie diciannovenni ridacchiano e si coprono gli occhi con le mani mentre il macchinario, vibrando e stridendo, si mette in moto e ci trasporta lentamente sopra le cime delle palme e i tetti delle case, sospesi come in sogno a venti piani d'altezza sull'oceano. Neanche a me piace troppo. Le porte si aprono e mi ritrovo in una cantina messicana con i muri imbiancati a calce e decorati da un profilo azzurrino. Su due porte ad arco sta
scritto a lettere rosa sbiadite "Acapulco" e "Santa Cruz": una immette in un ristorante con le tovaglie rosa, l'altra in un bar col soffitto di bambù. Warren Speca è seduto al banco a bersi un drink, con in testa un grande sombrero messicano tempestato di specchietti rotondi. Un barista coi baffi neri e i capelli lisciati all'indietro non ce la fa più e si mette a ridere. «Está loco.» Indica col capo Warren, che sorride come un ragazzino con la cordicella che gli penzola sotto il mento. «Cosa c'è in quel drink?» chiedo. «Niente. Soda. Volevo solo entrare in atmosfera.» «Per cosa? Per la corrida?» Warren fa scivolare il cappello verso il barista, che lo riappende a un chiodo, sempre ridacchiando. Ci sediamo a un tavolino accanto alla finestra, davanti a un panorama di edifici bianchi e beige con i tetti rossi e arancione che si estende fino alla fila d'alberi a nord di Montana. La cameriera mi porta un margarita analcolico in un calice grande come una zuppiera, pieno di ghiaccio tritato profumato di lime. «Sono qua in California che mi faccio gli affari miei quando mi telefona una certa Teddy Feign che ha avuto la casa mezza distrutta da una frana di fango.» «Ti chiamerà un'altra volta.» «Ottimo. Insomma, dice che ha avuto il mio nome da Claire Eberhardt, una vecchia amica delle superiori. Io non mi rendo conto subito che Claire è qui sulla West Coast, m'immagino chissà che inghippo delle nostre madri. Se credi che siano tremende le madri ebree, non conosci le irlandesi o le italiane. Tu non sei ebrea, vero?» Per un momento un groppo di ansia mi toglie la parola, ma mi faccio forza: «Mio padre veniva dal Salvador, e mia madre era americana». Adesso che l'ho detto non è poi così male. «Il lavoro è complicato, e la signora Feign mi fa fretta, perciò comincio a lavorare anche nei weekend. Una volta lei dà una festa di compleanno grandiosa per la sua bimba e un centinaio di amici intimi, e io sono in giardino che combatto con un circuito quando si spalanca di colpo una porta finestra e Claire vola fuori. Sul serio, intendo. Quella era una porta finestra solo per bellezza, non era fatta per essere usata, ma Claire evidentemente non lo sapeva. Così lei finisce ruzzoloni, io l'aiuto e chi è se non Claire McCarthy di Savin Hill? È lei di sicuro, anche se ha messo su qual-
che chilo; ma è così imbarazzata e confusa che non mi riconosce - be', è vero che sono passati quindici anni - e io non le dico niente.» «Più tardi, entro in cucina e lei è alla finestra che guarda gli ospiti - insomma, fa tappezzeria, e Claire non era proprio il tipo - con il viso bagnato di lacrime. Mi vede e cerca di nasconderle.» «"Claire McCarthy" dico, "cos'hai fatto in tutti questi anni? Non dirmi che non ti ricordi di me." Finalmente mi risponde. "Non riuscivo a immaginare cosa ci facevi qua, poi mi è venuto in mente che ho dato il tuo numero a Teddy. Perché sei stato zitto mentre facevo la mia scenetta alla Chevy Chase?" "Non ti volevo mettere in imbarazzo." "Che idiota sarò sembrata." E io: "No, sembravi solo spaventata". Poi le chiedo dei suoi genitori che sono degli alcolizzati cronici e cominciamo a parlare. Le racconto che adesso sono negli Alcolisti Anonimi e non bevo più - resta di stucco - e per tirarla su di morale le indico uno degli ospiti, un ciccione in calzoncini e maglietta da ginnastica che ha sessanta milioni di dollari. "Quello lì inventa un programma per la tivù e adesso ha sessanta milioni. Vattici a strofinare, magari te ne resta qualcuno addosso." "Vacci tu" dice. "Ci ho provato, ma non era interessato. Ehi, per una cifra così farei praticamente tutto." "Non è vero." "Hai ragione. Cosa vuoi che m'importi? Sono solo soldi." Ma Claire fissa gli ospiti, con le lacrime agli occhi perché si sente patetica, vede sua figlia che ormai è una di loro e sa che lei invece non ce la farà mai. "Quella è mia figlia Laura. È amicissima della bambina che compie gli anni. Adora la California." Lì in cucina c'è la torta, enorme, bellissima, e io col dito» mi fa vedere passandolo sull'orlo del tavolo «la sfioro tutt'intorno al bordo, mi strofino sulle gengive la glassa al cioccolato e dico a Claire: "Non prenderai sul serio questa gente?". Lei mi guarda, coglie uno dei fiori canditi e se lo mette in bocca, e a questo punto so con certezza che andremo a letto insieme.» «Ed è quello che è successo?» «Due o tre volte alla settimana. Di solito da me, ma in un'occasione l'abbiamo fatto a casa sua. Per trenta secondi ho creduto che avrebbe lasciato il marito per mettersi con me.» Sorride con mestizia. «Era innamorata di te?» Warren Speca incrocia le braccia e si appoggia allo schienale, con le ginocchia nude divaricate, e guarda a occhi socchiusi la bruma che si sposta verso il mare. Viene dal lavoro e porta ancora calzoni corti malconci, sti-
vali pesanti e calzettoni. «La cosa che le piaceva di più - sfortunatamente - era chiacchierare a letto parlando del nostro vecchio quartiere. Cominciava con i ricordi, se mi rammentavo com'era a dodici anni, stupidaggini del genere. Naturalmente però il sesso non era niente male.» Purtroppo immagino benissimo che non fosse niente male. «Odiava vivere qua. Quelli come Teddy Feign la spaventavano da morire; volevano che diventasse come loro e lei lo sapeva. Era contenta di non frequentare più Teddy. Si divertiva molto di più con me» aggiunge con un sorriso provocante. «Chi era che la voleva diversa?» «Il dottor Randall, e chi se no? L'ho sempre pensato che era uno snob. Sua moglie ha il deserto dentro, e lui gioca a fare il dottore delle star.» «Con Jayne Mason?» «Sta' a sentire: aveva un pass per il cancello di accesso, una chiave della porta d'ingresso, e Jayne Mason aveva l'abitudine di passare a prenderlo allo studio con la limousine per portarselo in giro alle cene di beneficenza e al cinema.» «Avevano una relazione?» «Macché. Lei gli ha dato le chiavi per le visite a domicilio in caso di emergenza.» «Perché proprio Randall?» «Chi lo sa. Lei per capriccio, lui perché la grande stella lo faceva sognare come un montanaro qualunque al luna park. Per essere un dottore, ti dirò, non era mica tanto furbo. Io ho lavorato spessissimo per le stelle del cinema. Ci vuole poco a capire che vogliono solo usarti e basta.» «Quindi pensi che Jayne Mason usasse Randall Eberhardt.» «Lo usasse come?» «Per procurarsi la roba.» «No, secondo me era proprio il contrario. Lui cercava di farla smettere. Ti racconto una cosa.» Mescola lo zucchero nel secondo tè freddo. «Claire è venuta da sola a quella festa di compleanno, ci siamo incontrati e sappiamo come è andata. Randall non c'era, e il motivo era che doveva correre a Malibu per visitare Jayne Mason, che a quanto pare aveva l'influenza.» Si sporge in avanti e dà un colpetto alla mattonella messicana incastonata nel piano del tavolo.
«Più tardi Claire mi ha raccontato che quando Randall è arrivato a casa della Mason l'ha trovata a letto, completamente nuda e coperta di feci e di vomito.» Sottolinea ogni parola con un colpetto: di feci e di vomito. «Fortuna che aveva quella chiave, perché lei era quasi in coma a forza di tranquillanti. È stata la volta che l'ha fatta ricoverare al Betty Ford Center.» Medito in silenzio. «Ma allora dove si procurava la roba?» Alza le spalle. «Avrà un contatto fra gli spacciatori.» Annuisco. È una buona congettura, una congettura professionale, per così dire. Ma se non era Randall Eberhardt a rifornirla, perché adesso Jayne Mason lo perseguita come se fosse questione di vita o di morte? A occidente una foschia grigia fonde insieme cielo e mare, creando una cortina di nebbia. Nella luce del tardo pomeriggio le onde si infrangono dolcemente, verdissime, giocose, benevole. Lungo la pista ciclabile le ruote delle biciclette vorticano creando brevi lampi luminosi, minuscole come gli ingranaggi di un orologio. «Vi vedete ancora, tu e Claire?» «È finita un paio di mesi fa, quando ha deciso che era ancora innamorata di Randall. Non è stata una sorpresa. Non potrebbe mai lasciarlo, ci si attacca come un naufrago alla zattera.» «Com'è finita fra voi due?» Strofina una nocca sui capelli corti. «Piuttosto male. Eravamo a casa mia, lei era in ritardo e doveva tornare a casa, telefona a Teddy Feign perché Laura era là a giocare con la sua amichetta...» Sospira. «E al telefono viene a sapere che Laura era caduta in piscina e quasi ci restava.» Ho posato la penna e ho smesso di prendere appunti. Il cuore mi batte forte perché dal tono spaventato che sento nella sua voce - e anche perché non dovrei stare qui seduta al posto di Claire Eberhardt, a provare le stesse sensazioni che avrà provato lei quando sedeva di fronte a questo uomo attraente - so che stiamo per mettere piede su un terreno pericoloso. «Saltiamo sul mio furgone e corriamo a casa di Teddy. Claire recita il Padrenostro per tutto il tragitto. Al momento dell'incidente Teddy non era a casa. La governante aveva già chiamato il 911 e la strada era piena di infermieri e macchine della polizia. Non auguro a nessuno di tornare a casa e trovare un'accoglienza del genere. Claire scende dal furgone e quasi sviene
in braccio a una poliziotta di colore. Io non entro - del resto che ci faccio lì, giusto? - ma Claire torna fuori per dirmi che Laura sta bene, non ha neanche perso conoscenza. Poi si scopre che era colpa della governante.» «Quale?» «Ho dimenticato il nome.» «Violeta?» «Sì. Violeta.» Sento un tonfo sordo in petto, come capita quando si sente un commento sgradevole su qualcuno che si è imparato ad apprezzare. «La conoscevi, Violeta?» «Forse. Credo di averla incontrata una volta, quando sono andato da Claire.» «Quando è stato?» «Una volta sola, verso la fine. Non ci siamo visti per un mese dopo la faccenda di Laura, poi Claire mi ha detto che era finita.» «Perché? Senso di colpa?» «Sì, pensava che fosse colpa sua, ma diceva pure che affrontare quell'esperienza insieme a Randall li aveva riavvicinati.» Ha un'espressione amareggiata: «Che ti posso dire? Non c'era più la passione.» Tenendolo fra indice e pollice, fa scivolare sul tavolo il bicchiere vuoto. «Questo è il primo locale in cui l'ho portata quando abbiamo cominciato a stare insieme.» Aspettiamo l'ascensore davanti a una specchiera antica, con la cornice di legno decorata di rose dipinte. Warren Speca si è messo un berretto da baseball con su scritto Warner Bros. Studios. Io guardo le nostre figure riflesse nello specchio. Il barista mette a scaldare una pentola di chili nel carrello, preparandosi all'ora dell'aperitivo. Arriva l'ascensore, vuoto. Entriamo. «La prima volta che l'ho baciata è stato proprio qui.» Restiamo l'uno accanto all'altra, in silenzio, mentre la capsula si assesta con una vibrazione e comincia la sua discesa; l'uno accanto all'altra proprio come loro, vicinissimi, pieni di imbarazzo e di desiderio. Se mi sorprendesse con un bacio come quello che ha dato a Claire Eberhardt, so che sarebbe appena un soffio, un solletico, niente di cui potersi offendere, proprio come fu per lei: il gesto di un vecchio amico, in ricordo dei tempi delle superiori, quando non avevano paura dell'ignoto, e anzi ci si buttavano a capofitto: una notte d'estate su una macchina in corsa con tutti i finestrini abbassati, ubriachi dell'odore dolce e denso del Southern
Comfort e dei profumi screziati di erbe e muschio che si levano dal buio fitto della strada di campagna. A fari spenti, alla cieca, sempre più veloci. 16 Il giorno dopo arrivano delle novità spiacevoli da Boston. «Alla Bay Pharmacy hanno consultato gli archivi fino al 1985, e le uniche ricette presentate da Claudia Van Hoven erano per un'infezione a un occhio e dei disturbi ginecologici» dice al telefono la voce disinvolta di Wild Bill. «Ma neanche quelle erano state scritte da Randall Eberhardt.» «Magari è andata in un'altra farmacia e non si ricorda bene il nome.» «Sto controllando proprio questo, señorita.» All'improvviso non mi lascio più ingannare dalla giovialità di Wild Bill. L'ansito che gli sento nella voce tradisce una paura che mi si comunica all'istante, con un'ondata di adrenalina. «Siamo nei guai, vero?» «Ma neanche per sogno.» «Sì, invece.» Il panico cresce in fretta. «Ci ha mentito, nel parco.» «Ma dài, non ha senso.» Più cerca di rassicurarmi, più mi rendo conto che la nave affonda rapidamente. «Perché dovrebbe inventarsi un imbroglio del genere?» «Che ne so, non lo so, ma bisogna che troviamo un'altra conferma alla sua accusa contro Eberhardt. Altrimenti non abbiamo più la nostra testimone.» «Se lo dici tu.» «Hai ritirato la sua cartella clinica?» «Non ho avuto neanche il tempo di...» «Ci penso io» taglio corto, troncando la comunicazione. Quattro minuti dopo sto parlando col dottor Narayan, l'ex capo di Randall Eberhardt al New England Deaconness Hospital. Mi dice che si procurerà la cartella della Van Hoven per oggi pomeriggio, e quell'amabile accento inglese, tanto misurato, ha il suono di una promessa. Secondo la mia esperienza, anche le persone più colte non sanno resistere al fascino di una caccia con l'Fbi. Il Bureau ci sottopone a un esame semestrale delle condizioni fisiche, e nell'orario di lavoro abbiamo tre ore settimanali per tenerci in forma; dunque non è assenteismo se attraverso il parcheggio per andare al centro sportivo di Westwood nella Sepulveda e mi faccio trenta vasche in venti-
due minuti nella piscina pubblica. Quando sono così tesa l'unica cosa da fare è gettarmi a tutta velocità dentro un tunnel d'acqua, concentrandomi sulla grande croce del muro di fronte, godendomi la capriola precisa alla fine di ogni vasca e il ritmo della bracciata, lo scivolamento e la spinta che mi danno gli addominali esercitati ogni sera; oggi ho energia da vendere, e accetto volentieri perfino la sfida della donna in costume arancione che nuota al centro della corsia veloce, accrescendo così di un buon dieci per cento lo sforzo. Torno in ufficio coi capelli umidi e tutti i cilindri in ordine. Dopo una bella nuotata sono così rilassata che posso affrontare qualsiasi cosa, ed è una fortuna, perché Rosalind mi aspetta con un messaggio del dottor Narayan. Lo richiamo. «Claudia Van Hoven è stata curata qui per le fratture e il trauma riportati in un incidente automobilistico» mi dice entusiasta il dottore. «In precedenza la paziente ha avuto una lunga storia clinica di cure psichiatriche per ogni genere di sindromi, dalla depressione alla schizofrenia, finché non è stata ricoverata al Ridgeview Institute in Georgia, che ha formulato un'accurata diagnosi di disturbo dissociativo di identità, quello che chiamavamo disturbo da personalità multipla.» «Un momento. Sarebbe una di quelle persone che assumono voci e personalità diverse?» «Esatto.» «Ma non è un fenomeno rarissimo?» «La dissociazione dell'identità probabilmente è più comune di quanto crede. È un meccanismo di difesa della psiche, che evita il trauma diventando letteralmente un'altra persona. Nel caso della Van Hoven pare sia iniziata nella prima adolescenza, e che la causa prima sia stata l'abuso sessuale da parte di un vicino. Da questa cartella» prosegue «risulta che nella paziente è stata documentata l'esistenza di ventitré distinte personalità, compresa quella di un maschio aggressivo che si chiama Allan.» «Ha detto che Allan era il suo soccorritore.» «Sì, certi pazienti chiamano così alcuni alter ego. Sono personalità che hanno quella funzione. Ha notato qualche trasformazione mentre le parlava?» «Trasformazione?» «Un cambiamento della voce, o dell'atteggiamento del corpo? Insomma, l'ha vista diventare qualcun altro?» «Dio, no.» Rabbrividisco.
«Interessante.» Tentando di ritornare a una realtà comprensibile chiedo: «Possiamo prestare fede a quello che ci ha detto sul dottor Eberhardt?». «Correreste un grosso rischio.» «Eppure sembrava del tutto ragionevole. Era intelligente, timida... ha detto che suona il violino.» «Quella probabilmente era la personalità che si chiama Becky.» «Becky? Ma dove siamo, in un telefilm della serie Ai confini della realtà? Insomma, ha un marito, un bambino. È venuta con la carrozzina.» «Lei lo ha visto, il bambino?» «No. Ma stava cominciando a piovere.» Come se questo spiegasse tutto. Il tono del dottor Narayan è gentile. «Mi duole dirle che dubito molto ci fosse un bambino, in quella carrozzina.» L'idea che quella donna stesse là al freddo fingendo di portare a spasso un bambino, e che io ci sia cascata, mi sgomenta. Alla fine chiedo: «Un parere professionale. Secondo lei, è possibile che Claudia Van Hoven sia una testimone credibile, in un'aula di tribunale?». «In ultima analisi? No, è impossibile.» Riattacco e mi prendo la testa fra le mani, sperando di riuscire a schiacciarla abbastanza da diventare irriconoscibile. Maniche e torso del Travestimento Agente Antirapine appeso all'attaccapanni sono gonfi e rigidi come un pallone pieno di aria calda. Non ho nessun testimone a sostegno dell'accusa. E Galloway aspetta dei risultati per domani. Potrei andare a lamentarmi dal capo dicendo che mi avevano garantita per buona la Van Hoven, solo che quel vecchio ubriacone di Boston non l'ha controllata e ha combinato un casino. Per quanto sia arrabbiata, non riesco a decidermi a scaricare Wild Bill. Una lettera di richiamo comprometterebbe la sua pensione, e oltretutto non risolverebbe il mio problema, quello di presentare prove oggettive della colpevolezza di Randall Eberhardt. Rimango seduta a lungo alla scrivania, con la mente che annaspa frenetica come un topo che scava con le zampette dentro una parete. Butto giù degli appunti, disegno specchietti, ma non riesco a vedere come potremmo formulare un'accusa contro il dottore. Abbiamo solo il racconto non confermato di un'attrice e basta. Poi suona il telefono, e all'apparecchio c'è proprio Jayne Mason. È l'ultima persona che vorrei sentire. Non mi interessano gli elicotteri
che sorvolano la sua proprietà; magari stavolta vorrà segnalare un ritardo nella raccolta dei rifiuti. Sorprendente: ha un tono contrito. Ha bisogno di parlarmi, ma non al telefono, ci potremmo incontrare? Dato che l'ultima volta c'è voluto un mesetto per fissare un appuntamento e poi lei si è presentata con una settimana di anticipo in un posto completamente diverso, la faccenda mi lascia piuttosto fredda e sospettosa, ma lei promette di venire a prendermi con la sua macchina davanti al Federal Building alle 16 e 45 di oggi, e così è. È emozionante attraversare la folla per salire su una limousine nera e lustra che aspetta proprio me. Le teste si girano. Mi sento stordita, e ho il viso irrigidito da un sorriso fasullo. Tom Pauley mi apre la portiera con un cenno di riconoscimento. Non è come salire in macchina: è come entrare in una stanza, una stanza che sa di rossetto e buon cuoio, con pannelli illuminati di un bianco perlaceo agli angoli del soffitto, un ripiano cromato dove sono allineate bocce di cristallo con un'etichetta d'argento appesa intorno al collo: Whisky, Rye, Gin. Anche se allungo le gambe sono ancora a un chilometro dal mobile a incasso con televisore, videoregistratore, lettore di CD e registratore, tutti ultimo modello, sopra il quale una lastra di vetro fumé ci separa dall'autista. Ci sono due telefoni, un fax e perfino il sostegno a clip per quella che sembra una lunga provetta e contiene lo stelo di una rosa gialla. Appena ci mettiamo in marcia, una fila di bicchieri tintinna contro lo specchio illuminato, e una pila di copioni scivola su un tappeto Kilim in miniatura, aprendosi a ventaglio. «Grazie di essere venuta, Ana.» Jayne Mason, truccata alla perfezione, le labbra dipinte di rosso e un ombretto scurissimo sulle palpebre, i capelli raccolti, posa brevemente la mano sulla mia e poi si volta di nuovo verso il finestrino con uno sguardo pensieroso. Porta dei pantaloni di seta di un rosa acceso, scarpe bianche coi tacchi alti, e una maglietta di seta dello stesso rosa sotto una giacca bianca con le maniche rimboccate. Ai polsi tintinna una moltitudine di braccialetti d'oro; al collo porta un giro di perle da cui pende qualcosa di scintillante (è difficile vedere bene nella luce tenue). Nel suo stile Palm Springs, ha un'aria seria e determinata. Standole così vicino sento l'odore del suo corpo: come di biancheria profumata con un sacchetto di lavanda. È facile immaginare come mai Randall Eberhardt si sia lasciato attirare
in questo utero tiepido e soffice; accompagnava miss Mason alle esclusive serate di beneficenza, e si faceva portare in giro per la città in questo involucro privato, protetto dagli scuri cristalli a specchio. Mentre osservo un gruppo di impiegati che aspettano il verde a un semaforo di Wilshire Avenue mi rendo conto che, di solito, la possibilità di osservare gli altri senza essere visti è riservata a noi della polizia; dev'essere stata una grande emozione per il dottore, condividere questo privilegio. Poi Jayne Mason comincia a cantare. Guarda ancora fuori dal finestrino e canticchia piano tra sé, come se io non ci fossi: «Alle ore piccole dell'alba / Quando s'è addormentato tutto il mondo...». È per questo, dunque. Per questo tutta l'attenzione e i pettegolezzi, per questo la gente non bada alle follie e agli eccessi, per questo Magda Stockman ha scelto di mettere se stessa fra Jayne Mason e il resto del mondo, per questo un tipo come mio nonno si commuove a sentirla: per questo dono. Mi raddrizzo mentre la limousine prende dolcemente una curva, e ascolto la voce di Jayne Mason, autentica e perfetta; almeno per il momento, sono anch'io fra gli eletti. Entriamo nel centro commerciale Century City per non so che ingresso riservato ai VIP che neanche sapevo esistesse, e parcheggiamo dietro a un'altra limousine, lunghissima e bianca. Jayne Mason inforca dei grandi occhiali scuri e si calca un ampio cappello di paglia sui capelli. «Mi scusi. Devo controllare una cosa» dice, mentre Pauley fa il giro per aprirle la portiera. Così, scendo anch'io e la seguo. In ascensore dico: «Se avessi saputo che venivamo qui avrei portato il mio umidificatore». Per lei è una frase senza senso, ma tanto non mi presta attenzione comunque, e tiene gli occhi fissi sullo spazio illuminato che si apre sotto di noi. Appena mettiamo piede fuori dall'ascensore parte come un missile teleguidato e si apre la strada tra la folla inseguendo il bersaglio prefissato. Devo allungare il passo per starle dietro. Non ho mai visto una donna muoversi con tanta disinvoltura sui tacchi alti. Punta dritto davanti a sé, e non fa caso agli sguardi che tentano di incrociare il suo: se li scrolla di dosso come gocce di pioggia da un'ogiva. Il Century City è carino perché è un centro commerciale all'aperto: sole, un venticello piacevole, chioschi dei panini e carretti di legno che vendono il cappuccino, ma tutto sfila in un attimo. Il bersaglio è Bullock's.
Spinge le maniglie cromate sulle porte di cristallo e attraversa decisa il reparto cosmetici del primo piano. Immagino che stia cercando un profumo particolare perché facciamo tutto il giro in trenta secondi, in mezzo a banchi profilati di ottone, commesse meravigliosamente truccate, clienti, vetrine scintillanti, file di boccette eleganti; negli specchi che rivestono i pilastri vedo il nostro riflesso - lei in bianco e rosa acceso, io in calzoni di tela e giacca blu - che compare e subito sparisce. «Immagino che non ce l'avessero.» «No.» «Vuole provare da qualche altra parte?» «Se non c'è da Bullock's, non c'è da nessuna parte» dice sconfortata. Passiamo davanti a un negozio di cioccolata e a uno che vende piatti, senza rallentare. «Di che cosa voleva parlarmi?» «Volevo parlare, ma adesso non sono in vena, e lei?» mi chiede in tono confidenziale, come se ci fossimo prese un pomeriggio per fare shopping e fosse il momento di bere un tè e far riposare un po' i piedi. «Per la verità sì, sono sempre pronta a parlare. È il mio lavoro.» Stiamo passando accanto a un cinema multisala. «L'ha visto Giorni di tuono?» mi chiede. «Ancora no, ma Tom Cruise mi piace.» Un gruppetto di persone si sta mettendo in coda per acquistare i biglietti del primo spettacolo. Senza aggiungere altro, Jayne Mason passa davanti a tutti, mostra alla cassiera non so che tesserino, ottiene due biglietti senza pagare, e rieccoci su un ascensore che ci porta nell'atrio del cinema. Decisamente, questa è una procedura insolita. «Non sono sicura che sia regolare, questo...» «Dài, che ci frega» dice. «Andiamoci a vedere Tom Cruise.» Ed è quello che facciamo. Sul serio. Ci mettiamo a sedere e mangiamo il popcorn, Jayne Mason e io. È proprio il mio genere di film, pieno di azione, e mi piace moltissimo. «Vivi a tutta velocità, muori giovane, e lascia un bel cadavere» commenta Jayne Mason uscendo dalla sala. «Questa battuta la dicevo in un film che ho girato con Stewart Granger. Lui sì che era un uomo di sogno.» È buio. Le piccole lampadine appese agli alberi e le bandiere colorate che sventolano davanti al Food Market danno l'impressione di trovarsi al luna park. Sotto gli ombrelloni gialli dei tavolini all'aperto c'è gente seduta
a mangiare teriyaky e kebab e cheeseburger, le giacche abbottonate fino al collo nel fresco di questa serata di prima estate, e i clienti dei negozi si affrettano con i sacchetti bianchi pieni di acquisti. L'eccitazione mi prende alla gola come al primo appuntamento con un uomo. Mi piace questa persona. Voglio conoscerla meglio. «Andiamo a mangiare. In qualche posto stupendo» decide Jayne, e io sono felice di acconsentire, godendomi l'esperienza straordinaria di passeggiare al fianco di una stella del cinema famosa in tutto il mondo e il piacere segreto di sapere che ora usciremo da un ingresso riservato ai VIP, poi saliremo su una limousine privata e ci faremo portare in qualche posto stupendo. Ci fermiamo davanti a un ristorante italiano con una modesta insegna al neon e un piccolo tendone verde. Tom Pauley ci rivolge un saluto asciutto mentre ci lascia per tornare in macchina. Che razza di lavoro. Niente di strano che scappi in spiaggia appena possibile. Dentro c'è un bar accogliente decorato con tante piramidi di mezzi fiaschi di Chianti e una grossa fotografia di JFK. I muri sono coperti di manifesti cinematografici e di primi piani di Lucille Ball, Don Rickles, e anche del presidente Eisenhower, fra gli altri. Non vedo quello di Jayne Mason. Un signore dalle spalle curve, con un vecchio smoking, dice: «Siamo felici di rivederla, miss Mason» e ci fa accomodare nella sala principale, immersa in una tenue luce rosso aranciata. I divanetti a mezzaluna sono rosso arancio, e nelle lampade di ceramica con i paralumi di Uno le lampadine sono dello stesso colore. Il ristorante è quasi vuoto, e dappertutto ci sono tovaglioli bianchi ritti sui tavoli come un branco di orecchie di coniglio. Passiamo accanto a una vetrinetta piena di modellini di camion e di fotografie dello stesso signore curvo, più giovane di trent'anni, insieme al Papa. Ci sono due tizi che si lamentano di avere perso a Santa Anita, e una coppia, una bionda in ghingheri e un tipo repellente, che parlano di affari immobiliari. I camerieri sembrano troppo vecchi e depressi per far caso alla cliente famosa, ma poi riconosco il protagonista di un telefilm poliziesco e ne deduco che questo dev'essere un locale frequentato da tutta Hollywood, un posto di gran moda. «Con gli uomini non ho mai avuto fortuna, e così ho sempre dovuto arrangiarmi da sola» dice all'improvviso Jayne Mason. Come antipasto prendiamo le zucchine fritte, e in verità le preparano
molto meglio ai T.G.I. Fridays. Jayne beve vermouth e io mi godo la mia Seven Up e i poster appesi al muro. «Il mio terzo marito, il re dell'auto usata, è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Mi trattava come una pezza da piedi. Continuavo a chiedermi come mai la manicure uscisse dal suo ufficio pulendosi le labbra.» Versa un po' d'acqua per entrambe da una piccola caraffa di ceramica a forma di gallo, che è il marchio di fabbrica del ristorante. «Li ha spesi lui tutti i miei soldi. Abbiamo divorziato nel 1959. Una ragazza dell'Oklahoma, senza un soldo e con due figli da mantenere, cos'altro poteva fare se non spremersi il cuore a forza di ballare e cantare? Così ho girato i locali notturni, i bar degli alberghi, le sale di provincia, qualunque buco trovassi da Vegas a Palm Springs a Poophead, Iowa e ritorno. L'ho fatto per anni, e poi ho incontrato Maggie Stockman.» «È una donna in gamba.» «Non ha una vita sua» dice Jayne. «La sua vita sono i clienti.» La Mason mi punta addosso un grissino spezzato. «È un angelo sceso dal cielo. Mi scusi.» Andando verso il bagno passa accanto a una coppia in abiti da città. È divertente guardarli mentre tentano di dirsi: «Quella è Jayne Mason» senza muovere le labbra. Torna con le labbra dipinte di fresco e Magda Stockman ancora in mente. «È stata Maggie a dirmi che dovevo fare dei ruoli drammatici. Ha convinto Joe Papp a correre il rischio con Casa di bambola, e la mia vita è cambiata. Non solo perché è stato un trionfo, ma perché ha cambiato ciò che pensavo di me stessa.» «Ha capito di essere brava.» «Ho capito di essere un'attrice. Ho lasciato la Novantunesima, ho affittato una casa sulle Hollywood Hills e nel giro di tre anni ho vinto il mio primo Oscar. Vede, è tutta una questione di immagine di sé. Quella non possiamo lasciarcela portare via da nessuno.» Un cameriere brontolone ci porta due piatti di cannelloni Dolly Parton. Io avevo studiato il menu, confusa dai gamberetti Mickey Rourke e dal pollo Dabney Coleman, e avevo deciso di prendere quello che ordinava lei. «Sono sicura che lei ha sentito cose tremende su di me: che arrivo tardi sul set, che sono sempre ubriaca o drogata o scortese, ma me lo lasci dire, mi adorano tutti.» Butta giù il drink e dice di nuovo: «i macchinisti mi a-
dorano» con troppa enfasi. Mi chiedo se il cocktail le abbia già dato alla testa. «Mi sto divertendo moltissimo» dico, mentre affondiamo le forchette nei cannelloni rigonfi e cremosi, «ma questo che c'entra con Randall Eberhardt?» Incrocia le mani sulla tovaglia, con un lampeggiare di braccialetti. «Ecco perché ci tengo tanto a portare quell'uomo in tribunale. Nonostante tutto quel che ho dovuto imparare ho ancora uno stupido debole per l'animale maschio, e Randall Eberhardt se n'è approfittato, tanto per cambiare. Ho lavorato troppo in vita mia.» Accetta un altro vermouth. «Sono sicura che lei è troppo intelligente per cascare in simili trappole.» «Dipende.» «Come si regola con gli uomini?» «Faccio di tutto per evitarli.» Jayne Mason getta indietro la testa e scoppia a ridere. «Ma mia cara, come si fa a volere questo?» «Funziona.» Mi guarda perplessa, poi curva le spalle nella giacca di cotone bianco e si dedica al vitello Johnny Carson. «Il mio terzo marito, il re delle auto usate, una volta ci ha filmato di nascosto mentre facevamo l'amore. Non sono in molti a saperlo. Lei ha idea di come sia difficile trovare qualcuno di cui fidarsi?» «Sì, ce l'ho.» «Magda è l'unica che sia rimasta al mio fianco in tutti questi anni. Ringrazio Dio di avermi dato lei, i miei figli e i miei nipoti. Ho passato dei brutti momenti, ma credo ancora nell'amore romantico.» Coglie la piega di condiscendenza nel mio sorriso. «Scommetto che a lei sembra sciocco portare tutto questo trucco. Non lo faccio per gli uomini, lo faccio per me stessa. Mi sveglio la mattina, guardo nello specchio e continuo a metterne e metterne fino a quando qualcosa mi restituisce lo sguardo.» Scoppia a ridere e io rido con lei, anche se tentare di seguire le svolte sempre più brusche della sua conversazione mi ha disorientata. «Ho fatto un musical diretto da Vincente Minnelli. Era una produzione spettacolare in technicolor, e in una scena portavo una cappa di volpe. Be', Minnelli l'ha fatta tingere a New York perché il colore si intonasse con i miei occhi. Perché? Perché era romantico.»
«Credo di averlo visto, quel film.» «Louis Mayer mi diceva sempre che la sua filosofia era di fare bei film sulla bella gente» prosegue con un ampio gesto del braccio. «Abbiamo tutti bisogno di romanticismo, anche lei, cara Ana. Lei è una personcina seria, questo lo vedo benissimo, ma c'è una parte di lei che ha bisogno di fiorire.» Si è sporta sul tavolo, fissandomi con due occhi velati, verdazzurri. Le pupille sono grandi, scure e sognanti nella carezzevole luce rossoarancio, simile a un tramonto. «Non rinunci alla magia, Ana.» È come se mi avesse guardato in fondo all'anima. Sono commossa, intenerita. Annuisco. Vorrei dirle: grazie. Tom Pauley ci tiene aperta la portiera, quando usciamo dal ristorante. «La cena è stata piacevole?» «Piacevolissima, Tom» risponde Jayne un po' brusca. Nella limousine spiega: «Quando dico romanticismo non intendo necessariamente il rapporto fra un autista di sessant'anni e una guardarobiera di venti, non che mi sembri sbagliato in sé, del resto Barrymore era abbastanza vecchio da essere mio nonno, all'epoca, ma voglio proteggere chi lavora con me e ho paura che questi due finiscano male». «Allora Tom e Maureen fanno coppia fissa» chiedo a conferma di quel che ho già visto sulla spiaggia. «Sì, ma al castello non tutti vivono felici e contenti» sospira Jayne. «Proprio no.» Pauley immette la limousine nel flusso di traffico. «Prendi questa.» Mi porge una caraffa a forma di gallo che evidentemente ha appena sgraffignato al ristorante, sotto i miei occhi. «Un ricordo della serata.» Io la prendo. Sembra un innocuo gesto di amicizia. Dopo il cinema e i cannelloni e il vitello e il dolce al formaggio e il caffè espresso mi sento sazia e soddisfatta come un gattino che si stira e sbadiglia beato, e spero che Jayne Mason ricominci a cantare. Come Randall Eberhardt, ho completamente perso la testa. Barbara alza gli occhi quando entro nel suo ufficio reggendo un grande vaso di vetro pesante che contiene due dozzine di rose gialle. «Per me? Ci fidanziamo?» Poso il vaso. «Me le ha mandate Jayne Mason. Le ho trovate stamattina sulla scriva-
nia.» «Perché?» «Perché sono una persona molto comprensiva.» «Tu?» «Il biglietto diceva: "Grazie per essere stata così comprensiva". Siamo andate al cinema e poi a cena, e mi ha raccontato la sua filosofia di vita.» Barbara arrossisce. «Sei stata a cena con Jayne Mason?» «Noi due da sole. Le piaccio.» Mi siedo e appoggio i piedi sulla sua scrivania. «Un'esperienza unica» mormora Barbara invidiosa. «In effetti è stato meraviglioso» ammetto, ancora cullata dal tepore della limousine. "Vivi a tutta velocità, muori giovane, e lascia un bel cadavere". Lo ha detto lei in uno dei suoi film. E io le ho detto: "Ehi, Jayne, bambina, stai parlando di me!".» «Cos'altro ti ha detto sulla sua filosofia di vita?» «Oh, ha raccontato un sacco di vecchie storie di Hollywood, grandiose! Tu saresti impazzita. Come la volta che quel tale ha fatto tingere una cappa di volpe perché si intonasse ai suoi occhi...» «Chi era?» «Il padre di Liza Minnelli.» «Vincente Minnelli? Il regista?» chiede incredula. «Sì, facevano un film insieme e lui ha mandato la pelliccia a tingere a New York... Cosa c'è?» Barbara ha le labbra serrate e il colorito dell'eccitazione si è mutato in un pallore preoccupato. «Quella era Norma Shearer in Maria Antonietta.» «Impossibile.» «È stato uno dei film più eccessivi mai girati. Hanno speso una fortuna per i mobili d'epoca autentici e degli abiti sfarzosi, e il costumista, Gilbert Adrian, ha perfino fatto tingere una pelliccia perché si intonasse meglio agli occhi di Norma Shearer. L'assurdità è che per risparmiare hanno finito per girare il film in bianco e nero. È una storia famosa.» «Ma Jayne Mason ha detto che è successo a lei.» «Non è vero.» «Magari si è confusa.» «E quella battuta, "Vivi a tutta velocità, muori giovane"? Quello era John Derek ne I bassifondi di San Francisco, con Humphrey Bogart.» «Sei sicura?»
«Sicurissima.» So che è inutile mettere in dubbio la memoria e la precisione del Computer Umano. Penso alla caraffa rubata e a quel momento di intimità. I piedi mi scivolano giù dalla scrivania. «Cos'hai?» «Vede le cose e se le porta via, così.» Non so perché questo debba essere tanto irritante e sconvolgente. «Magari recitava.» «Non credo.» «Magari è pazza.» «Non è pazza.» Barbara è sgomenta. Neanche il Computer Umano riesce a elaborare questo problema. «Non capisco. Questi sono fatti. Ha mentito sfacciatamente. Che arroganza incredibile.» Ma il problema io l'ho elaborato anche troppo in fretta. «Mente. Mente su tutta la storia.» «Sul dottore?» Annuisco. Credo di essere sul punto di piangere. «Fa' una verifica con il dottore» mi consiglia dolcemente Barbara. «Devi. Per Galloway. Solo un'altra verifica.» 17 Rintraccio Donnato nel ristorante self-service del pianoterra dell'edificio. Si è trovato un posto dietro a un pilastro dove nessuno può scovarlo, e sta finendo una fetta di torta di mirtilli leggendo il "Wall Street Journal". «Sono fra l'incudine e il martello, Donnato.» Gli racconto i miei guai mangiando il pezzo di crosta che ha lasciato nel piatto. «Mi serve qualcosa per Galloway. Non posso andare a dirgli che il viaggio a Boston è stata una fregatura e che da allora sono andata a caccia di farfalle. Bisogna che scopra da sola se il dottore è colpevole.» Una donna indiana in un sari di seta gialla si fa strada fra i tavoli fino a quello accanto al nostro e posa con un gesto stanco il vassoio. Un'altra impiegata statale che si sforza di trascinarsi fino al prossimo weekend di tre giorni. «È ora di controllare la fonte. Penso che dovrei farlo in incognito. Mettermi addosso un microfono, andarci come paziente, chiedere al dottore
degli analgesici e vedere se me li dà.» «Perché non l'hai usato prima, il microfono?» «Non ho mai avuto le prove per farmi approvare da Galloway una missione in incognito.» «E non le hai ancora.» «Giusto. Ma voglio farlo lo stesso.» «Senza approvazione?» Annuisco, inghiottendo l'ansia che mi sale in gola come un conato di vomito. «Lo so che è un po' irregolare...» «Molto irregolare.» «Vorresti venire anche tu? Staresti all'ascolto della ricevente?» «In un'operazione del genere? E se va male?» «Non può andare male, è troppo semplice. Tu e io l'abbiamo già fatto un milione di volte.» Donnato si strofina la barba contropelo con l'impazienza di quando vuole scacciare un pensiero fastidioso. «È un rischio.» «Un rischio calcolato.» Donnato scuote la testa. «Non fa per me.» «Ti capisco.» Avvampo, e di colpo mi sento una povera sciocca, completamente abbandonata. «Va bene. Metterò un registratore in borsetta.» Donnato vuota il bicchiere della limonata. «Pumpkin si è iscritta alla facoltà di legge, te l'avevo detto?» «Buon per lei.» «Speravo che aspettasse fino a che Jeremy arrivava alle superiori, ma mancano due anni.» «Se la passa male?» «Studia con un insegnante di sostegno, ma visto che ha un disturbo da deficit di attenzione - è l'ultima diagnosi che gli hanno fatto - non si sa mai. Rochelle non ha voluto aspettare.» Si alza e va a gettare gli avanzi. Il ristorante self-service odora di hot dog immersi nell'acqua unta. Passiamo accanto a un tavolo di colleghi; un giapponese che mangia con i bastoncini pescando da un contenitore di plastica del cibo che s'è portato da casa, due bianchi in maniche di camicia, e una ragazza filippina con una borsetta finto Gucci. Ma cos'avranno mai da dirsi? Quando arriviamo alla porta me la apre.
«Ci sto» dice. Gli do un'occhiata riconoscente, ma lui sta guardando in fondo alla piazza, dove gli uomini di una troupe cinematografica dispongono sedie pieghevoli di tela, fanno passare cavi elettrici attraverso gli arbusti dell'aiuola, alzano sul treppiede una grossa e sgraziata macchina da presa, e aprono certe scatole nere piene di materiale elettrico. Una folla di impiegati del Federal Building fissa a bocca aperta un'attrice televisiva con una criniera bionda dall'aria familiare. Penso che se si trattasse di Jayne Mason, provocherebbe una vera e propria sommossa. Noi passiamo in mezzo alla troupe finché un ragazzino col walkie talkie ci ferma e ci fa fare il giro fino all'ingresso laterale. Non mi piace farmi comandare dai civili, e poi odio che mi chiamino "Madame". Dovremmo esserci abituati a veder girare gli esterni a Los Angeles, è un bene per l'economia locale e c'è chi lo trova eccitante, ma per quel che mi riguarda è solo una seccatura, tutti questi tizi pieni di sé che occupano la nostra piazza come se l'avessero comprata, perché, diciamolo, la gente del cinema è speciale, vive in un altro mondo. Mentre noi, qui nel ristorante, siamo tutti uguali. Il cubicolo dove ritiriamo l'equipaggiamento per la sorveglianza si trova all'angolo sudest del garage, dietro una porta senza indicazioni. Detesto andarci, perché l'impiegato che ci lavora ha metà faccia coperta da una orribile voglia color porpora e ha compensato il difetto diventando servizievole fino alla nausea, e accompagna ogni colloquio con innumerevoli inchini e cenni del capo. Ha un televisorino tascabile che trasmette telenovelas, e appese al muro tre cartoline ricordo delle vacanze di qualcun altro; sta tutto il giorno nella sua ordinatissima e buia conigliera, coi registratori e le telecamere ben numerati e riposti sugli scaffali metallici. Mentre compili i moduli in duplice copia capisci che se esiste un'anticamera dell'inferno è questa, e se ha un custode condannato a soffrirci per tutta l'eternità dev'essere proprio questo poveraccio con il viso deturpato; forse, però, lo sgomento che provi si addice all'atto che stai per compiere, alla soglia che stai per varcare: spiare i cittadini, registrare i loro gesti più intimi. Ottengo un appuntamento col dottor Eberhardt dicendo all'impiegata della reception che un tamponamento subito di recente mi ha lasciato un mal di schiena insopportabile. L'idea me l'ha suggerita l'incidente di Boston, che mi dà ancora qualche fitta se mi sforzo nuotando a farfalla. Chie-
de chi mi ha fatto il nome del dottore e per un momento pauroso non trovo una risposta. Poi: «In palestra ho sentito due signore che parlavano di lui. Dicevano che è il migliore». «Lo pensiamo anche noi» risponde cordialmente la ragazza. Le dico che mi chiamo Amanda Griffin e lei mi dà un appuntamento per le 9 e 45 dell'indomani. Dalla pila di vestiti posati sul fondo del mio armadio ripesco una gonna grigia a pieghe e una blusa di seta color mirtillo che risalgono ai miei primi tempi all'Fbi, quando pensavo che per fare carriera bisognasse vestire elegante. Dopo qualche missione in incognito, con appostamenti di dieci ore seduti in macchina, ho abbandonato i tailleur e i tacchi alti e ho cominciato a portare ciò che più mi piaceva, scoprendo che era molto più divertente essere una dei ragazzi invece della donna in carriera tutta impettita. Nella scatola dei gioielli trovo un giro di grosse perle artificiali, e nel cassetto stracolmo della stanza da bagno un vecchio rossetto color vino. È un rito eccitante, come prepararsi ad andare in scena, e anche il nervosismo è lo stesso. Mi guardo allo specchio e ci vedo riflessa la parola "normale". Sono compiaciuta della trasformazione. Si adatta bene ad Amanda Griffin, che è, l'ho appena deciso, segretaria in uno studio legale. Mi sto mettendo sulla spalla la tracolla di una borsetta imitazione lucertola che nemmeno sapevo più di avere e ho le chiavi in mano quando suona il telefono. È Poppy. «Non posso parlare, sto seguendo un caso, quello di Jayne Mason.» «Ho bisogno di cinque minuti del tuo tempo.» «Ti posso richiamare?» Come al solito ciò che dico non significa niente. «Dovresti andare a quella banca di Wilshire, come si chiama...» «La Security National?» Poso le chiavi sul tavolo ma le tengo ancora strette in pugno. «Devi prendere delle carte dalla mia cassetta di sicurezza.» Mi costringo a lasciar uscire il respiro che trattenevo per la frustrazione. «Voglio il mio certificato di nascita, il testamento, tutto quello che ci trovi, porta via tutto.» «Okay.» «Ci aspetta una battaglia, Annie.» Ormai fremo di impazienza, e l'unica cosa che riesco a immaginare è Poppy impegnato in una causa con il vicino che non gradisce la sua abitu-
dine di parcheggiare la Buick occupando due posti. «Ne possiamo parlare più tardi?» «Il dottore dice che ho il cancro ma io gli ho risposto che sono cazzate.» Un fluido chimico gelido mi scorre nelle viscere. «Che significa?» «Be', sai, radendomi la barba mi sono trovato come dei bozzi sul collo.» Il mio pugno si apre. Le chiavi hanno lasciato profonde impronte sul palmo della mano. «Sembra una cosa seria.» «Ma va'. Non c'è da preoccuparsi. Non sarà questa che mi frega.» All'improvviso ho bisogno di andare in bagno. Devo essere a Santa Monica fra dieci minuti. «Vengo da te appena posso.» «Non è necessario. Mandami le carte per posta. Non mi succederà niente. Jayne è la mia ragazza ed è prigioniera dei cattivi. Corri a salvarla.» Donnato si ferma a un parchimetro davanti alla clinica ortopedica Dana. Apre una valigetta. Dentro c'è un registratore collegato a una radio ricevente. Metto la trasmittente nella borsetta a tracolla. «Per chi ti fai passare?» «Amanda Griffin. È segretaria in uno studio legale e abita a Mar Vista coi suoi due gatti.» La mia voce ha uno strano suono sordo. «Resta sul semplice» mi ammonisce Donnato, infilandosi l'auricolare. «E qualunque cosa tu faccia, non tendergli trabocchetti. Parla nella borsetta.» Canticchio nella ricevente e gli aghi del Nagra oscillano. Senza dire altro scendo dalla macchina, attraverso il marciapiede e salgo gli scalini che mi portano allo studio del dottor Eberhardt. Appena mi accomodo su uno dei sedili ricurvi grigio e pesca una giovane donna in camice bianco apre una porta chiedendomi a bassa voce: «Amanda Griffin?». Mi accompagna in un ambulatorio. Sul lettino c'è una vestaglietta di cotone ripiegata. «Si tolga tutto tranne le mutandine. Si metta la vestaglia con l'apertura sulla schiena. Il dottor Eberhardt verrà fra pochi minuti.» Esce. Io poso la borsetta con la trasmittente su una sedia accanto al lettino. Comincio a spogliarmi, e mi accorgo che sotto il collant sobrio che ho
scelto con tanta cura, non ho le mutandine, e che dovrò affrontare il dottore, l'indiziato di questa indagine, completamente nuda. Stringendomi addosso la vestaglietta, a disagio, zampettando a piedi nudi sul linoleum impeccabile attraverso la stanza e comincio a sbirciare negli armadi e nei cassetti. Trovo parecchi scaffali pieni di un farmaco che si chiama Naprosyn - indicato nel trattamento dell'artrite, recita la scatola garza, salviette, grembiulini da bambino stampati a dinosauri. Tutti gli armadi sono aperti tranne l'ultimo accanto alla finestra, che è chiuso a chiave proprio come ha raccontato Jayne Mason. Mi batte il cuore al pensiero che lì dentro ci siano delle scatole da scarpe piene di stupefacenti importati dal Messico. Bussano alla porta. Mi siedo in fretta mentre il dottore entra nella stanza. «Amanda Griffin? Sono il dottor Eberhardt.» Un sorriso, una stretta di mano asciutta, gli occhi abbassati sulla cartella clinica vuota intestata ad Amanda Griffin. «Lei ha avuto un incidente d'auto e le duole la schiena.» L'ho visto solo quella volta dal vicolo. È più robusto di come lo ricordavo, ma anche un po' più rilassato; non porta il camice bianco inamidato, ma una divisa verde da ospedale con le maniche corte che scopre due bicipiti ben sviluppati. Il taglio dei capelli castano chiaro ha l'aria costosa, e sulla punta del naso porta degli occhiali con la montatura di acciaio. Tenera e indifesa sotto la vestaglietta, mi faccio piccola di fronte all'atmosfera di privilegio che emana da Randall Eberhardt, a quel corpo che trasmette sicurezza, saldamente compreso della sua autorità di medico attestata al mondo intero dal sigillo dell'anello di Harvard. Siede disinvolto sul lettino e incrocia i piedi avvolti in due soprascarpe di carta azzurra. Lanciandomi uno sguardo affabile da sopra le lenti mi chiede: «A che velocità andava quando è stata investita?». «Ero ferma. Un disgraziato mi ha tamponato mentre aspettavo il verde a un semaforo. In Cushing Avenue. È successo a Boston.» «Sono di Boston» replica lui. «So bene come guidano, nel Massachusetts.» Scrive qualcosa sulla cartella. Io guardo il gioco dei muscoli sul suo avambraccio liscio e abbronzato. «Lei è in ottima forma» dice Amanda Griffin, che è un po' sciocchina. «Si fa molta pesistica a Boston?» «Mai come qui. Io sono costretto a fare sport per due ragioni: per la mia professione e per tenere il passo coi miei bambini.» «La fanno correre, eh?»
«La piccola è un'alpinista. Secondo me è una scimmietta. Arrivo a casa e la trovo seduta sul pianoforte. Se la vedesse fare l'equilibrista in cima allo scivolo con i bambini di sette anni, mi fa venire le palpitazioni. E pare che il fratellino segua le sue orme. Guardava nello specchietto retrovisore quando è stata investita?» «No, guardavo in basso, cercavo di leggere una cartina.» «Probabilmente le ha risparmiato il colpo di frusta.» «Io non ho figli, non sono neanche sposata» dichiara Amanda. «I bambini ci fanno capire che cos'è veramente importante.» «E che cos'è veramente importante, dottore?» «Per me, l'unica cosa veramente importante è la mia famiglia, mia moglie e i miei figli.» «E fare un sacco di soldi aiuta.» «Guadagnare bene mi piace» ammette Randall Eberhardt con tranquillo candore, grattandosi il naso. «Ma non mi interessa fare sfoggio di ricchezza, perciò in questa città la gente mi vede come un extraterrestre.» «Lo so. Qui ci sono stelle del cinema ed esibizionismi dappertutto.» «Le dirò, in realtà la gente di spettacolo mi diverte. Io sono un gran noioso, non ho fantasia, e così li trovo affascinanti.» Adesso capisco perché a Jayne Mason piaceva portarsi in giro Randall Eberhardt nella sua limousine. Nello smog immobile e fitto di Los Angeles è un refolo impertinente del New England e del suo autunno frizzante, ed è anche simpatico. Continua a rivolgermi domande, trascrivendo le risposte di Amanda Griffin con una stilografica Mont Blanc stretta fra grosse dita vigorose. Tra i capelli color sabbia non c'è nemmeno un filo grigio, ma l'età e la fatica sono evidenti nelle grandi borse scure che ha sotto gli occhi. Adesso spetta a me scoprire se lì sotto si nascondono altri segreti. «Ho bisogno di qualcosa per il dolore, dottor Eberhardt. La schiena mi fa un male tremendo. Non riesco a prendere sonno.» Posa la cartella e scende dal lettino. «Vediamo un po'.» Io mi alzo in piedi e resto lì in mezzo alla stanza. Le nostre voci arrivano all'orecchio di Donnato e simultaneamente al nastro magnetico; un dialogo manipolato che più tardi verrà studiato come se fosse un reperto scientifico. Ma il nastro non può registrare l'emozione colpevole che mi comunicano quelle dita tiepide e ferme mentre gli sto davanti, senza vestiti; obbedendo
alle sue istruzioni mi volto perché lui possa aprire i lembi della vestaglietta ed esporre la schiena nuda e vulnerabile, mentre le mani intelligenti esaminano lente e curiose la mia colonna vertebrale, centimetro per centimetro. Un medico, un guaritore, saprà anche capire con un semplice tocco dove si annida il dolore? Forse il dottor Eberhardt scoprirà il mio. Non quello di Amanda Griffin, quello di Ana Grey. Dev'essere lì, dentro le ossa, che aspetta solo di essere svelato. Tengo gli occhi fissi sulla carta da parati a righine verde acqua. Poppy è stato visitato in un ambulatorio come questo, un ambiente disegnato da professionisti per calmare e rasserenare il paziente che si sente dire che i noduli che ha sul collo sono maligni, mentre il sole del deserto si scaglia contro la finestra di vetro scuro come una palla di fuoco infernale. I pollici di Randall Eberhardt premono i punti chiave della cresta iliaca e seguono la curva dei fianchi, esperti, sapienti, e io sono come in trance. Fa male qui? Sì. No. Giocando lungo i tendini del collo, col volto che mi ricade in avanti, lo sciamano tocca il mio corpo nudo mentre in macchina Donnato ascolta. È come avere due amanti contemporaneamente, uno che ti accarezza mentre l'altro guarda. Mi posa le mani sulla vita e mi dice di chinarmi fino a toccare le dita dei piedi. La vestaglietta si apre e così le mie natiche nude si offrono al suo sguardo. Dolcemente, lui raccoglie i lembi della vestaglietta e li tiene accostati. Dal cavo delle ascelle il sudore mi cola in grosse gocce che sento cadere sul pavimento. Ora sono sul lettino; lui mi tiene stretto il piede e mi dice di premere contro la sua mano. Con le dita strappo il lenzuolo di carta sotto di me, dicendogli quanto mi fa male, un male da cani, non riesco neanche a respirare. Riaffiora il ricordo di un'altra occasione in cui sono stata altrettanto vulnerabile e indifesa. Ho tre anni e sono nel cortiletto dietro la casa di Poppy nella Dodicesima. È notte e non riesco a vedere tanto bene, eccetto quando i fari delle auto di passaggio nel vicolo frugano fra le fessure della staccionata. Sono anche allora fra due maschi, che mi amano e vogliono avermi entrambi. Uno è mio padre, il giovane immigrato, e l'altro è Poppy. Discutono gridando. Tirano le mie braccia in direzioni opposte. Mio padre ha la meglio e mi stringe al petto, nel frammento di ricordo più vivido che abbia mai avuto di lui. Mi aggrappo con le braccia intorno al suo collo, con le gambe intorno alla sua vita sottile, mi avvinghio a lui con tutta me stessa. Voglio mio padre, ora, mentre sono qui distesa sul lettino di un me-
dico. Il desiderio è una fiamma che cancella l'emozione di oggi, quella che credevo essere tristezza per la malattia di Poppy. Mentre questa tristezza si dissolve mi accorgo che era soltanto uno schermo che celava ciò che provo veramente per mio nonno, un sentimento che ora si scaglia su di me come quella cometa infernale attraverso la finestra di vetro scuro: vorrei che Poppy fosse morto. E un pensiero che mi fa balzare giù dal lettino. Comincio a raccattare i miei vestiti. «Cosa c'è, Amanda?» «Mi sento molto meglio. Non so cosa mi ha fatto alla schiena, ma ha funzionato.» «Non penso di essere un tale genio.» Mi aggancio rapidamente il reggiseno sotto la vestaglietta. Il dottor Eberhardt ha una mano sulla maniglia della porta. Lo mette a disagio guardarmi mentre mi rivesto. «Passiamo nel mio studio.» «Non credo di averne bisogno, grazie.» Sul suo viso appare un'espressione preoccupata. «Qui c'è qualcosa che non va. Parliamone.» Il mio primo pensiero razionale è: ci ha scoperto. E poi: oddio, è tutto registrato. «Dopo l'incidente ero sconvolta, ma parlarne mi è servito.» Randall Eberhardt mi sta abbastanza vicino da mostrare simpatia e abbastanza lontano da darmi spazio. Dagli occhi scuri è sparito l'interesse professionale; ora mi comunicano sincerità e calma. «La sua schiena sembra a posto. Il tono muscolare è eccellente. Non ha bisogno di radiografie o di fisioterapia, niente del genere. Sono sicuro che può guarire da sola.» «Ma di notte mi torna il dolore.» Eseguo il mio lavoro come un robot ridotto a pezzi che continua a emettere suoni insensati. «Provi con l'aspirina e i bagni caldi.» Mi sono infilata tutti i vestiti, tranne il collant che ho ficcato nella borsetta. Ho addosso una gonna di lana senza mutande e ho i piedi nudi in un paio di scarpe coi tacchi. «Non può darmi qualcosa?» «Amanda, se lei ha un problema con la droga, potrei indirizzarla a una clinica.»
Risalgo in macchina. «Andiamo via.» Donnato riavvolge il nastro con calma. «È stata la peggiore operazione in incognito a cui abbia mai assistito.» «D'accordo, stavolta non vinco l'Oscar, andiamo sì o no?» «Voglio che ti riascolti.» «No» e chiudo il coperchio della valigetta, «grazie.» Donnato non ha ancora messo in moto. «Alla fine ha mangiato la foglia.» «Impossibile.» «Ha capito che non eri una paziente, che cercavi della droga. Non era questo il piano.» Donnato alza la voce in un modo irritante. «Non importa.» «Ti ho visto compiere delle azioni sconsiderate negli ultimi tempi. Una volta hai cercato di distruggere il tuo telefono...» «Donnato...» «Ti ho visto cercare uno scontro insensato con Duane Carter, e poi minacciare una causa che poteva compromettere per sempre la tua carriera, e adesso, dopo avermici tirato dentro, mandi a monte un'operazione in incognito.» «Un'operazione in incognito non autorizzata.» «Ancora meglio.» «Ecco perché sei arrabbiato. Ti ho coinvolto e adesso sei... nervoso.» «Io non sono nervoso, Ana. Mi preoccupo del tuo equilibrio.» Sto zitta. Faccio due respiri profondi. «Appena prima di venire qui ho saputo che mio nonno ha il cancro. So che non dovrebbe influire su un'indagine, ma non è andata così. Mi dispiace.» «Come sta?» «Conosci Poppy. Ce la farà.» «Bene.» Ma ancora Donnato non mette in moto. «Ho paura che tu abbia tirato troppo la corda. Succede a stare sempre all'erta, a mangiare minestre in scatola a mezzanotte e a non avere una vita propria. Se sei arrivata al limite, comportati da adulta e fatti aiutare. Harvey McGinnis è lì apposta» dice, riferendosi allo psichiatra che il Bureau tiene alle sue dipendenze per gli agenti che vanno fuori di testa. «Harvey McGinnis porta la sottana» ribatto. È vero, si mette il kilt per Natale e per i funerali, quando può suonare la cornamusa.
«Io mi preoccupo per te e tu fai la saccente.» È acceso in viso, furioso. «Se fai un'altra pazzia, dovrò notificare a Duane Carter la necessità di sottoporti a una valutazione della tua idoneità all'uso di un'arma.» «Ridicolo.» «A me non pare.» «Ho scoperto quello che mi serviva. Insomma, calmiamoci.» Finalmente avvia il motore e ce ne andiamo. Nessuno dei due apre bocca fino a Westwood. Sono contenta che non sappia niente dell'armadio chiuso a chiave. Adesso l'unico modo di guardarci dentro sarebbe con un mandato del tribunale. Ma non ho bisogno di un mandato. Non ho bisogno di guardare dentro l'armadio chiuso, non ho neanche bisogno di ascoltare il nastro per confermare i risultati della mia indagine. Perché ho capito, già nel momento in cui ha posato su di me quelle sue mani di medico, quelle mani di guaritore, che Randall Eberhardt è innocente. 18 Metto il mio vestito blu scuro e vado da Galloway. «Non sono riuscita a trovare conferme alle accuse di Jayne Mason contro il dottor Randall Eberhardt.» Galloway ha chiuso le finestre per difendersi dal pomeriggio abbagliante. Siede perfettamente immobile, il gomito posato sul bracciolo e due dita che sorreggono la tempia, e ha un'aria tesa, come se avesse un mal di testa micidiale. «Va' avanti.» «Un accurato controllo sui precedenti del medico non ha dato risultati. L'indagine nemmeno.» «Continua.» La sua passività accigliata dà ai nervi. «Nessun indizio dell'esistenza di stupefacenti illegali, di un contatto in Messico, di reati o di altri pazienti che lo accusino della stessa cosa. Abbiamo soltanto la storia di Jayne Mason, che resta senza conferma. La Mason è stata anche colta a mentire su altri episodi della sua vita, il che fa sorgere dubbi sulla sua sincerità. E poi» qui faccio una pausa, «ho motivo di credere che sia stata lei a rubare la tua fibbia.» «Questa poi.»
«Mi dispiace.» Spostando delicatamente il peso della testa, Galloway la appoggia a due dita dell'altra mano. «E la donna di Boston?» «Non... non è risultata credibile.» All'improvviso mi metto a farfugliare come se avessi le labbra intorpidite dalla novocaina, così Galloway mi chiede di ripetere e sono costretta a dirlo due volte. «L'indagine sulle accuse di Jayne Mason contro il suo medico è stata condotta a termine» continuo «e non è stata riscontrata alcuna irregolarità. Ritengo opportuno che il caso venga chiuso. Mi dispiace. So che non è quello che vorresti sentire.» «Smettila di scusarti.» «Ho fatto tutto il possibile.» Silenzio. «Ti voglio fare una domanda.» Galloway socchiude le palpebre come un coccodrillo insonnolito. «Se il dottore è a posto, perché la Mason lo vuole fregare?» «Non lo so.» «Se la porta a letto?» «Non credo. Secondo me è solo...» «Matta?» «No, un'attrice e una drogata.» Lui annuisce in segno di comprensione. Sa che un drogato è un drogato e non importa se lo pagano cinque milioni di dollari a film; come per Dennis Hill con la cocaina, per Wild Bill Walker col whisky e per John Roth con il sesso, la sua esistenza ha uno scopo solo, soddisfare una brama insaziabile. «Ha bisogno di avere potere sugli altri.» Galloway grugnisce e non dice niente. «Sto stendendo un rapporto ma ho pensato che volessi sapere i risultati quanto prima per via della... situazione politica.» Dopo un attimo Galloway si alza, si liscia i capelli con entrambe le mani e si sistema la cintura dei calzoni, come un vecchio che dopo essere rimasto a lungo seduto vuole rimettersi a posto le mutande. «Ci penso io.» Sembra sollevato. Non più a disagio. Risoluto. Mi dice perfino che ho fatto un buon lavoro. Quando riferisco a Barbara tutto il colloquio, parola per parola, lei si
congratula con uno schiaffetto sul palmo della mia mano aperta, sicura che a fine mese avrò la promozione alla sezione Rapimenti e Estorsioni. Senonché, un'ora dopo, ricevo una telefonata di Magda Stockman. «Ho appena parlato con il signor Galloway e sono molto seccata. Perché ha chiuso il caso?» «Non c'era il minimo indizio per incriminare il medico.» «Non c'erano indizi sufficienti? Ma se le abbiamo fornito tempi, date, dosaggi...» «Lei certo sa che per portare un caso in tribunale non bastano le accuse di una persona.» «C'è qualcosa che non mi quadra.» «Io ero responsabile dell'indagine e sono convinta che il caso andasse chiuso.» «Non sono d'accordo.» «È un suo diritto.» La Stockman ha evitato di alzare la voce, e parla ancora in un tono autorevole e profondo, privo di sfumature, come l'Henry Kissinger degli agenti: «Ci sentiamo molto deluse da lei, Ana». «Ah sì?» «Credevamo che in quanto donna lei avrebbe capito le complesse implicazioni di questo caso.» «In quanto donna» sono furibonda e mi freno a stento per non essere offensiva, «credo che lei e la sua cliente non abbiate capito un bel niente, delle complesse implicazioni del caso.» Ma lei continua senza scomporsi in quel suo tono uniforme, ineluttabile: «Dobbiamo impedire che il dottor Eberhardt possa rifarlo. Jayne voleva trattare la cosa con discrezione, senza clamori, ma non è più tempo di essere discreti. Raccomanderò alla mia cliente di intentare causa a Eberhardt oggi stesso, e può star certa che il mondo intero lo saprà entro domani. Spero che lei non cada sotto il fuoco incrociato, Ana. Mi dispiacerebbe che succedesse a una persona brillante e promettente come lei». Quando riattacco, il Travestimento Agente Antirapine mostra il dito a Magda Stockman. Ehi, non sono stata io. Il giorno dopo il battito sordo del mio cuore mi sveglia alle cinque del mattino. Sto lì a pancia in giù, con la faccia affondata nel cuscino, con tutto il corpo che vibra per le percussioni in chiave di basso, come se ascol-
tassi una coppia di timpani con le cuffie dello stereo. Dato che il caso Mason è sistemato ho deciso che uscirò prima dall'ufficio, andrò in banca a ritirare i documenti dalla cassetta di sicurezza di Poppy, e prenderò l'autostrada per Desert Hot Springs prima dell'ora di punta. Sarà una giornataccia, mi dico, forse è per questo che mi sono svegliata con un anticipo tanto penoso, per essere pronta. Eppure sono così tesa che posso fare solo una cosa, adesso: nuotare. Dovrei arrivare in tempo per l'allenamento delle cinque e mezza dei Southern California Aquatic Masters, alla piscina del Santa Monica College. Incredibile ma vero, ci sono cinquanta persone che si presentano regolarmente prima dell'alba. Si può nuotare per allenarsi, per tenersi in forma o anche solo perché si ha il terrore di perdere il controllo sui propri pensieri. Mi infagotto nella tuta e mi avvio sulla Barracuda in direzione di Washington Boulevard. È ancora buio e ci saranno dieci gradi; correre per le strade deserte è quel che ci vuole per la mia inquietudine. Mi cambio negli spogliatoi freddi, ascoltando le chiacchiere di qualche studente dell'UCLA; questa prima nuotata del giorno è un modo di rinsaldare la loro amicizia. Dopo faranno colazione insieme e si ritroveranno stasera per fare altri cinque chilometri. Sola, esco all'aperto, nel gelo. Le luci sono accese nella grande piscina scoperta, e in fila lungo il muro ci sono i nuotatori nelle loro cuffie dai colori sgargianti, come una foto allegra sullo sfondo del vapore bianco che dalla superficie dell'acqua si alza verso il cielo violetto. Poi diventiamo dieci corsie di gomiti e piedi in sincronia, turbini d'acqua che vanno e vengono come sulle rotaie al ritmo stabilito dall'allenatore. Io sono parte della scena e nient'altro, in quarta posizione, a cinque secondi dal primo, quattro vasche in novanta secondi ripetute sei volte e sotto con la serie successiva. A metà dell'allenamento la mia mente si arrende e accetta il ritmo. Il panico si placa, almeno per un'ora. Quando torno a casa per fare una doccia calda e mettere qualcosa in borsa per il viaggio nel deserto ci sono già due messaggi sulla segreteria. L'agente speciale Capo Galloway mi sta cercando. Adesso ha senso, la mia tachicardia. È come se il mio corpo si fosse svegliato sapendo che il caso Mason non era ancora risolto. Quaranta minuti dopo, coi capelli ancora umidi e i segni degli occhiali di protezione sul viso, entro trafelata nell'ufficio di Galloway. Ha parlato con la mia segreteria dal telefono dell'automobile ed è rimasto imbottigliato nel traffico, così devo guardare fuori dalla finestra il sole ormai alto per venti lunghi minuti, finché lui entra a lunghi passi sbattendo la porta. Fra i denti
stringe un sigaro spento e ha le braccia cariche di giornali. Me li getta con un gesto. Io scorro i titoli: JAYNE MASON DENUNCIA IL SUO MEDICO PER PRATICHE ILLECITE. "IL MIO MEDICO MI HA FATTO DIVENTARE UNA TOSSICODIPENDENTE" DICE JAYNE MASON. "SONO UNA VITTIMA" DICE JAYNE MASON E INTENTA CAUSA PER DROGA. JAYNE MASON SOSTIENE CHE IL MEDICO LE PRESCRIVEVA STUPEFACENTI; COINVOLTO L'FBI. Ho appena il tempo di assorbire un colpo che sembra quello di un secco diretto al plesso solare; Galloway afferra una sedia e la spinge vicino a me, sporgendosi tanto che le nostre ginocchia quasi si toccano. Io indietreggio lentamente sul divano. «Il caso è riaperto.» «Per via della pubblicità?» «Ci puoi scommettere. Ieri sera sono stato al telefono con Washington fino alle undici passate. Adesso il caso Mason è una storia da copertina e per i media diventerà come l'inno nazionale.» «Ma noi abbiamo completato l'indagine.» «A quanto pare non è stata abbastanza approfondita.» «Ieri hai detto che andava bene.» «Ho detto a quanto pare. Poteva andare bene per noi ma per loro no.» E accenna verso la finestra per indicare tutto il mondo dei civili. «Sai bene che quella roba sui giornali è spazzatura. C'è lo zampino di Magda Stockman.» «Esatto. Ma io devo rispondere al Direttore.» «Vuoi riaprire il caso solo per l'immagine?» «Diciamo che è stata una buona indagine, ma che si poteva fare qualcosa di più.» «Cos'altro vorresti?» «Una missione in incognito.» Sbotto: «Già fatto». «Quando?» «Tu forse non ricordi.» «Aiutami tu, Ana.» Con l'indice mi tormento una pellicina. Galloway mi sta fissando con la
perspicacia divinatoria di un ufficiale di polizia sul punto di cogliere in flagrante menzogna un sospettato. «Mi sono fatta visitare dal dottore, in incognito, per vedere se mi dava qualche farmaco illegale. Non lo ha fatto. Anzi, mi ha suggerito di rivolgermi a una clinica specializzata.» «E tu hai fatto questo senza autorizzazione?» «Esatto.» «Chi altro c'era?» «Nessuno» mento. «Avevo un registratore nella borsetta.» So di essere molto rossa in faccia. Galloway scuote la testa esasperato. «Cristo, Ana, ci manca solo una causa per avergli teso una trappola.» «Mi dispiace.» «Ti rendi conto che devo segnalarlo sulla tua scheda?» «Va bene. Ormai la mia scheda comincia a sembrare un bersaglio al poligono di tiro.» Galloway mi fissa. «Se vuoi che fabbrichi qualcosa per incastrare il dottore, lo faccio.» «E io ti butto fuori.» «Allora dimmi cosa vuoi.» Galloway si alza in piedi. «Cosa voglio? Cosa voglio io?» Apre le mani in aria come se volesse afferrare qualcosa di astratto, poi strofina con i pollici le punte delle dita come se quell'oggetto senza nome fosse appena volato via. «Ho capito il mio errore. A New York i media fanno parte della famiglia. Magari non proprio tutta la banda, ma il direttore del telegiornale e il cronista di nera sì - si lavora in due campi diversi, anche se collegati, ma fuori orario ci s'incontra nello stesso locale di Chinatown a mangiare uova foo yung. Qui nessuno conosce nessuno, ogni storia diventa un affare nazionale perché Los Angeles è la capitale del mondo, e chiunque è un avversario perché si entra nel giro solo per cinque minuti, così si hanno solo cinque minuti per fare gol. È diverso...» Sembra che cerchi la parola giusta. «È Hollywood.» «Cosa voglio, dici?» Afferra un giornale e lo tiene in mano, tutto accartocciato. «La vedi la pubblicità di merda che si fa quella? Be', se mi sparano sparo anch'io. Voglio della pubblicità fantastica per l'Fbi, e della stessa scala. A tutto volume, piena visibilità, nove colonne. Voglio che la gente
veda che stiamo facendo il nostro dovere.» «È possibile che il dottore sia stato preso in mezzo» dico con calma. «Forse sarà riuscita a farsi dare un paio di ricette, ma ti dico che è pulito.» «È pulito? Benissimo, allora diciamolo a tutti, scriviamolo a lettere cubitali, così finalmente ne verremo fuori.» Mi dispiace, più di quanto avessi immaginato, che Galloway, con tutta la sua intelligenza newyorkese, si sia rivelato per quel che è, un fifone come gli altri. Chiamo Poppy e risponde Moby Dick. «Cosa fai lì?» «Ho portato tuo nonno a fare la terapia. Siamo appena tornati. Sta riposando.» «Che terapia?» «Terapia radiante.» Quando senti delle parole appena appena sofisticate uscire da labbra abituate solo a bere birra, l'istinto è di controllare se sei sintonizzato sul canale giusto, ma queste sono parole terrificanti, perché significano che Moby Dick è stato obbligato a imparare un nuovo lessico per parlare di mio nonno: il lessico delle malattie gravi. «Digli che arrivo presto, sto chiudendo un caso. Come sta?» «Un po' ammaccato ma cattivo come sempre. Lo conosci, il commissario.» Nel migliore dei casi, per avere un mandato di perquisizione e di sequestro ci vuole una settimana, ma io sono spinta dalla paura. A parte la pressione micidiale di Galloway, so che devo prendere il controllo della situazione di Poppy il più presto possibile, così lotto contro la burocrazia come se sdraiata sulla panca alzassi dieci chili in più del solito, sbuffando e sperando in un miracolo. Faccio la prepotente e la mendicante. Pian piano guadagnamo terreno. Nel tempo record di sei ore ottengo il titolo di proprietà. Mi conferma che l'edificio vittoriano ristrutturato della Quindicesima è di proprietà della clinica ortopedica Dana, il cui consiglio di amministrazione è presieduto da Randall Eberhardt. Vado di persona al Federal Building di Los Angeles Street e litigo con i penalisti addetti alle confische, uscendone con i documenti che attestano che il Procuratore generale dovrà emettere un mandato di perquisizione con ordinanza di sequestro, il quale mi permetterà di en-
trare nell'ufficio del dottor Eberhardt in nome del governo federale e di prendere possesso di ogni oggetto che possa costituire un indizio. Ventiquattr'ore dopo - a tutto volume, piena visibilità - sei massicci sceriffi federali con le casacche arancione da irruzione convergono sullo studio del dottore come se fosse una fumeria di crack a East Los Angeles, accompagnati - nove colonne - da una carovana di reporter, fotografi e operatori con la minicam della stampa locale e nazionale, che hanno avuto la soffiata dal nostro ufficio stampa. Ce l'ho su videocassetta, io che guido la carica e Randall Eberhardt che viene alla reception quando la sua infermiera lo informa che sta accadendo qualcosa di spiacevole. «Buongiorno. Sono l'agente speciale Ana Grey dell'Fbi. Abbiamo un mandato di perquisizione per il suo studio.» Il dottore mi guarda perplesso. «Ma io non la conosco? Non l'ho visitata una volta?» «È possibile. Ci fa entrare?» «No che non vi faccio entrare.» «Ho un mandato.» «Cosa significa?» «Significa che il contenuto di questi uffici adesso è proprietà del governo.» Un mandato di perquisizione e sequestro di solito è il colpo di grazia per i delinquenti, perché vuol dire che finalmente hai raccolto gli indizi necessari a incriminarli. I delinquenti, inoltre, non gradiscono che qualcuno si porti via i loro giochini, cosa che sono abituati a fare agli altri. Si scalmanano e sbraitano, negano tutto o puntano le pistole, cercano di scappare o crollano e si mettono a piangere, ma è molto raro che conservino la loro dignità come il dottor Eberhardt quella mattina. «Questo è il risultato delle accuse oltraggiose che Jayne Mason mi ha rivolto tramite i giornali?» «Non posso discutere di un'indagine in corso.» «Mi piacerebbe saperlo» dice senza scomporsi. «Per il mio personale senso dell'assurdo.» «Forse desidera chiamare il suo avvocato.» «Forse. Non sono mai stato l'attrazione del circo dei media.» Prende il telefono, ma lo riabbassa senza comporre il numero quando vede gli sceriffi che si dirigono verso gli ambulatori. «Un momento, ci sono dei pazienti!»
Io lo supero a passo di marcia come un comandante delle S.S. alla testa di un reparto di fanteria, e la disinvoltura del dottor Eberhardt si tramuta in orrore perché si rende conto che questi barbari indifferenti si apprestano davvero a invadere il suo mondo, il mondo della medicina, come nazisti che irrompono nelle grandi biblioteche polacche e le riducono in cenere, un millennio di ragione che svanisce tra le fiamme. Lo spavento del dottor Eberhardt cresce quando comincia a capire che la ragione non lo potrà proteggere, in questo frangente; e che anche una vita intera spesa a decifrare il finissimo schema logico delle ossa umane può venire annullata da un solo gesto insensato. «Qui c'è un armadio chiuso» dico. Siamo tutti riuniti nell'ambulatorio dove sono stata visitata quando recitavo la parte di paziente. La stanza è affollatissima, ci sono gli sceriffi federali, Eberhardt in camice bianco e due infermiere allibite. «Possiamo avere le chiavi?» Lui fa cenno di sì e una delle infermiere me le porge. Fa caldo, c'è troppa gente che respira qua dentro. Mi avvicino alla serratura come se osservassi la scena dall'esterno, sperando che fra un attimo sarò smentita e perderò tutta la mia credibilità all'Fbi, che le accuse di Jayne Mason saranno confermate e gli scaffali saranno pieni di narcotici: non che voglia veder soffrire Eberhardt, ma almeno tutta questa distruzione avrebbe un senso. «Perché tiene chiuso questo armadio?» «Lavoro molto con i bambini che hanno problemi alla colonna vertebrale.» Randall Eberhardt si inumidisce le labbra come se gli si fossero seccate all'improvviso. «Come sa, i bambini arrivano dappertutto.» Sulla stanza cala un silenzio pieno di tensione e di aspettativa mentre lo sportello si spalanca. Dentro c'è una collezione di orsacchiotti in miniatura. «Me li regalano i pazienti. Una volta li tenevo in mostra ma hanno cominciato a sparire. Poi è capitato che qualche bambino se la prendesse perché mancava il suo orsacchiotto preferito.» Davanti a tutti esamino gli orsacchiotti con la stessa solennità che dedicherei a qualsiasi prova. Fossi sola, credo che sbatterei la testa contro lo sportello. Ci sarà un centinaio di simpatici musetti confezionati in tutti i materiali immaginabili: terracotta, tela, metallo, origami, ci sono addirittura degli orsetti fatti in casa con i batuffoli di cotone rosa e gli occhi di plastica che si muovono. Punto il raggio di una torcia all'interno dell'armadio, cercando doppi
fondi come se tenessi saldamente in pugno la situazione, poi mi raddrizzo. «Cominciamo.» Mentre gli sceriffi impacchettano nelle scatole di cartone le attrezzature mediche e le cartelle dell'archivio, facendosi largo a spallate il dottor Eberhardt va in corridoio, da dove si leva un rumore di martellate. Apre la porta d'ingresso e rimane di sasso alla vista di un fabbro che sta già cambiando le serrature, mentre un altro operaio sta inchiodando sulla pittura grigio tortora un cartello che dice "Proprietà dello sceriffo federale". Poi, di colpo, si trova davanti un mare di telecamere e macchine fotografiche che gli gridano domande sulle accuse di Jayne Mason, è vero che ha distribuito narcotici illegali nel suo studio? E a questo punto arriva lo shock. Si volta, pallido e disorientato. «Non posso crederci.» Ha gli occhi sbarrati e lacrimosi. Io lo prendo per il braccio e pietosamente lo porto via, ricordando che una volta anche lui ha posato su di me una mano compassionevole, e lo guido in un angolo tranquillo della sala d'attesa. Si accascia su una poltrona grigia e pesca con l'aria dissociata di quando si viene violati nel profondo, e corpo e mente hanno un modo solo di sfuggire alla tortura dell'umiliazione: spegnersi. È l'aria di passività disperata che ho già visto nelle vittime degli stupri. Parte quarta LE QUATTRO VIE 19 L'edificio della Security National Bank di Wilshire, dove Poppy ha aperto un conto quando era un giovane agente di polizia a Santa Monica, oggi ospita la Ishimaru Bank of California. Devono aver fatto parecchi lifting dai Sessanta a oggi, ma nonostante tutti questi rimaneggiamenti è rimasto uno scatolone di mattoni beige, dentro e fuori. Immagino che il caveau fosse esattamente uguale, quando Poppy depositò per la prima volta i suoi documenti importanti. Non si spostano i caveau quando si ristruttura. Scommetterei che ogni giorno negli ultimi trent'anni la serratura a tempo è scattata alle 8,45 del mattino e che il funzionario ha girato la manovella, ha aperto la porta tirandola con tutt'e due le mani fra sbuffi e grugniti, lasciandola un po' scostata per meravigliare i clienti con
quello spessore di diciotto centimetri di acciaio. È ancora impressionante, al modo dei mausolei; perché intuisci, dal peso dei blocchi di granito cementati con precisione matematica, che qui dentro niente cambierà mai. Una donna di colore, silenziosa, meditativa, con i capelli a coda di cavallo e alle orecchie lunghi pendenti di cristallo, confronta la mia firma con una scheda e apre un cancello interno. Il battente massiccio della porta che oltrepassiamo è intarsiato da un motivo a scacchiera di ottone e cromo, e dà su una piccola stanza con le pareti coperte di sportelli metallici bruniti in grigio e montati su cardini. Io le porgo la mia chiave. Lei posa la scarpa blu col tacco alto su uno sgabello, si solleva e apre la cassetta numero 638. Alle sue spalle un cartello recita "Aerazione d'emergenza" e fornisce una sfilza di istruzioni. L'impiegata scende dallo sgabello e posa una scatola più lunga che larga su un tavolo all'interno di un cubicolo microscopico, con una porta che posso chiudere se voglio più privacy, e mi lascia sola nell'aria morta. Sono paralizzata da una spaventosa sensazione di tristezza, e mi ci vuole un bel po' per costringermi a sollevare il lungo coperchio di metallo. Mi aspettavo che non ci fosse niente all'infuori del testamento che sbatacchiava nella cassetta vuota; invece è piena di cianfrusaglie, come un cassetto estratto a casaccio da una credenza. In cima alla pila c'è un ritaglio ingiallito del "Santa Monica Evening Outlook" datato 12 settembre 1962. Il titolo dice: AL "PIÙ IGNOBILE DEI LADRI" RIMORDE LA COSCIENZA. L'articolo racconta la storia di un tifoso di baseball paraplegico. I suoi amici lo portano a vedere "l'emozionante partita" al Dodger Stadium e lo trasportano fino al sedile. Lascia in fondo alla fila la sedia a rotelle, che sparisce. Alla faccenda viene data un po' di pubblicità, e dopo qualche giorno la sedia a rotelle viene ritrovata a poca distanza dalla stazione di polizia di Santa Monica, accompagnata da un biglietto: Sono il più ignobile dei ladri, quello che ha rubato la tua sedia a rotelle. Vorrei darti una spiegazione, se ce ne fosse una. Sì, l'ho fatto per scherzo, ma sinceramente credevo che fosse di Walter O'Malley e che l'avessero messa lì per un'eventuale emergenza. Mi rendo conto che anche così è una spiritosaggine scema. Spero che tu possa trovare la forza di perdonarmi. Penso di aver imparato una grande lezione, da questo scherzo che mi si è rivoltato contro. Io non sono una persona così cinica, e spero che sia tu
sia il Signore mi perdoniate questa stupida burla. Mi dispiace. Insieme all'articolo c'è una foto di Poppy che posa la mano sulla sedia a rotelle finalmente recuperata. Ha l'aria giovane e vigorosa coi capelli a spazzola e l'uniforme scura. Si vede bene il profilo del manganello e della Smith & Wesson calibro 38 che porta alla cintola. La didascalia dice: La sedia a rotelle del paralitico, rubata mentre il proprietario assisteva all'incontro della scorsa settimana fra i Dodgers e i Giants a Chavez Ravine, viene ispezionata dall'agente della polizia di Santa Monica Everett Morgan Grey. Al proprietario è stata offerta una sedia a rotelle nuova da parte di una ditta di noleggio. Com'è eloquente, questa reliquia di un tempo in cui Santa Monica era una cittadina costiera sonnolenta e sconosciuta, i ladri avevano una coscienza e c'era chi pensava che avere il nome sul giornale locale fosse un evento tanto importante da imbalsamare il ritaglio nel caveau di una banca. Sotto il momento di gloria di mio nonno trovo dei dollari d'argento tanto consunti che hanno preso il colore del peltro e delle monete da cinquanta centesimi con l'effigie di Kennedy protette da un pezzo di stoffa, così lucide da sembrare nuove. Ci sono anche dei buoni del tesoro serie E degli anni Sessanta, con il valore nominale di cento dollari l'uno e intestati a me, una fotografia color seppia col bordo bianco frastagliato di mia madre bambina in braccio ai genitori, le ultime volontà del nonno (che mi nomina erede universale) insieme al suo certificato di nascita, al certificato di nascita e alla tessera della previdenza sociale di mia nonna, polizze di assicurazione del 1955, un piccolo notes rilegato a spirale con i conti di casa dell'anno 1967, e, dentro una busta, la vera nuziale d'oro di mia nonna e una spilla di ambra. Sparpagliati nella cassetta ci sono un cuoricino d'oro con violetta di smalto, dei braccialetti, e un filo sottile di perle autentiche, regalo per il sedicesimo compleanno di mia madre. Mentre tocco questi oggetti, per un momento mia madre torna da me, con il grembiule di cotone trapuntato dove qualche volta mi era permesso di posare la testa, macchiato di olio e di pastella, il superstite di cento pasti e mille lavaggi: era come respirare l'essenza consolante della protezione. All'improvviso ricordo che le sue calze di nailon odoravano di tannino e delle foglie d'autunno, mentre asciugavano sullo stendipanni del bagno
piastrellato di nero e rosa salmone, e che sul tavolo da toilette della camera da letto, dove teneva gli anelli in un posacenere di vetro, c'era lo Chanel N. 5, mio Dio, usava proprio quello. Cera per mobili. Arrosto al pepe verde. Portava gonne di lana e camicette bianche semitrasparenti chiuse da minuscoli bottoni rotondi e austeri colletti arricciati, quando faceva la segretaria per il dottor Brady, ma sotto si vedeva solo la linea severa delle spalline della sottoveste. Erano camicette a maniche corte che scoprivano la carne morbida e pallida all'interno del braccio, una cosa che ora, in questo sgabuzzino senz'aria, ricordo con sciocca tenerezza. Di sabato lavorava sino a mezzogiorno, e spesso lei e io prendevamo l'autobus di Atlantic Boulevard, oltrepassando i misteriosi segni di confine dell'infanzia - Permanenti da Peg, il Bardlow Top Shop con la Mustang del 1964 dipinta su un ovale girevole - fino allo studio dentistico nell'edificio a un piano di fronte alla camera mortuaria di Long Beach, dove avrei passato tre ore in una stanzetta sul retro che era cucina e laboratorio insieme, mentre lei batteva sui tasti della IBM e rispondeva al telefono; aspettavo leggendo fumetti di Superman e scoprendo le figure nascoste nelle copie trovate in sala d'attesa di Disegno per bambini - Divertirsi imparando. La mamma aveva messo in frigo le piccole lattine di succo di mela Mott, e quando mangiavo il mio panino di formaggio molle sorbivo dalla cannuccia lo sciroppo gelido, sfogliando grossi manuali polverosi con primissimi piani di gengive deformate. Tutto lo studio sapeva di etere. Ma una volta finito il lavoro risalivamo sull'autobus per proseguire verso il downtown, dove lei pagava le bollette agli uffici dell'azienda del gas o dell'elettricità, e fino da Buffum's and Sears a sbrigare le tediose incombenze della massaia: farsi duplicare delle chiavi, comprare tende per la doccia e pentole di alluminio, con la mamma che chiedeva il mio parere su ogni minimo acquisto perché non riusciva mai a decidersi. Il peggio era da Lerner, dove ricordo molte ore atroci passate a giocare dietro le lunghe file di camicette appese mentre lei esitava e si struggeva, incapace di scegliere. Se ero fortunata finivamo per andare da Woolworth's o da Kress, dove giravo in mezzo ai banchi di legno, calamitata dai ricordini della spiaggia, portafogli di plastica con una foto di palme o statuette di conchiglie; ma ciò che desideravo più di tutto - e che non mi fu mai permesso di possedere - erano le medaglie di San Cristoforo, che erano in una vetrinetta sotto chiave perché ogni bambino californiano voleva "un Cristoforo" come quello dei surfisti più bravi. Di colpo ho la sensazione di sedere al banco del bar di Woolworth's, a
tuffare il cucchiaio in un gelato con soda, vaniglia e cioccolato mentre la mamma prende un toast alla cannella col caffè; è un piacere colpevole perché manca solo un'ora alla cena, e lo gustiamo insieme. Mia madre faceva uno strappo alle regole solo molto di rado, sia per me che per lei, forse perché in un certo senso sarebbe stato come derubare Poppy di qualcosa, ma quei pomeriggi di sabato lo erano, uno strappo: stavo sola con lei, lontano dal nonno, e ora mi rendo conto che era proprio quello, il motivo sottinteso della nostra goffa, ignara felicità. Perché dopo il viaggio di ritorno in autobus, dopo aver trasportato le pesanti borse della spesa oltrepassando l'impianto di trivellazione che pompava petrolio giorno e notte dallo spiazzo cintato accanto a casa nostra, saremmo inevitabilmente arrivate all'edificio di mattoni rossi di Pine Street e al suo unico occhio. Da bambina vedevo così casa mia perché un arbusto di nespole copriva una delle due finestre della facciata, e l'altra, nascosta da una tenda verde oliva, sembrava spiare fra le persiane grigie con vitreo disprezzo. La casa era nuova quando Poppy la comprò, l'unica casa di mattoni in tutta la strada. Era tutta abbottonata, sprangata come un bunker, con un praticello quadrato tosato con precisione a cerchi concentrici, e nessun ornamento tranne una cassetta delle lettere nera piantata su un palo. Una innovazione degli anni Sessanta fu la cucina con gli elettrodomestici giallo vivo, con l'orologio incassato nel fornello che naturalmente segnava gli orari di Poppy: «Chiedi al nonno cosa vuole per cena..». «Mangeremo quando Poppy sarà pronto...» Guardando i conti di casa, scopro che per le nostre due stanze nella casa spartana del nonno, mia madre pagava l'affitto, 54 dollari e 67 centesimi al mese. Mi manca in questo momento, voglio farmi stringere da quelle braccia coperte di lentiggini, voglio che il nostro legame, spezzato non solo dalla morte ma da una misteriosa invisibilità per tutta la mia prima infanzia, guarisca e si riannodi. Ma come? Invece di avvicinarsi, la sento che svanisce e di nuovo si allontana da me, eclissata come sempre da Poppy. Cos'era la sua vita umbratile in confronto alle visite eccitanti e paurose al quartier generale della polizia nell'audace palazzo di vetro azzurro della Broadway? Poppy mi guidava negli uffici ronzanti di attività dove tutti pensavano che ero tanto carina, e poi, se non c'erano detenuti, mi faceva visitare proprio le celle con i loro terrificanti gabinetti di acciaio. Se lo aspettavo fuori, chiamavo per nome i suoi amici e sfioravo con le dita la grossa targa di ottone dell'atrio, il bassorilievo di un poliziotto che proteg-
ge un ragazzo e una ragazza - "Per non dimenticare" e sotto, Associazione degli agenti di polizia di Long Beach - con una specie di emozione sessuale preadolescenziale. Poppy mi portava alle feste di Halloween, e la mamma restava a casa. Mi portava a fare il surf senza tavola sui frangenti di Shoreline Drive, sfidandomi a rialzarmi e a rifarlo senza badare a quante volte le onde mi avevano fatto capriolare sull'acqua: e lei dov'era? Timida, passiva, spaventata, schiva fino a dissolversi, sotto i miei occhi, in un cadavere di quarantacinque chili. Alla fine aveva la pelle verde, neanche la forza di girarsi nel letto d'ospedale, e stava lì sul fianco dandomi le spalle, col braccio che tremava per alzarsi sopra la curva smagrita dell'anca, una parola, il mio nome, pronunciata mentre io intrecciavo le mie dita di quattordicenne fra le sue così fragili e aride. Eppure non se n'è ancora andata del tutto, e... forse significavo qualcosa, per lei. Chi altri avrebbe potuto conservare il documento che ora tengo fra le mani, e a quale scopo, se non per farlo ritrovare un giorno da sua figlia, cacciato in fondo a una cassetta di sicurezza dentro a un cartoncino di auguri di compleanno mai usato chiuso in una busta? È il suo certificato di matrimonio, emesso dal municipio di Las Vegas, 3 agosto 1964. Attesta che in quella data Miguel Sánchez e Gwen Grey, mio padre e mia madre, si sono sposati. Lo fisso desiderando una cosa sola: che la donna di colore con la coda di cavallo si puntelli per bene sulla moquette beige con le sue scarpe blu a tacchi alti, che con una bella spinta chiuda la porta di acciaio e dia un giro intero alla manovella di ottone, sigillando me e ciò che so in una cripta buia e senz'aria, dove i segreti vengono sepolti proprio perché niente cambi mai, in eterno. Quando suono il campanello e Poppy non mi apre entro con le mie chiavi. Lo trovo seduto sul balcone con gli occhi chiusi, la faccia rivolta al sole pomeridiano. Sembra quello di sempre. Porta i soliti calzoni color tabacco e una polo gialla aperta sul collo, i piedi nudi negli infradito incrociati su un tavolino di plastica. Le grosse mani quadrate - rossastre e pelose per l'età - sono posate sul petto. Con la testa che penzola, russa. Perfino adesso un'antica ammonizione mi impedisce di svegliarlo: «Il nonno ha bisogno di dormire». Resto in casa, comincio a raccogliere le tazze da caffè e i bicchieri e li porto in cucina. Sul tappetino di gomma scura del lavello, accanto allo spazzolino di legno per i piatti con la testa di
cotone soffice che Poppy usa da anni, è rimasto qualche avanzo d'uovo. Mi vedo davanti le mani rosse e insaponate che grattano via uova e bacon dai piatti di melamina verde e un'ondata di ripugnanza, travolgente come i frangenti di Long Beach, quasi mi sommerge. Poso le tazze sul ripiano con un rumore di acciottolio ed esco al sole. «Poppy. Sono qua. Svegliati.» Lui apre gli occhi e sorride. «La donna del giorno.» Io resto fredda. «Perché dici così?» «Hai beccato quello schifo di dottore che tormentava Jayne Mason.» «Più o meno.» «Ehi, è su tutti i giornali. Guarda, ce l'ho qui.» Toglie i piedi dal tavolino e si alza. È ben saldo sulle gambe. Lo seguo oltre le porte finestre scorrevoli, nella frescura buia del soggiorno. Ho ancora delle macchie di luce nel campo visivo. Lui raccoglie un pacco di riviste e giornali posati sul televisore. «Sei una celebrità.» Ma non c'è nessun tono di congratulazione nella sua voce inespressiva. Mi fissa negli occhi prima di tendermi i giornali, e dietro la bella maschera di naso forte e guance scavate c'è un infantile broncio di invidia. Naturalmente non sono affatto una celebrità. Negli articoli raccolti da Poppy, che vanno da "USA Today" al giornaletto locale, io non vengo mai nominata. Dell'Fbi si dice che è coinvolto solo marginalmente. La storia importante è quella della causa multimilionaria intentata contro "il medico degli atleti e dei divi" dalla "regina dello schermo" Jayne Mason, con abbondanza di commenti pepati forniti dalla "potentissima agente" Magda Stockman. L'immagine più sfruttata su tutti i media è un montaggio fotografico, da una parte la Mason e dall'altra Eberhardt. Lei è stupenda e vulnerabile, lui sembra ingobbito e colpevole. «Di solito non ti interessi tanto dei miei casi.» «Questo è diverso, è Jayne, la mia ragazza. Quel dottore andrebbe impiccato. Cosa bevi?» «Dell'acqua.» «Buona idea. Oggi niente alcol.» Va in cucina, e io resto in piedi. Quando torna coi due bicchieri d'acqua lascio cadere sul tavolinetto la busta gialla che stringevo in mano. «Ho preso i documenti dalla cassetta di sicurezza.» «Non c'era bisogno che facessi il viaggio. Il servizio postale degli Stati Uniti andava benissimo.»
Oggi fa apposta a trattarmi con sufficienza, a non ringraziarmi per la pena che mi sono data, a non riconoscere i risultati che ho ottenuto o forse queste sottili umiliazioni, queste manovre vanno avanti da anni? La morsa della rabbia mi stringe la gola e minaccia di soffocarmi. Sono costretta a portare le mani al collo per aprirla a viva forza e poter respirare. «Ho fatto il viaggio per mostrarti quanto sono preoccupata per te, Poppy.» Metto nella frase un rabbioso sarcasmo ma lui non se ne accorge. «Sto bene.» «Davvero?» «Be', le radiazioni mi danno sonnolenza e la chemioterapia non è un viaggio di piacere, ma cerco di prendere le cose come vengono.» «Qual è la diagnosi, di preciso?» «Dicono che è un linfoma.» «Chi è il tuo medico? Vorrei parlargli.» «Non è necessario.» «Non puoi affrontare tutto da solo.» «Ho degli amici nel condominio. Una fila di signore che vogliono farmi da infermiere.» «Non fare il furbo con me, Poppy.» Con l'indice pugnalo lo spazio vuoto che ci separa. «Devo sapere il nome del tuo medico.» «Va bene.» Vinto questo round, soffio fuori un respiro a denti stretti. Sono ancora in piedi. Lui è seduto sul divano a gambe accavallate, gli occhi perduti nel vuoto in un'assenza tetra, come se io non ci fossi. Siedo in una poltrona che però è troppo profonda per piantare i piedi ben saldi sul pavimento, e troppo lontana da Poppy per costringerlo a guardarmi. Cerco di trascinarla più vicino ma le gambe si impigliano nel tappeto infeltrito. Per un momento resto immobile come un tuffatore sull'orlo del trampolino. Da bambina mi bloccavo nel vedere l'acqua così lontana. Una volta, quando la fila di bambini che mi seguivano aveva cominciato a farmi versacci perché non riuscivo né a saltare né a tornare indietro, una istruttrice ha dovuto venire da me, prendermi sotto le ascelle e lasciarmi cadere in piscina come un lastrone di pietra. Ma ecco che è ritornata, la me stessa sana e muscolosa, e afferra con fermezza l'altra me stessa tremante di paura. «Guardando nella cassetta di sicurezza ho trovato delle cose. I gioielli li ho tenuti; e poi c'era un certificato di matrimonio dei miei genitori. Tu non mi avevi mai detto che erano sposati.»
«Chi era sposato?» «Miguel Sánchez e Gwen Grey. Ti suonano familiari questi nomi?» «Dove vuoi arrivare?» «Ci ho pensato per due ore e mezza, mentre venivo qui da Los Angeles. Ne ho avuto di tempo per pensarci e ripensarci. E sono arrivata alla conclusione che tu e la mamma mi avete sempre mentito su mio padre, sulla mia famiglia e su chi sono e da dove vengo.» Con le ultime parole la voce mi tradisce e si spezza. «Ti ho detto di lasciar perdere quel figlio di puttana» scatta Poppy. Nel triangolo d'ombra che taglia in due la stanza i suoi occhi sembrano neri. «Ha abbandonato te e tua madre, te lo vuoi ficcare in testa?» «A quanto pare non l'ha abbandonata, visto che sono scappati insieme per sposarsi. Tu magari non lo sapevi.» Con amarezza: «Lo sapevo». «Perché hanno aspettato quattro anni dopo che ero nata?» Ci fronteggiamo apertamente, adesso. Poppy sta in guardia, immobile come un serpente. «Fammi provare a indovinare.» Dentro il petto sento una pressione enorme, una specie di orrendo dolore diffuso. «Tu hai minacciato mio padre e ti sei comportato da bigotto furibondo finché non sei riuscito a cacciarlo via.» «Sono io che ti ho allevata!» sbraita Poppy, facendomi sobbalzare. «Maledizione a te.» Io lo ripeto alzando la voce come lui: «Mio padre se n'è andato perché tu l'hai cacciato via». «Un bracciante con le pezze al culo mette incinta mia figlia e poi» si ferma per scuotere la testa, quasi ridendo, «e poi torna ed è sempre lì... cinque anni va avanti questa storia. Poi se la sposa contro la mia volontà e questa è stata la dannata goccia che ha fatto traboccare il vaso.» «Magari» suggerisco «la verità è che lui l'amava.» «Bada a come parli o ti prendi una sberla.» «E magari lei amava lui.» Ci fissiamo. Io non mi scuso e non mi rimangio quel che ho detto. «Parliamoci chiaro adesso, Poppy, che ormai scende il sole. Chi era Miguel Sánchez?» Silenzio minaccioso. «Veniva dal Salvador?» «La storia era quella.»
«Allora non era messicano.» «Che differenza fa?» «Come si sono incontrati Miguel Sánchez e Gwen Grey, nel 1958?» «È stata così scema da farsi incantare a forza di chiacchiere al drugstore di Patton, quello di Montana.» «E cosa ci faceva un bracciante stagionale in un drugstore di Montana? Si comprava la crema per le mani?» «Le ha raccontato che seguiva dei corsi serali di amministrazione aziendale al liceo.» «Così adesso non è più un bracciante, è un laureato.» «Sono io che ti ho allevata.» Il pugno cala sul bracciolo imbottito del divano e rimbalza. «Mi hai rubata ai miei genitori.» «Ma si può sapere cos'hai? Ti sei messa a fumare crack?» Mi alzo in piedi, disgustata. «Tua madre era una sciocchina ingenua e tuo padre un disgraziato. Credi che volessi per casa una piccola ispanica?» «Basta.» «Ma tu eri venuta più bianca che color cioccolato.» «Così ti sei tenuto la bastarda meticcia.» «È stata un'idea di tua nonna, poi lei è morta. Sono rimasto solo con voi due sul groppone. Secondo te tua madre ce la poteva fare da sola?» «Poteva andare da mio padre e vivere la sua vita, e io avrei avuto i miei genitori.» «Per te bastavo io.» Riesco solo a fissarlo incredula. «Sei ingenua come tua madre» esplode d'un tratto. «Ho dovuto mandarlo via. Vi avrebbe rovinato la vita.» «Così l'hai costretto ad andarsene e ti sei assicurato che non tornasse più.» «In quello non c'entro. Quel deficiente d'un figlio di troia si è fatto ammazzare.» Resto zitta. «Come è successo?» «Te l'ho detto che era un bracciante stagionale. Ha risposto male al capo una volta di troppo, è scoppiata una rissa e s'è fatto ammazzare di botte, tutto qui.» «Perché nessuno me l'ha detto?» «Tua madre era distrutta» continua con la voce contratta. «Non ha mai
voluto che tu lo sapessi. Non riusciva a vedere quel suo lato, proprio non lo capiva che era un bastardo arrogante, una testa calda.» «Dov'è sepolto?» Poppy si acciglia. «E chi lo sa, probabilmente in un campo di fagioli chissà dove. Sta' pur sicura che non l'hanno rispedito a casa con gli onori militari.» «Perché mi dici questa cosa, adesso?» «Perché sono stanco di prendermi tutta la colpa.» Un brivido gelido mi attraversa, poi nel mio corpo qualcosa si assesta, come una giuntura lussata da decenni che torna a posto senza scosse. Me ne rendo conto, ora: ho sempre saputo che mio padre era morto, e morto ammazzato. Ho custodito in me una immagine di lui morente, col viso insanguinato - l'ho sognata diverse volte - e dunque o qualcuno me l'ha raccontato o l'ho sentito per caso. «Nessuno te ne fa una colpa.» «Col cazzo.» «Senti» dico con dolcezza, cercando di essere conciliante, «vuoi dirmi il nome del tuo dottore?» «È vicino al letto, ma che senso ha?» Raccoglie una rivista e si stende sul divano. L'ombra lo taglia in due come la lama di una ghigliottina. Si mette un cuscino dietro la nuca per alzare il viso e la luce del crepuscolo, la luce ambrata degli incubi, dilaga sugli stanchi occhi azzurri, che adesso mi guardano da sopra la pagina con un'espressione di puro odio. Non so dove andare e così vado in camera. Le tende color tabacco sono tirate, il copriletto marrone ben teso. Sul comodino ci sono parecchie medicine nuove, un calzascarpe, delle chiavi, e un conto col nome e l'indirizzo di un oncologo di Palm Springs. Quando me lo avvicino agli occhi, capisco perché mio nonno non vuole che parli col dottore. Significherebbe riconoscere che il famoso, onnipotente Everett Morgan Grey, agente di polizia, salvatore di bambini, difensore della razza superiore, è mortale. Sotto la voce "diagnosi" il dottore ha scritto "linfoma non-Hodgkin di tipo IV B". All'agente speciale Charles González, una brava persona che lavorava alla sezione reati dei Colletti Bianchi, era stata diagnosticata la stessa malattia. Verrà esaudito, il desiderio vergognoso che si è catapultato fuori dal mio inconscio mentre ero sotto il tocco delle mani di Randall Eberhardt: Poppy morirà entro un anno.
20 Da quando ho cominciato a lavorare al caso Mason ho perso i contatti coi ragazzi della sezione Antirapine, arenata com'ero nella terra di nessuno dell'attesa di trasferimento, e adesso che ho bisogno di parlare con qualcuno, qui non c'è nessuno. Vago per il dormitorio come un'anima in pena, fermandomi alle scrivanie abbandonate, finché non mi viene in mente che oggi è l'ultimo venerdì del mese e che ci dev'essere il solito pranzo in comune. Svuoto il distributore automatico di tutti i biscotti alla vaniglia per non presentarmi a mani vuote, ma non c'è nessuno neanche in mensa. Mi dico che saranno andati al ristorante ma poi mi accorgo che c'è della gente seduta a luci spente nella saletta delle riunioni. Sbirciando attraverso le veneziane vedo che sono proprio loro, Kyle, Frank, Barbara, Rosalind, Donnato e Duane, seduti intorno al tavolo con un mucchio di roba da mangiare nei piatti di carta. Ma invece di scambiare le solite battute e di conversare vivacemente, guardano tutti la televisione, concentratissimi. Sullo schermo scorre il filmato di Ana Grey che scatta su per i gradini della clinica ortopedica Dana seguita da una mezza dozzina di sceriffi federali in casacca arancio da irruzione. Avevo prestato a Barbara la cassetta dell'arresto di Eberhardt che mi aveva dato una delle emittenti televisive, ma non mi aspettavo che diventasse un'anteprima pomeridiana. Quando apro la porta, restano sorpresi nel vedermi di persona. «Prendete appunti, ragazzi. È così che si fa.» Scarico sul tavolo i miei biscotti alla vaniglia, poi siedo accanto a Barbara e pesco una fragola dal suo piatto. «Mangia qualcosa» offre Rosalind. «Sono a posto così.» «Pensavo che non ti desse fastidio» dice Barbara riferendosi alla cassetta. «Ma figuriamoci, spero solo che avrai fatto pagare il biglietto.» Guardiamo un primo piano della faccia stravolta di Randall Eberhardt mentre gli passo accanto; la telecamera ci segue in fondo all'atrio. Una si aspetterebbe che i ragazzi mi festeggiassero come dopo l'arresto alla California First, e invece nella sala c'è una sgradevole tensione, come capita, immagino, quando qualcuno lascia un gruppo e il gruppo va avanti senza di lui. «Sarà un vantaggio per te, Ana. Hai l'aria da leader» osserva Barbara. «Non ho l'aria di una che sta per andare fuori di testa?» Mi volto verso
Donnato ma lui è in fondo alla stanza, al buio, e beve il caffè. Il suo silenzio è un rimprovero. Sembra passato un secolo dall'ultimo pranzo di fine mese, quando era in vena di scherzare e mi chiamava "Annie Oakley vestita di pizzo nero". «No» dice Barbara. «Hai l'aria di tenere in pugno una situazione difficile.» «Chiedo scusa» ridacchia Duane. «Ma questo non è lo sbarco in Normandia, qui si entra nello studio di un medico, cosa volete che faccia, che li disintegri con la macchina dei raggi X?» Frank e Kyle reagiscono con un paio di risatine svogliate. «C'erano i media e Galloway ha messo lei in prima fila» ribatte asciutta Barbara. «È significativo.» «E perché mai?» «Perché finalmente qua dentro si accorgono che le donne sanno fare questo mestiere.» Un altro silenzio. Su questo argomento nessuno ha voglia di intervenire. «Duane pensa che è un caso schifoso» spiego. «È un caso che non esiste» dice Duane. «Galloway e il Direttore si fanno delle seghe e basta.» «Sei geloso» sussurra Barbara in tono imparziale, e tocca la perla che porta al collo. «Dov'è il caso? Un mandato di perquisizione e sequestro, e che indizi hanno trovato?» Anche se mi fa piacere vedere Duane irritato, sono costretta ad ammettere davanti a tutti che nello studio non abbiamo trovato niente a carico del dottore, e che, in effetti, all'ufficio del vice Procuratore generale si stanno arrampicando sugli specchi e non sanno ancora se possiamo incriminarlo. «Visto? Un'altra patetica scenetta da circo.» «In questo mondo di eventi spettacolari e opportunità per foto varie si fa di tutto per l'immagine» dice lentamente e in tono ragionevole Kyle. «Ana ha fatto ciò che serviva per il telegiornale delle sei. È un lavoro ingrato, ma qualcuno dovrà pur occuparsene.» La cassetta è finita. Rosalind si alza e va ad accendere la luce. Duane Carter divarica le ginocchia ossute e, appoggiandosi allo schienale, equilibra la sedia sulle gambe posteriori. «Fossi in te mi cagherei addosso. Il caso è ancora aperto e tu non hai nada...» Per fortuna ci sono già arrivata. Ho continuato a pensare al comporta-
mento della Mason quando è venuta in ufficio e quella sera a cena. In fondo ai miei pensieri le pupille dilatate, le mani tremanti, l'improvvisa energia quando è tornata dal bagno non hanno smesso di lanciarmi dei messaggi. «Sappiamo che la Mason fa uso di droga» ribatto secca, cercando di non guardare quel gesto aggressivo di mettere in mostra i genitali. «Sto facendo un controllo dei precedenti penali su tutti i membri del suo staff. Ha ricominciato a prendere stupefacenti e ci dev'essere qualcuno che glieli procura.» Di colpo Duane fa ricadere la sedia. Le gambe anteriori schioccano sul pavimento. «Ma non capisci? Ti fanno correre solo per accontentare la bella signora.» «Per accontentare la sua agente.» Donnato mi trafigge con uno sguardo che dice Ti avevo avvertito settimane fa ma tu insisti a metterti nei casini. «Ha amici molto in alto.» Pare che la frase diverta Duane. «Fra una settimana tu torni qua all'Antirapine, e io non vedo l'ora di darti il benvenuto.» Con l'aria di chi ha tutto il tempo del mondo, esce dalla stanza. Kyle scuote la testa. «Non lo dire» ammonisce Barbara. Io do solo un minuscolo calcetto con la punta della scarpa alla sedia vuota. «Sono una ragazza grande ormai.» Donnato infila il contenitore Tupperware e le posate nere da insalata in un sacchetto della spesa. «Continua così» mi dice con l'interesse personale che dedicherebbe all'uomo che passa lo straccio nei gabinetti degli uomini. Io lo seguo. Ficca la borsa sotto la scrivania e alza gli occhi. Non è contentissimo di trovarmi lì davanti a lui. «E allora come va Rochelle alla facoltà di legge?» «Le piace moltissimo.» «Ma?» «È un momento di transizione.» «Da come lo dici sembra qualcosa di più.» Sospira con impazienza. «È difficile per tutti, no? Di punto in bianco lei non bada più ai bambini, e io dovrei salvare la situazione tipo Superbabbo, però come faccio se resto qua dentro fino alle otto di sera?» «E allora l'insalata chi l'ha preparata?» scherzo io.
«Io. Ecco a che punto siamo.» Comincia a far girare il tagliacarte d'argento che tiene sulla scrivania. «Per lei è una buona cosa studiare legge. Doveva farlo molto tempo fa.» Però, uno scatto dell'indice fa schizzar via il tagliacarte come un'affilatissima stella Ninja. Esito. «Tu sai che Duane può avere ragione. Il caso Mason potrebbe sgonfiarsi e io tornerei in coppia con te a tormentarti. Ce la faresti a sopportarmi?» Nel nanosecondo che gli ci vuole per rispondermi, ogni mia speranza svanisce. «Mi hanno messo in coppia con Joe Positano.» «Chi è Joe Positano?» «Una recluta trasferita da Atlanta. L'avresti incontrato a pranzo, ma non vedeva l'ora di prendere la sua patente dello Stato di California, povero disgraziato.» «Si potrebbe cambiare.» «Cosa?» «Joe Positano. Se tornassi.» Di nuovo la pausa micidiale. «Chissà?» dice Donnato in tono assente, mentre prende la sua fondina ascellare e toglie la pistola dal cassetto chiuso a chiave della scrivania. Mi sento malissimo. «Sei ancora arrabbiato con me per l'operazione in incognito?» Donnato infila la giacca sportiva sopra la fondina. Mi risponde brusco «No.» Poi, con più calma: «E allora cos'hai intenzione di fare?». Per un momento sostengo il suo sguardo. «Restituire un umidificatore» dico. Tutto qua. Mi fa un laconico cenno di saluto, e ci separiamo. Sto seduta su una panchina del centro commerciale e finisco una tavoletta Butter Brittle comprata da See's Candies, una leccornia che mi mangiavo di nascosto uscendo da scuola. Mi sento depressa al pensiero di ogni aspetto della mia vita, tranne per il fatto che ai miei piedi c'è un umidificatore nuovo nella sua scatola colorata e legata col nastrino, così almeno non mi alzerò più col mal di gola, le mattine che a Santa Ana la percentuale di umidità è pari a zero. Magra consolazione.
La conversazione che ho avuto con il medico di Poppy è stata tetra. Ci aspettano mesi e mesi di debilitazione e sofferenze. Mi ha consigliato di affrontarli giorno per giorno; in una situazione come questa non si può chiedere di più alla forza morale di un essere umano. E anche se ho cercato di non farci caso, da quando ho sentito parlare della morte di mio padre anche quel dolore è risalito abbastanza vicino alla superficie da essere udibile, come lo sgocciolio dell'acqua in una grotta. Mi mancano i colleghi e mi manca Donnato. Le nostre innocenti, rassicuranti schermaglie sono finite, e con gli altri ragazzi le cose non saranno più come prima. È cominciato tutto quando ho affrontato da sola quel rapinatore, e la situazione è peggiorata quando sono partita col caso Eberhardt. È questo che mi viene dall'aver seguito la mia ambizione come uno scemo di levriero alle corse dei cani? Ormai il parco è vuoto, e io rincorro ancora un coniglio finto. Non ho nessuna voglia di tornare in ufficio, e così passeggio lungo le vetrine respirando l'aria fresca del pomeriggio; forse un altro acquisto mi farebbe star meglio, ma non so cosa comprare. Sforzandomi, riesco a pensare solo a una confezione di assorbenti. Immaginando che da Bullock's ne abbiano, spingo le porte di cristallo e passo per il reparto cosmetici, asfissiata dal denso sentore di cipria, disorientata dal gioco delle superfici lucide bianche e dorate che si riflettono sulle colonne rivestite di specchi. Quasi mi viene un colpo quando mi imbatto in Jayne Mason. Non nella vera Jayne Mason, ma in una sagoma di cartone a grandezza naturale, identica a quella di Jayne in abito da sera con un bouquet fra le mani che ho visto nella tavernetta di Malibu. Quella doveva essere una prova, perché adesso c'è una scritta che attraversa il bouquet, e recita "Presentiamo i cosmetici Yellow Rose di Jayne Mason". Una ragazza dal trucco perfetto che all'occhiello del camice bianco porta una rosa gialla mi vede fissare la sagoma. «Abbiamo un'offerta speciale sulla nuova linea di cosmetici Jayne Mason. Ogni venti dollari di acquisto regaliamo una borsa a tracolla.» Sono sbalordita. C'è un banco pieno di rossetti, mascara, matite per gli occhi, cipria, fard e smalto per unghie. Sulle confezioni vivaci argento e giallo c'è la firma di Jayne Mason, con la stessa grafia accurata e rotonda che quel giorno in ufficio tracciò sul notes di Barbara. Il particolare incredibile è che questa presentazione sofisticata e complessa sembra comparsa come per magia. Non c'era, quando Jayne Mason ha fatto la sua ricogni-
zione volante nel reparto cosmetici. Adesso capisco che voleva controllare se la sua linea era in vendita, e che non trovandola ci era rimasta male. Ma tutto questo non può essere spuntato dal nulla. «I prodotti di chi sono?» «Di Giselle.» Mi accorgo solo ora che siamo al banco di Giselle, e che Yellow Rose è una loro linea. I loro marchi storici, Youth Bud e Moonglow, che usavo anch'io da ragazzina, sono esposti dietro l'angolo. Dunque Jayne Mason ha prestato la propria immagine a una grande azienda di cosmetici; un affare di milioni di dollari che dev'essere stato imbastito molto prima che incontrasse Randall Eberhardt: certo un accordo che lei e la sua agente proteggerebbero a qualunque costo. «Non vuole farsi fare un trucco completo, offerto da Jayne Mason?» mi chiede dolcemente la ragazza. E mi indica uno sgabello accanto alla sagoma sorridente di Jayne. Io sbotto in una risatina acuta e strozzata che sembra non finire mai. La ragazza sbatte le palpebre e fa un passo indietro. «Me l'ha già fatto, grazie.» Perfino alle quattro del pomeriggio il bar del Beverly Wilshire Hotel trabocca di una folla internazionale di persone intente a scambiarsi merci e servizi, compresa la coppia di squillo che trattano con alcuni giapponesi ben vestiti. Jerry Connell e io riusciamo non so come a riconoscerci da un capo all'altro della sala; mi sembra l'uomo più nervoso tra i presenti. «Le confesso che sono preoccupato» mi dice mentre ci facciamo strada nella ressa. «Duro, il volo da St. Louis?» «La prossima volta mi avverta prima di chiamare, va bene? Mi dica: Salve, sono Ana Grey dell'Fbi. Fra trenta secondi le farò venire un infarto, tanto perché lo sappia.» Scuote la testa e sorride. È biondo e ha due begli occhi azzurri, e porta uno di quegli abiti talmente alla moda che sembrano contemporaneamente retro e futuribili: un pied-de-poule grigio appena accennato, strettino di risvolti. Lo sfioro di nascosto mentre lo guido verso l'ultimo tavolo libero: un cachemire da sogno. Ordiniamo Perrier tutti e due. Connell è ansioso e concentrato, e non riesce a smettere di parlare. «È spaventoso. Giselle è un cliente della massima importanza. Ci affida-
no la pubblicità solo da tre anni, e finora ci hanno dato solo una piccola parte del loro budget, ma con la linea Moonglow siamo andati bene e hanno pensato di provare con la Yellow Rose.» «È stata un'idea della vostra agenzia?» «È un'idea di Magda Stockman. L'ha conosciuta?» Spreme con violenza la fettina di limone che galleggiava nel suo bicchiere. «Un bel giorno ha telefonato, ha detto di essere l'agente di Jayne Mason e ci ha chiesto se eravamo interessati a lanciare una linea di cosmetici per Giselle usando Jayne come testimonial. Poi ha preso un aereo, ha fatto un'ottima presentazione del progetto e il cliente ha accettato.» «Com'è concepito il contratto?» Jerry Connell non riesce a star fermo sulla sedia. Continua ad aprire e chiudere le ginocchia e a tamburellare con le dita sul tavolo. Adesso si tormenta il cravattino di cuoio. «È un accordo di cooperazione fra Jayne Mason e Giselle. Loro fabbricano i cosmetici.» «E Jayne...» «Jayne deve fare gli spot, le fotografie per i punti vendita e per i manifesti, e un paio di conferenze stampa. Le porterà via una settimana di tempo in tutto.» «Quanto la pagano?» «Questo non glielo posso dire...» Schiaccia la fettina di limone con una bacchetta da cocktail. «Ma è una cifra con molti zeri.» «Per una settimana di lavoro.» «Preferiamo considerarlo un riconoscimento pubblico di tutta una vita di successi.» «Fa un bel mestiere lei» gli dico. «Quasi come il suo.» Mi guarda di sottecchi. Si calma un po'. Jerry Connell è un venditore raffinato e competente, e ora sta per avanzare la sua proposta: «Insomma lei mi chiama, agente speciale Ana Grey, e io salto sul primo volo da St. Louis. Ho dovuto disdire il taglio di capelli da Sal. Lo sa lei com'è difficile prendere appuntamento con quel tizio?». «A me sembra che i suoi capelli stiano benissimo.» «Io devo proteggere il mio cliente. Mi dica cosa succede. È un problema serio?» «Ancora non lo so. Quando ha firmato il contratto con Giselle, la Ma-
son?» «Due anni fa. Ci vuole tempo per organizzare queste campagne.» «Dunque il contratto era in vigore, quando lei si è fatta ricoverare al Betty Ford Center?» «Sì.» Ricordando l'appassionato discorso di Magda Stockman sui danni irreparabili causati alla carriera di Jayne Mason dal clamore sollevato intorno ai suoi problemi con la droga, gli chiedo: «E non vi siete preoccupati?». «Ci avevano assicurato che si sarebbe curata e che la faccenda sarebbe stata trattata con discrezione.» «Però è finita sulla copertina di "People".» «Ogni volta che si usa l'immagine di una persona famosa si corre un rischio. Sono imprevedibili. Sono esseri umani.» «Ma non disturbava il cliente, l'idea che la loro testimonial fosse una tossicodipendente?» «Be', non era come iniettarsi dell'eroina, le pare? Quel dottore alla moda l'aveva rovinata. Secondo me tra i dirigenti c'era una certa comprensione.» Mi rivolge un sorriso affascinante. «A chi non è capitato di farsi un po' di Xanax per arrivare in fondo alla giornata?» Mi appoggio al tavolo col palmo delle mani e guardo Connell dritto negli occhi. «Magda Stockman vi ha raccontato che la dipendenza di Jayne Mason era colpa del dottore?» «Sì, e ha detto di non preoccuparsi, che sarebbe finito sotto processo.» Jerry Connell mi fissa. «Non è così?» «No, finché non troviamo qualcosa per cui incriminarlo.» Giocherella con la cravatta, come se suonasse l'ottavino. «D'accordo. Per quanto riguarda il mio cliente, a questo punto probabilmente non importa.» Sta parlando tra sé. «Per il pubblico, l'immagine è abbastanza...» Non termina la frase, con gli occhi perduti nel vuoto, mentre calcola com'è quell'immagine, per il pubblico. «Va bene» conclude. «Giselle è protetta.» «In che senso?» «Nel peggiore dei casi la situazione sarebbe questa: la Mason viola il suo contratto, noi ritiriamo il prodotto e facciamo causa, bim-bam.» Dà due pacche al tavolo e sembra già pronto a risalire in aereo. «Non capisco. Come potrebbe violare il contratto?»
«C'è una clausola etica.» «Vorrei leggerla.» Anche se a St. Louis sono quasi le otto di sera, le luci restano accese, all'agenzia pubblicitaria Connell & Burgess. Da laggiù qualcuno ci spedisce al fax dell'albergo una copia della clausola etica del contratto di Jayne Mason. La leggo una riga per volta, mentre esce dalla macchina. Se la persona in questione dovesse, antecedentemente o nel corso del termine contrattuale suindicato, mancare, rifiutare o trascurare di condursi con il debito riguardo alle convenzioni sociali, alla pubblica moralità e al comune senso del pudore, o dovesse compiere un qualsivoglia atto che getti su di lei il pubblico discredito, che ne faccia oggetto di scandalo o di derisione, o che offenda una porzione, parte o gruppo rilevante della comunità, o si rifletta sfavorevolmente sia sulla persona in questione, sia sull'azienda, l'azienda potrà, in aggiunta e senza pregiudizio di ogni eventuale azione di rivalsa in sede civile e penale, porre termine a questo Contratto in qualsiasi momento successivo al verificarsi di un qualsivoglia evento del genere sopra descritto. Ringrazio Jerry Connell e gli stringo la mano, ripiegando il foglio di carta sottile e riponendolo con cura in una tasca interna della mia valigetta blu. 21 Quando arrivo in ufficio il giorno dopo trovo Duane Carter seduto alla mia scrivania, intento a trastullarsi con il mio gnomo surfista, quello col walkman e i capelli color fucsia dritti sulla testa. «Piantala di toccare il mio gnomo.» Duane sorride. «E alzati dal mio posto.» «Non è il modo di rivolgersi al tuo supervisore.» Per sottolineare le mie parole, lascio cadere sulla scrivania la valigetta di tela blu. Sfortunatamente, il contraccolpo è così forte che mi fa scivolare giù dal naso gli occhiali da sole, ma li blocco con un salvataggio in extremis e continuo a fissare furibonda Duane. «Tu non sei il mio supervisore, quindi fila via.» «Fossi in te non ne sarei tanto sicura. Guarda un po' qua.» Spinge verso di me il "Los Angeles Times" di oggi. Una fotografia gi-
gantesca di Jayne Mason occupa tutta la metà superiore di una pagina. È seduta nella sua tavernetta, in jeans e con i capelli sciolti, l'aria vulnerabile e ingenua e più vera del vero, con gli occhioni senza trucco, come se si fosse appena alzata da una colazione di latte scremato e pane tostato per condividere le sue più cupe preoccupazioni con te, lettore. Sono obbligata a stare lì in piedi mentre Duane cita i passi dell'articolo in cui Jayne racconta come proprio alla terapia di gruppo presso il Betty Ford Center abbia sentito parlare per la prima volta dei medici corrotti che prescrivono dosi eccessive di narcotici ai loro pazienti. In seguito al clamore sollevato dalla denuncia, le indagini sul dottor Eberhardt si sono intensificate fino a raggiungere l'Ordine dei Medici della California, che gli ha sospeso la licenza. L'Fbi non conferma e non smentisce la voce secondo la quale sarebbe in corso una sua indagine, ma dalla sede centrale di Washington sta arrivando un supervisore specializzato in reati connessi all'esercizio della professione medica. «Ti hanno tolto il caso, ragazzina.» «Mai credere a quello che scrivono i giornali» ribatto calmissima. «Certi colleghi d'ospedale dicono che il tuo amichetto Eberhardt era soggetto a crisi depressive.» «Con una vita stressante come la sua chi non le avrebbe?» «Dicono che è un perfezionista, uno che deve farcela sempre e comunque, che non sopporta il fallimento. Che era così fin dai tempi della facoltà di Medicina ad Harvard. Spiegami come mai i media trovano queste informazioni prima di noi.» Si gode il mio sgomento. Abbasso lo sguardo, e mi cade l'occhio su un paragrafo in cui si dice che il dottor Eberhardt "si è chiuso nella sua casa a nord di Montana" e su consiglio del suo avvocato non è disposto a rilasciare dichiarazioni. Me li immagino, lui e Claire, che tremano dietro il portone massiccio. Duane si alza e mi tende il giornale. «È stato un bel colpo. Ti sono capitate un paio di buone occasioni di recente, ma come ho cercato di spiegarti, ti aspetta ancora un po' di gavetta, se vuoi far carriera.» «E tu come hai fatto a far carriera, Duane?» Il risentimento mi mozza il fiato, al punto che stento ad articolare le parole. «Io sono nell'Fbi da sette anni e tu da otto. Dimmi il segreto del tuo successo.» Lascia passare qualche istante prima di rispondere, e quando è pronto si scosta il ciuffo nero dalla fronte, lisciandoselo sulla testa con le dita bianchissime come se ce lo stesse incollando.
«Ho fatto un patto col diavolo.» L'espressione degli occhi scuri è enigmatica. «Da ragazzino volevo andarmene dalla Travis County e avere successo fin da giovane, così un giorno l'ho chiesto al diavolo, ed eccomi qui.» «Davvero? E in cambio cosa gli hai dato?» «Questo resta fra me e lui» risponde Duane senza sorridere, e se ne va. Resto a sedere immobile per un po', intimorita dalla certezza che parlava seriamente. Quando accendo il mio computer la scatolina accanto alla voce Posta lampeggia; la richiamo e ci trovo i risultati del controllo che ho richiesto su chiunque lavori, consigli, guadagni, mangi, dorma o giochi nel raggio di cento chilometri da Jayne Mason. Sono tutti abbastanza puliti, tranne l'autista della limousine, Tom Pauley, che quando era nella polizia di Stato si è messo in un pasticcio di merci rubate e ha dovuto dimettersi. Dalla tasca con la cerniera della valigetta blu tolgo la clausola etica del contratto Mason, strappo la stampata del rapporto su Pauley e corro nell'ufficio dell'agente speciale Capo. Galloway si alza da dietro la scrivania e viene verso di me, facendo dei gesti di scusa col sigaro. «Mi dispiace che tu l'abbia saputo dai giornali.» «Allora è vero? Mi togli il caso?» «Il Direttore ha visto in tivù Jayne Mason che piangeva come una fontana da Donahue e ha deciso di scendere in guerra. Vuole calibri più grossi per quanto riguarda i media. Tu non c'entri.» Io resto zitta. «Sto per autorizzare il tuo trasferimento alla C-1. Congratulazioni.» Aspetta la mia reazione. Quando vede che non ci sarà, si piega sulle ginocchia, si china e socchiudendo gli occhi si mette a fissarmi. «Mi sbaglio o eri tu che non mi davi requie per avere quel trasferimento?» «A questo punto il trasferimento non è così importante.» Gli mostro il fax e gli spiego che con quella clausola etica un comportamento scandaloso, come l'abuso di stupefacenti, per esempio, avrebbe compromesso un contratto multimilionario. Lo informo della mia convinzione che la Mason abbia sempre mentito, a proposito di Randall Eberhardt. Ma le mie convinzioni non impressionano Galloway. «Hanno fatto arrivare il pezzo grosso da Washington, lasciamo che ci
pensi lui.» Si è raddrizzato, e mi tiene un braccio sulle spalle mentre mi accompagna alla porta. «Hai fatto un buon lavoro, considerato quello che avevi.» «Okay, se non ti piace la clausola etica...» accartoccio il foglio, lo butto nel cestino e gli metto la stampata sotto il naso. «Di questo che ne dici? Nuova pista: l'autista di Jayne Mason è stato beccato a rivendere merci rubate quando era nella polizia.» Galloway inarca le sopracciglia. «Ehi, calma.» «Sappiamo che la Mason fa uso di stupefacenti. Prima voglio spremere questo tizio e trovare il vero spacciatore, e poi la metto dentro per possesso di droga.» «Oh, sant'Iddio.» Galloway toglie di scatto la mano dalla mia spalla, come se fosse una padella arroventata. «Ana, stiamo uscendo dal seminato.» «E se riesco a provare un'accusa di possesso e traffico di sostanze illegali a carico di Jayne Mason?» Lui ribatte esasperato: «Ana, nessuno vuole andare in questa direzione». «Lo so, ma...» Galloway mi ferma posandosi l'indice sulle labbra. Parla in un lento sussurro, agitando il dito al ritmo delle sue parole come se mi recitasse una filastrocca: «Ricordiamoci che in questa indagine l'indiziato è ancora Randall Eberhardt. Adesso ascoltami attentamente e rispondi alla mia domanda: In che modo questo ci aiuterebbe a incriminare l'indiziato?». «Magari servirebbe a scagionarlo» dico io. Scopro che, per quanto "al castello" le cose tra Tom Pauley e Maureen andassero male, quei due vivono insieme nell'appartamento che lei ha preso in affitto a Pacific Palisades, una piacevole cittadina residenziale di fronte a Santa Monica, appena oltre il canyon. Anche se la strada principale è fitta di minicentri commerciali, qui sembra ancora di essere negli anni Cinquanta - è pieno di famiglie e di case a un piano - e quindi la casa di Maureen è davvero bizzarra. L'edificio sorge lungo una strada piena di curve, dietro a un cancello scorrevole. Scendo qualche scalino di pietra, guidata da un rumore di acqua corrente; un torrentello artificiale va a riempire un bacino roccioso coperto di ninfee e popolato di rane vere e gracidanti. Poco oltre ci sono un tavolo e qualche sedia di ferro bianchi sotto un piccolo pergolato di rigo-
gliose buganvillee color magenta, che guarda sulla baia velata di foschia della Will Rogers Beach, sulle montagne azzurrine e sull'argento dell'oceano fino a Point Dune. Il panorama è impareggiabile. Anche se lungo la strada le case si addossano le une alle altre, in questo angolo magico si sentono solo il silenzio e il vento che passa tra i fiori. Ti fa venire voglia di prendere cracker salati, formaggio Cheddar e bourbon, e di sederti a contemplare il tramonto sotto il pergolato. Se ci si volta a osservare la casa, la vista è altrettanto gradevole: tetto a frontoni, finiture appariscenti, una sorta di rifugio per Hansel e Gretel. La porta di legno dolce, scolpita a figure intrecciate di danzatori balinesi, è socchiusa. Busso, nessuno risponde, ed entro. «C'è nessuno? Tom? Sono Ana Grey.» Niente. Oltrepasso una camera, con un letto a baldacchino disfatto e abiti gettati alla rinfusa su un vecchio tappeto orientale. C'è odore di legno di sandalo e di sesso. Metà delle boccette da profumo di foggia antiquata che riempiono un tavolino da toilette sono rovesciate e infrante. Armadi e cassetti sono aperti. Sparsi dappertutto, cappelli di paglia, scialli e bambole, come se li avessero buttati tutt'intorno prendendoli dalla panca sotto la finestra dov'erano posati. A quanto pare Tom e Maureen sono stati derubati. Trovo conferma al mio sospetto quando entro nella cucina devastata. Sul fornello acceso, una pentola si annerisce e si scrosta, l'acqua ormai tutta evaporata. Spengo la fiamma, pestando degli spaghetti sparpagliati sul pavimento. Qualcuno ha scagliato contro la parete una bottiglia di succo di mela. Qualcun altro ha lanciato dei barattoli. Sento un debole gemito che proviene da un'altra stanza. Con l'adrenalina che mi scorre nelle vene, estraggo la pistola. Percorro silenziosamente un corridoio decorato con maschere africane dall'aspetto sinistro fino a un soggiorno illuminato da due finestre coi vetri a losanghe che danno sull'oceano. Altre maschere, bambole con gli occhi sbarrati nei perfetti visi di porcellana, divani di seconda mano coi cuscini di cintz. Appesa davanti alla finestra, una scultura mobile di prismi di vetro riverbera su tutta la stanza i raggi del sole pomeridiano, in un mulinare di colori. E in mezzo a quell'iridescenza di arcobaleni, ben piantato sulle gambe arcuate e scottate dal sole, c'è Tom Pauley, con indosso solo una maglietta bianca, che si masturba lentamente. Alza su di me gli occhi cerchiati di rosso. Intravedo un'ombra di barba
bianca sulla guancia non rasata. «Ana» farfuglia come dall'oltretomba «aiutami.» Pollice e indice scendono lungo il pene eretto, violaceo, con una goccia di seme che luccica sulla punta. Mi allungo per prendere da una poltrona una pelosa coperta afgana e gliela getto. «Gesù, Tom, copriti.» Reggendo la coperta davanti a sé, affonda le natiche nude nel divano e scoppia in lacrime. «Cos'è successo qua dentro?» «Abbiamo litigato.» «Dov'è Maureen?» «Se n'è andata.» Tom è piegato in due, con la testa fra le mani. «Sta bene?» Annuisce. «Non è che l'hai riempita di botte e poi l'hai sbattuta giù dalla scarpata?» «Non lo farei mai. Io la amo, Ana.» Alza il viso verso di me. Ha la faccia gonfia, i lineamenti confusi grondano autocommiserazione. «Dio, sono un vecchio rimbambito.» Rinfodero la pistola e mi siedo per dargli il tempo di ricomporsi. Il divano è duro come una pietra. Dev'essere imbottito di crine di cavallo o di qualche altro materiale perverso. «È una casa interessante.» «L'ha costruita uno scenografo negli anni Sessanta.» Fa un respiro profondo e si massaggia gli occhi con i pollici. «C'entrava qualcosa Jayne Mason?» «No, Maureen viveva qui da molto prima di incontrare Jayne.» «Come sta Jayne? Dev'essere molto occupata, visto che corre da un talk show all'altro per difendere i diritti delle vittime.» «In questo momento non potrebbe importarmene di meno, di Jayne Mason.» «A lei invece importa moltissimo di te e Maureen. Si preoccupava che potesse capitare qualcosa del genere. Me l'ha detto la sera che abbiamo cenato insieme.» «Jayne ci prova, ma non è mai riuscita a capire i miei sentimenti per Maureen.» «Parliamo un po' di te. Vuoi un bicchier d'acqua?» Scuote la testa.
«Bene, facciamo due chiacchiere sui camionisti che sostengono di essere stati rapinati in zone sperdute della California e sugli agenti della polizia che si presentano sulla scena del furto e falsificano il rapporto, così le merci vengono ricettate e rivendute. Tu che ne pensi?» Si pulisce il naso con l'orlo della maglietta. «Storia vecchia.» «Jayne la conosce, questa vecchia storia?» «Jayne pensa che io sia la più grande invenzione dopo lo sciroppo al cioccolato.» «Dove si procura la droga, Tom?» Si alza in piedi, tenendosi la coperta intorno alla vita. «Niente da fare, Ana.» «Per Jayne sarai anche un bel gelatone al cioccolato, ma per Maureen sei un monticello di cacca.» Di nuovo arrabbiato, mi fa: «Lasciami in pace». Mi alzo anch'io. «Non c'è problema. Chiederò alla tua giovane amica che ne pensa, e ora come ora non credo abbia una grande opinione di te. Cosa ci trovi tu nelle ragazzine lo capisco, ma senza offesa, Tom, loro cosa ci trovano in te?» Sotto il velo di barba bianca sale una vampa di rossore. «Dopo che ha cercato di ammazzarti con una scatola di spaghetti, sono sicura che sarà lietissima di raccontarmi come fornisci a Jayne Mason il Dilaudid e la Dexedrine e il Valium e la cocaina e tutto il resto.» «Io non c'entro niente.» «Però sai chi lo fa.» La mascella si tende. Le labbra si serrano. Di colpo l'appartamento sembra piccolissimo, i visi delle bambole feticci, e la casa di Hansel e Gretel un luogo infestato da un'ossessione. «Dev'essere stato divertente finché è durato, stare con la tua Lolita con le tette da quattordicenne.» «Va' all'inferno.» «Ho un altro progetto: adesso ti vesti e facciamo un giretto a Westwood.» «A far che?» «L'Fbi ha uno spiccato interesse per questo caso, e sono sicura che il superspecialista di Washington gradirebbe parlare con una persona che è al corrente di ciò che succede a casa Mason, magari facendo anche un piccolo riepilogo della tua storia personale.» Gli arcobaleni ruotano intorno a noi.
«Io non c'entro.» «D'accordo.» Faccio un profondo sospiro benevolo, come se a conti fatti avessi deciso di mollare la presa. Con gentilezza, in tono compassionevole gli propongo: «Perché non ti metti qualcosa addosso?». Raccoglie una tuta da ginnastica dal divano, se la infila e ripiomba a sedere con un'espressione dignitosa, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Sappiamo che è il dottor Eberhardt» dico, come confidassi un segreto professionale. «L'abbiamo già fregato.» Tom Pauley scuote la testa con una smorfia. «Ecco, per questo odiavo i federali, quando ero nella polizia. Con tutta la vostra arroganza del cazzo non ne imbroccate una.» Mi accorgo che si deve togliere un peso dallo stomaco, e gli porgo un digestivo infallibile: «Siamo convinti di avere delle prove più che sicure a carico del dottore». «È stato lui a far ricoverare Jayne al Betty Ford, perdio!» sbotta Tom. «Magda Stockman non avrebbe voluto.» «Non ci credo.» «Be', io c'ero.» «Balle.» Adesso è sulla difensiva e moraleggia, rosso in faccia, indignato: «Jayne si era quasi ammazzata coi tranquillanti, no? Il dottore viene a Malibu, la vede e capisce subito: la signora è una tossica. Va dalla sua agente, che, lo sanno tutti, è quella che le organizza la vita, e le dice: "Dobbiamo aiutarla a disintossicarsi, altrimenti morirà". Magda dice: "Farò tutto quello che posso".». «Jayne vomita per due giorni, sta malissimo, alle undici di sera mi mandano a prendere non so che tè. Devo arrivare fino a Culver City per trovare un'erboristeria aperta tutta la notte, e quando torno le sento che discutono dell'argomento nella tavernetta.» «Litigavano?» «Jayne fa la povera bimba indifesa e abbandonata, e piagnucola che deve andare al Betty Ford come ha detto il dottore. Magda» e qui imita l'inflessione gutturale della Stockman, «le dice: "Quello sta dietro solo ai tuoi soldi, Jay. Nessuno ti vuole bene come me".» «Magda cercava di salvare il contratto con l'azienda di cosmetici.» «Magda cercava di tenere sotto controllo Jayne, punto e basta. Maureen le aveva detto che Jayne stava diventando amica del dottore, e lei ha perso la testa. Secondo te chi l'ha convinta a tagliare le gambe a quel poverac-
cio?» «Tutte le strade portano a Magda.» «Mentre è rimasta in cura con il dottore, Jayne cercava di non prendere niente, ma diventava un disastro: crisi di pianto, emicranie, attacchi di panico. Maureen non voleva prendersi la responsabilità, e così - su questo hai ragione tu - si è rivolta a Magda.» Finalmente mi sono chiare le dinamiche di quella complicatissima convivenza, ma voglio sentirlo dire da Pauley. «Prendersi la responsabilità di cosa? Scusa se sono dura di comprendonio.» «Di tenere su di giri Jayne» sbotta. Restiamo in silenzio. Gli arcobaleni girano lentamente su se stessi nell'aria polverosa. Quando si rende conto di quel che ha detto, gli si contorce la faccia ma non piange. «Maureen è il contatto di Jayne Mason con gli spacciatori» spiego io a bassa voce. «Ecco perché se la teneva vicina come "guardarobiera".» «È una cocainomane» dice Pauley con voce soffocata. «Come se non si vedesse. Magda se la teneva al guinzaglio coi soldi.» «Le pagava il vizio?» «Magda non la beccherai mai. È questo il bello.» Sto desiderando disperatamente di avere addosso un registratore. «A meno che tu non testimoni. Contro Magda e Maureen.» Lui non risponde. La faccia gli si indurisce, gli occhi sono due fessure rosse e gelide. «Diciamo in cambio dell'immunità da ogni accusa per la parte che puoi aver sostenuto nel consumo e nel traffico di stupefacenti.» «Dio, Ana, quante cazzate.» «Ci serve la tua testimonianza.» Ci pensa. Dopo un momento, annuisce lentamente. Tanto per esserne sicura, gli chiedo: «Se la ami, perché testimoniare contro di lei?». Sembra diverso adesso, un uomo adulto che si rende conto di avere l'ultima occasione di riprendere un minimo di controllo sulla vita che gli resta da vivere. «Quando sei venuta da Jayne» chiede, «hai per caso incontrato Jan, quell'imbecille da spiaggia?» L'istruttore di windsurf dagli splendidi polpacci che quel giorno lì guardava col binocolo dal ciglio della scarpata.
«Me lo ricordo.» «Maureen se lo è scopato per tutto il tempo.» Con un ampio gesto rabbioso, Tom Pauley raccoglie un paio di mutande dal pavimento e a lunghi passi esce dalla stanza. Maureen è nella stanza degli interrogatori, singhiozza rannicchiata su se stessa, è come una bambina piccola. «Io ti posso aiutare» le dice dolcemente Galloway. «Possiamo farti uscire da questa terribile situazione, o preferisci aspettare che arrivi il tuo avvocato?» aggiunge, perché il registratore è in funzione. «Mio padre ne morirà.» Galloway le porge un fazzolettino. Io lascio che ci pensi lui. Il mio compito è stare seduta a gambe accavallate, irradiando solidarietà femminile. «La cosa migliore che puoi fare per il tuo papà è badare a te stessa. Finora non sei stata tanto brava, vero?» Maureen scuote la testa. L'ingorgo di lacrime le preme tanto in gola che stenta a respirare. Le guance pallidissime sono scarlatte. «Dicci dove compravi le pillole.» «Non posso.» «Hai paura degli spacciatori?» Annuisce, scostandosi i capelli umidi dalla fronte. «Hai ragione. Sono gente cattiva. Però senti» e qui Galloway sospira come se fosse davvero un problema suo «se non li denunci, tu andrai in prigione e loro resteranno fuori a combinare affari come al solito. Ti sembra giusto?» «È colpa mia.» Io annuisco in segno d'incoraggiamento. «È vero, e verrà il momento in cui dovrai affrontare questa verità. Ma adesso puoi migliorare la tua situazione, aiutando i nostri agenti a inchiodare quei bastardi.» Resta zitta. «Si sono approfittati di te. E di Jayne.» Riduce il fazzoletto in coriandoli. «Ha detto che si sarebbe occupata di me» sussurra Maureen a occhi bassi, «se succedeva qualcosa.» Galloway spalanca le braccia e si guarda intorno. Sgrana gli occhi. «Vedi qualcuno? Tu ci hai provato. Hai usato l'unica telefonata che ti è concessa per chiamare Jayne Mason, per farla accorrere qui. E adesso dov'è?»
«Il suo segretario ha detto che è in Francia» risponde Maureen in falsetto «perché deve uscire la nuova linea di cosmetici.» «E se fosse qui dietro l'angolo? Maureen. Guardami.» Galloway la tocca con dolcezza sotto il mento. «Se fosse qui dietro l'angolo, entrerebbe in questa stanza per ammettere che è una tossicodipendente e ti sfruttava come una schiava per procurarsi la droga? O credi che negherebbe tutto e userebbe la sua influenza per tenersi fuori dal pasticcio in cui si trova la povera Maureen? Tu conosci Jayne Mason meglio di chiunque altro. Dimmelo tu. Lei ti proteggerebbe come la stai proteggendo tu?» Si possono quasi sentire gli ossicini che si spezzano. Maureen inala tre o quattro faticose boccate d'aria. La rabbia si è sfogata, e comincia il dolore. Con la faccia fra le mani, piange senza rumore, mentre si rende conto di quanto profondamente è stata tradita. Appena esco dalla stanza, vado a sbattere contro Donnato. «Abbiamo trovato chi riforniva la Mason. La guardarobiera.» «Congratulazioni.» «Guarda.» L'agente speciale Jim Kelly si affretta verso la stanza degli interrogatori. Jim è supervisore della sezione Narcotici. «Sta per denunciare gli spacciatori.» «Potrebbe tramutarsi in un bell'arresto per la Narcotici» mormora pensieroso Donnato. «Tutto merito mio.» Do un pugno sul braccio a Donnato e scoppio a ridere. «E adesso Galloway ha qualcosa per il Direttore.» «Non quello che si aspettavano.» «Meglio ancora. Devo passare il caso a Galloway, vuole incriminare Jayne Mason per detenzione di stupefacenti. Politicamente è una bomba, ma figurati la pubblicità per l'Fbi.» «Stasera farai follie al Bora-Bora.» «Ti vuoi associare?» Donnato mi sorride per la prima volta da settimane. «Devo preparare la cena, fare i compiti per casa e poi una ricerca sull'elettromagnetismo.» Rosalind si avvicina. Ha di nuovo quella strana espressione. «C'è il Dipartimento di polizia di Santa Monica per Ana. Non eri alla tua scrivania, così ho pensato di cercarti.» Parlo con un serissimo giovane agente di nome Brandt dal quale apprendo che il dottor Randall Eberhardt è morto. Dato che il defunto era oggetto di un'indagine dell'Fbi, l'agente Brandt ha pensato che mi interessasse an-
dare fino alla Ventesima per dare un'occhiata, così, a titolo di cortesia, tanto per promuovere la cooperazione tra le forze dell'ordine. 22 La nuovissima villa a due piani in stile mediterraneo moderno dell'esclusiva zona residenziale a nord di Montana, cinque camere da letto, cinque bagni più bagno di servizio, cucina extralusso, eccetera, adesso è tutta recintata dal nastro giallo che la marchia come scena del delitto. Accanto al marciapiede sono parcheggiate tre autopattuglie della polizia di Santa Monica e un'ambulanza. Non c'è una gran folla - forse venticinque persone tra vicini, gente che passava facendo jogging, governanti con i bimbi in carrozzina - perché sono solo le due e trentacinque di un mercoledì pomeriggio. Riconosco un reporter della cronaca cittadina del "Los Angeles Times", e c'è pure un ragazzino di "The Outlook", una riedizione aggiornata di quello stesso "Santa Monica Evening Outlook" che una trentina d'anni fa pubblicò una fotografia di mio nonno vicino a una sedia a rotelle. I due reporter sono stati mandati in avanscoperta, come due formiche che vagano sulla credenza; la prossima volta che ci posi l'occhio, è tutto un brulichio. Mostro il distintivo al poliziotto che piantona l'ingresso ed entro in casa. Dal numero di persone e dalla loro concentrazione, indovino che in cima alle scale mi aspetta qualcosa di spiacevole. Un detective della polizia di Santa Monica sbraita al telefono perché tardano a portar via il cadavere. Venendo qui, ho sentito all'autoradio che sulla 405 c'è stato uno scontro fra quattro automobili con delle vittime, e probabilmente l'ufficio del medico legale sarà impegnatissimo. Salgo i gradini sfiorando un ficus, in direzione dell'irraggiungibile lampadario di cristallo. Di nuovo un poliziotto mi ferma. «Dov'è?» «Nel bagno.» Ti senti tremare le ginocchia ma vai avanti lo stesso, sapendo che vedrai uno spettacolo atroce. Randall Eberhardt ha fatto in modo che fosse più atroce possibile. Per prima cosa vedo la bombola di gas metallica che rotola sul pavimento di marmo argenteo. Un tubo di plastica collegato alla bombola scavalca il bordo della grande vasca incassata. Bisogna salire i gradini che portano
alla vasca da bagno e sporgersi, per vedere che il tubo va a finire in un buco praticato nel sacchetto di plastica che si è infilato sulla testa. La cianosi gli ha colorato di blu la faccia, e un grumo di vomito fa aderire le labbra violacee all'interno del sacchetto. Il corpo nudo dai muscoli ben sviluppati, anch'esso di un pallore bluastro, galleggia in trenta centimetri di acqua trasparente. Con un suono vuoto e squillante, la bombola di gas rotola sul pavimento di gelido marmo mentre il corpo oscilla lievemente nell'acqua. Allineati sul bordo della vasca, i giocattoli dei bambini: ochette di gomma gialla e innaffiatoi rossi, e tutto questo è illuminato a sproposito dalla calda luce pomeridiana, che innocentemente si riversa nella stanza dalla finestra. I ragazzi addetti alle rilevazioni stanno posando i loro segnali triangolari accanto a tutti gli oggetti di una qualche importanza: la piccola bombola con la dicitura Azoto, la boccetta vuota di Valium - sull'etichetta c'è il nome di Claire Eberhardt - accanto al lavabo. Il fotografo della polizia mi chiede di spostarmi per prendere una foto dell'ambiente. Io guardo la nudità di Randall Eberhardt che galleggia nel suo sepolcro marmoreo. Mi sembra l'effigie di tutte le nostre nudità: quella di Violeta Alvarado, la mia, quella di Tom e di Maureen, e mi vergogno di essere stata io a sopravvivere, come mi ero vergognata di vedere mia cugina da morta. Poi, all'improvviso, sono sopraffatta da un dolore inconsolabile, come se la sorgente sotterranea della mia pena avesse sfondato la roccia e ora soffiasse verso il cielo un geyser di sofferenza. Malferma sulle gambe scendo le scale e vedo la vedova. È in soggiorno, sola. Mi siedo sul divano accanto a lei e mi presento come agente speciale Ana Grey. «Ci siamo già incontrate?» Mento. «No.» Tiene le gambe accavallate con le caviglie premute una contro l'altra, e ha le braccia incrociate strettamente attorno alla vita del gonnellino bianco da tennis. «La polizia dice che è suicidio, ma non è vero.» Sbuffa e fa uno scatto con le gambe. «Randall non si sarebbe mai ucciso.» «Secondo lei cos'è successo?» «Qualcuno l'ha assassinato e ha inscenato un suicidio.» Indignata, non piange, ma tiene fisso a terra quel suo sguardo un po' strabico. «Ci sono capitate delle cose terribili. È stato accusato falsamente, gli
hanno dato la caccia, hanno compromesso la sua reputazione professionale. Chi ha potuto agire così senza motivo, senza la minima ragione, perché non poteva farci anche questo?» «La polizia condurrà un'indagine approfondita e sarà eseguita un'autopsia. Dopo lei saprà la verità.» Scuote la testa. «Insabbieranno tutto.» Non è rara, questa reazione, nelle famiglie dei suicidi. Rifiuto. Paranoia. Non può arrendersi. È naturale. «Se mio marito avesse voluto ammazzarsi avrebbe usato una pistola.» Ha sciolto una mano dalla stretta e la agita da destra a sinistra. «Ha appena comprato una pistola per via dei furti nella zona. Così sarebbe più sensato, no?» La logica della sua teoria la incoraggia tanto che per un po' lascio che ci creda. «Devono averlo ucciso, altrimenti avrebbe usato la pistola. Indagherà anche l'Fbi?» «Penso di no, signora.» «Ma lui non si è ucciso!» Con gentile fermezza le dico: «Sembra proprio di sì». Mi fissa muta per un pezzo, come se le avessero staccato il filo della parola. Sul tavolinetto davanti a noi ci sono una racchetta da tennis, un maglione bianco e una pila di corrispondenza che avrà posato qui entrando in casa. Sulla copertina di un catalogo di Saks Fifth Avenue c'è il viso di Jayne Mason circondato di petali gialli con la didascalia "Jayne Mason presenta i cosmetici Yellow Rose. Venite a conoscerla di persona nel nostro negozio di Beverly Hills". Ecco, prendete l'immagine del viso perfetto e rorido di Jayne Mason che emerge da un laghetto coperto di boccioli di rose gialle. Sovrapponeteci: la faccia bluastra e morta di Randall Eberhardt dentro un sacchetto di plastica, e... cosa ottenete? «Sono molto addolorata per la sua perdita.» Mi alzo ed esco dalla casa. All'altro angolo della strada inondata di sole, ci sono Laura e la nonnina cilena che tornano verso casa. Laura pedala su un triciclo, la governante spinge il passeggino col piccolo. Stupita di vedere la polizia, la governante stende una mano per fermare la bambina, che però si sta già precipitando verso l'eccitante novità, un'espressione di attesa emozionata sul faccino innocente.
Avevo cinque anni anch'io, quella notte a Santa Monica, quando mio padre se n'è andato per sempre. Mi volto, mi faccio strada fra i curiosi, e apro la portiera dell'auto di servizio chiedendomi se Laura, come me, si addestrerà a dimenticare questo giorno e ciò che lo riguarda, e quanto a lungo potrà durare un simile oblio. Appena il traffico in autostrada si fa più scorrevole, per arrivare a Simi Valley ci vogliono solo tre quarti d'ora, specialmente facendo i centodieci di media. Sono le dieci di sera. Ho abbassato la capote della Barracuda e non mi importa più di niente. La casa di Donnato è fra un centinaio di altre in un quartiere nuovissimo; sono villette col giardino degli anni Novanta con certe finestre rotonde che dovrebbero dar loro un'aria interessante. L'unica cosa interessante di Simi Valley è il modo in cui si addossa alle montagne; è la punta delle dita di Los Angeles, che come una mano aperta si protende verso nord: più lontano di così dal downtown è impossibile andare. Qui parecchia gente tiene ancora degli animali: appassionati di cavalli e padroni di gatti abissini che amano credere nella propria intatta libertà. La casa di Donnato ha un'aria accogliente e familiare, con le finestre illuminate e la porta del garage chiusa per la notte. Vado alla porta e suono il campanello. Mi apre sua moglie. È molto attraente. Un'istruttrice di nuoto subacqueo. Intelligente. Studia legge. Ma non me ne importa niente. «Ciao, Rochelle. Scusa se vi disturbo.» «Ana! Cos'è successo?» «Una piccola emergenza. C'è Mike?» «Sicuro. Ti posso offrire qualcosa?» «No, grazie lo stesso.» L'aria condizionata è accesa, e in casa aleggia l'odore di plastica di quando hai appena comprato la moquette e gli armadietti di cucina con l'impiallacciatura a buon mercato. Donnato scende le scale in fretta. «Galloway vuole tutti in ufficio.» Lui mi fissa negli occhi e scorge la mia supplica. Credo che la sua decisione di venire con me immediatamente, di adeguarsi senza fare domande a chissà quale folle bisogno mi avesse portata fin lì, sia in assoluto il gesto più tenero che chiunque abbia mai fatto per me. «Salgo a cambiarmi.» Porta una tuta. «Non ce n'è bisogno. È un appostamento a Inglewood, non una cena
danzante» dico, con la voce improvvisamente arrochita. Donnato prende la fondina con la pistola da un cassetto chiuso a chiave dell'armadio e afferra un giaccone pesante. Sua moglie gli dà un bacio. «Sta' attento, amore.» «Sempre.» Andiamo alla porta. «È stato un piacere vederti, Ana, a parte le circostanze.» Io sorrido e la saluto con un cenno. Siamo fuori. La porta si chiude. Saliamo sulla Barracuda. Faccio stridere le gomme con una violenza superflua. Donnato, sepolto nel giaccone, scrollando le spalle ha posato la pistola vicino ai suoi piedi. Sa benissimo che non c'è nessun appostamento. «Ha incastrato il dottore per vendere cipria e rossetto.» Non dico nient'altro finché non abbiamo attraversato tutti i semafori lampeggianti della cittadina vuota e buia e imboccato la prima rampa di autostrada. Andiamo verso ovest, è tutto quello che so. «Jayne Mason viene ricoverata al Betty Ford Center per disintossicarsi. Va su tutti i giornali. Ha un contratto segreto multimilionario con una grande azienda di cosmetici, ma quelli si stanno innervosendo: chi vuoi che compri prodotti di bellezza da una drogata? Il contratto vale dieci volte quello che potrebbe guadagnare col cinema e lei ha un bisogno disperato di liquidi. Ci vuole qualcuno che si prenda la colpa e sarà Randall Eberhardt, perché è uno stupido ingenuo appena arrivato in città.» Donnato sta a braccia conserte, con un uragano di vento freddo nei capelli. «C'è dietro quella troia, la sua agente.» Sferro un pugno sul volante. «Difficile da provare.» «Non me ne importa niente. Con tutto quello che ci racconta la guardarobiera io arresto Jayne Mason, la inchiodo per detenzione di stupefacenti perdio, e poi chissà, magari la famiglia può intentare una causa per omicidio colposo.» «Stai facendo i centoquaranta.» «Non è riuscito a sopportare l'umiliazione. Si è ammazzato col gas nitrogeno. Sai come? Molto ingegnoso. Era intelligente, lui. Infila il tubo in un sacchetto di plastica e se lo mette sulla testa. È un medico e sa che l'accumulo di anidride carbonica causerebbe un riflesso di panico, molto probabilmente si strapperebbe via il sacchetto senza volere, così ci pompa l'azoto che si sostituisce all'anidride carbonica, e può continuare a respirare
fino a consumare tutto l'ossigeno. Un po' di Valium per rilassarsi, un bagno tiepido, morte per asfissia.» Esco dall'autostrada sbandando nella polvere, freno di schianto e mi fermo. Non spengo neanche il motore, metto in folle e abbraccio Donnato affondando le dita nelle spalle del suo giaccone, lo attiro verso di me, gli copro la bocca con la mia. Scendiamo. Chiudiamo le pistole nel baule. Siamo su una strada buia vicino a un campo buio, da qualche parte alla periferia di Oxnard. Entriamo nel campo camminando sui canaletti d'irrigazione asciutti. «Cosa coltivano qui?» «Fragole.» Stendiamo per terra una vecchia coperta di lana dei tempi in cui avevo Jake e Jasmine, due tigrati, e che ci crediate o no, l'odore stantio di piscio di gatto può essere di una tristezza spaventosa. Vorremmo stringerci più vicini, più in fondo, sentire più pelle sulla pelle. Qui si gela, siamo nudi e tremiamo dentro i giubbotti, annaspiamo frenetici nel buio della mezzanotte come se non esistesse nessun altro desiderio. Donnato è sopra di me, gli schiaccio un pugno di fragole sui denti serrati e il succo cola, mi entra dentro e mi regge con le mani sotto le scapole, mi penzola la testa e i capelli mi strisciano per terra, ma arriva l'elicottero non molto alto sopra di noi e squarcia l'aria con feroci rasoiate pulsanti. Apro gli occhi per vedere la forma del suo ventre, so che è un velivolo militare perché siamo vicini a Point Mugu, ma non importa, dal mondo razionale sono precipitata nel crepuscolo ambrato dei miei sogni. Il rombo ci ferisce le orecchie e ci riecheggia nel petto e mi artiglia una paura primitiva, come quella dell'elicottero in atterraggio davanti alla stazione di polizia di Santa Monica, paura della sua cruda forza di maschio che sta per sopraffarmi. Allaccio le gambe intorno a Donnato e grido il suo nome nel baratro di quel frastuono. 23 Mi sveglio sola nel mio letto alle dodici del giorno dopo, e immediatamente mi prende la stessa paura inquietante. Era appena spuntata l'alba quando ho messo la macchina in garage al Marina, e, incredibilmente, ero ancora ossessionata dall'idea di arrivare in tempo all'allenamento di nuoto all'Università, mentre mi tiravo la trapunta sulla testa e il mio cervello fi-
nalmente staccava la spina. Adesso ho gli occhi asciutti e brucianti e una tremenda pressione nel petto. Intontita, mi trascino in soggiorno e chiamo la segreteria telefonica dell'ufficio per vedere che appuntamenti ho bucato. Ci sono parecchi messaggi, compreso uno di Carl Monte, un assistente sociale che chiama a proposito di Teresa e Cristóbal Alvarado. Con tutto quel che capita, mi prende di sorpresa, ma richiamo subito il suo ufficio. Mi promettono di rintracciarlo col cercapersone. Non ci sono messaggi di Mike Donnato, ma cosa mi aspettavo? Non lo so. Mangio un panino caldo col formaggio, e mescolo un po' di cacao in un bicchiere di latte scremato, fissando uno sguardo vuoto sull'ondata di luce pomeridiana che si leva oltre il balcone. Era da molto che non facevo sesso, e adesso ce l'ho ammaccata e dolorante; non è proprio la più romantica delle sensazioni. Voglio solo immergermi in un bagno caldo. Ho notato che non c'è mai un bagnoschiuma in casa quando serve. Allora prendo un flacone di detersivo per i piatti da sotto il lavello e ne getto un lungo spruzzo nella vasca, facendo montagne di schiuma bianca piena di bollicine. Aggiungo per tre volte dell'acqua bollente nella vasca, finché la pelle mi pizzica e mi diventa rosa, e gli specchi sono tutti appannati di vapore. Mi metto una corona di schiuma sulla testa e ne dispongo due stupidi monticelli sopra i seni come facevo da bambina; poi una collana di bolle e perché no, al diavolo, una barba di schiuma, mentre mi chiedo dove sarà adesso Donnato e se si sente sperduto e stupefatto come me. Come sarà quando ci incontreremo in ufficio? Staremo ancora insieme? Per quel che rammento, è la prima volta che non ho il minimo controllo su quanto sta per succedere. Ma il miracoloso equilibrio sul filo dell'incertezza dura un attimo solo prima che mi travolga l'ondata violenta del panico. Il ricordo del ventre scuro dell'elicottero che incombe su di noi in quel campo di fragole mi riempie la testa di un clamore formidabile, e per poco non vomito nella vasca. Suona il telefono e il mio cuore ha una convulsione. Trasformata all'improvviso in un'eroina cinematografica degli anni Cinquanta (un ruolo che Jayne Mason avrebbe potuto interpretare) salto fuori dalla vasca sgocciolando schiuma, afferro un asciugamano e scatto verso il telefono, sperando di sentire la voce del mio amato. È Carl Monte.
«Sono un assistente sociale del Dipartimento infanzia e famiglia» mi spiega. «Lei che grado di parentela ha con i piccoli Alvarado?» «Lontana cugina della madre.» «Lo sa che vivono con Sofia Gutiérrez?» «Sì, ha badato lei ai bambini da quando la madre è stata uccisa.» «Ma non è una parente?» «No.» «Dunque sarebbe lei il parente più prossimo?» «Hanno una nonna, delle zie e degli zii che vivono nel Salvador.» «Sono tenuto a informarla che se i bambini continuano a vivere in questo paese, dovranno essere dati in affidamento.» «Cos'è successo?» «Qualcuno ha chiamato la polizia perché un vicino si è lamentato del volume troppo alto di un televisore. Nell'appartamento gli agenti hanno trovato due minori soli e ci hanno contattato.» Mi vesto mentre parliamo. «I bambini stanno bene?» «Sono in buona salute, ma non consideriamo la signora Gutiérrez una tutrice adatta. Intanto il suo reddito non raggiunge il nostro standard. E poi è la legge. I bambini non possono vivere con il primo estraneo che li accoglie.» Mi infilo jeans e calzini. La legge è una cosa che capisco bene. «A meno che non se li prenda lei, signora Grey.» «Io?» Ho un tuffo al cuore. Giro lo sguardo sul mio appartamentino. «Non potrei.» «E allora troveremo un ambiente adeguato per Teresa e Cristóbal.» «Per quanto tempo?» «Dipende. Cerchiamo sempre di trovare una coppia che li adotti legalmente.» «Che possibilità ci sono?» «Per il più piccolo ci sono speranze. La maggiore ha dei problemi affettivi che potrebbero renderla meno desiderabile.» «Vuole dire che non sarebbero adottati insieme?» «Non necessariamente.» «Be', signor Monte, questo non me lo doveva dire.» Lui replica senza la minima pausa, chiedendomi con calma se desidero che mi tengano informata. Rispondo di sì. «Per il momento li abbiamo lasciati con la signora Gutiérrez, e faremo un'ispezione bisettimanale, ma lei stenta a capire la situazione. A quanto
pare la tiene in grande considerazione, per via del suo lavoro all'Fbi...» Soffoco un accesso di risa. «Insomma, io speravo che potesse spiegarglielo lei. Forse sarebbe più facile per i bambini.» Certo, le parlerò. Qualunque cosa pur di evitare l'ufficio, oggi. Lo chiamano El Piojillo: un rettangolo di pochi isolati intorno al McArthur Park che più che un mercato delle pulci è un altro continente trapiantato fra il Wilshire District e il downtown di Los Angeles. Quello che un tempo era un quartiere elegante per benestanti bianchi, dove gli ospiti di una vicina casa di riposo potevano far spingere le loro sedie a rotelle all'ombra di un bel parco, oggi è una delle zone più infestate dal crimine di tutta la città. È anche un posto dove le proporzioni, per numero e densità, della popolazione di lingua spagnola si fanno di un'evidenza impressionante. Le strade traboccano di una folla di ispanici che passeggiano accanto a venditori abusivi di salsicce, animali impagliati, cassette di lambada, scarpe da corsa, frutta candita e pannocchie calde. "Telefonate in tutti gli Stati Uniti - 25 centesimi al minuto!" "Scambio di coppie" in un vecchio cinema sovraccarico di decorazioni. Video Hot, Winchell's, ristoranti salvadoregni e guatemaltechi. Spacciatori. Braccianti a giornata coi cappelli di paglia che aspettano a un angolo di strada di essere assoldati per qualche ora di lavoro pagata sotto il minimo sindacale. A ogni isolato c'è un negozietto con l'insegna pretenziosa che sembra passato sotto un fuoco di artiglieria, e probabilmente è proprio così: Camiceria Latina, Excellent Beauty Salon, Chinatown Express, Popeye Fried Chicken, Libreria Cristiana. Passandoci proprio in mezzo, arrivo a una zona residenziale ai margini di Echo Park e sospiro sollevata. Qui la percentuale statistica degli omicidi non si impenna fin dopo il tramonto, o almeno così si spera. La Gutiérrez e i bambini mi aspettano sul marciapiede, all'indirizzo che mi hanno indicato. Vedo che è una botánica, un negozio che vende erbe, candele e consigli spirituali, chiuso da una grata arrugginita. Siamo su una piccola strada commerciale. Accanto c'è una drogheria che si chiama Tienda Alma, poi un fornaio messicano e un ristorante tailandese. C'è anche un tocco azzeccato di colore locale: qui vicino si sente cantare un gallo. «Oggi Don Roberto apre alle quattro. Fa le fumigazioni a casa sua.» «Chi è Roberto?»
«Lo spiritista che risponderà alle nostre domande.» «Io non ne ho di domande. So cosa si deve fare.» Lei schiocca la lingua in un impaziente tz-tz. Cupa e addolorata, Teresa abbassa lo sguardo. Io mi accoccolo e le accarezzo i capelli. «Si avvicina il tuo compleanno. Sto pensando a una Barbie, che ne dici?» Un sorriso stupendo le illumina il viso. Sembra un'altra bambina. Incapace di esprimersi, si mette a correre in un cerchio di pura gioia, poi afferra per mano il fratello e corre a casaccio dentro la drogheria Tienda Alma. «È una bambina così bella» osserva la signora Gutiérrez. «Proprio come la sua mamma.» Oggi ha il rossetto, e, forse in omaggio allo spiritista, è tutta in bianco: maglietta bianca di parecchie misure più grande, fuseaux bianchi, e scarpe bianche con la zeppa. Non l'ho mai vista tanto sicura di sé. «Il signor Monte voleva che le parlassi.» «Gli ho già detto che scrivo alla nonna e vedo cosa vuole fare. Aspetto lei.» «Nel frattempo bisogna che qualcuno badi ai bambini.» «Ci penso io.» «Lei li lascia soli in casa.» «Solo una volta, quando devo uscire per la spesa.» «Teresa non ha neanche un letto.» «Nel mio paese dormiamo sul pavimento con le stuoie di petate. Cos'è più importante, il letto o l'amore? Perché lei non capisce mai cos'è una famiglia?» mi chiede. «Questi bambini sono la sua famiglia, ma lei pensa di no. Lei è troppo anglosassone.» «E questo cosa vorrebbe dire?» «Uguale alla signora Claire» continua. «Gente così non capisce mai. Se lei non licenziava Violeta oggi i bambini avevano una madre.» Faccio un respiro molto profondo. «La signora Eberhardt ha licenziato Violeta perché sua figlia è caduta in piscina ed è quasi annegata mentre Violeta spettegolava con un'altra governante e si era distratta.» Mi punta contro un dito, arrabbiata. «Quello che lei dice non è vero e offende la memoria di sua cugina.» «Ho notato che c'è sempre più di una verità.» Per tutta risposta lei sputa sul marciapiede ed entra alla Tienda Alma. I bambini si sono messi sotto un albero di Natale di cartone carico di
lecca lecca. Io vado verso il fondo del negozio, attirata dall'odore di spezie. Su una mensola ci sono pacchetti di arnica, bastoncini di cannella, anice, chile pasilla, te de yerbabuena. Non ci sono tante merci: qualche noce di cocco, arance macchiate di muffa, due tipi di banane, ananas e fiori. Sugli scaffali traballanti, barattoli di succo di pera delle Indie, polenta di granturco, sardine, menudo, grano masa, riso e farina in vecchi sacchi di plastica grigia. Le luci sono spente. La signora Gutiérrez sta facendo uscire i bambini. «Va bene se gli compro un leccalecca?» Lei mi fissa furibonda e non dice niente. Do un dollaro a ciascuno, poi mi accorgo che dietro all'albero dei lecca-lecca c'è il quadretto plastificato di un santo, appoggiato su un cartone del latte azzurro. «Che cos'è?» La Gutiérrez non parla. Una ragazza esce da dietro il banco. «El Niño de Atocha.» Sposta l'espositore e scopre l'immagine dipinta di un ragazzino circondato da animali e da simboli sacri. Davanti al quadro, qualche candela e un piatto pieno di spiccioli, automobiline, palle di gomma e dolci. La ragazza, che porta una maglietta dell'USC e orecchini d'argento a stella che le arrivano alle spalle, parla senza accento. «El Niño è un santo che abita in un lago e aiuta chi sta per annegare, o chi si è perduto. In Guatemala celebriamo la sua festa ogni anno, lo facciamo uscire dal lago e lo portiamo in una grande processione per le strade.» «La gente gli lascia delle offerte?» «Per avere fortuna.» «E i giocattoli?» «Perché è un bambino. Roberto, che sta qui accanto, ha detto a mia madre di fare questo piccolo altare per El Niño. Tutti i negozi della strada sono stati svaligiati tranne il nostro.» «Lei va alla University of Southern California?» Fa cenno di sì. «E crede a queste leggende?» «Mia madre si fida di Roberto. Una volta io non ci credevo, ma c'è gente che viene a trovarlo da Las Vegas, dal Texas, da San Francisco...» Lascio cadere qualche monetina nel piatto. «Non le sembra un posto un po' strambo per un altare?» «Un altare può stare dappertutto. Molti ispanici fanno un altare dove è morto qualcuno, come a Baja, li si vede lungo la strada, dove c'è stato un
incidente.» Rimette a posto l'albero dei leccalecca. «Noi lo teniamo qui, così la gente non ruba a El Niño.» Che razza di santo, penso, seguendo la signora Gutiérrez fuori dal negozio. I bambini si sono fatti guidare dai chicchirichì del gallo fino a un minuscolo negozio di animali pieno di acquari che diffondono l'odore rancido dei pesci tropicali in acqua stagnante. Due galli ci sbirciano sospettosi dalle gabbie posate sul pavimento. «Sono galli da combattimento?» chiedo al gestore. Lui annuisce. I combattimenti di galli sarebbero illegali, ma chi se ne frega. I bambini sono affascinati da una coppia di pappagalli. Anche se la signora Gutiérrez mi dà la schiena, le poso una mano sulla spalla. «Voglio sapere la verità su mia cugina.» Usciamo all'esterno, e il sole caldo del lungo pomeriggio ci colpisce dritto in faccia. Lei dà diversi colpetti alla sua pochette bianca di vinile. È ancora in collera. «Sua cugina è stata licenziata perché ha visto la signora Claire con un uomo che non era suo marito.» «Quando è successo?» «Violeta era tornata da una passeggiata col bambino e dietro la porta c'erano la signora Claire e un uomo.» Mi ricordo che Warren Speca mi aveva detto di aver visto Violeta una volta. Dev'essere stato allora. La signora Gutiérrez agita la mano disgustata. «Erano in un atteggiamento sconveniente.» Mi figuro Warren Speca che sorprende Claire, incoraggiato dall'illusione che lei divorzierà, la spinge contro la parete della casa di suo marito e cerca di fare l'amore lì in piedi, sotto il lampadario di cristallo. «Violeta entra. Li sorprende ma a loro non importa. L'uomo va via subito. Violeta è molto arrabbiata. Lei è religiosa...» Le si spezza la voce. Si asciuga gli occhi. «"Lei è sposata" dice alla signora Claire. "Commette un peccato contro Dio".» La pochette si apre e appare il rotolone di fazzoletti. «Violeta dice: "Io voglio bene ai suoi bambini come se fossero miei. Lascio soli i miei figli per lavorare da lei. Io non dico bugie ma lei mi dice bugie. Lei va con gli uomini come una puttana!". La signora Claire la licenzia in tronco.»
«Aveva paura che Violeta lo raccontasse a suo marito.» La signora Gutiérrez si soffia il naso con violenza. Assume un tono freddo. Sta per spiegarmi come vanno le cose a questo mondo. «La signora Claire mette in giro una bugia tremenda, dice che è colpa di Violeta se la piccola ha rischiato di annegare. Violeta non riesce a trovare lavoro. Non ha referenze. Non può pagare l'affitto. Teresa ha una brutta infezione all'orecchio e la clinica accetta solo contanti. Violeta ha il terrore che lei e i bambini finiranno in mezzo alla strada o nello scantinato di una chiesa come i barboni, o che magari gli assistenti sociali le portino via i bambini. Dopo molte settimane trova un lavoro notturno, a lavare la biancheria in una grande palestra di West L.A. I piccoli dormono a casa mia fino a che lei torna a casa, alle sei del mattino. Solo che una notte non torna.» Le fotografie della scena del delitto raccontano tutta la storia. Poco prima dell'alba, Violeta scende dall'autobus e percorre una strada squallida, passando accanto alle prostitute e agli spacciatori. Ormai conosce il tragitto a memoria. È quasi a casa, è stanca, abbassa la guardia. «Ecco perché dico che la colpa è della signora Claire.» Ricordo l'insopprimibile senso di colpa di Claire Eberhardt la prima volta che l'ho incontrata sulla porta di casa sua. Si comportava come un sospettato che ha qualcosa da nascondere: una relazione clandestina. Un tentativo disperato di difendere un segreto finito in tragedia. «E anche questa è la verità: la bimba è caduta in piscina, ma è stata Violeta a salvarle la vita.» Inarco le sopracciglia in un'espressione scettica, ma lei annuisce molte volte. Un uomo piuttosto giovane coi capelli tinti di un castano chiaro viene verso di noi e apre la grata arrugginita. La signora Gutiérrez gli fa un piccolo inchino deferente, come a un prete. «Buenos días, don Roberto.» Lui restituisce il saluto formale, spalanca la grata ed entra nel negozio. La signora Gutiérrez parla con un'urgenza che la lascia senza fiato: «L'unica persona che sa cosa è meglio per i bambini è la madre. La decisione non spetta al governo. Don Roberto interrogherà lo spirito di Violeta. Solo lei ci può consigliare». Alcuni operai ispanici scendono dall'autobus, e lanciano occhiate curiose verso di me mentre, sulla via di casa, si fermano alla Tienda Alma. La signora Gutiérrez ha chiamato i bambini. Con un ultimo sguardo alla strada
piena di gente, illuminata dal sole al tramonto, seguo il clap-clap dei suoi tacchi all'interno della botánica buia. La Gutiérrez, Roberto e io andiamo nel retrobottega e ci sediamo a un tavolino da gioco sul quale sono posate una radiolina e una candela bianca. Mi chiedo se sentiremo la voce di Violeta attraverso l'altoparlante della radio. Roberto è sui venticinque anni; un omosessuale scuro di carnagione, con un taglio di capelli audace - parzialmente rasati sulla nuca e più lunghi sopra - e l'orecchino d'oro a cerchio. Indossa una camicia di seta color tabacco e pantaloni marroni, ma in lui qualcosa è fuori squadra. Ha un corpo sproporzionato - le braccia troppo lunghe per il busto rachitico - e ha difficoltà ad articolare le parole. Mi pare che abbia un lato della bocca paralizzato, e mentre si sforza di spiegarci come ha avuto il suo dono, si sfrega la fronte per la frustrazione. «Mio padre e mio nonno lo facevano al villaggio. C'erano un centinaio di persone che aspettavano in fila. Ho cominciato a imparare a sette anni.» Riguardo alla consultazione, poi, l'accordo è semplice: «Voi mi dite la verità e io vi dirò la verità». Accende la candela. Nonostante l'esterno sfregiato, nel negozio i pavimenti sono puliti, c'è un certo ordine e aleggia un piacevole aroma di incenso alla lavanda. Dietro i vecchi banconi di legno gli scaffali sono pieni di boccette quadrate da quindici grammi di olio rosso, blu e verde. Dal pavimento al soffitto, mensole cariche di candele di vetro lunghe venticinque centimetri, ciascuna con un santino e una promessa di salvezza, fortuna o protezione. Dal soffitto pendono grappoli di perle colorate. Vicino alla porta, confezioni di erbe e spezie, la statua in gesso di un capo indiano, e una pianta di aloe con tanti nastri colorati legati alle foglie spinose. In una vetrinetta sono allineati rosari, statuette di mucche, ciondoli con un occhio che ti fissa dal centro di un triangolo nero, libriccini bisunti sulla "Magia rossa" e la "Magia verde", e su un espositore girevole, immaginette in plastica di tutti i santi, numerate per facilitare la ricerca. Abbiamo lasciato Teresa e Cristóbal col capo indiano e i ciondoli per sederci al tavolino da gioco, dietro un tramezzo. Alle nostre spalle, posati su un altare a più ripiani, bicchieri d'acqua, candele, vasi di crisantemi, e in un piatto tre piccole uova coperte di confetti multicolori. Buona parte delle spiegazioni è in spagnolo, con poche incursioni nell'inglese. La signora Gutiérrez espone la situazione dei bambini di Violeta.
Don Roberto ascolta e le chiede di scrivere il suo nome e il nome da ragazza di sua madre su un quadernetto. Conta quante lettere compongono i due nomi e distribuisce lo stesso numero di carte dei tarocchi. «Per favore, pensate alla madre di questi bambini, Violeta Alvarado.» Obbediente, lei chiude gli occhi. Io fisso la radio ed evoco la foto col pappagallo. Poi ho la netta sensazione di stringere in mano la piccola Bibbia rilegata in pelle di Violeta; sento com'è asciutta e compatta, e mi ricorda il piccolo corpo commovente del colibrì che trovai una volta sul balcone. Don Roberto invita la signora Gutiérrez a non incrociare le gambe e a non sporgersi sul tavolo, perché disperderebbe "l'energia". Deve scoprire due carte, da destra a sinistra. La prima è El Sol, il Sole. «Questa carta rappresenta il Salvador» dice don Roberto. La seconda, con la figura di un neonato, rappresenta l'America. Sbadigliando, raccoglie le carte con gesti ampi ed esperti e riforma il mazzo. Chiede alla signora Gutiérrez di scegliere sedici carte. «Adesso dovete pensare molto intensamente a quella persona.» Noi restiamo zitte. Lei china il capo e prega. Don Roberto sussurra: «Sento il suo spirito molto vicino. Dicci, mamà, che cosa desideri per i tuoi due bellissimi bambini?». Con aria solenne don Roberto dispone sul tavolo le sedici carte. Le fa un cenno e lei ne volta una a caso. È la carta chiamata El Sol. Un brivido mi attraversa il corpo, come una scossa di terremoto. La bocca di Roberto si torce nello sforzo di spiegare quel che vede. «La madre vuole che i bambini tornino a casa dalla nonna in Salvador.» La signora Gutiérrez si preme tutt'e due le mani sul cuore. «L'ho sempre saputo!» Lui fa segno di girare la carta accanto a El Sol. È il Diavolo. Infierno! «Ma» un lato del viso si contorce e comincia a balbettare, «il Salvador sarebbe un vero e proprio inferno.» Lei getta un grido acuto, e Teresa, che stava facendo girare l'espositore dei santi, ci lancia un'occhiata ansiosa. «I bambini devono restare qui.» «No!» «È meglio.» Lei scuote la testa e afferra le mani di don Roberto. L'intensità dei suoi sentimenti mi innervosisce. Il giovane china la testa su di lei. «Le dirò di Violeta» dice piano, a fati-
ca. «Non è in pace.» A un tratto mi rendo conto che è vero, e non solo per Violeta ma per intere legioni di defunti. «Aveva una pelle più chiara della mia» continua Roberto. «Le piaceva ridere. Non è certo che i bambini abbiano lo stesso padre.» La signora Gutiérrez fa cenno di sì, serissima. «C'è un altro bambino, un bambino abbandonato.» Il bambino rimasto in Salvador. Gli occhi mi si colmano di lacrime roventi, ho paura di perdere il controllo. «E Violeta ha combattuto una grande battaglia nell'acqua.» Lei lascia andare le mani di don Roberto e si raddrizza meravigliata. «Sì» dice, «in una piscina.» Don Roberto chiude gli occhi. «Violeta lotta nell'acqua. Qualcuno è in pericolo. Stanno annegando. Sul fondo della piscina Violeta vede una bruja del mar. Una strega del mare!» La signora Gutiérrez trattiene il fiato, io sento un tremito nelle ossa. «La strega ha lunghi capelli bianchi e occhi azzurri. È una strega gelosa, tiene la mano intorno alla caviglia della persona che sta annegando, e cerca di trascinarla in fondo all'acqua, fuori dalla vita.» Don Roberto si sfrega la fronte e stringe forte gli occhi. «Violeta ha molta paura, ma ha un cuore grande.» Un singhiozzo addolorato della signora Gutiérrez. «Quindi non esce dall'acqua, ma salva la persona che annega. E per questa volta, per questa sola volta, la strega lascia la presa. La persona è salva.» La signora Gutiérrez paga venti dollari per la seduta, due dollari per una immaginetta di El Niño, e un dollaro e settantacinque per quindici grammi di un olio rosso che si chiama Rompe Caminos, e che secondo don Roberto «riaprirà le quattro vie». Guardo la boccetta e vedo che l'olio viene prodotto a Gardena, California. «E lei» mi avverte, «se continua a pensare troppo a sua cugina, diventerà come lei.» Non so se vuole dire salvadoregna o morta, ma don Roberto mi consiglia il seguente rimedio: riempire un contenitore di una mistura di latte di capra, latte di mucca e latte di cocco, che posso trovare alla Tienda Alma. Togliere i petali a un fiore bianco, aggiungere un qualunque profumo che mi piaccia e guscio d'uovo tritato molto fine. Entrare nella doccia e rove-
sciarmi tutto sulla testa. Questo mi rilasserà e produrrà una "pulizia spirituale". Poi dovrei mettere a galleggiare un fiore bianco in un bicchiere d'acqua e posare il bicchiere più in alto della mia testa. L'ideale è sopra il frigorifero. Ogni quattro giorni dovrò cambiare il fiore, però non devo buttarlo giù, ma su. In questo modo, lo spirito di Violeta salirà in alto, e se lo faccio per tredici giorni, riposerà in pace. Ancora inspiegabilmente turbata, prendo dallo scaffale un santo di gesso in vesti azzurre come talismano, ma don Roberto rifiuta di vendermelo. «Non le serve. Faccia come le ho detto. Se ha fede, funzionerà» dichiara don Roberto, staccando le parole, «come un miracolo». Fuori, propongo alla signora Gutiérrez di riaccompagnarla a North Hollywood, ma non volendo accettare favori da me, dice di preferire l'autobus. «Cosa ne pensa?» chiedo. Lei è rassegnata. «Ho fiducia in don Roberto.» «Lo sa che i bambini devono essere dati in affidamento?» Annuisce tristemente. «Ti verremo a trovare per il tuo compleanno, Barbie e io» prometto a Teresa. Lei mi risponde col suo meraviglioso sorriso. «Grazie, miss Ana.» «Cristóbal, avrò qualcosa anche per te.» Eppure sento ancora un dolore che mi opprime il petto, mentre risalgo in macchina, per quel che li aspetta, la giostra di servizi sociali a corto di quattrini che li accompagnerà fino alla gravidanza, alla pallottola che li ucciderà, o ai diciott'anni. Ma c'è speranza. Ci sono io. Io posso fare in modo che sia diverso. Posso assicurarmi che siano trattati bene. Posso essere la loro protettrice. Prometto a me stessa di parlare ai loro insegnanti. Di tenerli lontani dalle bande. Di portarli all'ufficio dell'Fbi, come fanno gli altri agenti con i loro bambini, che restano sempre molto impressionati. Andremo al cinema e allo zoo. Porterò in spiaggia i miei cuginetti. Ormai sono tornata sulla Jefferson, in un tetro panorama di bassi capannoni di mattoni con rotoli di filo spinato sul tetto, fiancheggiati da recinzioni metalliche dove sono appesi manifesti pubblicitari di parrucchieri che fanno le treccine afro e di videogames a prezzi scontati. Un graffito violento, a lettere enormi, un ciclone di lettere, stinge su pareti di lamiera ondulata. Un centinaio di musulmani di colore si affollano sulla strada davanti a una chiesetta, diversissimi dagli ispanici di El Piojillo, ma gli uni e gli altri lontani anni luce da quelli che all'ora di pranzo fanno compere a
nord di Montana. Se solo bastasse una goccia d'olio per riaprire le quattro vie. Le vie sono morte, nervi insensibili che non collegano più nulla, e ci sono tante Violeta Alvarado che rotolano come biglie in un labirinto senza cuore. Mi immetto in autostrada, pensando al morto marciapiede sul Santa Monica Boulevard dove lei stava sdraiata a occhi aperti, impotente, mentre l'oscurità saliva dal fondo del suo sguardo fino a intridere tutto, bocca, naso, occhi, e pian piano zittiva i suoni di questo mondo rumoroso con un immenso silenzio. Poi si trova sola nel buio e non riesce a distinguere nulla, se è la vita che si allontana da lei o un sipario che si alza. Le pupille hanno un ultimo fremito, poi restano immobili. È immobile anche il corpo. Sa di essere annegata. Le mani della strega del mare si stringono intorno alle sue caviglie e stavolta non ha la forza per divincolarsi. Ma no, non è la strega del mare! È sua madre, Constanza, che solleva la sua bambina da quella tremenda buia solitudine prendendola sulla sua spalla, dove il mondo è luminoso e sicuro. Che sollievo che sia lei, penso, sorpassando un camion e toccando i centodieci. Una madre, finalmente. 24 Mi piacerebbe poter dire che in ufficio l'atmosfera era cambiata, dopo gli sviluppi del caso Mason; che ci si avvicinava alla mia scrivania con reverente stupore, visto tutto ciò che era accaduto: un medico del Westside morto suicida e una grande diva del cinema accusata di detenzione di stupefacenti. Maureen ha confessato il nome di uno spacciatore che ha dei legami con la mafia messicana: almeno una cosa Jayne Mason non se l'era inventata, e cioè che il Dilaudid veniva dal Messico. È una buona informazione per Jim Kelly e i gentili signori e signore della sezione Narcotici, ma per il resto nel dormitorio il lavoro va avanti come al solito. Dal punto d'osservazione della mia scrivania noto che ognuno ha il suo problema. Qui ogni agente si occupa di quaranta casi, e solo nel mio contenitore delle pratiche in corso ci sono una ventina di rapporti incompleti su rapine a mano armata in altrettante banche. Ma in questo momento riesco a reagire in un modo solo a tutta questa violenza, cioè inanellando pazientemente le graffette, una dopo l'altra. Quando Henry Caravetti entra per distribuire la posta sulla sua carroz-
zella elettrica, la mia attenzione si risveglia, ma per poco. Ci vorranno settimane per completare il trasferimento alla sezione C-1, e probabilmente le passerò tutte piantata qui, cercando il coraggio di parlare a Mike Donnato. Sono giorni che ci evitiamo. Sarà lunghissima, questa collana di graffette. Il problema è... be', per le donne non esiste un'espressione, ma ho sentito i colleghi maschi definire questa situazione come uno stato di "erezione perenne". È una sensazione localizzata che si acutizza e diventa un desiderio intollerabile quando mi capita di intravedere, diciamo, la curva della sua schiena, e penso di far scivolare le mani nei suoi calzoni e tirargli fuori lentamente la camicia di jeans che ha un odore tanto dolce, di toccare la pelle tiepida, di sfiorare con le dita il punto dove la spina dorsale si assottiglia, appena sopra la solida sporgenza delle natiche. Sarà meglio che mi faccia una passeggiata. Il Travestimento Agente Antirapine mi dà una gomitata amichevole. Donnato è dall'altra parte della stanza con Kyle e Frank, con quella camicia, una cravatta di maglia verde bosco e i jeans; è atteggiato in una posa che mi sembra molto provocante, con le mani intrecciate dietro la nuca, il torace spinto in fuori e le ascelle sempre più aperte, aperte, aperte. Mi avvicino a passi incerti. Mi dico che è perfettamente naturale entrare nella conversazione, che quasi di sicuro verterà sul prossimo incontro in cui giocheranno squadre composte da giocatori famosi, e mi preparo provando una battuta sull'allenatore del San Francisco, Roger Craig, e sul suo avversario, Tony La Russa, che è vegetariano: l'ho appena letta nella pagina sportiva di un quotidiano. Sono a metà strada quando Galloway previene questo incontro potenzialmente penoso intercettandomi e portandomi nel suo ufficio. Mi dico che tanto vale usarla con lui, la mia battuta: «Secondo te Roger Craig frullerà La Russa come un passato di verdure?». «Ho sempre avuto un debole per Roger Craig» dice Galloway. «Era il lanciatore nella prima partita disputata dai Mets e ha avuto l'eleganza di finire la stagione con dieci vittorie e ventiquattro sconfitte.» Galloway prende dal tavolino la fibbia con il sigillo del NYPD e ci giocherella senza dire niente. Io resto in mezzo alla stanza, imbarazzata. «Jayne te l'ha rispedita?» «Ho chiesto a un capitano della polizia di New York di mandarmene una nuova. Stare senza mi innervosiva.»
«Ottimo, perché adesso sei la personificazione della calma.» Galloway si passa le dita incerte fra i capelli neri e ondulati. È evidente che qualcosa bolle in pentola. «Voglio che tu vada a parlare alla vedova.» «La vedova di Randall Eberhardt?» «Voglio che tu le esprima la solidarietà dell'Fbi in questa triste circostanza.» Io invece vorrei fare una scenata, proprio lì, sul tappeto dorato. «Cosa dovrei dire?» «Che sappiamo che suo marito era innocente e che troveremo i veri colpevoli.» Abbassa le veneziane per difendersi dalla mattinata abbagliante. «Come diplomatica faccio schifo.» «È solo una visita, così, da donna a donna. Niente di ufficiale.» «Perché devo farlo?» «Perché giova all'immagine dell'Fbi... e perché è giusto.» Si siede sulla poltrona da manager e studia le veneziane chiuse. Ha scelto questo modo per prendersi la responsabilità della grottesca irruzione allo studio medico che forse ha contribuito a spingere al suicidio Randall Eberhardt, e forse no. Il suicidio è un mistero, e non lo sapremo mai; per quanto l'umanità di Galloway mi tocchi profondamente, per quanto la trovi ammirevole, vorrei proprio tanto che se li scrivesse da solo, i suoi biglietti di condoglianze. Aspetto fino a sera, perché sembri una visita fuori orario di lavoro, "niente di ufficiale". Ragazzi, pagherei per non farlo. L'idea di esprimere solidarietà a una donna che prima tradisce il marito e poi licenzia una governante innocente perché l'ha scoperta mi ispira una repulsione assoluta. Reciterò la filastrocca e andrò via. Passando sul San Vicente, mi sento un po' tentata dall'idea di andare per l'ultima volta fino alla vecchia casa di Poppy sulla Dodicesima, e cedo subito, godendomi il sollievo di rimandare l'incontro anche solo di pochi attimi. Ma quando mi ci fermo davanti, vedo qualcosa di molto strano: le luci sono accese, e all'interno c'è qualcuno che cammina su e giù. Parcheggio accanto al marciapiede e percorro il vialetto d'accesso di cemento, passando sotto il faggio. Sulla soglia mi fermo e poso la mano sulla maniglia, rievocando l'effetto che faceva, col pollice che accarezza il vecchio chiavistello corroso da una patina verdastra. Reading Lock, c'è scritto.
Il campanello rotondo dipinto di vernice marrone non funziona, ma la porta è aperta. Entro in una stanzetta quadrata con il pavimento di quercia e un contatore del gas in ghisa. Immediatamente dalla cucina esce una signora, guance rosee e blazer blu, i lunghi capelli bianchi raccolti in una treccia sventolante, e mi porge la mano. «Salve, sono Dina Madison, Pacific Coast Realty, come va? Stupenda come prima casa, non trova?» «Prima casa? L'ha detto. Ci sono cresciuta.» «Vorrà scherzare. Se pensa al valore affettivo, se la prenda al volo. L'ho appena mostrata a due signori coreani che vogliono comprare anche la proprietà accanto, demolire tutto e costruirci due case all'ultima moda.» «Cosa sarebbero?» «Di solito, sui seicento metri quadri, cinque o sei camere da letto, appartamento padronale, caminetti e tutto il resto. Niente giardino, ma è un sacrificio necessario.» «Le ho viste.» Per esempio, la villa degli Eberhardt. «Anch'io non so se mi piacciono» concorda lei, cogliendo il tono della mia voce. «Le ho sentite chiamare antiarchitettura. Sono troppo grandi per il terreno su cui sorgono e possono essere brutte come il peccato, ma si vendono a milioni di dollari, sa com'è. La gente cerca sempre il nuovo.» I precedenti proprietari hanno lasciato qui un albero artificiale. «Così lei è cresciuta qui. Io vendo proprietà a Santa Monica da quando lei è nata, probabilmente. Agli inizi, nel 1961, a nord di Montana non costruivano una casa nuova da dieci anni. La gente abbandonava bungalow californiani e giardinetti in miniatura per comprare case a un piano a Pacific Palisades. Cercavano il nuovo. Montana era una strada da niente, sa com'è. C'era il Kingsberry Market e il distributore di benzina di Sully. I distributori di benzina certo non mancavano.» «Mi piacerebbe dare un'occhiata al giardino sul retro.» Le passo accanto ed entro in una cucina con gli armadietti di legno d'acero. Non ce la faccio a fermarmi qui, a pensare a cos'è accaduto o non è accaduto qui. Su un ripiano di mattonelle bianche rovinate c'è un televisore in miniatura Sony Watchman, acceso. «Me lo porto dappertutto» mi spiega. «Passo tanto tempo ad aspettare in case vuote.» Mi segue fino alla porta di servizio, sempre parlando. «Si ricorda il distributore Chevron all'angolo nordovest fra la Settima e
Montana? Poi c'era il Flying A e naturalmente l'Union 76 sull'Undicesima. Poi la Arco sulla Quattordicesima e un altro della Mobil là in fondo...» Lascio sbattere la porta con la zanzariera in faccia a questo elogio funebre sui distributori scomparsi di Santa Monica e scendo i gradini che portano in giardino. Un'unica lampadina montata su un lungo palo illumina i pois sbiaditi di un ombrellone piantato in mezzo a un tavolo rotondo. Prendo una sedia metallica sbilenca e ascolto insieme la voce della brezza marina fra le foglie e quella di un bambino qui accanto che fa: «Ahh-ahhahh». Seguo con l'occhio una scala che sale fino al tetto verde, dove una rugginosa antenna televisiva si staglia contro il cielo, di certo la stessa che mi portava in casa il Dick Van Dyke Show. Passa una macchina nel vicolo, e mi accorgo che c'è una doppia recinzione, una di rete metallica fissata a un'altra più alta, di legno. Forse era più economico mettere la rete metallica per sostenere lo steccato originale, che non abbatterlo e costruire una recinzione nuova, solida, senza fessure fra le assi di sequoia che lasciano passare la luce dei fari come quando abitavamo qui. La chiarezza del ricordo mi sorprende. Passavo tanto tempo in giardino, di notte? «Lei probabilmente non ricorda, ma sul tratto delle Palisades fra la Settima e l'oceano si poteva comprare un appezzamento doppio con quarantamila dollari.» Mi giro di scatto verso la sagoma opalescente dell'agente immobiliare, ritta in piedi dietro la porta. «Hanno cominciato a dividere gli appezzamenti negli anni Cinquanta, poi naturalmente Laurence Welk ha costruito la sua bianca torre scintillante e adesso eccoti i grattacieli, se vogliamo chiamarli col loro nome. Non rispettiamo l'oceano come dovremmo, sa com'è. E adesso ecco che Santa Monica si ricostruisce per il ventunesimo secolo.» Mi alzo con impazienza e spalanco la porta. L'agente immobiliare si è voltata verso il televisore; il servizio d'apertura del notiziario locale della sera si occupa della piccola sommossa che si è verificata a Beverly Hills quando Jayne Mason ha fatto la sua apparizione da Saks Fifth Avenue per presentare la nuova linea di cosmetici. Nessuno aveva immaginato che duemila donne avrebbero fatto la coda per vederla. Il servizio d'ordine ha ceduto, e una folla di casalinghe di mezza età si è scatenata nel reparto cosmetici. Guardiamo le riprese grottesche su questo stupido schermo in miniatura, e costei non sa dire altro che «non è stupenda?» quando fanno vedere Jayne Mason che getta rose sulla
folla. «È ancora la donna più bella del mondo.» Quindici secondi dopo il servizio finisce con una nota solenne, l'annuncio che il medico denunciato dalla Mason per averle prescritto un eccesso di farmaci stupefacenti si è suicidato. Mostrano di nuovo la foto sfocata di un Randall Eberhardt ingobbito, con il sottinteso che si sia ucciso perché era colpevole di violazione dell'etica professionale. Mi trovo in mano un foglio con la descrizione della casa e la valutazione, 875.000 dollari. Lo accartoccio, e uscendo lo getto nel vaso dell'albero artificiale. Inquieta e scontenta, risalgo la Dodicesima e parcheggio davanti alla casa degli Eberhardt, costringendomi a percorrere il vialetto d'accesso. Tutta l'ostilità che potevo avere verso Claire Eberhardt comincia a sparire appena mi apre la porta. È di una magrezza malsana, e ha due occhiaie gonfie e scure. Dalle scapole ossute le pende addosso una vecchia camicia gialla coi bottoncini. Ha i polsini rimboccati: per lei è troppo grande. Magari era di Randall, o magari ha perso cinque chili in una settimana. Alle sue spalle la casa sembra vuota, c'è solo il riverbero di un televisore sintonizzato sulla stessa rete locale che ho appena visto nella Dodicesima. Mi rendo conto che ha appena visto suo marito per l'ennesima volta massacrato dai media. Mi presento di nuovo, perché chiaramente è troppo agitata per riconoscermi. Quando le arriva la parola "Fbi" comincia a tremare. «Perché? Cosa fa lei qui?» Un occhio si arrossa e versa qualche lacrima. Con la mano incerta si tocca una guancia. «Mi è stato chiesto di informarla sulle nostre indagini.» «Informare me? Perché?» «Vogliamo farle sapere che suo marito non è più l'oggetto...» «L'oggetto?» «È stato completamente scagionato. Spero che questo possa esserle di conforto.» Di fronte al suo viso vuoto, devastato, mi sento un'imbecille, e mi trincero dietro un linguaggio ancora più pomposo: «Stiamo perseguendo attivamente il vero responsabile, che, abbiamo motivo di sperare, verrà assicurato alla giustizia dalle forze dell'ordine». Non mi ascolta. È intontita, e le parole devono arrivarle in un brusio confuso. «Si è ammazzato.» «Lo so.»
«I bambini sono a Boston dai miei. Che strano, a mia figlia piaceva tanto la California...» Sì, è proprio vero: sorride. Un ghigno atroce sotto una ragnatela di lacrime luccicanti. «... Ma adesso ha paura di stare in questa casa. Era la principessa del suo papà.» Nel suo ambulatorio il dottor Eberhardt mi ha raccontato di sua figlia, la scimmietta che si arrampicava sul pianoforte. Ricordo la naturale tenerezza della sua voce. «Ho appena visto Jayne Mason al telegiornale. Stava benissimo. Afferma di non aver mai fatto la chirurgia plastica e Randall diceva che è vero. Scommetto che vende tantissimi cosmetici. Ci era sempre piaciuta al cinema, ma la voce, ah, la voce è talmente incredibile. Anche prima che diventasse sua paziente, avevamo tutti i suoi album. Li abbiamo portati da Boston.» Una smorfia spasmodica. «Pensa di tornarci?» Non risponde. «Lo sa che mi hanno chiamata per un talk show? Vogliono fare una puntata sulle "mogli di medici criminali".» «Che volgarità.» «Ho detto che Randall non era un criminale. Lui non ha fatto niente di male.» «Lo sappiamo, signora Eberhardt.» «Jayne Mason sì, invece.» All'improvviso il profumo notturno dei gelsomini sembra più intenso che mai, e ci avvolge entrambe nel suo aroma di zucchero caramellato. «Cos'ha fatto di male Jayne Mason?» Claire Eberhardt si stringe le braccia sul petto per difendersi dall'umidità della brezza di mare. La prima volta che ci siamo incontrate su questa soglia, un'infermiera e una poliziotta, per un momento avevamo condiviso la consapevolezza di come vanno le cose a questo mondo. Di nuovo, quei suoi occhi imperfetti fissano i miei. Ma dice soltanto: «Buona fortuna» e chiude delicatamente la porta. Ripercorro il vialetto, risalgo in macchina e metto in moto. Mentre faccio un'inversione a U due fari lampeggiano nello specchietto e vedo la Acura color bronzo di Randall Eberhardt che esce dal garage con uno scatto violento. Le gomme sobbalzano sul cordone del marciapiede e gli abba-
glianti sono accesi. Sulle prime sembra che mi venga dritto addosso, e per un momento resto accecata. Poi la luce sparisce dallo specchietto e capisco che Claire Eberhardt ha svoltato in direzione opposta, verso il San Vicente Boulevard. Mi giro e la seguo con la Barracuda giù per la discesa della Settima per Chatauqua e quindi sulla Pacific Coast Highway, verso nord. Continua a venirmi in mente l'immigrata giapponese che si vergognava del marito donnaiolo. Si vergognava tanto che proprio qui vicino, alla Will Rogers Beach, camminando prima sulla sabbia e poi sulla battigia, si è immersa fra le onde con i due figli in braccio. I bambini sono annegati, lei no. Ma Claire Eberhardt è sola in macchina, tiene una velocità costante di ottanta chilometri all'ora e si ferma prudentemente a tutti i semafori rossi. Continua ad andare avanti e io mi rilasso un po' pensando che magari sta solo facendo un giretto per calmarsi, ma appena dopo Pepperdine svolta a sinistra su Arroyo Road, la strada che porta alla casa di Jayne Mason. Rimango bloccata da un'intera banda di motociclisti, saranno in trenta o quaranta sulle Harley, e occupano cinquecento metri di strada zigzagando da un lato all'altro come uno sciame di vespe impazzite. Ferma con la freccia che lampeggia, sento l'adrenalina che mi circola in corpo sempre più veloce. Molto tempo fa, così mi sembra, mi sono trovata in una situazione altrettanto instabile nel parcheggio di una banca. Ci potevano essere delle persone in pericolo, non avevo modo di saperlo, ma ho scelto di cavarmela contando solo sulle mie forze, con una decisione spavalda e di non chiamare rinforzi. Quella volta sono stata fortunata. Stavolta mi collego via radio. «Auto 345» dico alla sala radio del Bureau. «Richiesta di contattare lo sceriffo della contea di L.A., stazione di Malibu. Che si preparino a intervenire immediatamente nella proprietà di Jayne Mason su Arroyo Road. Possibili incidenti. Informateli che sul posto c'è un agente dell'Fbi che ha bisogno di assistenza.» I motociclisti passano e io mi tuffo attraverso l'autostrada, facendo scattare a ottanta la Barracuda in pochi secondi, sobbalzando sulla strada sterrata sotto gli alberi di eucalipto, lungo il prato ombroso e deserto finché non vedo la guardiola del cancello che si avvicina in fretta. Claire Eberhardt deve aver usato il pass di suo marito per entrare, perché adesso la sbarra è abbassata. Calcolando che questo ostacolo rallenterebbe le macchine dello sceriffo, e ormai sicura di avere pochissimo tempo, abbasso la
testa e accelero, catapultando in aria la sbarra di legno che ricade fra i cespugli. Spero di non aver danneggiato l'auto. Con tutti questi imprevisti, ho regalato a Claire Eberhardt tre minuti buoni di vantaggio. Sterzo sulla ghiaia dello spiazzo, e mi fermo slittando accanto alla Cadillac di Magda Stockman. L'Acura è lì, ancora in moto. La porta d'ingresso del muro bianco è socchiusa. Dev'essere riuscita a introdursi in casa con la chiave di suo marito. Entro nel patio, male illuminato da un paio di faretti e dalle luci verdi della piscina. All'altro capo del patio in ombra Claire Eberhardt si avvicina alla sagoma massiccia di Magda Stockman. Con un gesto infastidito, la Stockman dice qualcosa all'intrusa, poi si china a raccogliere una canna per innaffiare e la riappende al gancio. Io continuo ad avanzare, e grido: «Claire!». Qualcuno apre un altro po' le porte finestre scorrevoli e dice: «Ehi, salve. Cosa succede?». Per un attimo la figura di Jayne Mason si staglia in piena vista sulla soglia della stanza illuminata. Claire Eberhardt estrae una pistola e spara due colpi. Il vetro va in frantumi, tre esplosioni che rimbombano nel giro di due secondi. Ho tirato fuori la mia arma e la punto verso la moglie del dottore. «Polizia. Giù la pistola.» Gira la testa verso di me in una lucida frustata di capelli neri. Trasalisco ma non mi muovo. Sono ben bilanciata sulle gambe e ho le mani fermissime. Ormai agisco di riflesso: le centinaia di ore di allenamento filtrano il tumulto di emozioni che si affollano ai margini della coscienza. «Posi l'arma» dico in tono deciso. Magda Stockman fa un passo avanti e Claire Eberhardt, girandosi di scatto, le pianta la pistola nello stomaco spingendola contro una fioriera di pietra. «La metta giù.» «Non sia stupida» gracchia la Stockman, «dobbiamo chiamare un'ambulanza.» Alla mia destra, con la coda dell'occhio scorgo le lunghe incrinature del vetro e il grosso buco nella porta. All'interno della stanza Jayne Mason, stesa a terra, rantola, ansima e tossisce spruzzi di sangue che imbrattano le lunghe schegge frastagliate di vetro. «Mi ascolti, Claire. Ho già chiamato i rinforzi. Sta arrivando la polizia.» «Avanti, sparami.» Il viso di Claire Eberhardt è contorto, nella luce che scende leggera come neve.
«Lei ha tanti motivi per vivere. Pensi a Laura e Peter. Peter è così piccolo. Vuole che affronti la vita senza padre né madre?» Mi sono avvicinata di un passo. Lei sta ancora tenendo la canna della pistola contro il petto della Stockman. «La capisco, Claire. So cosa ha passato. Questa situazione si può risolvere. Lei posi la sua pistola e io poso la mia. Poi ne parliamo.» Lei si limita a fissarmi, come una macchina rotta. «Pensi ai suoi figli, basta che pensi a loro.» Molto lentamente Claire Eberhardt si piega e lascia cadere la pistola. «No!» grida la Stockman, e si dirige barcollando verso l'interno della casa. «Ha fatto la cosa giusta» dico in fretta a Claire Eberhardt. «Adesso pensi solo a calmarsi.» Sentiamo le sirene e, poco dopo, il brusio delle radio della polizia fuori dal cancello. Con il soggetto neutralizzato e i rinforzi sul posto, posso avvicinarmi. Rinfodero la pistola ma ci tengo sopra la mano mentre mi avvicino, sempre parlando in tono rassicurante. La pistola è un piccolo revolver Smith & Wesson calibro 38, proprio il tipo di arma che un medico spaventato comprerebbe per difendere la sua dimora. Non è molto precisa, oltre i dieci metri. La allontano con un calcio. Poso una mano sulla spalla di Claire e lei cede sotto il mio tocco, lasciandosi scivolare sull'orlo del vaso e mormorando: «Mi dispiace». La polizia locale prende il controllo della situazione. Non spetta a me. Ammanettano la persona sospetta e la prendono in custodia. Prestano le prime cure e chiamano il personale di soccorso, che arriva insieme a un tenente della sezione Omicidi dell'ufficio dello sceriffo. Ci presentiamo e lui mi chiede di andare alla stazione di polizia di Malibu per fare una deposizione. Guardo dall'esterno, attraverso il grosso buco aperto dalle pallottole nella porta finestra, i soccorritori che tagliano la blusa inzuppata di sangue e coperta di schegge di vetro e posano degli elettrodi sul petto della paziente per comunicare via radio i segni vitali della vittima al più vicino Pronto Soccorso. Il bellissimo viso è disteso, di un colorito normale che si fa sempre più pallido, gli occhi chiusi come nel dormiveglia. Uno dei tecnici preme sul petto e insieme al sangue salgono delle bolle d'aria. «Emotorace» dice. Il tenente della Omicidi vuole conoscere le condizioni della vittima per incriminare la persona sospetta. L'ospedale comunica per radio che non ci sono segni vitali. Le lesioni sono state gravissime. Probabil-
mente, l'attrice è morta nel giro di pochi minuti. L'accusa è di omicidio. L'ultima volta che faccio caso a Magda Stockman, la vedo inginocchiata sul cemento bagnato, che si torce le mani a testa bassa e geme: «Oh mio Dio, Jay, oh mio Dio, Jay». Strano che i suoi singhiozzi di dolore suonino identici a quelli di mia madre. Da quindici anni non sentivo la sua voce in questo modo, alta e chiara. Quando le dicono che la sua famosa cliente è morta, Magda Stockman abbassa lentamente il capo fino a posare la fronte a terra e resta così a lungo, curva in una posa di mortificazione, finché qualcuno non la fa rialzare. Mi torna in mente il pianto di mia madre e avvampo di paura. Quel suono mi aveva svegliata. Ero scesa dal letto, barcollando ero andata nell'ingresso e lei mi aveva detto di infilarmi un golf sul pigiama perché, per strano che sembrasse, andavamo al molo a prendere un gelato. Ricordo che sopra il mio letto era appesa una figura intagliata di Mary con l'agnellino, e che avevo anche un agnelUno nero di pezza con dentro un carillon che suonava la canzone. Lo tenevo in braccio, quell'agnellino, quando ero uscita dalla mia camera per la seconda volta, con il golf abbottonato per bene perché ero una brava bambina obbediente. Si sentivano voci e grida in giardino. Non riuscivo a trovare mia madre, così ero uscita e avevo visto mio padre e il nonno che litigavano violentemente. I miei dovevano essere appena arrivati da Las Vegas, dove si erano sposati, e Poppy, che sarà stato furibondo con quell'ignorante di uno straccione che osava prendersi sua figlia, lo minacciava con il manganello nero da poliziotto, puntandoglielo contro. Mi metto fra loro due. Mio padre mi prende in braccio e io mi aggrappo a lui, gli serro le gambe intorno alla vita mentre Poppy cerca di strapparmi via. Urlano entrambi. Io cado sull'erba, un'auto passa nel vicolo e manda nel giardino tante lame di luce. Nel vortice luminoso, vedo. Non è un caposquadra in un campo di fagioli, è il nonno che alza il manganello e colpisce mio padre sulla tempia e sulle spalle e sul collo e colpisce colpisce colpisce finché il sangue sprizza dalla fronte e dalle tempie e mio padre si contorce, crolla e resta immobile. Il motore romba e fa il rumore più forte del mondo mentre io mi arrampico sul sedile dell'auto parcheggiata davanti a casa dove mi aspetta la mamma, e mi rifugio nel suo grembo sotto il volante enorme raccontandole quel che ho visto, forse, o forse sono incapace di spiccicare parola, ma in ogni caso andiamo al molo, quella notte. Mi ricordo come tagliava le carni il vento di mare e che sedemmo su una panchina dove, finalmente, lei
mi strinse a sé e scoppiò a piangere. Se sapesse o sospettasse che suo padre aveva ucciso il suo sposo, non lo saprò mai. Mi chiedo come si sarà liberato del cadavere, ma del resto era un poliziotto, chi meglio di un poliziotto sa nascondere un delitto? Magari l'ha buttato nel Topanga Canyon, magari l'ha consegnato all'ufficio del medico legale con un rapporto su una lite fra due ubriachi in un bar di messicani, ma la mamma deve aver saputo che Miguel Sánchez se n'era andato perché in qualche modo la furia di Poppy l'aveva sconfitto, e ha vissuto al servizio del vincitore finché, a quanto pare, continuare a vivere non ha avuto più senso; il fatto di cui ero stata testimone, quello l'ho seppellito, per me e anche, me ne accorgo adesso, per lei. «Ana. Sono qui.» Mi parla con molta dolcezza, forse perché sa che non mi trovo su questa terra, in questo momento. Lentamente, l'acutissimo ronzio che mi assordava scompare e ricomincio a udire il rumore delle onde, uguale, ritmico, lontano. Ero rimasta ritta sul ciglio della scogliera. «Stavo uscendo dall'ufficio quando è arrivata la chiamata. Kyle e io siamo venuti a dare un'occhiata.» «Grazie.» «Non ci hanno incaricato, siamo qui per conto nostro.» Io non rispondo. Mike Donnato mi circonda con le braccia; io mi scosto da lui piegando indietro il busto, e guardo la lunga linea bianca dei frangenti che si disegna sul mare color carbone. «Stai bene?» Scuoto la testa. No. Non sto bene. «Posso aiutarti?» Mi volto verso di lui e ci abbracciamo stretti, avidamente. «Sono venuto per te» sussurra. Cerco i suoi occhi nel buio. Sono pieni di domande. Alla fine dico: «Non posso». «Perché?» «C'è sempre un tradimento.» Mi sciolgo dal suo abbraccio e me ne vado senza voltarmi. Mezz'ora dopo sono alla stazione di polizia di Malibu, a fare la mia deposizione. 25
L'agente speciale Capo Robert Galloway indice una conferenza stampa nel nostro ufficio per chiarire le circostanze della morte di Jayne Mason. La orchestra con cura, assicurandosi la presenza del medico legale e dello sceriffo della contea di L.A., e che parlino nel tono rispettoso che si conviene alla scomparsa di un simbolo nazionale. Una delle decane dei musical MGM - non ricordo mai come si chiama, è quella che a ottant'anni porta ancora la pettinatura da folletto - legge un comunicato che annuncia la nascita della Fondazione Jayne Mason per il controllo delle armi da fuoco. La stampa ottiene quello che voleva e tratta bene Galloway. Lui lascia il podio con aria soddisfatta. Con la scusa di essere un'agente dell'Fbi, Barbara riesce a partecipare al funerale, o perlomeno a piazzarsi in posizione vantaggiosa tra gli agenti del servizio di sicurezza e ad avere una buona visuale dei gradini d'ingresso della chiesa presbiteriana di Beverly Hills. Dice che il massimo è stato vedere Sean Connery, ma c'erano abbastanza celebrità di Hollywood da riempire i rotocalchi per mesi. Come nelle più importanti apparizioni ufficiali del Presidente, i media hanno organizzato un'estrazione a sorte per decidere quali giornalisti ammettere nel santuario. Era vietato l'ingresso a fotografi e operatori, ma dalla pletora di fotografie "riservate" della bara coperta di rose, degli ex mariti in lutto (compreso il re delle auto usate), dei figli e dei nipoti, bisogna concludere che dentro alle borsette nere di Chanel dei dolenti ci fossero parecchie Instamatic. Barbara torna dal funerale con un'aria svagata. «Sono stata testimone di un evento storico» dichiara, mentre appende la giacca del completo grigio scuro, controlla i messaggi telefonici, e infine versa il suo famoso caffè alla cannella nelle due tazze blu scuro con lo scudo dell'Fbi. «Niente battutine?» In tempi migliori le avrei detto che la sua adorazione per Jayne Mason è patologica, ma non ne ho la forza. Scuoto la testa e basta. «Si può sapere cos'hai?» «Non lo so. Ho sempre voglia di piangere.» Scrollo le spalle. Come sono gentili, gli occhi azzurri di Barbara. «È stato un trauma.» «Oh, quello non c'entra.» «Ma scherzi, veder sparare a qualcuno? Dovresti parlarne con Harvey McGinnis.» «Non sei la prima che me lo dice.»
«E allora?» «Non ho bisogno di uno strizzacervelli.» «Esattamente quello che diceva Patty McCormack ne Il giglio nero.» Beve un sorso di caffè. A me proprio non va. «Sei stata a nuotare?» «No.» «Almeno va' a nuotare.» «È già dura scendere dal letto.» Mi alzo in piedi. «Grazie del caffè.» «Così non va» dice Barbara, la sorella maggiore. «Passerà.» Continuo a sbrigare con diligenza il lavoro burocratico sulle rapine in banca, rifugiandomi nella routine. Incontro il nuovo partner di Donnato, Joe Positano, uno di quei ragazzotti esaltati e aggressivi con una faccia quadrata da sfigato e i capelli ultracorti, convinto che salverà il mondo. Credevo di esserne gelosa, ma ogni volta che lui e Donnato escono dall'ufficio è un sollievo, finché un bel giorno Donnato mi blocca all'ingresso. «Ti comporti come se fosse un filarino da adolescenti.» Io sguscio via. «Ridicolo. Scusa, devo andare a comprare una Barbie.» Mi acchiappa per la collottola con una presa scherzosa ma non troppo e mi fa uscire da una porta laterale come se fossi un cucciolo riottoso. Ma quando siamo soli sulle scale piene di echi lo scherzo finisce. Non ci baciamo, non ci avviciniamo nemmeno, anzi teniamo la massima distanza possibile, come se l'aria che ci separa fosse densa come l'atmosfera di Giove. «Sto per lasciare Rochelle. Ne parlavamo da tempo.» «Oh, Gesù, Mike.» «Sarà un disastro, un vero disastro per i bambini.» Si passa una manica sugli occhi. I miei si inumidiscono. «Non farlo per me.» «Chi ha detto che c'entri tu?» Io mi allontano ancora, e sento contro la schiena il ruvido muro di cemento. «Te l'ho detto, non posso. Che tu sia sposato o no.» Soffia uno strano vento qui nel pozzo delle scale, con un gemito inquietante. «Allora ciò che è successo è solo... non conta.» Questo mi fa male. «Al contrario.» «Allora perché?»
Me l'ha chiesto lui, ma adesso distoglie lo sguardo, indifeso. «Non credo che sia possibile.» «Cosa non è possibile?» Sbotta in una risatina. «La felicità? La fiducia? Il futuro del mondo? Cosa?» Poi si accorge che in me c'è solo silenzio. «Capito.» Sono convinta che la cosa migliore da fare è lasciar perdere. «Se ho qualche colpa per quello che è accaduto fra te e Rochelle, mi dispiace sinceramente.» Scendo di corsa giù per le scale. Io e gli alcolizzati facciamo la fila alla cassa di Thrifty sul Santa Monica Boulevard, a North Hollywood. Loro comprano la bottiglia di gin a tre dollari e novantacinque per la notte, e io ho in mano una confezione di soldatini di plastica per Cristóbal e una Barbie per Teresa. Magari fossi capace di sballare come loro e di farmelo piacere. Ho una fitta perenne nel petto, come se qualcuno ci avesse affondato un piccone, e alla conversazione più banale, come questo minimo scambio di parole con Hugo il cassiere («Ecco qua.» «Grazie.»), dai miei occhi, inspiegabilmente, sgorga un filo di lacrime. Fendo la folla di mendicanti che sta fra il negozio e la macchina e sbatto la portiera, come per tener fuori i miasmi della loro degradazione. Mettendo in moto, faccio il proposito di scrollarmi di dosso questa debolezza. Quando vedrò Teresa e Cristóbal voglio essere padrona di me, un modello per i ragazzi, quella che gli mostra il lato positivo della vita, le soddisfazioni e i risultati che si ottengono lavorando sodo in questa società. Al citofono non risponde nessuno, ma la serratura del portone è rotta, e passando sotto l'intrico di canne d'organo della scultura salgo le scale metalliche. Sono le sei e mezza di sera e spero che la signora Gutiérrez sia a casa, a servire una cena nutriente, evitando così di fornire l'occasione per un intervento degli assistenti sociali, ma il rimbombo della musica che cresce via via che m'avvicino mi dà un brutto presentimento. Dopo che ho bussato e ho sferrato anche qualche calcio alla porta, alla fine mi apre un ragazzino bellicoso e sovrappeso che indossa una camicia hawaiana e fuma una sigaretta. «Cosa c'è?» mi fa. «Cerco la signora Gutiérrez.» «Non abita qui.»
Fa per chiudere la porta e io la blocco. «Che cazzo c'è?» Gli mostro il distintivo. «Fbi. Posso entrare?» Sdraiati sul pavimento ci sono altri cinque o sei ragazzini che giocano a un videogame, in un alone di fumo di sigaretta misto a chissà cos'altro. I loro occhi mi fissano e scivolano subito via; scherzano fra loro in spagnolo. Assumo un atteggiamento aggressivo e sto vicina alla porta. «Dov'è la donna che abitava qui?» «Te l'ho detto, signora. È andata via.» «Di chi è questa casa? Dove sono i grandi?» «È casa mia» dice il più piccolo, che porta occhiali rossi a specchio e tiene i comandi del videogame. «Di mia madre, per la precisione. È al lavoro. La signora che stava qui è tornata in Salvador.» «Ti devo parlare.» «Sicuro.» Si alza e mi si accosta con un'andatura spaccona, mentre gli altri fischiano e berciano, sfidandolo. Non mi piace affatto la sensazione di crescente pericolo, e il rumore assordante di technopop e gargarismi elettronici del videogame mi stordisce. «Fammi un favore, togliti gli occhiali.» «Che problema c'è?» «Voglio vedere se sei pulito.» È un duro: «Sono pulito». Si toglie gli occhiali, e rivela un'età di dodici anni circa. «È molto importante che tu mi dica esattamente cos'è successo alla signora Gutiérrez e ai bambini.» «Non è successo niente. Noi abitiamo qua di fronte, e lei è amica di mia mamma. Un giorno dice che torna in Salvador perché deve riportare dei bambini dai genitori, una cosa così...» «Dalla nonna?» «Sì, la nonna. Così con un centone ci siamo presi l'appartamento e tutto quello che c'è dentro.» I quadri con i vulcani sono ancora appesi alla parete. Il tavolino da gioco con la fila di bottiglie, intatto. Teresa e Cristóbal sono spariti, cancellati. Noto l'immagine plastificata del Niño de Atocha appoggiata alle mattonelle gialle della cucina. «Ha lasciato anche quella?» «Penso di sì.» «Ti serve?»
Scrolla le spalle. Prendo l'immagine e due mozziconi di candele votive. «Abbassate la musica.» Dal condominio è una passeggiata di due isolati; si passa accanto a qualche terreno vuoto e buio, a qualche rottame di auto abbandonato lungo il marciapiede. Ecco l'angolo di Santa Monica Boulevard: è come se le foto della polizia prendessero vita. Una strada principale, una fermata dell'autobus con una panchina azzurra, un edificio basso con le finestre murate che scopro essere uno studio di registrazione. A pochi passi un minicentro commerciale, con un fast food di pizza e pollo, una lavanderia e un grande negozio di dischi dipinto di rosa, è ingorgato di macchine in attesa di un parcheggio. Il traffico dell'ora di punta si muove adagio sulla strada principale, un flusso denso e oleoso di fari gialli. Se cercassi bene troverei i fori delle pallottole sulla panchina e anche sul muro di mattoni, ma non ne ho voglia. Mi hanno detto che Violeta era religiosa. Ecco la parrocchia: ragazzi di strada che appoggiandosi ai finestrini delle macchine offrono pompini per quindici dollari. Ecco il prete: uno schizofrenico senza fissa dimora, con un giubbotto da baseball da bambino che gli arriva ai gomiti, che cammina con passo strascicato, calpestando puntigliosamente tutte le commessure del marciapiede. Ecco le vetrate colorate: fiale spezzate di crack che luccicano sotto i lampioni arancione. E al posto dell'incenso, aleggia su di noi la benedizione profana dei gas di scarico. Eppure, appoggio l'immaginetta di plastica del Niño de Atocha sul davanzale di una delle finestre murate e gli chiedo, a lui che è il guardiano del lago, di benedire questo luogo assurdo dove una persona è annegata. Sistemo i mozziconi di candele, in ricordo di Violeta e di mio padre, due fantasmi che non conoscerò mai davvero. Nonostante i clacson e il rombo del traffico che sembra un jet al decollo e i passanti che mi sfiorano, chiudo gli occhi e lì in piedi prego, prego El Niño di vegliare su chi si è perduto. Prego che Teresa e Cristóbal camminino su una spiaggia di sabbia nera, dove l'acqua tiepida sarà piena di gamberi e granchi, e che quando raggiungeranno la radura nel bosco trovino un fratello maggiore pieno di gentilezza, e una nonna affettuosa che li accolga a braccia aperte. La Bibbia di Violeta è rimasta tutto questo tempo nel cassettino del mio cruscotto. Finalmente la metto a riposare sul davanzale della finestra. Per tutta la strada, mentre torno a casa, mi stringe la gola un sapore ama-
ro di tristezza. Quando arrivo, trovo un biglietto di Donnato infilato tra lo stipite e la porta. C'è scritto: «Chiamami». Non lo chiamo. Sei giorni dopo, il trasferimento alla sezione Rapimenti e Estorsioni diventa operativo. Anche se conosco quasi tutti i colleghi, il primo giorno non è uno scherzo. Ci sono nuove procedure, una sfilza di pratiche da sbrigare, un altro orario, e naturalmente un settore completamente diverso della giurisprudenza da mandare a memoria. Mi spostano all'altro capo del dormitorio, e dico addio al Travestimento Agente Antirapine. Nel mio nuovo posto non ci sarebbe spazio, così lo lascio appeso al piolo tracciando con una biro sugli strati geologici di moniti il mio consiglio: «Fate sempre dei dischetti di riserva». Il mio primo caso alla C-1 riguarda un dipendente scontento che ha tentato di sequestrare in un garage il proprietario di un negozio di cancelleria per estorcergli un riscatto. La vittima è fuggita e si è rifugiata a casa di un vicino che ha chiamato la polizia. Il rapitore è stato arrestato. Visto che sono l'ultima arrivata, mi viene affidato il compito di tornare dal vicino, che è già stato interrogato due volte, per verificare certi dati contenuti nella sua dichiarazione. Il sequestro ha avuto luogo nella Sesta, vicino a La Brea. A quest'ora la via più breve è il Santa Monica Boulevard, perciò mi trovo a ripassare davanti a questo angolo di strada. Vedo una cosa che mi fa accostare. Parcheggio la macchina proprio sulla fermata dell'autobus. È lo stesso autobus che Violeta prendeva per andare a lavorare nel Westside, quello da cui è scesa quella notte, il numero 4. Forse sferruzzava per tutto il percorso, forse sonnecchiava - passando accanto al McDonald, a Crown Books, Lou's Quickie Grill, il Formosa Cafè tutto cremisi, il Pussycat Theatre a Gennessee, le panetterie ebraiche nel distretto di Fairfax - ma Violeta Alvarado saliva sul 4 nello stesso posto, scendeva dal 4 allo stesso posto e il viaggio non la mutava affatto. Non faceva parte della mischia, lei. Sapeva bene chi era. Era venuta in America, era quello il suo viaggio, ed è finito qui, a un incrocio fra strade senza uscita, affollate di sciagurati viscidi e strafatti: i disadattati, il popolo della notte, i dimenticati, gli invisibili, i malati, i diseredati, gli sventurati senza rimedio. È finito qui il suo viaggio, e nell'ora più fredda, appena prima dell'alba.
Conosco quell'ora della notte, e conosco quei crocevia. Credo di aver passato la maggior parte della mia vita in quell'ora, in quel luogo; circondata da spettri, freddi come la morte. La differenza è che Violeta indossava la sua speranza come un semplice ornamento; le era stata data il giorno in cui nacque su una stuoia di petate nella giungla, un diritto ereditario senza complicazioni come il sole che occhieggia dietro la foglia di un bambù, ed ecco che alla luce di questo evento così banale, così impercettibile, questo dono viene rivelato anche a me. Scendo dalla macchina e attraverso adagio, pensierosa, il marciapiede. I disperati se ne sono andati, o almeno sono stati assorbiti dalla maggioranza di quelli che tirano avanti nonostante tutto. Avvicinandomi mi accorgo che quel che avevo intravisto dall'auto è proprio vero: l'immagine del Niño de Atocha è ancora in piedi, ma non solo. Il davanzale è pieno di oggetti sorprendenti. Hanno lasciato fiori, automobiline, caramelle e monete. C'è anche la Bibbia, intatta. Nessuno ha rubato al Niño. Nella nicchia del davanzale hanno messo altre candele: le candele della buona sorte dipinte con l'immagine di santi come quelle che ho visto nella botánica, un grosso cero rosso e verde avanzato dal Natale, e una collezione spaiata di candeline, infilate in cartoni di succo di frutta o assicurate a un cartoccetto di foglio di alluminio. Sono tutte accese. Qualcuno le ha tenute accese. Per la prima volta riesco a sentire che mia madre e mio padre sono dentro di me, insieme; poi si levano in alto, lasciando questa tenera compagnia di fiammelle, e salgono, salgono, uniti. Non so quanto resto lì immobile prima di tornare alla macchina e accendere la radio. «Qui auto 345. È in servizio l'auto 587?» L'operatore: «Sì, è in servizio». Gli comunico la mia posizione. «Puoi chiedergli di venire sul posto?» «È un'emergenza?» «Non è un'emergenza. Solo un miracolo.» Rimango appoggiata alla macchina per dieci minuti, finché Donnato arriva con il lampeggiatore in funzione, frena, slitta e si mette di traverso anche lui sulla fermata dell'autobus. Spalanca la portiera, corre verso di me col viso preoccupato. Io lo prendo per mano, davanti a quel cretino di Joe Positano, davanti a tutti. FINE