Marguerite Yourcenar
NOVELLE ORIENTALI
Traduzione di Maria Luisa Spaziani
La Yourcenar reinterpreta fiabe, leggende...
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Marguerite Yourcenar
NOVELLE ORIENTALI
Traduzione di Maria Luisa Spaziani
La Yourcenar reinterpreta fiabe, leggende e novelle tradizionali in maniera “soffice” e con una grande scrittura che ci tiene sospesi in spazio e tempo. Le fiabe qui narrate spaziano in un oriente dagli ampi orizzonti geografici, che passa da Grecia, Balcani, Cina, India e Giappone per dimostrarci che in fondo il modo di sentire spesso poi non è così diverso tra gli uomini. Sono tutte storie tristi, specialmente quelle slave sono quasi raccapriccianti, il tempo del mito, della bellezza, della gioventù e dell’amore passa e resta solo ricordo.
Come Wang-Fô fu salvato Il sorriso di Marko Il latte della morte L'ultimo amore del principe Genji L'uomo che ha amato le Nereidi Nostra Signora delle Rondini La vedova Afrodissia Kali decapitata La fine di Marko Kraliévitch La tristezza di Cornelius Berg Post-scriptum
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A André L. Embiricos
COME WANG-FÔ FU SALVATO Il vecchio pittore Wang-Fô e il suo discepolo Ling se ne andavano lungo le strade del regno di Han. Procedevano lentamente, perché Wang-Fô si fermava durante la notte per contemplare gli astri, e durante il giorno per guardare le libellule. Il loro bagaglio era leggero. Infatti Wang-Fô non amava tanto le cose quanto l’immagine delle cose, e nessun oggetto al mondo gli sembrava degno di essere posseduto tranne pennelli, vasetti di lacca e di inchiostri di China, rotoli di seta e di carta di riso. Erano poveri, perché Wang-Fô barattava le sue pitture contro una razione di farinata di miglio e sdegnava le monete d’argento. Il suo discepolo Ling, curvo sotto il peso di un sacco pieno di schizzi, inarcava rispettosamente la schiena quasi portasse la volta celeste. Infatti quel sacco, agli occhi di Ling, era pieno di montagne innevate, di fiumi in primavera e di volti della luna d’estate. Ling non era nato per percorrere le strade accanto a un vecchio capace d’impadronirsi dell’aurora e di captare il crepuscolo. Suo padre era cambiavalute d’oro; sua madre era l’unica figlia di un mercante di giada che le aveva lasciato i suoi beni maledicendola perché non era nata maschio. Ling era cresciuto in una casa dove la ricchezza appianava ogni ostacolo. Quell’esistenza accuratamente ovattata lo aveva reso timido: temeva gli insetti, il tuono e la faccia dei morti. Quando ebbe quindici anni, suo padre gli scelse una sposa e la prese bellissima, perché l’idea della felicità che procurava a suo figlio lo consolava di aver raggiunto l’età in cui la notte serve per dormire. La sposa di Ling era fragile come una canna, infantile come il latte, dolce come la saliva, salata come le lacrime. Dopo le nozze, i genitori di Ling spinsero la loro discrezione fino a morire, e il figlio se ne restò solo nella casa dipinta di cinabro, in compagnia della giovane moglie che sorrideva sempre, e di un susino che a ogni primavera offriva i suoi fiori rosa. Ling amò quella donna dal cuore limpido come si ama uno specchio non destinato a offuscarsi, o un talismano di permanente energia. Frequentava le case da tè per obbedire alla moda e con moderazione privilegiava gli acrobati e le danzatrici.
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Una notte, in una taverna, si trovò come compagno di tavola Wang-Fô. Il vecchio aveva bevuto per mettersi in condizione di dipingere meglio un ubriaco; teneva la testa piegata da un lato come se si sforzasse di migliorare la distanza posta tra la sua mano e la tazza. L’alcol di riso scioglieva la lingua di quell’artigiano taciturno, e quella sera Wang parlava come se il silenzio fosse un muro, e le parole fossero colori destinati a ricoprirlo. Grazie a lui, Ling scoprì la bellezza delle facce dei bevitori sfumate dal vapore delle bevande calde, lo splendore bruno delle carni inegualmente lambite dal linguaggio del fuoco, e lo squisito rosato delle macchie di vino sparse sulle tovaglie come petali appassiti. Il vento irruppe di colpo dalla finestra; un rovescio di pioggia entrò nella camera. Wang-Fô si curvò per far ammirare a Ling la zebratura livida del lampo, e Ling, meravigliato, smise di aver paura del temporale. Ling pagò lo scotto del vecchio pittore: poiché Wang-Fô era senza soldi e senza un tetto, gli offrì lui umilmente un giaciglio. Camminarono insieme; Ling reggeva la lanterna; il suo barlume proiettava fuochi sorprendenti nelle pozzanghere. Quella sera Ling scoprì con sorpresa che i muri della sua casa non erano affatto rossi come aveva sempre creduto, ma che avevano il colore di un’arancia prossima a imputridire. Nel cortile, Wang-Fô osservò la forma delicata di un arbusto al quale nessuno aveva badato fino a quel momento, e lo paragonò a una giovane donna intenta ad asciugarsi i capelli. Nel corridoio egli seguì come in estasi il cammino esitante di una formica lungo le crepe del muro, e l’orrore di Ling per quelle bestioline svanì. Allora, comprendendo che Wang-Fô gli aveva regalato un’anima e percezioni nuove, Ling ospitò rispettosamente il vecchio nella camera dov’erano morti suo padre e sua madre. Da anni Wang-Fô sognava di fare il ritratto di una principessa d’altri tempi intenta a suonare il liuto sotto un salice. Nessuna donna era abbastanza irreale per fargli da modello, ma Ling poteva farlo dal momento che non era una donna. Poi Wang-Fô disse di voler dipingere un giovane principe con l’arco teso ai piedi di un grande cedro. Nessun giovane del suo tempo era abbastanza irreale per servirgli da modello, ma Ling fece posare sua moglie sotto il susino del giardino. Poi Wang-Fô la dipinse vestita da fata tra le nuvole del tramonto, e la giovane donna pianse perché si trattava di un presagio di morte. Da quando Ling le preferiva i ritratti che di lei faceva Wang-Fô, il suo viso appassiva come il fiore esposto al vento caldo e 7
alle piogge d’estate. Un mattino la trovarono impiccata ai rami del susino rosa: i capi della sciarpa che la strangolava ondeggiavano confusi ai suoi capelli; sembrava ancora più esile del solito, e pura come le bellezze celebrate dai poeti dei tempi andati. Wang-Fô la dipinse un’ultima volta, perché amava quel colorito verde che ricopre il viso dei morti. Il suo discepolo Ling mescolava i colori, e questo lavoro richiedeva tanta attenzione da fargli dimenticare di versare delle lacrime. In seguito Ling vendette i suoi schiavi, le giade e i pesci della fontana per procurare al maestro certi vasetti d’inchiostro porporino che veniva dall’Occidente. Quando la casa fu vuota, i due la lasciarono, e Ling si richiuse alle spalle la porta del suo passato. Wang-Fô era stanco di una città dove i visi non avevano più da offrirgli alcun segreto di bruttezza o di bellezza, e maestro e discepolo vagabondarono sulle strade del regno di Han. La loro fama li precedeva nei villaggi, alla soglia delle fortezze e sotto il portico dei templi dove i pellegrini inquieti si rifugiano al crepuscolo. Correva voce che Wang-Fô avesse il potere di dare la vita alle sue pitture aggiungendo agli occhi un ultimo tocco di colore. I fattori lo supplicavano perché dipingesse loro un cane da guardia, e i signori volevano da lui immagini di soldati. I sacerdoti onoravano Wang-Fô come un saggio; il popolo lo temeva come uno stregone. Wang si rallegrava per quelle differenze di opinione che gli permettevano di studiare intorno a sé tante espressioni di gratitudine, di paura o di venerazione. Ling mendicava il cibo, vegliava sul sonno del maestro e approfittava delle sue estasi per massaggiargli i piedi. All’aurora, quando il vecchio era ancora addormentato, partiva a caccia di paesaggi timidi dissimulati dietro ciuffi di canne. La sera, quando il maestro, scoraggiato, gettava a terra i pennelli, lui li raccoglieva. Quando Wang era triste e parlava della sua tarda età, Ling gli indicava sorridendo il tronco solido di una vecchia quercia; quando Wang era allegro e sciorinava certe spiritosaggini, Ling faceva umilmente finta di ascoltarlo. Un giorno, al tramonto, raggiunsero i sobborghi della città imperiale, e Ling cercò per Wang-Fô una locanda per la notte. Il vecchio si avvolse in stracci, e Ling si coricò contro di lui per riscaldarlo, perché la primavera stava appena nascendo, e il pavimento di terra battuta era ancora gelato. All’alba, grevi passi risuonarono nei corridoi della locanda; si sentirono i 8
bisbigli spaventati dell’oste e certi ordini gridati in lingua barbara. Ling fremette, ricordandosi che la vigilia aveva rubato un pasticcio di riso per la cena del maestro. Non dubitando che venissero ad arrestarlo, si domandò chi domani sarebbe stato scelto per aiutare il vecchio a passare il guado del prossimo fiume. Entrarono i soldati con delle lanterne. La fiamma che filtrava attraverso la carta variegata gettava lucori rossi e azzurri sui loro caschi di cuoio. La corda di un arco vibrava su quelle spalle, e i più feroci di loro emettevano all’improvviso qualche irragionevole ruggito. Misero pesantemente la mano sulla nuca di Wang-Fô. Egli non poté impedirsi di osservare che le maniche del loro abito non si intonavano con il colore dei mantelli. Sostenuto dal discepolo, Wang-Fô seguì i soldati inciampando sulle strade sconnesse. I passanti in crocchi si facevano beffe di quei due criminali avviati senza alcun dubbio al patibolo. A tutte le domande di Wang i soldati rispondevano con sghignazzi selvaggi. Le sue mani legate soffrivano, e Ling guardava disperato il suo padrone e sorrideva, una maniera per lui più tenera di piangere. Arrivarono sulla soglia del palazzo imperiale, i cui muri violetti si levavano in pieno giorno come un ritaglio di crepuscolo. I soldati fecero varcare a Wang-Fô innumerevoli sale squadrate o circolari la cui forma simboleggiava le stagioni, i punti cardinali, il maschio e la femmina, la longevità, le prerogative del potere. Le porte ruotavano sui cardini sprigionando una nota musicale, ed erano coordinate in modo che attraversando il palazzo dall’Est all’Ovest si percorreva l’intera scala. Tutto si concertava per suggerire l’idea di una potenza e di una sottigliezza sovrumana, e si intuiva che ogni minimo ordine pronunciato doveva essere qui definitivo e terribile come la saggezza degli antenati. Poi l’aria si fece rarefatta; il silenzio divenne così profondo che nemmeno un suppliziato avrebbe osato gridare. Un eunuco sollevò una cortina; i soldati tremarono come donne, e il gruppetto entrò nella sala dove troneggiava il Figlio del Cielo. Era una sala sprovvista di muri, sostenuta da spesse colonne di pietra azzurra. Al di là dei fusti di marmo si stendeva un giardino in tutto il suo rigoglio, e ogni fiore di quei boschetti apparteneva a una specie rara portata da terre giacenti al di là degli oceani. Ma nessuna specie era dotata di profumo, per timore che odori buoni potessero turbare la meditazione del Dra9
go Celeste. Per rispettare il silenzio in cui erano immersi i suoi pensieri, nessun uccello era stato ammesso all’interno del recinto, e perfino le api ne erano state scacciate. Una muraglia enorme separava il giardino dal resto del mondo perché il vento, che passa sui cani crepati e sui cadaveri dei campi di battaglia, non potesse permettersi di sfiorare la manica dell’Imperatore. Il Padrone Celeste sedeva su un trono di giada, e benché avesse appena vent’anni le sue mani erano rugose come quelle di un vecchio. Il suo vestito era azzurro per significare l’inverno, e verde per ricordare la primavera. Il suo viso era bello, ma impassibile come uno specchio posto così in alto da non poter riflettere che gli astri e l’implacabile cielo. Aveva alla sua destra il Ministro dei Piaceri Perfetti, e a sinistra il Consigliere dei Giusti Tormenti. Siccome i cortigiani, allineati ai piedi delle colonne, tendevano l’orecchio per raccogliere ogni sillaba che gli uscisse dalle labbra, egli aveva preso l’abitudine di parlare sempre a voce bassa. – Drago Celeste, disse Wang-Fô prosternato, sono vecchio, sono povero, sono debole. Tu sei come l’estate; io sono come l’inverno. Tu hai Diecimila Vite; io ne ho soltanto una, e che sta per finire. Che cosa ti ho fatto? Mi hanno legato le mani, che non ti hanno mai fatto del male. – Tu mi domandi che cosa mi hai fatto, vecchio Wang-Fô? disse l’imperatore. La sua voce era talmente melodiosa da ispirare la voglia di piangere. Alzò la mano destra, che i riflessi del pavimento di giada facevano apparire glauca come una pianta sottomarina, e Wang-Fô, pieno di meraviglia per la lunghezza di quelle dita sottili, cercò nei suoi ricordi se non avesse fatto dell’Imperatore, o dei suoi ascendenti, un ritratto mediocre che meritasse la morte. Ma era poco probabile, perché fino a quel momento Wang-Fô aveva ben poco frequentato la corte degli imperatori, preferendo le capanne dei coloni, e, nelle città, i sobborghi delle cortigiane e le taverne del lungo fiume dove scoppiano le risse dei facchini. – Tu mi domandi che cosa mi hai fatto, vecchio Wang-Fô? riprese l’imperatore chinando l’esile collo verso il vecchio che l’ascoltava. Te lo dirò. Ma, come il veleno esterno non può insinuarsi in noi se non attraverso le nostre nove aperture, per renderti cosciente dei tuoi torti io devo guidarti 10
lungo i corridoi della mia memoria e raccontarti tutta la mia vita. Mio padre aveva nascosto una collezione delle tue pitture nella camera più segreta del palazzo; era infatti del parere che i personaggi dei quadri non debbano essere esposti alla vista dei profani, alla presenza dei quali non possono abbassare gli occhi. È proprio in quelle sale che io sono cresciuto, vecchio Wang-Fô, perché intorno a me si era predisposta la solitudine per permettermi di maturare in lei. Per evitare al mio candore gli schizzi di fango delle anime umane, da me era stata allontanata la marea inquieta dei miei futuri soggetti, e non era permesso a nessuno di passare davanti alla mia soglia per timore che l’ombra di quell’uomo o di quella donna potesse raggiungermi. Quei vecchi servitori che mi erano stati concessi si manifestavano il meno possibile; le ore volgevano in cerchio; i colori delle tue pitture si ravvivavano con l’alba e impallidivano con il crepuscolo. Le guardavo la notte, quando non riuscivo a dormire, e per circa dieci anni le ho guardate tutte le notti. Durante il giorno, seduto su un tappeto di cui conoscevo il disegno a memoria, facendomi riposare le palme vuote delle mani sulle ginocchia di seta gialla, pensavo alle gioie che l’avvenire aveva in serbo per me. Immaginavo il mondo, con il paese di Han al centro, simile alla pianura monotona e cava della mano solcata dalle linee fatali dei Cinque Fiumi. All’intorno, il mare dove nascono i mostri, e più lontano ancora le montagne che sopportano il cielo. E per aiutarmi a rappresentarmi tutte le cose, mi servivo delle tue pitture. Tu mi hai fatto credere che il mare somigli a quella vasta distesa d’acqua offerta dalle tue tele, così azzurra che una pietra, cadendoci, non può che trasformarsi in uno zaffiro, che le donne si aprano e si richiudano come fiori, simili alle creature che spinte dal vento camminano nei viali dei tuoi giardini, e che i giovani guerrieri dalla figuretta esile che vegliano nelle fortezze dei confini siano essi stessi delle frecce capaci di trafiggerci il cuore. A sedici anni ho visto riaprirsi le porte che mi separavano dal mondo: sono salito sulla terrazza del palazzo per guardare le nuvole, ma le nuvole erano meno belle di quelle dei tuoi crepuscoli. Ho ordinato la portantina: sballottato sulle strade di cui non prevedevo né il fango né le pietre, ho percorso le provincie dell’Impero senza trovare i tuoi giardini pieni di donne simili a lucciole, le tue donne il cui corpo è esso stesso un giardino. Il pietrame delle rive mi ha disgustato degli oceani; il sangue dei suppliziati è meno rosso di una melagrana delle tue tele; la canaglia dei villaggi offusca la bellezza delle risaie; la carne delle donne vive mi ripugna come la carne morta che pende dai ganci dei macel11
lai, e la rozza risata dei miei soldati mi rovescia lo stomaco. Tu mi hai mentito, Wang-Fô, vecchio impostore: il mondo non è che un cumulo di macchie confuse, proiettate sul vuoto da un pittore folle, e continuamente cancellate dalle nostre lacrime. Il regno di Han non è affatto il più bello dei regni, e io non sono l’Imperatore. Il solo impero sul quale valga la pena di regnare è quello in cui penetri tu, vecchio Wang, attraverso la via delle Mille Curve e dei Diecimila Colori. Tu soltanto regni in pace su montagne coperte di una neve che non può fondere, su campi di narcisi che non possono morire. E per questo, Wang-Fô, ho studiato bene quale supplizio riservare a te, a te i cui sortilegi mi hanno disgustato di quanto possiedo, e dato il desiderio di ciò che non potrò possedere. E per chiuderti nell’unica cella da cui tu non possa uscire, ho deciso di farti bruciare gli occhi, perché i tuoi occhi, Wang-Fô, sono le due porte magiche che ti spalancano il tuo regno. E poiché le tue mani sono le due strade dalle dieci ramificazioni che ti guidano nel cuore del tuo impero, ho deciso di farti tagliare le mani. Hai capito bene, vecchio Wang-Fô? Ascoltando una simile sentenza, il discepolo Ling si strappò dalla cintura un coltello scheggiato e si precipitò sull’Imperatore. Due guardie lo afferrarono. Il Figlio del Cielo sorrise e sospirando aggiunse: – E ti odio anche, vecchio Wang-Fô, perché hai saputo farti amare. Ammazzate questo cane. Ling fece un balzo in avanti per evitare che il suo sangue macchiasse il vestito del maestro. Uno dei soldati alzò la sciabola, e simile a un fiore reciso la testa di Ling gli si staccò dalla nuca. I servitori portarono via i suoi resti, e Wang-Fô, disperato, guardò con ammirazione la bella macchia scarlatta che il sangue del suo discepolo faceva sul pavimento di pietra verde. L’Imperatore fece un cenno, e due eunuchi asciugarono gli occhi di Wang-Fô. – Ascolta, vecchio Wang-Fô, disse l’Imperatore, e arresta le tue lacrime perché non è questo il momento di piangere. I tuoi occhi devono restare chiari, perché quel poco di luce di cui ancora dispongono non sia offuscato dai pianti. Perché non è soltanto per rancore che io desidero la tua morte; non è soltanto per crudeltà che voglio vederti soffrire. Ho altri progetti, 12
vecchio Wang-Fô. Nella collezione delle tue opere io posseggo una pittura stupenda dove si riflettono le montagne, l’estuario dei fiumi e il mare, rimpiccioliti all’infinito, sì, ma con un’evidenza che supera quella degli oggetti stessi, quali figure riflesse sulle pareti di una sfera. Ma quella pittura non è terminata, Wang-Fô, e il tuo capolavoro è allo stato di abbozzo. Mentre dipingevi, seduto in una valle solitaria, devi certo aver guardato un uccello che passava, o un bambino che inseguiva quell’uccello. E il becco dell’uccello o le guance del bambino ti hanno fatto dimenticare le palpebre azzurre delle onde. Tu non hai completato le frange del mantello del mare né la capigliatura di alghe degli scogli. Wang-Fô, voglio che tu consacri le ore di luce che ti restano per finire quella pittura che così conterrà in sé gli ultimi dei segreti da te accumulati nel corso di una lunga vita. Non c’è dubbio che le tue mani, così prossime a cadere, tremeranno sulla stoffa di seta, e l’infinito penetrerà nella tua opera attraverso queste smagliature del dolore. E non c’è dubbio che i tuoi occhi, così prossimi a essere annientati, scopriranno corrispondenze al limite dei sensi umani. Così è il mio progetto, vecchio Wang-Fô, e posso costringerti a compierlo. Se tu rifiuti, prima di accecarti farò bruciare tutte le tue opere e allora tu sarai simile a un padre cui abbiano massacrato i figli e distrutto ogni speranza di prosperità. Ma convinciti piuttosto, se vuoi, che quest’ultimo ordine non è che un effetto della mia bontà; so infatti che la tela è la sola amante che tu abbia mai carezzata. E offrirti pennelli, colori e inchiostro per occupare le tue ultime ore, è come fare l’elemosina di una piccola cortigiana a un uomo che si avvia al patibolo. A un cenno di mignolo dell’imperatore, due eunuchi portarono rispettosamente la pittura incompiuta dove Wang-Fô aveva tracciato l’immagine del mare e del cielo. Wang-Fô smise di piangere e sorrise perché quel piccolo schizzo gli ricordava la sua giovinezza. Tutto era testimonianza di una freschezza d’animo alla quale Wang-Fô non poteva più pretendere, tuttavia gli mancava qualcosa, perché al tempo in cui Wang l’aveva dipinto, non aveva ancora abbastanza contemplato montagne, né scogli che immergessero nel mare i loro fianchi nudi, né lo aveva ancora penetrato a sufficienza la tristezza del crepuscolo. Wang-Fô scelse uno dei pennelli che uno schiavo gli presentava e prese a stendere larghe strisce azzurre su quel mare incompiuto. Un eunuco accosciato ai suoi piedi mescolava i colori; sbrigava molto mediocremente quel lavoro, e più che mai Wang-Fô rimpianse il suo discepolo Ling. 13
Wang cominciò a tinteggiare di rosa la cima dell’ala di una nube posata su una montagna. Poi aggiunse alla superficie del mare piccole rughe destinate ad approfondirne la serenità. Il pavimento di giada si faceva stranamente umido, ma tutto preso dalla sua pittura Wang-Fô non si accorgeva che stava lavorando seduto nell’acqua. Il fragile canotto, ingrossato sotto le pennellate del pittore, occupava ora tutto il primo piano del rotolo di seta. Il rumore cadenzato dei remi si annunciò all’improvviso di lontano, rapido e vivo come un battito d’ala. Il rumore si avvicinò, riempì lentamente l’intiera sala, poi cessò, e gocce tremavano, immobili, pendule dai remi del barcaiolo. Da gran tempo ormai il ferro rovente destinato agli occhi di Wang si era spento sul braciere del boia. I cortigiani, immersi nell’acqua fino alle spalle e immobilizzati dall’etichetta, si sollevavano sulla punta dei piedi. L’acqua raggiunse finalmente il livello del cuore imperiale. Il silenzio era così profondo che si sarebbe sentita cadere una lacrima. Ma ecco Ling. Portava quel suo vecchio vestito di tutti i giorni, e la manica destra recava ancora le tracce di uno strappo che il mattino non aveva avuto il tempo di riparare prima dell’arrivo dei soldati. Ma intorno al collo aveva una strana sciarpa rossa. Wang-Fô gli disse dolcemente, continuando a dipingere: – Ti credevo morto. – Essendo voi in vita, disse rispettosamente Ling, come avrei potuto morire? E aiutò il maestro a salire sulla barca. Il soffitto di giada si rifletteva nell’acqua, e così pareva che Ling navigasse all’interno di una grotta. Le trecce dei cortigiani sommersi ondulavano sulla superficie come serpenti, e la testa pallida dell’Imperatore fluttuava come un loto. – Guarda, discepolo mio, disse con malinconia Wang-Fô. Quegli infelici stanno per morire, se la cosa non è già avvenuta. Non credevo che nel mare ci fosse acqua sufficiente per annegare un Imperatore. Che fare? – Nessun timore, Maestro, mormorò il discepolo. Presto si troveranno in secca e non ricorderanno nemmeno che la loro manica possa mai essersi 14
bagnata. Solo l’Imperatore conserverà nel suo cuore un po’ di amarezza marina. Gente di questo genere non è fatta per perdersi all’interno di una pittura. E aggiunse: – Il mare è bello, il vento è favorevole, gli uccelli marini si stanno facendo il nido. Partiamo, Maestro mio, per le terre al di là delle onde. – Partiamo, disse il vecchio pittore. Wang-Fô prese il timone, e Ling si curvò sui remi. La cadenza delle pale riempì di nuovo tutta la sala, netta e regolare come il rumore di un cuore. Il livello dell’acqua diminuiva insensibilmente intorno ai grandi scogli verticali che ridiventavano colonne. Ben presto non restò che qualche rara pozzanghera a brillare negli incavi del pavimento di giada. I vestiti dei cortigiani erano secchi, ma l’Imperatore conservava qualche fiocco di schiuma nella frangia del mantello. Il rotolo finito da Wang-Fô restava là, appoggiato su una tavola bassa. Una barca ne occupava tutto il primo piano. Si allontanò a poco a poco, lasciando dietro di sé un’esile scia che si andava richiudendo sul mare immobile. Non si distingueva già più il viso dei due uomini seduti nel canotto. Ma si scorgeva ancora la sciarpa rossa di Ling. La barba di Wang-Fô ondeggiava al vento. Il pulsare dei remi si affievolì e poi cessò, obliterato dalla distanza. L’Imperatore, curvo in avanti con la mano sugli occhi, guardava allontanarsi la barca di Wang, una macchia impercettibile ormai, nel pallore del crepuscolo. Si alzò un velo di vapore d’oro e andò a dispiegarsi sul mare. Poi la barca virò intorno a uno scoglio che sbarrava l’apertura verso il largo; le scivolò addosso l’ombra di una roccia; la superficie deserta assorbì la scia, e il pittore Wang-Fô e il suo discepolo Ling disparvero per sempre sul mare di giada azzurra che poco prima Wang-Fô aveva inventato.
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IL SORRISO DI MARKO Il piroscafo galleggiava mollemente sulle acque lisce come una medusa alla deriva. Un aereo volteggiava con l’insopportabile brusìo di un insetto irritato in quel ritaglio di cielo incassato tra le montagne. Si era soltanto a un terzo di un bel pomeriggio d’estate; e già il sole era scomparso dietro gli aridi contrafforti delle Alpi montenegrine disseminate di alberi macilenti. Il mare, così azzurro quel mattino al largo, prendeva tinte cupe all’interno di quel lungo fiordo sinuoso stranamente situato in vicinanza dei Balcani. Le forme umili e raccolte delle case e la franca salubrità del paesaggio erano già slave, ma la sorda violenza dei colori e la fierezza nuda del cielo facevano ancora pensare all’Oriente e all’Islam. La maggior parte dei passeggeri erano scesi a terra e stavano parlamentando fra doganieri vestiti di bianco e meravigliosi soldati muniti di una daga triangolare, belli come l’Angelo degli Eserciti. L’archeologo greco, il pascià egiziano e l’ingegnere francese se n’erano rimasti sul ponte superiore. L’ingegnere si era ordinato una birra, il pascià beveva whisky, e l’archeologo si rinfrescava sorseggiando una limonata. – Questo paese mi eccita, disse l’ingegnere. Questa banchina di Kotor e quella di Ragusa sono indubbiamente i soli sbocchi mediterranei di questo grande paese slavo che si stende dai Balcani agli Urali, che ignora le instabili delimitazioni della carta d’Europa e volge risolutamente le spalle al mare; e il mare non vi penetra che attraverso i complicati pertugi del Caspio, della Finlandia, del Ponte Eusino, o delle coste dalmate. E in questo vasto continente umano, l’infinita varietà delle razze non distrugge l’unità misteriosa dell’insieme più di quanto la diversità delle onde non rompa la monotonia maestosa del mare. Ma in questo momento non m’interessa la geografia né la storia. Mi interessa Kotor. Le bocche di Cattaro, come dicono loro... Kotor, quale la vediamo dal ponte di questo piroscafo italiano, Kotor la selvaggia, la ben nascosta, con la sua strada serpeggiante che sale verso Cettigne, e la Kotor appena più rude delle leggende e delle canzoni di gesta slave. Kotor l’infedele, vissuta un tempo sotto il giogo dei Mussulmani d’Albania, ai quali, come voi potete ben capire, Pascià, la poesia epica dei Serbi non rende sempre giustizia. E voi, 16
Loukiadis, che conoscete il passato come un fattore conosce i minimi angoli della sua fattoria, non vorrete dirmi che non avete sentito parlare di Marko Kraliévitch? Io sono archeologo, rispose il Greco posando il suo bicchiere di limonata. La mia scienza si limita alla pietra scolpita, e i vostri eroi serbi incidono piuttosto nella carne viva. Tuttavia questo Marko ha interessato anche me, e ne ho ritrovato la traccia in un paese assai lontano dalla culla della sua leggenda, su un suolo puramente greco, benché la devozione serba gli abbia innalzato monasteri molto belli... Al Monte Athos, interruppe l’ingegnere. Le ossa gigantesche di Marko Kraliévitch riposano da qualche parte su quella Montagna Santa dove non cambia nulla dal Medioevo salvo forse la qualità delle anime, e dove seimila monaci con tanto di crocchia e barba fluente pregano ancora oggi per la salute dei loro pii protettori, i principi di Trebisonda, la cui razza si è certo estinta da secoli. Com’è consolante pensare che l’oblio sia meno immediato e totale di quanto si creda, e che ci sia ancora un posto al mondo dove una dinastia del tempo delle Crociate sopravvive a se stessa nelle preghiere di qualche vecchio prete! Se non sbaglio, Marko morì in una battaglia contro gli Ottomani, in Bosnia o in terra croata, ma il suo ultimo desiderio fu di essere seppellito in questo Sinai del mondo ortodosso, e una barca riuscì a trasportarne il cadavere, nonostante gli scogli del mare orientale e gli agguati delle galere turche. Una bella storia che, non so perché, mi fa pensare all’ultima traversata di Arturo... “Ci sono eroi in Occidente, ma sembrano tenuti insieme dalla loro armatura di principi come i cavalieri del Medioevo dalla loro corazza di ferro: con questo selvaggio Serbo noi abbiamo l’eroe tutto nudo. I Turchi su cui Marko si precipitava dovevano avere l’impressione di essere travolti da una quercia della montagna. Vi ho detto che a quel tempo il Montenegro apparteneva all’Islam: le bande serbe erano troppo poco numerose per disputare apertamente ai Circoncisi il possesso della Zernagora, quella Montagna Nera da cui il paese prende il nome. Marko Kraliévitch intratteneva relazioni segrete in terra infedele con dei cristiani falsamente convertiti, funzionari scontenti e pascià in pericolo di disgrazia e di morte; per lui si faceva sempre più necessario un contatto diretto con i suoi complici. Ma la sua alta statura gl’impediva di insinuarsi presso il nemico, travestito da 17
mendicante, da musicante cieco o da donna, anche se quest’ultimo travestimento sarebbe stato possibile data la sua bellezza: lo avrebbero riconosciuto dalla lunghezza smisurata della sua ombra. Del resto non era il caso di pensare ad attraccare con un canotto in un angolo deserto della riva: innumerevoli sentinelle, appostate fra le rocce, opponevano a un Marko solo e assente la loro presenza multipla e instancabile. Ma là dove una barca è visibile, un buon nuotatore riesce a dissimularsi, e soltanto i pesci conoscono la pista che segue tra due acque. Marko incantava le onde; nuotava bene quanto Ulisse, suo antico vicino d’Itaca. Incantava anche le donne: i canali complicati del mare lo guidavano sovente a Kotor, ai piedi di una casa di legno tutta tarlata che ansimava sotto la spinta delle onde; la vedova del pascià di Scutari vi passava le notti a sognare Marko e le mattine ad aspettarlo. Si spalmava d’olio il corpo gelato dai baci teneri del mare; lo scaldava nel suo letto all’insaputa delle sue ancelle; gli facilitava gli incontri notturni con i suoi agenti e complici. Alle prime luci dell’alba scendeva nella cucina ancora deserta per preparargli i piatti che gli piacevano di più. Lui si rassegnava ai suoi seni pesanti, alle sue gambe grosse, a quelle sopracciglia che si incontravano nel bel centro della fronte, a quell’amore avido e sospettoso di donna matura; e inghiottiva la sua rabbia quando, inginocchiandosi per fare il segno della croce, vedeva che sputava. Una notte, la vigilia del giorno in cui Marko si proponeva di raggiungere di nuovo Ragusa a nuoto, la vedova scese come al solito per mettergli insieme la cena. Le lacrime le impedirono di cucinare con la cura di sempre; e disgraziatamente allestì un piatto di capretto troppo cotto. Marko aveva bevuto; la sua pazienza era rimasta al fondo del boccale; le afferrò i capelli con le mani impiastricciate di salsa e urlò: “– Maledetta cagna, avresti la pretesa di farmi mangiare della vecchia capra centenaria?” “– Era una bella bestia, rispose la vedova. E la più giovane del gregge. “– Era coriacea come la tua carne di strega, e aveva lo stesso tanfo infernale, fece il giovane Cristiano ubriaco. Possa tu bollire come lei all’Inferno! “E con un calcio fece volare il piatto di ragù oltre la finestra spalancata che dava sul mare. 18
“La vedova pulì silenziosamente il pavimento macchiato di grasso, e si lavò la faccia gonfia di lacrime. Non si mostrò né meno tenera, né meno calda della sera prima; e all’aurora, quando il vento del Nord, comincia a istigare alla rivolta le onde del golfo, consigliò dolcemente Marko di rinviare un po’ la partenza. Egli accondiscese: nelle ore più calde del giorno si coricò di nuovo per la siesta. Al risveglio, mentre pigramente si stiracchiava davanti alle finestre, protette contro lo sguardo dei passanti da complicate persiane, vide brillare delle scimitarre: una compagnia di soldati turchi circondava la casa bloccandone tutte le uscite. Marko si precipitò verso il balcone altissimo che si sporgeva a picco sul mare: i marosi si fracassavano sugli scogli con il frastuono del fulmine nel cielo. Marko si strappò la camicia e si tuffò a testa in avanti in quella bufera dove nessuna barca si sarebbe avventurata. Montagne gli rotolavano sotto; lui rotolò sotto montagne. I soldati setacciarono la casa sotto la guida della vedova senza trovare la minima traccia del giovane gigante scomparso; poi i brandelli della camicia e le sbarre divelte del balcone li misero sulla giusta pista; si precipitarono sulla spiaggia urlando di dispetto e di terrore. Indietreggiavano loro malgrado ogni volta che un’onda più feroce scoppiava ai loro piedi; e la furia del vento li coglieva come la risata di Marko, e l’insolenza della schiuma come il suo sputo sulla loro faccia. Per due ore Marko nuotò senza riuscire ad avanzare di una sola bracciata; i suoi nemici miravano alla sua testa, ma il vento deviava le loro frecce. Lui spariva e riappariva sotto la stessa macina verde. Alla fine la vedova legò solidamente la propria sciarpa alla lunga e morbida cintura di un Albanese; un’abile pescatore di tonni riuscì a imprigionare Marko in quel lazo di seta, e il nuotatore mezzo strangolato dovette lasciarsi trascinare a riva. Durante le sue battute di caccia nelle montagne del suo paese, Marko aveva visto sovente certi animali fare il morto per evitare di essere ammazzati. Il suo istinto gli fece imitare quell’astuzia: il giovane dal colorito livido che i Turchi riportarono sulla spiaggia era rigido e freddo come un cadavere vecchio di tre giorni; i suoi capelli impeciati di schiuma s’incollavano alle sue tempie cave; i suoi occhi sbarrati non riflettevano più l’immensità del cielo e della sera; le sue labbra salate dal mare s’irrigidivano sulle mascelle contratte; le braccia pendevano in totale abbandono; e lo spessore del suo petto non permetteva di sentire il battito del cuore. I notabili del villaggio si curvarono su Marko, solleticandogli il viso con le loro lunghe barbe, poi sollevando la testa esclamarono con una sola e medesima voce: 19
“– Allah! È morto come una talpa fradicia, come un cane crepato. Ributtiamolo nel mare che lava ogni sporcizia, perché il nostro suolo non sia contaminato dal suo corpo. “Ma la cattiva vedova si mise a piangere, poi a ridere: “– Ci vuole altro che una tempesta per annegare Marko, disse, e ben più di un nodo per strangolarlo. Così come lo vedete, non è affatto morto. Se lo ributtate in mare incanterà le onde come ha incantato me, povera donna, e le onde lo riporteranno al suo paese. Prendete dei chiodi e un martello; crocifiggete questo cane come fu crocifisso il suo dio che non gli verrà certo in aiuto qui, e vedrete se le sue ginocchia non si torceranno dal dolore e se la sua bocca dannata non vomiterà urla. “I carnefici presero dei chiodi e un martello sul banco di un calafato e bucarono le mani del giovane Serbo, e gli traversarono i piedi da parte a parte. Ma il corpo del suppliziato restò inerte: nessun fremito agitava quel viso che sembrava insensibile, e perfino il sangue non sgorgava dalla sua carne aperta che a gocce lente e rare, perché Marko comandava alle sue arterie come comandava al suo cuore. Allora il più vecchio dei notabili buttò via il martello e gridò in modo querulo: “– Allah ci perdoni di aver tentato di crocifiggere un morto! Attacchiamo una grossa pietra al collo di questo cadavere perché l’abisso inghiotta il nostro errore e perché il mare non ce lo riporti. “– Ci vogliono più di mille chiodi, più di cento martelli per crocifiggere Marko Kraliévitch, disse la cattiva vedova. Prendete dei carboni ardenti e posateli sul suo petto. Vedrete se non si torce di dolore come un grande verme nudo. “I carnefici presero della brace nel forno di un calafato e tracciarono un largo cerchio sul petto del nuotatore gelato dal mare. I carboni bruciarono, poi si spensero e si fecero tutti neri come rose rosse agonizzanti. Il fuoco ritagliò sul petto di Marko un grande anello carbonioso, simile a quei cerchi tracciati sull’erba nelle danze degli stregoni, ma il ragazzo non gemeva, e nessuno dei suoi cigli ebbe un fremito. “– Allah, dissero i carnefici, noi abbiamo peccato perché soltanto Dio ha il diritto di suppliziare i morti. I suoi nipoti e i figli dei suoi zii verranno 20
a chiederci ragione di un simile oltraggio: seppelliamolo dunque in un sacco mezzo pieno di grosse pietre perché il mare stesso non sappia qual è il cadavere che gli diamo da mangiare. “– Disgraziati, disse la vedova, strapperà con il braccio qualsiasi tela e risputerà tutte le pietre. Fate piuttosto venire le ragazze del villaggio, fatele danzare in cerchio sulla sabbia, e allora vedremo se l’amore continua a suppliziarlo. “Si fecero venire le ragazze; esse si misero in fretta i loro abiti da festa; portarono piccoli tamburi e flauti; si presero per mano per danzare in cerchio intorno al cadavere e la più bella di tutte guidava la danza con un fazzoletto rosso in mano. Superava le compagne con tutta la sua testa bruna e il suo collo bianco; era come il capriolo che salta, come il falco che vola. Marko, immobile, si lasciava sfiorare dai suoi piedi nudi, ma il suo cuore agitato batteva con ritmo sempre più violento e disordinato, così forte da fargli temere che tutti gli spettatori prima o poi dovessero sentirlo; e suo malgrado, un sorriso di felicità quasi dolorosa gli si disegnava sulle labbra che si muovevano come per un bacio. Grazie al lento oscurarsi del crepuscolo, i carnefici e la donna non si erano accorti ancora di quel segno di vita, ma gli occhi chiari di Haiscé fissavano instancabilmente il viso del giovane perché lei lo trovava bello. All’improvviso lasciò cadere il fazzoletto rosso per nascondere quel sorriso e disse con fierezza: “– Non è conveniente per me danzare davanti al viso nudo di un Cristiano morto; per questo gli ho coperto la bocca, la cui sola vista mi faceva orrore. “Ma continuò a danzare affinché l’attenzione dei carnefici venisse distratta e arrivasse l’ora della preghiera, quando sarebbero stati obbligati ad allontanarsi dalla riva. Finalmente una voce dall’alto di un minareto gridò che era ora di adorare Dio. Gli uomini si diressero verso la piccola moschea rozza e barbara; le ragazze, stanche, si sgranarono verso la città sulle loro babbucce allentate; Haiscé se ne andò voltando soavemente la testa indietro; sola, la vedova diffidente rimase a sorvegliare il falso cadavere. Di colpo Marko si rialzò; si strappò con la mano destra il chiodo della sinistra, prese la vedova per quei capelli rossi e le inchiodò la gola; poi, strappando con la mano sinistra il chiodo della mano destra, le inchiodò la fronte. Strappò poi le due spine di pietra che gli perforavano i piedi e se ne ser21
vì per spaccarle gli occhi. Quando i carnefici ritornarono, invece del corpo di un eroe nudo trovarono sulla riva il cadavere convulso di una vecchia. La bufera si era calmata; ma ansimando le barche diedero inutilmente la caccia al nuotatore scomparso nel ventre delle onde. Va da sé che Marko raggiunse di nuovo il paese e rapì la bella ragazza che gli aveva destato quel sorriso, ma ad emozionarmi non è né la sua gloria né la loro felicità: è quell’eufemismo squisito, quel sorriso sulle labbra di un suppliziato per il quale il desiderio è la tortura più dolce. Guardate: la sera scende; sembra quasi di vedere sulla spiaggia di Kotor quel gruppetto di carnefici affaccendati nel riflesso dei carboni ardenti, la fanciulla che danza e il giovane che non resiste alla sua bellezza.” Strana storia, disse l’archeologo. Ma la versione che ci avete offerto è sicuramente recente. Ne deve esistere un’altra, più primitiva. Mi informerò. – E farete male, disse l’ingegnere. Ve l’ho presentata tale e quale l’ho saputa dai contadini del villaggio dove ho trascorso l’ultimo inverno, occupato a forare un tunnel per l’Orient-Express. Non vorrei parlar male dei vostri eroi greci, Loukiadis; loro si chiudevano nella loro tenda per un accesso d’ira; urlavano di dolore sui loro amici morti; trascinavano per i piedi il cadavere dei nemici intorno alle città conquistate, ma, credete a me, all’Iliade è mancato un sorriso di Achille.
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IL LATTE DELLA MORTE – Raccontatemi un’altra storia, mio vecchio amico, disse Philip lasciandosi cadere pesantemente su una sedia. Davanti a questo mare ho bisogno di un whisky e di una storia... la storia più bella e meno vera che sia possibile, capace di farmi dimenticare le menzogne patriottiche e contraddittorie di quei giornali che poco fa ho comprato sulla banchina. Gli Italiani insultano gli Slavi, gli Slavi i Greci, i Tedeschi i Russi, i Francesi la Germania e quasi altrettanto l’Inghilterra. Tutti hanno ragione, penso. Parliamo d’altro... che cosa avete fatto ieri a Scutari dove eravate tanto impaziente di andare a vedere con i vostri stessi occhi non so quali turbine? – Niente, disse l’ingegnere. A parte un’occhiata a certi vaghi lavori di una diga, ho dedicato il meglio del mio tempo a cercare una torre. Ho sentito tante vecchie serve raccontare la storia della Torre di Scutari che avevo proprio bisogno di ritrovarne i mattoni sbrecciati e di esaminare se per caso non conservino, come si dice, una striscia bianca... ma il tempo, le guerre e i contadini dei dintorni preoccupati di consolidare i muri delle loro fattorie l’hanno demolita pietra dopo pietra, e soltanto nei racconti il suo ricordo resiste... A proposito, Philip, siete tanto fortunato da possedere quella che si dice una buona madre? – Che domanda, fece negligentemente il giovane Inglese. Mia madre è bella, slanciata, ben truccata, dura come il vetro di una vetrina. Che volete che vi dica di più? Quando usciamo insieme mi prendono per suo fratello maggiore. – Appunto. Siete come tutti noi. Quando penso che certi idioti assicurano che la nostra epoca manca di poesia, come se non avesse i suoi surrealisti, i suoi profeti, le sue stelle del cinema e i suoi dittatori! Credete a me, Philip, quello che ci manca è qualche realtà. La seta è artificiale, quel cibo detestabilmente sintetico assomiglia a quelle imitazioni alimentari di cui si riempiono le mummie, e le donne sterilizzate contro il dolore e la vecchiaia sono scomparse ovunque. Soltanto nelle leggende dei paesi semibarbari si incontrano ormai quelle creature ricche di latte e di lacrime da cui saremmo fieri di essere nati... Dove ho sentito parlare di un poeta che non poteva amare nessuna donna perché in un’altra vita aveva incontrato Antigone? 23
Un tipo del genere che dico io... qualche dozzina di madri e di innamorate, da Andromaca a Griselda, mi hanno fatto diventare esigente nei confronti di quelle bambole infrangibili che si pretendono realtà. “Isotta per amante, e per sorella la Bell’Alda... sì, ma quella che avrei voluto per madre è una ragazzina della leggenda albanese, la moglie di un giovane fringuello di queste parti... “C’erano tre fratelli che lavoravano alla costruzione di una torre di vedetta contro i predoni turchi. Si erano messi loro stessi all’opera, sia che la mano d’opera fosse rara, e cara, sia che da bravi contadini non si fidassero che delle loro stesse braccia, e le loro mogli venivano a turno a portare da mangiare. Ma ogni volta che riuscivano a concludere tanto bene il loro lavoro da issare un ciuffo d’erba sul tetto, il vento della notte e le streghe della montagna rovesciavano la loro torre proprio come Dio fece crollare Babele. Ci sono buone ragioni, sì, perché una torre non si regga in piedi, e si può incolpare l’inettitudine degli operai, la cattiva volontà del terreno e l’insufficienza del cemento che tiene insieme le pietre. Ma i contadini serbi, albanesi o bulgari non attribuiscono a questo disastro che un’unica causa: sanno che un edificio crolla se non si è preso cura di chiudere nelle fondamenta un uomo o una donna il cui scheletro sostenga fino al giorno del Giudizio Universale quella pesante carne di pietre. Ad Arta, in Grecia, si mostra un ponte in cui fu murata una ragazza: qualche filamento dei suoi capelli esce da una fessura e pende sull’acqua come una pianta bionda. I tre fratelli cominciarono a guardarsi con diffidenza e facevano attenzione a non proiettare la loro ombra sul muro incompiuto perché è possibile, in mancanza di meglio, chiudere in un edificio in costruzione quel nero prolungamento dell’uomo che potrebbe corrispondere alla sua anima. E l’uomo la cui ombra viene imprigionata così, muore come un disgraziato colpito da una pena d’amore. “La sera ognuno dei tre fratelli si sedeva dunque il più lontano possibile dal fuoco, per timore che qualcuno gli s’avvicinasse silenziosamente alle spalle, gettasse un sacco di tela sulla sua ombra e se la portasse via semistrozzata, come un piccione nero. Il loro ardore per il lavoro languiva, e a bagnare di sudore la loro fronte bruna non era più la stanchezza ma l’angoscia. Finalmente, un giorno, il primogenito riunì intorno a sé i fratelli più giovani e disse: 24
“– Fratelli miei di sangue, di latte e di battesimo, fratellini miei, se la nostra torre resta incompiuta i Turchi si insinueranno di nuovo sulle rive di questo lago, dissimulati dietro le canne. Violenteranno le ragazze della nostra fattoria; ci bruceranno nei campi la promessa del pane futuro; crocifiggeranno i nostri contadini agli spauracchi dei frutteti, che così saranno ghiotta preda dei porci. Fratellini miei, noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Non si può chiedere al trifoglio di sacrificare una delle sue tre foglie, ma ognuno di noi ha una moglie giovane e forte, con le spalle e una bella nuca abituate a portare fardelli. Non prendiamo decisioni, fratelli: lasciamo scegliere al Caso, questo simulacro di Dio. Domani, all’alba, noi prenderemo per murarla viva nelle fondamenta della torre quella delle nostre donne che verrà a portarci da mangiare. Vi chiedo soltanto il silenzio di una notte, o miei fratelli più giovani, e guardiamoci dall’abbracciare con troppe lacrime e sospiri quella che, dopo tutto, ha due possibilità su tre di respirare ancora al tramonto. “Era facile per lui parlare così perché in segreto detestava la sua giovane moglie e voleva sbarazzarsene per prendere al suo posto una bella ragazza greca dai capelli rossi. Il secondo fratello non fece obiezioni perché pensò subito che al ritorno avrebbe avvertito sua moglie, e il solo che protestò fu il più giovane, perché aveva l’abitudine di tener fede alla sua parola. Commosso dalla magnanimità dei fratelli maggiori, che in nome dell’opera comune rinunziavano a ciò che avevano di più caro al mondo, finì per lasciarsi convincere e promise di tacere tutta la notte. “Rientrarono all’accampamento a quell’ora del crepuscolo in cui il fantasma della luce morta girovaga ancora per i campi. Il secondo fratello raggiunse tutto irritato la sua tenda e ordinò rudemente a sua moglie di aiutarlo a togliersi gli stivali. Quando fu accoccolata ai suoi piedi, lui le sbatté le calzature in pieno viso e dichiarò: “– Sono otto giorni che porto la stessa camicia, verrà la domenica e io non potrò mettermi biancheria pulita. Maledetta fannullona, domani alla prima alba dovrai andare al lago con il cesto della biancheria e ci resterai fino a notte fra la spazzola e la mestola. Morirai se te ne allontani di uno spessore di suola. “E la giovane, tremando, promise di consacrare al bucato la giornata seguente. 25
“Il primogenito rientrò alla sua tenda ben deciso a non dir nulla alla sua massaia i cui baci lo esasperavano e di cui non apprezzava più la greve bellezza. Ma aveva un pericoloso difetto: parlava in sogno. L’opulenta matrona albanese quella notte non riuscì a dormire, domandandosi in che cosa avesse potuto spiacere al suo signore. All’improvviso sentì il marito bofonchiare mentre tirava a sé la coperta: “– Cuore mio, caro cuoricino che mi batte in petto, presto sarai vedovo... come ce la godremo, quando i buoni mattoni della torre ci avranno separati da quella moraccia... “Ma il più giovane rientrò alla sua tenda pallido e rassegnato come un uomo che per la strada avesse incontrato la Morte in persona, che con la falce in spalla se ne andasse a mietere. Baciò il bambino nella culla di vimini, prese teneramente la giovane moglie tra le braccia e lei, tutta la notte, se lo sentì piangere contro il cuore. Ma la giovane, discreta, non gli chiese la causa di quel grande dolore perché non voleva costringerlo a confidenze, e perché non aveva bisogno di conoscere le sue pene per tentare di consolarlo. “Il mattino dopo i tre fratelli presero le zappe e i martelli e se ne andarono in direzione della torre. La moglie del secondo fratello preparò il cestino del bucato e andò a inginocchiarsi davanti alla moglie del primogenito: “– Sorella, disse, cara sorella, dovrei andare io oggi a portare da mangiare agli uomini, ma sotto pena di morte mio marito mi ha ordinato di lavargli le camicie di tela bianca e come vedi ne ho la cesta piena. “– Sorella, cara sorella, disse la moglie del primogenito, andrei molto volentieri a portare da mangiare ai nostri uomini, ma questa notte il diavolo mi si è insinuato dentro un dente... ahi, ahi, ahi, riesco solo a gridare per il male... “E senza tante cerimonie batté le mani per chiamare la moglie del più giovane: “– Moglie del nostro fratello più giovane, disse, cara piccola moglie dell’ultimo, prendi il nostro posto e vai a portare da mangiare ai nostri uomini perché la strada è lunga, abbiamo i piedi stanchi e siamo meno giova26
ni e meno leggere di te. Va’, cara piccola, e noi ti riempiremo il paniere di cose buone perché i nostri uomini ti accolgano con un sorriso, Messaggera che cancellerai la loro fame. “E il paniere fu riempito di pesci del lago canditi nel miele e nell’uva di Corinto, di riso avvolto in foglie di vite, di formaggio di capra e di torta alle mandorle salate. La giovane affidò teneramente il bambino alle braccia delle due cognate e prese la strada, sola, con il suo fardello sul capo e il suo destino appeso al collo come una medaglia benedetta, invisibile a tutti, sulla quale Dio stesso avesse scritto che genere di morte le destinava, e che posto nel suo cielo. “Quando i tre uomini la scorsero di lontano, figurina ancora indistinta, le corsero incontro, i due primi tutti preoccupati che il loro stratagemma andasse a buon fine, mentre il più giovane pregava Dio. Il primogenito inghiottì una bestemmia scoprendo che non si trattava della sua moraccia, e il secondo ringraziò il Signore ad alta voce per aver risparmiato la sua lavandaia. Ma l’ultimo s’inginocchiò, circondò con le braccia i fianchi della giovane moglie e gemendo le chiese perdono. Poi si trascinò ai piedi dei fratelli e li supplicò di avere pietà. Poi si rialzò e fece brillare al sole l’acciaio del suo coltello. Un colpo di martello sulla nuca lo gettò ansimante sul ciglio della strada. La giovane spaventata aveva lasciato cadere il paniere, e le cibarie disperse andarono a rallegrare i cani del gregge. Quando capì di che cosa si trattava, alzò le mani al cielo: “– Fratelli a cui ho sempre obbedito, fratelli in nome del mio anello di nozze e della benedizione del prete, non fatemi morire, ma avvertite piuttosto mio padre che è capo del clan della montagna, e lui vi procurerà mille serve che voi potrete sacrificare. Non uccidetemi: amo tanto la vita. Non mettete fra il mio amato e me lo spessore della pietra. “Ma di colpo tacque perché s’era accorta che il suo giovane marito steso sul ciglio della strada non muoveva le palpebre, e che i suoi capelli neri erano sporchi di sangue e di materia cerebrale. Allora senza grida e senza lacrime si lasciò condurre dai due fratelli fino alla nicchia scavata nel muro convesso della torre: poiché lei stessa stava per morire poteva risparmiarsi di piangere. Ma mentre veniva posato il primo mattone davanti ai suoi pie27
di calzati di sandali rossi, si ricordò del suo bambino che aveva l’abitudine di mordicchiarle le scarpe come un giovane cane pazzerello. Lacrime calde le rotolarono lungo le guance e andarono a mescolarsi al cemento che la spatola livellava sulla pietra: "“– Ahimè! Piccoli piedi miei, disse. Voi non mi porterete più fino alla cima della collina perché presenti più in fretta il mio corpo allo sguardo del mio amore. Non sentirete più la freschezza dell’acqua in corsa: soltanto gli Angeli vi laveranno, il mattino della Resurrezione. “La commessura di mattoni e di pietre arrivò fino alle sue ginocchia coperte di una gonna dorata. Ben diritta al fondo della sua nicchia, aveva l’aria di una Maria in piedi dietro il suo altare. “– Addio, mie care ginocchia, disse la giovane. Non cullerete più il mio bambino; seduta sotto l’albero bello dell’orto che è insieme cibo e ombra, non vi riempirò, più di buoni frutti da mangiare. “Il muro si alzò ancora un po’, e la giovane prosegui: Addio, care mie piccole mani che pendete lungo il mio corpo, mani che non cuocerete più la cena, mani che non torcerete più la lana, mani che non vi allaccerete più intorno al mio amore. Addio miei fianchi, e tu mio ventre, che non conoscerete più la maternità né l’amore. Bambinetti che io avrei potuto mettere al mondo, fratellini che non ho avuto il tempo di dar al mio unico figlio, mi farete voi compagnia in questa prigione che mi fa da tomba, e dove resterò in piedi, insonne, fino al giorno del Giudizio Universale. “Il muro di pietre le arrivava già al petto. Allora un brivido percorse la parte superiore del corpo della giovane, e i suoi occhi supplichevoli ebbero uno sguardo simile al gesto di due mani supplici. “– Cognati, disse, per riguardo non a me ma al vostro fratello morto, pensate al mio bambino e non lasciatelo morire di fame. Non murate il mio petto, fratelli miei, fate che i miei due seni restino accessibili sotto la mia camicia ricamata, fate che ogni giorno mi si porti il mio bambino all’alba, a mezzogiorno e al crepuscolo. Finché mi resteranno poche gocce di vita, esse scenderanno fino alla punta dei miei due seni per nutrire il bambino 28
che ho messo al mondo, e il giorno in cui non avrò più latte lui berrà la mia anima. Acconsentite, fratelli cattivi, e se farete così, il mio caro marito e io non avremo per voi in serbo rimproveri il giorno in cui ci incontreremo davanti a Dio. “Intimiditi, i fratelli accettarono di esaudire quell’ultimo desiderio e lasciarono un intervallo di due mattoni all’altezza del seno. Allora la giovane mormorò: “– Fratelli cari, mettetemi due mattoni davanti alla bocca perché i baci dei morti fanno paura ai vivi, ma lasciatemi una fessura davanti agli occhi perché io possa vedere se il latte giova al mio bambino. “Fecero come lei aveva detto, e una fessura orizzontale fu lasciata all’altezza degli occhi. Al crepuscolo, all’ora in cui la madre usava allattarlo, portarono il bambino lungo la strada polverosa, bordata di arbusti bassi brucati dalle capre, e la suppliziata salutò l’arrivo del neonato con grida di gioia e benedizioni rivolte ai due fratelli. Onde di latte scesero dai suoi seni duri e tiepidi, e quando il bambino fatto della medesima sostanza del suo cuore le si fu addormentato contro il petto, ella prese a cantare con una voce che si attutiva nello spessore del muro di mattoni. Quando il piccolo si fu staccato dal suo seno, lei ordinò che lo riportassero all’accampamento per dormire, ma la tenera melopea si granò tutta la notte sotto le stelle, e quella ninnananna cantata a distanza bastava a impedirgli di piangere. Il giorno dopo lei non cantava più, e fu con voce debole che domandò come Vania avesse passato la notte. Due giorni dopo ella non parlò più ma respirava ancora, poiché i suoi seni abitati dal fiato salivano e scendevano impercettibilmente nella loro gabbia. Qualche giorno più tardi il suo alito andò a raggiungere la sua voce, ma i suoi seni immobili non avevano perduto nulla della loro dolce abbondanza di sorgente, e il bambino addormentato nell’incavo del suo petto poteva ancora sentire il suo cuore. Poi quel cuore in così bell’accordo con la vita allentò i suoi battiti. Quegli occhi languidi si spensero come il riflesso delle stelle in una cisterna senz’acqua, e attraverso la fessura non si videro più che due pupille vitree incapaci di guardare il cielo. Si liquefecero a loro volta, quelle pupille, e lasciarono il posto a due orbite cave in fondo alle quali si scorgeva la Morte, ma il giovane petto restava intatto e per due anni, all’aurora, a mezzogiorno e al crepuscolo
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continuò quello zampillo miracoloso, fino a quando il bambino, svezzato, si staccò spontaneamente dal seno. “Soltanto allora quel petto esaurito andò in briciole, e sull’orlo dei mattoni non ci fu più che un mucchietto di ceneri bianche. Per qualche secolo le madri intenerite vennero a toccare con il dito, lungo il mattone rossastro, i solchi tracciati dal latte meraviglioso, poi la torre stessa scomparve e il peso delle volte cessò di gravare su quel leggero scheletro di donna. Alla fine anche quelle fragili ossa si dispersero, e non resta più qui che un vecchio francese bruciato da questo calore infernale, che rispiattella al primo venuto questa storia degna di ispirare ai poeti tante lacrime quante quelle di Andromaca. In quel momento, una zingara orribilmente incrostata e dorata di sporcizia si avvicinò alla tavola dove i due uomini appoggiavano i gomiti. Aveva fra le braccia un bambino i cui occhi malati sparivano sotto bende di stracci. Si piegò in due con il servilismo più insolente che è proprio soltanto delle razze miserabili e regali e le sue gonne gialle spazzarono la terra. L’ingegnere la scostò con rudezza, senza preoccuparsi della sua voce che dal tono della preghiera passava a quello della maledizione. L’Inglese la chiamò indietro per farle l’elemosina di un dinaro. Che cosa vi prende, vecchio sognatore? disse con impazienza. I suoi seni e le sue collane valgono senz’altro quelli della vostra eroina albanese. E il bambino che è con lei è cieco. – Quella donna la conosco bene, rispose Jules Boutrin. Un medico di Ragusa mi ha raccontato la sua storia. Sono mesi che applica sugli occhi del bambino certi repellenti impiastri che gli infiammano la vista e impietosiscono i passanti. Lui ci vede ancora, ma presto sarà ciò che lei desidera che sia: un cieco. Quella donna si sarà garantita il proprio sostentamento, e per tutta la vita, perché la cura di un infermo è una professione remunerativa. C’è madre e madre.
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L'ULTIMO AMORE DEL PRINCIPE GENJI Quando Genji il Rifulgente, il più grande seduttore che mai abbia stupito l’Asia, ebbe raggiunto il suo cinquantesimo anno, si accorse che bisognava cominciare a morire. La sua seconda moglie, Murasaki, la principessa Violetta, che egli aveva tanto amata attraverso tante infedeltà contraddittorie, l’aveva preceduto in uno di quei Paradisi dove vanno i morti che hanno acquisito qualche merito nel corso di questa vita mutevole e difficile, e Genji si tormentava di non poterne ricordare esattamente il sorriso, o meglio la smorfietta che lei faceva prima di piangere. La sua terza sposa, la Principessa-del-Palazzo-dell’Ovest, l’aveva ingannato con un giovane parente, come lui stesso, al tempo della sua giovinezza, aveva ingannato suo padre, con un’imperatrice adolescente. La stessa commedia ricominciava sul teatro del mondo, ma questa volta lui sapeva che non gli sarebbe toccata che la parte dei vecchio, e a questo preferiva la parte del fantasma. E così distribuì i suoi beni, congedò i suoi servitori e si accinse ad andare a finire i suoi giorni in un eremitaggio che aveva avuto cura di far costruire sul fianco della montagna. Attraversò un’ultima volta la città, seguito soltanto da due o tre compagni devoti che in lui non si rassegnavano a prendere congedo dalla loro giovinezza. Nonostante l’ora mattutina, alcune donne puntavano il viso contro i sottili listelli delle persiane. Bisbigliavano ad alta voce che Genji era ancora bellissimo, e questo provava una volta di più al principe che era proprio tempo di andarsene. Misero tre giorni a raggiungere l’eremitaggio situato in lande assai selvatiche. La casetta sorgeva ai piedi di un acero centenario; poiché era autunno, le foglie di questo bell’albero ne ricoprivano il tetto di paglia con uno strato d’oro. In quella solitudine la vita si rivelò più semplice e più rude ancora di quanto non fosse stata nel corso del lungo esilio, in una remota provincia giapponese, subito da Genji al tempo della sua tempestosa giovinezza, e quell’uomo raffinato poté finalmente gustare, fino a saziarsene, il lusso supremo che consiste nel fare a meno di tutto. Presto si annunciarono i primi freddi, le pendici della montagna si ricoprirono di neve come le larghe pieghe di quei vestiti ovattati che si portano in inverno, e la nebbia soffocò il sole. Dall’alba al crepuscolo, al baluginio di un avaro braciere, Genji leggeva le Scritture, e trovava in quei versetti austeri un sa31
pere ormai impossibile per lui nei più patetici versi d’amore. Ma ben presto si accorse che la sua vista scemava, come se tutte le lacrime che aveva versate sulle sue fragili amanti gli avessero bruciato gli occhi, e dovette rendersi conto che per lui le tenebre sarebbero cominciate prima della morte. Di tanto in tanto un corriere intirizzito arrivava dalla capitale, zoppicando sui piedi gonfi di stanchezza e di geloni, e gli presentava rispettosamente certi messaggi di parenti o di amici che desideravano fargli ancora una visita in questo mondo, prima degli incontri infiniti e incerti dell’altra vita. Ma Genji temeva di ispirare ai suoi ospiti soltanto compassione o rispetto, due sentimenti di cui aveva orrore, e ai quali preferiva l’oblio. Scuoteva tristemente il capo, e quel principe rinomato un tempo per il suo talento di poeta e di calligrafo rimandava il messaggero con in mano un foglio bianco. A poco a poco le comunicazioni con la capitale rallentarono; il ciclo delle feste stagionali continuava a ruotare lontano dal principe che una volta le dirigeva con un colpo di ventaglio, e Genji, abbandonato senza ritegno alle tristezze della solitudine, aggravava sempre più il suo male agli occhi perché non si vergognava più di piangere. Due o tre delle sue antiche amanti gli avevano proposto di venire a condividere il suo isolamento pieno di ricordi. Le lettere più tenere provenivano dalla Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono: era un’antica concubina di nascita non illustre e di mediocre bellezza; aveva fedelmente servito come dama d’onore presso le altre spose di Genji, e per diciott’anni aveva amato il principe senza stancarsi mai di soffrire. Lui le faceva ogni tanto qualche visita notturna, e questi incontri, benché rari come le stelle in una notte piovosa, erano bastati a illuminare la povera vita della Signora-delvillaggio-dei-fiori-che-cadono. Non facendosi illusioni né sulla propria bellezza, né sul proprio spirito, né sulla propria nascita, la Signora, la sola fra tante amanti, conservava per Genji una dolce riconoscenza poiché non trovava del tutto naturale che egli l’avesse amata. Restando senza risposta le sue lettere, affittò una modesta carrozza e si fece portare alla capanna del principe solitario. Spinse timidamente la porta di rami intrecciati; si inginocchiò, con un’umile risatina che la scusasse di essere lì. In quel tempo Genji riconosceva ancora il viso dei suoi visitatori se si avvicinavano molto. Una rabbia amara lo colse davanti a quella donna che risvegliava in lui i più stillanti ricordi dei giorni morti, non tanto per via della sua presenza quanto perché le sue maniche erano ancora impre32
gnate del profumo che usavano le sue mogli defunte. Lei lo supplicava tristemente di tenerla almeno come serva. Spietato per la prima volta, Genji la cacciò, ma lei aveva conservato qualche amico fra i vecchi che si occupavano del servizio del principe, e talvolta costoro le facevano avere notizie. Crudele a sua volta come non lo era mai stata in vita sua, lei sorvegliava di lontano il procedere della cecità di Genji, come una donna impaziente di raggiungere il suo amante aspetta che la sera sia del tutto scesa. Quando lo seppe quasi del tutto cieco, si spogliò dei suoi vestiti di città e indossò una casacca corta e rozza secondo l’uso delle giovani contadine; si intrecciò i capelli alla maniera delle ragazze dei campi; e si mise sulle spalle un fagotto di stoffe e di terraglie del genere che si vende nelle fiere paesane. Conciata così, si fece condurre nel luogo dove l’esule volontario abitava in compagnia dei cerbiatti e dei pavoni della foresta; fece a piedi l’ultima parte della strada perché il fango e la stanchezza l'aiutassero a rappresentare bene la sua parte. Le piogge tenere della primavera cadevano dal cielo sulla terra molle, e sommergevano gli ultimi lucori del crepuscolo: era l’ora in cui Genji, ravvolto nel suo stretto abito da monaco, passeggiava lentamente lungo il sentiero da cui i suoi vecchi servitori avevano accuratamente scostato ogni sassolino per impedirgli di inciampare. Il suo viso vacuo, spassionato, offuscato dalla cecità e dalle avvisaglie della vecchiaia, sembrava uno specchio brunito che avesse un tempo riflesso la bellezza, e la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono non ebbe bisogno di fingere per mettersi a piangere. Questo rumore di singhiozzi femminili fece sussultare Genji. Si orientò lentamente dal lato di dove provenivano quelle lacrime. – Chi sei, donna? disse con inquietudine. – Sono Ukifune, la figlia del fattore So-Hei, disse la Signora non dimenticando di adottare l’accento del villaggio. Sono andata in città con mia madre per comperare stoffe e marmitte perché mi sposano alla prossima luna. Ma ecco che mi sono smarrita nei sentieri della montagna, e piango perché ho paura dei cinghiali, dei demoni, del desiderio degli uomini e dei fantasmi dei morti. – Tu sei tutta bagnata, fanciulla, disse il principe posandole una mano sulla spalla. 33
Infatti era fradicia fino alle ossa. Il contatto di quella mano così nota la fece vibrare dalla punta dei capelli all’alluce del piede nudo, ma forse Genji credette che tremasse per il freddo. – Vieni nella mia capanna, riprese il principe con voce invitante. Potrai scaldarti al mio fuoco, anche se ci sono più ceneri che carbone. La Signora lo seguì, preoccupandosi di imitare l’andatura goffa di una contadina. Si accovacciarono davanti al fuoco morente. Genji tendeva le mani verso il calore, ma la Signora dissimulava le dita, troppo delicate per una ragazza dei campi. – Sono cieco, sospirò Genji un momento dopo. Non farti scrupoli e togliti i vestiti bagnati, ragazza. Scaldati nuda davanti al mio fuoco. La Signora si tolse docilmente l’abito da contadina. Il fuoco coloriva il suo corpo esile che sembrava intagliato nella più pallida delle ambre. All’improvviso Genji mormorò: – Ti ho ingannata, fanciulla, perché non sono ancora del tutto cieco. Ti intuisco attraverso una nebbia che forse non è che l’alone della tua bellezza. Lascia che posi la mano sul tuo braccio che trema ancora. È così che la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono ridivenne l’amante del principe Genji che per più di diciott’anni aveva umilmente amato. Non dimenticò di imitare le lacrime e le timidezze di una fanciulla al suo primo amore. Il suo corpo era rimasto mirabilmente giovane, e la vista del principe era troppo debole per permettergli di distinguere qualche capello grigio. Quando le loro carezze furono finite, la Signora si inginocchiò davanti al principe e gli disse: – Ti ho ingannato, Principe. Sono Ukifune, sì, la figlia del fattore SoHei, ma non mi sono affatto smarrita nella montagna. La gloria del principe Genji è giunta fino al villaggio, ed è di mia spontanea volontà che sono venuta, per scoprire l’amore fra le tue braccia. Genji si alzò barcollando, come un pino che vacilli sotto l’urto dell’inverno e del vento. Gridò con voce sibilante: 34
– Disgrazia a te. che sei venuta a riportarmi il ricordo del mio peggiore nemico, il bel principe dagli occhi vivi che con la sua immagine mi tiene sveglio ogni notte... Vattene... E la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono si allontanò, rimpiangendo l’errore che aveva appena commesso. Durante le settimane che seguirono, Genji restò solo. Soffriva. Si accorgeva, scoraggiato, di essere ancora avvolto nelle illusioni di questo mondo, e pochissimo preparato agli scorticamenti e alle epifanie dell’altra vita. La visita della figlia del fattore So-Hei aveva risvegliato in lui il gusto delle creature dai polsi stretti, dai lunghi seni conici, dal riso patetico e docile. Da quando stava diventando cieco, il senso del tatto restava il suo solo modo di aderire alla bellezza del mondo, e i paesaggi in cui era venuto a rifugiarsi non gli dispensavano più alcuna consolazione. Il fruscio di un ruscello, infatti, è più monotono della voce di una donna, e i pendii delle colline o le striature delle nuvole sono fatti per chi può vedere, e planano troppo lontano da noi per lasciarsi accarezzare. Due mesi più tardi la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono fece un secondo tentativo. Questa volta si vestì e si profumò con cura, ma badò bene che il taglio delle stoffe avesse qualcosa di meschino e di timido nella sua stessa eleganza, e che quel profumo discreto, ma banale, suggerisse la mancanza di immaginazione di una giovane proveniente da un onorevole strato della provincia, e che non ha mai visto la corte. Per l’occasione ingaggiò dei portatori e una portantina ragguardevole che tuttavia mancava delle ultime raffinatezze cittadine. Fece in modo di arrivare nei dintorni della capanna di Genji soltanto in piena notte. L’estate l’aveva preceduta nella montagna. Genji, seduto ai piedi dell’acero, ascoltava il canto dei grilli. La Signora si avvicinò a lui nascondendo a metà il viso dietro il ventaglio e mormorò tutta confusa: – Sono Sciujo, la moglie di Sukazu, un nobile di settimo rango della provincia di Yamato. Sono partita per il pellegrinaggio al tempio di Ise, ma uno dei miei portatori si è storto un piede, e io non posso continuare la strada prima dell’aurora. Indicami una capanna dove io possa passare la notte senza temere calunnie, e far riposare i miei servi. 35
– Dove, se non nella casa di un vecchio cieco, può essere meglio al riparo delle calunnie una giovane donna? disse amaramente il principe. La mia capanna è troppo piccola per i tuoi servi, che dormiranno sotto quest’albero, ma a te io cederò l’unico materasso del mio eremo. Si alzò e camminando a tastoni le indicò la strada. Nemmeno una volta aveva alzato gli occhi su di lei, e da questo segno ella riconobbe che era completamente cieco. Quando si fu distesa sul materasso di foglie secche, Genji andò malinconicamente a sedersi sulla soglia della capanna. Era triste, e non sapeva nemmeno se quella giovane fosse bella. La notte era calda e chiara. La luna stendeva un chiarore sul viso alzato del cieco, che sembrava scolpito in una candida giada. Dopo un po’ la signora lasciò il suo giaciglio forestiero e a sua volta venne a sedersi sulla soglia. Disse con un sospiro: – La notte è bella, e io non ho sonno. Permettimi di cantare una delle canzoni di cui trabocca il mio cuore. E senza aspettare risposta cantò una romanza che il principe aveva cara per averla tante volte sentita dalle labbra della sua moglie preferita, la principessa Violetta. Genji, turbato, si avvicinò insensibilmente alla sconosciuta: – Di dove vieni, giovane donna che conosci le canzoni care alla mia giovinezza? Arpa in cui vibrano arie di un altro tempo, lasciami passare la mano sulle tue corde. E le carezzò i capelli. Dopo un po’ le domandò: – Ahimè, certo tuo marito sarà più bello e più giovane di me, giovane donna del paese di Yamato. – Mio marito è meno bello e sembra meno giovane, rispose semplicemente la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono. E così, sotto un nuovo travestimento, la Signora divenne l’amante del principe Genji, al quale un tempo era appartenuta. Al mattino lo aiutò a preparare una pappa calda, e il principe Genji le disse: 36
– Sei abile e tenera, giovane donna, e credo che nemmeno il principe Genji, che è stato tanto felice in amore, abbia avuto un’amante più dolce di te. – Non ho mai sentito parlare del principe Genji, disse la Signora scuotendo la testa. – Come! esclamò amaramente Genji. È stato dimenticato così presto? E restò cupo per l’intiera giornata. La Signora capì allora di aver fatto un secondo passo falso, ma Genji non accennava a mandarla via, e sembrava felice di ascoltare il fruscio del suo vestito di seta nell’erba. Arrivò l’autunno e trasformò gli alberi della montagna in altrettante fate vestite di porpora e d’oro, ma destinate a morire con i primi freddi. La Signora descriveva a Genji quei bruni grigi, quei bruni dorati, quei bruni lilla, badando a non alludervi che per caso, e ogni volta evitava di ostentare l’aiuto che gli recava. Deliziava ogni giorno Genji inventando complicate collane di fiori, pietanze raffinate per troppa semplicità, nuove parole che si adattavano a vecchie arie struggenti e sofferte. Aveva già dispiegato gli stessi fascini nel suo padiglione di quinta concubina, dove Genji talvolta le faceva visita. Ma lui, distratto da altri amori, non se n’era accorto. Alla fine dell’autunno le febbri salirono dalle paludi. Gli insetti pullulavano nell’aria ammorbata, e ogni respiro pareva una sorsata presa a una sorgente avvelenata. Genji si ammalò e si distese sul suo letto di foglie morte, convinto ormai di non rialzarsi più. Davanti alla Signora si vergognava della propria debolezza e delle cure umilianti a cui lo costringeva la malattia, ma quell’uomo che per tutta la sua vita aveva cercato ciò che c’è insieme di più unico e di più straziante in ogni esperienza, non poteva che apprezzare quanto una simile intimità nuova e miseranda poteva aggiungere fra due esseri alle intime dolcezze dell’amore. Un mattino in cui la Signora gli massaggiava le gambe, Genji si sollevò sul gomito, e cercando a tastoni le mani della Signora, mormorò: – Giovane donna che curi chi sta per morire, io ti ho ingannata. Io sono il principe Genji.
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– Quando sono venuta da te, non ero che una provinciale ignorante; disse la Signora, e non sapevo chi fosse il principe Genji. Ora so che è stato il più bello e il più desiderato degli uomini, ma tu non hai bisogno di essere il principe Genji per essere amato. Genji la ringraziò con un sorriso. Da quando i suoi occhi tacevano, sembrava che lo sguardo gli vagasse sulle labbra. – Sto per morire, disse con fatica. Non mi lamento di un destino che condivido con i fiori, con gli insetti, con gli astri. In un universo dove tutto passa come un sogno, non ci perdoneremmo di durare sempre. Non mi addolora che le cose, gli esseri e i cuori siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza è fatta di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici. Un tempo, la certezza di ottenere in ogni istante della mia vita una rivelazione non destinata a rinnovarsi, rappresentava il fiore dei miei segreti piaceri. Ora io muoio pieno di vergogna, come un privilegiato che abbia assistito da solo a una festa sublime data una volta sola. Cari oggetti, voi non avete più per testimone se non un cieco che muore... Saranno in fiore altre donne, sorridenti come quelle che io ho amato, ma il loro sorriso sarà diverso, e il neo che mi ispirava tanti slanci si sarà spostato per lo spessore di un atomo sulla loro guancia d’ambra. Altri cuori si spezzeranno sotto il peso di un amore insopportabile, ma le loro lacrime non saranno le nostre lacrime. Mani umide di desiderio continueranno a intrecciarsi sotto i mandorli in fiore, ma la stessa pioggia di petali non si sfoglia mai due volte sulla stessa felicità umana. Ah, mi sento simile a un uomo trascinato da un’inondazione, che voglia almeno trovare un angolino di terra asciutta per affidargli qualche lettera ingiallita e qualche ventaglio dalle sfumature sbiadite... Che ne sarà di te, quando non sarò più qui a intenerirmi sul tuo ricordo, Principessa Azzurra, mia prima moglie, al cui amore non ho creduto che il giorno dopo la tua morte? E tu, ricordo desolato della Signoradel-Padiglione-delle-Campanule, che sei morta nelle mie braccia perché una rivale gelosa pretendeva di essere sola ad amarmi? E voi, ricordi insidiosi della mia troppo bella matrigna e della mia troppo giovane sposa, occupate volta a volta a insegnarmi quanto si soffra a essere il complice o la vittima di un’infedeltà? E tu, ricordo sottile della Signora Cicala-delGiardino che si eclissò per pudore, tanto che io dovetti consolarmi con il suo giovane fratello, il cui viso infantile rifletteva ogni tratto di quel timido sorriso di donna? E tu, caro ricordo della Signora-della-Lunga Notte, che 38
sei stata tanto dolce, e che consentisti a essere soltanto la terza nella mia casa e nel mio cuore? E tu, povero piccolo ricordo pastorale della figlia del fattore So-Hei, che in me non amava che il mio passato? E tu soprattutto, tu, ricordo delizioso della piccola Sciujo che in questo momento mi massaggi i piedi e che non avrai il tempo di essere un ricordo? Sciujo, che avrei voluto incontrare più presto nella mia vita, ma è anche giusto che all’estremo autunno sia riservato un frutto... Ebbro di tristezza, lasciò ricadere la testa sul duro cuscino. La Signoradel-villaggio-dei-fiori-che-cadono si curvò su di lui e tremando tutta mormorò: – Non c’era un’altra donna nel tuo palazzo, una di cui non hai pronunciato il nome? Non era dolce? Non si chiamava per caso la Signora-delvillaggio-dei-fiori-che-cadono? Ah, cerca di ricordare... Ma già i tratti del principe Genji avevano assunto quella serenità che soltanto ai morti è riservata. La fine di ogni dolore aveva cancellato dal suo viso ogni traccia di sazietà o di amarezza, come se l’avesse convinto di avere ancora diciott’anni. La Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono si buttò a terra urlando contro ogni ritegno; le sue lacrime salate le devastavano le guance come una pioggia tempestosa, e i suoi capelli strappati a manciate volavano via come borra di seta. Il solo nome che Genji avesse dimenticato, era precisamente il suo.
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L'UOMO CHE HA AMATO LE NEREIDI Se ne stava ritto, a piedi nudi, nella polvere, il calore e le esalazioni del porto, sotto l’esigua tenda di un caffeuccio dove qualche raro cliente si era accasciato su una seggiola nella vana speranza di proteggersi dal sole. I suoi vecchi pantaloni rossi gli scendevano appena alle caviglie e il malleolo appuntito, il profilo del tallone, le lunghe piante callose e tutte escoriate, le dita elastiche e tattili appartenevano a quella razza di piedi intelligenti, abituati a ogni contatto dell’aria e del suolo, induriti dalle asprezze delle pietre, che conservano ancora in paese mediterraneo, all’uomo vestito, un po’ della libertà e della disinvoltura dell’uomo nudo. Piedi agili, così diversi dai supporti goffi e pesanti che racchiudono le scarpe del Nord... L’azzurro scialbo della sua camicia era in armonia con i toni del cielo slavato dalla luce dell’estate; le spalle e le scapole gli spuntavano dagli strappi della stoffa come piccoli scogli; le orecchie un po’ allungate gli inquadravano obliquamente il cranio come anse di un’anfora; incontestabili tracce di bellezza trapelavano ancora sul suo viso sparuto e vacuo, come l’affiorare di un’antica statua corrosa da un terreno ingrato. I suoi occhi di bestia ammalata si dissimulavano senza diffidenza dietro cigli lunghi come quelli che orlano la palpebra delle mule; teneva la mano destra continuamente tesa, nel gesto ostinato e importuno degli idoli arcaici che sembrano chiedere ai visitatori dei musei l’elemosina dell’ammirazione; belati inarticolati gli uscivano dalla bocca spalancata su denti smaglianti. – È sordomuto? – Non è sordo. Gianni Demetriadis, il proprietario dei grandi saponifici dell’isola, approfittò di un momento di disattenzione in cui lo sguardo vago dell’idiota si perdeva dalla parte del mare, per lasciar cadere una dracma sulla lastra liscia. Il leggero tintinnio soffocato a metà da un sottile strato di sabbia non andò perso per il mendicante, che raccolse golosamente la piccola moneta di metallo bianco e subito riprese la sua postura contemplativa e gemebonda, come un gabbiano sul bordo di una banchina.
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– Non è sordo, ripeté Gianni Demetriadis posandosi di nuovo davanti la tazza piena a metà di un’untuosa feccia nera. La parola e l’intelligenza gli sono state tolte in condizioni tali che a me, uomo ragionevole, uomo ricco che sovente non trova che noia e vuoto sulla sua strada, capita di invidiarlo. Questo Panegyotis (si chiama così) è diventato muto a diciott’anni per aver incontrato le Nereidi nude. Un timido sorriso si disegnò sulle labbra di Panegyotis, che aveva sentito pronunziare il suo nome. Non sembrava capire il senso delle parole di quell’uomo importante che considerava vagamente un protettore, ma se non le parole, il tono lo coinvolgeva. Contento di sapere che si trattava di lui e che forse era il caso di sperare in una nuova elemosina, avanzò impercettibilmente la mano con il movimento timoroso del cane che sfiora con la zampa il ginocchio del padrone perché non ci si dimentichi di dargli da mangiare. È il figlio di uno dei contadini più benestanti del mio villaggio, riprese Gianni Demetriadis, e per un’eccezione del nostro paese questa famiglia è veramente ricca. I suoi genitori hanno tanti campi che non li saprebbero contare, una solida casa in pietra, un frutteto con molte varietà di frutta, e legumi in giardino, e in cucina una sveglia, e davanti al muro delle icone una lampada accesa, tutto insomma il necessario. Si poteva dire di Panegyotis ciò che raramente si può dire di un giovane greco, che aveva il pane assicurato, e per tutta la vita. Si poteva anche dire che si trovava davanti un cammino tracciato in anticipo, una strada greca, polverosa, sassosa e monotona, ma con grilli qua e là che cantano e soste non certo sgradevoli alle porte delle taverne. Aiutava le vecchie a bacchiare le olive; sorvegliava l’imballo delle casse d’uva e la pesata delle balle di lana; nelle discussioni con gli acquirenti di tabacco, sosteneva discretamente suo padre sputando di disgusto a ogni proposta che non superasse il prezzo desiderato; era fidanzato con la figlia del veterinario, una graziosa ragazzina che lavorava nella mia fabbrica; poiché era bellissimo, gli venivano attribuite tante amanti in paese quante ragazze ci sono che amano l’amore; si diceva che dormisse con la moglie del prete; se era vero, il prete non gli serbava rancore, perché amava poco le donne e non badava alla sua, che del resto si offriva a chiunque. Immaginate l’umile felicità di un Panegyotis: l’amore delle belle, l’invidia degli uomini e qualche volta il loro desiderio, un orologio d’argento, ogni due o tre giorni una camicia meravigliosamente bian41
ca stirata da sua madre, il pilaf a mezzogiorno e l’ouzo glauco e profumato prima di cena. Ma la felicità è fragile, e quando gli uomini o le circostanze non la distruggono, viene minacciata dai fantasmi. Voi forse non sapete che la nostra isola pullula di presenze misteriose. I nostri fantasmi non somigliano ai vostri spettri del Nord che escono soltanto a mezzanotte e di giorno abitano nei cimiteri. I nostri non si preoccupano di avvolgersi in un lenzuolo bianco, e il loro scheletro è ricoperto di carne. Ma forse sono più pericolosi delle anime dei morti, che almeno sono stati battezzati, hanno conosciuto la vita e hanno saputo che cosa significhi soffrire. Le Nereidi delle nostre campagne sono innocenti e malvage come la natura che ora protegge e ora distrugge l’uomo. Gli dèi e le dee dell’antichità sono senz’altro morti, e i musei non contengono se non i loro cadaveri di marmo. Le nostre ninfe assomigliano più alle vostre fate che non a quelle di Prassitele. Ma il nostro popolo crede ai loro poteri; esse esistono come la terra, l’acqua e il temibile sole. È in loro che la luce dell’estate si fa carne, ed è per questo che vederle provoca vertigini e uno stato di stupore. Non escono che nell’ora tragica del mezzogiorno; nel mistero del giorno al suo colmo si trovano come immerse. Se i contadini sbarrano le porte delle case prima di stendersi per la siesta, non lo fanno contro il sole ma contro di loro; queste fate veramente fatali sono belle, nude, rinfrescanti e nefaste come l’acqua in cui si beve i germi della febbre; chi le ha viste si strugge dolcemente di languore e di desiderio; chi ha avuto l’ardire di avvicinarle diventa muto per la vita, perché non bisogna che al volgo vengano rivelati i segreti del loro amore. Ora, in una mattina di luglio, due dei caproni del padre di Panegyotis si misero a girare in tondo. L’epidemia si propagò rapidamente ai più bei capi del gregge, e il recinto di terra battuta davanti alla casa si trasformò in un batter d’occhio in un cortile di manicomio per bestiame alienato. Panegyotis partì solo, nel pieno del calore, in pieno sole, alla ricerca del veterinario che sta sull’altro versante del monte Sant’Elia, in un paesetto rannicchiato sulla riva del mare. Al crepuscolo non era ancora di ritorno. L’inquietudine del padre di Panegyotis si spostò dal gregge al figlio; si batté inutilmente la campagna e le vallate circostanti, per tutta la notte le donne di casa pregarono nella cappella del villaggio, una grangia rischiarata da due dozzine di ceri, dove si ha sempre l’impressione che Maria stia per entrare e mettere al mondo Gesù. La sera del giorno dopo, in quell’ora di riposo in cui gli uomini si siedono sulla piazza del villaggio davanti a una minuscola tazza di caffè, un bicchier d’acqua e un cucchiaio 42
di marmellata, ecco rispuntare un Panegyotis nuovo, tanto trasformato che sembrava avesse attraversato la morte. Gli occhi gli splendevano, ma pareva che il bianco e la pupilla avessero divorato l’iride; due mesi di malaria non l’avrebbero ingiallito di più; un sorriso un po’ viscido gli deformava le labbra da cui le parole non riuscivano a farsi strada. Non era però ancora completamente muto. Gli sfuggivano dalla bocca certe sillabe spezzate come gli ultimi gorgogli di una sorgente che muore: – Le Nereidi... Le signore... Nereidi... Belle... Nude... Splendido... Bionde... Capelli tutti biondi... Furono le sole parole che si riuscì a tirargli fuori. Più volte, nei giorni seguenti, lo si sentì ripetere dolcemente da solo: “Capelli biondi... biondi...” come se carezzasse della seta. Poi più nulla. I suoi occhi smisero di brillare; ma il suo sguardo ormai vago e fisso ha acquisito facoltà singolari: contempla il sole senza batter ciglio; forse trova piacere nel considerare quell’oggetto di una sfavillante biondezza. Io mi trovavo al villaggio nelle prime settimane del suo delirio; niente febbre, nessun sintomo d’insolazione o di accesso. I genitori l’hanno portato in un celebre monastero dei dintorni per farlo esorcizzare: lui si è lasciato fare tutto con la dolcezza di una capra ammalata, ma né le cerimonie della Chiesa, né le fumigazioni d’incenso, né i riti magici delle vecchie del villaggio sono riusciti a cacciargli dal sangue le folli ninfe color del sole. I primi giorni del suo nuovo stato li passò in un incessante andirivieni: ritornava instancabilmente nel luogo dove si era manifestata l’apparizione: là c’è una sorgente dove qualche volta i pescatori vanno a rifornirsi d’acqua dolce, e un vallone profondo, un campo di fichi da cui scende verso il mare un sentiero. La gente ha creduto di scorgere nell’erba avara certe leggere tracce di piedi femminili, e zone appiattite dal peso dei corpi. S’immagina la scena: le macchie di sole nell’ombra dei fichi, che non è un’ombra ma una forma più verde e più dolce della luce; il giovane contadino insospettito da certe risate e grida di donne come un cacciatore da uno sbatacchiare d’ali; le divine fanciulle che alzano le candide braccia su cui una peluria bionda intercetta il sole; l’ombra di una foglia tremula su un ventre nudo; un seno chiaro, dalla punta non violenta ma rosa; i baci di Panegyotis buttato avidamente su quelle chiome che gli danno l’impressione di masticare miele, il suo desiderio che si perde tra quelle gambe bionde. Come non esiste amore senza abbagliamento del cuore, non può esserci vera voluttà senza meraviglia 43
della bellezza. Il resto è tutt’al più funzionamento meccanico, come la sete e la fame. Le Nereidi hanno aperto al giovane stolto l’accesso a un mondo femminile tanto diverso dalle ragazze dell’isola quanto queste lo sono dalle femmine del gregge; gli hanno offerto l’ebbrezza dell’ignoto, la completezza del miracolo, le sfavillanti malignità della gioia. Si dice che non abbia mai cessato di incontrarle, in quelle ore calde in cui quei bei demoni del mezzogiorno si aggirano in cerca d’amore; sembra che abbia dimenticato perfino il viso della sua fidanzata, da cui si distoglie come da una disgustosa bertuccia; sputa al passaggio della moglie del pope, che ha pianto due mesi prima di consolarsi. Le Ninfe l’hanno inebetito per mescolarlo meglio ai loro giochi, come una specie di fauno nascente. Lui non lavora più; non si preoccupa più né dei mesi né dei giorni; si è fatto mendicante, e così mangia quasi sempre secondo il suo bisogno. Vagabonda nei paesi, evitando il più possibile le strade maestre; si insinua nei campi e nelle pinete infossate fra le colline deserte; e si dice che un fiore di gelsomino su un muretto a secco, una pietra bianca ai piedi di un cipresso siano altrettanti messaggi in cui decifri l’ora e il luogo del prossimo appuntamento delle fate. I contadini giurano che non invecchierà: come tutti i colpiti da una cattiva sorte, appassirà e non sarà possibile sapere se abbia diciott’anni o quaranta. Ma le ginocchia gli tremano, l’intelligenza se n’è andata per non ritornare più, e la parola non rinascerà mai più sulle sue labbra: già Omero sapeva che vedono svanire la loro mente e la forza quelli che si giacciono con le dee d’oro. Ma io invidio Panegyotis. È uscito dal mondo dei fatti per entrare in quello delle illusioni, e mi capita di pensare che l’illusione sia forse la forma che agli occhi del volgo prendono le realtà più segrete. Ma insomma, Gianni, disse con irritazione la signora Demetriadis, non penserete per caso che Panegyotis abbia davvero visto le Nereidi? Gianni Demetriadis non rispose, occupato com’era a sollevarsi a metà sulla sedia per restituire il loro altero saluto a tre straniere che passavano. Quelle tre giovani Americane, ben modellate nei loro vestiti di tela bianca, camminavano con passo elastico sulla banchina inondata dal sole, seguite da un vecchio portatore piegato sotto il peso di provviste comprate al mercato; e come tre ragazzine all’uscita della scuola, si tenevano per mano. Una di loro andava a capo scoperto, con qualche rametto di mirto puntato nella chioma rossa, ma la seconda portava un immenso cappello di paglia messicana, e la terza un fazzoletto di cotone, alla contadina: occhiali da so44
le la proteggevano come una maschera, con i loro vetri neri. Queste tre ragazze si erano stabilite nell’isola, dove avevano comprato una casa lontana dalle strade maestre: di notte pescavano con il tridente sulla barca di loro proprietà e in autunno andavano a caccia di quaglie; non si mescolavano con nessuno, e si facevano ogni servizio da sole per paura di introdurre una domestica nell’intimità della loro esistenza, e insomma si isolavano selvaggiamente per evitare le maldicenze, probabilmente preferendo le calunnie. Cercai inutilmente di intercettare lo sguardo che Panegyotis lanciava su queste tre dee, ma i suoi occhi distratti nuotavano nel vago, senza luce: era chiaro che non riconosceva le sue Nereidi vestite da donna. All’improvviso si curvò, con un movimento agile e come animalesco, per raccogliere una nuova dracma caduta da una delle nostre tasche, e io scorsi, preso fra i peli ruvidi della casacca che portava appesa a una spalla, fissata alle bretelle, il solo oggetto che potesse fornire una prova imponderabile alla mia istanza: il filo di seta, l’esile filo, il filo smarrito di un capello biondo.
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NOSTRA SIGNORA DELLE RONDINI Il monaco Terapione era stato in gioventù il più fedele discepolo del grande Atanasio; era rude, austero, dolce soltanto verso le creature nelle quali non sospettasse la presenza di diavoli. In Egitto aveva risuscitato ed evangelizzato delle mummie; a Bisanzio aveva confessato imperatori; era venuto in Grecia sulla fede di un sogno, con l’intenzione di esorcizzare questa terra ancora soggetta ai sortilegi di Pan. S’infiammava di odio vedendo certi alberi sacri ai quali i contadini colpiti dalla febbre appendevano stracci incaricati di tremare per loro al minimo alito serale, i falli eretti nei campi per obbligare il suolo a dare il raccolto e gli dèi d’argilla annidati negli incavi dei muri e nella conca delle sorgenti. Si era costruito con le sue proprie mani un’esigua capanna sugli argini del Cefiso, avendo cura di usare soltanto materiali benedetti. I contadini dividevano con lui il loro scarso nutrimento, ma benché quella gente fosse sparuta, livida e scoraggiata dalle carestie e dalle guerre che le si erano riversate sul capo, Terapione non riusciva a volgerla dalla parte del cielo. Adoravano Gesù, il figlio di Maria, vestito d’oro come un sole nascente, ma il loro cuore ostinato restava fedele alle divinità che si annidano negli alberi o emergono dal ribollio delle acque; ogni sera posavano sotto il platano consacrato alle Ninfe una scodella di latte della sola capra superstite; i giovani s’insinuavano a mezzogiorno sotto i boschetti per spiare quelle donne dagli occhi verdi che si nutrono di timo e di miele. Pullulavano ovunque, figli di quella terra dura e secca dove ciò che altrove si dissipa in vapore assume subito sagoma e sostanza di realtà. Si ritrovava traccia dei loro passi nella terra argillosa delle fontane, e il candore dei loro corpi si confondeva di lontano con lo scintillio delle rocce. Capitava perfino che una Ninfa mutilata sopravvivesse ancora nella trave rozzamente piallata che sosteneva un tetto, e la notte la si sentiva lamentarsi e cantare. Quasi ogni giorno qualche mandria stregata si perdeva nella montagna, e qualche mese più tardi non se ne trovava che un mucchietto di ossa. Le Maligne prendevano per mano i bambini e li portavano a ballare sull’orlo dei precipizi; i loro piedi leggeri non toccavano terra, ma l’abisso risucchiava i corpicini pesanti. Oppure un ragazzo lanciato sulla loro pista ridiscendeva trafelato, tremante di febbre per aver bevuto la morte con l’acqua di una sorgente. Dopo ogni disastro il monaco Terapione mostrava il pugno ai boschi dove le Maledet46
te si nascondevano, ma i contadini continuavano ad amare quelle fresche fate seminvisibili, e le perdonavano per i loro misfatti come si perdona al sole che disintegra il cervello dei matti, alla luna che succhia il latte delle madri addormentate, e all’amore che fa tanto soffrire. Il monaco le temeva come un branco di lupe, e loro lo irritavano come un gregge di prostitute. Quelle lunatiche belle non gli davano pace: la notte ne sentiva sul viso l’alito caldo, simile a quello di una bestia male addomesticata che timidamente si aggiri in una camera. Se si avventurava per la campagna munito del viatico per un malato, sentiva risuonare dietro di sé quel trotto capriccioso e sincopato da giovani capre; se gli capitava, nonostante i suoi sforzi, di addormentarsi all’ora della preghiera, eccole lì in tutta innocenza a tirargli la barba. Non cercavano di sedurlo, perché lo trovavano brutto, buffo e vecchissimo nei suoi spessi abiti di saio scuro, e malgrado la loro bellezza non risvegliavano in lui alcun desiderio impuro, perché la loro nudità gli ripugnava come la carne pallida del bruco e il derma liscio delle serpi, lo inducevano tuttavia in tentazione, perché finiva per dubitare della saggezza di Dio che ha modellato tante creature inutili e dannose, come se la creazione non fosse che un gioco malefico nel quale Egli trovasse compiacimento. Un mattino gli abitanti del villaggio trovarono il loro monaco tutto intento a segare il platano delle Ninfe, e doppiamente se ne addolorarono. Da un lato infatti temevano la vendetta delle fate, che se ne sarebbero andate portandosi via le sorgenti, e dall’altro quel platano dava ombra allo spiazzo dove usavano riunirsi per danzare. Ma non rimproverarono il santo uomo per timore di guastarsi con il Padre che è nei cieli, dispensatore di pioggia e di sole. Se ne stettero zitti, e i progetti del monaco Terapione contro le Ninfe furono incoraggiati da quel silenzio. Non usciva più senza due selci dissimulate nella piega della manica, e la sera, dì nascosto, quando non vedeva ombra di contadino nella campagna deserta, dava fuoco a un vecchio ulivo il cui tronco cariato avesse l’aria di nascondere qualche dea, o a un giovane pino scaglioso la cui resina versasse un pianto d’oro. Una forma nuda si svincolava allora dal fogliame e correva a raggiungere le compagne, immobili in lontananza come cerbiatte spaventate, e il santo monaco si rallegrava di aver distrutto uno dei covi del Male. Piantava croci ovunque, e le giovani bestie divine indietreggiavano, 47
fuggivano l’ombra di quella specie di sublime patibolo, lasciando intorno al villaggio santificato una zona sempre più vasta di silenzio e di solitudine. Ma la lotta proseguiva palmo a palmo sulle prime rampe della montagna, che si difendeva a forza di pruni aguzzi e smottamenti di pietre, e di dove cacciare gli dèi risulta più difficile. Alla fine, circondate dalla preghiera e dal fuoco, ridotte all’osso per l’assenza di offerte, prive d’amore da quando i giovani del villaggio avevano preso a evitarle, le Ninfe cercarono rifugio in una valle deserta dove certi pini tutti neri, piantati nel suolo argilloso, facevano pensare a grandi uccelli intenti a uncinare nei loro forti artigli la terra rossa e a volteggiare in cielo con le mille punte sottili delle loro piume d’aquila. Le sorgenti che sgorgavano laggiù sotto cumuli informi di pietre erano troppo fredde per attirare le lavandaie e i pastori. Sul fianco della collina, a mezza altezza, si apriva una grotta, e non vi si poteva entrare che attraverso uno squarcio largo appena quanto basta al passaggio di un corpo. Sempre le Ninfe vi si erano rifugiate nelle sere in cui il temporale disturbava i loro giochi, perché temevano il tuono, come tutte le bestie dei boschi, e ci dormivano anche nelle notti senza luna. Certi giovani pastori pretendevano di essersi insinuati in quella caverna a rischio della loro salvezza e del vigore della loro gioventù, e non la finivano più di parlare di quei corpi dolci semivisibili nella frescura delle tenebre, e di quelle chiome più intuite che palpate. Per il monaco Terapione, quella grotta dissimulata nel fianco della roccia era come un cancro radicato nel suo stesso petto, e in piedi all’ingresso della valle, con le braccia levate, pregava che il cielo l’aiutasse a distruggere quei pericolosi resti della razza degli dèi. Poco dopo la Pasqua, il monaco riunì una sera i più fedeli e i più rozzi fra i suoi seguaci; li armò di zappe e di lanterne; si munì di un crocefisso e li guidò attraverso il dedalo delle colline nelle molli tenebre piene di linfa, impaziente di mettere a profitto quella notte nera. Il monaco Terapione si fermò sulla soglia della grotta, e temendo che subissero qualche tentazione non permise ad alcun discepolo di penetrarvi. Si sentivano gorgogliare le sorgenti, in quell’ombra opaca. Palpitava un debole rumore, dolce come la brezza nelle pinete; era il respiro delle Ninfe addormentate, che sognavano la giovinezza del mondo, il tempo in cui non esisteva ancora l’uomo, e dove la terra non dava vita che agli alberi, alle bestie e agli dèi. I contadini accesero un grande fuoco, ma si dovette rinunziare a bruciare le rocce; il monaco ordinò a tutti di impastare gesso, di trasportare pietre. Alle prime luci dell’alba essi avevano cominciato la costruzione di una piccola cappel48
la appoggiata al fianco della collina, davanti all’imbocco della grotta maledetta. I muri non erano secchi, il tetto non era stato ancora appoggiato, la porta mancava, ma il monaco Terapione sapeva che le Ninfe non avrebbero tentato di scappare attraverso quel luogo santo da lui già consacrato e benedetto. Per maggior sicurezza, al fondo della cappella, proprio dove si apriva la bocca della roccia, aveva piantato un grande Cristo dipinto su una croce dalle quattro braccia eguali, e le Ninfe che capiscono soltanto i sorrisi indietreggiavano inorridite davanti a quell’immagine del Suppliziato. I primi raggi del sole si allungavano timidamente fino alla soglia della caverna: era l’ora in cui le infelici usavano uscire, per cogliere sulle foglie degli alberi vicini il loro primo pasto di rugiada; le prigioniere singhiozzavano, supplicavano il monaco di venir loro in soccorso, e nella loro innocenza gli promettevano di amarlo se avesse acconsentito ad autorizzarle a fuggire. I lavori proseguirono per l’intera giornata, e fino a sera si videro lacrime cader dalla pietra, si sentirono colpi di tosse e grida rauche simili a lamenti di bestie ferite. Il giorno dopo si posò il tetto e lo si ornò con un ciuffo di fiori; si sistemò la porta e si fece girare nella serratura una grossa chiave di ferro. Quella notte i contadini stanchi ridiscesero al villaggio, ma il monaco Terapione si coricò accanto alla cappella da lui costruita, e tutta la notte i lamenti delle sue prigioniere gli impedirono deliziosamente di dormire. Eppure era un uomo compassionevole: si inteneriva difatti su un verme che avesse schiacciato con un piede, o su uno stelo di fiore rotto dallo sfioramento della sua tonaca, ma era simile a un uomo capace di rallegrarsi per aver murato fra due mattoni un nido di giovani vipere. Il giorno dopo i contadini portarono del latte di calce, intonacarono l’interno e l’esterno della cappella, che a questo punto prese l’aspetto di una bianca colomba rannicchiata sul seno della roccia. Due uomini del villaggio, meno paurosi degli altri, si avventurarono nella grotta per imbiancarne le pareti umide e porose, perché l’acqua delle sorgenti e il miele delle api cessassero di trasudare all’interno del bell’antro e di sostenere la vita declinante delle donne-fata. Le Ninfe indebolite non avevano più la forza necessaria per manifestarsi agli umani; soltanto qua e là si indovinavano vagamente nella penombra una giovane bocca contratta, due macilente mani in supplica, e la pallida rosa di un seno. Oppure ogni tanto, passando sulle asperità della roccia le grosse dita imbiancate di calce, i contadini sentivano sfuggirsi dalle mani una chioma morbida e tremula come quel capelvenere che cresce negli anfratti umidi e abbandonati. Il corpo disfatto 49
delle Ninfe si decomponeva in vapore, o era sul punto di sbriciolarsi come le ali di una farfalla morta; non smettevano di gemere, ma per cogliere quei deboli lamenti bisognava proprio tendere l’orecchio; non erano già più, ormai, che anime di Ninfe in pianto. Per tutta la notte seguente il monaco Terapione continuò a montare la sua guardia di preghiere sulla soglia della cappella, come un anacoreta nel deserto. Si rallegrava pensando che prima del novilunio i lamenti sarebbero cessati, e che le Ninfe morte di fame non sarebbero più state che un’impura memoria. Pregava per affrettare il momento in cui la morte avrebbe liberato le sue prigioniere, perché suo malgrado cominciava a compiangerle, e di questa biasimevole debolezza si vergognava. Più nessuno saliva a trovarlo; il villaggio gli sembrava lontano, situato sull’altra riva del mondo; sul versante opposto della valle egli non scorgeva che terra rossa, e pini, e un sentiero seminascosto sotto gli aghi d’oro. Non sentiva che quei rantoli che andavano sempre decrescendo, e il suono sempre più rauco delle sue stesse preghiere. Al declinare di quel giorno egli vide sul sentiero una donna che gli veniva incontro. Camminava con la testa bassa, un po’ curva; aveva un mantello e una sciarpa neri, ma una luce misteriosa trapelava da quella stoffa scura, come se lei avesse buttato la notte sul mattino. Benché fosse giovanissima aveva la gravità, la lentezza e la dignità di una donna molto vecchia, e la sua soavità era simile a quella del grappolo maturo e del fiore imbalsamato. Passando davanti alla cappella ella guardò con attenzione il monaco, che ne fu disturbato nelle sue orazioni. – Questo sentiero non porta da nessuna parte, donna, le disse. Di dove vieni? – Da Est, come il mattino, disse la giovane. E tu che cosa fai qui, vecchio monaco? – Ho murato in questa grotta le Ninfe che infestavano ancora la contrada, disse il monaco, e contro l’apertura dell’antro ho costruito una cappella che loro non osano attraversare per fuggire perché sono nude, e a loro modo temono Dio. Aspetto che muoiano di fame e di freddo nella loro caverna, e allora la pace di Dio regnerà sui campi. 50
Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e ai greggi delle capre? rispose la giovane. Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan? E altri si fissarono su una montagna, dove divennero dèi dell’Olimpo. Non esaltare, come i pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno per la Sua opera. E nel tuo cuore ringrazia Dio perché ha creato Diana e Apollo. – La mia mente non sa innalzarsi tanto, disse umilmente il vecchio monaco. Le Ninfe turbano i miei fedeli e mettono in pericolo la loro salvezza di cui io sono responsabile davanti a Dio, e per questo io le perseguiterò, se è necessario, fino all’Inferno. – E si terrà conto del tuo zelo, onesto monaco, disse sorridendo la giovane. Ma non vedi proprio un mezzo per conciliare la vita delle Ninfe e la salvezza dei tuoi fedeli? La sua voce era dolce come la musica di un flauto. Inquieto, il monaco abbassò la testa. La giovane donna gli posò la mano sulla spalla e gli disse con gravità: – Monaco, lasciami entrare in questa grotta. Io amo le grotte, e sento compassione per chi vi cerca rifugio. È in una grotta che io ho messo al mondo il mio bambino, ed è in una grotta che l’ho affidato senza timore alla morte, perché subisse la seconda nascita della Resurrezione. L’anacoreta si fece da parte per lasciarla passare. Senza esitare ella si diresse verso l’entrata della caverna, dissimulata dietro l’altare. La grande croce ne sbarrava la soglia; ella la scostò delicatamente come un oggetto familiare, e s’insinuò nell’antro. Si sentivano nelle tenebre dei gemiti più acuti, dei pigolii e come un frusciare di ali. La giovane parlava alle Ninfe in una lingua sconosciuta che era forse quella degli uccelli e degli angeli. Dopo un po’ riapparve accanto al monaco, che non aveva smesso di pregare. – Guarda, monaco, disse, e ascolta.
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Innumerevoli gridolini stridenti le uscivano di sotto il mantello. Ne scostò i lembi, e il monaco Terapione vide che nelle pieghe del suo abito ella portava centinaia di giovani rondini. Come una donna in preghiera spalancò le braccia, dando così libertà agli uccelli. Poi, con voce chiara come il suono di un’arpa, ella disse: – Andate, mie creature. Le rondini liberate filarono via nel cielo della sera, descrivendo indecifrabili segni con il becco e con l’ala. Il vecchio e la giovane donna le seguirono per un po’ con lo sguardo, poi la pellegrina disse al solitario: – Ritorneranno ogni anno, e tu le accoglierai nella mia chiesa. Addio, Terapione. E Maria se ne andò per il sentiero che non porta da nessuna parte, come una donna a cui importi ben poco che le strade finiscano, dal momento che sa come camminare nel cielo. Il monaco Terapione scese al villaggio, e il giorno dopo, quando risalì per celebrare la Messa, la grotta delle Ninfe era tappezzata di nidi di rondini. Ritornarono ogni anno; andavano e venivano per la chiesa, tutte intente a nutrire i loro piccoli e a consolidare le loro case d’argilla, e il monaco Terapione si interrompeva sovente nelle sue preghiere per seguire, intenerito, i loro amori e i loro giochi, perché ciò che è proibito alle Ninfe è permesso alle rondini
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LA VEDOVA AFRODISSIA Lo chiamavano Kostis il Rosso perché aveva i capelli rossi, perché si era appesantito la coscienza con una buona quantità di sangue versato, e soprattutto perché portava un camiciotto rosso quando scendeva con insolenza alla fiera dei cavalli per obbligare un contadino terrorizzato a vendergli a basso prezzo la sua migliore cavalcatura, con il rischio di esporsi a diverse varietà di morti istantanee. Aveva vissuto rannicchiato nella montagna, a qualche ora di marcia dal suo paese natale, e a lungo i suoi misfatti si erano limitati a un certo numero di assassinii politici e al ratto di una dozzina di macilente capre. Avrebbe potuto ritornarsene alla sua fucina senza troppe noie, ma era fra quelli che a tutto preferiscono il gusto dell’aria libera e del cibo rubato. Poi due o tre omicidii di diritto comune avevano messo in allarme i contadini del paese; l’avevano braccato come un lupo e costretto come un cinghiale. Finalmente erano riusciti a mettergli le mani addosso durante la notte di San Giorgio, e l’avevano ricondotto al villaggio buttato su una sella, con la gola aperta come un animale da macello, e i tre o quattro giovani che si era trascinati dietro in quella vita d’avventure erano finiti come lui, bucati da pallottole e attraversati da coltellate. Le loro teste piantate su forche decoravano la piazza del villaggio; i corpi giacevano ammonticchiati alla porta del cimitero; i contadini vincitori erano in festa, protetti dal sole e dalle mosche dietro le persiane chiuse; e la vedova del vecchio pope che Kostaki aveva assassinato sei anni prima su una strada deserta, se ne stava in cucina a piangere mentre risciacquava i bicchieri che poco prima, pieni d’acquavite, aveva offerto ai contadini che l’avevano vendicata. La vedova Afrodissia si asciugò gli occhi e si sedette sull’unico sgabello della cucina, appoggiando sul bordo della tavola le due mani, e sulle mani quel mento che le tremava come quello di una vecchia. Era mercoledì. Non mangiava da domenica. Ed erano anche, tre giorni che non dormiva. I singhiozzi repressi le scuotevano il petto sotto le spesse pieghe del vestito di stamigna nera. Si assopiva suo malgrado, cullata dai suoi stessi lamenti; con un soprassalto si raddrizzò: per lei non era ancora il momento della siesta e dell’oblio. Per tre giorni e tre notti le donne del villaggio avevano aspettato in piazza, strillando a ogni fucilata che si ripercuotesse nella 53
montagna con lo scrosciare dell’eco; e le grida di Afrodissia erano scaturite più alte di quelle delle compagne, come conveniva alla donna di un personaggio tanto rispettato come quel vecchio pope disceso da sei anni nella tomba. Era venuta meno quando all’alba del terzo giorno i contadini erano rientrati con il loro carico sanguinolente su una mula stremata, e i vicini avevano dovuto ricondurla nella casetta dove se ne abitava in disparte dopo la vedovanza, ma appena ritornata in sé lei aveva insistito per offrire da bere ai suoi vendicatori. Con le gambe e le mani che le tremavano ancora si era via via avvicinata a ognuno di quegli uomini che spandevano nella camera un lezzo quasi intollerabile di cuoio e di stanchezza, e non avendo potuto condire di veleno le fette di pane e di formaggio che aveva offerto a tutti, aveva dovuto accontentarsi di sputarci sopra di nascosto, con l’augurio che la luna d’autunno si alzasse sulle loro tombe. È in quel momento che lei avrebbe dovuto confessare ai presenti tutta la sua vita, confondere la loro idiozia o giustificare i loro peggiori sospetti, strombazzargli nelle orecchie quella verità che le era stato insieme così facile e così dura da dissimulare per dieci anni: il suo amore per Kostis, il loro primo incontro su un sentiero incassato, sotto un gelso dove lei si era riparata da un rovescio di grandine, e la loro passione nata con la rapidità del lampo in quella notte tempestosa; il suo ritorno al villaggio, con l’anima sconvolta da un rimorso in cui la paura entrava più del pentimento; l’intollerabile settimana in cui aveva tentato di privarsi di quell’uomo diventato per lei più necessario del pane e dell’acqua; e la sua seconda visita a Kostis, con il pretesto di rifornire di farina la madre del pope che conduceva tutta sola una fattoria nella montagna; e la gonna gialla che lei portava a quel tempo, e che si erano stesi sopra come una coperta, ed era stato come se si fossero coricati sopra un lembo di sole; e la notte in cui avevano dovuto nascondersi nella scuderia di un caravanserraglio turco abbandonato; e quei giovani rami di castagno che la colpirono al passaggio con schiaffi di freschezza; e il dorso curvo di Kostis che la precedeva su certi sentieri dove il minimo movimento un po’ vivace rischiava di disturbare una vipera; e la cicatrice di cui lei non si era accorta il primo giorno, e che gli serpeggiava sulla nuca; e gli sguardi cupidi e folli che lui le buttava addosso come su un prezioso oggetto rubato; e il suo corpo solido di uomo abituato alla vita selvaggia; e la sua risata che la rassicurava; e quel modo tutto suo di balbettare il nome di lei facendo l’amore. 54
Si alzò e con un gesto largo spolverò il muro bianco dove ronzavano due o tre mosche. Le grasse mosche nutrite d’immondizie non erano soltanto quei parassiti un po’ importuni di cui si sopportava sulla pelle l’andirivieni molle e leggero: esse si erano forse posate su quel corpo nudo, su quella testa sgocciolante; esse avevano aggiunto i loro insulti ai calci dei bambini e agli sguardi curiosi delle donne. Ah, se fosse stato possibile, con un semplice colpo di straccio, scopar via l’intiero villaggio, quelle vecchie dalle lingue avvelenate come pungiglioni di vespe; e quel giovane prete, ubriaco del vino della Messa, che in chiesa tuonava contro l’assassino del suo predecessore; e quei contadini accaniti sul corpo di Kostis come calabroni su un frutto grondante miele. Nessuno immaginava che il lutto di Afrodissia, anziché quel vecchio pope nascosto da sei anni nell’angolo più onorevole del cimitero, potesse avere un altro oggetto: lei non aveva potuto gridare in faccia a tutti che della vita di quel pomposo ubriacone gliene importava come della seggetta di legno che stava in fondo al giardino. Eppure, nonostante il suo russare che le impediva di dormire e quella maniera insopportabile di raschiarsi la gola, lei lo rimpiangeva quasi, quel vecchio credulo e vanaglorioso che si era lasciato beffare e poi terrorizzare con la comica esagerazione di uno di quei gelosi che sullo schermo dei teatri di Karaghiozi1 provocano tante risate: aveva aggiunto un pizzico di farsa al dramma del suo amore. E com’era stato bello tirare il collo ai polli del pope che Kostis si sarebbe portato via sotto la giacca nelle sere in cui s’insinuava di nascosto fino al presbiterio, e poi di attribuire quel furto alle volpi. Era stato anche bello, una notte in cui il vecchio si era alzato, svegliato dal loro cinguettio amoroso sotto il platano, immaginare quel vecchio curvo sul davanzale, intento a spiare ogni movimento delle loro ombre sul muro del giardino, diviso in modo grottesco fra la paura dello scandalo, quella di una pallottola, e la voglia di vendicarsi. La sola cosa che Afrodissia sentisse di dover rimproverare a Kostis era appunto l’assassinio di quel vecchio che suo malgrado faceva da copertura ai loro amori. Dal tempo della sua vedovanza nessuno aveva sospettato quei pericolosi appuntamenti dati a Kostis nelle notti senza luna, e così alla vivanda della
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Teatro d’ombre più o meno simile alle ombre cinesi e presentato da compagnie ambulanti in piccole città e villaggi della Grecia e della Turchia.
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sua gioia era mancato il pimento di uno spettatore. Quando gli occhi diffidenti delle matrone si erano posati sui fianchi arrotondati della giovane donna, avevano potuto tutt’al più immaginarsi che la vedova del pope si fosse fatta sedurre da un venditore ambulante, da un lavorante della fattoria, come se tipi del genere potessero mai convincere un’Afrodissia a coricarsi con loro. E le era stato pur necessario accogliere con gioia quei sospetti umilianti e inghiottire l’orgoglio con maggior cura di quella che poneva nel dissimulare le nausee. E quando qualche settimana più tardi l’avevano rivista con il ventre piatto sotto le sue gonne larghe, tutte si erano domandate che cosa diavolo Afrodissia avesse potuto fare per sbarazzarsi con tanta facilità del suo fardello. Nessuno aveva sospettato che la visita al santuario di San Loukas non fosse che un pretesto, e che Afrodissia se n’era restata rintanata a poche leghe dal villaggio, nella casupola della madre del pope che ora accettava di cuocere il pane di Kostis e di rammendargli la giacca. Non che la Vecchissima avesse il cuore tenero, ma Kostis la riforniva di acquavite, e poi anche lei in giovinezza aveva amato l’amore. Ed è là che il bambino era venuto al mondo, e che era stato necessario soffocarlo fra due pagliericci, debole e nudo come un gattino neonato, senza nemmeno darsi la pena di lavarlo dopo la nascita. Poi c’era stato l’assassinio del sindaco da parte di uno dei compagni di Kostis, e le mani magre dell’uomo amato strette con sempre maggior astio sul suo vecchio fucile da caccia, e quei tre giorni e quelle tre notti in cui il sole sembrava levarsi e coricarsi nel sangue. E quella sera tutto sarebbe finito con un falò di gioia per il quale i bidoni di benzina erano già pronti sulla porta del cimitero; Kostis e i suoi compagni avrebbero avuto un trattamento riservato a quelle carogne di mule che si innaffiano di petrolio per evitare la fatica di sotterrarle, e ad Afrodissia non restavano ormai che poche ore di sole e di solitudine per portare il suo lutto. Tolse il catenaccio e uscì sull’esiguo terrapieno che la separava dal cimitero. I corpi giacevano ammonticchiati contro il muretto a secco, ma Kostis non era difficile da riconoscere; era il più alto, e lei lo aveva amato. Un rapace contadino gli aveva tolto il panciotto per farsene bello la domenica; delle mosche aderivano già al pianto di sangue delle palpebre; era quasi nudo. Due o tre cani leccavano a terra qualche traccia nera, poi ansi56
manti ritornavano a coricarsi su un’esile striscia d’ombra. La sera, quando il sole si fa inoffensivo, piccoli gruppi di donne avrebbero cominciato a riunirsi su quell’esiguo spiazzo; avrebbero esaminato la verruca che Kostis aveva fra le spalle. Qualche uomo avrebbe rivoltato a calci il cadavere per impregnare di benzina quei lembi di vestito che gli avevano lasciato; i bidoni sarebbero stati aperti con la grassa gioia dei vendemmiatori che sturano una botte. Afrodissia toccò la manica strappata della camicia che aveva cucito con le sue proprie mani per offrirla a Kostis come regalo di Pasqua, e all’improvviso riconobbe il proprio nome che Kostaki si era inciso all’interno del braccio sinistro. Se, oltre i suoi, altri occhi fossero caduti su quelle lettere goffamente tracciate sulla viva pelle, la verità avrebbe di colpo illuminato la loro mente come quelle fiamme di benzina già lingueggianti allora sul muro del cimitero. Si vide lapidata, seppellita sotto le pietre. Ma non poteva certo strappare quel braccio che con tanta tenerezza l’accusava, né procurarsi ferri incandescenti per obliterare quei segni che la perdevano, non poteva certo infliggere una ferita a quel corpo che aveva già sanguinato tanto. Le corone di latta accumulate sulla tomba del pope Stefano scintillavano dall’altra parte del muretto del recinto consacrato, e quella gibbosa montagnola le ricordò d’un tratto il ventre adiposo del vecchio. Dopo la vedovanza la vedova del defunto pope era stata relegata in quel tugurio a due passi dal cimitero: lei non si lamentava di vivere in quel luogo isolato dove soltanto le tombe crescevano, perché talvolta Kostis era riuscito ad avventurarsi a notte fatta su quella strada dove non passava anima viva, e il becchino che abitava la casa accanto era sordo come un morto. La fossa del pope Stefano non era separata dal suo tugurio che dal muro del cimitero, e loro due avevano avuto l’impressione di continuare le loro carezze alla barba del fantasma. Quella stessa solitudine, ora, avrebbe permesso ad Afrodissia di realizzare un progetto degno di quella sua vita di stratagemmi e imprudenze, e spingendo la barriera di legno tutta crepata dal sole s’impadronì del badile e della zappa del becchino. La terra era secca e dura, e il sudore di Afrodissia scendeva più abbondante di quant’erano state le sue lacrime. Ogni tanto il badile risuonava su una pietra, ma quel rumore non destava alcun allarme in quel luogo deserto, e l’intiero villaggio dormiva dopo aver mangiato. Finalmente sentì sotto la zappa il suono secco del legno vecchio, e la bara del pope Stefano si 57
spaccò sotto l’urto, più fragile della cassa di una chitarra, mettendo in luce quel poco d’ossa e di pianeta sgualcito che restava del vecchio. Afrodissia fece un mucchietto di quei resti e li spinse con cura in un angolo della bara, trascinando per le ascelle il corpo di Kostis verso la fossa. L’amante di un tempo superava di tutta la testa il marito, ma la bara sarebbe certo bastata a contenere un Kostis decapitato. Afrodissia richiuse il coperchio, ammucchiò la terra di nuovo sulla tomba, ricoperse la montagnola appena smossa con l’ausilio delle corone comprate allora ad Atene a spese dei parrocchiani, livellò la polvere del sentiero su cui aveva trascinato il suo morto. Ora un corpo mancava all’ammasso giacente all’ingresso del cimitero, ma i contadini non si sarebbero certo messi a scavare in tutte le tombe per ritrovarlo. Afrodissia si sedette ansimando e quasi subito si rialzò perché stava prendendo gusto al suo lavoro di seppellitrice. La testa di Kostis era ancora lassù, esposta agli insulti, infilzata su una forca nel punto in cui il villaggio sfuma verso le rocce e il cielo. Niente era finito finché lei non avesse perfezionato il suo rito funebre, e bisognava affrettarsi ad approfittare delle ore calde in cui la gente barricata in casa se la dorme, conta le sue dracme, fa l’amore e lascia, fuori, campo libero al sole. Girando intorno al villaggio ella prese, per salire sulla cima, la scorciatoia meno frequentata. Certi cani macilenti sonnecchiavano nell’ombra stretta delle soglie; Afrodissia gli allungava un calcio al passaggio, riversando su di loro il rancore che non poteva sfogare sui loro padroni. E quando una di quelle bestie si alzò con il pelo ritto e un lungo gemito, ella dovette fermarsi un attimo per quietarla a forza di moine e di carezze. L’aria bruciava come un ferro fattosi incandescente, e Afrodissia si alzò lo scialle fin sopra la fronte perché non era certo il caso di cader fulminata prima di aver concluso il suo compito. Alla fine il sentiero sfociava su uno spiazzo bianco e rotondo. Più in alto non c’erano che grandi spelonche rocciose dove soltanto dei disperati come Kostis potevano avventurarsi, e di dove gli estranei si sentivano richiamare dalla voce aspra dei contadini per poco che accennassero ad avventurarsi in quella direzione. Ancora più su non c’erano che le aquile e il cielo, quel cielo di cui soltanto le aquile conoscono le piste. Le cinque teste di Kostis e dei suoi compagni facevano sulle forche tutte quelle varietà di 58
smorfie di cui i morti sono capaci. Kostis stringeva le labbra quasi meditasse un problema che non aveva avuto il tempo di risolvere in vita, come l’acquisto di un cavallo o il riscatto di un ulteriore rapimento, e unico fra i suoi amici la morte non l’aveva cambiato molto, perché era stato sempre pallidissimo per sua natura. Afrodissia afferrò la testa che si sfilò con un rumore di seta lacerata. Aveva intenzione di nasconderla in casa, sotto il pavimento della cucina, o forse in una caverna di cui lei sola aveva il segreto, e carezzava quel relitto assicurandogli che erano in salvo. Andò a sedersi sotto il platano che cresceva sul declivio della piazza, nella terra del fattore Basilio. Sotto i suoi piedi le rocce precipitavano verso la pianura, e le foreste che tappezzavano la terra sembravano di lontano microscopici muschi. Sullo sfondo si scorgeva il mare fra due labbra di montagna, e Afrodissia si diceva che se fosse riuscita a convincere Kostis a prendere la fuga su quelle onde, ora non sarebbe costretta a dondolarsi sulle ginocchia una testa striata di sangue. Le sue lamentazioni, represse fin dall’origine della sua sciagura, scoppiarono in singhiozzi veementi, da prefica, e con i gomiti sulle ginocchia e le mani pressate contro le guance umide, lasciava che le sue lacrime cadessero sulla faccia del morto. – Ehilà, ladra, vedova del prete, che cosa fai nel mio frutteto? Il vecchio Basilio, armato di una roncola e di un bastone, si sporgeva dalla stradetta superiore, e quell’aria di diffidenza e di furore non riusciva che a renderlo ancora più simile a uno spaventapasseri. Afrodissia si alzò di colpo, ricoprendo la testa con il grembiule: – Non ti ho rubato che un po’ d’ombra, Zio Basilio, un po’ d’ombra per rinfrescarmi la fronte. – Che cosa ti nascondi nel grembiule, ladra, vedova dei miei stivali? Una zucca? Un’anguria? – Io sono povera, Zio Basilio, e non ho preso che un’anguria molto rossa. Nient’altro che un’anguria rossa con dei semi neri al fondo. – Fammi vedere, bugiarda, neraccia, strega, e restituiscimi quello che mi hai rubato.
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Il vecchio Basilio s’arrischiò sul pendio brandendo il bastone. Afrodissia si mise a correre dal lato del precipizio, stringendo nelle mani i lembi del grembiule. La china si faceva sempre più scoscesa, il sentiero sempre più scivoloso, come se il sangue del sole sul punto di tramontare ne avesse spalmato di pece le pietre. Da parecchi minuti Basilio si era fermato e urlava a squarciagola per avvertire la fuggitiva di tornare indietro; il sentiero non era più che una pista, e la pista un solo franare di sassi. Afrodissia le sentiva, ma da quelle parole dilaniate dal vento non coglieva che l’urgenza di sfuggire al villaggio, alla menzogna, alla greve ipocrisia, al lungo castigo di ritrovarsi un giorno una vecchia donna non più amata. Alla fine una pietra le sfuggì sotto il piede, volò al fondo del precipizio come per indicarle la strada, e la vedova Afrodissia sprofondò nell’abisso e nella sera, portandosi dietro la testa imbrattata di sangue.
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KALI DECAPITATA Kali, la dea terribile, si aggira per le pianure dell’India. La si incontra simultaneamente a Nord e a Sud, nei luoghi sacri e insieme nei mercati. Le donne sobbalzano al suo passaggio; i giovani, dilatando le narici, si affacciano alla soglia delle porte, e i piccoli che vagiscono ancora sanno già il suo nome. Kali la Nera è orribile e bella. La sua figura è così sottile che i poeti che la cantano la paragonano al banano. Ha spalle rotonde come la luna che si leva in autunno; seni gonfi come le gemme che stanno per schiudersi; le cosce le ondeggiano come la proboscide dell’elefantino neonato, e i suoi piedi danzanti hanno la tenerezza del germoglio. Ha la bocca calda come la vita; gli occhi profondi come la morte. Si rispecchia via via nel bronzo della notte, nell’argento dell’aurora, nel rame del crepuscolo, e si contempla nell’oro di mezzogiorno. Ma le sue labbra non hanno mai sorriso; un collaretto di ossa le circonda l’esile collo, e nel viso più chiaro del resto del corpo quei vasti occhi sono puri e tristi. Il volto di Kali, eternamente bagnato di lacrime, è pallido e intriso di rugiada come la faccia inquieta del mattino. Kali è abietta. Ha perduto la sua casta divina a forza di concedersi ai paria, ai condannati, e il suo viso baciato dai lebbrosi si è ricoperto di una crosta d’astri. Si abbandona contro il petto scabbioso dei cammellieri provenienti dal Nord, che a causa dei grandi freddi non si lavano mai; si corica su pidocchiosi letti con mendicanti ciechi, passa dall’abbraccio dei Bramini a quello dei miserabili, razza impura, rifiuto della luce, incaricati di immergere i cadaveri; e Kali, stesa nell’ombra piramidale dei roghi, si abbandona sulle ceneri tiepide. Ama anche i battellieri, che sono rozzi e forti; accetta perfino i negri che servono nei bazar, più picchiati delle bestie da soma; sfrega il suo capo contro le loro spalle scorticate dall’avvicendarsi dei carichi. Triste come una febbricitante che non riesca a procurarsi acqua fresca, va di villaggio in villaggio, di crocicchio in crocicchio alla ricerca delle solite squallide delizie. I suoi piccoli piedi danzano freneticamente sotto i loro anelli che tintinnano, ma gli occhi non smettono di versare lacrime, quella bocca amara non concede baci, le sue ciglia non accarezzano le guance di quelli che la 61
stringono, e il suo viso resta eternamente pallido come una luna immacolata. Tanto tempo prima, Kali, ninfea della perfezione, troneggiava nel cielo di Indra come nell’interno di uno zaffiro; i diamanti del mattino le scintillavano nello sguardo, e l’universo si contraeva o si dilatava secondo i battiti del suo cuore. Ma Kali, perfetta come un fiore, ignorava la propria perfezione. Pura come la luce, non conosceva la propria purezza. Gli dèi gelosi aspettarono al varco Kali in una sera di eclisse, in un cono d’ombra, nell’angolo di un pianeta complice. Ella fu decapitata dal fulmine. Anziché sangue, un’onda di luce sgorgò dalla sua nuca recisa. I due pezzi del suo cadavere, buttati nell’abisso dai Geni, rotolarono fino al fondo degli Inferi dove si arrampicano singhiozzando quelli che non hanno scorto o hanno rifiutato la luce divina. Un vento freddo si alzò, condensò la luminosità che prese a cadere dal cielo; uno strato bianco si fermò sulla cima delle montagne, sotto gli spazi stellati dove cominciava ad annunciarsi la notte. Gli dèi-mostri, gli dèi-bovini, gli dèi dalle multiple braccia e dalle multiple gambe simili a ruote in movimento, fuggivano attraverso le tenebre, accecati dalle loro aureole, e gli immortali sconvolti rimpiansero il loro crimine. Contriti gli dèi discesero lungo il Tetto del Mondo, nell’abisso denso di fumo dove strisciano coloro che sono esistiti. Varcarono i nove purgatori; passarono davanti a celle di fango e di ghiaccio dove certi fantasmi rosi dal rimorso si pentono dei peccati commessi, e davanti a prigioni di fiamme dove altri morti, tormentati da vane bramosie, piangono sui peccati che non hanno commesso. Gli dèi si meravigliavano di trovare negli uomini quest’infinita immaginazione del Male, queste innumerevoli risorse e angosce del piacere e del peccato. Al fondo del carnaio, in una palude, la testa di Kali ondeggiava come un loto, e i suoi lunghi capelli neri le galleggiavano all’intorno come radici acquatiche. Raccolsero pietosamente quella bella testa esangue e si misero a cercare il corpo che l’aveva sorretta. Sulla riva giaceva un cadavere decapitato. Essi lo presero. Posarono su quelle spalle la testa di Kali e rianimarono la dèa. 62
Quel corpo era di una prostituta, condannata a morte per aver tentato di turbare le meditazioni di un giovane Bramino. Svuotato di sangue, quel pallido cadavere sembrava puro. La dèa e la cortigiana avevano lo stesso neo sulla coscia sinistra. Kali non ritornò più, ninfea della perfezione, a troneggiare nel cielo di Indra. Il corpo a cui la sua testa divina era unita aveva la nostalgia dei quartieri malfamati, delle carezze proibite, delle camere dove le prostitute, meditando segrete depravazioni, spiano l’arrivo dei clienti attraverso persiane verdi. Ella divenne la seduttrice dei bambini, istigatrice dei vecchi, la dispotica padrona degli uomini giovani, e le donne della città, neglette dai loro sposi e considerandosi come vedove, paragonavano il corpo di Kali alle fiamme del rogo. Ella fu immonda come un topo di fogna e detestata come la faina dei campi. Rubò i cuori come brandelli d’interiora dai ganci dei trippai, e le ricchezze liquefatte le impiastricciavano le mani come raggi di miele. Instancabile, da Benares a Kapilavistu, da Bangalore a Srinagar, il corpo di Kali trascinava con sé la testa disonorata della dèa, e i suoi occhi limpidi continuavano a piangere senza fine. Un mattino, a Benares, Kali, ubriaca, con smorfie di stanchezza sul viso, uscì dalla strada delle cortigiane. Nei campi, uno scemo che sbavava tranquillamente, seduto sul ciglio di un letamaio, si alzò al suo passaggio e si mise a correrle dietro. Non era ormai più separato dalla dèa se non dalla lunghezza della sua ombra. Kali rallentò il passo e lasciò che l’uomo si avvicinasse. Quando lui l’ebbe lasciata, riprese il cammino verso una città sconosciuta. Un bambino le chiese l’elemosina; lei non lo avvertì che un serpente pronto a mordere si stava rizzando fra due pietre. L’aveva colta una vera furia contro tutto ciò che vive, e insieme un desiderio di sfruttarlo per la propria sostanza, di soddisfarsi annientando le creature. La si poteva incontrare acquattata sul limitare dei cimiteri; la sua bocca sgranocchiava ossa come le fauci di una leonessa. Uccise come l’insetto femmina che divora i suoi maschi; soffocò gli esseri che metteva al mondo come un cinghiale che si voltoli sulla sua cucciolata. Quelli che sterminava, li finiva poi danzandoci sopra. Le sue labbra chiazzate di sangue esalavano un odore dolciastro di macello, ma i suoi abbracci consolavano le sue vittime, e il calore del suo seno faceva dimenticare qualsiasi male. 63
Sul ciglio di una foresta, Kali incontrò il Saggio. Era seduto con le gambe incrociate, le palme posate una sull’altra, e il suo corpo scarnificato era secco come legna pronta per il rogo. Nessuno avrebbe saputo dire se fosse giovane o vecchissimo; i suoi occhi che vedevano tutto erano appena visibili sotto le palpebre abbassate. La luce si disponeva intorno a lui come un’aureola, e Kali sentì salire dalle sue proprie profondità il presentimento del grande riposo definitivo, arresto dei mondi, riscatto degli esseri, giorno di beatitudine in cui la vita e la morte saranno parimenti inutili, età in cui tutto si riassorbe in Nulla, quasi che quel puro niente che ella aveva appena concepito le sobbalzasse come un futuro figlio. Il Maestro della grande compassione alzò la mano per benedire quella passante. – La mia purissima testa è stata saldata all’infamia, disse lei. Voglio e non voglio, soffro ma godo, ho orrore di vivere e paura di morire. – Noi siamo tutti incompleti, disse il Saggio. Siamo tutti divisi, siamo frammenti, ombre, fantasmi senza consistenza. Tutti abbiamo creduto di piangere e creduto di gioire da una lunga sequela di secoli. – Sono stata dèa nel cielo di Indra, disse la cortigiana. – E non eri più sciolta dal concatenamento delle cose, e il tuo corpo di diamante non era al riparo dalla sciagura più di quanto non lo sia il tuo corpo di fango e di carne. Forse, donna senza felicità, errando disonorata per le strade, sei più prossima ad accedere a ciò che è senza forma. – Sono stanca, gemette la dèa. Allora, sfiorando con la punta delle dita le trecce nere e sporche di cenere: – Il desiderio ti ha insegnato la vanità del desiderio, egli disse; il rimpianto ti insegni la vanità del rimpiangere. Porta pazienza, o Errore di cui tutti noi siamo una parte, o Imperfetta grazie alla quale la perfezione prende coscienza di se stessa, o Furore che non sei necessariamente immortale... 64
LA FINE DI MARKO KRALIÉVITCH Le campane suonavano a morto nel cielo di un azzurro quasi insopportabile. Sembravano più forti e più stridule che altrove, come se in quel paese situato ai confini delle regioni infedeli volessero proclamare ai quattro venti che i campanari erano cristiani, e cristiano il morto che stavano per sotterrare. Ma laggiù, nella città bianca dai cortiletti esigui, dagli uomini acquattati sul lato dell’ombra, non le si sentiva se non mescolate alle grida, ai richiami, ai belati di agnello, ai nitriti di cavallo e ai ragli d’asino, talvolta agli ululati o alle preghiere delle donne per l’anima recentemente involatasi, o agli sghignazzi di un idiota non interessato a quel pubblico lutto. Nel quartiere degli stagnai, il chiasso dei martelli copriva il loro rumore. Il vecchio Stevan, che a piccoli colpi secchi finiva delicatamente il collo di un acquamanile, vide scostarsi il lembo di tela che chiudeva il vano della porta. Qualcosa più del calore e del sole basso di un pomeriggio morente invase la cupa bottega. Il suo compagno Andrev entrò come a casa sua e incrociò le gambe su un angolo del tappeto. Lo sai che Marko è morto? Io c’ero, gli disse. – Certi avventori mi hanno detto che era morto, ribatté il vecchio senza posare il martello. Racconta mentre continuo a lavorare, dal momento che di raccontare hai voglia. – Ho un amico nelle cucine di Marko. Nei giorni di festa mi lascia servire a tavola: si acchiappa sempre qualche buon boccone. – Oggi non è giorno festivo, disse il vecchio accarezzando il suo becco di rame. – No, ma da Marko si mangia sempre bene, anche nei giorni feriali e perfino nei giorni di magro. E a tavola c’è sempre molta gente; i vecchi storpi, innanzitutto, quelli che non la smettono più di parlare dei bei colpi che hanno dato a Kossovo. Ma ne vengono sempre meno ogni anno, diminuiscono anzi a ogni stagione. E oggi Marko aveva invitato grossi mercanti, notabili, autorità paesane, quelli che vivono nella montagna così vicino ai Turchi che ci si può tirare delle frecce da una riva all’altra del torrente 65
che scorre tra le rocce, e quando l’acqua durante l’estate manca, è il sangue che ci scorre. Li aveva invitati per via della spedizione che si prepara, come ogni anno, per prendere puledri e capi di bestiame turchi. Venivano serviti grandi piatti nei quali i condimenti non erano risparmiati; roba pesante, che scivola dalle mani per via del grasso. Marko mangia e beve come dieci, e ancor più che non mangi parla, ride e dà gran colpi di pugno ancor più che non beva. E ogni tanto dava l’ordine di smettere quando due si mettevano a litigare prima del tempo a causa del bottino. “E quando noi, i valletti, abbiamo versato acqua su tutte le mani e asciugato tutte le dita, eccolo che esce nel cortile grande strapieno di gente. Si sa, in città, che si distribuiscono gli avanzi a chi li vuole, e gli avanzi degli avanzi vanno ai cani. La maggior parte della gente si porta dietro un recipiente, piccolo o grande, o una scodella o almeno un canestro. Marko li conosceva quasi tutti. Nessuno lo batteva nel ricordare le facce e i nomi e nell’attaccare il nome giusto alla faccia del caso. A uno che si reggeva sulle stampelle lui parlava di quando avevano combattuto insieme il bey Costantino; a un cieco, suonatore di cetra, canticchiava il primo verso di una ballata che l’uomo aveva fatto in suo onore quand’era giovane; a una brutta vecchia lui dava un pizzicotto sul mento, ricordandole che ai bei tempi avevano dormito insieme. E talvolta afferrava un quarto di montone e se lo metteva nel piatto, dicendo a qualcuno: Mangia! Era, insomma, come ogni giorno. “E all’improvviso, ecco che arriva davanti a un vecchietto seduto su una panca, con i piedi che non toccavano terra. “– E tu, ecco che ti dice, perché non ti sei portato la scodella? Il tuo nome non me lo ricordo. “– Questi mi chiamano in un modo, quelli in un altro, disse il vecchietto. Non ha importanza. “– Non conosco neanche la tua faccia, disse Marko. Forse perché hai l’aria di uno qualunque. Non mi piacciono gli sconosciuti e nemmeno i mendicanti che non chiedono l’elemosina. E se per caso tu facessi la spia per i Turchi?
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“– C’è chi dice che non faccio altro che la spia, disse il vecchio. Ma si sbagliano: lascio che la gente faccia quello che le pare. “– E anche a me piace fare quello che mi pare, urlò Marko. La tua faccia non mi convince. Esci di qui! “E gli fece lo sgambetto, come per farlo cadere dalla panca. Ma quello aveva l’aria di un vecchietto di pietra. O no, piuttosto; non sembrava più solido di un altro; i piedi e le ciabatte gli penzolavano davanti, ma non sembrava proprio che Marko l’avesse sfiorato. “E quando Marko lo prese per la spalla per farlo alzare, stessa cosa. Il vecchio faceva oscillare la testa. “– Alzati e battiti da uomo, gridò Marko con il viso paonazzo: “Il vecchietto si alzò. Era davvero piccolo; arrivava appena alla spalla di Marko. Se ne stette là senza dire né fare alcunché. Marko si buttò su di lui con i pugni contratti. Ma sembrava che i suoi colpi non raggiungessero l’uomo, eppure i pugni di Marko erano insanguinati. “– Voi altri, gridò Marko a quelli della sua scorta, non v’immischiate. Questa faccenda riguarda me solo. “Ma ansimava. All’improvviso inciampò e cadde pesantemente. Ti giuro che il vecchio non si era mosso. “– Brutta caduta, Marko, disse. Non te ne caverai fuori. Credo che tu lo sapessi prima di cominciare. “– Ma c’è quella spedizione contro i Turchi, tutto è pronto: era affare fatto, per così dire, disse con fatica l’uomo steso a terra. Ma poiché è così, è così. “– Contro il Turco, o in favore? Domandò il vecchietto. Era infatti tua abitudine passare dall’uno all’altro. “– La ragazza a cui facevo la corte, e che mi ha dettò la stessa cosa, fece il morente, io le ho tagliato il braccio destro. E c’erano anche due prigionieri che ho fatto scannare benché avessimo promesso... Ma non c’è soltanto il male, dopo tutto. Sono stato generoso con i popi e con i poveri... 67
“– Non metterti a fare i conti, disse il vecchio. È sempre troppo presto o troppo tardi, e non serve a niente. Lascia piuttosto che ti metta la mia giacca sotto la testa, perché tu sia meno scomodo a terra. “Si curvò con la giacca e fece come aveva detto. Eravamo tutti troppo atterriti per impadronirci di lui. E poi, a pensarci bene, non aveva mosso un dito. Si diresse verso le porte, che erano spalancate. Con la schiena un po’ curva, aveva più che mai l’aria di un mendicante, ma di un mendicante che non chiede niente. Sulla soglia c’erano due cani incatenati; al passaggio egli posò la mano sulla testa del Gran Nero, che è cattivissimo. Il Gran Nero non mostrò i denti. Ora che si sapeva della morte di Marko, ci eravamo tutti volti verso l’entrata, per vedere il vecchio che se ne andava. Fuori, la strada si allunga diritta, come sai, fra due colline. Sale, scende, risale ancora. Lui era già lontano. Si vedeva qualcuno che camminava nella polvere, trascinando un po’ i piedi, con la camicia al vento e i pantaloni larghi che gli battevano sulle cosce. Andava assai lesto per un vecchio. E sulla sua testa, nel cielo perfettamente vuoto, c’era uno sciame di oche selvatiche.”
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LA TRISTEZZA DI CORNELIUS BERG Cornelius Berg, dopo il suo ritorno ad Amsterdam, abitava alla locanda. Le cambiava sovente, sloggiando quando bisognava pagare, dipingendo talvolta ancora piccoli ritratti, quadretti di genere su commissione, e qua e là qualche nudo per un amatore. Lungo le strade sperava nella fortuna di un’insegna. La sua mano tremava, disgraziatamente; doveva sostituire le lenti con altre sempre più forti; quel vino, di cui l’Italia gli aveva dato il gusto, guastava, con il tabacco, quella sicurezza di tocco che gli restava e che era ancora il suo vanto. Si indispettiva, rifiutava di consegnare l’opera, comprometteva tutto con ritocchi e raschiamenti, finiva per non lavorare più. Passava ore e ore al fondo delle taverne fumose come la coscienza di un ubriaco, dove certi antichi allievi di Rembrandt, suoi condiscepoli un tempo, sperando che raccontasse i suoi viaggi gli pagavano da bere. Ma il paese polveroso di sole dove Cornelius aveva trascinato i pennelli e le sacche dei colori risultava meno preciso nella sua memoria di quanto non fosse stato nei suoi progetti futuri; e non trovava più, come al suo tempo giovane, quelle grasse facezie che facevano singhiozzare di risate le serve. Chi si ricordava il vociferante Cornelius di un tempo si stupiva ora di ritrovarlo così taciturno; Soltanto l’ubriachezza gli restituiva la lingua, e allora teneva certi discorsi incomprensibili. Se ne stava seduto con il viso verso la parete e il cappello sugli occhi per non vedere il pubblico che, diceva, lo disgustava. Cornelius, vecchio pittore di ritratti, che a lungo aveva abitato in una soffitta di Roma, per tutta la vita aveva fin troppo scrutato i volti umani; se ne distoglieva ora con irritata indifferenza; arrivava a dire che non gli piaceva dipingere animali perché gli animali somigliano troppo all’uomo. Man mano che si dissipava quel poco di talento che aveva posseduto, pareva che gli si sostituisse il genio. Si sedeva davanti al cavalletto, nella sua mansarda in disordine, si posava accanto un bel frutto raro che costava parecchio e che bisognava affrettarsi a riprodurre sulla tela prima che quella pelle brillante perdesse ogni freschezza, oppure un semplice paiolo, qualche buccia. Una luce gialla invadeva la camera; la pioggia lavava umilmente i vetri; l’umidità regnava ovunque. L’elemento umido tendeva 69
sotto forma di linfa la sfera grumosa dell’arancia, gonfiava gli assiti che gemevano un po’, appannava il rame del vaso. Ma presto lui riponeva i pennelli; le sue dita intorpidite, un tempo così pronte a dipingere su ordinazione certe Veneri coricate e certi Gesù dalla barba bionda intenti a benedire bambini nudi e donne paludate, rinunciavano a riprodurre sulla tela quella doppia colata umida e luminosa che impregnava le cose e offuscava il cielo. Toccando gli oggetti che non dipingeva più, le sue mani deformate esprimevano tutta la sollecitudine della tenerezza. Nella triste strada d’Amsterdam, sognava campagne tremule di rugiada, più belle delle rive crepuscolari dell’Anio, ma deserte, troppo sacre per l’uomo. Quel vecchio che la miseria sembrava gonfiare, pareva affetto da una idropisia del cuore. Cornelius Berg, raffazzonando qua e là qualche opera meschina, con i suoi segni eguagliava Rembrandt. Non aveva riannodato i rapporti con i pochi parenti che gli restavano. Alcuni non l’avevano riconosciuto; altri fìngevano d’ignorarlo. L’unico che lo salutasse ancora era il vecchio Sindaco di Haarlem. Per tutta una primavera lavorò in quella piccola città chiara e pulita, dov’era stato incaricato di dipingere false architetture in legno sul muro della chiesa. La sera, finito il lavoro, non gli dispiaceva entrare da quel vecchio dolcemente istupidito dalla routine di un’esistenza monotona, che se ne viveva solo, abbandonato alle cure ovattate di una fantesca, e che dell’arte non sapeva un bel nulla. Cornelius spingeva l’esile barriera di legno pitturato; nel giardinetto accanto al canale, l’appassionato di tulipani l’aspettava in mezzo ai fiori. Cornelius non riusciva a prendere troppo interesse per quegli inestimabili bulbi, ma era bravissimo nel distinguere i minimi particolari delle forme, le minime sfumature delle tinte, e sapeva che il vecchio Sindaco non lo invitava che per avere un parere su una nuova varietà. Nessuno avrebbe saputo designare con precise parole l’infinita diversità dei bianchi, degli azzurri, dei rosa e dei lilla. Gracili, rigidi, i calici patrizi sorgevano dal suolo grasso e nero: un odore acquatico, che saliva dalla terra, era il solo a fluttuare su quelle fioriture senza profumo. Il vecchio Sindaco si prendeva un vaso sulle ginocchia, e stringendo lo stelo fra due dita, come se lo prendesse per la vita, faceva silenziosamente ammirare quella delicata meraviglia. Si scambiavano ben poche parole: Cornelius Berg esprimeva il suo parere annuendo. 70
Quel giorno il Sindaco era felice per un successo più raro degli altri: il fiore, bianco e violaceo, aveva quasi le striature di un ireos. Lo considerava, lo rigirava da tutte le parti, e poi disse, appoggiandolo a terra: – Dio è un grande pittore. Cornelius Berg non rispose. Il pacifico vecchio riprese: – Dio è il pittore dell’universo. Cornelius Berg guardava ora il fiore e ora il canale. Quell’opaco specchio plumbeo non rifletteva che aiuole, muretti di mattoni e la liscivia delle massaie, ma il vecchio vagabondo stanco ci contemplava dentro, vagamente, l’intera sua vita. Rivedeva certi particolari di fisionomie colte nel corso dei suoi lunghi viaggi, l’Oriente sordido, il Sud sbracato, ed espressioni di avarizia, d’idiozia o di ferocia osservate sotto tanti bellissimi cieli, i tuguri miserabili, le malattie vergognose, le risse a coltellate sulla soglia delle taverne, il viso secco degli usurai e il bel corpo rotondo del suo modello, Federico Gerritsdochter, steso sul tavolo anatomico della scuola di medicina di Friburgo. Poi sopravvenne un altro ricordo. A Costantinopoli, dove aveva dipinto qualche ritratto di Sultano per l’ambasciatore delle Province Unite, lui aveva avuto l’occasione di ammirare un altro giardino di tulipani, orgoglio e gioia di un pascià che contava sul pittore per immortalare, nella sua breve perfezione, il suo harem floreale. All’interno di un cortile di marmo palpitava l’adunata dei tulipani che sembravano frusciare con i loro colori smaglianti o teneri. Su una vasca, un uccello cantava; le punte dei cipressi bucavano il cielo pallidamente azzurro. Ma lo schiavo che per ordine del padrone mostrava allo straniero quelle meraviglie era guercio, e sull’occhio recentemente perduto si affollavano le mosche. Cornelius Berg ebbe un lungo sospiro. Poi, togliendosi gli occhiali: – Dio è il pittore dell’universo. E con amarezza, a voce bassa: – Che sciagura, signor Sindaco, che Dio non si sia limitato alla pittura di paesaggi.
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POST-SCRIPTUM Questa ristampa delle Novelle orientali, nonostante le numerosissime correzioni puramente stilistiche, le lascia sostanzialmente com’erano al momento della loro prima apparizione in libreria nel 1938. Soltanto la conclusione di Kali decapitata è stata scritta da capo perché fossero meglio sottolineate certe intenzioni metafisiche che non si possono scindere da questa leggenda e senza le quali il racconto, trattato all’occidentale, diventa una vaga India galante. Un altro racconto, I Murati del Kremlino, antichissimo tentativo di reinterpretare modernamente una vecchia leggenda slava, è stato soppresso perché la sua mediocre resa non meritava ritocchi. Delle dieci novelle che restano (e il titolo Racconti e Novelle sarebbe stato forse più adatto alla materia varia» di cui si compongono), quattro sono ritrascrizioni, da me più o meno liberamente sviluppate, di favole e leggende autentiche. Come Wang-Fô fu salvato s’ispira a un apologo taoista della vecchia Cina; Il sorriso di Marko e Il latte della morte provengono da certe ballate balcaniche del Medioevo; Kali decapitata deriva da un inesauribile mito indù, lo stesso che, interpretato del resto in tutt’altra maniera, ha fornito a Goethe il Dio e la Baiadera e a Thomas Mann Le Teste scambiate. D’altra parte, L’uomo che ha amato le Nereidi e La vedova Afrodissia (La Testa Rossa, nell’edizione originale) partono da fatti di cronaca e da superstizioni della Grecia d’oggi, o piuttosto di ieri dal momento che sono state scritte fra il 1932 e il 1937. Nostra Signora delle Rondini rappresenta invece una fantasia personale dell’autrice, nata dal desiderio di spiegare il graziosissimo nome di una piccola cappella della campagna attica. Nella novella L’ultimo amore del principe Genji, i personaggi e la cornice derivano non da un mito o da una leggenda, ma da un grande testo letterario del passato, lo stupendo romanzo giapponese dell’Undicesimo Secolo, il Genji Monogatari della romanziera Murasaki Shikibu, che riporta in sei o sette volumi le avventure di un don Giovanni asiatico di stile eccelso. Tuttavia, per una raffinatezza quanto mai caratteristica, Murasaki “elude”, per così dire, la morte del suo eroe, e dal capitolo in cui Genji, ormai vedovo, decide di ritirarsi dal mondo, ella passa a quello in cui la sua stessa fine è già un fatto compiuto. La novella che qui compare ha lo scopo, se non di colmare questa lacuna, almeno di far im72
maginare ciò che avrebbe potuto essere l’epilogo se Murasaki stessa l’avesse scritto. La fine di Marko, racconto che da anni mi proponevo di scrivere, è stato redatto soltanto nel 1978. Ha per punto di partenza il frammento di una ballata serba che immagina la morte dell’eroe per mano di un misterioso, banale e allegorico passante. Ma dove ho letto e sentito questa storia alla quale poi ho ripensato spesso? Non lo so più, e non la ritrovo in quei pochi testi dello stesso genere che ho a disposizione, e che della morte di Marko Kraliévitch offrono parecchie versioni tranne quella. Infine, La tristezza di Cornelius Berg (I tulipani di Cornelius Berg, nel vecchio testo) era stato concepito come conclusione di un romanzo che fino a ora è incompiuto. Non è affatto orientale, se si eccettuano due brevi allusioni a un viaggio dell’artista in Asia Minore (e una è perfino un’aggiunta recente), e tutto sommato questa storia non sembra appartenere allo stesso genere delle precedenti. Ma non ho resistito al desiderio di contrapporre simmetricamente al grande pittore cinese, perduto e salvato all’interno della sua opera, questo oscuro contemporaneo di Rembrandt che medita con malinconia sulla propria. Per chi ha il culto delle bibliografie ricordiamo che Kali decapitata era apparsa ne La Revue Européenne nel 1928, Wang-Fô e Genji ne La Revue de Paris nel 1936 e 1937, rispettivamente. Negli stessi anni 1936-’37 II sorriso di Marko e Il latte della morte ne Les Nouvelles Littéraires, e L’uomo che ha amato le Nereidi ne La Revue de France. La fine di Marko è stata pubblicata nel 1978 ne La Nouvelle Revue Française.
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