CLIVE CUSSLER ODISSEA (Trojan Odyssey, 2003) Nel ricordo affettuoso di mia moglie Barbara, che cammina con gli angeli. L...
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CLIVE CUSSLER ODISSEA (Trojan Odyssey, 2003) Nel ricordo affettuoso di mia moglie Barbara, che cammina con gli angeli. LA NOTTE DELL'INFAMIA 1190 a.C. circa Una città fortificata, sulla collina vicino al mare Era una messa in scena semplice ma astuta, concepita da un uomo che conosceva bene la curiosità dei suoi simili. E perfettamente adatta allo scopo. Brutta e massiccia, la struttura arrivava a sei metri d'altezza, sostenuta da grosse gambe di legno che partivano da una piattaforma. Su quelle gambe era stato costruito un alloggiamento a sezione triangolare con le estremità aperte. Da uno degli angoli superiori della struttura sporgeva una protuberanza arrotondata con due feritoie, come due occhi. I fianchi erano coperti di pelli. La piattaforma che sosteneva le gambe giaceva orizzontale sul terreno. Gli abitanti di Ilio non avevano mai visto niente di simile prima di allora. A qualcuno dotato di una buona dose di immaginazione poteva ricordare vagamente un cavallo dalle zampe prive di articolazioni. I figli di Dardano si erano svegliati quel mattino aspettandosi di vedere gli achei assediare la loro città fortificata, pronti alla battaglia com'era avvenuto negli ultimi tempi. Ma la pianura ai piedi della collina era deserta. Davanti ai loro occhi c'era solo il fumo che saliva dalle ceneri di quello che era stato il campo nemico. Gli achei e la loro flotta erano scomparsi. Si erano dileguati a notte fonda caricando sulle navi cavalli, carri, armi e vettovaglie e lasciandosi alle spalle solo quel mostro di legno. Gli esploratori troiani inviati per un sopralluogo tornarono a riferire che il campo era deserto. Pieni di gioia all'idea che l'assedio fosse finalmente terminato, gli abitanti di Ilio spalancarono le porte della città e si riversarono nella pianura dove i due eserciti si erano scontrati in innumerevoli battaglie, versando il sangue di tanti guerrieri. Davanti all'imponente struttura, la prima reazione fu di sgomento; poi alcuni sospettarono un inganno e proposero di bruciar-
la. Ma un uomo si arrampicò lungo uno dei pali di sostegno, entrò nell'alloggiamento e scoprì che era vuoto: si trattava in effetti di un semplice rifugio sopraelevato. «Se questo è il miglior cavallo che gli achei sono in grado di costruire», esclamò sguaiatamente, «non mi meraviglia che abbiamo vinto.» La folla rise e intonò un canto per salutare l'arrivo del carro di Priamo, signore di Ilio. Il sovrano scese a terra e ringraziò la folla esultante, poi girò intorno alla bizzarra costruzione, cercando di capire di cosa si trattasse veramente. Felice di apprendere che non rappresentava un pericolo, la dichiarò bottino di guerra e ordinò che fosse trascinata fino alle porte della città, dove sarebbe rimasta a ricordo della gloriosa vittoria sugli invasori respinti. L'esultanza generale si placò quando un acheo, evidentemente lasciato a terra dai compagni, fu scortato tra la folla dai due soldati che lo avevano catturato. Si chiamava Sinone e di lui si sapeva che era il cugino di Odisseo, re di Itaca, uno dei comandanti dell'esercito che aveva assediato Ilio. Sinone si gettò in ginocchio davanti all'anziano re e lo supplicò di risparmiarlo. «Perché non sei partito?» chiese il sovrano. «Mio cugino si è lasciato convincere dai miei nemici e mi ha cacciato dall'accampamento. Se non mi fossi nascosto in un boschetto quando se ne sono andati, sarei stato legato a uno scafo e trascinato nell'acqua. Sarei morto annegato o divorato dai pesci.» Priamo riservò a Sinone uno sguardo intenso. «Che cosa significa questa bizzarria? Qual è il suo scopo?» «Dopo la morte del grande Achille, poiché ogni sforzo per conquistare la vostra roccaforte si dimostrava vano, i miei compagni hanno creduto di aver perso il favore degli dei. Hanno costruito questo monumento per propiziarsi il viaggio di ritorno.» «Ma perché di tali proporzioni?» «Per non permettervi di portarlo in città come bottino e servirvene come simbolo della più cocente sconfitta che gli achei abbiano subito in quest'era.» «Capisco i loro intenti», commentò con un sorriso il saggio Priamo, «ma non hanno pensato che potesse servire allo stesso scopo anche all'esterno delle mura.» Fu così che un centinaio di uomini si mise al lavoro per abbattere e tagliare i tronchi sui quali il cavallo sarebbe stato fatto scivolare. Altri cento
assicurarono le funi e formarono due file, iniziando a trascinare la preda lungo la pianura che separava la città dal mare. Per quasi tutto il giorno i troiani lavorarono duramente, coperti di sudore, avvicendandosi nell'impresa di spingere l'immane struttura lungo il pendio che portava alla roccaforte. La gente comune si riversò nelle strade, per la prima volta da un certo tempo, senza paura del nemico, per fermarsi attonita e sgomenta davanti a quello che ormai veniva chiamato il «cavallo di Troia». In preda a una gioia irrefrenabile per la fine degli scontri, le donne e le ragazze di Ilio si avventurarono fuori delle mura per raccogliere fiori e intrecciarono ghirlande per decorare la grottesca creatura. «Nostre sono la vittoria e la pace!» esclamavano con gioia. Ma la figlia di Priamo, Cassandra, una giovane che tutti ritenevano instabile di mente poiché spesso gridava alla folla premonizioni e profezie su eventi futuri, esclamò invece: «Non vi accorgete che si tratta di un inganno?» Laocoonte, l'anziano sacerdote, era d'accordo con lei. «Siete accecati dall'eccitazione; solo i folli possono fidarsi degli achei, anche quando portano doni.» Il barbuto sacerdote indietreggiò e, con un gesto possente, scagliò la sua lancia nel ventre del cavallo. La punta penetrò completamente tra le assi e l'asta vibrò nel vuoto. Ma la folla rise di quell'assurda dimostrazione di scetticismo. «Cassandra e Laocoonte sono pazzi! La creatura è innocua, sono assi e pali legati insieme.» «Stolti!» urlò Cassandra. «Solo un pazzo crederebbe a Sinone l'acheo.» Un soldato la fissò negli occhi. «Dice che Ilio, ora che la possiede, non cadrà mai.» «Mente.» «Non riesci ad accettare una benedizione degli dei?» «No, se arriva dagli achei», ribatté Laocoonte, aprendosi un varco tra la folla e tornando pieno di rabbia verso la città. In quel momento di giubilo, era impossibile indurre la popolazione a ragionare con lucidità. Il nemico se ne era andato; la guerra era pertanto finita ed era dunque tempo di celebrare la vittoria. L'euforia prevalse e i due scettici furono presto ignorati. Nel giro di un'ora, la curiosità aveva lasciato il posto alla contentezza per il trionfo sugli achei. Dall'interno delle mura si alzò una musica di flauti e pifferi, il vino scorse dalle case come i fiumi dalle montagne e le risate accompagna-
rono calici e coppe sollevati in brindisi alla vittoria. Nei templi, sacerdoti e ancelle bruciavano incenso, intonavano canti e ringraziavano gli dei con offerte per la fine di un conflitto che aveva mandato tanti guerrieri nel regno di Ade. La folla in festa brindò al re e agli eroi, ai veterani e ai feriti, ai morti onorati per aver combattuto con valore. «Ettore, o Ettore, nostro campione; se solo potessi essere oggi con noi ad assaporare la gloria!» «Gli achei, quei folli, non sono riusciti nel loro intento», urlò una donna mentre danzava girando su se stessa con movenze sfrenate. «Sono scappati come bambini dopo un castigo», incalzò un'altra. E, a mano a mano che il vino penetrava nel sangue, tutti si abbandonavano a confuse manifestazioni di gioia: i sovrani nella reggia, i ricchi nei palazzi della città alta e i poveri nelle casupole ammassate contro le mura della città. I festeggiamenti dilagarono per le vie, senza sosta, come se il tempo si fosse fermato, e tutte le preziose scorte di cibo e bevande razionate durante l'assedio furono consumate. Fu solo verso mezzanotte che, sopraffatti dal vino e dal sonno, i sudditi di Priamo si addormentarono con gli animi intorpiditi, ma, per la prima volta dopo molto tempo, in pace. Molti chiesero di lasciare aperta la porta maggiore della cittadella in segno di vittoria, ma quelli che non avevano perso del tutto la testa la chiusero e bloccarono i battenti. Erano arrivati da nord e da est da diverso tempo, su centinaia di navi, ed erano sbarcati nel golfo su cui si affacciava la pianura di Ilio. Poiché il terreno era paludoso, gli achei avevano deciso di accamparsi su un lembo di terra che si protendeva nel mare e lì avevano sbarcato il loro equipaggiamento. Gli scafi erano incatramati fino alla linea di galleggiamento, ma la parte fuori dell'acqua splendeva dei mille colori che identificavano i vari comandanti della flotta. Le navi erano spinte da lunghi remi, e un grande remo fissato a poppa fungeva da timone. Grazie alla perfetta simmetria fra poppa e prua, i vascelli potevano procedere in ambedue le direzioni. Gli achei non sapevano navigare a vela, e ne utilizzavano solo una grande e quadrata quando il vento soffiava alle loro spalle. Il ponte era più alto sia a poppa sia a prua, dove a mo' di decorazione si levavano alte figure scolpite di uccelli predatori. L'equipaggio variava dai centoventi guerrieri delle navi per il trasporto delle truppe ai venti di quelle riservate alle merci. La maggior parte era governata da cinquantadue uomini, compresi il coman-
dante e il timoniere. I sovrani delle città greche avevano stretto un'alleanza provvisoria per razziare le città di mare della costa anatolica. Venivano da Argo, da Pilo, dall'Arcadia, da Itaca e da una dozzina di altre località. A quei tempi erano considerati uomini possenti, ma pochi tra loro erano più alti di un metro e sessanta. Combattevano con ferocia, protetti da corazze di bronzo che coprivano il torso con una serie di placche legate da stringhe di cuoio. Sul capo calzavano elmi di bronzo, alcuni muniti di corna, altri con un puntale al centro, il più delle volte con le insegne del guerriero istoriate nella sezione frontale. Anche avambracci e tibie erano protetti da placche di metallo. Erano maestri nell'uso della lancia, la loro arma preferita, che sostituivano con corte spade solo quando non c'era altra possibilità: i guerrieri dell'Età del Bronzo usavano raramente l'arco e le frecce, considerati armi da codardi. Combattevano da dietro grandi scudi composti da sei od otto strati di pelli fissati con fili di cuoio a un telaio di vimini dai bordi in bronzo; alcuni erano rotondi, ma, per la maggior parte, avevano la forma di un otto. A differenza dei guerrieri di altri regni o culture, gli achei non usavano i cavalli, né attaccavano il nemico sui carri. Questi venivano impiegati quasi esclusivamente per il trasporto dei soldati e dell'equipaggiamento dal campo di battaglia all'accampamento e viceversa. Combattevano a piedi, così come i troiani, ma quella di Ilio non era stata la solita incursione volta a sottomettere una delle tante città; non si trattava di un semplice saccheggio. Era una guerra per il monopolio di un metallo prezioso quasi quanto l'oro. Prima di giungere a Ilio, gli achei avevano attaccato decine di città e villaggi sulla costa, ammassando tesori e schiavi, soprattutto donne e bambini, ma non riuscivano a immaginare quanta ricchezza potesse essere custodita dalle possenti mura di Troia e dai suoi tenaci difensori. Un moto di apprensione aveva percorso le truppe quando erano giunte in vista della cittadella, arroccata sul promontorio, con mura e torrioni apparentemente inespugnabili dominati dal palazzo del re. Adesso che si trovavano ai suoi piedi, si rendevano conto che, a differenza delle altre città saccheggiate, questa non sarebbe caduta senza un lungo ed estenuante conflitto. E la conferma alla loro preoccupazione venne quando l'avanguardia della flotta d'invasione fu quasi respinta in mare da una sortita dei troiani sulla spiaggia, prima ancora che arrivasse il resto dell'esercito. I guerrieri di Ilio,
inferiori di numero, si erano quindi ritirati dietro le mura, ma avevano inferto un primo duro colpo agli achei. In seguito gli scontri erano stati molti e il valore dei troiani si era manifestato in tutta la sua forza. Il terreno dall'accampamento acheo alle mura della città si era coperto di corpi e molti campioni di entrambe le fazioni avevano perso la vita. Al termine di ogni giornata, le pire di cremazione dei caduti illuminavano la notte e venivano quindi ricoperte di terra come monumenti funebri. A migliaia erano morti in una serie di scontri che sembrava interminabile. Erano caduti il valoroso Ettore, figlio di Priamo, il miglior guerriero di Ilio, e suo fratello Paride; gli achei avevano perso il grande Achille e il suo amico Patroclo. Dopo tali perdite, i re greci Agamennone e Menelao erano pronti ad abbandonare il campo: la cittadella era troppo ben protetta per essere espugnata, i viveri cominciavano a scarseggiare e il saccheggio delle vicine campagne avrebbe richiesto un pericoloso dispendio di forze, mentre i troiani venivano riforniti senza sforzo dai loro alleati. Scoraggiati dalla probabile sconfitta, stavano mettendo a punto la ritirata quando l'astuto Odisseo, re di Itaca, aveva proposto un piano ardito che avrebbe anche potuto funzionare. Mentre a Ilio impazzavano i festeggiamenti, la flotta achea, nascosta presso la vicina isola di Tenedo, tornò nel golfo col favore dell'oscurità, remando velocemente. Guidate da un fuoco di segnalazione acceso dallo stesso Sinone, le truppe sbarcarono nuovamente, indossarono le corazze e marciarono in silenzio verso Troia, trasportando un gigantesco tronco mediante cinghie di corda intrecciata. Favoriti da una notte senza luna, si fermarono a poche centinaia di metri dalla porta della città senza essere visti. Un'avanguardia guidata da Odisseo strisciò verso le mura e raggiunse il cavallo di legno. Nella torre di guardia, Sinone uccise le due sentinelle semiaddormentate. Non potendo aprire le porte della città da solo (occorrevano otto uomini robusti per sollevare l'enorme sbarra che chiudeva gli alti battenti), chiamò sommessamente Odisseo. «Le guardie sono morte e tutta la città dorme ubriaca. È il momento di abbattere la porta.» Odisseo ordinò immediatamente agli uomini che trasportavano il tronco di sollevarne un'estremità e di posarla su un piccolo scivolo che portava all'interno del cavallo di legno. Mentre un gruppo di uomini spingeva verso
l'alto, un altro s'infilò nell'alloggiamento e tirò. Una volta inserito nel cavallo, il tronco venne assicurato con le funi in modo da poter oscillare avanti e indietro. I troiani non avevano capito che quella mostruosa struttura non era un cavallo, ma un ariete. I soldati che si trovavano nell'alloggiamento caricarono il tronco tirandolo all'indietro, quindi lo spinsero con tutto il suo peso in avanti. La punta di bronzo posta in cima al tronco colpì il massiccio portale con una tale violenza da scuoterne i cardini. L'operazione fu ripetuta due, tre, dieci volte, ma il grande portale non cedeva. Gli achei temevano che qualcuno in città li udisse, potesse scoprirli e quindi allertasse i guerrieri addormentati. Ma Sinone vigilava e i pochi troiani ancora svegli credettero di sentire il rumore di un tuono lontano. Quando ormai sembrava che la porta non dovesse mai cedere, un colpo riuscì a far saltare un cardine. Odisseo esortò gli uomini nell'ariete a non desistere e abbracciò lui stesso il tronco unendosi agli sforzi. I soldati spinsero con tutta l'energia di cui disponevano. Sulle prime il portale oppose resistenza, poi, mentre gli achei trattenevano il fiato, sembrò emettere un gemito, si piegò sull'ultimo cardine e cadde all'interno delle mura, con un tonfo sordo. Gli achei irruppero nella città come lupi famelici, lanciando grida di trionfo mentre si riversavano nelle strade come un'incontenibile marea. La frustrazione maturata durante l'assedio e le battaglie e il dolore per la morte di tanti compagni si trasformarono in un'insaziabile ferocia. Nessuno fu risparmiato. Entrarono nelle case uccidendo senza criterio, saccheggiando tutto ciò che trovavano, trascinando via le donne e i bambini sopravvissuti prima di dar fuoco a tutto. La bella Cassandra scappò all'interno del tempio, credendo di essere al sicuro sotto la protezione delle guardie. Ma Aiace non si lasciò intimorire: violentò Cassandra sotto la statua della dea cui l'edificio era dedicato. Più tardi, in preda al rimorso, si uccise con la sua stessa spada. I guerrieri di Ilio non riuscirono a opporre resistenza. Risvegliati di soprassalto, confusi e resi lenti dal troppo vino, furono massacrati senza quasi rendersene conto. Nessuno fu risparmiato, tutto fu distrutto. Le strade si tinsero di un rosso torrente di sangue. Gli impotenti troiani caddero feriti a morte rantolando mentre le loro case ardevano e le loro mogli e i loro figli piangevano, trascinati via dal nemico tra gli ululati dei cani. Priamo fu assassinato senza pietà con i servi più fidati e la sua guardia. Sua moglie Ecuba venne condotta alle navi, destinata a una vita di schiavi-
tù. Il palazzo fu saccheggiato, l'oro strappato dalle colonne e dai soffitti, gli arazzi e i mobili portati via prima che l'intero edificio fosse dato alle fiamme. Non c'era acheo la cui spada o lancia non fosse macchiata di sangue; era come se un branco di lupi fosse piombato su un gregge di pecore. Non furono risparmiati neanche i vecchi, massacrati come conigli troppo spaventati per fuggire. A uno a uno i migliori guerrieri troiani caddero e non rimase nessuno a opporre resistenza al furore degli achei. I loro corpi bruciarono con le case e i beni per i quali avevano combattuto in precedenza. Gli alleati dei troiani, i traci, i lici, i ciconi e i misi, combatterono con valore, ma furono presto sopraffatti. Le amazzoni, fiere donne guerriere schierate con Ilio, non risparmiarono i loro colpi e uccisero molti nemici prima di essere annientate. Ogni casa e rifugio della città era in fiamme e il fuoco arrossava il cielo mentre gli achei si abbandonavano all'orgia della vittoria. L'orrore sembrava non avere mai fine. Fu solo sul far del mattino che i primi uomini iniziarono ad abbandonare la città, portando il bottino e i prigionieri verso le navi. Le donne catturate, distrutte dal dolore per la perdita dei mariti, radunarono i bambini terrorizzati, sapendo che, secondo la barbara usanza del tempo, le aspettava un destino di schiavitù in terra straniera. Le più fortunate andarono in spose ai loro rapitori e restarono con i loro figli vivendo una lunga e ricca esistenza. Molte altre morirono presto di stenti e abusi; dei figli di queste ultime non si seppe più nulla. Quando l'esercito si ritirò, l'orrore non era ancora cessato. Alcuni abitanti di Ilio morirono nelle case in fiamme, intrappolati dal fuoco, sotto i tetti che crollavano. L'incendio coprì il dolore e il tormento e le lingue rosse e arancio tinsero con il loro riverbero, con le scintille e con la cenere le nuvole che avanzavano sulla città dal mare. Fu un massacro destinato a ripetersi molte volte nel corso dei secoli. Alcune centinaia di persone si salvarono fuggendo nelle vicine foreste, dove rimasero nascoste finché la flotta achea non scomparve all'orizzonte. I sopravvissuti tornarono alla loro grande roccaforte ma trovarono solo un ammasso di macerie, impregnato dell'acre odore della carne bruciata. Non riuscirono a ricostruire le loro case e si spostarono altrove per innalzare una nuova città. Gli anni passarono e le ceneri vennero spazzate dal vento del mare, mentre ciò che rimaneva delle strade e delle mura ve-
niva sepolto dalla polvere. Col tempo la città risorse, ma non tornò mai al suo antico splendore. Popoli e imperi si succedettero in quei luoghi, fino all'estrema decadenza che cancellò per quasi duemila anni persino la nozione esatta del sito in cui la città era sorta. Ma la fiamma della sua fama brucia vivida fin da quando, alcuni secoli dopo i fatti narrati, un poeta conosciuto con il nome di Omero narrò la vicenda che chiamiamo «guerra di Troia», e il viaggio dell'eroe greco Odisseo. Odisseo era un uomo dotato d'astuzia e scaltrezza, e di certo non era contrario a massacrare gli awersari, ma non era barbaro quanto i suoi fratelli d'arme quando si trattava di donne. Durante la distruzione degli odiati troiani, benché avesse concesso ai suoi uomini ogni ignominia, si accontentò di impossessarsi dei beni del nemico. Fu l'unico a non portare con sé nessuna schiava come concubina. Gli mancavano sua moglie, Penelope, e suo figlio, che non vedeva da tanto tempo, e desiderava solo tornare il più velocemente possibile al suo regno sull'isola di Itaca. Lasciandosi alle spalle la città in fiamme, dopo aver offerto sacrifici agli dei, Odisseo prese il mare spinto da una brezza amica in direzione sudovest, verso casa. Diversi mesi dopo, in seguito a una terribile tempesta, Odisseo approdò, più morto che vivo, all'isola dei feaci, sospinto a riva dalle onde dopo aver nuotato per ore. Esausto, si addormentò su un letto di foglie vicino alla spiaggia e lì venne scoperto dalla principessa, la figlia di Alcinoo, re dei feaci. Incuriosita, la fanciulla lo scosse per vedere se era ancora vivo. Svegliandosi, Odisseo restò abbagliato dalla sua bellezza. «Una volta, a Delo, vidi una creatura affascinante come voi.» Lusingata, Nausicaa accompagnò il naufrago al palazzo del padre, dove Odisseo rivelò la sua identità e venne ricevuto con tutti gli onori. Alcinoo e sua moglie, la regina Arete, offrirono a Odisseo una nave per far ritorno a casa, ma prima vollero sentire il racconto della vicenda della grande guerra e delle sue avventure dopo la partenza da Ilio. In onore del re di Itaca venne imbandito un regale banchetto, durante il quale egli narrò le sue gesta. «Poco dopo che avevamo lasciato Ilio», cominciò, «i venti divennero ostili e la flotta fu sospinta in mare aperto. Dopo dieci giorni di tempesta,
riuscimmo ad approdare in una strana terra, dove i miei uomini e io fummo trattati con molta cordialità da coloro che chiamammo i 'lotofagi', dal frutto di un albero a noi sconosciuto di cui si cibano e che li mantiene sempre in uno stato di euforia. Anche alcuni dei miei uomini mangiarono il loto e caddero in una sorta di apatia, perdendo ogni desiderio di ripartire. Dopo aver compreso le insidie del luogo, ordinai che venissero trascinati a bordo e ripartimmo velocemente. «Credendo per errore di essere troppo a est, navigai verso ovest, guidato dalle stelle di notte e dal sole all'alba e al tramonto. Raggiungemmo delle isole costantemente battute da una calda pioggia e coperte da una fitta foresta. Le isole erano abitate da un popolo che si fa chiamare 'ciclopi', una razza di barbari giganti che allevano pecore e capre. «Radunai un gruppo di uomini per mettermi alla ricerca di viveri e giunsi a una grotta aperta nella montagna che fungeva da stalla, con sbarre all'entrata per impedire agli animali di uscire. Approfittando di questo dono degli dei, iniziammo a radunare il gregge per portarlo alla nave, ma, improvvisamente, udimmo dei passi e poco dopo un essere gigantesco si stagliò all'ingresso. Dopo essere entrato, chiuse la grotta con un enorme masso prima di occuparsi del gregge. Noi ci nascondemmo senza fiatare. «Quando ravvivò le ceneri del focolare e riaccese il fuoco, il mostro ci vide mentre ci pigiavamo sul fondo della grotta. Non avevamo mai visto un uomo più orrendo: aveva un solo occhio, nero come la notte. 'Chi siete?' chiese. 'Perché avete invaso la mia dimora?' «'Non siamo invasori', risposi. 'Siamo sbarcati per cercare dell'acqua.' «'Siete venuti per rubarmi le pecore', tuonò il gigante. 'Chiamerò i miei compagni e i miei vicini; verranno a centinaia e vi metteremo a bollire prima di mangiarvi.' «Malgrado fossimo guerrieri achei che avevano affrontato mille battaglie, sapevamo di essere inferiori di numero. Ma durante l'assenza del gigante trovammo un palo di legno nella grotta e ne affilammo la punta con la spada. Al suo ritorno presi la borraccia di pelle piena di vino e gli dissi: 'Ecco, ciclope, accetta questo vino e risparmia la nostra vita'. «'Come ti chiami?' mi chiese. «'Mia madre e mio padre mi chiamano Nessuno.' «'Che razza di nome stupido!' Senza dire altro l'orrenda creatura bevve tutto il vino, si ubriacò quasi subito e cadde assopita, «Allora raccogliemmo in fretta il legno appuntito e corremmo verso il gigante addormentato, conficcandogli la punta nell'unico occhio.
«Urlando di dolore, uscì all'aperto, si tolse il palo dall'occhio e sbraitò per chiedere aiuto. Gli altri ciclopi accorsero e, urlando anch'essi, gli chiesero: 'Sei stato aggredito?' «E lui: 'Nessuno mi ha attaccato'. «Pensando che stesse delirando, ritornarono alle loro case e ben presto, essendo il ciclope cieco, noi riuscimmo a fuggire dalla grotta e a sottrargli il gregge. A mo' di saluto gli gridai: 'Grazie per le pecore, stupido gigante. E quando i tuoi amici ti chiederanno chi ti ha ferito, di' loro che è stato Odisseo, re di Itaca'.» «E poi sei naufragato prima di sbarcare qui, nella terra dei feaci?» chiese il buon re. Odisseo scosse la testa e sorseggiò un po' di vino. «No, ho navigato a lungo, sempre sospinto lontano, verso ovest, da venti e correnti. Dopo i ciclopi, raggiungemmo l'isola Eolia, dove vive il buon re Eolo, figlio di Ippote e prediletto dagli dei. Aveva sei figlie e sei figli lussuriosi e, per placare questi ultimi, aveva fatto sposare loro le sorelle. Vivevano tutti insieme, sempre in festa, circondati dai più inimmaginabili lussi. «Dopo esserci riforniti, riprendemmo il mare affrontando una tempesta che durò sette giorni. Quando finalmente si placò, arrivammo nel porto della città dei lestrigoni, dove gettammo l'ancora fra due pareti di roccia a picco sul mare. Felici di essere nuovamente sulla terraferma, iniziammo a esplorare la campagna e incontrammo una graziosa fanciulla che stava portando dell'acqua. «Quando le chiedemmo chi fosse il re del luogo, ci indirizzò verso la casa del padre, ma, quando vi giungemmo, trovammo la madre, una donna gigantesca, alta quanto un albero, che ci lasciò senza parole. «La donna chiamò il marito, Antifate, che era ancora più enorme di lei e due volte più grande di un ciclopc Inorriditi alla vista del mostro, fuggimmo alle navi, ma il gigante diede l'allarme e migliaia di possenti lestrigoni apparvero sulla scogliera, lanciando massi grandi come le nostre imbarcazioni. La mia fu l'unica a salvarsi; tutte le altre affondarono. «I miei uomini furono rigettati nel porto, dove i lestrigoni li arpionarono come pesci, poi li tirarono a riva e li divorarono. Noi raggiungemmo in fretta il largo e la salvezza, ma eravamo disperati. Non solo avevamo perso i nostri amici e compagni, ma anche tutto il bottino prelevato a Ilio. La nostra parte dell'oro dei troiani giaceva sul fondo del porto dei lestrigoni. «Distrutti dal dolore, proseguimmo ancora fino a giungere a Eea, l'isola di Circe, la bella e famosa regina venerata come una dea. Ammaliato dal
fascino di Circe dalla bella chioma, ne divenni il compagno e restai con lei per tre lune. Non volevo più partire, ma i miei uomini insistettero per riprendere il viaggio verso Itaca, dicendomi che sarebbero partiti con o senza di me. «Circe acconsentì con dolore alla mia partenza, ma mi implorò di compiere un ultimo viaggio. 'Devi andare nella dimora di Ade e consultare coloro che sono trapassati: ti aiuteranno a comprendere cos'è la morte. Quando riprenderai il mare, guardati dal canto delle sirene, perché ti spingerebbe a sicura morte sulle rocce; tappati le orecchie per non sentire le loro voci ammaliatrici. Dopo aver resistito alle sirene, arriverai agli scogli chiamati "Colonne d'Ercole". Nessuno, nemmeno un uccello, può superarli; tutte le navi che ci hanno provato, fatta eccezione per una, sono andate incontro a un terribile destino.' «'E quella che è passata, come si chiamava?' chiesi. «'Si trattava dell'Argo del famoso Giasone.' «'Poi incontreremo mari tranquilli?' «Circe scosse la testa. 'Poi sarà la volta di altre immani scogliere, alte fino al cielo, i cui fianchi sono così lisci da sembrare vetro lucidato, impossibili da scalare. Nel cuore delle rocce, in una caverna, vive Scilla, un orrendo mostro che terrorizza chiunque l'avvicini. Ha sei lunghi colli, simili a serpenti, e altrettante spaventose teste con tre file di denti ciascuna, che possono schiacciare un uomo in un istante. Rema in fretta, se non vuoi finire fra le sue mascelle, perché l'orrenda creatura è velocissima. Poco oltre incontrerai Cariddi, che cerca di risucchiare le navi nei suoi abissi come un gorgo invisibile. Per passare, devi aspettare che sia addormentata.' «Dopo essermi congedato da Circe, non senza dispiacere, salii a bordo con il mio equipaggio e iniziammo a remare.» «Andaste davvero nell'oltretomba?» mormorò la gentile consorte del re Alcinoo con il viso pallidissimo. «Sì, seguendo le indicazioni di Circe, ci recammo nell'Ade, nel temuto mondo dei defunti. Dopo cinque giorni di navigazione, entrammo nelle acque del fiume Oceano, che scorre parallelo al confine del mondo. Fummo avvolti da una fitta nebbia e da un'oscurità che nessun raggio di sole avrebbe potuto penetrare. Approdammo su una spiaggia e solo io sbarcai, avviandomi nell'incerta luce verso una caverna nel fianco di una montagna. Quando vi giunsi, mi sedetti e aspettai. «Dopo poco arrivarono gli spiriti, i cui gemiti insopportabili mi fecero quasi perdere i sensi; poi apparve mia madre, della quale ignoravo la mor-
te, perché quando ero salpato per Ilio era ancora in vita. «Tiglio mio', disse in un soffio, 'perché vieni nella dimora delle tenebre se sei vivo? Non sei ancora tornato a casa, a Itaca?' «Con gli occhi pieni di lacrime le raccontai le mie vicissitudini e la dolorosa perdita dei miei guerrieri sulla strada del ritorno. «'Io sono morta di crepacuore, vinta dal timore di non rivedere più il mio amato figlio.' «Piansi alle sue parole e cercai di abbracciarla, ma lei era evanescente e non riuscii a stringere nulla. «Poi arrivarono schiere di uomini e di donne che avevo conosciuto e rispettato. Mi riconobbero e chinarono il capo in silenzio prima di ritornare nella caverna. Fui sorpreso di vedere il mio vecchio comandante, il re Agamennone. 'Siete perito in mare?' gli chiesi. «'No, mia moglie e il suo amante mi hanno sorpreso con la loro banda di traditori. Mi sono difeso bene, ma erano in troppi. Hanno ucciso anche Cassandra, la figlia di Priamo.' «Giunse poi il nobile Achille, con Patroclo e Aiace, che mi chiesero delle loro famiglie, delle quali, però, non sapevo niente. Parlammo dei tempi passati, finché anch'essi non si congedarono. Gli spiriti di altri amici e guerrieri si presentarono a me, ognuno per raccontare la sua melanconica vicenda. «Quando il mio cuore fu sopraffatto dalla tristezza, tutti svanirono e io ritornai a bordo. Lasciammo quel posto di lacrime senza voltarci, riattraversando la cortina di nebbia fino a rivedere il sole per poi dirigerci verso le sirene.» «Riusciste a superarne gli scogli senza difficoltà?» chiese il re. «Certamente», rispose Odisseo. «Ma prima di raggiungere l'insidioso passaggio, presi della cera e la tagliai a pezzi con la spada. Poi la ammorbidii tra le mani e la misi nelle orecchie dei miei compagni. Ordinai quindi di legarmi all'albero della nave e di non ascoltare le mie eventuali richieste di cambiare rotta, altrimenti ci saremmo schiantati sulle rocce. «Le sirene intonarono il loro canto ammaliatore non appena ci scorsero. 'O grande Odisseo, vieni da noi e ascolta la dolcezza della nostra voce, ascolta la nostra melodia e vieni fra le nostre braccia, perché il nostro fascino ti renderà più saggio.' «La musica e il suono della loro voce erano così coinvolgenti che supplicai i miei uomini di cambiare rotta, ma ottenni solo di farmi legare più stretto all'albero e di far accelerare il ritmo dei remi finché il canto non
scomparve. Solo allora si tolsero la cera dalle orecchie e mi liberarono. «Superate le sirene, incontrammo onde gigantesche e un mare veramente pericoloso. Esortai i compagni a procedere con tutta la forza che avevano mentre portavo la nave nella tempesta, senza però rivelare loro l'esistenza del mostro Scilla; se si fossero spaventati avrebbero smesso di remare. Arrivammo allo stretto braccio di mare chiuso fra le rocce e affrontammo le acque rese vorticose da Cariddi che ci risucchiarono in un gorgo di infelicità; ci sentivamo come se fossimo nell'occhio di un ciclone, ogni momento poteva essere l'ultimo. Fu in uno di questi istanti che Scilla colpì dall'alto e sei dei miei più valorosi uomini finirono nelle sue orrende fauci. Potei sentire le loro grida di disperazione mentre i loro corpi venivano straziati dalle mascelle del mostro, potei vedere le loro braccia protese verso di me durante la mortale agonia cui erano sottoposti. Nel corso di tutto il mio terribile viaggio, mai vidi scena più orripilante. «Dopo che riuscimmo a riguadagnare il mare aperto, i tuoni iniziarono a squassare il cielo e un fulmine colpì la nave. Si diffuse un odore di zolfo e lo scafo fu ridotto in mille pezzi; gli uomini caddero nelle acque in tempesta e annegarono. «Io riuscii a trovare una robusta cinghia di cuoio avvolta intorno a ciò che rimaneva dell'albero e con quella mi legai saldamente a un pezzo di chiglia. Su questa zattera improvvisata, vagai per il mare in balia del vento e delle correnti e solo dopo molti giorni, più morto che vivo, approdai sull'isola di Ogigia, dove vive Calipso, una donna affascinante e intelligente, sorella di Circe. Quattro dei suoi sudditi mi trovarono sulla spiaggia e mi portarono a palazzo, dove Calipso mi accolse e mi curò. «Vissi momenti di felicità a Ogigia, amorevolmente assistito da Calipso, che dormiva al mio fianco. La vita trascorreva serena nel magnifico giardino, dove quattro fontane spruzzavano acqua in opposte direzioni, e nella lussureggiante isola, dove uccelli colorati volavano fra i rami degli alberi e limpidi torrenti scorrevano fra i prati cinti da opulenti vigneti.» «Quanto tempo rimaneste a Ogigia?» chiese il re. «Sette lunghi mesi.» «Ma perché non cercaste una barca per riprendere il mare?» domandò la regina Arete. Odisseo si strinse nelle spalle. «Perché non c'erano imbarcazioni sull'isola.» «Quindi, come riusciste a partire?» «La dolce Calipso comprese la mia infelicità. Mi svegliò un mattino e
mi disse che desiderava che tornassi a casa. Mi fornì gli attrezzi, mi portò nella foresta e mi aiutò a tagliare i tronchi necessari a costruire una zattera sicura. Mi cucì lei stessa le vele e mi rifornì di acqua e cibo. Dopo cinque giorni ero pronto a partire, anche se i suoi tristi lamenti mi addoloravano molto. Era la più dolce fra tutte le donne, la compagna che ogni uomo vorrebbe. Se non avessi amato mia moglie più di lei, sarei rimasto a Ogigia.» Odisseo tacque e una lacrima gli solcò il volto. «Temo che sia morta di dolore nei tristi giorni dopo la mia partenza.» «Che cosa accadde alla zattera?» domandò Nausicaa. «Non ce n'era traccia quando vi ho trovato.» «Dopo diciassette giorni di calma, improvvisamente il mare iniziò a ribollire. Si scatenò una tremenda tempesta, con pioggia battente e raffiche di vento che strapparono la vela. Poi arrivarono onde gigantesche che squassarono la fragile imbarcazione. Mi ritrovai in acqua e passarono due giorni prima del mio approdo su questa spiaggia, dove voi, dolce Nausicaa, mi avete trovato.» Odisseo si fermò per un istante. «E così termina il racconto delle mie difficili imprese.» Nel palazzo, tutti avevano ascoltato con il fiato sospeso le incredibili avventure del re di Itaca. A quel punto, Alcinoo si alzò e si rivolse all'ospite. «Siamo onorati di avervi nella nostra dimora e vi siamo debitori per averci intrattenuto con questo splendido racconto. Per manifestare la mia gratitudine, vi concedo la mia nave più veloce con il suo equipaggio per poter ritornare a Itaca.» Odisseo si dimostrò grato di questo, quasi imbarazzato da una tale generosità. D'altro canto, era ansioso di ritrovare la via di casa. «Addio, buon re Alcinoo e graziosa regina Arete; grazie a tutti voi e a vostra figlia Nausicaa, per la sua gentilezza. Siate felici e possiate sempre godere del favore degli dei.» Odisseo uscì dalla reggia e fu scortato fino alla nave. Grazie al vento favorevole e al mare tranquillo, raggiunse infine Itaca e il suo regno, dove ritrovò Telemaco, suo figlio, e la moglie Penelope, insidiata dai pretendenti, che uccise uno per uno. Così termina il racconto dell'Odissea, un poema epico che ha sfidato i millenni, accendendo l'immaginazione e la fantasia di chi lo ha letto o ascoltato. Ma in realtà non narra fatti veri. O, almeno, solo alcuni lo sono. Perché Omero non era greco e l'Iliade e l'Odissea non si svolgono dove le successive leggende le hanno ambientate.
La vera storia delle avventure di Odisseo è assai diversa, e non sarebbe stata rivelata al mondo che molto, molto tempo dopo... PARTE PRIMA IL MARE COME L'INFERNO 1 15 agosto 2006 Key West, Florida La dottoressa Heidi Lisherness aveva un appuntamento con il marito per trascorrere la serata fuori, ma volle dare un'ultima occhiata alle immagini più recenti raccolte dal satellite per i rilevamenti ultraveloci. Heidi, una donna dalla figura piena, con capelli color argento raccolti dietro la nuca, era seduta alla sua scrivania e indossava pantaloncini verdi e una canottiera in tinta per contrastare il caldo e l'umidità della Florida in agosto. Stava per spegnere il computer e rimandare le preoccupazioni di lavoro al giorno dopo, quando un quasi impercettibile dettaglio nell'ultima immagine apparsa sul video la convinse a soffermarsi sulla trasmissione. La schermata mostrava le riprese del satellite effettuate sopra l'oceano Atlantico, a sud-ovest delle isole di Capo Verde, al largo dell'Africa. Heidi si risedette e osservò con più attenzione la fotografia. Un occhio meno allenato avrebbe probabilmente notato solo un gruppo di innocue nuvole sopra un mare azzurro. Ma per Heidi quell'immagine racchiudeva una minaccia. La confrontò con un'altra scattata solo due ore prima; la massa dei cumuli si era ingrandita a una velocità che non ricordava di aver mai rilevato per altre tempeste in diciassette anni di controllo e previsione degli uragani tropicali atlantici per conto del Centro uragani della NUMA, la celebre National Underwater and Marine Agency. Iniziò perciò a ingrandire le due foto che mostravano inequivocabilmente la formazione di un uragano. Harley, suo marito, un uomo bonario con baffi da tricheco, cranio ormai lucido e occhiali con la montatura sottile, entrò con aria impaziente nell'ufficio di Heidi. Anche lui era un esperto di condizioni del tempo, ma lavorava per il National Weather Service, il servizio meteorologico nazionale, come analista dei dati climatologici redatti per l'aviazione e la navigazione private. «Perché non ti sbrighi?» disse, indicando impazientemente l'orolo-
gio. «Abbiamo una prenotazione al Crab Pot.» Senza alzare lo sguardo dal monitor, Heidi gli indicò le due immagini a confronto sul suo schermo. «Sono state raccolte a due ore di distanza. Dimmi che cosa vedi.» Harley le esaminò per qualche minuto, poi inarcò le sopracciglia e si sistemò gli occhiali sul naso, prima di avvicinarsi al computer per guardare meglio. Dopo un istante, fissò la moglie e annuì: «Una formazione maledettamente veloce». «Troppo veloce», convenne Heidi. «Se continua a questi ritmi, Dio solo sa che cosa diventerà.» «Non lo sappiamo mai», replicò Harley, pensoso. «Può nascere leone e diventare pecora. È già accaduto.» «È vero, ma la maggior parte degli uragani si sviluppa nell'arco di molti giorni, a volte settimane. Questo si è formato in poche ore.» «È ancora presto per prevedere che direzione prenderà e dove si scatenerà con maggiore violenza.» «Ho la vaga sensazione che questo non sarà molto prevedibile.» Harley sorrise. «Mi terrai informato sugli sviluppi?» «Il National Weather Service sarà il primo a sapere», disse Heidi, assestando al marito un buffetto sul braccio. «Hai già pensato a un nome da dare al nuovo amico?» «Se diventa quello che penso, lo chiamerò Lizzie, dal nome di Lizzie Borden, quella che fece a pezzi la famiglia con un'ascia.» «Siamo ancora a inizio stagione per essere già alla lettera T, ma il nome mi sembra appropriato.» Harley passò la borsetta alla moglie. «Avrai tutto il tempo domani per vedere come si sviluppa. Ho una fame da lupo, andiamo a gustarci qualche crostaceo.» Heidi lo seguì fuori dell'ufficio, spegnendo la luce e chiudendo la porta. Ma la sua apprensione non diminuì; mentre prendeva posto sull'auto, non pensava alla cena, ma a quello che temeva essere un uragano di dimensioni potenzialmente apocalittiche. Un uragano è un uragano, comunque lo si chiami. Ma, se ciò è vero per l'oceano Atlantico, nel Pacifico quando si sviluppa in pieno si chiama «tifone», mentre in quello Indiano lo definiscono «ciclone». L'uragano è la più terrificante espressione di forza della natura, spesso superiore alla potenza di un'eruzione vulcanica o di un terremoto, perché il suo raggio d'azione è molto più vasto.
La formazione di un uragano dipende da una serie di circostanze concomitanti, così come la nascita di un essere vivente. Il primo fattore è il surriscaldamento oltre i 27 gradi delle acque tropicali a ovest della costa africana. Poi grandi masse d'acqua devono evaporare per effetto del sole e raggiungere gli strati più freddi dell'aria, dove si condensano in masse cumuliformi che provocano piogge e temporali. È questa quella che potremmo chiamare l'«infanzia» dell'uragano, che si alimenta per arrivare alla «pubertà». A questo punto, si formano delle correnti d'aria che spazzano il cielo alla velocità di 33 nodi, o 60 chilometri orari. I venti fanno precipitare la pressione dell'aria al suolo: più bassi sono i valori della pressione, più intensa è la circolazione d'aria, che, a un certo punto, forma dei vortici. Alimentato da tutti questi fattori, il «sistema», come lo definiscono i meteorologi, crea una forza centrifuga in grado di spostare una vera e propria barriera d'aria e pioggia intorno a un centro incredibilmente calmo. In questo occhio del ciclone il sole splende e il mare è abbastanza tranquillo; l'unico segnale della tremenda energia che gli si scatena intorno sono le spaventose pareti bianche che raggiungono i quindicimila metri di altezza. Fino a questo momento, il sistema viene identificato come una «depressione tropicale», ma quando i venti superano i 74 nodi si comincia a parlare di uragano. Sempre dall'intensità dipende la classificazione della tempesta secondo una scala da 1 a 5. Con venti compresi tra i 74 e i 95 nodi si parla di Forza 1 o di sistema «minimo». La Forza 2 è quella di un sistema «moderato» e prevede venti fra i 96 e i 110 nodi. Dai 111 ai 130 si ha la Forza 3 dei sistemi «intensi». I venti dei sistemi «estremi», o di Forza 4, soffiano tra i 131 e i 155 nodi, mentre quelli dei sistemi «catastrofici», o di Forza 5, soffiano oltre i 155. Un uragano «estremo» fu quello denominato «Hugo», che distrusse la costa a nord di Charleston, nel South Carolina, nel 1989, mentre fra i rari «catastrofici» si ricorda Camille, che colpì la Louisiana, il Mississippi e l'Alabama nel 1969. Camille lasciò alle sue spalle 256 morti, niente in confronto agli 8000 che perirono nel 1900 a Galveston, in Texas. Ma in meri termini statistici, il più devastante fu il ciclone tropicale che si abbatté sul Bangladesh nel 1970 provocando un milione di vittime. Per quanto riguarda i danni, il record appartiene all'uragano che, nel 1926, distrusse la Florida sudorientale e l'Alabama e che lasciò un conto di 83 miliardi di dollari, anche se, incredibilmente, persero la vita solo 243 persone.
Quello che però nessuno, nemmeno Heidi Lisherness, poteva prevedere era che l'uragano Lizzie aveva una sua propria mente diabolica e che la sua furia avrebbe azzerato tutte le precedenti statistiche. Entro pochissime ore, avrebbe iniziato il suo viaggio di morte verso il mar dei Caraibi per portare caos e terrore ovunque fosse passato. 2 Veloce e possente, un enorme squalo martello, lungo quasi cinque metri, scivolava nell'acqua cristallina, come una grande nuvola grigia che oscurasse un prato. Gli occhi sporgenti, che scrutavano il mare dai lati del caratteristico muso largo e appiattito, iniziarono a roteare dopo aver colto un vago movimento nel banco di coralli sottostante. La creatura che nuotava silenziosa era ignota al predatore marino. Aveva due pinne parallele alle estremità posteriori ed era nera, con strisce rosse lungo i fianchi. Il grande animale non la identificò come un saporito boccone e continuò la sua inarrestabile ricerca di una preda, senza rendersi conto che, invece, proprio quella strana creatura sarebbe stata molto appetitosa. Summer Pitt aveva visto lo squalo, ma l'aveva ignorato, perché era impegnata nell'esplorazione del Banco de la Navidad, una barriera corallina circa settanta miglia a nord-est della Repubblica Dominicana. Si trattava di un pericoloso banco di scogli che si estendeva su una superficie di trenta miglia per trenta, dove la profondità del mare variava da uno a trenta metri. Negli ultimi quattrocento anni, non meno di duecento navi si erano incagliate in quella foresta di splendidi coralli, punta terminale di una formazione rocciosa che si ergeva dagli abissi dell'oceano Atlantico. Nel tratto esplorato da Summer, il corallo era incontaminato e perfetto, con ramificazioni alte fino a quindici metri. Vi erano delicate gorgonie a ventaglio e grandi coralli cerebriformi, che si protendevano nell'azzurro del mare con colori vivaci e profili scultorei, creando un intricato giardino di volte e anfratti. A Summer sembrava di nuotare in un labirinto di vialetti e gallerie, alcuni senza via d'uscita, altri aperti su ulteriori crepacci e valli in cui poteva passare un TIR. Anche se l'acqua superava i 27 gradi, Summer indossava una muta stagna Viking Pro Turbo 1000 in gomma vulcanizzata che copriva ogni centimetro del suo corpo. L'aveva preferita a quella umida, più leggera ma meno coprente, per proteggersi non tanto dalla fresca temperatura dell'acqua quanto dai possibili contaminanti chimici e biologici con cui riteneva
di poter venire a contatto mentre esplorava e controllava i coralli. Guardò la bussola e piegò di poco a sinistra, sbattendo le pinne e muovendo le mani intorno alle due bombole per ridurre la resistenza dell'acqua. Con l'ingombrante muta e la maschera gran facciale che le ricopriva interamente il volto sarebbe stato più facile mantenersi sul fondo, ma la superficie tagliente e irregolare del corallo non lo rendeva possibile. Dietro quella corazza protettiva si poteva intuire la bellezza della ragazza solo dagli attenti occhi grigi e da una ciocca di capelli rossi che le scendeva sulla fronte. Summer amava il mare e adorava esplorarne l'immensità. Ogni immersione era una nuova avventura in un mondo fantastico e spesso immaginava di essere una sirena con acqua salata al posto del sangue. Era stata sua madre a spingerla a intraprendere lo studio della vita sottomarina e Summer si era laureata in biologia oceanografica con il massimo dei voti allo Scripps Institute of Oceanography. Il fratello gemello, Dirk, era diventato ingegnere navale presso la Florida Atlantic University. Poco dopo il loro ritorno a casa, alle Hawaii, la madre aveva rivelato loro, in punto di morte, che il padre che non avevano mai conosciuto era il responsabile dei progetti speciali della NUMA, a Washington, D.C. Era stata quella la prima e l'ultima volta che la donna aveva parlato ai figli dell'uomo che aveva amato e della ragione per cui gli aveva fatto credere di essere morta durante un terremoto sottomarino, ventitré anni prima. Gravemente ferita e sfigurata, aveva pensato che sarebbe diventata un peso per lui e aveva così deciso di lasciarlo libero. Qualche mese dopo erano nati i gemelli e, in nome dell'amore che non aveva mai smesso di provare per quell'uomo, li aveva chiamati Summer, come lei, e Dirk, come il padre. Dopo il funerale, Dirk e Summer erano andati a Washington per incontrare Dirk Pitt senior per la prima volta. La loro improvvisa apparizione lo aveva naturalmente sconvolto. All'iniziale turbamento era seguita una gioia indicibile nel sapere che il grande amore della sua vita non era morto quando aveva creduto, ma anche una tremenda tristezza nell'apprendere che lei aveva vissuto tutti quegli anni da sola, come un'invalida, ed era mancata solo il mese prima. Una volta ricongiuntosi con i figli, li aveva portati a stare con lui nel vecchio hangar in disuso dove viveva e dove teneva la sua collezione di auto antiche. Dopo aver saputo che i ragazzi erano stati spinti dalla madre sulle sue orme e si erano laureati in scienze oceanografiche, aveva fatto in modo che fossero assunti alla NUMA.
Da quel momento erano passati due anni, un periodo d'intenso lavoro su progetti legati agli oceani di tutto il mondo. Adesso, però, i due gemelli erano impegnati in una missione molto particolare: indagare e raccogliere dati sulla contaminazione tossica che stava distruggendo la fragile vita marina del Banco de la Navidad e di altre barriere coralline dei Caraibi. La maggior parte della scogliera era ancora popolata da animali in ottima salute. Pesci ballerini dalle luminose colorazioni nuotavano fra grandi pesci pappagallo ed epinefeli, mentre piccoli pesci tropicali gialli e viola giocavano con minuscoli cavallucci marini rossi. Fiere murene mostravano il capo da scuri recessi del corallo, aprendo e chiudendo le mascelle in modo minaccioso, in attesa di affondare i denti acuminati in una preda. Summer sapeva che quel movimento apparentemente aggressivo serviva in realtà per respirare, poiché le murene erano prive di branchie. Attaccavano l'uomo solo se importunate e per essere morsi si doveva quasi metter loro una mano in bocca. Un'ombra grigia oscurò un tratto di fondo sabbioso visibile fra i coralli e Summer pensò che lo squalo martello fosse tornato a studiarla più da vicino. Alzò gli occhi e, invece, vide un gruppo di cinque aquile di mare, una specie di razze fra le più grandi. Una di esse si staccò dalle compagne come un aereo che rompesse la formazione e si avvicinò a Summer, osservandola con curiosità prima di tornare nei ranghi. La ragazza proseguì il suo percorso e poco dopo s'imbatté in una formazione di gorgonie nei pressi di un relitto. Un lungo barracuda si aggirava fra i resti della nave come un attento guardiano che controllasse i suoi territori con scuri occhi freddi e perlacei. Si trattava del vapore Vandalia, sbattuto sugli scogli del Banco de la Navidad durante una furiosa tempesta nel 1876. Nessuno dei centottanta passeggeri e trenta uomini dell'equipaggio era sopravvissuto. Elencato nei documenti dei Lloyd's di Londra fra le navi scomparse senza lasciare traccia, era stato ritrovato per caso nel 1982 nel corso di immersioni sportive. Era rimasto ben poco per identificare il Vandalia come un relitto. Adesso, dopo centotrent'anni di crescita dei coralli, tutto ciò che ancora si distingueva di quel glorioso vascello erano le caldaie e i motori che spuntavano dall'ossatura dello scafo. Le parti in legno erano state consumate dal sale e dai microrganismi che si occupavano di ripulire i fondali dai resti organici. Costruito nel 1864 per la West Indies Packet Company, il Vandalia era lungo novantasei metri, dalla punta della prua all'asta della bandiera a poppa, con un traverso di dodici metri e mezzo. Poteva ospitare duecentocin-
quanta passeggeri e una buona quantità di merci, grazie a tre capienti stive. Copriva la rotta da Liverpool a Panama, dove chi doveva proseguire per la California percorreva in treno il tratto dell'istmo (non ancora tagliato dal canale) e s'imbarcava su un'altra nave sulla costa del Pacifico. Erano davvero pochi i sub che erano riusciti a recuperare qualcosa dal Vandalia. Il relitto era ben mimetizzato fra i coralli e non era rimasto molto della nave distrutta in una tetra notte dalle onde gigantesche dell'uragano, prima che potesse trovare riparo nei porti della Repubblica Dominicana o delle vicine Isole Vergini. Summer scivolò sopra la carcassa, trascinata da una corrente più calda, cercando d'immaginare le persone che passeggiavano sul ponte. Provò la bizzarra sensazione di sorvolare un cimitero abitato da fantasmi che le parlavano dal passato. Il barracuda galleggiava immobile nell'acqua e la ragazza non smetteva di controllarne le eventuali reazioni. Il piccolo ma feroce predatore marino non aveva certo problemi di cibo in quel microcosmo acquatico in cui le specie presenti avrebbero riempito un'enciclopedia di ittiologia marina. Cercando di allontanare il pensiero della tragedia dalla mente, Summer aggirò il barracuda, che non smise un solo istante di fissarla. Quando fu a distanza di sicurezza, si fermò a controllare il manometro delle bombole per vedere quanta aria le rimanesse, segnalò la sua posizione al Global Positioning System (GPS) del minicomputer e diede un'occhiata alla bussola per capire dove si trovava rispetto alla stazione sottomarina in cui suo fratello e lei si erano trasferiti per studiare la barriera. Dopo aver annotato tutti i dati sul computer, sentì che era tempo di ritrovare l'assetto e immise un po' d'aria dalle bombole che portava sulle spalle. Riprese a nuotare e, dopo alcune centinaia di metri, si accorse che qualcosa non andava: i coralli erano sempre più pallidi e tutto l'ambiente risultava sbiadito. Più proseguiva in quella direzione e più notava che le spugne erano malate, finché non ne trovò più. Anche la visibilità risultò compromessa e a un certo punto Summer non riuscì a vedere oltre la punta delle dita protese davanti a lei, come se fosse immersa in una fitta nebbia. Quel misterioso fenomeno, che da un po' di tempo si manifestava nel mar dei Caraibi, era stato denominato «melma», dall'impressione avuta dai pescatori che si trovavano a navigare in quelli che definivano «scarichi di fogna». Gli scienziati pensavano che il fatto fosse associato alla proliferazione di un tipo di alga, ma non avevano ancora potuto dimostrarlo. Stranamente, la cosiddetta «melma» non sembrava uccidere i pesci con
un'azione tossica, come la sua micidiale sorella, la marea rossa, ma li portava alla morte distruggendo il loro habitat e le fonti di cibo. Summer notò che anche i brillanti anemoni di mare sembravano duramente colpiti dall'agente letale che aveva invaso il loro territorio. In quella prima fase, la ragazza doveva solo prelevare dei campioni. Le fotografie della zona contaminata e l'analisi chimica di quella strana sostanza sarebbero venute in seguito, nella speranza di trovare un rimedio per contrastarla. Quella prima esplorazione subacquea serviva per verificare di persona gli effetti della melma, in modo da fornire agli scienziati presenti sulla nave appoggio della stazione sottomarina gli elementi per una valutazione completa del fenomeno e la messa a punto di un programma di studio per identificarne le cause. La prima segnalazione risaliva al 2002, grazie a un sub professionista che lavorava al largo della Giamaica. La misteriosa melma, non rilevabile dalla superficie, si era già lasciata alle spalle una scia di distruzione che dal golfo del Messico aveva raggiunto le Florida Keys. Summer si stava rendendo conto adesso che, rispetto a quel primo rilevamento, il fenomeno del Banco de la Navidad era ben più tossico. Trovò infatti stelle marine, aragoste e gamberi morti e si accorse che i pesci che si trovavano in quella strana acqua senza colore erano semiaddormentati, in una sorta di stato comatoso. Prese alcune bottigliette da una sacca attaccata alla coscia e iniziò a prelevare campioni di acqua. Raccolse anche esemplari morti di echinodermi e crostacei e li pose in una reticella appesa alla cintura. Dopo aver richiuso con cura i contenitori e averli rimessi nella sacca, controllò nuovamente la riserva d'aria: aveva poco più di venti minuti a disposizione. Guardò la bussola e cominciò a nuotare nella direzione da cui era venuta, ritrovando ben presto l'acqua limpida e pulita. Mentre avanzava osservando in modo distratto il fondo, che si era trasformato in un ruscello di sabbia, notò fra i coralli l'ingresso di una piccola grotta di cui prima non si era accorta. A prima vista poteva sembrare simile alle molte altre che aveva incontrato negli ultimi quarantacinque minuti, ma in quel caso c'era qualcosa di diverso: l'entrata era in qualche modo squadrata, come se ci fossero due colonne di corallo incassate ai lati, e un nastro di sabbia sembrava condurre proprio verso l'apertura. Spinta dalla curiosità, e sapendo di avere ancora una riserva d'aria a disposizione, Summer raggiunse la grotta, sbirciò nell'oscurità ed entrò. Pochi metri dopo, le pareti colpite dai raggi del sole rilucevano di un in-
tenso color azzurro-violetto, ma poco più in là la luce scompariva e tutto diventava scuro. Summer nuotava lentamente, girandosi per trovare conforto nel bagliore che inquadrava l'uscita. Non aveva con sé una torcia e sarebbe stato pericoloso, oltre che inutile, proseguire; decise quindi, senza esitazione, di tornare sui suoi passi. All'improvviso, una delle sue pinne colpì qualcosa che spuntava dalla sabbia. In un primo momento pensò che fosse uno dei tanti pezzi di corallo presenti nella grotta; poi si accorse che l'oggetto incrostato aveva il profilo simmetrico di un manufatto umano e decise di estrado dalla sabbia. Riprese a nuotare verso la luce tenendolo davanti a sé e rigirandolo fra le mani per ripulirlo. Aveva le dimensioni di una di quelle vecchie cappelliere usate dalle signore di una volta, ma sembrava molto pesante, anche sott'acqua. Dal bordo superiore spuntavano due manici, mentre sul fondo sembrava esserci un piedistallo e l'interno, per quel che si poteva vedere, era cavo, cosa che confermava l'origine umana dell'oggetto. Attraverso la maschera, gli occhi grigi di Summer lasciavano trapelare una certa perplessità. Decise di portare l'oggetto con sé al laboratorio, dove lo avrebbe ripulito dalle incrostazioni per capire di che cosa si trattasse. L'aumento di peso dovuto ai campioni raccolti, ma soprattutto all'oggetto prelevato, costrinse Summer a correggere l'assetto. Poi, con il bottino sotto il braccio e un senso di leggerezza nella mente, si avviò verso il luogo che, nei successivi dieci giorni, lei e il fratello avrebbero chiamato «casa» e che apparve quasi subito a breve distanza fra i bagliori dell'acqua azzurra. Pisces - quello il nome della stazione - era un vero e proprio laboratorio progettato e costruito per la ricerca sottomarina. La struttura da sessantacinque tonnellate, rettangolare ma arrotondata alle due estremità, era lunga quasi dodici metri, larga tre e alta due e mezzo. Era appoggiata su dei pilastri conficcati in una solida piattaforma che ne assicurava la stabilità a quindici metri di profondità. La camera stagna in ingresso era usata come magazzino e stanza dove indossare o togliersi l'equipaggiamento subacqueo. Nell'ambiente principale, mantenuto a pressione diversa, si trovavano l'area di lavoro con gli strumenti di ricerca, la cambusa, una minuscola zona pranzo, quattro brandine, una postazione con computer e radio collegata a un'antenna per comunicare con il mondo in superficie. Prima di entrare, Summer si tolse le bombole e le collegò al serbatoio della riserva d'aria situato all'esterno della stazione; poi, trattenendo il fiato, nuotò fino alla camera stagna e, una volta dentro, depose con attenzione
i campioni prelevati in un piccolo contenitore; mise invece il misterioso oggetto su un asciugamano ripiegato. Non avendo intenzione di rischiare una contaminazione, decise che era meglio sopportare per qualche istante ancora il caldo tropicale e il sudore sulla pelle. Per quanto ne sapeva, anche una sola goccia della melma in cui aveva nuotato, infatti, poteva esserle fatale e il suo equipaggiamento ne era ricoperto. Prima di togliersi la muta stagna, il cappuccio, gli stivali, i guanti sigillati e la maschera, si slacciò la cintura, depose il giubbetto ad assetto variabile e azionò potenti getti che lavarono l'attrezzatura con una speciale soluzione decontaminante. A quel punto, certa di non correre più pericolo, chiuse i getti e bussò alla porta dell'ambiente principale. Sebbene il volto maschile che apparve dall'altra parte fosse quello del suo gemello, la somiglianza si notava appena. Nati a pochi minuti l'uno dall'altra, Summer e Dirk junior erano decisamente molto diversi. Lui era alto più di un metro e novanta, con carnagione scura e corporatura snella ma solida. Al posto delle chiome rosse e lisce e degli occhi grigi della sorella, aveva capelli neri e ondulati e occhi di un magnetico verde opale, che mandavano scintille quando incontravano la luce. Mentre il fratello la aiutava a togliersi il collare che collegava la maschera alla muta, Summer notò uno sguardo più penetrante del solito e un'espressione corrucciata sul volto di lui. Era nei guai, ma, prima che lui potesse aprire bocca, alzò le braccia e disse: «Lo so, lo so, non sarei dovuta uscire da sola». «Certo che lo sai», replicò Dirk, esasperato. «E sai pure che, se non fossi sgattaiolata fuori all'alba prima che mi svegliassi, ti avrei seguito e riportato indietro per le orecchie.» «Ti chiedo scusa», disse Summer, fingendo di essere pentita, «ma riesco a concludere di più se non devo preoccuparmi di un altro.» Dirk l'aiutò ad aprire le pesanti cerniere stagne della muta. Dopo averle sfilato i guanti e il cappuccio, iniziò a far scivolare l'indumento sulla schiena, sfilando a mano a mano le braccia e le gambe. Summer indossava un costume intero in nylon che ne evidenziava il corpo sinuoso. «Hai incontrato la melma?» chiese Dirk in tono preoccupato. La ragazza annuì. «Ho portato dei campioni.» «Sei certa che non ci fossero punti non stagni nella tua muta?» Summer alzò le mani sopra la testa e girò su se stessa. «Guarda coi tuoi occhi. Non ci sono tracce di schifezze tossiche.» Il fratello le mise una mano sulla spalla. «Ora mettiti in testa queste pa-
role: 'Non devo più immergermi da sola'. E sicuramente non senza di me, se sono nei paraggi.» «D'accordo, fratellino», rispose lei con un sorriso accondiscendente. «Mettiamo i campioni in una cassetta sigillata. Il comandante Barnum li porterà al laboratorio sulla nave per analizzarli.» «Il comandante sta venendo qui?» chiese la ragazza, piacevolmente sorpresa. «Ha insistito per portarci i rifornimenti di persona e si è invitato a pranzo; sostiene che questo gli permette di smettere di giocare a fare il comandante almeno per mezza giornata.» «Digli di non presentarsi senza una bottiglia di vino.» «Spera che il tuo messaggio gli arrivi per osmosi», sogghignò Dirk. Il comandante Paul T. Barnum era un uomo dall'aspetto vissuto e dalla carnagione pallida. Poteva essere scambiato per un fratello di Jacques Cousteau, anche se aveva il cranio desolatamente calvo. Indossava una corta muta umida, che lasciò nella camera stagna. Dirk lo aiutò a sollevare sul banco della cambusa il contenitore di metallo con i rifornimenti per due giorni e Summer iniziò a riporre i vari alimenti nell'armadietto e nel frigorifero. «Vi ho portato un regalo», annunciò Barnum, mostrando una bottiglia di vino della Giamaica. «E non solo questo. Il cuoco di bordo vi ha cucinato aragosta Thermidor con spinaci in besciamella.» «Ecco perché sei qui», disse Dirk, battendogli una mano sulla spalla. «Dell'alcol in una stazione della NUMA!» mormorò Summer in tono scherzoso. «Che cosa direbbe il nostro stimato capo, l'ammiraglio Sandecker, sul fatto che la sua regola d'oro di non bere mai in servizio sta per essere infranta?» «È vostro padre che mi ha abituato male», replicò Barnum. «Non è mai arrivato a bordo senza una cassetta di vino d'annata e il suo caro amico Al Giordino si è sempre presentato con una scatola dei sigari personali dell'ammiraglio.» «Sembra che l'ammiraglio sia l'unico a non sapere che Al acquista in gran segreto i sigari dal suo stesso fornitore», aggiunse Dirk, sorridendo. «Che ne dite di un antipasto?» chiese Barnum. «Pescetti in umido e insalata di gamberi.» «A chi devo questo onore?» «A me», mormorò Dirk. «L'unico piatto a base di pesce che Summer sa
preparare è il panino al tonno.» «Non è vero», si lamentò la ragazza. «Sono una brava cuoca.» Dirk la guardò con aria di commiserazione. «Perché, allora, il tuo caffè sa di acido di batteria?» Dopo aver riscaldato l'aragosta e gli spinaci, i tre amici consumarono il pasto annaffiandolo con abbondante vino e Barnum raccontò alcune delle sue avventure in mare. Summer rivolse una smorfia di soddisfazione al fratello quando servì una torta al limone che aveva cotto nel microonde. Dirk fu il primo ad ammettere che era stata davvero brava, anche perché i dolci e i forni a microonde in genere non andavano d'accordo. Quando Barnum si alzò per andarsene, Summer gli disse: «Ho un enigma per te». Il comandante strinse gli occhi. «Che genere di enigma?» La ragazza gli porse l'oggetto che aveva trovato nella grotta. «Che cos'è?» «Penso si tratti di una specie di vaso o di urna, ma non lo sapremo finché non verrà ripulito dalle incrostazioni. Volevo dartelo proprio nella speranza di trovare qualcuno che se ne occupi.» «Sono certo che a bordo ci saranno 'volontari'.» Lo prese e lo soppesò con entrambe le mani. «Sembra troppo pesante per essere di terracotta.» Dirk indicò la base dell'oggetto. «C'è un punto pulito, qui, da dove si vede che è di metallo.» «Strano, non sembra arrugginito.» «Non prendetelo per certo, ma credo si tratti di bronzo.» «La fattura è troppo raffinata per essere di produzione locale», aggiunse Summer. «Anche in queste condizioni s'intuisce che ci sono delle figure scolpite sulla fascia centrale.» Barnum lo scrutò con attenzione. «Hai più immaginazione di me. Forse l'enigma potrà essere sciolto dagli archeologi quando torneremo in porto, sempre che non diano in escandescenze perché l'hai prelevato dal sito.» «Non c'è bisogno di aspettare tutto questo tempo», disse Dirk. «Perché non inviamo qualche foto via computer a Hiram Yaeger, presso la sede della NUMA a Washington? Dovrebbe riuscire a risalire a una data e a un luogo di produzione.» «Il Vandalia non è lontano dalla grotta in cui l'ho trovato», aggiunse Summer. «Ecco come può essere arrivato in questi mari», disse Barnum. «Ma come ha fatto a entrare in una grotta a qualche centinaio di metri di
distanza?» si chiese Summer. Dirk sorrise in modo complice; «Magia, mia signora, magia vudu caraibica». Era ormai buio quando Barnum augurò finalmente la buonanotte. Mentre entrava nella camera stagna, Dirk gli chiese; «Che tempo fa, là sopra?» «Per due giorni dovrebbe rimanere buono», rispose Barnum, «ma so che si sta formando un uragano nelle Azzorre. I meteorologi sulla nave lo tengono d'occhio; se si dovesse dirigere da queste parti, vi faccio risalire e ci togliamo dal suo percorso.» «Speriamo che ci eviti», concluse Summer, prima di chiudere la porta. Una volta solo, Barnum mise l'urna in una reticella e prese la sacca con i campioni raccolti da Summer; poi scivolò nell'acqua scura. Dirk accese le luci esterne della stazione illuminando un banco di pesci pappagallo dal colore verde acceso che nuotavano in cerchio, apparentemente indifferenti alla presenza umana. Senza preoccuparsi d'indossare le bombole, il comandante immagazzinò una buona quantità d'aria nei polmoni, diresse il fascio di luce della torcia verso l'alto e iniziò la risalita in apnea, compensando a mano a mano che saliva. La piccola imbarcazione gonfiabile, con scafo in alluminio, era ancora dove l'aveva lasciata al mattino, a distanza di sicurezza dal laboratorio. Dopo averla raggiunta a nuoto, salì a bordo e recuperò l'ancora; poi accese i due motori fuoribordo Mercury da centocinquanta cavalli e si diresse verso la nave, ben visibile in lontananza grazie ai fari e alle luci di navigazione rosse e verdi. Il colore più diffuso tra le navi che solcano gli oceani è in genere il bianco, accompagnato a volte dal rosso, dal nero o dall'azzurro; i toni dell'arancio sono utilizzati per qualche nave mercantile. La Sea Sprite, invece, come tutte le imbarcazioni della flotta della National Underwater and Marine Agency, era di un acceso turchese, il colore scelto dall'irritabile direttore, l'ammiraglio James Sandecker, per distinguere le sue navi dalle molte in circolazione. Erano in pochi quelli che non riconoscevano una nave della NUMA quando la incontravano. La Sea Sprite era una grande imbarcazione di novanta metri, con un traverso di venti. Costruita a regola d'arte in ogni sua parte, era nata come rompighiaccio ed era rimasta per dieci anni nei mari del Nord, affrontando gelide tempeste per recuperare altre navi danneggiate dagli iceberg. Era in
grado di aprirsi la strada in una crosta di ghiaccio spessa due metri e trainare una portaerei nel mare in tempesta senza perdere la stabilità. Era stata acquistata da Sandecker per la NUMA quando era ancora in ottime condizioni e trasformata, senza badare a spese, in un laboratorio di ricerche oceaniche avanzate, oltre che in una nave appoggio per le immersioni. Gli ingegneri della NUMA avevano messo a punto l'elettronica, i sistemi computerizzati e quelli di comunicazione. I laboratori erano altamente sofisticati, con ampi spazi di lavoro e massima stabilità durante la navigazione. La rete informatica era in grado di rilevare, immagazzinare e inviare i dati elaborati alla sede centrale di Washington per un'analisi tempestiva e la trasformazione in informazioni vitali per lo studio degli oceani. La Sea Sprite si muoveva grazie a due motori magnetoidrodinamici fra i più avanzati che la moderna tecnologia potesse concepire, grazie ai quali scivolava sull'acqua alla velocità di 40 nodi. E, se prima poteva trainare una portaerei nel mare in tempesta, adesso era in grado di trascinarne due, senza nemmeno troppo sforzo. Non c'era nave al mondo che potesse competere con lei in quanto a tecnologia. Barnum ne era fiero; nella flotta di trenta navi laboratorio della NUMA, la Sea Sprite era davvero unica. Era stato l'ammiraglio Sandecker in persona a incaricarlo della ristrutturazione e lui ne era stato entusiasta, soprattutto dopo aver saputo che non c'erano limiti di spesa. Tutto era andato per il meglio e, con la nomina a comandante, Barnum era certo di aver raggiunto l'apice della sua carriera. La nave restava in mare aperto per complessivi nove mesi all'anno, con una rotazione del personale scientifico a ogni nuovo progetto. I restanti tre mesi servivano per gli spostamenti da un luogo all'altro, per la manutenzione e l'aggiornamento dell'apparecchiatura e degli strumenti. Mentre si avvicinava, il comandante scrutava con soddisfazione i vari elementi: la struttura a otto piani; l'imponente gru di poppa, utilizzata per calare in mare Pisces e per recuperare veicoli automatizzati o piccoli sommergibili; la grande piattaforma a prua per l'atterraggio degli elicotteri; la selva di antenne satellitari che, come alberi, circondavano la cupola che ospitava i sistemi radar. Quando fu sul fianco della nave, il comandante spense i motori e aspettò che scendesse il cavo della gru; poi agganciò l'imbarcazione e attese di essere issato a bordo. Non appena mise piede sul ponte, si precipitò verso il laboratorio con il misterioso oggetto in mano e lo consegnò a due studenti della Texas A&M
School of Nautical Archaeology. «Cercate di ripulirlo al meglio, e fate attenzione: potrebbe essere di valore.» «Sembra un vecchio vaso incrostato», disse una ragazza bionda che indossava una maglietta dell'A&M e un paio di pantaloncini tagliati. Era evidente che il lavoro di pulizia non le andava a genio. «Non è niente di tutto ciò», replicò Barnum con tono di velata minaccia. «Non potete immaginare quali segreti possa celare una barriera corallina. Quindi, attenti al cattivo genio che può spuntar fuori.» Soddisfatto per aver avuto l'ultima parola, il comandante si voltò e si diresse verso la sua cabina, lasciandosi due perplessi studenti alle spalle, intenti a esaminare l'urna. Quella sera, alle dieci, il manufatto era già su un elicottero diretto all'aeroporto di Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana, dove sarebbe stato trasferito su un aereo di linea con destinazione Washington, D.C. 3 La sede centrale della NUMA era un edificio di trenta piani sulla riva est del Potomac, davanti al Campidoglio. La centrale dei computer al decimo piano sembrava il set di un film di fantascienza girato a Hollywood ed era il regno incontrastato di Hiram Yaeger, il mago informatico dell'agenzia. Sandecker gli aveva concesso carta bianca, e nessun limite di spesa, nella creazione e organizzazione della più grande banca dati del mondo ad argomento marino. La quantità di dati reperiti, immagazzinati e catalogati era tale da comprendere tutti i lavori di ricerca scientifica conosciuti, le indagini, le analisi e le datazioni dai più antichi documenti ai giorni nostri. Non esisteva niente di simile in tutto il mondo. Al decimo piano non c'erano muri né barriere. Yaeger era dell'idea che qualsiasi suddivisione in cabine o uffici avrebbe ucciso l'efficienza. Come un direttore d'orchestra, dirigeva le operazioni dalla sua postazione sopraelevata al centro dello spazio. Oltre a una sala conferenze e ai bagni, l'unica sezione chiusa del piano era una piccola zona circolare delimitata da un cilindro a pareti trasparenti, posta su un lato dell'infilata di schermi distribuiti intorno alla console di comando. Per Yaeger il passaggio da giovane alternativo a elegante dirigente non era mai avvenuto completamente. Indossava ancora jeans sotto giacche in tono e vecchi e consunti stivali da cowboy. I capelli brizzolati erano raccolti a coda di cavallo, mentre sul naso portava un paio di occhiali dalla
montatura ormai fuori moda. Ma il mago dei computer non conduceva la vita che il suo aspetto avrebbe voluto far credere. Aveva infatti un'adorabile moglie, fra l'altro un'artista di fama, con cui viveva in una fattoria a Sharpsburg, nel Maryland, dove allevava cavalli. Le due figlie erano iscritte a prestigiose scuole private e si preparavano a entrare in altrettanto ottime università. Per spostarsi da casa al lavoro guidava una BMW V-12, mentre la moglie preferiva una Cadillac Esplanade per portare le ragazze a scuola o alle feste. Stuzzicato dal mistero dell'urna inviata via aereo dalla Sea Sprite, Yaeger la estrasse dalla scatola in cui era riposta e la mise nel cilindro trasparente, a pochi metri dalla sua poltrona in pelle. Poi digitò un codice sulla tastiera. Dopo qualche secondo, nella stanza apparve la figura tridimensionale di una donna attraente, che indossava una camicetta a fiori e una gonna in tinta. Era una creazione di Yaeger che riproduceva la moglie, una manifestazione virtuale che poteva pensare e aveva una sua propria personalità. «Salve, Max», la salutò Yaeger. «Sei pronta per qualche ricerca?» «Sempre a tua disposizione», replicò Max con voce roca. «Vedi l'oggetto che ho messo ai tuoi piedi?» «Sì.» «Vorrei che tu lo identificassi per data approssimata e civiltà.» «Si tratta di archeologia, vero?» Yaeger annuì. «L'oggetto è stato rinvenuto in una grotta di corallo del Banco de la Navidad, da una biologa della NUMA.» «Avrebbero potuto ripulirla meglio», disse Max in tono freddo, osservando le incrostazioni. «Hanno dovuto fare in fretta.» «Questo mi sembra ovvio.» «Entra nelle reti informatiche delle università, cerca i dati sull'archeologia e vedi se trovi qualcosa che corrisponde.» Max lo guardò con un'espressione maliziosa. «Mi stai obbligando a commettere un atto criminale, sai?» «Dare un'occhiata in altri computer per scopi scientifici non è un atto criminale.» «Il modo in cui rendi legittima qualsiasi tua attività illegale non finirà mai di stupirmi.» «Lo faccio solo per puro amore della scienza.» Max rivolse gli occhi al cielo. «Per favore, risparmiami.»
Yaeger premette un tasto e Max scomparve lentamente, come se si stesse smaterializzando, mentre l'urna scendeva in uno scomparto sotto il pavimento del cilindro. In quello stesso istante, il telefono blu posto in mezzo a una serie di ricevitori colorati iniziò a suonare. Yaeger portò un auricolare all'orecchio, continuando a digitare sulla tastiera. «Sì, ammiraglio.» «Hiram», disse la voce di James Sandecker, «ho bisogno del rapporto su quella mostruosità galleggiante ancorata al largo di capo San Rafael, nella Repubblica Dominicana.» «Glielo porto subito.» James Sandecker stava eseguendo una serie di flessioni sulle braccia quando Yaeger venne introdotto nel suo ufficio dalla segretaria. Era un uomo di sessantun anni, alto poco più di un metro e cinquanta, dai folti capelli rossi tagliati cortissimi, la barba dello stesso colore e occhi azzurri freddi e pieni di autorità, con cui scrutò il suo collaboratore appena entrato. Da convinto sostenitore della necessità di mantenere un buona forma fisica, faceva jogging tutte le mattine, frequentava la palestra della NUMA tutti i pomeriggi ed era vegetariano. L'unico vizio che si concedeva erano dei grandi sigari che faceva preparare appositamente. Nei molti anni trascorsi alle dipendenze del governo federale aveva trasformato la NUMA nella più efficiente fra le macchine governative. Benché la maggior parte dei presidenti che avevano servito durante il suo lungo mandato da direttore dell'agenzia non lo considerasse un uomo di squadra, l'impressionante numero di successi ottenuti e il completo sostegno del Congresso l'avevano reso inattaccabile. Non appena vide Yaeger, scattò in piedi e lo invitò ad accomodarsi davanti alla sua scrivania, che un tempo costituiva il portello di un boccaporto di una nave che aveva forzato il blocco confederato. Furono raggiunti da Rudi Gunn, il vicedirettore dell'agenzia, di poco più alto dell'ammiraglio e con spessi occhiali di tartaruga sul naso. Uomo di acuta intelligenza, Gunn era stato capitano di fregata della marina sotto Sandecker; il suo lavoro alla NUMA consisteva nella supervisione dei molti progetti scientifici attivati in tutto il mondo. Dopo aver salutato Hiram con un cenno del capo, si sedette accanto a lui. Yaeger si sollevò dalla sedia e appoggiò un incartamento sulla scrivania, davanti all'ammiraglio. «Questo è tutto ciò che abbiamo sull'Ocean Wanderer.»
Sandecker aprì il plico e analizzò con attenzione i progetti del lussuoso hotel concepito come una vera e propria stazione turistica galleggiante. Le dimensioni permettevano di trainarlo dall'uno all'altro dei molti paradisi esotici sparsi per il mondo, in ognuno dei quali restava ancorato per un mese, prima di passare alla destinazione successiva. All'ammiraglio bastò un minuto per capire; si rivolse a Yaeger con l'aria corrucciata e disse: «Questo affare è destinato a trasformarsi in tragedia». «Sono d'accordo», intervenne Gunn. «I nostri ingegneri hanno esaminato a fondo la struttura portante e sono giunti alla conclusione che non potrebbe sopportare una violenta tempesta.» «Come sono arrivati a questa conclusione?» chiese Yaeger ingenuamente. Gunn si alzò e dispiegò sulla scrivania i progetti dei cavi di ormeggio del complesso, fissati ai piloni inseriti nel fondo marino. Indicò con la matita il punto in cui quei cavi erano fissati a enormi dispositivi di bloccaggio posti sotto i piani sottomarini dell'edificio. «Un forte uragano sarebbe in grado di sradicare gli ormeggi.» «Nelle specifiche tecniche si dice che sono in grado di sopportare venti a 150 nodi», replicò Yaeger. «Non sono i venti a preoccuparci», fece notare Sandecker. «Una struttura di questo tipo ancorata in mare, e non fissata su un terreno solido, è in balia delle onde alte che si formano in acque basse. Sono queste che potrebbero raderla al suolo seppellendo clienti e personale.» «E questo fattore non è stato preso in considerazione durante la fase di progettazione?» chiese Yaeger. L'ammiraglio scosse la testa. «Abbiamo avvisato del problema la squadra tecnica, ma il proprietario della società cui appartiene il complesso ha ignorato la cosa.» «Un team internazionale di ingegneri navali lo ha dichiarato sicuro e questo gli è bastato», aggiunse Gunn. «Il governo degli Stati Uniti non ha giurisdizione sulle società straniere e non abbiamo potuto fare niente per impedirne la costruzione.» Sandecker ripose le carte nella cartelletta e la richiuse. «Possiamo solo sperare che l'uragano che si sta formando al largo dell'Africa occidentale non sia in rotta di collisione con l'hotel o che rimanga sotto la Forza 5 d'intensità.» «Ho già messo in stato di allarme il comandante Barnum», spiegò Gunn, «che in questo momento è in appoggio al progetto Pisces al Banco de la
Navidad, non lontano dall'attuale posizione dell'Ocean Wanderer. Barnum tiene d'occhio tutti gli uragani che potrebbero investire il complesso.» «Il nostro centro a Key West ne sta controllando uno in formazione», disse Yaeger. «Mi tenga informato», gli suggerì Sandecker. «L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un doppio disastro.» Quando tornò alla sua postazione, Yaeger trovò una luce verde lampeggiante sulla console. Si sedette e digitò il codice che richiamava Max e faceva riapparire l'urna nel cilindro trasparente. Quando Max si materializzò, le chiese: «Hai esaminato l'oggetto arrivato dalla stazione Pisces?» «Certamente», rispose Max senza esitare. «E cos'hai scoperto?» «Il personale della Sea Sprite che doveva ripulirlo non ha fatto un buon lavoro», si lamentò Max. «La superficie è ancora ricoperta da uno strato calcareo e l'interno è pieno di concrezioni. Ho dovuto utilizzare i dispositivi più sofisticati per riuscire ad analizzarlo: risonanza magnetica, raggi X digitali, scansione laser tridimensionale, Pulse Coupled Neural Networks e tutto ciò che si può concepire per la scomposizione di un'immagine.» «Risparmiami i particolari tecnici», sospirò Yaeger, in tono rassegnato. «Che cosa hai scoperto?» «Prima di tutto, non si tratta di un'urna. I manici sul bordo superiore indicano che è un'anfora. È stata fusa in bronzo nella media o tarda Età del Bronzo.» «È piuttosto antica.» «Molto antica», aggiunse Max con sicurezza. «Ne sei certa?» «Mi sono mai sbagliata?» «No», rispose Yaeger. «Devo ammettere che non mi hai mai deluso.» «Quindi, fidati di me anche questa volta. Ho eseguito una scrupolosa analisi chimica del metallo. I primi tentativi d'indurire il rame, iniziati nel 3500 a.C. circa, utilizzavano l'arsenico; il risultato era buono, ma i minatori e i fabbri morivano anzitempo, a causa dei vapori del veleno. Più di mille anni dopo, intorno al 2200 a.C, probabilmente quasi per caso si scoprì che legando rame per il 90 per cento e stagno per il 10 per cento si otteneva un metallo duro e resistente. Iniziò così l'Età del Bronzo. A quei tempi, il rame era molto diffuso in Europa e nel Medio Oriente, mentre lo stagno,
più raro in natura, non era facile da reperire.» «Quindi lo stagno era un bene prezioso.» «Sicuramente lo era», rispose Max. «I commercianti di stagno giravano il mondo antico, acquistando il metallo nelle miniere e rivendendolo alle fucine. Intorno al bronzo fiorì una ricca economia che portò benessere a molte persone. Con la nuova lega si fabbricava di tutto, dalle armi (lance, coltelli e spade) ai gioielli, dalle cinture agli strumenti di lavoro, come le asce e gli scalpelli, che permisero di migliorare la lavorazione del legno. Gli artigiani iniziarono a produrre pentole, urne e vasi. Si può senz'altro dire che l'avvento del bronzo contribuì a un progresso della civiltà umana.» «Qual è invece la storia dell'anfora?» «È stata fabbricata fra il 1200 e il 1100 a.C. e, se t'interessa, la tecnica utilizzata è quella della fusione a cera persa.» Yaeger si abbandonò all'indietro sulla sedia. «Quindi ha più di tremila anni.» Max sorrise in modo sarcastico. «Sei perspicace.» «Dov'è stata fusa?» «In Gallia, dagli antichi celti, esattamente in una regione chiamata Egitto.» «Egitto?» replicò Yaeger, con tono scettico. «Tremila anni fa la terra dei faraoni non era chiamata Egitto, ma Al Khem o Kemi. Fu Erodoto che le diede questo nome, basandosi sulle descrizioni che Omero ne fa nell'Iliade.» «Non sapevo che i celti ci fossero già, in quel periodo», disse Yaeger. «I celti erano in realtà delle tribù solo in parte collegate fra loro, di cui si ha notizia già nel 2000 a.C.» «Hai detto però che l'anfora è stata fabbricata in Gallia. Che cosa c'entrano i celti in tutto questo?» «Sono stati i romani a chiamare 'Gallia' le terre celtiche», spiegò Max. «La mia analisi ha evidenziato che il rame proveniva dalle miniere nei pressi di Hallstatt, in Austria, e lo stagno da quelle della Cornovaglia, in Inghilterra; lo stile è però quello di una tribù di celti del Sud-ovest della Francia. Le figure modellate sul corpo esterno dell'anfora sono praticamente uguali a quelle trovate su un braciere rinvenuto da un contadino francese nel 1972.» «Penso tu possa dirmi il nome dell'artigiano che l'ha prodotta.» Max perforò Yaeger con un'occhiata gelida. «Non mi hai detto di ricercare negli archivi genealogici.»
Yaeger ripensò a quanto gli aveva detto Max. «Qualche idea su come un reperto dell'Età del Bronzo fabbricato in Gallia si trovasse nella grotta di una barriera corallina al largo della Repubblica Dominicana?» «Non sono stata programmata per occuparmi di supposizioni», rispose Max in tono seccato. «Non ho la più pallida idea di come possa essersi trovato là.» «Cerca di fare delle ipotesi», le chiese Yaeger gentilmente. «È caduto da una nave o è stato coinvolto in un naufragio?» «La seconda ipotesi è più probabile, perché nessuna nave si avventurava sugli scogli del Banco de la Navidad di proposito. Doveva essere a bordo di un mercantile che trasportava antichi reperti a un ricco mercante o a un museo in America Latina.» «Questa è forse la migliore delle congetture.» «In realtà, l'evento è piuttosto antico», disse Max fingendo indifferenza. «Secondo le mie analisi, le incrostazioni all'esterno del manufatto sono precedenti a qualsiasi naufragio avvenuto dopo il viaggio di Colombo. Le sostanze organiche risalgono a duemilaottocento anni fa.» «Non è possibile. Non ci sono stati naufragi nell'emisfero occidentale fino al 1500.» Max alzò le mani. «Non ti fidi di me?» «Devi ammettere che questa tua datazione può suonare ridicola.» «Prendere o lasciare. Io mi baso sui dati che ho raccolto.» Yaeger si appoggiò allo schienale della sedia, chiedendosi a chi poteva mostrare le conclusioni cui era giunta Max. «Stampami dieci copie di ciò che hai scoperto, Max. Inizierò da questo.» «Prima che tu mi rimandi nell'oblio», aggiunse Max, «c'è ancora una cosa.» Yaeger la guardò con circospezione. «Quale?» «Quando pulirete bene l'interno dell'anfora, scoprirete una statuetta d'oro che raffigura una capra.» «E...» «Ciao ciao, Hiram.» Mentre Max scompariva nei circuiti, Yaeger rimase seduto, senza sapere che cosa pensare. Cercò d'immaginare un marinaio di tremila anni prima che gettava un'anfora di bronzo fuori bordo a più di quattromila miglia dall'Europa, ma la scena non si metteva a fuoco. Si protese per prendere l'anfora e guardare all'interno, ma rimase disgustato dal fetore di sostanze in decomposizione. La rimise nel cilindro e re-
stò a guardarla a lungo, incapace di accettare ciò che Max aveva scoperto. Decise di controllare i sistemi di Max come prima cosa, il giorno dopo, prima di far avere il rapporto a Sandecker. Non voleva tralasciare l'ipotesi che Max potesse essere stata in qualche modo fuorviata. 4 Un uragano normale impiegava in media sei giorni per raggiungere la massima potenza. Lizzie ce la fece in quattro. Con le correnti d'aria che vorticavano sempre più velocemente, superò la fase di «depressione tropicale» molto in fretta, assestandosi ben presto su venti compresi tra i 74 e i 95 nodi, che, secondo la scala Saffir-Simpson, caratterizzavano gli uragani di Forza 1. Ma a Lizzie ciò non bastava e, nel giro di pochissimo tempo, oltrepassò la Forza 2 e raggiunse la numero 3, con venti fino a 130 nodi. Al Centro uragani della NUMA, Heidi Lisherness stava esaminando le ultime immagini trasmesse dal satellite geostazionario che orbitava intorno alla terra a un'altezza di trentacinquemila chilometri sopra l'equatore. I dati venivano immessi in un computer che utilizzava uno dei molti modelli matematici per prevedere la velocità, il percorso e le potenzialità di crescita di Lizzie. Le immagini arrivate dal satellite non erano della migliore qualità e Heidi avrebbe preferito poter esaminare meglio i particolari, ma l'uragano era ancora troppo lontano per inviare un aereo da ricognizione. Avrebbe dovuto aspettare. I dati fino a quel momento raccolti erano tutt'altro che incoraggianti. La tempesta aveva tutte le caratteristiche di quelle che avevano superato la Forza 5, con venti a più di 160 nodi. Heidi non poteva far altro che sperare che Lizzie non si scatenasse sulla costa degli Stati Uniti. Solo altri due sistemi di Forza 5 avevano raggiunto quel tragico primato: il grande uragano Labor Day del 1935, che si era abbattuto sulle Florida Keys, e l'uragano Camille che nel 1969 aveva fatto crollare persino edifici di ventinove piani. Heidi si fermò un attimo per inviare gli ultimi dati sull'uragano al marito Harley, che era al lavoro al National Weather Service. Caro Harley, l'uragano Lizzie si muove velocemente verso ovest e sta crescendo. Come avevamo previsto, si è già trasformato in un sistema pericoloso. Le
previsioni elaborate dal computer parlano di venti a 160 nodi e onde alte fino a quindici metri nel raggio di trecentocinquanta miglia. Si muove all'incredibile velocità di 20 nodi. Ti terrò informato. HEIDI Riprese a studiare le immagini dal satellite. Osservando un ingrandimento del fronte della tempesta, non poté non rimanere affascinata dalla sinistra bellezza di quelle vorticanti nuvole bianche che formavano il centro del sistema, i cirri trasformati in altissime pareti a protezione dell'occhio del ciclone. Non c'era altra forza naturale che potesse competere con la terrificante energia di un uragano nel suo massimo sviluppo. In quel caso, l'occhio si era formato in fretta e sembrava il cratere di un pianeta bianco. Le dimensioni medie di un occhio andavano da otto a oltre cento chilometri di diametro; quello di Lizzie era già di ottanta. Ma l'attenzione di Heidi era focalizzata sui millibar della pressione atmosferica; più basso era il valore, infatti, peggiore era la tempesta. Gli uragani Hugo del 1989 e Andrew del 1992 avevano una pressione, rispettivamente, di 934 e 922 millibar. Lizzie era già a 945 e stava scendendo in modo molto rapido, con un vuoto centrale che s'intensificava di ora in ora. Millibar dopo millibar, la pressione atmosferica percorreva in modo inesorabile la scala barometrica verso il basso. Inoltre, Lizzie si muoveva verso ovest a una velocità eccezionale. Gli uragani erano lenti; non superavano in genere i 12 nodi, ovvero la velocità media di una persona in bicicletta. Lizzie sembrava non volerne sapere di quelle regole fissate dai suoi predecessori. Spazzava il mare alla rispettabile andatura di 20 nodi e, contrariamente al solito, non seguiva un percorso a zig-zag, ma procedeva dritta come se avesse una meta precisa. Succedeva di norma che un uragano cambiasse direzione più volte, anche in modo repentino, ma Lizzie non aveva nessuna intenzione di attenersi al manuale. Se mai fosse esistita una tempesta in grado di decidere dove andare, pensò Heidi, quella era Lizzie. La donna non sapeva che il termine «uragano» era una parola di derivazione caraibica che significava «grande vento», ma forse Lizzie sì, visto che avanzava con l'energia di una bomba atomica portando tuoni, lampi e pioggia scrosciante. Alcune navi al largo, nell'oceano, iniziavano a presagirne la violenza.
Era mezzogiorno, un mezzogiorno di follia selvaggia. Il mare era passato dalla calma piatta a onde di nove metri in quello che al comandante della Monna Lisa, una nave da carico con bandiera nicaraguense, era sembrato un batter d'occhio. Si sentiva come uno che, aprendo una porta sul deserto, fosse stato investito da un'incredibile massa d'acqua. Il mare era cresciuto in pochi minuti e la brezza leggera si era trasformata in una burrasca di vento. Nei molti anni che aveva passato in mare, non aveva mai visto una tempesta svilupparsi con tanta rapidità. Non avendo porti nelle vicinanze in cui trovare riparo, il comandante decise di tagliare il vento e giocare d'azzardo: doveva passare il più velocemente possibile nel centro dell'uragano per avere qualche possibilità di uscirne senza troppi danni. Trenta miglia più a nord, sulla linea dell'orizzonte rispetto alla Monna Lisa, la superpetroliera egiziana Ramses II si trovò in balia dello stesso furore. Il comandante Warren Meade rimase pietrificato davanti a un'onda di trenta metri che, con una rapidità incredibile, spazzò la poppa della nave svellendo le battagliole e riversò tonnellate d'acqua nei boccaporti inondando gli alloggi dell'equipaggio e le stive. Sotto lo sguardo inorridito del personale della timoniera, l'immane massa d'acqua attraversò la possente struttura della nave, fece scendere la linea di galleggiamento di diciotto metri e spazzò i duecento metri di ponte, stritolando condotte e apparecchiature. Uno yacht di ventiquattro metri del proprietario di una società di informatica, in crociera verso Dakar, scomparve in pochi secondi con i dieci passeggeri e i cinque membri dell'equipaggio, senza nemmeno aver avuto il tempo di inviare un SOS. Prima di sera, una dozzina di altre navi avrebbe conosciuto la furia di Lizzie. Heidi e i suoi colleghi della NUMA iniziarono una serie di consultazioni e presero a studiare sempre più attentamente i dati del sistema. Ma la potenza di Lizzie non accennava a diminuire e, superati i 40 gradi di longitudine ovest, continuava senza alcuna esitazione la sua corsa rettilinea, ribaltando ogni precedente previsione. Alle tre, Heidi ricevette una telefonata del marito. «Come procede?» le chiese. «Vi stiamo passando gli ultimi dati elaborati», rispose lei. «I comunicati ufficiali hanno iniziato a uscire ieri sera.»
«Qual è il percorso dell'uragano?» «Che tu ci creda o no, sta procedendo dritto come una freccia.» Ci fu una pausa. «Questa è un'altra stranezza.» «Non si è spostato di oltre dieci miglia nelle ultime dodici ore.» Harley era perplesso. «Non si è mai sentito nulla di simile.» «E non hai ancora visto i dati», replicò Heidi, con tono sicuro. «Lizzie sta infrangendo tutti i record. Dalle navi arrivano notizie di onde alte trenta metri.» «Mio Dio! Che cosa mi dici delle previsioni del computer?» «Le dobbiamo cestinare non appena vengono elaborate. Lizzie non si comporta come i suoi predecessori e i programmi non sono in grado di prevederne il percorso e la forza con ragionevole certezza.» «Si tratta quindi dell'uragano del secolo.» «Direi piuttosto del millennio.» «Puoi fornirmi una qualsiasi indicazione, anche vaga, circa il luogo dove potrebbe colpire, così possiamo iniziare a mettere in allerta le varie autorità locali?» Il tono di Harley era diventato serio. «Potrebbe approdare in un qualsiasi punto fra Cuba e Puerto Rico. Se dovessi scommettere, in questo momento direi la Repubblica Dominicana. Ma la certezza ci sarà solo fra ventiquattr'ore.» «È comunque il momento di allertare quei Paesi.» «Considerata la velocità di Lizzie, direi che siamo già in ritardo.» «Ci mettiamo subito al lavoro.» «Harley?» «Sì, cara?» «Non torno a cena, stasera.» Heidi riusciva a immaginare il sorriso gioviale di Harley mentre rispondeva: «Nemmeno io, tesoro. Nemmeno io». Dopo aver riattaccato, la donna si sedette alla scrivania per alcuni minuti, osservando un enorme grafico della regione del nord Atlantico soggetta a uragani. Mentre esaminava le isole caraibiche più vicine al mostro in avvicinamento, le sembrò di dover ricordare qualcosa. Richiamò alcuni dati sulla tastiera, e sullo schermo apparvero l'elenco delle navi in mare, una loro breve descrizione e la posizione in quel momento. Ce n'erano più di ventidue che potevano essere investite dalla tempesta. Preoccupata dal fatto che una di quelle potesse essere una nave da crociera con migliaia di passeggeri a bordo, iniziò a scorrere i nomi uno per uno. Non trovò transatlantici sulla rotta di Lizzie, ma un nome la colpì. In un primo momento
pensò si trattasse di una nave, poi il ricordo affiorò chiaro nella sua mente: non era un'imbarcazione. «Mio Dio», gemette. Sam Moore, un meteorologo con gli occhiali spessi seduto alla scrivania accanto, alzò lo sguardo. «Ti senti bene? C'è qualcosa che non va?» Heidi si abbandonò sulla sedia. «L'Ocean Wanderer.» «È una nave da crociera?» Heidi scosse la testa. «No, è quell'hotel galleggiante; è ormeggiato esattamente sul percorso del sistema. Non sarà possibile spostarlo in tempo, è una specie di pesantissimo carrozzone.» «Le onde da trenta metri che ci sono state segnalate...» disse Moore. «Se una di quelle colpisce l'hotel...» La voce gli si spense in gola. Heidi saltò in piedi e corse alla sala comunicazioni, augurandosi al di là di ogni ragionevole speranza che la direzione dell'hotel avrebbe agito senza alcuna esitazione. Se così non fosse stato, migliaia di ospiti e persone dello staff sarebbero andati incontro a una morte spaventosa. 5 Dal mare non era mai sorto niente di così elegante, di così raffinato; niente che potesse nemmeno vagamente avvicinarsi al design unico, alla classe creativa di quel complesso. L'Ocean Wanderer era un'avventura che aspettava di essere vissuta, un'eccitante opportunità di contemplare le meraviglie sottomarine. Si ergeva dalle onde in tutto il suo splendore due miglia al largo della punta di Cabo Cabrón, la penisola sudorientale della Repubblica Dominicana. Riconosciuto da tutte le agenzie di viaggio come l'hotel più straordinario del mondo, era stato costruito in Svezia secondo criteri rigorosi e innovativi: esecuzione a regola d'arte, materiali dell'ultima generazione, superbe rappresentazioni della vita marina. Tutte le tonalità più ricche di verde, azzurro e giallo oro erano state impiegate per creare una struttura opulenta, magnifica all'esterno, stupefacente all'interno. La parte dell'edificio che si ergeva sopra la superficie del mare era stata predisposta in modo da riprodurre le morbide linee di una nuvola che scivolava sull'acqua. Raggiungeva i sessanta metri di altezza e, nei cinque piani superiori, ospitava gli alloggi e gli uffici delle quattrocento persone che componevano il personale, i magazzini per le merci, le cucine e gli impianti di riscaldamento e condizionamento.
Il complesso offriva una serie di possibilità di ristorazione ad alto livello: cinque ristoranti diretti da chef di fama mondiale, esotici piatti a base di pesce freschissimo da consumare in ambienti superbi, persino un catamarano per brevi crociere con cenetta romantica e tramonto sul mare. Disposti su tre livelli s'incontravano due saloni per gli spettacoli tenuti da artisti e presentatori famosi, una lussuosa sala da ballo con orchestra, un centro commerciale con boutique delle più grandi firme della moda e moltissimi negozi con proposte raffinate che difficilmente si potevano trovare sulla terraferma. Tutto, come ovvio, duty-free. Vi erano poi un cinema, con poltroncine imbottite e i film più recenti trasmessi via satellite, e un casinò che, anche se piccolo, superava le migliori proposte di Las Vegas; nelle sale da gioco, pesci colorati scrutavano gli ospiti con aria assente da acquari modellati intorno ai tavoli da gioco e dal soffitto di vetro che dominava la scena. Sempre nella sezione emersa, si trovava un centro termale fra i migliori al mondo, dove il personale specializzato era a disposizione per massaggi di ogni tipo e trattamenti del corpo tra i più raffinati. C'erano anche saune e bagni turchi decorati come giardini tropicali, con piante e fiori esotici dagli splendidi colori. I più sportivi potevano contare su campi da tennis e un percorso da golf sviluppato intorno al ponte superiore, da cui i giocatori potevano lanciare le palline verso buche galleggianti sul mare circostante, disposte a cinquanta metri l'una dall'altra. Gli amanti delle emozioni forti avevano a disposizione diversi spettacolari scivoli d'acqua raggiungibili con ascensori a tutti i livelli. Mozzafiato era quello che partiva dal tetto dell'hotel e scendeva a spirale fino al mare, quindici piani più in basso. Fra gli altri sport acquatici praticabili c'erano windsurf, jet-ski, sci d'acqua e, naturalmente, ogni genere di attività d'immersione condotte da istruttori professionisti. Venivano anche organizzate gite sottomarine alla barriera corallina o nei punti più profondi degli abissi, oltre che percorsi panoramici intorno alla parte sommersa del complesso. Professori universitari di scienze oceaniche tenevano lezioni sulla vita marina e sulla classificazione dei pesci. Ma ciò che rendeva l'hotel veramente magico era la bolla sottomarina che, come la parte sommersa di un iceberg artificiale, ospitava quattrocentodieci suite - perché l'Ocean Wanderer non aveva semplici stanze - dalle pareti panoramiche in vetro pressurizzato predisposte per godere di magnifiche viste sulla vita subacquea. L'arredamento era giocato sui toni del ver-
de e dell'azzurro, ma grazie a luci di vari colori si potevano ricreare atmosfere in sintonia con lo stato d'animo di ogni ospite. Grazie a quelle viste spettacolari, ci si ritrovava faccia a faccia con i più pericolosi predatori, squali e barracuda che flottavano nell'acqua; oppure si assaporava la compagnia di pesci tropicali, fra cui bellissimi scalari, pesci pappagallo e amichevoli delfini. Non di rado si vedevano epinefeli giganti e grandi mante nuotare con aggraziate meduse fra le accese ramificazioni dei coralli. Di notte, dal letto, si poteva assistere a veri e propri balletti ittici illuminati da luci colorate. A differenza delle molte navi da crociera che solcavano i mari, l'Ocean Wanderer non aveva motori. Era una vera e propria isola galleggiante ancorata a giganteschi pali d'acciaio conficcati nel fondo marino. Da quei pali partivano quattro robusti cavi che venivano agganciati automaticamente a dispositivi di bloccaggio posti sotto il complesso. Non esisteva, però, un unico punto di ormeggio. Consapevoli che i facoltosi ospiti di simili strutture di rado ripetevano le vacanze nello stesso luogo, i progettisti avevano predisposto una dozzina di basi di ancoraggio nelle località di mare più spettacolari del mondo. Cinque volte all'anno, due rimorchiatori da trentacinque metri si recavano all'appuntamento con l'Ocean Wanderer. A quel punto, i giganteschi serbatoi di galleggiamento venivano vuotati in modo che solo due piani rimanessero sott'acqua, i cavi venivano sganciati e i motori diesel Hunnewell da tremila cavalli dei rimorchiatori iniziavano il loro lavoro di traino fino a un nuovo paradiso tropicale. Gli ospiti potevano raggiungere l'hotel nella nuova destinazione o rimanere a bordo per il viaggio di trasferimento. Ogni quattro giorni, si effettuavano prove di evacuazione obbligatorie per ospiti e personale. Nel caso tutti i generatori fossero stati fuori uso, ascensori autoalimentati erano in grado di portare in breve tempo chiunque fosse a bordo sul ponte superiore, dove si trovavano lance di salvataggio dell'ultima generazione, capaci di affrontare condizioni estreme del mare. Grazie all'esperienza unica che veniva offerta e all'opulenza degli ambienti, l'Ocean Wanderer aveva già chiuso le prenotazioni per i successivi due anni. Ma quel giorno era speciale. La persona che aveva concepito quella meraviglia del mare stava arrivando per passare quattro giorni nell'hotel galleggiante. Una persona misteriosa come lo stesso mare. Una persona che era stata fotografata solo da lontano e di cui non si era mai vista la parte del viso sotto il naso né gli occhi, sempre protetti da lenti scure. Una per-
sona senza apparente nazionalità, senza un nome, più indecifrabile di un fantasma; e «Spettro» era appunto il nomignolo affibbiatole dalla stampa. Nessun cronista o giornalista era riuscito a scalfire, neanche superficialmente, il suo anonimato; non se ne conosceva l'età né la storia. L'unica notizia certa era che dirigeva Odyssey, un imponente impero finanziario legato alla ricerca scientifica e al settore edilizio con appendici in trenta Paesi, cosa che ne faceva una delle persone più ricche e potenti del mondo. Odyssey non aveva azionisti, non presentava bilanci né rapporti annuali; condivideva con la persona cui apparteneva la più completa segretezza. Alle quattro del pomeriggio, il silenzio che circondava la distesa del mare e la calotta azzurra del cielo fu lacerato dal sibilo di un jet. Un grande aereo passeggeri dipinto nel color lavanda ufficiale di Odyssey apparve a ovest. Gli ospiti dell'hotel osservavano curiosi il velivolo che volteggiava sopra di loro per consentire ai passeggeri di godersi lo spettacolo galleggiante dall'alto. Era un aereo davvero insolito, un Beriev Be-210 di fabbricazione russa, in origine concepito come mezzo anfibio da combattimento. All'interno era stato trasformato in un ambiente di lusso per il trasporto di diciotto passeggeri e quattro membri dell'equipaggio. I due motori BMW Rolls-Royce a turboelica gli assicuravano una velocità di oltre 400 nodi e la possibilità di atterrare e decollare in poco più di un metro d'acqua. Il pilota inclinò l'idrovolante per virare davanti all'hotel; poi scese, accarezzando l'acqua con la carlinga e con i due galleggianti laterali con la stessa maestosità di un cigno che conclude il suo volo. Il velivolo fu portato sino al molo galleggiante proteso davanti all'ingresso dell'edificio e ormeggiato con voluminose gomene lanciate dal personale di terra. Sul molo, delimitato da cordoni dorati, si trovava il comitato d'accoglienza, guidato da un uomo in giacca azzurro chiaro, con occhiali sul naso e una lucida testa pelata. Si trattava di Hobson Morton, il direttore esecutivo dell'hotel, un individuo pignolo che viveva per il suo lavoro, un metro e novantacinque di altezza per soli settantotto chili, soprannominato a sua insaputa lo «Stecco». Morton era stato convinto ad accettare quel posto dallo Spettro in persona, la cui filosofia era quella di circondarsi di collaboratori dall'aspetto più elegante del suo. Sulla banchina, la figura allampanata del direttore osservava immobile il gruppo di sei assistenti del capo che usciva dall'aereo, seguito da quattro uomini della sicurezza in tute da paracadutismo blu, che si predisposero in punti strategici.
Passarono diversi minuti prima che lo Spettro facesse la sua apparizione. A differenza di Morton, arrivava a poco più di un metro e sessanta di altezza, ma sembrava più piccolo, perché il corpo goffo e sovrappeso gli impediva di stare dritto. Camminava ondeggiando come una papera, del tutto simile a una grossa rana incinta che stesse cercando di raggiungere lo stagno. L'enorme ventre tirava un costoso completo bianco ben oltre il limite delle doppie cuciture e il capo era avvolto in un turbante di seta bianca dotato di falde che coprivano la bocca e il mento. Non c'era modo di intuirne i lineamenti, perché anche gli occhi erano occultati da impenetrabili lenti scure. Le persone con cui collaborava da vicino non riuscivano a immaginarsi come potesse vedere attraverso quelle due cortine, senza sapere che in realtà si trattava di specchi riflettenti solo all'esterno, come quelli delle sale interrogatori della polizia. Morton si fece avanti con un inchino formale. «Benvenuto all'Ocean Wanderer, signore.» Non si strinsero la mano. Lo Spettro reclinò il capo indietro per osservare la magnifica struttura in tutta la sua imponenza. Anche se aveva personalmente seguito la progettazione e le fasi di costruzione, non aveva ancora visto l'opera completata e in acqua. «Il risultato va ben oltre le mie più ottimistiche aspettative», disse, con un vago accento del Sudamerica e una voce sottile e melodiosa, in netto contrasto con la figura goffa; la prima volta che si erano incontrati, Morton si era in effetti aspettato qualcosa di più stridulo. «Sono certo che avrà la stessa opinione per gli interni», aggiunse il direttore, in tono compiacente. «Se vuole seguirmi, la accompagnerò per il giro d'onore prima di raggiungere la suite reale.» Lo Spettro annuì semplicemente e iniziò a trotterellare sul ponte dell'hotel, seguito dai suoi collaboratori. Nella stanza delle comunicazioni situata sul lato di un ampio corridoio opposto a quello degli uffici, un operatore stava controllando la trasmissione delle chiamate satellitari che arrivavano dalla sede centrale di Odyssey, fatta costruire dalla società nella città di Laguna, in Brasile, e dagli uffici in tutto il mondo. Una luce iniziò a lampeggiare sulla console; il tecnico rispose prontamente. «Qui Ocean Wanderer, posso esservi utile?» «Sono Heidi Lisherness, del Centro uragani della NUMA di Key West. Posso parlare con il direttore?»
«Mi spiace, ma in questo momento è impegnato nella visita dell'hotel con il suo ideatore e proprietario.» «Si tratta di una questione della massima urgenza. Mi faccia parlare con il suo più diretto collaboratore.» «Sono tutti impegnati nella visita.» «Allora la prego», lo scongiurò Heidi, «la prego vivamente di informarli che un uragano di Forza 5 si dirige verso il vostro complesso. Si sposta a una velocità incredibile e potrebbe colpire l'hotel già domattina all'alba. È imperativo, ripeto, imperativo, che facciate evacuare la struttura. Vi terrò informati con regolarità e sarò disponibile a questo numero per qualsiasi chiarimento.» L'operatore segnò doverosamente il numero del Centro uragani e poi rispose alle molte chiamate rimaste in attesa durante la comunicazione con Heidi. Non aveva compreso la gravità dell'avvertimento e aspettò la fine del turno, due ore più tardi, per riferirlo a Morton. Il direttore rilesse più volte il messaggio trascritto dal traduttore vocale dell'operatore prima di passarlo allo Spettro. «È un allarme meteorologico che arriva da Key West. Ci avvisano che un uragano è sulla nostra rotta e suggeriscono l'evacuazione generale.» Lo Spettro analizzò a sua volta il messaggio, si girò con un movimento impacciato verso una grande finestra e fissò l'orizzonte a est. Il cielo era limpido e il mare calmo, con onde non più alte di trenta-cinquanta centimetri. «Non affrettiamo la decisione. Se la tempesta segue i percorsi normali, virerà verso nord mancandoci di diverse centinaia di miglia.» Morton non ne era convinto. Era un uomo scrupoloso e coscienzioso, che preferiva essere cauto, piuttosto che doversi pentire. «Non credo, signore, che sia nel nostro interesse mettere a repentaglio la vita dei nostri ospiti e del personale. Rispettosamente suggerirei di avviare in fretta le procedure di evacuazione verso un luogo sicuro nella Repubblica Dominicana. Dovremmo anche richiamare i rimorchiatori per farci trainare il più lontano possibile dal centro della tempesta.» Lo Spettro osservò ancora una volta il cielo sereno, come per rassicurarsi. «Aspetteremo altre tre ore. Non voglio danneggiare l'immagine dell'hotel con storie di fughe di massa che verrebbero gonfiate dai media come l'abbandono di una nave che sta andando a fondo. Inoltre», aggiunse, aprendo le braccia come per comprendere simbolicamente il magnifico edificio, «il mio hotel è stato costruito per resistere a qualsiasi tempesta.» Morton pensò di accennare al Titanic, ma non lo fece. Lasciò lo Spettro
nella suite reale e tornò in ufficio a predisporre l'evacuazione che, ne era certo, si sarebbe resa necessaria entro poco tempo. Cinquanta miglia più a nord rispetto all'Ocean Wanderer, il comandante Barnum stava esaminando i rapporti meteorologici di Heidi Lisherness e, senza pensarci, guardò verso est, come aveva fatto lo Spettro. Al contrario di quest'ultimo, il comandante era più allenato a cogliere i segnali del mare e si accorse che il vento e le onde stavano aumentando, seppur lentamente. Aveva monitorato molte tempeste nella sua lunga carriera e sapeva che spesso attaccavano le ignare navi in modo subdolo, ingoiandole tra i flutti prima ancora che potessero rendersene conto. Afferrò la radio e si mise in comunicazione con Pisces. Dalle profondità marine arrivò una voce indistinta e impastata. «Summer?» «No, sono il fratello», rispose Dirk con un sorriso, regolando la frequenza. «Che cosa posso fare per te, comandante?» «Summer è a bordo?» «No, è fuori a controllare i serbatoi dell'ossigeno.» «C'è un allarme uragano da Key West. Si tratta di un Forza 5 che ci sta piombando addosso.» «Forza 5. Addirittura!» «Purtroppo sono davvero le brutte bestie di cui si parla nelle descrizioni teoriche. Ho visto all'opera un Forza 4 vent'anni fa, nel Pacifico. Non riesco a immaginare niente di peggio.» «Quanto abbiamo prima che ci investa?» chiese Dirk. «Le previsioni dicono che arriverà domattina alle sei, ma sembra che sia più veloce. Tu e Summer dovete raggiungere la nave al più presto.» «Non sono io che devo insegnarti le regole della compensazione, comandante. Siamo rimasti quaggiù per quattro giorni e avremo bisogno di almeno quindici ore di decompressione prima di poter ritornare alla pressione normale e uscire in superficie. Non ce la faremo mai prima dell'arrivo dell'uragano.» Barnum si rendeva conto della difficile situazione. «Noi non possiamo rimanere qui ad assistervi.» «A questa profondità dovremmo poter sopportare la tempesta senza grandi problemi», osservò Dirk con tono sicuro. «Non mi va di lasciarvi soli», dichiarò Barnum, preoccupato. «Forse dovremo razionare un po' il cibo, ma abbiamo riserve sufficienti di energia e ossigeno per resistere altri quattro giorni. Per allora, il peggio
sarà passato.» «Speravo aveste più autonomia.» Seguì una pausa di silenzio, poi Dirk domandò: «Abbiamo un'alternativa?» «No», sospirò Barnum. «Non c'è alternativa.» Guardò l'orologio digitale sopra il quadro di comando della nave. La sua preoccupazione era quella di doversi allontanare troppo e di non riuscire a ritornare in tempo per salvare i due ragazzi. Si sentiva preso in una morsa: se avesse perso i figli di Dirk Pitt, nessuno avrebbe potuto fermare la rabbia del direttore dei progetti speciali della NUMA. «Fate tutto ciò che potete per prolungare la riserva d'ossigeno il più a lungo possibile.» «Non ti preoccupare, comandante. Summer e io staremo come topi nel formaggio nel nostro piccolo guscio fra i coralli.» Barnum non era tranquillo. Non c'era nessuna garanzia che Pisces potesse reggere l'impatto delle onde di trenta metri generate dalla furia di un uragano di Forza 5. Osservò ancora l'orizzonte a est. Nuvole minacciose si stavano addensando e il mare era cresciuto ulteriormente. Con grande rammarico e un cupo presagio nel cuore, impartì l'ordine di issare l'ancora e di abbandonare la rotta prevista dell'uragano. Quando Summer rientrò alla base, Dirk la informò della tempesta in arrivo e la istruì su come razionare aria e cibo. «Dobbiamo anche fissare gli oggetti nel caso venissimo sballottati dalle onde.» «Quanto manca all'arrivo dell'uragano?» chiese Summer. «Secondo il comandante, ci piomberà addosso prima dell'alba.» «Quindi c'è tempo per un'ultima uscita con me prima di rimanere imprigionati qui dentro ad aspettare che le condizioni migliorino.» Dirk rivolse uno sguardo alla sorella. Un altro uomo, meno deciso, si sarebbe lasciato irretire dalla bellezza della ragazza, ma non il suo gemello. «Che cos'hai in mente?» chiese con tono distratto. «Voglio dare un'altra occhiata alla grotta dove ho trovato il manufatto.» «Riusciresti a ritrovarla anche al buio?» «Come una volpe ritrova la sua tana», dichiarò Summer, sicura. «E poi ti è sempre piaciuto osservare i pesci notturni, quelli che di giorno non puoi incontrare.» Aveva toccato il tasto giusto. «Facciamo in fretta. Abbiamo molto da fare prima dell'arrivo dell'uragano.» Summer passò il braccio sotto quello del fratello. «Non te ne pentirai.»
«Perché me lo dici?» La ragazza fissò Dirk con i grandi occhi grigi. «Perché, più ci penso, più credo che il mistero di quell'oggetto sia veramente importante e aspetti di essere scoperto in quella grotta.» 6 Dirk e Summer uscirono l'uno dopo l'altra dalla camera stagna. Effettuato un controllo incrociato dell'equipaggiamento, scivolarono in un mare più scuro dello spazio infinito. Accesero le lampade da immersione illuminando i pesci notturni usciti in cerca di cibo fra i coralli. L'assenza di luna privava l'acqua degli abituali bagliori argentei e anche le stelle erano coperte da nuvole cariche di tristi presagi, nefaste messaggere della tempesta che si stava avvicinando. Dirk nuotava dietro la sorella, seguendola in quel mondo vuoto e buio. Intuiva il piacere che la ragazza traeva dall'immersione dai movimenti aggraziati e languidi e ne riconosceva l'esperienza dalle bolle regolari che sfuggivano dal respiratore. Summer si voltò a guardarlo attraverso la maschera, poi si diresse verso destra sfiorando i coralli che, alla luce delle lampade, sembravano sbiaditi. Niente di quel mondo acquatico avvolto nel silenzio era sinistro. I pesci, incuriositi dalla luce delle lampade, uscivano dai nascondigli corallini per scrutare quelle creature insolite e sgraziate, esseri racchiusi in tane sigillate che rilucevano come il sole e invadevano il loro territorio. Sei barracuda lunghi più di un metro si materializzarono nell'oscurità, le mascelle inferiori sporgenti e delineate da file di denti affilati come coltelli. Ignorarono i due ragazzi e scivolarono via senza mostrare il minimo interesse. Summer nuotava tra le formazioni coralline come se stesse seguendo un preciso percorso. Un piccolo pesce palla, infastidito dalla sua presenza, si gonfiò sino a diventare rotondo e mettere in mostra gli aculei simili alle spine di un cactus; nessun predatore sarebbe stato così maldestro da ingoiare un boccone tanto pericoloso per le sue viscere. Le luci creavano ombre eteree e baluginanti sulle superfici irregolari dei coralli, a volte frastagliate e affilate, a volte rotonde e morbide. A Dirk, quel gioco di forme e tonalità faceva venire in mente una composizione pittorica astratta. Mentre consultava il profondimetro, che segnava tredici metri, vide Summer infilarsi all'improvviso in uno stretto corridoio fra ripide pareti di coralli. La seguì, non senza notare che vi erano moltissime
grotte: quale poteva avere attratto la sorella il giorno prima? Finalmente la ragazza si fermò davanti a un'apertura dagli angoli squadrati, con due colonne sui lati che non sembravano opera della natura. Dopo essersi accertata che Dirk fosse alle sue spalle, s'infilò senza esitazione nella grotta. In quella seconda esplorazione si sentiva confortata dalla luce della torcia e dalla presenza del fratello e si spinse sicura ben oltre il punto in cui aveva scoperto l'anfora. La grotta non presentava asperità; aveva pareti, soffitto e fondo perfettamente piani e lisci e si protendeva dritta come un corridoio, senza curve o deviazioni. S'inoltrava sempre più in profondità, come se non avesse fine. La causa principale d'incidenti mortali nelle caverne sottomarine era l'impossibilità di ritrovare la via d'uscita; anche il minimo errore poteva dimostrarsi fatale. In quel caso, invece, non c'erano problemi di orientamento, nessun complesso sistema di gallerie in cui perdersi, nessuna apertura laterale o ramificazioni secondarie. Per raggiungere l'uscita, dovevano solo girarsi e tornare sui loro passi. Inoltre, il fondo non era cosparso di quella sabbia fine che, una volta sollevata, oscurava a lungo la visuale; la ghiaia che lo ricopriva era troppo pesante per alzarsi con il semplice movimento delle pinne. Il corridoio terminò di colpo con una struttura che stuzzicò la fantasia di Summer; benché ricoperta da incrostazioni e vegetazione, sembrava proprio essere una scalinata. Una fila di scalari si avvolse a spirale sopra la testa della ragazza, per poi sfrecciare via quando lei iniziò a salire. Sentì il sangue affluirle alle guance dall'eccitazione: la sua intuizione che in quella grotta ci fosse più di quel che gli occhi potessero vedere si stava dimostrando vera. Il corallo si faceva sempre più sottile. Senza la luce che ne incoraggiasse la crescita, le incrostazioni sui lati del corridoio erano più sottili di due centimetri e perlopiù formate da alghe. Dirk ripulì un pezzetto della parete con il guanto e il suo cuore accelerò i battiti quando riconobbe delle scanalature nel granito che si poteva ipotizzare fossero state incise da antiche mani, quando il livello del mare era più basso. Poi udì la voce distorta di Summer che emetteva un grido. Si precipitò verso di lei e, con sommo stupore, si ritrovò fuori dell'acqua, in una specie di sacca d'aria. Rivolse lo sguardo verso l'alto e, illuminata dalla torcia della sorella, notò una volta in pietra, costruita secondo una tecnica a incastro, per reggersi senza malta.
«Che cos'è questa cosa?» Dirk parlava attraverso il microfono del sistema di comunicazione. «Un capriccio della natura oppure una volta costruita dall'uomo», mormorò Summer, con voce sgomenta. «Questo non è un capriccio della natura.» «Potrebbe essere rimasta sommersa quando si sono sciolti i ghiacci dell'era glaciale.» «È successo diecimila anni fa. Non può essere così antica. È più probabile che la volta sia affondata in seguito a un terremoto come quello che ha colpito Port Royal, in Giamaica, quel covo di pirati che è sprofondato nel mare in seguito alla catastrofe del 1692.» «Si potrebbe trattare di una città fantasma dimenticata», azzardò Summer, sempre più eccitata. Dirk scosse la testa. «A meno che non ci sia dell'altro sotto i coralli, il mio istinto mi dice che doveva essere una sorta di tempio.» «Costruito dalle antiche popolazioni caraibiche?» «Ne dubito. Nelle Indie occidentali gli archeologi non hanno trovato prove dell'uso di tecniche di costruzione in pietra precedenti all'arrivo di Colombo. Inoltre, i popoli locali non erano in grado di forgiare un oggetto in bronzo. Si tratta dell'opera di un'altra cultura, una civiltà perduta e sconosciuta.» «Non mi dirai che ci ritroviamo di fronte a un altro mito di Atlantide?» replicò ironicamente Summer. «No, nostro padre e Al hanno già stabilito, diversi anni fa, che si trovava nell'Antartide.» «È davvero incredibile che antiche popolazioni europee possano aver attraversato l'oceano e costruito un tempio nella barriera corallina.» Dirk stava passando il guanto sulla parete, con delicatezza. «Il Banco de la Navidad era probabilmente un'isola a quell'epoca.» «Pensa, Dirk», disse Summer, «stiamo respirando aria vecchia di migliaia di anni.» Il ragazzo trasse un profondo respiro. «Mi sembra comunque ottima.» Summer indicò le sue spalle. «Aiutami a prendere la videocamera. Dobbiamo immortalare questa eccezionale scoperta.» Dirk si spostò dietro di lei e prese una scatola di alluminio appesa sotto le bombole. Ne estrasse una videocamera digitale Sony PC-100 miniaturizzata e inserita in una custodia in policarbonato trasparente di marca Ikelite. La predispose sul modo manuale per le riprese fotografiche e inserì i
bracci di supporto dei faretti. Non essendoci luce naturale, non era necessario usare un esposimetro. La camera a volta dava un'impressione di grandiosità e Summer era abbastanza abile con la videocamera per riuscire a rendere l'idea. Nel momento in cui accese le luci, la grigia cavità si trasformò in un tripudio di verdi, gialli, rossi e viola riflessi dalle concrezioni sulle pareti. Tranne che per una lieve increspatura, l'acqua era cristallina. Mentre Summer fotografava la stanza sopra e sotto l'acqua, Dirk s'immerse e cominciò a esplorare il pavimento lungo il perimetro delle pareti; le luci della videocamera creavano immagini tremolanti e irreali. In un angolo, chiusa fra due pareti, vi era un'apertura non più larga di sessanta centimetri che il giovane rischiò di non vedere. Vi s'infilò a malapena, anche a causa delle bombole, e procedendo con la torcia dritta davanti a sé giunse in un'altra stanza, leggermente più ampia della precedente, con sedili ricavati nelle pareti e quello che sembrava un catafalco in pietra al centro. Lo illuminò e solo allora si accorse che vi era appoggiato un oggetto arrotondato, con due aperture sui fianchi e un foro più piccolo sul lato superiore più corto. Sembrava la corazza di un'armatura. Dalla parte della testa si vedeva una catena d'oro, con due bracciali a spirale ai lati, e ancora oltre un copricapo in metallo finemente lavorato e completato da una corona. Dirk cercò d'immaginarsi l'uomo che doveva giacere in quel punto con gli oggetti addosso. Al posto delle gambe c'erano due schinieri in bronzo, sul lato sinistro una spada e un pugnale e sul destro la punta di un giavellotto cui mancava l'asta. Il corpo si era sicuramente dissolto ormai da lungo tempo, consumato dagli organismi marini che si occupavano di eliminare la materia organica. Ai piedi del catafalco c'era un grande braciere. Poco più alto di un metro e venti, aveva un diametro tale che Dirk non riusciva a circondarlo con le braccia. Il giovane batté il manico del suo coltello da sub contro il fianco dell'oggetto e sentì un sordo rumore metallico. Bronzo, pensò. Scrostò un punto della superficie esterna e gli apparve la figura di un guerriero nell'atto di scagliare la lancia; continuò allora il lavoro di pulizia finché non venne alla luce un intero esercito in bassorilievo, uomini e donne in assetto da battaglia, con scudi alti come persone e lunghe spade, oppure con lance dall'asta corta e una lunga punta a spirale. Alcuni indossavano armature che proteggevano il corpo, altri combattevano nudi, ma quasi tutti portavano grandi elmi, spesso con lunghe corna.
Dirk raggiunse il bordo del braciere e illuminò l'interno. Una massa intricata di manufatti ancora riconoscibili lo riempiva quasi fino all'orlo. C'erano punte di lancia in bronzo, lame di pugnali dall'impugnatura ormai consunta, asce a singolo o doppio taglio, bracciali a spirale e cinture a catena. Il ragazzo era deciso a non toccare niente, ma non resistette alla tentazione di prelevare un piccolo oggetto che trattenne un attimo fra le dita. Poi si spostò verso un passaggio ad arco che si trovava sul lato opposto di quella che ormai aveva capito dover essere una stanza da letto trasformata in camera mortuaria. Il nuovo ambiente si rivelò una cucina. Era interamente sommersa e le bolle prodotte dal respiratore di Dirk salivano verso l'alto come informi ruscelli di mercurio. Pentole in bronzo, anfore, ciotole e vasi erano sparsi sul pavimento insieme con cocci di stoviglie d'argilla. A fianco di quello che doveva essere il camino, trovò delle pinze da fuoco e un grande mestolo, in parte coperti dalla sabbia che si era infiltrata nei millenni. Esaminò con cura gli oggetti interi e i pezzi di quelli rotti nel tentativo di distinguere una lavorazione particolare, ma la sabbia era troppa e le incrostazioni secolari ricoprivano tutto. Poiché non vedeva altre stanze, ritornò sui suoi passi e raggiunse Summer, che stava fotografando ogni minimo dettaglio della parte della camera a volta sommersa dall'acqua. Le toccò il braccio per farla riemergere e poi le disse, con grande eccitazione: «Ho trovato altre due stanze». «La faccenda si fa sempre più interessante», replicò Summer, senza staccare l'occhio dal mirino. Dirk sorrise in modo malizioso e le mostrò un pettinino femminile in bronzo. «Passalo fra i capelli e immagina di essere l'ultima donna che l'ha usato.» Summer abbassò la videocamera e fissò l'oggetto nelle inani del fratello. Visibilmente emozionata, lo prese con delicatezza e mormorò: «È delizioso». Stava per passarlo fra alcune ciocche dei capelli rosso fiamma che le sfioravano il viso, quando la sua espressione divenne seria. «Dovresti riportarlo dove lo hai preso. Quando gli archeologi esamineranno questi ambienti, e lo faranno sicuramente, sarai accusato di essere un ladro di reperti.» «Se avessi una fidanzata, scommetto che lo terrebbe.» «L'ultima della tua lunga lista di fidanzate avrebbe rubato la cassetta delle elemosine in chiesa.»
Dirk finse indignazione. «Quel risvolto canagliesco di Sara la rendeva irresistibile.» «Sei fortunato che papà conosca le donne meglio di te.» «Che cosa c'entra lui con Sara?» «Le ha dato il benservito quando si è presentata all'hangar a chiedere di te.» «Ecco perché non ha più risposto alle mie chiamate», disse Dirk, senza il minimo rammarico. Summer gli lanciò uno sguardo minaccioso, poi riesaminò il pettine, cercando d'immaginarsi l'ultima donna che lo aveva toccato, chiedendosi che capelli avesse, come li acconciasse. Dopo qualche istante, depose delicatamente l'antico reperto sul palmo della mano del fratello per fotografarlo. Dopo una serie di scatti ravvicinati, il pettine fu riportato al suo posto. Summer seguì Dirk nelle altre stanze dove scattò più di trenta foto alla camera mortuaria e agli oggetti che conteneva prima di passare alle riprese della cucina. Soddisfatta del dettagliato servizio fotografico sul misterioso sito sommerso e su ciò che conteneva, passò la videocamera al fratello, che smontò i faretti e la ripose nella scatola di alluminio. Per evitare qualsiasi pericolo di perdita o danneggiamento, non la riattaccò sotto le bombole di Summer, ma la tenne saldamente in mano. Poi la ragazza controllò i manometri e stabilì che avevano un'ampia riserva d'aria per il ritorno. Addestrati dal padre, i due giovani erano subacquei prudenti, che non si sarebbero mai lasciati sorprendere dalla mancanza d'aria. Imboccarono la via del ritorno. Questa volta fu Dirk a procedere in testa, perché aveva memorizzato il percorso tra gli anfratti dei coralli. Quando furono finalmente al sicuro all'interno del laboratorio, le onde in superficie si erano fatte grosse, scosse da un vento sempre più forte che le portava in alto prima di sbatterle contro la scogliera, con la forza di un martello pneumatico. Dirk preparò la cena, ma entrambi i gemelli non vedevano l'ora di risolvere l'enigma del misterioso tempio sottomarino. Cenarono nel tentativo di tranquillizzarsi e non pensare al pericolo incombente, ma nessuno dei due si rendeva realmente conto di quanto fossero in realtà vulnerabili anche a quindici metri di profondità. Non potevano sapere che i vortici formati da onde alte più di trenta metri avrebbero esposto la loro stazione alla terrificante forza distruttiva della tempesta. 7
Sferzato da venti ululanti e da scrosci di pioggia e grandine, sballottato da correnti ascensionali e discendenti che creavano incredibili turbolenze, l'Orion P-3, un vecchio «cacciatore di uragani» di ventinove anni, si tuffò nel cuore del vorticoso sistema come se fosse una tranquilla passeggiata. Le ali sbattevano e si flettevano come la lama di uno spadaccino, ma le grandi eliche dei quattro motori Allison da quattromilaseicento cavalli sfidavano il diluvio a 300 nodi. Costruito nel 1976, era stato riconosciuto dalla marina, dalla NOAA (National Oceanic and Atmosphere Administration) e dalla NUMA come il velivolo migliore per resistere alla violenza di un uragano. Incredibilmente stabile, Galloping Gertie, come veniva chiamato in modo affettuoso a causa della ragazza in groppa a un recalcitrante cavallo selvaggio dipinta sulla carlinga, aveva a bordo venti persone: due piloti, un navigatore e un meteorologo, tre ingegneri esperti in comunicazioni elettroniche, dodici scienziati e un giornalista di una televisione locale, che aveva chiesto di essere imbarcato quando aveva saputo che l'uragano Lizzie avrebbe infranto molti primati. Jeff Barrett era tranquillo al suo posto di pilota, ma controllava il quadro comandi quasi ogni minuto. Erano in volo da sei ore e dovevano restarci per altre quattro. Gli indicatori luminosi e gli strumenti erano l'unica cosa che si potesse guardare, perché lo spettacolo oltre il parabrezza era simile a quello offerto dal programma di centrifuga di una lavatrice. Sposato e con tre figli, Barrett non vedeva nel suo lavoro un pericolo maggiore di quello che avrebbe affrontato nel guidare un camion dei rifiuti in città. Ma il pericolo, anche mortale, c'era, e si annidava fra i turbini d'acqua che si abbattevano sull'aeroplano, soprattutto quando Barrett volava così basso sulla superficie del mare che gli spruzzi salati delle eliche ricoprivano il parabrezza di una patina simile al ghiaccio, sinché l'aereo non risaliva fino a duemila metri di quota entrando e uscendo dal punto peggiore della tempesta. La penetrazione ad avvitamento era la più efficace per registrare e analizzare la forza dell'uragano. Era un lavoro che richiedeva coraggio. Fra gli scienziati, lo studio degli uragani era una precisa specializzazione, perché non poteva essere compiuto a distanza. Si trattava di gettarsi nell'arena e affrontare faccia a faccia la tempesta, non una, ma dieci volte. Volavano senza batter ciglio in condizioni estreme per controllare la velocità e la direzione dei venti, per valutare l'intensità della pioggia, la pres-
sione atmosferica e una serie di altri valori che in seguito inviavano ai centri di studio degli uragani, dove i dati venivano elaborati secondo modelli consolidati. I meteorologi potevano così fare previsioni sulla potenza della perturbazione e allertare i centri abitati che si trovavano sulla presunta rotta del tifone, in modo da organizzarne l'evacuazione e salvare innumerevoli vite umane. Barrett se la cavava egregiamente contro le forze atmosferiche grazie ai comandi modificati per resistere alle eccezionali turbolenze, ma prima di fare qualsiasi cambiamento di rotta controllava i dati elaborati dal GPS. Si rivolse al suo copilota: «Questo uragano è veramente una brutta bestia», disse, mentre l'Orion subiva un brusco sobbalzo a causa di un improvviso colpo di vento. L'equipaggio comunicava via microfono e riceveva in cuffia. Senza quelli, si sarebbe dovuto urlare nell'orecchio dell'interlocutore per farsi sentire, perché i boati del vento erano così forti da sovrastare il rombo dei motori. L'uomo slanciato seduto al posto del copilota stava bevendo con la cannuccia un caffè da una tazza chiusa con coperchio. Preciso e meticoloso, Jerry Boozer si vantava di non aver mai fatto cadere una goccia di liquido o una briciola di panino nella cabina dell'aereo durante una tempesta. Annuì per rispondere a Barrett. «È il peggiore che abbia mai visto nei miei otto anni di servizio a caccia di uragani.» «Non vorrei davvero vivere in una delle località che incontrerà sul suo cammino.» Boozer prese il microfono e disse: «Ehi, Charlie, che cosa dicono di questo vento i tuoi magici strumenti?» Nel vano posteriore riservato agli scienziati, stipato di strumenti e sofisticati sistemi di rilevamento meteorologico, Charlie Mahoney, un ricercatore dell'università di Stanford, era saldamente legato sul sedile davanti a una foresta di sensori per la misurazione di temperatura, umidità, pressione, velocità del vento e flussi. «Non ci crederete mai», rispose, con un accento georgiano, «ma la sonda ha appena registrato una velocità orizzontale fino a 220 nodi.» «Non c'è da stupirsi che il vecchio Gertie sia così instabile.» Non aveva ancora finito di parlare, che il vento cessò e il sole colpì la carlinga color alluminio. Avevano raggiunto l'occhio del ciclone, dove il cielo si rifletteva nel sottostante mare in tempesta. Era come se stessero volando in un enorme ci-
lindro con nuvole turbinanti al posto delle pareti e Boozer si sentiva risucchiato in un immenso vortice che scendeva dritto sino all'inferno. Barrett inclinò l'aereo e volò in cerchio nel grande tunnel, per permettere agli scienziati di elaborare i loro dati. Dopo circa dieci minuti, virò e si diresse deciso dentro la grigia parete nuvolosa. La carlinga venne di nuovo scossa come se fosse attaccata dalla più potente furia divina. Poi, all'improvviso, la fiancata destra fu colpita da quello che sembrò il pugno di un gigante e l'aereo s'inclinò violentemente. Tutto ciò che nella cabina di pilotaggio non era fissato - mappe, documenti, tazze del caffè, cartellette - venne scaraventato sulla paratia destra. Non era passato nemmeno un minuto che un colpo di vento ancora più potente cominciò a far turbinare il velivolo come un aeroplanino giocattolo legato a un filo, scagliando tutto quanto era caduto sul lato opposto della cabina. I due piloti si sentirono come palle da tennis colpite dalla racchetta e violentemente ribattute dalla rete di fondo campo. Erano pietrificati. Nessuno di loro aveva mai sperimentato la collisione con raffiche di una simile potenza, soprattutto non due nel giro di pochi secondi. Non si era mai visto niente di simile. L'Orion iniziò a vibrare e a precipitare senza controllo, inclinato sulla sinistra. Accortosi di un'improvvisa perdita di potenza, Barrett guardò preoccupato il quadro di comando, mentre lottava per recuperare l'assetto. «Non ho più riscontro dal motore numero quattro. Puoi vedere se sta ancora girando?» «Mio Dio», mormorò Boozer, guardando fuori del finestrino laterale. «Il numero quattro è andato!» «Chiudi il contatto», urlò Barrett. «Non c'è niente da chiudere, è proprio volato via.» Ma il comandante era troppo concentrato nel tentativo di raddrizzare il velivolo per capire la gravità di ciò che aveva detto Boozer. Cercava di girare la cloche e litigava con i pedali, ma sentiva che qualcosa di tremendo era successo nell'aerodinamica dell'aereo. I comandi non rispondevano, le manovre erano estremamente rallentate, come se una corda gigantesca fosse legata all'ala destra e la stesse tirando indietro. Quando infine Barrett riuscì a rimettere Gertie diritto, le parole di Boozer iniziarono a palesarsi nella sua mente. Un motore era stato letteralmente strappato dall'ala dal violento assalto della tempesta e ciò aveva provocato la resistenza sul lato destro che aveva destabilizzato l'Orion. Si sporse in avanti per guardare oltre il copilota.
Al posto del motore Allison c'era una massa di lamiere contorte, tubi e condotte idrauliche strappati, cavi elettrici attorcigliati. Il pilota non si spiegava come potesse essere successo: i motori non si staccavano dagli aerei, neanche nelle peggiori perturbazioni. Poi la sua attenzione fu attirata dalla trentina di fori lasciati nella carlinga dai bulloni sradicati; sempre più preoccupato, si accorse che il metallo dell'ala si stava incrinando in diversi punti. Una voce arrivò dal settore posteriore attraverso le cuffie. «Abbiamo dei feriti e la maggior parte degli strumenti è danneggiata.» «Chi è ancora in grado di farcela cerchi di aiutarli. Ci stiamo dirigendo verso la base.» «Se riusciamo ad arrivarci», aggiunse Boozer, con pessimismo. Indicò fuori del finestrino dalla parte di Barrett. «Il numero tre è in fiamme.» «Chiudi il contatto!» «Praticamente già fatto», rispose il copilota senza scomporsi. Barrett fu tentato di chiamare la moglie per dirle addio, ma non aveva intenzione di mollare, anche se per portare il malconcio Gertie e il suo pesto equipaggio fuori da quella tempesta ci sarebbe voluto un miracolo. Iniziò a pregare silenziosamente mentre metteva a frutto ogni briciolo della sua esperienza per tentare di raggiungere il sereno. Se fossero riusciti a uscire da quel vortice, il resto sarebbe venuto da sé. Dopo venti minuti, il vento e la pioggia iniziarono a diminuire e le nuvole divennero meno dense. Poi, quando ormai pensavano di essere al sicuro, Lizzie colpì di nuovo con una raffica che si abbatté sul timone, togliendo ai due piloti anche il residuo controllo del velivolo. La scommessa di riuscire a rientrare alla base era ormai definitivamente persa. 8 L'oceano è, per la maggior parte del tempo, un mare tranquillo. Onde non più alte di un metro, che sembrano non finire mai, richiamano alla mente l'immagine di un gigante addormentato, il cui torace si solleva e ricade al ritmo del suo respiro. È una visione che ha spesso ingannato i meno accorti. Quante volte, infatti, i marinai sono andati a dormire con il mare tranquillo e il cielo sereno e sono stati risvegliati da violente tempeste, intente a inabissare le navi sul loro cammino? L'uragano Lizzie era una di quelle, con tutti i numeri per provocare im-
mani disastri. Se al mattino era sembrato un bambino noioso, a mezzogiorno si era già trasformato in un discolo poco controllabile e per sera aveva l'aspetto di un irrecuperabile delinquentello. I venti erano passati in un batter d'occhio da 220 a 250 nodi. L'acqua, sollevata fino a trenta metri di altezza, aveva formato onde gigantesche che avanzavano inesorabili verso il Banco de la Navidad e la Repubblica Dominicana, la loro prima meta sulla terraferma. L'ancora era quasi del tutto issata e la Sea Sprite stava per partire, quando Paul Barnum si girò a guardare il mare verso est per quella che era forse la ventesima volta. Fino a quel momento non aveva notato cambiamenti, ma adesso, all'orizzonte, fra la linea azzurro chiaro del mare e quella blu zaffiro del cielo si era infiltrata una striscia grigio scuro, simile alla linea minacciosa che si formava nel deserto quando era in arrivo una tempesta di sabbia. Barnum fissò l'incubo che avanzava, sorpreso di quanto veloce fosse il suo sviluppo. Non aveva mai sentito, né aveva mai pensato possibile, che una tempesta potesse procedere come un treno ad alta velocità. Non fece in tempo a inserire i dati nel computer per prevederne il tragitto e la crescita, che già il sole veniva coperto da una nuvola carica di funesti presagi e il cielo diventava color piombo, come il fondo di una padella bruciata. Nelle otto ore che seguirono, la Sea Sprite procedette al massimo della sua potenza, in quello che Barnum considerava il futile tentativo di mettere quante più miglia potesse tra il suo scafo e gli affilati scogli del Banco de la Navidad. Quando infine si rese conto che stava per essere raggiunto, adottò la tattica più efficace per cercare di sopravvivere: si diresse senza esitazione verso la tempesta, contando che la nave sarebbe riuscita a passarci attraverso. Batté la mano sul timone con un gesto affettuoso, come se l'imbarcazione fosse un essere vivente e non un oggetto di freddo metallo. Era una nave robusta, che aveva sopportato veramente di tutto negli anni di servizio al polo Nord. Sarebbe stata strapazzata e sbatacchiata, ma il comandante non aveva dubbi sulla sua sopravvivenza. Si rivolse al suo primo ufficiale, Sam Maverick, che con i lunghi capelli rossi, la barba incolta e l'orecchino all'orecchio sinistro sembrava un alternativo dei tempi del liceo. «Imposti una nuova rotta, signor Maverick: 85 gradi est. Visto che non possiamo seminarla, andiamo dritti incontro alla furia.» Maverick osservò le onde che superavano il ponte di almeno quindici metri e scosse la testa. Guardò Barnum come se pensasse che il comandan-
te avesse perso il lume della ragione. «Vuole affrontare un mare del genere, signore?» chiese scandendo le parole. «Non ci sarà più un altro momento favorevole», replicò Barnum. «Meglio adesso che quando arriveranno le onde davvero pericolose.» Era una delle situazioni più spaventose che un comandante dovesse affrontare. Per un tempo che sarebbe parso interminabile, lo scafo, nel prendere le onde lungo l'intera murata, avrebbe ondeggiato come un'altalena, in balia di una massa d'acqua che avrebbe potuto rovesciarlo da un momento all'altro. Nei secoli, molte navi si erano capovolte durante simili manovre ed erano scomparse nei flutti. «Le affiderò il comando nell'intervallo fra un'ondata e l'altra, e in quel preciso momento dovrà dare la massima potenza.» Poi parlò nel microfono dell'altoparlante. «Stiamo per affrontare una situazione molto pericolosa. State calmi e non perdetevi d'animo.» Attaccato al quadro comandi davanti alla vetrata della plancia, Barnum scrutava il mare senza distrarsi un istante. Aspettò immobile, con incrollabile pazienza, finché non vide un'onda più alta di quelle sinora incontrate. «Massima potenza, forza, signor Maverick.» L'ufficiale obbedì prontamente, ma davanti all'immane massa d'acqua che si abbatté su di loro pensò con orrore che la nave fosse spacciata. Stava per maledire Barnum per aver virato troppo presto, quando capì le intenzioni del comandante. Non c'erano intervalli regolari; le ondate sembravano confluire l'una nell'altra, come soldati che marciassero in formazione compatta. Barnum aveva azzardato una manovra anticipata, guadagnando così un prezioso minuto nel momento in cui la nave si metteva parallela al filo dell'onda. L'implacabile massa liquida sollevò la prua e fece quasi ribaltare la Sea Sprite a sinistra, prima di riversarsi ovunque. Per quindici interminabili secondi, mentre lottava per avanzare sotto l'incombente cresta, la nave fu sopraffatta dalla bianca furia; poi iniziò la lenta discesa, pesantemente inclinata a sinistra, con il mare che inondava il ponte. Con mortale lentezza, raggiunse quasi per miracolo il solco fra le due onde e riprese la sua marcia, beccheggiando tra i flutti. Maverick era in servizio sulle navi da diciotto anni, ma non aveva mai visto una dimostrazione di abilità marinaresca più professionale e intuitiva. Osservava il comandante e fu sorpreso di scorgere un sorriso, seppure tirato, sul suo volto. Mio Dio, pensò, si sta davvero divertendo.
Cinquanta miglia a sud della Sea Sprite, il margine esterno dell'uragano Lizzie stava per abbattersi sull'Ocean Wanderer. L'avanguardia si era già fatta viva con nubi minacciose, che avevano trasformato il mare in una cupa e irreale distesa. Poi era arrivata la pioggia, fitta e battente, che aveva colpito le finestre dell'hotel come una scarica di mitraglia. «Troppo tardi!» esclamò esasperato Morton, mentre, dalla finestra del suo ufficio, osservava la perturbazione avanzare con la stessa furia di un tirannosauro Rex assetato di sangue. Nonostante gli avvertimenti e i costanti aggiornamenti da parte di Heidi Lisherness e del Centro uragani, il direttore non riusciva a capacitarsi dell'incredibile velocità con cui la tempesta aveva viaggiato dal mattino. Anche se aveva ricevuto continue previsioni sulla crescita dell'uragano, non gli sembrava possibile che il mare e il cielo, fino a qualche istante prima del tutto tranquilli, si fossero trasformati in nemici in così poco tempo. Non poteva credere che Lizzie fosse già lì, pronta ad assalire il complesso. «Chiama tutti i responsabili del personale a raccolta nella sala conferenze!» ordinò con tono secco al segretario mentre entrava nel suo ufficio. La rabbia nei confronti dello Spettro si stava trasformando in acceso furore. L'indecisione di quell'uomo aveva fatto perdere l'ultima speranza di poter portare in salvo nella Repubblica Dominicana le millecento persone presenti nell'hotel, fra ospiti e personale. La collera divampò quando il rombo dei motori rollanti di un aeroplano fece vibrare i vetri. Si avvicinò alla finestra appena in tempo per vedere lo Spettro e i suoi collaboratori salire sul Beriev Be-210, chiudere il portellone e allontanarsi in volo sopra le onde, in direzione della Repubblica Dominicana. «Sporco bastardo vigliacco», sibilò, alla vista dello Spettro che si metteva in salvo senza preoccuparsi della vita di chi si lasciava alle spalle. Rimase a fissare l'aereo finché non scomparve nelle nuvole, poi raggiunse la sala conferenze dove gli altri responsabili si erano riuniti. Sul volto di ognuno poteva leggere l'espressione di chi si trova sull'incerto confine tra rassegnazione e panico. «Abbiamo sottovalutato la velocità dell'uragano», iniziò Morton. «Fra meno di un'ora ci colpirà con tutta la sua forza. Poiché non c'è più tempo per evacuare gli ospiti, dobbiamo portare tutti ai piani superiori, dove saranno più al sicuro.» «Non possiamo farci trainare dai rimorchiatori in acque tranquille?» chiese la responsabile delle prenotazioni, una donna di trentacinque anni alta e impeccabile.
«I rimorchiatori sono già stati avvisati e arriveranno non appena possibile, ma il mare in tempesta non facilita le operazioni di aggancio. Se la manovra risulterà impossibile, non abbiamo altra scelta se non affrontare la tempesta.» Il concierge alzò la mano. «Non sarebbe più sicuro rifugiarsi nelle suite sotto il mare?» chiese. Morton scosse lentamente il capo. «Se succede il peggio e il mare spezza gli ormeggi, se l'hotel va alla deriva...» Si strinse nelle spalle. «Non posso neanche immaginare che cosa potrebbe accadere se venissimo sbattuti sugli scogli del Banco de la Navidad. Siamo solo a quaranta miglia dalla barriera e, se dovessimo raggiungerla, gli scogli ridurrebbero in frantumi i vetri dei piani sommersi.» Il concierge annuì. «Capisco. Quando l'acqua entrerà nei piani inferiori i serbatoi di galleggiamento non riusciranno a mantenerci a galla e le onde ci faranno schiantare sulle rocce.» «E se ci accorgiamo che sta per succedere tutto questo?» chiese il vicedirettore. Morton assunse un'espressione solenne mentre osservava tutti negli occhi. «Allora saliremo sulle lance di salvataggio; abbandoneremo la nave e pregheremo Dio di portarci in salvo.» 9 Barrett e Boozer stavano cercando di mantenere in assetto Galloping Gertie, ancora in balia di Lizzie. Le due possenti raffiche che l'avevano investito da direzioni opposte lo avevano quasi fatto precipitare e i piloti lottavano per controllarne il volo. Con calibrati movimenti della cloche, mantenevano la rotta aumentando o riducendo i giri dei due motori rimasti in consonanza con gli alettoni. Durante il lungo periodo di servizio a caccia di uragani, non ne avevano mai incontrato uno della potenza di Lizzie: sembrava che volesse ribaltare il globo terrestre e aprirlo in due. Finalmente, dopo trenta minuti che a loro parvero trenta ore, il cielo iniziò a schiarirsi e, pian piano, a ritornare azzurro; il martoriato Orion era riuscito a sfuggire alla tempesta. «Non ce la faremo mai a raggiungere Miami», esclamò Boozer, studiando le carte di volo. «È un salto troppo lungo per due soli motori, una carlinga che sta a ma-
lapena insieme e un timone fuori uso», concordò Barrett, preoccupato. «Meglio deviare su San Juan.» «San Juan a Puerto Rico?» «È tutto tuo», annunciò Barrett, togliendo le mani dai comandi. La risposta alla domanda del collega era implicita. «Vado a vedere i nostri scienziati là dietro. Non oso pensare che cosa troverò.» Si slacciò la cintura di sicurezza e lasciò la cabina di pilotaggio. Oltre la porta c'era l'inferno: i computer, gli schermi, gli strumenti erano sparpagliati ovunque, come sbalzati fuori da un camion in corsa. L'attrezzatura predisposta in modo da resistere alla peggiore turbolenza era stata scardinata dall'invisibile mano di un gigante. Gli uomini giacevano un po' ovunque, alcuni incoscienti e feriti gravemente, addossati alle paratie, altri meno malconci che cercavano di aiutare gli accidentati. Ma ciò che agghiacciò Barrett fu la vista delle centinaia di punti nella carlinga in cui i bulloni, trasformati in proiettili, avevano aperto dei fori. Da qualcuno filtrava addirittura la luce del sole. Si rese conto che, se fossero rimasti un istante di più nella tempesta, l'aereo si sarebbe aperto in due, sparpagliando rottami ed equipaggio nel tremendo mare in tempesta. Steve Miller, il meteorologo, stava assistendo un ingegnere che aveva una frattura composta all'avambraccio. Alzò lo sguardo verso Barrett, gli indicò con gli occhi la distruzione che lo circondava e disse: «Avresti mai potuto immaginare una cosa simile? Siamo stati colpiti da una raffica a 210 nodi sul lato sinistro e, dopo pochi secondi, da una anche più forte a destra». «Non ho mai sentito di un vento a simili velocità», confessò Barrett con un filo di voce. «Credimi, simili situazioni non sono mai state registrate. Due raffiche della stessa tempesta che da direzioni opposte arrivano a scontrarsi sono veramente rare, ma qui è successo. Da qualche parte in questo casino abbiamo i dati che lo dimostrano.» «L'aereo non è in condizioni di arrivare a Miami», annunciò Barrett, indicando con il capo la malandata carlinga. «Cerchiamo di raggiungere San Juan; faccio tenere pronti i mezzi di soccorso.» «Non scordarti i medici e le ambulanze», aggiunse Miller. «Nessuno di noi è indenne e, anche se non sono in pericolo di vita, Delbert e Morris sono piuttosto gravi.» «Devo tornare a dare una mano a Boozer. Se avete bisogno di qualcosa...»
«Ce la caveremo», disse Miller. «Tu pensa a restare in aria finché non raggiungiamo la terraferma.» «Ce la metteremo tutta.» Due ore più tardi l'aeroporto di San Juan era in vista. Con maestria, Barrett portò l'aereo quasi in punto di stallo per ridurre al massimo la pressione sulla carlinga. Poi si avvicinò quasi planando alla pista di atterraggio, con i flap abbassati. Doveva atterrare al primo tentativo; non avrebbe avuto un'altra possibilità. «Giù il carrello», disse, mentre si allineava alla pista. Boozer eseguì l'ordine con qualche incertezza, ma, per loro fortuna, le ruote scesero e si bloccarono. Le autopompe dei vigili del fuoco e le ambulanze erano allineate ai lati della pista, in attesa del disastro, viste le condizioni dell'aereo. I controllori di volo che lo vedevano avvicinarsi attraverso le lenti dei binocoli non riuscivano a credere ai loro occhi. Come poteva quella carcassa con un motore fumante e un altro letteralmente sparito essere ancora in volo? Il traffico commerciale era stato messo in attesa sopra l'aeroporto, in attesa della fine di quel drammatico ultimo atto. L'Orion si avvicinò lento e basso. Boozer si occupava dei pedali e lo teneva diritto, mentre Barrett perfezionava la manovra. Si appoggiò al suolo un po' troppo vicino alla fine della pista, con tale delicatezza da provocare solo l'impressione di un leggero sobbalzo quando i pneumatici toccarono l'asfalto. Boozer non fu costretto a invertire i motori; gli bastò lasciare i pedali e farli girare a vuoto, mentre la pista scorreva sotto di loro. Barrett frenò dolcemente, senza perdere di vista la staccionata che si stagliava davanti, in fondo al percorso. Se non si fossero fermati, avrebbe potuto premere il freno sinistro e virare di colpo sull'erba. Ma non ce ne fu bisogno: Gertie rallentò e arrivò a fermarsi a cinquanta metri dalla fine della pista. Barrett e Boozer si appoggiarono allo schienale dei sedili e sospirarono sollevati, mentre l'aereo veniva scosso da un ultimo tremore. Si slacciarono le cinture e corsero a vedere che cos'era successo nel retro. La pista che avevano appena percorso si protendeva davanti ai loro occhi, oltre gli strumenti distrutti e gli scienziati feriti, attraverso la carlinga squarciata. L'intera sezione di coda si era staccata dalla fusoliera ed era sparpagliata sul terreno. Il vento sferzava la piatta fiancata dell'Ocean Wanderer, ma gli ingegne-
ri avevano fatto un buon lavoro. Progettata per resistere a raffiche di vento a 150 nodi, la pesante struttura stava adesso sopportandone alcune da 200 nodi senza incrinarsi. L'unico danno subito in quelle prime ore era stato la distruzione dei campi esterni da tennis, golf e pallacanestro e dei ristoranti all'aperto, dove l'unica cosa rimasta era una piscina di acqua dolce che ormai traboccava lungo gli scivoli. Morton era orgoglioso dei suoi uomini. Avevano eseguito i suoi ordini nel migliore dei modi e il panico, il nemico più temuto dopo l'uragano, non si era fatto vedere. Direttori, impiegati, concierge e cameriere avevano lavorato compatti per aiutare gli ospiti a spostarsi dalle suite e sistemarsi nella sala da ballo, nelle terme, nel teatro e nei ristoranti dei piani superiori. Tutti avevano ricevuto un giubbotto salvagente e le istruzioni su come raggiungere le lance di salvataggio e su quali prendere posto. Ciò che nessuno sapeva, neanche Morton, perché nessuno aveva osato affacciarsi all'esterno e sfidare le micidiali raffiche, era che, venti minuti dopo l'arrivo dell'uragano, insieme con i campi sportivi se n'erano andate anche le lance. Morton era in costante comunicazione con il personale della manutenzione, che perlustrava l'hotel dall'alto in basso per valutare i danni in tempo reale e organizzare le riparazioni. Fino a quel momento il complesso aveva retto, ma per gli ospiti era un'esperienza terribile vedere ondate alte quanto il decimo piano dell'hotel abbattersi sui fianchi, sentire gli inquietanti lamenti dei cavi di ormeggio e i sinistri scricchiolii della struttura che sembrava doversi squarciare da un momento all'altro. Ancora non si erano prodotte falle e gli impianti elettrici e idraulici funzionavano senza intoppi. Ma Morton sapeva che l'Ocean Wanderer avrebbe resistito agli assalti per non più di un'altra ora; poi non sarebbe stato più possibile ritardare l'inevitabile. Gli ospiti e il personale che non aveva incarichi particolari erano fissi alle finestre, ipnotizzati dalla sinistra potenza della tempesta che catturava le onde e le proiettava contro i vetri con raffiche violentissime. Guardavano impotenti le muraglie d'acqua lunghe centinaia di metri e alte più di trenta che avanzavano a 200 nodi verso l'hotel, consapevoli che l'unica barriera che li divideva da milioni di tonnellate d'acqua erano sottili lastre di vetro corazzato. Era uno spettacolo quantomeno snervante. L'imponenza delle onde andava oltre ogni umana comprensione; si poteva solo restare a guardare. Tutte le volte che una di esse colpiva, gli uomini abbracciavano le donne, e quelle tenevano stretti i bambini, tutti terro-
rizzati e, al tempo stesso, affascinati dal mare che tentava di risucchiarli, in palpitante attesa che l'acqua scivolasse via e riapparisse il cielo. La natura manifestava la sua immane superiorità, ma il terrore impediva di prenderne coscienza. Tutti speravano che l'ondata successiva potesse essere meno forte, ma non era così. Anzi, anche se incredibile, le onde sembravano aumentare. Morton si concesse una breve pausa e si sedette alla scrivania, con la finestra alle spalle. Non voleva sottrarsi alle responsabilità che si abbattevano come macigni sulle sue esili spalle, ma non riusciva più a sopportare la vista di quell'acqua che stava per distruggere il suo hotel. Inviò concitate richieste di aiuto per l'evacuazione del complesso, implorando di venire in loro soccorso prima che fosse troppo tardi. Le risposte arrivarono, ma non i mezzi di salvataggio. Le navi che si trovavano in un raggio utile erano messe peggio dell'hotel e alcuni SOS, come quello di un mercantile di centottanta metri, avevano smesso di arrivare. Un infausto segno di avvenuta sciagura. Di lì a poco, altre due navi smisero di trasmettere e le speranze furono spezzate anche per una decina di pescherecci che avevano avuto la sfortuna di trovarsi sul cammino di Lizzie. Tutti gli aerei di soccorso civili e militari della Repubblica Dominicana erano dovuti tornare alla base e le navi al sicuro nei porti non si azzardavano a uscire. Tutto quello che Morton si sentì rispondere fu un laconico: «Ci dispiace, ma dovete cavarvela da soli. Potremo intervenire solo quando la tempesta diminuirà d'intensità». Mantenne il contatto con Heidi Lisherness, al Centro uragani della NUMA, e la tenne informata circa gli sviluppi dell'uragano. «È certo dell'altezza delle onde?» chiese Heidi a un certo punto, sconcertata. «Mi creda, sono seduto a trenta metri dalla superficie del mare e un'onda su nove mi passa sopra.» «È una cosa inaudita.» «Deve credere alla mia parola.» «Ci credo», affermò Heidi, molto preoccupata. «C'è niente che posso fare?» «Mi dica quando prevede che il mare e il vento inizieranno a diminuire.» «Secondo il nostro ricognitore e i rapporti dei satelliti, non molto presto.» «Quando non mi sentirà più», disse Morton infine, voltandosi verso la
finestra, «saprà che è accaduto il peggio.» Prima che Heidi potesse replicare, chiuse la comunicazione per ascoltare un messaggio in arrivo. «Il signor Morton?» «Sono io.» «Sono il comandante Rick Tapp della flotta rimorchiatori di Odyssey.» «Bene, comandante, mi dica. Ci sono interferenze, ma riesco a sentirla.» «Mi dispiace informarla che i rimorchiatori Albatross e Pelican non possono raggiungervi. Il mare è troppo mosso e nessuno ha mai visto una tempesta di simili proporzioni. Per quanto robuste, le nostre imbarcazioni non riuscirebbero ad aprirsi un varco fra quelle onde. Sarebbe un suicidio.» «Capisco», disse Morton in tono grave. «Venite non appena possibile; non so per quanto ancora i cavi di ormeggio reggeranno. È un miracolo che la struttura abbia resistito finora a simili ondate.» «Faremo tutto quanto umanamente possibile per raggiungervi non appena il peggio sarà passato.» Passò un istante, poi Morton aggiunse: «Avete ricevuto istruzioni dallo Spettro?» «No, signore, nessun messaggio da lui o dai suoi collaboratori.» «Grazie, comandante.» Morton non poté fare a meno di chiedersi se lo Spettro, con freddezza inumana, non avesse già cancellato dai suoi bilanci l'Ocean Wanderer e i suoi occupanti. Quell'uomo si era dimostrato un mostro ben superiore all'immaginabile. Era come se lo avesse davanti agli occhi, con la sua immane pancia, seduto al tavolo con consiglieri e amministratori a trovare il modo di prendere le distanze dal disastro che stava per accadere. Si riscosse dai suoi pensieri. Doveva andare a ispezionare la struttura e a rassicurare gli ospiti. Anche se non aveva mai fatto l'attore, quella sarebbe stata la scena madre della sua vita. Stava per lasciare l'ufficio, quando il fragore di qualcosa che si lacerava si diffuse nella stanza e il pavimento vacillò, inclinandosi su un lato. In quello stesso istante, il suo ricevitore iniziò a squillare, «Sì, che cos'è successo?» All'altro capo si udì la voce familiare del capo manutentore. «Sono Emlyn Brown, signor Morton. Mi trovo nella cabina cavi numero due e davanti a me ho l'estremità lacerata di uno dei nostri ormeggi.» Il timore di Morton stava diventando realtà. «Ci sono possibilità che gli altri reggano?»
«In simili condizioni e con un sostegno in meno, dubito che possano farlo a lungo.» Fino a quel momento, a ogni ondata l'hotel aveva tremato, era stato sommerso da flutti rabbiosi e ne era riemerso indenne, come una fortezza che resistesse all'assedio, una rocca solida e inattaccabile. E, ogni volta che l'onda si ritirava, il morale degli ospiti migliorava, insieme con la fiducia nella possente struttura. Si trattava per la maggior parte di persone molto facoltose, in cerca di una vacanza diversa e di qualche nuova emozione. Era come se si fossero sintonizzati sulla minaccia incombente e agissero secondo un unico copione. Perfino i bambini non avevano più paura e si divertivano a guardare le pareti d'acqua che colpivano le finestre e poi si ritiravano. I cuochi e il personale di cucina si erano adattati alla situazione ed erano riusciti a preparare ottimi pasti, serviti da camerieri impeccabili nelle sale del teatro e da ballo. Morton, invece, sentiva salire dentro di sé un crescente malessere. Era sempre più convinto che il disastro fosse imminente e che non ci fosse nulla che un essere umano potesse fare contro quell'incredibile assalto da parte della natura. I cavi di ormeggio si strapparono l'uno dopo l'altro, gli ultimi due nel giro di neanche un minuto. Senza più ancoraggio, l'hotel iniziò la sua veloce corsa verso le rocce coralline che cingevano la Repubblica Dominicana, trascinato senza pietà da un mare diventato nemico, come mai prima si era visto nella storia umana. Nei tempi passati, il timoniere o il comandante di un vascello restavano sul ponte, con i piedi ben piantati sulle assi e le mani aggrappate ai raggi del timone in una stretta mortale, impegnati in una battaglia all'ultimo respiro con il mare. Adesso non più. Barnum non doveva fare altro che programmare la rotta sul computer, alzarsi dalla poltrona in pelle della plancia e aspettare che il cervello elettronico si facesse carico del destino della Sea Sprite. Grazie ai dati passati di continuo dai vari programmi meteorologici e dalla strumentazione di bordo, il computer metteva a punto in pochi secondi la strategia migliore per affrontare la tempesta e la trasmetteva al sistema automatico di controllo. Quello misurava in anticipo l'altezza delle onde e la profondità dei solchi, valutava il tempo e la distanza fra un'onda
e l'altra e calibrava la velocità e l'angolazione con cui attraversare la massa d'acqua. La visibilità, calcolata in metri, era scarsissima. Spruzzi di schiuma salata in balia del vento sferzavano i vetri della plancia nei brevi intervalli in cui non era sommersa da tonnellate d'acqua. Simili condizioni del mare e del vento avrebbero messo in difficoltà chi non aveva molta esperienza, ma Barnum sedeva immobile come una roccia, con gli occhi che sembravano sfidare le pericolose onde e un dio del mare impazzito. In realtà, la mente del comandante era del tutto concentrata su come sopravvivere. Anche se per affrontare la tempesta aveva completa fiducia nel sistema automatico di controllo, l'emergenza era in agguato e, con essa, la necessità di prendere il comando. Studiava le onde mentre passavano ben al di sopra della plancia, osservando la compatta massa d'acqua finché la nave non superava la cresta e scendeva verso il solco. Le ore passavano, ma la furia non sembrava calmarsi. Gli scienziati e anche qualche membro dell'equipaggio avevano il mal di mare, ma nessuno si lamentava. Non c'era nessuna possibilità di uscire sul ponte spazzato di continuo dalle ondate; una sola occhiata a ciò che accadeva all'esterno era bastata per convincere tutti a ritornare in cabina, legarsi alle brande e pregare di poter arrivare vivi al giorno dopo. L'unica consolazione era che non faceva freddo. Gli oblò rimandavano la vista di onde alte come edifici di dieci piani, con spaventosi venti che ne frantumavano le creste in grandi nuvole di schiuma, prima di confondersi con la pioggia battente. Negli alloggi dell'equipaggio e in sala macchine il rollio si sentiva meno che in plancia, dove Barnum iniziava a essere seriamente preoccupato. La nave sembrava ormai il vagoncino di un ottovolante sbattuto a destra e a manca. Durante un forte beccheggio a dritta, il clinometro arrivò a indicare un'inclinazione di 34 gradi prima di riportarsi pian piano a valori normali. «Un altro rollio come questo», borbottò fra sé, «e ci ritroviamo tutti per sempre sul fondo del mare.» Si stava chiedendo come la nave potesse sopportare una simile tempesta quando, come per miracolo, i valori della velocità del vento iniziarono a calare sempre più in fretta, finché non si stabilizzarono su meno di 50 nodi. Sam Maverick scosse la testa, visibilmente stupito. «È come se stessimo per entrare nell'occhio del ciclone, eppure il mare è più agitato che mai.»
Barnum si strinse nelle spalle. «Chi ha detto che il buio è più pesto prima dell'alba?» L'ufficiale delle comunicazioni, Mason Jar, un uomo tozzo con capelli slavati e un vistoso orecchino al lobo sinistro, si avvicinò a Barnum con un messaggio. Il comandante lesse più volte la frase, poi chiese: «È appena arrivato?» «Meno di due minuti fa», rispose Jar. Barnum passò il foglio a Maverick, che lesse a voce alta: «'Qui hotel Ocean Wanderer. I cavi di ormeggio si sono spezzati e siamo in balia delle onde, che ci spingono verso la barriera corallina della Repubblica Dominicana. Se qualche nave è nelle vicinanze, la preghiamo di rispondere. Abbiamo più di mille persone a bordo'». Restituì il messaggio al comandante. «A giudicare dal tono, siamo gli unici ancora a galla che possono tentare un salvataggio.» «Non hanno fornito la posizione», disse Jar. «Non sono marinai, sono albergatori», replicò Barnum cupo. Maverick si chinò sulla carta nautica e armeggiò con il compasso. «Erano cinquanta miglia a sud quando abbiamo issato le ancore. Non sarà facile farsi strada fra gli scogli del Banco de la Navidad per procedere al salvataggio.» Jar riapparve con un altro messaggio, che recitava... ALLA SEA SPRITE DAL QUARTIER GENERALE DELLA NUMA, WASHINGTON. SE POSSIBILE, TENTATE DI PORTARE IN SALVO LE PERSONE A BORDO DELL'OCEAN WANDERER. LASCIO A VOI GIUDICARE SE CIÒ È POSSIBILE E APPOGGERÒ OGNI VOSTRA DECISIONE. SANDECKER. «Bene, così abbiamo anche l'autorizzazione ufficiale», disse Maverick. «Siamo solo quaranta persone sulla Sea Sprite», aggiunse Barnum. «Nell'hotel ce ne sono più di mille. In tutta coscienza, non posso abbandonarle.» «E che mi dice di Dirk e Summer laggiù sul fondo?» «Dovrebbero resistere senza difficoltà, riparati dalla scogliera.» «Quanta riserva d'aria hanno?» chiese Maverick. «Ancora per quattro giorni», rispose Barnum. «Se questa dannata tempesta passa, li possiamo raggiungere in due.» «A patto che riusciamo ad agganciare l'Ocean Wanderer e a rimorchiarlo lontano dagli scogli.»
Maverick rivolse lo sguardo alla finestra. «Una volta che entriamo nell'occhio del ciclone, dovremmo riuscire a procedere in fretta.» «Inserisca i dati dell'ultima posizione dell'hotel ed esegua una valutazione per capire dove possa trovarsi adesso», ordinò Barnum. «Poi imposti la rotta per l'incontro.» Barnum si stava alzando per andare a dire all'operatore radio di trasmettere la decisione all'ammiraglio Sandecker quando, con orrore, vide un'ondata più mostruosa di tutte quelle viste fino a quel momento superare di quasi venticinque metri la plancia, che già si trovava a quindici metri dalla superficie. La massa d'acqua li colpì come un'immane martellata, ma la nave si fece largo coraggiosamente tra i flutti, prima di precipitare in quello che sembrava un solco senza fondo e riemergere di nuovo. Barnum e Maverick si guardarono negli occhi; in quel momento, una seconda ondata, forse più gigantesca dell'altra, li sommerse facendoli scomparire. Investita da milioni di tonnellate d'acqua, la Sea Sprite si ritrovò con la prua in giù, mentre scendeva sempre più verso il fondo in una corsa che sembrava senza ritorno. 10 L'Ocean Wanderer era ormai totalmente abbandonato a se stesso, alla deriva in balia della tempesta. Non c'era più niente che si potesse fare per salvare gli ospiti e la struttura. Morton era in preda alla disperazione più nera: la decisione che doveva prendere era tra le più difficili delle molte affrontate in quella giornata. Si trattava di ordinare di riempire i serbatoi per abbassare il livello dell'hotel, ed esporre così una minor superficie alle raffiche del vento, o di vuotare i serbatoi per far alzare la struttura e renderla più mobile, lasciando che fosse trascinata dalle ondate. La prima soluzione sembrava la più pratica, ma ciò significava esporre una struttura praticamente immobile a una forza immane. Già si erano aperte delle falle nei livelli più bassi e le pompe lavoravano al limite delle loro possibilità. La seconda opzione sarebbe stata molto disagevole per i passeggeri e, inoltre, avrebbe accelerato la corsa verso la barriera corallina. Morton stava per ordinare di riempire i serbatoi fino all'orlo, quando il vento iniziò a rallentare. Dopo mezz'ora era quasi scomparso e raggi di sole inondavano l'hotel. La gente assiepata nei saloni iniziò a esultare, con-
vinta che il peggio fosse passato. Ma il direttore aveva intuito la verità. Il vento era rallentato, però il mare era ancora agitato. Al di là dei vetri coperti dal sale si vedevano le grigie pareti dell'uragano che raggiungevano il cielo. Si trovavano nell'occhio del ciclone e la tempesta vera stava per abbattersi su di loro. Il peggio doveva ancora arrivare. Nelle poche ore di relativa calma a disposizione, Morton radunò il personale della manutenzione e ogni uomo fra passeggeri ed equipaggio che potesse rendersi utile. Li suddivise in squadre e li inviò a riparare i numerosi danni e a puntellare le finestre dei livelli inferiori che stavano per cedere. Lo sforzo congiunto dei naufraghi diede subito dei risultati: le infiltrazioni diminuirono decisamente e le pompe ripresero a funzionare. Morton sapeva che si trattava solo di una tregua resa possibile dall'occhio del ciclone, ma riteneva fondamentale tenere alto il morale, dare a tutti l'idea di lottare per una possibile salvezza, anche se lui stesso non nutriva più molte speranze. Tornò in ufficio ed esaminò le carte nautiche della costa della Repubblica Dominicana, cercando di prevedere dove l'Ocean Wanderer sarebbe potuto approdare. Con un po' di fortuna sarebbero riusciti a raggiungere una delle molte spiagge, anche se la maggior parte era troppo piccola e altre erano state addirittura ricavate dalla roccia per costruire complessi alberghieri. Morton riteneva che avessero il 90 per cento di probabilità di andare a sbattere contro le aspre formazioni vulcaniche formatesi milioni di anni prima. La prospettiva che più lo tormentava era la necessità di trasbordare a terra più di mille persone mentre l'hotel veniva sbattuto contro gli scogli dalle onde. Non sembrava esserci modo di sfuggire al destino. Non si era mai sentito così vulnerabile, così impotente. Si stava strofinando gli occhi stanchi e arrossati, quando l'addetto alle comunicazioni irruppe nella stanza. «Signor Morton, sono arrivati i soccorsi!» urlò. Morton gli rivolse un'occhiata priva di espressione. «Una nave?» L'operatore scosse la testa. «No, signore, un elicottero.» Il prudente ottimismo che si era fatto strada nell'animo di Morton scomparve. «A che cosa potrebbe servirci un solo elicottero?» «Ci hanno comunicato che faranno scendere due uomini sul tetto.» «È impossibile.» Poi si ricordò di essere nell'occhio del ciclone e che
quindi l'operazione era realizzabile. Superò in tutta fretta l'operatore ed entrò nel suo ascensore privato, che lo avrebbe portato sul tetto del complesso. Quando le porte si schiusero, rimase sconcertato nel vedere che l'intero centro sportivo, a eccezione della piscina, era stato spazzato via. Ma ciò che lo angosciò veramente fu la scoperta che anche le lance di salvataggio non c'erano più. Adesso che era in grado di vedere l'uragano a 360 gradi, non poté non ammirarne la malvagia bellezza con un senso di soggezione. Sopra di lui volteggiava un elicottero turchese in discesa verso l'hotel; sulla fiancata recava la scritta NUMA. Il velivolo si fermò a sei metri dal tetto e due uomini con casco e tute del colore ufficiale dell'agenzia scesero lungo le funi calate dal velivolo. Quando atterrarono, furono fatti scendere due grandi pacchi avvolti in plastica arancione, che vennero prontamente sganciati. Dopo aver ricevuto il segnale di via libera, un uomo all'interno dell'elicottero riavvolse i cavi e, con il pollice alzato, fece segno al pilota che poteva riprendere quota e risalire l'occhio del ciclone. I visitatori si avvicinarono a Morton, portando senza fatica i due pacchi. Quando il più alto si tolse il casco apparve una folta chioma nera brizzolata sulle tempie. Il volto portava i segni di una vita trascorsa all'aria aperta e gli occhi verde opale, decisamente allegri, sembrarono perforare la mente del direttore. «Per favore, ci porti dal signor Hobson Morton», disse con una strana calma nella voce, considerate le circostanze. «Morton sono io. Voi chi siete e perché siete qui?» L'uomo si tolse il guanto destro e tese la mano. «Mi chiamo Dirk Pitt. Sono il direttore dei progetti speciali della National Underwater and Marine Agency.» Poi si voltò verso il suo compagno, un tipo più basso, con capelli ricci scuri e occhi marroni, che ricordava un gladiatore dell'antica Roma. «Questo è il mio vice, Al Giordino. Siamo venuti a offrire un passaggio al vostro hotel.» «Mi hanno informato che i rimorchiatori non riescono a uscire dal porto.» «Non si tratta dei rimorchiatori di Odyssey, ma di una nave della NUMA in grado di trainare una portaerei, e quindi anche il vostro hotel.» Ansioso di venire a capo della questione, Morton accompagnò Pitt e Giordino in ascensore e li fece poi accomodare nel suo ufficio. «Perdonate l'accoglienza poco formale», disse, indicando le sedie. «Non ero stato avvisato del vostro arrivo.»
«Non abbiamo avuto molto tempo per i preparativi», replicò Pitt senza grandi convenevoli. «Com'è la situazione attualmente?» Morton scosse la testa sconsolato. «Non buona. Le pompe riescono a malapena ad arginare le infiltrazioni, la struttura rischia di crollare da un momento all'altro e, quando raggiungeremo la barriera corallina...» - si strinse nelle spalle - «... allora più di mille persone, noi compresi, perderanno la vita.» L'espressione di Pitt si fece dura come il granito. «Non ci schianteremo su nessuna barriera.» «Abbiamo bisogno del personale della manutenzione che ci aiuti nell'aggancio alla nave», aggiunse Giordino. «Dov'è questa nave?» chiese Morton, con voce dubbiosa. «Il radar sull'elicottero la segnalava a meno di trenta miglia.» Morton si girò a guardare l'incombente muraglia di nubi che circondava l'occhio del ciclone. «Non riuscirà ad arrivare prima che la tempesta ci inghiotta nuovamente.» «Il Centro uragani della nostra agenzia ha calcolato che l'occhio ha un diametro di quasi cento chilometri e che la nave si sposta a 20 nodi. Con un po' di fortuna, arriverà in tempo.» «Due ore per raggiungerci e una per agganciarci», disse Giordino, consultando l'orologio. «Credo», dichiarò Morton in tono ufficiale, «che ci siano da discutere i termini del salvataggio.» «Non c'è niente da discutere», ribatté Pitt, contrariato da quella perdita di tempo. «La NUMA è un'agenzia governativa degli Stati Uniti, destinata alla ricerca oceanografica. Non siamo una società di salvataggio. Non esiste nessun contratto. Se riusciremo a salvarvi, il nostro capo, l'ammiraglio James Sandecker, non chiederà al vostro Spettro neanche un centesimo.» Giordino abbozzò un sorriso. «Posso segnalare la passione dell'ammiraglio per i sigari costosi!» Morton rivolse a Giordino un'occhiata sconcertata. Non sapeva che cosa dire a quei due uomini piovuti dal cielo che gli avevano tranquillamente annunciato l'intenzione di portare in salvo l'hotel e tutti i suoi occupanti. Era difficile considerarli l'unica possibilità di salvezza. Infine, si adeguò. «Ditemi di che cosa avete bisogno.» La Sea Sprite rifiutò di morire. Arrivò a toccare il punto più profondo da cui una nave fosse mai riemer-
sa, completamente avvolta da vorticosi flutti grigio-verdi in cui rimase sospesa per interminabili secondi di agonia. Poi, pian piano e con grande fatica, iniziò la risalita, lottando con coraggio per recuperare la superficie, spinta dalle possenti eliche. Quando infine riguadagnò la furia della tempesta, emerse come un grosso cetaceo che uscisse tra le onde e ripiombò pesantemente tra i marosi, scuotendo ogni asse dello scafo mentre tonnellate d'acqua rifluivano dal ponte verso il mare. Il vento aveva sferrato il suo colpo più micidiale, ma non era riuscito a portare la Sea Sprite all'inferno. Quella piccola nave ne aveva passate di tutti i colori e sembrava ormai possedere una determinazione quasi umana. Era come se sapesse che il mare non aveva più niente da scagliarle contro che lei non avrebbe saputo respingere. Maverick guardò oltre la vetrata della plancia che era rimasta miracolosamente intatta. Aveva un colorito cereo. «È terribile», sussurrò. «Non sapevo di aver firmato per imbarcarmi su un sottomarino.» Nessun battello avrebbe sopportato un simile frangente senza affondare, ma la Sea Sprite non era una nave qualsiasi. Era stata costruita per resistere ai mari polari, con una chiglia in acciaio rinforzata concepita per spezzare i ghiacci dell'Artico. Le rimaneva una sola lancia di salvataggio e c'erano altri danni, ma Barnum fu sorpreso nel vedere che gli impianti di comunicazione di poppa erano ancora al loro posto. L'equipaggio che era rimasto in coperta non aveva avuto idea di quanto vicina fosse stata la possibilità di finire i propri giorni in fondo al mare. Improvvisamente, il sole irruppe in plancia; la nave era arrivata nell'occhio del ciclone. Era una situazione paradossale, con il cielo sereno e il mare in burrasca, e a Barnum pareva impossibile che un'immagine così affascinante fosse in realtà ancora molto pericolosa. Il comandante si girò verso Mason Jar, l'ufficiale delle comunicazioni. Con lo sguardo fisso era ancora aggrappato ai pomelli in avorio sui bordi della carta nautica. «Se riesci a ritornare al tuo posto, Mason, contatta l'Ocean Wanderer e avvisa chiunque sia in ascolto che, mare permettendo, stiamo arrivando il più velocemente possibile.» Ancora confuso, Jar si riprese quel tanto che gli permise di accennare di sì col capo; poi, senza aprire bocca, si avviò verso la sala comunicazioni. Barnum scrutò il radar per calcolare la posizione di quel puntino lampeggiante che, ne era certo, indicava il grande hotel. Era circa ventisei miglia a est. Programmò la rotta sul computer e inserì il pilota automatico. Poi si asciugò il sudore sulla fronte con una vecchia bandana rossa e mor-
morò: «Anche se li raggiungiamo prima che finiscano sugli scogli, che faremo? Non abbiamo più lance e, anche se le avessimo, non potrebbero affrontare un simile mare. E a bordo non ci sono un argano né un cavo da traino». «Non è piacevole pensare di dover guardare quella gigantesca struttura mentre si schianta sugli scogli con tutte le donne e i bambini che ci sono a bordo», osservò Maverick. «No», convenne cupo Barnum. «Non è per niente piacevole.» 11 Heidi Lisherness non tornava a casa da tre giorni. Si era concessa qualche pisolino su una branda e aveva bevuto litri di caffè nero accompagnati da pochi panini alla mortadella e formaggio. Vagava per il centro come una sonnambula. Era in preda a un'angoscia profonda per l'imminenza di una catastrofe che avrebbe portato morte e distruzione in proporzioni apocalittiche. Anche se aveva previsto la sconcertante violenza dell'uragano Lizzie fin dall'inizio, e aveva dato l'allerta con anticipo, si sentiva comunque colpevole, come se avesse dovuto fare di più. Guardava le proiezioni e le immagini sugli schermi con angoscia, mentre Lizzie correva verso la terraferma. Grazie allo stato di allerta, più di trecentomila persone erano state evacuate sulle colline al centro della Repubblica Dominicana e della confinante Haiti. Ma la campana a morto poteva ancora suonare. Heidi temeva che l'uragano virasse improvvisamente verso nord e colpisse prima Cuba e poi la costa della Florida meridionale. Il telefono squillò e la donna alzò il ricevitore con aria stanca. «Ci sono cambiamenti di direzione rispetto alle previsioni?» chiese Harley all'altro capo del filo. «No. Lizzie si dirige sempre verso ovest, come se seguisse un binario.» «Incredibile, questo percorso diritto di migliaia di miglia.» «Più che incredibile. Non si è mai verificato un caso simile. Tutti gli uragani di cui si ha notizia hanno sempre proceduto a zig-zag.» «Una tempesta perfetta?» «Non Lizzie», disse Heidi. «'Perfetta' non è il termine esatto. Io la classificherei come un cataclisma di immani proporzioni. Abbiamo perso un'intera flotta di pescherecci; altre otto navi, fra cui petroliere, mercantili e yacht, hanno smesso di lanciare gli SOS. La radio tace; dobbiamo aspettarci il peggio.»
«Qual è la situazione dell'hotel galleggiante?» chiese Harley. «L'ultimo rapporto riferiva che gli ormeggi erano spezzati e che il vento e il mare in tempesta lo stavano trascinando verso gli scogli della Repubblica Dominicana. L'ammiraglio Sandecker ha chiesto a una delle sue navi di ricerca oceanografica che si trova nei pressi di tentare il salvataggio.» «Sembra un'idea senza speranza.» «Temo che stiamo per assistere al più grande disastro di tutti i tempi», aggiunse Heidi in tono cupo. «Vado a casa per qualche ora. Perché non ti concedi una pausa e mi raggiungi? Ti preparo la cena.» «Non posso, Harley. Non ancora. Non finché non saprò qual è la prossima mossa di Lizzie.» «Con tutta la forza che ha in corpo, ci possono volere giorni, forse settimane.» «Lo so», disse Heidi lentamente. «Questo è ciò che mi turba di più. Se la sua energia non diminuisce dopo aver superato la Repubblica Dominicana e Haiti, arriverà sulla terraferma con tutta la sua potenza.» Summer era rimasta affascinata dal mare fin da quando, a sei anni, sua madre aveva insistito perché frequentasse un corso di immersione. Insieme con il fratello, era stata seguita dai migliori istruttori, munita di bombole e respiratore fatti su misura per la sua piccola taglia. Era diventata una creatura del mare, di cui conosceva gli abitanti, i capricci e lo spirito. Ne aveva capito la natura restando immersa per ore nelle acque calme e azzurre; ne aveva sperimentato la potenza affrontando i tifoni del Pacifico. Adesso però, come una moglie che dopo vent'anni di convivenza scoprisse un lato sadico nel marito, stava intuendo per la prima volta quanto crudele e malvagio potesse essere. Seduti davanti alla calotta trasparente del laboratorio sottomarino, i due fratelli osservavano la turbolenza sopra di loro. Quando l'uragano aveva toccato gli scogli del Banco de la Navidad con le frange laterali, la furia non li aveva toccati; ma con l'arrivo del violento fronte principale fu evidente che la piccola struttura era in pericolo e inadeguata a proteggerli. Le prime onde erano passate senza fare danni quindici metri più sopra, ma, quando la loro altezza aveva superato ogni record, i giganteschi solchi che le intervallavano avevano aperto immani varchi sino al fondo del mare e i due giovani si erano ritrovati esposti alla pioggia prima di essere risommersi.
Ora dopo ora, la stazione Pisces era stata sottoposta all'inesorabile e battente marcia delle onde. Costruita per resistere alla pressione della profondità marina, non aveva problemi a sostenere l'impatto con l'acqua sferzante, ma la forza esercitata sulla superficie esterna la stava trascinando sul fondo. I quattro sostegni erano solo conficcati per pochi centimetri nel corallo e non fissati a una base. Solo il fatto che pesava sessantacinque tonnellate impedì al mare di sollevarla e sbatterla contro la scogliera come una bottiglia vuota. Poi, le stesse due onde che avevano sommerso la Sea Sprite solo venti miglia più in là si abbatterono sugli scogli del Banco de la Navidad e frantumarono senza pietà le delicate ramificazioni dei coralli in milioni di minuscole schegge. La prima ondata ribaltò la stazione su un lato e la fece rotolare come un barile vuoto in un deserto roccioso. Nonostante il tentativo dei due giovani di aggrapparsi a qualche oggetto fissato, furono scaraventati per la sala come bambole di pezza in un frullatore. Percorsero così circa duecento metri, prima di arrestarsi in posizione precaria sull'orlo di uno stretto crepaccio corallino. Poi arrivò la seconda ondata, che li scaraventò oltre il bordo. Pisces scivolò sino in fondo al crepaccio, a trentasette metri di profondità, scalfendo la propria superficie esterna sulle taglienti pareti di corallo e sollevando una nube di sabbia al suo impatto. Si ritrovò riversa sul lato destro, incuneata fra due muraglie rocciose. All'interno, tutto ciò che non era fissato era stato scagliato in mille direzioni: piatti, provviste, equipaggiamento, biancheria, effetti personali formavano un'indistinta massa. Senza badare al dolore provocato da una serie di lividi e da una distorsione alla caviglia, Dirk raggiunse in fretta la sorella che era raggomitolata sotto le brande. La guardò negli occhi e, per la prima volta, vi lesse il terrore. Le prese la testa fra le mani e le sorrise. «Ti è piaciuta la cavalcata?» La ragazza alzò lo sguardo, vide il volto sorridente del fratello e inspirò profondamente: la paura stava svanendo. «Per tutto il tempo ho pensato che siamo nati insieme e saremmo morti insieme.» «La mia sorellina pessimista. Ho ancora almeno settant'anni davanti per punzecchiarti.» Poi le chiese preoccupato: «Sei ferita?» Summer scosse la testa. «Mi sono incuneata sotto le brande e non sono stata troppo sbatacchiata.» Poi guardò fuori dei vetri per osservare dove si trovavano. «La stazione come sta?» «Ancora integra e senza falle. Nessuna onda, neppure la più gigantesca,
può spezzare Pisces. Ha una corazza d'acciaio spessa dieci centimetri.» «E l'uragano?» «Sta ancora imperversando, ma almeno quaggiù non avremo guai. Le onde passano sopra il crepaccio, ma non riescono a entrarci.» Finalmente Summer diede un'occhiata anche all'interno. «Mio Dio, che confusione.» Confortato dal fatto che la sorella non fosse ferita, Dirk ispezionò i sistemi che assicuravano la loro sopravvivenza, mentre Summer iniziava a farsi largo nella cabina. Non c'era speranza di poter rimettere tutto a posto, visto che erano riversi su un fianco, ma si potevano impilare gli oggetti in modo ordinato e coprire con lenzuola gli strumenti, le valvole e le mensole contro cui si rischiava di sbattere. Non c'era più un vero pavimento e si doveva procedere scavalcando ciò che un tempo si trovava affisso alla parete destra, con la bizzarra sensazione di procedere in un mondo ribaltato di 90 gradi. Summer era rassicurata dal fatto che fossero riusciti a sopravvivere fino a quel momento e che la tempesta non potesse più raggiungerli. In quel profondo crepaccio non avrebbero più sentito l'ululato e la forza del vento come quando, fra un'onda e l'altra, erano stati esposti all'aria. La paura e la tensione per il futuro iniziavano a diminuire, perché potevano ritenersi al sicuro fino al ritorno della Sea Sprite. Inoltre, sentiva che il fratello possedeva il coraggio e la forza del loro leggendario padre e ciò le era di grande conforto. Ma quando Dirk tornò e si sedette vicino a lei, cercando di non appoggiarsi sui lividi sempre più scuri, l'espressione non era quella di un uomo fiducioso nel futuro. «Mi sembri preoccupato», disse Summer. «Che cosa c'è?» «La caduta nel crepaccio ha lacerato i tubi di connessione ai serbatoi di riserva dell'aria. Secondo i manometri, i quattro serbatoi che non hanno subito danni possono assicurarci aria solo per altre quattordici ore.» «Che cosa mi dici delle bombole che abbiamo lasciato nella camera stagna?» «Ne è rimasta solo una che necessita di una riparazione alla valvola; ci può tenere in vita entrambi per non più di quarantacinque minuti.» «Potremmo usarla per uscire a recuperare le altre», disse Summer speranzosa. «Poi aspettare uno o due giorni per lasciar placare la tempesta, abbandonare la stazione e usare il canotto di salvataggio in attesa dei soccorsi.»
Dirk scosse la testa. «La cattiva notizia è che siamo intrappolati. La porta della camera stagna è schiacciata contro il corallo. Solo la dinamite potrebbe aprire un varco utile a farci uscire.» Summer sospirò intensamente e poi aggiunse: «Sembra proprio che il nostro destino sia nelle mani di Barnum». «Sono certo che pensa a noi. Non ci dimenticherà.» «Dovremmo informarlo della nostra nuova situazione.» Dirk pose le mani sulle spalle della sorella. «La radio è andata distrutta nella caduta.» «Possiamo sempre lasciar andare la boa di segnalazione, così sapranno che siamo ancora vivi», disse Summer, con un filo di speranza. La voce di Dirk uscì flebile, anche se controllata. «Era montata sul fianco della stazione su cui adesso ci appoggiamo. Deve essere in frantumi e, anche se così non fosse, non c'è modo di liberarla.» «Quando verranno a cercarci», continuò Summer, in tono teso, «non sarà facile trovarci, quaggiù.» «Puoi star certa che Barnum manderà ogni mezzo e ogni uomo disponibile sulla Sea Sprite a scandagliare la barriera.» «Parli come se avessimo giorni e giorni di aria, anziché poche ore.» «Non preoccuparti, sorellina», la rincuorò Dirk. «Per il momento siamo al sicuro. Nel momento in cui la burrasca accennerà a calmarsi, ogni uomo della Sea Sprite ci cercherà come un alcolizzato che ha perso la bottiglia di scotch.» Poi aggiunse: «Dopotutto, siamo in cima alla lista delle priorità». 12 In quello stesso momento, tuttavia, Pisces e i suoi due occupanti erano l'ultima delle preoccupazioni di Barnum. Si agitava nervosamente sulla sedia, spostando di continuo lo sguardo dallo schermo radar a ciò che accadeva oltre il finestrino e viceversa. Le onde avevano adesso dimensioni più normali e si muovevano in modo ritmico, come il meccanismo di un orologio, sollevando e abbassando la nave in un moto che era diventato monotono. Ormai la distanza fra la cresta e il solco era di non più di dodici metri e, anche se ancora potenti, le onde non avevano niente a che fare con quelle di poco prima. Era come se il mare avesse giocato le sue carte migliori per affondare la nave, ma avesse fallito. Così, frustrato, aveva ammesso la sconfitta ritirando i suoi guerrieri e lasciando solo la retroguardia a infastidire il nemico.
Le ore passavano e la Sea Sprite procedeva alla massima velocità possibile. Barnum, in genere un uomo allegro, era sempre più cupo a mano a mano che si rendeva conto dell'impossibilità del compito che li aspettava. Non aveva idea di come rimorchiare il gigantesco hotel, visto che i dispositivi di traino erano stati rimossi quando la nave era passata nelle mani della NUMA. L'unica attrezzatura disponibile, situata a poppa, era la gru con cui immergevano e recuperavano stazioni e veicoli sottomarini, ma sarebbe stata inadeguata a rimorchiare una struttura di quelle dimensioni e di quella stazza. Barnum cercò di guardare oltre la cortina di pioggia. «Sarebbe già in vista se non ci fosse questo schifo qua fuori», disse. «Secondo il radar è a meno di due miglia», avvisò Maverick. Barnum passò nella sala comunicazioni e chiese a Mason Jar: «Hai notizie dall'hotel?» «Niente, signore. Silenzio di tomba.» «Mio Dio, spero non sia troppo tardi.» «Non voglio neanche pensarci.» «Vedi se riesci a raggiungerli in altro modo, magari via satellite. È probabile che comunichino con la terraferma via telefono anziché con la radio di bordo.» «Mi lasci provare ancora una volta con la radio, comandante. A questa distanza non dovrebbero esserci interferenze. L'hotel deve avere attrezzature di prim'ordine per comunicare con i rimorchiatori quando viene trainato.» «Se rispondono, passali sugli altoparlanti del ponte, così posso parlare con loro.» «D'accordo, signore.» Barnum tornò in plancia appena in tempo per sentire Jar che diceva: «Sea Sprite chiama Ocean Wanderer. Siamo a due miglia sud-est e ci stiamo avvicinando. Rispondete, prego». Trascorsero trenta secondi di ronzii, poi una voce irruppe nella nave. «Paul, sei pronto a metterti al lavoro?» Le interferenze impedirono a Barnum di riconoscere chi stesse parlando. Afferrò il microfono del ponte di comando e disse: «Chi è all'apparecchio?» «Il tuo vecchio amico Dirk Pitt. Sono qui con Al Giordino.» Barnum era molto più che sorpreso. «Come diavolo fate voi due a trovarvi in quell'hotel nel bel mezzo dell'uragano?»
«Sembrava che ci fosse una festa alla quale non potevamo mancare.» «Spero vi rendiate conto che non disponiamo dell'attrezzatura per rimorchiare quel colosso.» «Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la potenza dei tuoi motori.» Negli anni in servizio alla NUMA Barnum aveva imparato che Pitt e Giordino non si trovavano mai in un posto senza un piano preciso. «Che cosa passa nella vostra mente malata?» «Abbiamo già istruito il personale dell'albergo che sta provvedendo a trasformare ciò che resta dei cavi di ormeggio in cavi da traino. Quando saranno a bordo della tua nave, devi unirli e assicurarli all'argano della gru, dove formeranno un laccio di traino.» «Mi sembra un piano pazzesco», disse Barnum, senza parole. «Come pensi di trasferire cavi che pesano tonnellate dall'hotel alla nave con il mare in tempesta?» Ci fu una pausa. Quando la risposta arrivò, Barnum poté immaginarsi l'espressione diabolica sul volto di Pitt. «Avremo un aiuto insperato.» La pioggia stava diminuendo e la visibilità era adesso di un miglio. Improvvisamente, la sagoma del grande complesso si stagliò nella tempesta. «Mio Dio, guardi», disse Maverick. «Sembra il castello di una fiaba.» L'Ocean Wanderer si ergeva come un sovrano che affrontasse con composta regalità l'avversa fortuna. Tutti coloro che fino a quel momento erano stati nelle cabine avevano raggiunto il ponte per vedere lo spettacolo di quell'edificio che non avrebbe dovuto essere là. «È bellissimo», mormorò una donna bionda e minuta, esperta in chimica marina. «Non mi sarei mai aspettata una simile fantastica architettura.» «Nemmeno io», convenne un collega. «Così, coperto di sale, potrebbe sembrare un iceberg.» Barnum puntò il binocolo sull'hotel, che ondeggiava maestoso sospinto dal rollio delle onde. «Il ponte sul tetto sembra essere stato spazzato dalle acque.» «È un miracolo che sia ancora in piedi», mormorò Maverick, visibilmente sbalordito. «Di certo ha superato ogni aspettativa.» Barnum abbassò il binocolo. «Gli giri intorno e metta la poppa in linea con il lato sopravvento.» «Ci facciamo sbatacchiare ancora un po' per metterci in posizione di traino, ma poi che cosa facciamo, comandante?» Barnum guardò pensieroso il grande complesso. «Aspettiamo», disse
lentamente. «Aspettiamo di vedere che cosa Pitt tirerà fuori dal cilindro dopo aver agitato la bacchetta magica.» Pitt, dal canto suo, stava studiando i disegni tecnici dei cavi di ormeggio che gli aveva fornito Morton. Si trovava con Giordino, Morton ed Emlyn Brown, il capo manutentore, nell'ufficio del direttore, in piedi intorno a un tavolo. «I cavi devono essere riawolti prima di stabilire la lunghezza delle parti rimaste dopo la rottura.» Brown, che aveva la figura asciutta e solida di un corridore di atletica leggera, si passò la mano tra i capelli corvini. «Abbiamo già riavvolto ciò che restava di essi dopo lo strappo. Avevo paura che potessero impigliarsi nelle rocce e far roteare l'hotel tra le onde, provocando altri danni.» «A quale distanza dagli ormeggi si sono spezzati i cavi tre e quattro?» «Posso solo fare una stima approssimata. Vediamo, direi che entrambi si sono lacerati a circa centottanta o duecento metri.» Pitt si rivolse a Giordino. «Questo non dà a Barnum abbastanza spazio per manovrare in sicurezza. E, se l'hotel affondasse, non ci sarebbe il tempo di tagliare i cavi. La nave verrebbe trascinata sul fondo con tutto l'equipaggio.» «Se conosco Paul», disse Giordino, «non esiterà a raccogliere la sfida, con un tal numero di vite in gioco.» «Ho capito bene? Volete usare i cavi di ormeggio per il traino?» chiese Morton, che era dall'altra parte del tavolo. «Mi avevate detto che la vostra nave era un rimorchiatore oceanico.» «Lo è stata in passato», rispose Pitt. «Ora non più. È stata convertita da rompighiaccio in nave da ricerca oceanografica e i dispositivi di traino sono stati eliminati. Tutto ciò di cui dispone è una gru per sollevare e abbassare i veicoli sottomarini. Dobbiamo arrangiarci con quello che abbiamo.» «Quindi non serve a niente», affermò Morton con uno scatto d'ira. «Abbia fiducia in me», disse Pitt, guardandolo negli occhi. «Se si riesce ad agganciarla, la Sea Sprite ha abbastanza potenza da rimorchiare l'hotel.» «Come pensate di portare i cavi fino alla nave?» chiese Brown. «Una volta svolti, saranno trascinati sul fondo dal loro peso.» Pitt lo fissò con sicurezza. «Ma noi li faremo galleggiare.» «Galleggiare?» «Dovreste avere parecchi bidoni da duecento litri a bordo, no?» «Veramente ingegnoso, signor Pitt. Inizio a capire come intendete fare.»
Brown rifletté per qualche istante, poi aggiunse: «Ne abbiamo diversi per il lubrificante dei generatori, l'olio da cucina e i detergenti liquidi del personale». «Useremo tutti quelli che riuscite a trovare.» Brown si rivolse a quattro dei suoi uomini. «Radunate tutti i bidoni vuoti e vuotate gli altri il più in fretta possibile.» «Mentre svolgete il cavo», spiegò Pitt, «dovrete legare un bidone ogni sei metri, così riusciremo a raggiungere la nave e a issarlo.» Brown annuì. «Lo consideri fatto.» «Se quattro dei nostri cavi si sono rotti prima», interloquì Morton, «che cosa vi fa pensare che questi due reggeranno al nuovo sforzo?» «In primo luogo», spiegò Pitt con voce paziente, «la tempesta si è molto calmata. In secondo luogo, la lunghezza sarà ora molto inferiore e quindi anche la tensione cui sono sottoposti. Infine, traineremo l'hotel dal suo lato più corto, mentre quando i cavi si sono rotti opponeva l'intera facciata alla forza dei venti.» Senza aspettare il commento di Morton, Pitt si rivolse nuovamente a Brown. «Avrò bisogno anche di un buon meccanico o macchinista per attaccare un anello in fondo ai cavi in modo che possano essere incatenati insieme e avvolti all'argano della gru sulla nave.» «Ci penserò io stesso», assicurò Brown. Poi aggiunse: «Immagino che abbiate un piano anche per far arrivare i cavi sino alla nave. Anche se galleggianti, non ci andranno di certo da soli, soprattutto con questo mare». «Questa è la parte migliore», disse Pitt. «Abbiamo bisogno di qualche metro di cima, preferibilmente di diametro ridotto ma con la resistenza di un cavo d'acciaio.» «Ho due spolette da centocinquanta metri di cima Falcron in magazzino. È ben ritorta, sottile, leggera e può sollevare un carro armato Patton.» «Ne leghi sessanta metri all'estremità di ogni cavo.» «Capisco che userete la cima per issare i cavi a bordo, ma come li porterete fin là?» Pitt e Giordino si scambiarono un'occhiata significativa. «Quello sarà compito nostro», disse Pitt, con un sorriso di soddisfazione. «Spero che non ci vorrà molto», intervenne Morton con tono pessimista, indicando la finestra. «Il tempo non è un lusso che ci possiamo permettere.» Come spettatori a una partita di tennis, tutti girarono contemporanea-
mente la testa e videro che la minacciosa costa era a poco più di due miglia dall'hotel. E, per quanto riuscissero a vedere, immense ondate si riversavano su quella che sembrava una distesa di rocce senza fine. In una delle stanze del sistema di aria condizionata situata in un angolo dell'hotel, Pitt aprì uno dei due pacchi che erano arrivati con loro e lo svolse sul pavimento. Per prima cosa indossò la tuta umida in neoprene a maniche e gambe corte. L'aveva scelta perché il lavoro andava svolto in acque tropicali e non c'era necessità di qualcosa di più pesante; inoltre, braccia e gambe nude per metà gli assicuravano maggiore libertà di movimento. Poi fu la volta del GAV, il giubbetto ad assetto variabile, e della maschera gran facciale con dispositivo di comunicazione; infine toccò alla cintura dei pesi, che chiuse e slacciò per controllare il dispositivo di sgancio veloce di sicurezza. Con l'aiuto di un addetto alla manutenzione, si caricò in spalla il rebreather a circuito chiuso. Sia Giordino sia lui convenivano che un dispositivo di quel tipo era più agevole di due ingombranti bombole. Come nei sistemi standard, il sub inspirava grazie a un regolatore che prelevava l'aria compressa da un serbatoio. L'aria espirata, però, veniva recuperata e, dopo essere passata da un filtro che eliminava l'anidride carbonica, veniva immessa nuovamente nei serbatoi dell'ossigeno. L'unità SIVA-55 che utilizzavano era stata messa a punto per operazioni militari sottomarine segrete. Pitt controllò infine il sistema di comunicazione della Ocean Technology Systems. «Al, mi senti?» Giordino, che stava eseguendo le stesse operazioni nell'angolo opposto dell'hotel, rispose con una voce ovattata. «Forte e chiaro.» «Sembri stranamente lucido.» «Se mi fai passare un brutto quarto d'ora, mollo tutto e vado diritto al bar.» Pitt era lieto che la voglia di scherzare non lasciasse mai l'amico. Se c'era una persona al mondo su cui poteva contare, quella era Giordino. «Quando tu vuoi, sono pronto.» «Dai tu il via.» «Signor Brown.» «Emlyn.» «D'accordo, Emlyn, prepara gli uomini ai verricelli in attesa del segnale di svolgere i cavi e i bidoni.» L'addetto alla manutenzione si trovava già nelle stanze dove i due grandi
cavi erano avvolti sui verricelli, quindi rispose: «Deve solo impartire l'ordine». «Incrocia le dita», disse Pitt, indossando le pinne. «Dio vi benedica e... in bocca al lupo», replicò Brown. Pitt si rivolse a uno degli uomini di Brown che si trovava a fianco di una bobina di cima Falcron. Era basso e tarchiato e insisteva nel farsi chiamare «Animale». «Svolgila poco alla volta. Se senti che si tende, accelera l'operazione per non frenarmi.» «La manderò avanti senza intoppi», assicurò l'uomo. Poi Pitt si rivolse alla Sea Sprite. «Paul, sei pronto a ricevere le cime?» «Le aspetto con impazienza», rispose Barnum con decisione. Le sue parole arrivavano da un trasmettitore che aveva fatto scendere in acqua dalla poppa della nave. «Non possiamo tirare più di sessanta metri di cima sott'acqua. Dovrai avvicinarti.» Entrambi gli uomini sapevano che, con quel mare, un'ondata più forte delle altre poteva scaraventare la nave sull'hotel e trascinare tutti sul fondo. Ma Barnum non esitò neanche un secondo ad accettare la sfida. «D'accordo, procediamo.» Pitt si passò la cima intorno alle spalle come una bardatura. Poi si alzò e cercò di spalancare una finestra che dava su un balconcino a sei metri dall'acqua, ma la forza del vento opponeva resistenza. Prima ancora di riuscire a chiedere aiuto, l'incaricato della manutenzione era al suo fianco. Spinsero insieme con le spalle e tutto il loro peso. Nel momento in cui la finestra si aprì, il vento entrò con inaudita forza e spalancò le ante, come se fossero state colpite dal calcio di un mulo. L'aiutante di Pitt fu investito in pieno dalla raffica e venne letteralmente catapultato nella stanza. Pitt riuscì a rimanere in piedi, ma, quando vide che un'enorme onda si stava dirigendo dalla sua parte, superò con un salto la ringhiera del balcone e si gettò tra i flutti. Il peggio era passato. L'occhio del ciclone era ormai solo un ricordo e l'Ocean Wanderer era in qualche modo sopravvissuto alla furia finale di Lizzie. I venti erano scesi a 40 nodi e le onde erano in media di nove metri. Il mare non era ancora calmo, ma decisamente meno burrascoso di prima. L'uragano si era spostato verso ovest portando morte e distruzione sulla Repubblica Dominicana e Haiti, prima d'imperversare nel mar dei Caraibi. Ancora ventiquattr'ore e il mare si sarebbe trasformato nel placido ricordo
della più grande tempesta di tutti i tempi. Il momento dell'impatto si avvicinava inesorabilmente. L'hotel era ormai così vicino alla scogliera che ospiti e personale potevano vedere le onde infrangersi e creare immani nuvole di schiuma bianca che salivano fino al cielo. L'acqua colpiva la roccia con la forza di una valanga e si alzava all'incontro con l'ondata precedente. La morte era ormai a solo un miglio e l'hotel procedeva alla velocità di un nodo. Lo sguardo di tutti si spostava avanti e indietro dalla costa alla Sea Sprite, che sembrava una paperetta in balia dei flutti. Coperto dalla testa ai piedi con una cerata gialla, Barnum era a poppa, sotto la gru, e sfidava gli spruzzi d'acqua ancora sospinti da un forte vento. Guardò il punto in cui una volta c'era l'argano di traino e pensò a quanto gli sarebbe stato utile adesso, quando in un modo o nell'altro i cavi avrebbero dovuto essere agganciati a mano. Barnum si riparava dietro la gru, ignorando l'umida brezza, e scrutava con il binocolo la base dell'hotel. Era legato con altri quattro uomini dell'equipaggio alla battagliola per evitare di essere sbalzato fuori bordo. Vide Pitt e Giordino saltare in acqua e scomparire in profondità; riuscì a immaginare i suoi compagni che, affrontando le folate, svolgevano la cima rossa trainata dai subacquei. «Gettate in acqua un paio di cime con boa», ordinò senza staccare gli occhi dal binocolo, «e preparate i rampini.» Questi ultimi avevano aste di alluminio da due metri e mezzo, inserite in tubi per ottenere altri nove metri di lunghezza. Barnum pregò di non doverli usare per recuperare i corpi dei due sub, nel caso avessero perso conoscenza o non fossero riusciti a raggiungere l'alta poppa della nave. Aspettarono con apprensione Pitt e Giordino, che erano scomparsi sotto la superficie increspata e non emettevano bolle grazie al sistema dei rebreather. «Fermate i motori», ordinò Barnum. «Ha ordinato di fermare i motori, comandante?» chiese conferma la voce del capo macchinista. «Sì, ci sono due sub che stanno arrivando con le cime. Dobbiamo fare in modo che il mare ci porti a circa sessanta metri e poi diminuire la distanza per permettere loro di raggiungerci.» A quel punto, voltò il binocolo verso la costa assassina che sembrava avvicinarsi a una velocità sovrumana.
Dopo aver nuotato per circa cinquanta metri, Pitt riemerse un momento per valutare la situazione. L'Ocean Wanderer si ergeva come un grattacielo, sferzato senza tregua dal vento e dalle onde; la Sea Sprite si vedeva solo dalla cresta delle onde. Ondeggiava sul mare a una distanza che sembrava un miglio, ma che in realtà era meno di cinquanta metri. Dirk annotò mentalmente la posizione sulla bussola e s'immerse di nuovo, scendendo fino a raggiungere acque più tranquille. A mano a mano che la distanza dall'hotel cresceva, la cima opponeva una maggiore resistenza e diventava sempre più difficile da tirare. Pitt era contento che non fosse né pesante né ingombrante, altrimenti il suo compito sarebbe stato impossibile. Nuotava con la testa bassa e le mani unite sulla schiena, sotto il rebreather, per ottenere una posizione il più aerodinamica possibile. Cercò di rimanere a una profondità dove non potesse essere raggiunto dalle onde che ricadevano in mare e che avrebbero ostacolato il suo procedere. Più di una volta perse l'orientamento, ma la bussola lo riportò sulla giusta via. Sbatteva le pinne con tutta la forza che aveva in corpo, tirando ostinatamente la cima che sembrava scavare un solco nelle sue spalle. Ogni cinquanta centimetri guadagnati, ne perdeva la metà, a causa delle correnti. In breve, i muscoli delle gambe iniziarono a dolere e i suoi progressi divennero più lenti. Provava una sorta di vertigine a causa della eccessiva quantità di ossigeno inalata; il cuore protestava per lo sforzo e i polmoni ansimavano. Non osava fermarsi per timore che la corrente lo riportasse al punto di partenza, mentre non c'era un minuto da perdere: ogni secondo era prezioso se si voleva evitare il disastro. Dopo altri dieci minuti di sforzi sovrumani, le forze iniziarono a venirgli meno. Sentì che, sebbene la mente gli suggerisse di provare ancora, il corpo lo abbandonava; i muscoli avevano speso tutte le loro energie. Disperato, cercò di massaggiarsi le gambe nel tentativo di risvegliarle, ma l'intorpidimento cresceva di minuto in minuto. Si chiese se anche Giordino fosse nella stessa situazione, ma sapeva che Al sarebbe morto piuttosto che cedere, soprattutto quando la posta in gioco era la vita di centinaia di donne e bambini. Inoltre, il suo collega aveva la potenza di un toro; se c'era qualcuno in grado di attraversare un oceano in tempesta con una mano legata dietro la schiena, quello era Al. Pitt non sprecò fiato a chiamare Giordino per sapere come stava. A momenti terribili in cui credeva di non farcela, ne seguivano altri in cui, una
volta scacciati i pensieri negativi, riusciva a ritrovare energie nascoste. In quel frangente respirava con discreta facilità, anche se la resistenza della cima gli faceva credere di essere impegnato in un braccio di ferro con un branco di elefanti. Richiamò alla mente la vecchia pubblicità del forzuto Charles Atlas, una specie di Maciste che aveva tirato una locomotiva da solo lungo un buon tratto di ferrovia. Poi rammentò il suo obiettivo e diede un'altra occhiata alla bussola. Era rimasto miracolosamente sulla giusta direttiva verso la Sea Sprite. La cupa nube della rassegnazione stava per impadronirsi di nuovo di lui, quando sentì una voce pronunciare il suo nome. «Bene così, Dirk», gridava Barnum nelle cuffie. «Ti vediamo, puoi riemergere.» Pitt obbedì prontamente e risalì in superficie. Barnum urlò ancora. «Guarda a sinistra.» Pitt si girò e, a non più di trenta metri, vide una boa arancione assicurata a una cima che portava alla nave. Non era uomo da perder tempo in convenevoli; gli rimaneva la forza solo per cinque colpi di pinna e la spese tutta per raggiungere quell'obiettivo. Con un senso di sollievo che non aveva mai provato in vita sua, mise la cima di recupero sotto le braccia e appoggiò la boa dietro una spalla. Mentre Barnum e l'equipaggio della Sea Sprite lo tiravano verso la nave, poté finalmente rilassarsi. Con l'aiuto del rampino, per precauzione agganciato a nove metri da lui, venne issato sul ponte. Senza perdere un istante, alzò le braccia per permettere a Barnum di sfilare la cima Falcron dalle sue spalle e assicurarla all'argano della gru, dove già si trovava quella portata da Giordino. Due uomini dell'equipaggio gli tolsero il respiratore e la maschera e, mentre prendeva una boccata di aria salata dell'oceano, incrociò lo sguardo dell'amico. «Posapiano», mormorò Giordino, che non si era in realtà ancora ripreso. «Ti ho battuto di almeno due minuti.» «È già tanto che sia arrivato», ribatté Pitt con un filo di voce. Non avendo più niente da fare, si accasciarono sul ponte appoggiati alla battagliola, al riparo dall'acqua che ancora lo sferzava e in attesa che i battiti cardiaci e la respirazione tornassero normali. Quando Barnum inviò il segnale convenuto a Brown, i grandi bidoni cui erano legati i cavi di ormeggio spuntarono uno alla volta da sotto l'hotel. Venne azionato l'argano della gru, la cima Falcron si tese e i fusti iniziarono a muoversi, mentre i cavi attaccati sotto di loro venivano sbattuti dalla corrente come serpenti
privi di vita. Dopo dieci minuti, i primi stavano già picchiando contro lo scafo della Sea Sprite e venivano issati dalla gru insieme con le estremità dei due cavi. Gli uomini si mossero senza esitazione: legarono i due capi fra loro grazie agli anelli fissati da Brown e, con l'aiuto di Pitt e Giordino, che nel frattempo si erano ripresi, li avvolsero sul grande gancio montato davanti alla gru. «Pronti per il traino, Ocean Wanderer?» annunciò Barnum, ancora ansimante. «Pronti come lo siamo sempre stati da questa parte», rispose Brown. Poi fu la volta della sala macchine. «Anche i motori sono pronti?» «Sì, comandante», rispose una voce dal forte accento scozzese. L'ultimo a essere interpellato fu il primo ufficiale, sul ponte di comando. «Signor Maverick, dirigerò la manovra da qui.» «D'accordo, comandante. È tutto suo.» Barnum era al quadro comandi installato davanti alla gru, con le gambe divaricate e un'espressione composta in volto. Afferrò le due leve cromate del gas e le spinse lentamente in avanti mentre, da sopra la spalla, guardava l'hotel al cui confronto la nave sembrava un granello di sabbia. Pitt e Giordino erano al suo fianco e gli altri membri dell'equipaggio sfidavano le ondate sul ponte pur di assistere a quella operazione che lasciava tutti con il fiato sospeso. I due potenti motori magnetoidrodinamici non erano collegati ad alberi motore che facevano girare eliche. La potenza sviluppata derivava dall'acqua pompata nei propulsori che, al posto della normale scia schiumosa, lasciavano alle spalle della nave due turbinosi rigagnoli simili a sottili vortici orizzontali. La poppa della Sea Sprite si abbassò, mentre la nave scricchiolava sotto lo sforzo del traino, le folate di vento e il mare ancora burrascoso. Sembrò sbandare, ma Barnum assestò prontamente l'angolazione dei propulsori e la rotta venne ripristinata. Per alcuni angoscianti e interminabili minuti non successe nulla. Era come se l'hotel volesse con ostinazione continuare il viaggio verso una morte violenta. Sotto il ponte di poppa, il rombo e le vibrazioni delle macchine diesel avevano lasciato il posto al lamento delle pompe, simile a quello di donne in lutto. Barnum guardò gli strumenti che valutavano lo sforzo dei motori e non fu soddisfatto di ciò che vide. Pitt lo raggiunse per rincuorarlo; si era accorto che le mani del comandante erano esangui per lo sforzo di tenere le leve del gas e spingerle fino al limite massimo.
«Non so quanto ancora potranno reggere i motori», urlò Barnum, per sovrastare il rumore del vento e i gemiti provenienti dalla sala macchine. «Spremili più che puoi», disse Pitt, con un tono più gelido del ghiaccio polare. «Se saltano, mi assumo io la responsabilità.» Barnum era senza dubbio il comandante della nave, ma Dirk Pitt era sopra di lui di un bel po' nella gerarchla della NUMA. «È facile per te dirlo», lo mise in guardia il comandante. «Ma, se scoppiano, finiamo anche noi sulle rocce.» Pitt gli lanciò uno sguardo duro. «Ci preoccuperemo di questa eventualità a tempo debito.» Nell'equipaggio della Sea Sprite la speranza si spegneva di minuto in minuto. Sembrava che niente avrebbe potuto smuovere quel gigante ormai condannato. «Fallo!» disse Pitt rivolgendosi alla nave. «So che puoi farcela!» All'interno dell'hotel, intanto, l'angoscia s'impadroniva di un numero sempre maggiore di persone, seguita dal terrore provocato dalla vista delle ondate che si frangevano sulla vicina scogliera, anticipando le immagini dell'imminente disastro. Il panico crebbe ulteriormente quando arrivò chiaro il rumore della collisione con il fondo. Nessuno, però, corse verso le uscite, come in caso di incendio o terremoto. Non c'era un posto verso cui fuggire. Saltare nell'acqua equivaleva a un suicidio, a una morte orribile per annegamento o contro le affilate rocce della costa. Morton cercò di spostarsi di sala in sala, ma il suo tentativo di rassicurare passeggeri ed equipaggio ebbe scarso successo. Si sentiva impotente e sconfitto e un solo sguardo fuori delle finestre era sufficiente per spezzargli il cuore. Messi in agitazione dagli occhi terrorizzati dei genitori, i bambini iniziarono a piangere, mentre alcune donne urlavano, altre singhiozzavano e altre ancora erano come inebetite. La maggior parte degli uomini non manifestava la propria paura e teneva stretti i propri cari, cercando d'infondere loro coraggio. Poi il rombo delle onde che si abbattevano sulle rocce diventò simile a un tuono e per molti fu come udire una campana a morto. Chiuso in plancia, Maverick osservava con apprensione gli indicatori digitali della velocità, dove i valori rossi erano fissi sullo zero. I barili che dondolavano sotto i cavi tesi erano simili a scaglie di un mostro marino e l'ufficiale, come molti altri, pregava mentalmente perché la nave si muo-
vesse. Ma anche i dati del GPS, in grado di registrare l'esatta posizione di un'unità nel raggio di pochi metri, non presentavano variazioni. Spostò allora lo sguardo sul suo comandante, immobile come una statua davanti al quadro comando di poppa, e sull'Ocean Wanderer, ancora in balia della furia del mare. Quando controllò l'anemometro, si accorse che la velocità del vento era diminuita in misura sensibile nell'ultima mezz'ora. «Finalmente una buona notizia», mormorò fra sé. E fu allora che, ritornando con lo sguardo al GPS, vide che i dati erano cambiati. Si strofinò gli occhi, per assicurarsi di non avere immaginato tutto, ma quando li riaprì la variazione era ancora là. Anche l'indicatore di velocità dava segni di vita: il primo valore sulla destra oscillava fra zero e uno. Era frastornato. Desiderava credere con tutte le sue forze a ciò che vedeva, ma anche assicurarsi che non fosse il frutto di un moto di ottimismo della sua immaginazione. Tuttavia i dati sulla velocità stavano ancora cambiando: si muovevano, anche se quasi impercettibilmente. Afferrò un altoparlante e corse sul ponte. «Si muove!» urlò, in preda a una forte eccitazione. «Sta procedendo!» Nessuno esultò; era ancora troppo presto. L'avanzamento fra le onde non era stato percepito, perché troppo minimo per essere registrato dall'occhio umano. Potevano solo credere alla parola di Maverick. Dopo qualche minuto d'insofferenza in cui speranza e soddisfazione iniziarono a crescere, Maverick urlò di nuovo. «Un nodo! Ci muoviamo a un nodo.» Non era più un'illusione. Anche a occhio nudo si vedeva che la distanza fra l'Ocean Wanderer e la temuta costa stava aumentando. Non ci sarebbero state morte e catastrofi sulle rocce, almeno per quel giorno. 13 Strattonata dai grossi cavi, la Sea Sprite avanzava con i motori che giravano oltre limiti immaginabili. Dal ponte di poppa, nessuno badava alla costa o all'hotel; gli occhi di tutti erano fissi sull'argano e sui cavi, che cigolavano e gemevano per lo sforzo. Se avessero ceduto, non ci sarebbe stato più niente da fare: l'Ocean Wanderer e suoi occupanti sarebbero stati spacciati.
Invece, contro ogni ragionevole perplessità, i pesanti cavi ressero allo sforzo, proprio come Pitt aveva calcolato. Impercettibilmente, la nave raggiunse i due nodi, fendendo con la prua i flutti delle onde che s'infrangevano sulle murate. Solo quando l'hotel fu a due miglia dalla scogliera, Barnum tirò indietro le leve del gas per dare respiro ai motori in sovraccarico. A ogni metro conquistato il pericolo diminuiva, sinché non fu chiaro che le rocce aguzze e il mare in burrasca non avrebbero fatto vittime. L'equipaggio della Sea Sprite rispose ai passeggeri dell'Ocean Wanderer, che salutavano festosi dalle vetrate dell'hotel. Liberati da ogni paura, gli ospiti si abbandonarono a manifestazioni di gioia ed esultanza. Morton ordinò di aprire le cantine e lo champagne scorse a fiumi per tutte le sale. Era ormai per tutti l'eroe del momento, fermato e ringraziato di continuo, con o senza ragione, per lo sforzo profuso nel salvarli. Quando infine riuscì a sottrarsi a quella confusione, raggiunse il suo ufficio e si accasciò esausto sulla sedia, visibilmente soddisfatto. Mentre la sensazione di sollievo rilassava i suoi muscoli, la mente si proiettò nel futuro. Anche se l'abbandono del posto di direttore dell'Ocean Wanderer era per lui molto difficile da accettare, sapeva che non avrebbe più potuto avere a che fare con lo Spettro. Non se la sentiva più di lavorare per un uomo di cui non conosceva neanche il volto e che non aveva esitato ad abbandonare tutte quelle persone. Morton ragionò a lungo. Qualunque catena di hotel di lusso nel mondo avrebbe accolto una sua richiesta di impiego, una volta diffusa la notizia del ruolo che aveva avuto in quella drammatica vicenda. Ma proprio quella sarebbe stata la parte più difficile. Non c'era bisogno di essere Nostradamus per prevedere che lo Spettro, informato dello scampato pericolo, avrebbe messo in moto la macchina delle pubbliche relazioni per rilasciare comunicati stampa, indire conferenze e organizzare interviste televisive in cui sarebbe apparso come il deus ex machina dell'impresa, il «salvatore» del famoso hotel e dei suoi occupanti. Morton decise di approfittare del vantaggio e agire per primo. Grazie al ripristino delle comunicazioni telefoniche, ormai fuori di ogni interferenza dell'uragano, chiamò un suo vecchio compagno di università che aveva una società di pubbliche relazioni a Washington e gli espose la sua versione dei fatti sull'incredibile avventura, sottolineando l'operato della
NUMA e degli uomini che avevano organizzato l'operazione di traino e senza dimenticarsi di Emlyn Brown e della squadra di manutentori. Si concesse, però, una descrizione del suo ruolo durante tutta la vicenda che non lasciò spazio alla modestia. Dopo quarantacinque minuti di telefonata, ripose il ricevitore, portò le mani dietro la nuca e sorrise. Lo Spettro avrebbe risposto alla provocazione, non vi erano dubbi. Ma una volta diffusa la versione di Morton, sostenuta anche dalle interviste ai passeggeri, tutto quello che avrebbe potuto dichiarare sarebbe stato ridimensionato. Si versò un'altra coppa di champagne e si addormentò di colpo. «Dio mio, l'abbiamo davvero scampata», commentò Barnum, con voce tranquilla. «Bel lavoro, Paul», disse Pitt, battendogli la mano su una spalla. «Siamo a due nodi», urlò Maverick da un'ala della plancia all'equipaggio in festa. La pioggia era cessata e il mare, ancora piuttosto increspato, sembrava un tappeto decorato da creste spumeggianti, con onde non più alte di tre metri. L'uragano Lizzie, probabilmente stanco di danneggiare e affondare navi, stava imperversando sulle città e sui villaggi della Repubblica Dominicana e della confinante Haiti. Tutti gli alberi della costa furono abbattuti, ma la maggior parte dei dominicani sopravvisse al riparo della foresta interna; le perdite ammontarono a meno di trecento persone. Per gli haitiani, invece, la sorte fu più avversa. Oppressi da una povertà fra le più pesanti dell'emisfero occidentale, avevano spogliato l'isola degli alberi per costruire le loro capanne e utilizzare il legno come combustibile. Gli edifici, logorati dall'incuria, non furono in grado di ripararli e circa tremila persone morirono prima che Lizzie si decidesse a passare oltre e riprendere il mare. «Vergognati, comandante», disse Pitt ridendo. Barnum gli rivolse uno sguardo interrogativo, ma era così stanco fisicamente e mentalmente che riuscì solo a balbettare: «Che cosa stai dicendo?» «Sei l'unico qui a non indossare un giubbetto di salvataggio.» Il comandante guardò la cerata che indossava e sorrise. «Credo di essere stato troppo preso dalle vicende per pensare di metterne uno.» Si girò e, mentre avanzava, parlò nel microfono. «Signor Maverick.» «Signore?» «La nave è sua. Ci pensi lei a condurla.»
«Ricevuto. Il ponte riprende il comando.» Barnum si rivolse poi a Pitt e Giordino. «Bene, signori, oggi avete salvato molte vite. Quella nuotata nel mare burrascoso è stata davvero una grande impresa.» I due amici erano visibilmente imbarazzati. Pitt tagliò corto: «Niente di eccezionale, in verità. Un'azione come molte altre». Barnum non rilevò traccia di ironia. Conosceva i due uomini così bene da sapere che si sarebbero fatti seppellire in silenzio piuttosto di vantarsi di quanto avevano fatto quel giorno. «Potete anche elencarmi tutte le vostre gesta, se lo desiderate, ma io continuo a pensare che quello di oggi è stato un gran bel lavoro. Bene, basta parlare. Andiamo in plancia all'asciutto e concediamoci una tazza di caffè.» «Non c'è niente di più forte?» chiese Giordino. «Penso di poterti accontentare. Ho comprato una bottiglia di rum per mio cognato nell'ultimo porto.» Pitt lo guardò stupito. «Quando ti sei sposato?» Barnum si limitò a sorridere e, senza aprire bocca, si diresse verso la scaletta del ponte. Dopo un meritato riposo, Pitt raggiunse la sala comunicazioni e chiese a Jar di mettersi in contatto con Dirk e Summer. Dopo diversi tentativi, Jar fu costretto ad arrendersi. «Mi dispiace, signor Pitt. Non rispondono.» «Non mi piace questo fatto», disse Pitt pensieroso. «Potrebbe dipendere da molte cause, anche non gravi», replicò Jar, ottimista. «La tempesta può aver danneggiato le antenne radio.» «Speriamo si tratti solo di questo.» Pitt uscì e si diresse nel corridoio verso la cabina di Barnum. Il comandante e Giordino erano al tavolo a bere un bicchiere di rum Gosling's. «Pisces non risponde», irruppe Pitt, senza preamboli. Barnum e Giordino si scambiarono un'occhiata preoccupata e il sorriso scomparve dai loro volti. Fu Al a rassicurare l'amico per primo. «La stazione è più robusta di un carro armato. L'ho progettata personalmente con Joe Zavala e abbiamo previsto tutti i possibili sistemi di sicurezza. La struttura non può essere stata intaccata, né a quindici metri di profondità né a cinquecento.» «Ti dimentichi di quelle ondate da trenta metri», obiettò Pitt. «Pisces può essere stata esposta alla tempesta durante un ritorno di onda o essere
stata sradicata e sbattuta sui coralli da una muraglia d'acqua. Un impatto di quel genere potrebbe anche aver frantumato l'oblò panoramico.» «È possibile», ammise Giordino, «ma improbabile. Ho previsto uno speciale tipo di plastica che può resistere alla granata di un mortaio.» Il telefono di Barnum squillò e il comandante rispose a una chiamata di Jar. Dopo aver riappeso, si sedette e disse: «Abbiamo appena sentito il comandante di uno dei rimorchiatori di Odyssey. Si sono messi in moto e dovrebbero raggiungerci fra un'ora e mezzo». Pitt tornò in plancia, seguito dagli amici, e si mise alla carta nautica con un compasso in mano. Misurò la distanza fra il punto dove si trovavano in quel momento e la X che indicava la posizione di Pisces. «Ancora un'ora e mezzo per l'incontro», disse, pensieroso, «poi mezz'ora per staccare i cavi e due ore, forse un po' meno se spingiamo al massimo, per arrivare sopra la stazione. Prego Dio che i ragazzi stiano bene.» «Sembri un padre angosciato perché la figlia non è tornata prima di mezzanotte», disse Giordino, cercando di risollevare il morale dell'amico. «Sono d'accordo con Al», intervenne Barnum. «La scogliera deve averli protetti dalla tempesta.» Pitt non era del tutto convinto e cominciò a percorrere il ponte avanti e indietro. «Probabilmente avete ragione», replicò con calma. «Ma le prossime ore saranno le più lunghe della mia vita.» Summer si sdraiò sul materasso della branda che aveva appoggiato sulla parete riversa della stazione. Inspirava ed espirava lentamente, con respiri brevi e non forzati, per conservare quanta più aria possibile. Non poteva fare a meno di guardare all'esterno, dove pesci colorati, tornati dopo la tempesta, volteggiavano intorno alla stazione, fissando con curiosità le creature che l'abitavano. Non poteva però smettere di chiedersi se quella sarebbe stata l'ultima immagine che avrebbe visto prima di morire soffocata. Dirk stava pensando a come andarsene di lì, ma non trovò soluzioni. Usare l'ultima bombola per raggiungere la superficie non era una buona idea. Anche se fosse riuscito ad aprire lo sportello - cosa improbabile, visto che ci sarebbe voluto un martello pneumatico -, la pressione dell'acqua a trentasette metri era di oltre quattro chili per centimetro quadrato. Ciò significava che sarebbe entrata con la forza di un colpo di cannone e loro non avrebbero avuto scampo. «Quanta aria ci rimane?» chiese Summer con un filo di voce.
Dirk guardò il manometro. «Due ore, minuto più, minuto meno.» «Che cosa ne è stato della Sea Sprite? Perché Paul non viene a cercarci?» «La nave è sicuramente qui nei paraggi», disse Dirk, poco convinto. «Ci stanno cercando, ma ancora non ci trovano.» «Pensi che l'uragano abbia avuto la meglio?» «Non con quella nave», rispose Dirk, cercando il suo tono più confortante. «Non è ancora nato l'uragano che possa affondarla.» Smisero di parlare e Dirk rivolse la sua attenzione alla radio di bordo, nell'inutile tentativo di rimetterla in funzione. Iniziò senza fretta a riallacciare le connessioni danneggiate, con grande determinazione, concentrandosi sul lavoro. Non si rivolse più a Summer, perché dovevano risparmiare aria, ma entrambi erano confortati dalla reciproca presenza. Le due ore seguenti parvero non finire mai. Si accorsero appena che il sole stava nuovamente illuminando il mare che s'infrangeva senza sosta sui coralli della barriera. Nonostante la caparbietà di Dirk, il ragazzo non riuscì a riparare la radio e dovette arrendersi. A un certo punto si accorse che il respiro stava diventando pesante e, per la centesima volta, controllò il manometro e i valori dell'aria rimasta. Tutti gli indicatori erano sullo zero. Allora raggiunse Summer che, a causa della scarsità di ossigeno, si era appisolata, e la scosse con delicatezza. «Svegliati, sorellina.» Gli occhi grigi della ragazza sbatterono e fissarono il fratello con una calma che suscitò in Dirk un moto di affetto fraterno. «Svegliati, dormigliona. Dobbiamo iniziare a respirare con la bombola.» La sistemò in mezzo a loro e passò il respiratore alla sorella. «Prima le signore.» Summer si rendeva conto, con dolore, che lei e Dirk stavano affrontando una situazione che non aveva scampo. L'impotenza era una sensazione che non conosceva, perché mai nella vita era arrivata a perdere il controllo di ciò che stava facendo. Adesso, invece, non le rimaneva altro che lo sconforto. Dirk si sentiva più frustrato che sconfitto, come se un destino crudele stesse tramando per impedirgli in tutti i modi di sfuggire a quella trappola. Continuava a pensare che doveva esserci una via d'uscita da imboccare prima che l'aria finisse, ma ogni suo piano sembrava portarlo in un vicolo cieco. La fine, si rese conto ben presto, stava rapidamente prendendo la forma
di una letale certezza. 14 L'ultimo raggio di sole stava per calare dietro l'orizzonte e il crepuscolo era alle porte. I venti erano ormai solo una brezza decisa che, da est, accarezzava la superficie del mare che si stava scurendo. La tensione dell'equipaggio della Sea Sprite, avvisato della mancata risposta da parte di Pisces, dilagava nella nave come una marea nera e il timore che Dirk e Summer potessero non avercela fatta tormentava la mente di tutti. Delle tre lance di salvataggio della Sea Sprite, solo una non era stata spazzata via dall'uragano, ma aveva lo scafo rigido gonfiabile seriamente danneggiato. Durante l'affannosa corsa verso il punto dove erano ancorati prima della tempesta, era stata riparata per poter trasportare tre persone. La squadra di ricerca e salvataggio era composta da Pitt, Giordino e Cristiano Lelasi, un italiano veterano di immersioni ed esperto di attrezzatura subacquea, che era a bordo della nave per collaudare un veicolo autonomo sottomarino. I tre si riunirono nella sala conferenze della Sea Sprite con quasi tutto l'equipaggio e gli scienziati impegnati nell'operazione. Barnum descrisse la geologia dei fondali, poi osservò il grande orologio appeso sulla paratia. «Siccome non abbiamo più ricevuto segnali, dobbiamo partire dal presupposto che la stazione abbia subito dei danni. Inoltre, se la teoria di Dirk è esatta, si può ragionevolmente pensare che le ondate gigantesche l'abbiano spostata dall'ultima posizione conosciuta.» Pitt intervenne. «Se non la troviamo dove dovrebbe essere, inizieremo subito le ricerche con i tracciati del GPS. Perlustreremo la scogliera a ventaglio setacciandola verso est. Io starò nel mezzo, Al a destra e Cristiano a sinistra.» «Perché a est?» chiese Lelasi. «Perché è la direzione in cui la tempesta si stava muovendo quando si è abbattuta sul Banco de la Navidad», rispose Pitt. «Porterò la nave il più vicino possibile alla barriera», li informò Barnum. «Non getterò l'ancora, per potermi muovere più velocemente in caso di necessità. Non appena individuate la stazione, informatemi delle sue condizioni.» «Ci sono domande?» chiese Pitt a Lelasi. Il robusto italiano scosse la testa.
Occhi solidali e compassionevoli erano puntati su Pitt. Non si trattava di andare a salvare degli sconosciuti, ma due compagni di avventura che negli ultimi due mesi di vita comune sulla nave erano diventati qualcosa di più di semplici conoscenti, preziosi alleati nella lotta e nello studio per la salvezza del mare. Nessuno osava pensare che ai ragazzi potesse essere successo qualcosa. «Bene, si comincia», disse Pitt. Poi aggiunse: «Dio vi benedica tutti per il vostro sostegno». Pitt aveva un solo desiderio: ritrovare i propri figli vivi e vegeti. Anche se ne aveva ignorato l'esistenza per ventidue anni, nel breve tempo trascorso dopo la loro apparizione il suo affetto era cresciuto in modo esponenziale. Il solo profondo rimpianto era quello di non esserci stato quando erano bambini, oltre al dolore per non aver saputo che la loro madre era viva in tutti quegli anni. L'altra persona che era legata ai ragazzi da profondo affetto era Giordino. Era come uno zio affettuoso, un braccio cui appoggiarsi e una spalla su cui piangere quando il padre era troppo cocciuto o iperprotettivo. La squadra di salvataggio uscì sul ponte e si diresse alla passerella che portava alla lancia. Questa era già stata messa in acqua e aspettava con i due motori fuoribordo accesi. Pitt e Giordino indossavano mute umide complete, con rinforzi sulle ginocchia, sui gomiti e sulle spalle per proteggersi dai taglienti coralli. Per tale operazione, avevano scelto bombole tradizionali al posto dei rebreather. Dopo essersi infilati la maschera, provarono il sistema di comunicazione. Poi, con le pinne in mano, scesero lungo la passerella e salirono sull'imbarcazione con tutta l'attrezzatura, mentre il marinaio che l'aveva calata in acqua saltava giù e la teneva ferma. Pitt raggiunse il quadro comandi e, non appena mollati gli ormeggi, afferrò il timone e spinse le leve del gas. Pitt aveva inserito i dati delle ultime coordinate di Pisces nel GPS e impostato una rotta diretta per il luogo, che si trovava a meno di cinquecento metri. Ansioso di arrivare e preoccupato di ciò che poteva trovare, spingeva la barca a quasi 40 nodi, facendola sbattere sulle onde. Quando il GPS segnalò che erano quasi arrivati alla meta, rallentò e si avvicinò all'esatta posizione con i motori in folle. «Dovremmo essere sopra», annunciò. Non aveva ancora terminato la frase che Lelasi scivolò in acqua con un sordo tonfo e scomparve. Tre minuti dopo era di ritorno e si stava issando oltre il bordo con una mano sola, nonostante le bombole.
Giordino osservò la scena divertito. «Mi chiedo se riuscirei ancora a farlo.» «Io so che non ci riuscirei», disse Pitt, poi si avvicinò a Lelasi, che era rotolato sul fondo della barca e stava scuotendo la testa mentre parlava nel microfono. «Mi dispiace, signore», disse, nel suo accento italiano. «La stazione non c'è più. Ho visto alcuni serbatoi e rottami sparsi.» «Non c'è modo di stabilire la loro attuale posizione», osservò Giordino pacatamente. «Le onde giganti potrebbero averli trascinati per oltre un miglio.» «Quindi noi seguiamo il percorso verso est», disse Cristiano con una sfumatura di speranza. «In effetti, come lei aveva detto, signor Pitt, in quella direzione c'è una scia di corallo spezzato e divelto.» «Faremo più in fretta se cercheremo dalla barca. Al, mettiti a dritta, Cristiano a sinistra, e non staccate la testa dal bordo. Guidatemi con la voce lungo questa scia di corallo. Eseguirò le manovre che mi indicate.» Protesi all'esterno dell'imbarcazione con le maschere calate sugli occhi, Giordino e Lelasi immersero la testa in acqua per seguire il presunto percorso della stazione. Pitt conduceva la lancia come in trance, obbedendo inconsciamente alle indicazioni dei due compagni. Con la mente, in realtà, stava ripercorrendo gli ultimi due anni, da quando i suoi figli erano entrati nella sua vita avventurosa, ma spesso solitaria. Ricordò anche il momento in cui aveva incontrato la loro madre per la prima volta, nel vetusto hotel Ala Moana sulla spiaggia di Waikiki. Era seduto al bar dell'albergo e stava parlando con la figlia dell'ammiraglio Sandecker, quando lei era apparsa come una visione, con i lunghi capelli rosso fuoco che scendevano lungo la schiena. Il corpo perfetto era avvolto in un abito di seta verde di taglio orientale con gli spacchi sui fianchi. Il contrasto di colori lasciava senza fiato. Scapolo convinto, e tenace denigratore dell'amore a prima vista, Pitt si era reso conto in quell'istante di essere pronto a morire per lei. Purtroppo, era convinto che la giovane donna fosse annegata durante un terremoto che aveva distrutto la stazione sottomarina del padre di lei, in cui si trovavano al largo della costa settentrionale delle Hawaii. Erano riusciti a ritornare a galla insieme ma, prima che lui potesse fermarla, era tornata giù a cercare il padre. Non l'aveva più rivista. «La scia di corallo spezzato termina quindici metri più avanti!» urlò Giordino, alzando il viso dall'acqua.
«Hai visto la stazione?» chiese Pitt. «Non ce n'è traccia.» Pitt non riusciva a crederci. «Non può essere scomparsa. Deve essere qui da qualche parte.» Poi fu la volta di Lelasi di lanciare un grido. «Eccola, eccola!» «La vedo anch'io», disse Giordino. «È caduta in uno stretto crepaccio. Sembra più o meno a una profondità di trenta metri.» Pitt girò la chiave e spense i motori. Fece un segno a Lelasi e disse: «Getta una boa per segnalare la posizione e stai di guardia in barca. Al e io scenderemo». Era già vestito e attrezzato di tutto punto, doveva solo infilarsi le pinne. Dopo aver compiuto tale operazione, si tuffò, scomparendo nel mare di bollicine e schiuma provocato dal tuffo. Le pareti del crepaccio erano strettissime. Si stupì che la stazione potesse essere arrivata sino in fondo senza incastrarsi prima. Una familiare morsa gli stringeva lo stomaco, come sempre gli succedeva quando aveva brutti presentimenti. Si fermò un istante per inspirare profondamente e prepararsi a ciò che sperava di non trovare. Ma non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero di essere arrivato troppo tardi. Vista dall'alto la stazione sembrava intatta, cosa che non stupiva, data la robusta struttura. Giordino arrivò e ispezionò il portello danneggiato e schiacciato contro il corallo. Pitt fece segno di averlo notato a sua volta. Poi, quando vide i due serbatoi d'aria danneggiati, il respiro e il cuore si fermarono per un istante. No, mio Dio, pensò, mentre girava intorno alla stazione per cercare l'oblò panoramico. Fai che non siano rimasti senz'aria. Con quel terrore nel cuore, premette la maschera contro la spessa plastica trasparente, cercando di penetrare nell'oscurità interna. L'unica flebile luce era quella che arrivava dall'alto del crepaccio, e sembrava di guardare in una caverna fumosa. Vide Summer inerte su uno strato di lenzuola sul fondo della stazione e gli sembrò che Dirk fosse appoggiato a quello che un tempo era il pavimento, puntato sui gomiti e chino sulla sorella. Il cuore di Pitt ebbe un sussulto quando vide il ragazzo muoversi e fare il gesto di passare un respiratore dalla sua bocca a quella di Summer. Travolto dalla gioia di vederli vivi, picchiò furiosamente il manico del coltello sull'oblò. Il manometro dei serbatoi era sullo zero da qualche minuto e Summer e
Dirk respiravano piano dalla bombola cercando di far durare la riserva d'aria il più possibile. L'acqua all'esterno passava dal verde-azzurro al verde-grigio a mano a mano che la luce del sole se ne andava. Dirk guardò l'orologio subacqueo SUB 300T, dal quadrante arancio, che gli aveva donato suo padre: erano le 19.47. Non comunicavano con il mondo esterno da quasi sedici ore. Summer era quasi in stato d'incoscienza. Apriva gli occhi solo quando era il suo turno di attingere al respiratore, mentre Dirk tratteneva il fiato, cercando di far penetrare ogni molecola d'aria nei polmoni. Improvvisamente le parve di vedere qualcosa all'esterno. Pensò si trattasse di un grosso pesce, ma poi riconobbe il rumore di qualcosa che picchiava sul vetro. Si sedette di colpo, guardando oltre la spalla del fratello. C'era un sommozzatore lì fuori. Aveva la maschera pigiata contro l'oblò e agitava le mani con frenesia. Due secondi dopo, apparve un altro sommozzatore, che si dimostrò altrettanto entusiasta di averli trovati ancora in vita. Summer pensò di essere entrata in quello stato di beatitudine che precedeva il delirio. Poi si rese conto che i due uomini erano reali. «Dirk!» urlò. «Sono arrivati, ci hanno trovato!» Il giovane si voltò e sbatté gli occhi, con evidente sollievo. Poi, con grande emozione, riconobbe i due sommozzatori. «Mio Dio, sono papà e zio Al!» Ridendo di gioia, misero le mani sull'oblò mentre Pitt appoggiava il guanto nella stessa posizione, dall'altra parte. Poi prese una lavagna dalla cintura, scrisse due parole e la mostrò ai ragazzi: QUANTA ARIA? Dirk cercò nervosamente nella confusione dell'interno finché non trovò un pennarello e un pezzo di carta. A grandi lettere scrisse: 10, FORSE 15 MINUTI ANCORA. «Ce l'abbiamo fatta per un pelo», disse Giordino nel microfono. «È dannatamente vero», replicò Pitt. «Non c'è modo d'infrangere l'oblò prima che l'aria finisca.» Giordino esponeva realtà dolorose, ma che era necessario dire. «Solo un missile potrebbe aprirlo e, anche se ciò fosse possibile, a questa profondità l'acqua ir-
romperebbe all'interno con la forza di un'esplosione, travolgendo i ragazzi.» Giordino non finiva di stupirsi del sangue freddo e della mente calcolatrice di Pitt. Un altro, al suo posto, avrebbe ceduto al panico sapendo che i figli avevano pochi minuti prima di una lenta agonia. Pitt invece manteneva la calma. Era fermo nell'acqua come se stesse contemplando i languidi movimenti di un pesce tropicale. Pareva tranquillo, come se non ci fosse fretta. Quando parlò, il suo tono era chiaro e lineare. «Paul, mi senti?» «Ti sento e capisco il tuo problema. Che cosa posso fare da qui?» «Penso che nella cassetta degli attrezzi ci sia un trapano subacqueo Morphon.» «Sì, sono quasi certo che ce ne sia uno a bordo.» «Tienilo pronto sulla passerella e assicurati che vi sia montata la punta circolare più grande. Veniamo a prenderlo.» «Ti serve altro?» «Avremo bisogno di un altro paio di bombole con respiratore.» «Sarà tutto pronto al tuo arrivo.» A quel punto, Pitt scrisse sulla lavagna e mostrò il messaggio ai ragazzi: NON PREOCCUPATEVI, TORNIAMO FRA 10 MINUTI. I due uomini ripresero la via della superficie e scomparvero. Quando il padre e l'amico si allontanarono, per i ragazzi fu come un improvviso acquazzone in una giornata di sole splendente. La speranza era tornata quando li avevano visti, ma quella nuova separazione li fece ripiombare nello sconforto. «Vorrei che non se ne fossero andati», disse Summer con un filo di voce. «Non c'è da preoccuparsi. Sanno quanta aria abbiamo e torneranno prima di quanto tu pensi.» «Come credi che ci tireranno fuori di qui?» chiese Summer. «Se ci sono due persone in grado di fare un miracolo, quelle sono papà e Al.» Summer guardò l'indicatore del manometro della bombola. Vibrava appena, ma scendeva inesorabilmente verso lo zero. «Sarà meglio che si affrettino», mormorò in un soffio.
Barnum aspettava sulla passerella con le bombole e il trapano che gli erano stati chiesti. Con una manovra esperta, Pitt fermò la veloce imbarcazione proprio di fianco alla rampa e afferrò il tutto. «Grazie, Paul», disse. «Sono qui per servirti», replicò il comandante, con un sorriso tirato. Non fece a tempo a finire di parlare, che Pitt aveva già spinto le leve del gas e stava tornando a gran velocità alla boa che segnalava la posizione di Pisces. Una volta sul posto, Lelasi gettò l'ancora e Pitt e Giordino si tuffarono, dopo aver sistemato le maschere. Per riuscire a trasportare il trapano del peso di quasi un quintale, Pitt non aveva riempito il GAV. In tal modo, la massa dell'attrezzo l'avrebbe trascinato sul fondo in meno di un minuto, anche se doveva stabilizzare la pressione delle orecchie in modo molto frequente. Non appena fu saldamente piantato sul fondo sabbioso del crepaccio, appoggiò la punta del trapano all'oblò. Prima di accendere l'attrezzo, diede un'occhiata nella cabina. Summer sembrava in stato di semincoscienza e Dirk compiva deboli segni con la mano. Pitt depose in fretta il trapano e scrisse sulla lavagna: PERFOREREMO L'OBLÒ CON IL TRAPANO PER PASSARVI LE BOMBOLE. ATTENZIONE ALL'ACQUA CHE ENTRERÀ. Senza perdere altri secondi preziosi, iniziò il lavoro, sperando contro ogni ragionevolezza che la punta avrebbe perforato quel materiale duro quasi quanto l'acciaio. Il ronzio del motore del trapano, amplificato dall'acqua, e il rumore della punta che cercava di perforare l'oblò spaventarono tutti i pesci nel raggio di trenta metri e li fecero fuggire nella scogliera. Pitt spingeva con tutto il suo peso e la forza dei muscoli di gambe e braccia, ma fu grato a Giordino quando si piantò saldamente alle sue spalle e iniziò a spingere sulla cassa cilindrica dell'attrezzo insieme con lui. Un minuto dopo l'altro i due uomini proseguivano l'azione con tutta la loro potenza. Non parlavano. Non ce n'era bisogno. Lavoravano insieme da più di quarant'anni e potevano quasi leggersi nel pensiero; erano una perfetta coppia di cavalli da tiro. Pitt sembrò perdere il sangue freddo solo quando dall'interno non venne-
ro più segni di vita. Ma la punta penetrava con facilità sempre maggiore nella plastica e infine riuscì ad arrivare dall'altra parte. Nel momento stesso in cui il trapano fu spento, Giordino infilò una bombola con il respiratore nell'apertura di venticinque centimetri, aiutato dall'acqua che, a causa della minore pressione, defluiva all'interno. Pitt voleva gridare ai ragazzi di reagire, ma non avrebbero potuto sentirlo. Vedeva che Summer non si muoveva più. Stava per riprendere il trapano per allargare l'apertura e scivolare dentro, quando Dirk riuscì ad afferrare il respiratore e metterselo in bocca. Due profonde boccate d'aria e fu di nuovo in forma. Senza esitare, lo infilò fra i denti della sorella. Il loro padre avrebbe voluto urlare di gioia quando Summer sbatté gli occhi e ricominciò a respirare. Benché l'acqua stesse rapidamente sommergendo la cabina, adesso i ragazzi avevano tutta l'aria che volevano. Pitt e Giordino recuperarono il trapano e si misero all'opera per allargare il foro, in modo da far passare i due giovani. Non c'era più fretta, adesso. Poterono lavorare a turno finché l'apertura non prese la forma di un quadrifoglio e fu larga a sufficienza da permettere a una persona di attraversarla. «Paul», chiamò Pitt al microfono. «Ti ascolto», rispose Barnum. «Che cosa mi dici della camera iperbarica?» «È pronta ad accoglierli non appena salgono a bordo.» «A quale profondità e per quanto tempo sono stati nella stazione?» «A quindici metri, per tre giorni e quattordici ore.» «Avranno quindi bisogno di circa quindici ore di decompressione.» «Ci staranno per tutto il tempo necessario», disse Barnum. «C'è un esperto di medicina iperbarica a bordo. Calcolerà lui l'esatto periodo.» Giordino fece segno a Pitt di aver concluso il lavoro. La cabina era quasi del tutto inondata e il flusso d'acqua era adesso meno forte. Entrò, afferrò Summer per la mano e la portò fuori. Dirk passò la seconda bombola e la ragazza la abbracciò, iniziando a respirare con tranquillità. Poi, improvvisamente, fece segno di aspettare un attimo e scomparve di nuovo all'interno della stazione. Quando riapparve, pochi minuti dopo, aveva in mano una busta di plastica sigillata con il blocco dei suoi appunti, il dischetto del computer e la cinepresa digitale. Giordino la prese per un braccio e iniziò con lei la risalita. Poi fu la volta di Dirk di uscire, con l'altra bombola portata dal padre. Pitt lo abbracciò velocemente prima di risalire con lui in superficie. Non appena i ragazzi furono a bordo, Lelasi spinse le leve del gas e partì a tutta
forza verso la nave. Per non perdere neanche un istante, Pitt e Giordino rimasero in acqua, allontanandosi per non essere travolti dalle eliche. Quando Cristiano tornò a prenderli, Dirk junior e Summer erano già nella camera iperbarica. La decompressione è necessaria per evitare la sindrome comunemente nota come MDD, malattia da decompressione. In condizioni di pressione atmosferica normale, il corpo elimina con la respirazione quasi tutto l'eccesso di azoto. Quando la pressione aumenta, come durante un'immersione, si ha un'eccedenza di azoto che viene immessa nella circolazione sanguigna. Durante la risalita, a mano a mano che la pressione esterna diminuisce, nel sangue si formano bolle di azoto puro che crescono fino a non essere più in grado di attraversare i tessuti polmonari. Per permettere all'apparato respiratorio di eliminare quelle bolle, il sommozzatore deve rimanere nella camera iperbarica, dove la pressione viene diminuita lentamente e l'aria è composta da ossigeno puro. Dirk e Summer trascorsero le lunghe ore di decompressione, sotto l'occhio vigile del medico specialista, leggendo e scrivendo i rapporti sulle loro scoperte, sulla melma e sui coralli morenti, oltre che le loro impressioni sulla grotta dove avevano ritrovato l'antico manufatto. Le stelle brillavano come diamanti e le luci dei palazzi di Fort Lauderdale erano tutte accese, quando la Sea Sprite fece il suo ingresso a Port Everglades, uno dei porti per navi di grande stazza più affollati del mondo. Il ponte illuminato della grande nave oceanografica sfiorò una lunga fila di eleganti transatlantici da crociera, che stavano imbarcando passeggeri e rifornimenti per la prevista partenza del mattino successivo. Avvertite dalla guardia costiera, tutte le navi nel porto diedero tre colpi di sirena per salutare la Sea Sprite che passava per raggiungere la banchina della NUMA. La notizia dell'epico salvataggio dell'Ocean Wanderer e dei suoi mille ospiti, avvenuto solo quarantotto ore prima, aveva ormai fatto il giro del mondo. Pitt temeva molto l'accoglienza che i giornalisti avevano sicuramente organizzato sul molo. Si sporse oltre la battagliola di prua per guardare l'acqua scura, attraversata da lampi di luce bianca che partivano dalla nave. Si accorse poco dopo che qualcuno gli si era avvicinato e, quando si voltò, vide il volto sorridente del figlio. Non smetteva mai di stupirsi del fatto che era come vedere se stesso in uno specchio venticinque anni prima. «Che cosa pensi che ne faranno?» chiese Dirk junior. «Ne faranno di che cosa?» replicò il padre, con un'espressione incuriosi-
ta. «Di Pisces.» «La decisione di recuperarla o no spetta all'ammiraglio Sandecker. Portare un argano con una gru sopra la barriera corallina mi sembra molto difficile e, anche se fosse possibile, sollevare sessantacinque tonnellate di peso morto fra le strette pareti del crepaccio potrebbe comportare costi proibitivi. Mi sembra più probabile che l'ammiraglio decida di abbandonarla.» «Mi sarebbe piaciuto esserci quando tu e Al avete portato le cime legate ai cavi di ormeggio dell'hotel fino alla Sea Sprite.» Pitt sorrise. «Credo che nessuno di noi due lo rifarebbe.» Fu il giovane, adesso, a sorridere. «Sarei costretto a scommettere contro di te.» Pitt si girò, appoggiandosi al parapetto. «Vi siete ripresi bene, voi due?» «Abbiamo superato tutti i test con il miglior punteggio e non ci sono segni di effetti collaterali.» «Ci sono sintomi che possono insorgere anche dopo giorni o settimane. Cercate di riguardarvi per un po'. Nel frattempo, se non volete rimanere con le mani in mano, ho io un incarico per voi.» Dirk rivolse al padre un'occhiata sospettosa. «Di che si tratta?» «Ho combinato un incontro con St. Julien Perlmutter. Potreste lavorare con lui per capire qualcosa di più di quei manufatti antichi che avete trovato al Banco de la Navidad.» «Ciò che dovremmo fare è tornare là e analizzare più a fondo ciò che abbiamo trovato in quella grotta.» «Potrebbe essere una cosa possibile in futuro», lo rassicurò Pitt. «Ma non è ancora il momento. D'altronde, non abbiamo scadenze.» «E che cosa mi dici della melma che sta uccidendo il mare nella barriera?» insistette Dirk. «Non può essere ignorata.» «L'agenzia organizzerà presto un'altra spedizione con personale e navi diversi per tornare sul posto e studiare questa calamità.» Il giovane si girò a guardare il riflesso tremolante delle luci nell'acqua del porto. «Mi piacerebbe avere più tempo da passare insieme», aggiunse, con voce piena di speranza. «Che ne dici di una battuta di pesca sui fiumi canadesi?» suggerì il padre. «Io ci sto.» «Lo chiederò a Sandecker. Dopo i risultati degli ultimi giorni, penso che non mi negherà un po' di svago.»
Furono raggiunti da Giordino e Summer, che contraccambiavano il saluto delle altre navi del porto. La Sea Sprite virò e il molo della NUMA apparve alla vista. Come Pitt aveva temuto, era affollato di giornalisti e operatori televisivi. Barnum portò il fianco della nave lungo la banchina e l'equipaggio gettò le cime di ormeggio. Non appena la passerella fu abbassata, l'ammiraglio James Sandecker sgattaiolò sull'imbarcazione come una volpe nel pollaio. E in effetti aveva anche l'aspetto di una volpe, con quei lineamenti sottili e la barba e i capelli fulvi. Era seguito dal vicedirettore della NUMA Rudi Gunn, il genio amministrativo dell'agenzia. Fu Barnum ad accogliere il grande capo. «Benvenuto a bordo, ammiraglio. Non mi aspettavo di vederla.» Sandecker indicò la folla di giornalisti sul molo e s'illuminò. «Non mi sarei perso questo spettacolo neanche per tutto l'oro del mondo.» Poi prese la mano di Barnum e la strinse nella sua. «Magnifico lavoro, comandante. Tutta l'agenzia è fiera di lei e del suo equipaggio.» «È stato un gioco di squadra», replicò il comandante, con modestia. «Senza l'eroica impresa di Pitt e Giordino, l'Ocean Wanderer si sarebbe schiantato sulle rocce.» Proprio in quel momento, Sandecker individuò i due protagonisti e si diresse verso di loro. «Bene», disse con tono burbero. «Siamo alle solite. Non riuscite proprio a star lontano dai guai, voi due.» Pitt sapeva che quello era il miglior complimento che l'ammiraglio potesse fare. «Diciamo che è stata una fortuna che stessimo lavorando a Puerto Rico quando Heidi Lisherness ha dato l'allarme dal centro di Key West.» «E grazie a Dio siete riusciti ad arrivare in tempo per evitare una tragedia di incredibili proporzioni», aggiunse Gunn. Era un uomo basso, con occhiali di tartaruga e il dono di riuscire subito simpatico a chi lo incontrava. «La fortuna è stata un fattore determinante», disse Giordino con modestia. Arrivarono anche Dirk e Summer, che l'ammiraglio salutò con calore. «Non sembrate due che hanno passato tutti quei guai.» «Se papà e Al non fossero arrivati in quel preciso momento, non saremmo qui», disse Summer. Il sorriso di Sandecker sembrava cinico, ma gli occhi erano pieni di orgoglio. «Sembra proprio che il lavoro per i buoni samaritani non finisca
mai.» «A questo proposito, avrei una richiesta», intervenne Pitt. «Richiesta respinta», disse Sandecker, leggendogli nel pensiero. «Potrete prendervi una vacanza solo alla fine del prossimo incarico.» Giordino fissava l'ammiraglio con uno sguardo vuoto. «Lei è un vecchio demonio.» Sandecker ignorò la battuta. «Il tempo di mettere insieme le vostre cose e Rudi vi porterà all'aeroporto, dove c'è un nostro aereo pronto a condurvi a Washington. È pressurizzato, così Dirk e Summer non avranno complicazioni in seguito alla recente decompressione. Ci vediamo nel mio ufficio domani a mezzogiorno.» «Spero ci siano dei letti sull'aereo, perché è l'unico momento in cui potremo dormire», commentò Giordino. «Volerà con noi, ammiraglio?» chiese Summer. Sorrise compiaciuto. «Io? No, vi seguirò con il volo successivo.» Si avviò verso i giornalisti e aggiunse: «Qualcuno deve pur immolarsi sull'altare della stampa». Giordino trasse dal taschino un sigaro che stranamente assomigliava molto a uno di quelli dell'ammiraglio. Mentre lo accendeva, con sguardo di sfida, disse: «Si assicuri che scrivano bene i nostri nomi». Heidi Lisherness guardava distrattamente gli schermi con le immagini dell'ormai placato uragano Lizzie. Dopo aver virato a sud-ovest seminando il terrore fra le navi nel mar dei Caraibi, aveva colpito la costa del Nicaragua fra Puerto Cabezas e Punta Gorda. Per fortuna, in quel momento la sua potenza si era dimezzata e quel tratto di territorio era pressoché disabitato. Giusto il tempo di attraversare gli ottanta chilometri di paludi e di raggiungere le alture e si era dissolto. Dietro di sé aveva però lasciato una scia di diciotto navi affondate con tutto l'equipaggio, tremila vittime e diecimila senzatetto. Heidi non osò neanche pensare quale avrebbe potuto essere il bilancio se non avessero allertato i governi quasi nel momento stesso in cui l'uragano si era formato. Era seduta davanti alla scrivania coperta di fotografie, rapporti, grafici, bicchierini del caffè quando suo marito Harley entrò e pensò che la tempesta dovesse essere passata anche da quell'ufficio. «Heidi», disse, mentre le poneva una mano sulla spalla. La donna lo guardò con gli occhi arrossati. «Oh, Harley, sono felice che tu sia venuto.»
«Vieni, ragazza mia, hai fatto un ottimo lavoro. Adesso è tempo di tornare a casa.» Con aria stanca, ma con uno sguardo carico di gratitudine, Heidi si alzò e si appoggiò al marito, avviandosi all'uscita per lasciarsi alle spalle il Centro uragani e tutta quella confusione. Quando fu sulla porta, si voltò un momento per un'ultima occhiata, concentrandosi su un foglio di carta che qualcuno aveva attaccato al muro. Le lettere maiuscole recitavano: SE CONOSCESTE LIZZIE COME NOI CONOSCIAMO LIZZIE, OH, OH, OH, CHE TEMPESTA. Sorrise fra sé e spense le luci, lasciando la stanza nell'oscurità. PARTE SECONDA E ADESSO? 15 23 agosto 2006 Washington, D.C. L'aria era calda e satura di umidità, senza un filo di aria che la mitigasse. Il cielo blu cobalto era solcato da nuvole bianche simili a un gregge di pecore. In quella giornata di mezza estate, solo i turisti si affannavano per la città insonnolita. Il Congresso aveva fatto di tutto per sospendere le sessioni e fuggire da quell'atmosfera opprimente, limitandosi a quelle assolutamente necessarie e a poche altre che dovevano dar lustro all'immagine dei rappresentanti. Quando scese dal Citation dell'agenzia, Pitt non notò una grande differenza con il clima tropicale da cui veniva. L'aeroporto governativo era pochi chilometri a nord della capitale ed era deserto. Giordino, Summer e Dirk lo seguirono giù dalla scaletta e sulla pista d'asfalto, così calda da poterci cuocere un uovo. L'unico veicolo in attesa nel parcheggio era una meravigliosa Marmon del 1931 con motore V-16. Era un'auto di stupefacente classe, tecnicamente avanzata per il suo tempo, nobile ed elegante. Ne erano state costruite solo 390, perfette nell'assetto, silenziose, con un motore da 192 cavalli e coppia da 49 chilogrammetri. Dipinta in rosa polvere, la vettura era perfettamente in linea con lo slogan della Marmon: «L'auto più innovativa del mondo». Altrettanto bella ed elegante in ogni suo particolare era la donna che sta-
va accanto alla vettura. Alta e affascinante, con capelli color cannella che cadevano sulle spalle e splendevano al sole, aveva il volto di una modella, con gli zigomi alti e valorizzati da occhi di un delicato viola. Era Loren Smith, un membro del Congresso. Indossava una camicetta di pizzo bianca che ne valorizzava la figura e un paio di pantaloni in tinta, dal taglio morbido, che si appoggiavano su scarpe di tela bianche. Salutò il gruppo appena arrivato con un cenno della mano, sorrise e corse verso Pitt. Poi lo guardò negli occhi e lo baciò delicatamente sulla bocca, prima di ritrarsi. «Bentornati a casa, marinai.» «Vorrei un dollaro per tutte le volte che te l'ho sentito dire.» «Saresti ricco», replicò la donna con un sorriso pieno di grazia. Poi abbracciò Giordino, Summer e Dirk. «Ho sentito della vostra avventura.» «Se non fosse stato per papà e Al», disse Dirk, «a quest'ora Summer e io avremmo le ali.» «Quando vi sarete sistemati, dovrete raccontarmi tutto.» Depositarono le valigie e i borsoni davanti alla macchina, li caricarono nel bagagliaio e ai piedi dei sedili posteriori e salirono. Loren e Pitt si misero davanti, nella parte scoperta, mentre gli altri entrarono nell'abitacolo, dietro il vetro divisorio. «Dobbiamo lasciare Al a casa sua, ad Alexandria?» chiese lei. Pitt annuì. «Poi andiamo all'hangar a fare una doccia. L'ammiraglio ci vuole nel suo ufficio a mezzogiorno.» Loren scoccò uno sguardo all'orologio sul cruscotto: le 10.25. Aggrottò le sopracciglia in modo delizioso, si sistemò alla guida e disse: «Dopo tutto quello che avete passato, non avete neanche il tempo di rilassarvi. Non vi sta chiedendo un po' troppo?» «Sai benissimo che dietro una facciata ruvida batte un cuore generoso. Non avrebbe insistito se non fosse importante.» «Tuttavia», aggiunse Loren, mentre superava il gabbiotto delle guardie armate all'ingresso dell'aeroporto, «poteva concedervi ventiquattr'ore per riprendervi.» «Sapremo presto che cos'ha in mente», mormorò Pitt, facendo del suo meglio per non cedere alla stanchezza. Quindici minuti dopo, Loren superava i cancelli del complesso condominiale dove viveva Giordino. Scapolo, senza matrimoni falliti alle spalle, non sembrava avere fretta di fare il grande passo. Preferiva svolazzare da un fiore all'altro, così almeno diceva. Loren non l'aveva praticamente mai visto con la stessa donna due volte di seguito. Gli aveva presentato diverse
amiche ed era piaciuto a tutte, ma nessuna di quelle relazioni era durata a lungo. Pitt lo paragonava a un cercatore che voleva trovare l'oro nei paradisi tropicali, ma che non ci riusciva perché non si allontanava dalla spiaggia e dalle palme. Giordino scaricò i suoi bagagli e salutò. «Ci vediamo tra poco... troppo poco, per la verità.» La strada verso l'hangar dove viveva Pitt era deserta. La singolare abitazione si trovava su un lato non utilizzato dell'aeroporto nazionale Ronald Reagan e, anche in quel caso, dovettero attraversare un posto di guardia. Loren fermò l'auto davanti all'hangar che negli anni '30 e '40 del secolo precedente era appartenuto a una linea aerea da tempo non più in servizio. Pitt l'aveva acquistato per ospitare la sua collezione di automobili d'epoca e aveva trasformato gli uffici al primo piano in un appartamento. Dirk e Summer vivevano a pianterreno, sistemati in una carrozza ferroviaria Pullman che era stata trovata in una galleria di New York; oltre al vagone, c'erano decine di vetture e un paio di vecchi aeroplani. Loren frenò proprio davanti all'ingresso principale e aspettò che Pitt disinserisse, con un telecomando, il complicato sistema d'allarme. Poi la porta si aprì e la donna fu in grado di portare la vettura all'interno, in mezzo agli altri magnifici modelli classici che andavano da una Cadillac V-8 del 1918 a una Rolls-Royce Silver-Dawn con carrozzeria Hooper del 1955. Sistemate su un pavimento in resina epossidica bianco e illuminate da un lucernario, le vecchie signore stupivano con un arcobaleno di colori. Dirk e Summer si ritirarono nei loro scompartimenti, nel vagone, mentre Pitt e Loren salirono nell'appartamento, dove lui si concesse una doccia e la barba e la donna preparò uno spuntino per tutti e quattro. Trenta minuti dopo, Pitt uscì dalla stanza con pantaloni casual e una camicia da golf. Si sedette al tavolo della cucina e Loren gli porse un cocktail. «Hai mai sentito parlare di un colosso finanziario di nome Odyssey?» le chiese Pitt, senza preamboli. Lei lo fissò per un istante. «Certo, faccio parte di una commissione governativa che ne sta controllando l'operato. Non è però una notizia di quelle che appaiono sui giornali. Tu che cosa sai delle nostre indagini?» Pitt si strinse nelle spalle. «Assolutamente nulla. Non sapevo nemmeno che lo Spettro interessasse al Congresso.» «Ah, già, il misterioso fondatore. Perché mi hai fatto quella domanda?» «Solo per curiosità. Lo Spettro è il proprietario dell'hotel che Al e io abbiamo contribuito a salvare dall'uragano Lizzie.»
«A parte il fatto che è a capo di un'importante struttura di ricerca scientifica con sede in Nicaragua e che è coinvolto in una serie di vasti progetti edilizi e operazioni minerarie in tutto il mondo, si sa poco di quell'uomo. Alcuni dei suoi affari internazionali sono perfettamente legali, altri molto nebulosi.» «Quali sono i suoi progetti negli Stati Uniti?» «La canalizzazione dei deserti del Sud-ovest e qualche diga. Tutto qui.» «Di che genere di ricerca scientifica si occupa?» Loren alzò le spalle. «Le attività in quel settore sono accuratamente tenute segrete e, siccome la sede è in Nicaragua, non ci sono leggi che obblighino a rivelare la natura degli esperimenti. Secondo indiscrezioni, starebbero lavorando sulle celle a combustibile, ma non vi è niente di certo. Odyssey non è in cima alla lista delle priorità della CIA.» «E nel settore edilizio?» «Si tratta perlopiù di gallerie e magazzini sotterranei», rispose Loren. «Anche qui, all'orecchio del servizio segreto sono arrivate voci secondo cui Odyssey starebbe scavando le montagne per ospitare armi nucleari e batteriologiche clandestine, costruite in Paesi come la Corea del Nord. Mancano però le prove. Si sa che la società è coinvolta in una serie di progetti con la Cina, ma quello Stato non divulga certo i programmi di ricerca militare e armamento. Odyssey sembra specializzata nella costruzione di magazzini sotterranei, dove si possono sistemare impianti di produzione di armi e svolgere attività militari al riparo dagli occhi indiscreti dei satelliti spia.» «Lo Spettro, però, ha anche costruito quell'hotel galleggiante.» «È un giocattolo che usa per intrattenere i clienti», spiegò Loren. «Il settore turistico è solo un passatempo.» «Chi è in realtà lo Spettro? Il direttore dell'Ocean Wanderer non ne ha certo una buona opinione.» «Probabilmente non tiene al suo lavoro.» «Non è così. Mi ha detto che non lavorerà mai più per lo Spettro perché è scappato dall'hotel prima che l'uragano colpisse, abbandonando al loro destino gli ospiti e il personale.» «Lo Spettro è un personaggio alquanto misterioso. Probabilmente è l'unico presidente di una holding di simili proporzioni che non abbia un portavoce personale o un ufficio di relazioni pubbliche. Non ha mai rilasciato un'intervista e si fa vedere di rado in pubblico. Non si sa niente del suo passato, della famiglia né degli studi che ha intrapreso.»
«Non esiste neanche un certificato di nascita?» Loren scosse la testa. «Non negli Stati Uniti o negli archivi ufficiali delle altre nazioni del mondo. La sua vera identità è ancora sconosciuta, nonostante i grandi sforzi dei servizi investigativi. Alcuni anni fa, l'FBI aveva tentato di aprire un fascicolo su di lui, ma non ha mai avuto elementi per riempirlo. Non esistono foto segnaletiche perché si copre il volto con una sciarpa e occhiali scuri. Non si riesce ad avere le impronte digitali perché indossa sempre i guanti. Neanche i suoi più stretti collaboratori l'hanno mai visto. Tutto ciò che s'intuisce di lui è che è obeso, probabilmente pesa centottanta chili.» «Nessuno può godere di una simile copertura.» Loren rispose con un gesto d'impotenza. Pitt si versò una tazza di caffè. «Dove si trova il quartier generale del suo impero?» «In Brasile», rispose Loren. «E un'altra sede importante è quella di Panama. Lo Spettro ha fatto grandi investimenti nel Paese e il presidente gli ha accordato la cittadinanza. Ha anche nominato lo Spettro direttore dell'ente che gestisce il canale di Panama.» «Per quale ragione il Congresso sta indagando su di lui?» continuò Pitt. «Per via dei suoi affari con la Cina. Quella dello Spettro con la Repubblica popolare è una relazione che dura da quindici anni. In qualità di direttore dell'ente gestore del canale di Panama, ha avuto un ruolo chiave nell'aiutare la Whampoa Limited - una società con base a Hong Kong, legata al Fronte di liberazione popolare - a ottenere una concessione di venticinque anni per il controllo dei due porti alle estremità del canale, Cristóbal sull'Atlantico e Balboa sul Pacifico. La Whampoa dovrebbe anche gestire le operazioni di carico e scarico di tutte le navi mercantili, i trasporti su ferrovia fra i due porti e la costruzione di un nuovo ponte sospeso che permetterà lo spostamento su camion di grandi container nella zona del canale.» «Che cosa sta facendo il nostro governo in tal senso?» Loren scosse la testa. «Niente, che io sappia. Il presidente Clinton ha favorito la penetrazione dei cinesi nel Centro America.» Dopo qualche secondo, aggiunse: «Un'altra singolare particolarità di Odyssey è che il management è quasi tutto composto da donne». Pitt sorrise. «Quindi lo Spettro sarà l'idolo dei movimenti femministi.» Dirk e Summer arrivarono per uno spuntino prima di uscire. Per raggiungere l'ufficio di Sandecker, Pitt si mise alla guida di un veicolo ufficia-
le della NUMA, dal tradizionale color turchese. Durante il tragitto, lasciarono Loren presso la sua abitazione, in città. «Ci vediamo per la cena?» le chiese Pitt. «Vengono anche Dirk e Summer?» «Potrei anche trascinarmeli dietro», disse Pitt con un sorriso, «ma solo se tu insisti.» «Insisto.» Loren gli strinse con forza la mano e scese con eleganza dall'auto. Con passo leggero, raggiunse la porta di casa ed entrò. Il quartier generale della NUMA era un edificio di trenta piani situato su un'altura affacciata sul fiume Potomac, da cui si godeva un'invidiabile vista sulla città. Sandecker aveva scelto personalmente il luogo quando il Congresso gli aveva concesso i fondi per la costruzione. Il palazzo era risultato molto più opulento di quanto non fosse nel progetto originale e i costi avevano superato i preventivi di diversi milioni di dollari. Ciò era stato possibile perché quella zona a est del fiume era fuori del District of Columbia e quindi non soggetta alle restrizioni in fatto di altezza presenti a Washington. La magnifica struttura in vetro tubolare verde era visibile a chilometri di distanza. Pitt portò l'auto nell'affollato parcheggio sotterraneo e la sistemò nel suo posto riservato. Poi prese l'ascensore con i ragazzi e raggiunse l'ultimo piano, dove si trovava l'ufficio del capo. Quando le porte si aprirono, si trovarono in un'anticamera dalle pareti rivestite di pannelli di tek ricavati dai ponti di navi affondate. Giordino era stranamente già lì, con indosso pantaloni casual e una camicia a fiori hawaiiana. La segretaria di Sandecker chiese loro con cortesia di attendere, perché l'ammiraglio era in riunione. Li aveva appena fatti accomodare, quando la porta dell'ufficio si aprì e due vecchi amici vennero loro incontro. Si trattava di Kurt Austin, dai capelli prematuramente bianchi, l'alter ego di Pitt nella sezione progetti speciali, e Joe Zavala, l'asciutto ingegnere che aveva spesso lavorato con Giordino su progetti e costruzione di veicoli sottomarini. «Dove vi manda stavolta il vecchio gufo?» chiese Giordino, dopo le strette di mano. «Siamo diretti nelle regioni settentrionali del Canada. Pare siano stati avvistati dei pesci mutanti nei laghi e noi dobbiamo verificare l'informazione.» «Abbiamo sentito del salvataggio dell'Ocean Wanderer nel bel mezzo
dell'uragano Lizzie», disse Zavala. «Non mi aspettavo di vedervi già in servizio.» «Nel libro paga di Sandecker non esiste la parola 'ferie'», dichiarò Pitt, con un mezzo sorriso. Austin salutò Dirk e Summer con un cenno del capo. «Uno di questi giorni dovete venire da me per una grigliata.» «Mi piacerebbe molto», disse Pitt, accettando l'invito. «È da molto che desidero vedere la tua collezione di armi antiche.» «E io devo ancora vedere la tue vetture.» «Allora organizziamo un giro turistico. Aperitivo con antipasto a casa mia e poi grigliata da te.» «Consideralo organizzato.» La segretaria di Sandecker si avvicinò. «L'ammiraglio è pronto a ricevervi.» Dopo i saluti, Austin e Zavala si diressero all'ascensore mentre Pitt e gli altri entrarono nell'ufficio del capo, che era seduto alla sua immensa scrivania. Da gentiluomo vecchio stile, si alzò all'ingresso di Summer e la fece accomodare per prima davanti alla scrivania. A quel punto arrivò Rudi Gunn, dal suo ufficio al ventottesimo piano. Senza perdersi in preamboli, Sandecker diede inizio alla riunione. «Abbiamo due interessanti questioni da affrontare. La più importante è la faccenda della cosiddetta 'melma' che infesta i Caraibi, della quale però discuteremo in seguito.» Si fermò per guardare negli occhi prima Summer e poi Dirk. «La seconda è che voi avete aperto un vaso di Pandora con la vostra scoperta al Banco de la Navidad.» «Non ho più avuto notizie dei risultati dei test da quando l'urna è stata inviata al laboratorio», disse Summer. «La stanno ancora pulendo», spiegò Gunn. «Ma Hiram Yaeger e la sua fatina elettronica sono riusciti a stabilirne la data e la civiltà d'origine.» Prima che Summer potesse fare altre domande, Sandecker aggiunse: «Hiram l'ha classificata come un'anfora anteriore al 1100 a.C, di origine celtica». «Celtica?» ripeté Summer. «Ne è sicuro?» «Ha le stesse caratteristiche di altre anfore create da quel popolo circa tremila anni fa.» «Che cosa mi dice del pettine che abbiamo fotografato?» chiese Summer.
«Senza l'oggetto reale, il computer di Hiram può solo fare delle supposizioni, ma si dovrebbe comunque trattare di oggetti vecchi di tremila anni», rispose Sandecker. «Da dove si pensa che provengano i manufatti?» chiese Pitt. L'ammiraglio fissò il soffitto. «Poiché i celti non erano marinai e non si ha notizia di una loro spedizione al di là dell'Atlantico, l'anfora deve essere caduta o essere stata gettata da una nave di passaggio in epoca più recente.» «Nessuna nave sarebbe passata sulla barriera corallina a meno di non doversi far aprire lo scafo in due per riscuotere una ricca assicurazione», osservò Pitt. «L'altra possibilità è che l'imbarcazione sia stata gettata sugli scogli da una tempesta.» Gunn abbassò gli occhi sul tappeto come se stesse rimuginando qualcosa. «Secondo i registri assicurativi, un vecchio vapore di nome Vandalia si schiantò sulla scogliera.» «Ho esplorato il relitto», intervenne Summer, guardando il fratello per avere l'approvazione a continuare. Dirk annuì e aggiunse: «L'anfora non è l'unica cosa che abbiamo trovato». «Ciò che Dirk vuole dire è che là sotto esiste anche una grotta o abitazione fatta di stanze scavate nella roccia che è poi stata ricoperta dal corallo.» Infilò una mano nella borsa ed estrasse la telecamera digitale. «Abbiamo scattato delle foto degli ambienti e di un braciere sbalzato con figure di antichi guerrieri. Era pieno di piccoli oggetti di uso quotidiano.» Sandecker guardò la ragazza incredulo. «Una città sommersa nell'emisfero occidentale, antecedente alle civiltà maya, inca e azteca? Non sembra possibile.» «Non avremo risposte finché non verrà organizzata un'esplorazione più completa.» Summer teneva la telecamera come se fosse un gioiello prezioso. «La struttura osservata sembrava essere una sorta di tempio.» Sandecker si rivolse a Gunn. «Rudi!» Gunn annuì, prese l'apparecchio dalle mani di Summer e premette un interruttore sulla parete. Uno dei pannelli laterali si alzò e apparve un grande televisore digitale. Rudi inserì il filo della telecamera nel televisore, afferrò il telecomando e iniziò a far scorrere le immagini riprese da Dirk e Summer nel tempio sommerso. Vi erano più di trenta immagini, che iniziavano dall'arco d'ingresso e illustravano poi le tre stanze nei minimi dettagli.
Dirk e Summer commentavano le immagini a mano a mano che Gunn le faceva scorrere. Quando fu esaminata anche l'ultima fotografia, rimasero tutti in silenzio per qualche istante. Fu Pitt a parlare per primo. «Penso che dovremmo interpellare subito St. Julien Perlmutter.» Gunn sembrava scettico. «Perlmutter non è un archeologo.» «Lo so, ma, se c'è qualcuno esperto nelle teorie di antichi navigatori arrivati nel nostro mondo prima di Colombo, quello è lui.» «Vale la pena fargli una telefonata», concordò Sandecker. Tornò a interpellare Dirk e Summer. «Questo sarà il vostro compito di ricerca per le prossime due settimane: trovare risposte. Consideratela una vacanza lavorativa.» Fece girare la grande poltrona in pelle finché non incontrò lo sguardo di Pitt e Giordino. «E ora, per quanto riguarda la melma, tutto ciò che sappiamo è che non è associata a una diatomea o a un tipo di alga. Né è una tossina naturale come quella legata al fenomeno della marea rossa. Sappiamo invece fin troppo bene che lascia una scia di devastazione perché viene trascinata in mare aperto e trasportata fino al golfo del Messico e alla Florida dalla corrente equatoriale nord. Gli scienziati sono convinti che sia già arrivata in acque statunitensi e, in effetti, da Key West arrivano segnalazioni di colonie di spugne attaccate da un misterioso fenomeno che le distrugge.» «Mi spiace, ma i contenitori di vetro con i campioni di acqua e specie morte che avevo prelevato si sono infranti durante la caduta di Pisces nel crepaccio», dichiarò Summer. «Non fartene una colpa. Abbiamo campioni che arrivano giornalmente da cinquanta diverse località in tutti i Caraibi.» «Si ha idea di quale possa essere l'origine?» chiese Pitt. Gunn sfilò gli occhiali dalla montatura di tartaruga e pulì le lenti con una pezzuola. «In realtà, no. Gli scienziati hanno analizzato i campioni, i dati relativi a venti e correnti, le immagini satellitari e i rapporti di avvistamento. L'ipotesi più accreditata è che la melma parta da un qualche punto al largo della costa del Nicaragua. Ma per il momento è solo una supposizione.» «Potrebbe derivare da sostanze chimiche immesse in un fiume?» chiese Dirk. Sandecker fece rotolare fra le dita uno dei suoi grandi sigari, senza accenderlo. «È possibile, ma non abbiamo ancora scoperto una scia che ci porti alla fonte.»
«È davvero un brutto affare», commentò Gunn. «Questa sostanza è mortale per la maggior parte della vita marina e occorre trovare una soluzione prima che si diffonda senza controllo in tutti i Caraibi e li trasformi in un mare di nera fanghiglia dove la vita sarebbe impossibile.» Pitt fissò Gunn. «Quello che dipingi è un panorama alquanto fosco.» «Occorre trovare l'origine di questo male e sviluppare una contromisura», aggiunse Sandecker. «E qui entrate in scena lei e Al. La vostra missione è esplorare le acque al largo della costa del Nicaragua. Ho fatto preparare una delle navi oceanografiche classe Neptune. Non c'è bisogno che vi dica che è una piccola imbarcazione con equipaggio di non più di cinque uomini. È attrezzata con strumenti di ricerca fra i più innovativi, per progetti specialistici come questo. A differenza delle altre navi da ricerca e ricognizione, è velocissima e può sfidare qualsiasi altro vascello.» «È come la Calliope che siamo stati costretti a distruggere sul Niger molti anni fa», specificò Pitt, senza alzare lo sguardo dagli appunti che stava prendendo su un blocchetto giallo. «Avrei dovuto scalare il costo della perdita dalle vostre buste paga.» «Se per lei è lo stesso, ammiraglio, Al e io non vorremmo fare niente di così eclatante, questa volta.» «E non dovrete farlo», dichiarò Sandecker, accendendo infine il sigaro senza badare ai non fumatori. «La Poco Bonito è la mia gioia e il mio orgoglio. È lunga ventitré metri e assolutamente poco appariscente. Trae in inganno perché è stata costruita sul modello di un peschereccio di fabbricazione scozzese.» Pitt restava sempre affascinato dalla fantasia di Sandecker nell'inventarsi imbarcazioni stravaganti. «Una nave di ricerca oceanografica camuffata da peschereccio. È senz'altro il primo esperimento del genere.» «Un peschereccio di quel tipo nel mar dei Caraibi non può che fare lo stesso effetto di un accattone al ballo delle debuttanti», obiettò Giordino, esprimendo alcuni dubbi. «Non preoccupatevi», replicò Sandecker. «L'aspetto esteriore della Poco Bonito è stato modificato a computer per farla assomigliare a un qualsiasi peschereccio moderno.» Pitt fissò il tappeto, cercando d'immaginarsi una simile nave. «Se il mio spagnolo da scuola superiore non m'inganna, Poco Bonito significa 'piccolo tonno'.» Sandecker annuì. «Esatto. Mi sembrava indicato.» «Perché tutti questi sotterfugi?» chiese Pitt. «Non saremo in una zona di
guerra.» Sandecker lo fissò con uno sguardo complice che Pitt conosceva fin troppo bene. «Non si può mai sapere quando si deve attraversare il cammino di una nave pirata fantasma.» I due amici guardarono stupiti l'ammiraglio, come se avesse detto di essere appena tornato da Marte. «Una nave fantasma», ripeté Pitt, con tono sardonico. «Non avete mai sentito la leggenda del Bucaniere Errante?» «Non di recente.» «Leigh Hunt era un furfante e un pirata senza scrupoli che saccheggiava le Indie occidentali verso la fine del XVII secolo, depredando navi di qualsiasi bandiera, spagnole, inglesi o francesi. Era un tale gigante che al suo confronto Barbanera sembrava una donnicciola. I racconti sulla sua brutalità erano ormai leggenda e si diceva che gli equipaggi catturati preferivano togliersi la vita da soli piuttosto che cadere nelle sue mani. Il suo passatempo preferito era trainare gli sfortunati prigionieri dietro la nave, finché gli squali non provvedevano a liberare le cime da quei poveri fardelli.» «Assomiglia a un vecchio lupo di mare di mia conoscenza», disse Giordino, ammiccando. Sandecker continuò senza raccogliere la provocazione. «Il regno di terrore di Hunt durò quindici anni, finché non tentò di catturare una nave da guerra inglese camuffata da mercantile. Dopo averla raggiunta, Hunt issò la sua bandiera - un drappo nero con teschio dagli occhi e bocca rossi di sangue - e sparò un colpo verso la prua del nemico. Poi, mentre tentava di affiancarsi per arrembare, gli inglesi aprirono i boccaporti della murata e fecero fuoco con altrettanti cannoni, condannando la Scourge, la nave di Hunt. Nel corso della sanguinosa battaglia i pirati furono decimati. Poi un corpo scelto di soldati britannici salì a bordo della nave nemica e finì i superstiti.» «E Hunt sopravvisse allo scontro?» chiese Summer. «Purtroppo per lui, sì.» Dirk passò le dita sulla vecchia scrivania dell'ammiraglio. «Gli inglesi gli restituirono la cortesia trascinandolo dietro la nave?» chiese il ragazzo. «No», rispose il vecchio. «Il comandante inglese aveva un fratello che era stato ucciso da Hunt due anni prima. Era quindi assetato di vendetta. Ordinò che gli fossero tagliati i piedi e poi lo fece appendere a una corda e abbassare lungo il fianco della nave, finché i moncherini sanguinanti non fossero a pelo d'acqua. Fu solo questione di aspettare che gli squali sentis-
sero l'odore del sangue: in breve non restarono che le mani e le braccia del pirata penzolanti dalla corda.» Il grazioso viso di Summer si contrasse in una smorfia di disgusto. «È orribile.» Dirk non era d'accordo. «A me sembra invece che abbia avuto ciò che si meritava.» «Mi illumini, ammiraglio», intervenne Giordino, lottando con se stesso per restare sveglio. «Che cosa c'entra con noi questo pirata?» Sandecker fece un mezzo sorriso. «Come l'Olandese Volante, anche Leigh Hunt e il suo equipaggio di spietati pirati vagano ancora per i mari in cui voi dovrete lavorare.» «E chi lo dice?» «Negli ultimi tre anni ci sono stati moltissimi avvistamenti da parte di navi, yacht e pescherecci. Alcuni di questi, prima di sparire nel nulla, hanno lanciato un SOS dichiarando di essere attaccati da un vascello fantasma carico di pirati.» Pitt guardò Sandecker. «È uno scherzo, vero?» «No.» L'ammiraglio era molto deciso. «Ma, siccome dubitate, vi farò leggere i rapporti.» «Prendi nota», disse Giordino in tono sarcastico. «Portare paletti di legno di faggio e proiettili d'argento.» «Una nave fantasma con scheletri al posto dell'equipaggio che solca il mare appestato dalla melma.» Pitt stava parlando fra sé mentre scrutava il Potomac al di là della finestra. Poi si strinse nelle spalle. «Finalmente qualcosa d'interessante da portare nella tomba.» 16 Pitt decise di portare tutti al ristorante a bordo dell'elegante Marmon. Era una calda serata, perciò i tre uomini sedettero nella parte anteriore scoperta e le tre donne dietro, al coperto, per non scompigliare le pettinature. I primi indossavano giacche sportive leggere su pantaloni morbidi; le seconde leggeri abiti estivi. Giordino aveva portato la sua compagna del momento, Micky Levy, che lavorava per una società mineraria di Washington. Aveva lineamenti delicati, pelle scura e grandi occhi marroni; i lunghi capelli neri formavano ciocche ondulate raccolte in cima alla testa, con un fiore di ibisco dietro l'orecchio sinistro. Parlava con un tono pacato, in un leggero accento israe-
liano. «Che macchina favolosa», disse, salendo al fianco di Summer dopo che Giordino ebbe fatto le presentazioni. «Devi prendertela con il mio amico», replicò Giordino in tono asciutto. «Deve sempre uscire in pompa magna.» «Mi spiace, non c'è l'orchestra», intervenne Pitt. «Le ho dato la serata libera.» Le donne confabularono per tutta la strada, al riparo del vetro di separazione fra l'interno e l'esterno. Loren e Summer scoprirono che Micky era nata e cresciuta a Gerusalemme e che si era diplomata alla School of Mines del Colorado. «Non so come possa interessarti la geologia», disse Loren in tono gentile. «Ho fatto un corso all'università perché nella facoltà di economia è obbligatorio un esame di argomento scientifico. Pensavo fosse interessante, ma mi sbagliavo di grosso. La geologia ha lo stesso fascino della ragioneria.» Micky rise. «Per fortuna, il lavoro è invece molto più interessante.» «Sappiamo dove ci sta portando papà?» chiese Summer. Loren scosse la testa. «A me non ha detto niente.» Venticinque minuti dopo, Pitt svoltò nel viale dell'Auberge Chez François, un ristorante francese di Great Falls, in Virginia. Lo stile alsaziano dell'architettura e degli interni creava un'atmosfera piacevole e accogliente. Dopo aver parcheggiato l'auto, entrarono nella sala e furono scortati a un tavolo appartato da uno dei proprietari, che aveva controllato la prenotazione. Pitt si fermò a scambiare qualche parola con due vecchi amici, Clyde Smith e la sua incantevole moglie Paula. Smith era nella NUMA dagli stessi anni di Pitt, ma nel settore finanziario dell'agenzia. Quando tutti furono seduti, il cameriere recitò il menu della serata. Saltando l'aperitivo, Pitt passò subito al vino, un corposo Pinot Noir dell'azienda Sparr, rinomato produttore alsaziano, per accompagnare un antipasto di selvaggina a base di cervo, fagiano, lepre e quaglie ai funghi e castagne. Mentre gustavano quelle prelibatezze, Loren parlò degli ultimi pettegolezzi governativi. Era davvero divertente ascoltare un membro del Congresso descrivere gli intrighi di palazzo. Poi Dirk e Summer descrissero la scoperta dell'antico tempio e dei manufatti, nonché la loro disavventura alle prese con l'uragano. Pitt li interruppe per informarli che aveva parlato
con St. Julien Perlmutter e gli aveva detto che i suoi figli sarebbero andati a fargli una visita per approfittare della sua vasta conoscenza del mare e delle navi. Anche la seconda portata si dimostrò all'altezza degli intenditori di cucina francese. Pitt prese del rognone con funghi in salsa di sherry e senape, mentre nessuno fece onore alla cervella e alla lingua di vitello. Giordino e Micky si spartirono una costata di agnello, mentre Dirk e Summer provarono la choucroute garnie, una specialità della casa con crauti, salsiccia, fagiano, anatra glassata, piccione e foie-gras. Loren si orientò sulla petite choucroute, con crauti, trota affumicata, salmone e gamberetti. Quasi tutti presero il dolce seguito da un bicchiere di Porto e promisero che avrebbero iniziato la dieta proprio il giorno dopo. Durante il rilassante dopo cena, Summer chiese a Micky in quali parti del mondo l'avessero portata le sue spedizioni geologiche e la donna descrisse immense caverne in Brasile e Messico, formate da complessi sistemi di gallerie e cunicoli. «Hai mai trovato una vena d'oro?» chiese Summer, scherzando. «Solo una volta. Ce n'erano tracce in un fiume sotterraneo che scorre nel deserto della California del Sud e si butta nel golfo di California.» Quando sentirono parlare di quel fiume, Pitt, Giordino e Loren iniziarono a ridere e Micky fu alquanto sorpresa nell'apprendere come i due uomini lo avessero scoperto e avessero salvato Loren da una banda di ladri di reperti archeologici, durante la missione denominata «Oro dell'Inca». «Río Pitt», disse Micky con ammirazione. «Avrei dovuto collegare le due cose.» Poi riprese a descrivere i suoi viaggi intorno al mondo. «Una delle spedizioni più affascinanti è stata quella in cui dovevo verificare il livello d'acqua nelle caverne calcaree del Nicaragua.» «Sapevo che in Nicaragua c'erano caverne dei pipistrelli, ma non di calcare», osservò Summer. «Sono state scoperte dieci anni fa e sono molto vaste. Alcune si sviluppano per chilometri. La società che mi ha incaricato della ricerca ha in progetto di costruire un collegamento fra i due oceani.» «Un percorso che attraversi il Nicaragua?» chiese Loren. «Questa è nuova.» «In effetti, i progettisti lo chiamavano 'ponte sotterraneo'.» «Una sorta di strada sotterranea?» chiese Loren, con tono scettico. «Non riesco proprio a metterla a fuoco.» «L'intero progetto prevede la costruzione di due porti per navi di considerevole stazza, in zone senza restrizioni economiche sulla costa dei Ca-
raibi e sul Pacifico. Sarebbero collegati da una ferrovia a levitazione magnetica che attraverserebbe immense gallerie sotto le montagne e il lago di Nicaragua, con treni che raggiungerebbero velocità di oltre cinquecento chilometri orari.» «L'idea non è male», dovette ammettere Pitt. «Se realizzabile, dovrebbe ridurre di molto i costi di spedizione.» «Stai parlando di un mucchio di soldi», fece notare Giordino. Micky confermò. «Siamo nell'ordine di sette bilioni di dollari.» Loren era ancora dubbiosa. «Mi sembra strano che non sia arrivata notizia di una simile impresa al dipartimento dei Trasporti.» «O che non ne abbia parlato la stampa», aggiunse Dirk. «Il fatto è che l'impresa non è mai partita», disse Micky. «Mi hanno detto che la società che aveva sviluppato il progetto ha deciso di ritirarsi. Non si è mai saputo perché. Ho firmato un accordo privato in cui m'impegnavo a non parlare di questo lavoro e a non fornire informazioni sul progetto, ma ormai sono passati quattro anni e, visto che non è mai stato ripreso, penso di poter rompere quel patto per conversare con degli amici.» «Una vicenda affascinante», ammise Loren. «Mi chiedo chi ci potesse essere dietro la copertura finanziaria.» Micky sorseggiò il Porto. «Mi è sembrato di capire che parte del finanziamento dovesse arrivare dalla Cina, una nazione che ha investito molto nell'America centrale. Se la ferrovia sotterranea fosse stata costruita, le avrebbe assicurato una notevole influenza economica nel Nord e nel Sudamerica.» Pitt e Loren si guardarono, come se stessero mettendo a punto la stessa idea. Poi Loren chiese a Micky: «Qual era la società che ti ha affidato l'incarico?» «Una grande holding internazionale chiamata 'Odyssey'.» «Sì», mormorò Pitt, premendo il ginocchio di Loren sotto il tavolo. «Sì, mi sembra di averne sentito parlare.» «È una strana coincidenza», riprese Loren. «Ho parlato di Odyssey con Dirk non più tardi di poche ore fa.» «È uno strano nome per una società di costruzioni», disse Summer. Loren sorrise appena e parafrasò Winston Churchill. «Un rompicapo avvolto in un labirinto di affari segreti che fanno parte di un enigma. Il fondatore e presidente della società, che si fa chiamare 'lo Spettro', è tanto misterioso quanto la formula dell'invisibilità.» Dirk era pensieroso. «Perché credi che abbia interrotto il progetto? Per
mancanza di fondi?» «Certamente non per il denaro», rispose Loren. «La stampa inglese ritiene che il suo patrimonio personale superi i cinquanta miliardi di dollari.» «Ragione di più per chiedersi perché non abbia completato le gallerie, con una posta così alta in gioco», continuò Pitt. Loren esitò, ma non Giordino. «Chi vi ha detto che ha gettato la spugna? Chi vi ha detto che non stia scavando in segreto nelle viscere del Nicaragua mentre noi assaporiamo questo Porto?» «Impossibile», tagliò corto Loren. «I satelliti ne avrebbero dato traccia. Non può in nessun modo nascondere scavi di tale portata.» Giordino studiò il suo bicchiere vuoto. «Sarebbe un vero mago se potesse nascondere milioni di tonnellate di roccia e fango.» Pitt fissò Micky, al di là del tavolo. «Potresti farmi avere una mappa delle zone dove il tunnel sarebbe dovuto partire e arrivare?» Micky era felice di potergli essere utile. «State solleticando la mia curiosità. Se mi dai il numero di fax, ti spedisco la mappa di tutti i luoghi degli scavi.» «Che cos'hai in mente, papà?» chiese Dirk. «Al e io saremo al largo del Nicaragua fra qualche giorno», rispose Pitt con un sorriso studiato. «Potremmo anche fare un salto a terra ed esplorare i dintorni.» 17 Dirk e Summer raggiunsero la residenza di St. Julien a Georgetown sulla Meteor scoperta del giovane. Era una vettura del 1952, costruita su ordinazione in California, con carrozzeria in fibra di vetro e uno scattante motore DeSoto Fire-Dome V-8, portato dai centosessanta cavalli di produzione a duecentosettanta. Aveva i colori delle auto da competizione americane, con una fascia azzurra che attraversava i fianchi. In effetti non aveva un tettuccio; quando pioveva, Dirk stendeva un telo di plastica sull'abitacolo, con un buco per far passare la testa. Dopo un suggestivo viale alberato, Dirk aveva imboccato un'ampia strada che costeggiava un'antica residenza a tre piani con otto spioventi, percorrendola fin davanti a quelle che un tempo erano le scuderie e la rimessa delle carrozze. Avevano ospitato otto cavalli e cinque vetture e, al piano superiore, i vetturini e gli stallieri. St. Julien Perlmutter aveva acquistato l'edificio quarant'anni prima e aveva trasformato l'interno in un immenso
archivio, con chilometri di scaffali stipati di libri, documenti, carteggi privati, tutti legati alla storia del mare e a quasi trecentomila navi e naufragi. Autentico gourmet, cultore dei piaceri della vita, possedeva una cella frigorifera dove teneva prelibatezze da tutto il mondo e una cantina con quattromila bottiglie. Non c'era campanello, ma un grande battente a forma di ancora. Summer picchiò tre colpi e attese. Tre minuti dopo la porta si spalancò e apparve un uomo massiccio, un metro e novanta di altezza per circa centottanta chili. Anche se così pesante, Perlmutter era solido, con la pelle fresca e tirata. I capelli grigi erano ispidi e la folta barba era valorizzata da lunghi baffi ricurvi alle estremità. I bambini avrebbero potuto scambiarlo per un Babbo Natale un po' troppo corpulento, anche grazie all'allegro viso rubicondo, al naso a patata e agli occhi azzurri. Quel giorno indossava la solita veste da camera di seta viola e oro a motivi cashmere. Un cucciolo di bassotto correva fra le sue gambe e uggiolava ai visitatori. «Summer!» esclamò. «Dirk!» Strinse i due giovani con le grandi braccia, come un orso che saluta i suoi piccoli, e li sollevò entrambi da terra. A Summer sembrò di sentire le costole scricchiolare e Dirk restò senza fiato. Per fortuna, Perlmutter, che non era consapevole della propria forza, li depose quasi subito e li fece entrare. «Entrate, entrate, non sapete che gioia è per me vedervi.» Poi si rivolse al cane. «Fritz! Un altro latrato e ti taglio i viveri.» Summer si stava massaggiando le costole. «Spero che papà le abbia annunciato la nostra visita.» «Sì, sì, l'ha fatto», disse Perlmutter, con allegria. «Che piacere.» Poi si fermò a osservare Dirk, con occhi velati di malinconia. «Quando ti guardo, ragazzo, mi sembra di vedere tuo padre alla stessa età, forse poco più giovane, quando veniva da me a esplorare la biblioteca. È come se il tempo si fosse fermato in quell'istante.» Dirk e Summer erano andati spesso in quella casa con il padre e tutte le volte si erano stupiti della vastità dell'archivio assiepato sugli scaffali, della quantità di libri ammassati nei corridoi e in tutte le stanze, persino in bagno. Era conosciuta come la più grande biblioteca al mondo sulla storia del mare e le istituzioni pubbliche del Paese facevano la fila nell'attesa che Perlmutter decidesse di venderla, non importava a quale prezzo. Summer si era sempre stupita anche della straordinaria memoria di quell'uomo. Naturalmente quella massa di dati avrebbe potuto essere suddivisa per categorie e immagazzinata in un data base elettronico, ma Perlmutter
aveva sempre sostenuto di non riuscire a pensare in astratto e non aveva mai acquistato un computer. Incredibilmente, sapeva rintracciare qualsiasi informazione, libro, autore e fonte in quell'immane raccolta di sapere, e si vantava di riuscire a farlo entro sessanta secondi. Perlmutter li condusse nella bella sala da pranzo, rivestita in pannelli di sandalo, l'unica stanza priva di libri. «Accomodatevi, vi prego», disse con voce grave ma gentile, avvicinandosi alla spessa tavola rotonda ricavata dal timone del famoso vascello fantasma Mary Celeste, i cui resti erano stati trovati a Haiti. «Ho preparato uno dei miei pasti leggeri, un misto di gamberetti alla guaiava. Lo annaffieremo con uno Chardonnay Martin Ray.» Fritz si accomodò di fianco alla tavola, con la codina che spazzava il pavimento. Perlmutter gli passava in continuazione pezzetti di gambero, che il cane ingoiava senza masticare. In men che non si dica, i piatti erano vuoti. Dirk si passò la mano sul ventre muscoloso. «Erano così buoni che temo di averne mangiati troppi.» «Non sei l'unico», gli fece eco Summer, completamente sazia. «Allora, che cosa posso fare per voi, ragazzi?» esordì Perlmutter. «Vostro padre mi ha parlato di certi manufatti celtici.» Summer aprì una cartelletta e ne estrasse i rapporti che aveva scritto con il fratello sul volo di ritorno a Washington e le foto dei reperti. «Questo materiale riassume in modo esauriente la nostra scoperta. Contiene anche le conclusioni di Hiram Yaeger sull'anfora e sul pettine e la riproduzione stampata degli oggetti e delle stanze.» Perlmutter si versò un altro bicchiere di vino, si mise gli occhiali sul naso e iniziò a leggere. «Servitevi ancora, senza complimenti. Ce n'è quanto volete.» «Penso che nessuno di noi riuscirebbe a mandar giù un altro boccone», mormorò Dirk, sempre tenendosi lo stomaco. L'uomo si concentrò nella lettura, in silenzio, lisciandosi la barba che gli copriva quasi completamente la bocca. Ogni tanto si fermava e alzava gli occhi verso il soffitto, come per riflettere; poi riprendeva a esaminare il rapporto, Quando ebbe finito, lo appoggiò sul tavolo e fissò i due ragazzi negli occhi. «Vi rendete conto di ciò che avete fatto?» Summer si strinse nelle spalle con aria interrogativa. «Pensiamo si tratti di una scoperta archeologica di un certo valore.» «Un certo valore», ripeté Perlmutter, garrulo, con una punta di sarcasmo
nella voce. «La vostra è la tipica scoperta che getta alle ortiche migliaia di riconosciute teorie archeologiche.» «Santo cielo», esclamò Summer guardando il fratello, che cercava di trattenersi dal ridere. «È così grave?» «Dipende da che parte considerate la cosa», continuò l'uomo, assaporando il vino. Se il rapporto davvero rivelava qualcosa di così sensazionale, certo lui la prendeva con molta calma. «Non si sa molto sulla cultura celtica prima del 500 a.C, perché l'uso di lasciare testimonianze scritte ebbe inizio solo nel Medioevo. Tutto quello che si è potuto dedurre nel nebuloso passato è che intorno al 2000 a.C. i celti arrivarono dalla loro terra di origine nella zona del mar Caspio e si diffusero in tutta Europa. Alcune teorie ipotizzano che celti e indù avessero un passato comune, perché le lingue erano simili.» «Quanto vasti erano i loro territori?» chiese Dirk. «Occuparono il nord Italia e la Svizzera e poi Francia, Germania, Gran Bretagna e Irlanda, raggiungendo anche la Danimarca e le regioni scandinave a nord e la Spagna e la Grecia a sud. Alcuni reperti sono stati trovati pure in Marocco, mentre a Urumchi, nel Nord della Cina, alcune mummie ben conservate rivelano la loro origine celtica per i lineamenti caucasici, i capelli biondi e rossi e il tipo di tessitura degli indumenti.» Dirk si appoggiò allo schienale della sedia e prese a dondolarsi. «Ho letto qualcosa sulle mummie di Urumchi, ma non avevo idea che i celti fossero anche in Grecia. Ho sempre pensato che i greci fossero autoctoni.» «Anche se alcuni ceppi hanno avuto origine nella penisola, la maggior parte di loro è arrivata dall'Europa centrale.» Perlmutter cercò una posizione più comoda per la sua grossa mole, prima di proseguire. «Al termine dell'espansione, i celti occupavano un territorio grande quanto l'impero romano. Sostituendosi alle culture megalitiche del Neolitico, fra cui i costruttori di Stonehenge, ne mantennero alcune tradizioni, come quella dei druidi e del misticismo religioso. 'Druido', a proposito, significa 'il molto saggio'.» «È strano che una tale civiltà abbia lasciato tracce così scarse», considerò Summer. Perlmutter annuì. «A differenza degli egizi, dei greci e dei romani, non hanno mai formato un impero o una nazione unica. Erano organizzati in confederazioni di tribù che spesso combattevano fra loro, ma che si univano quando c'era da fronteggiare un nemico comune. Dopo millecinquecento anni di civiltà del villaggio iniziarono a costruire centri fortificati in ci-
ma a colline, circondati da terrapieni e palizzate in legno, e si formarono così ampie comunità. Molte delle città europee moderne, come Zurigo, Parigi, Monaco e Copenaghen, sono sorte su antiche fortezze celtiche, mentre altrettante si trovano nel luogo dove un tempo sorgeva un villaggio.» «È difficile credere che un popolo che non costruì né palazzi né castelli possa aver sviluppato una delle culture dominanti dell'Europa occidentale.» «La civiltà celtica era soprattutto pastorale; l'occupazione principale era l'allevamento di bovini e pecore. Si dedicavano anche all'agricoltura, limitandosi però a coltivare il sufficiente per sfamare la famiglia; solo nel 300 a.C. iniziarono a immagazzinare il foraggio per sfamare gli animali negli inverni più duri. Non erano nomadi, e ciò li accomuna agli indiani americani. Quando razziavano altri villaggi era per prendere il bestiame e le donne. Le tribù della costa commerciavano in bronzo, armi e stagno, venduto ad altri popoli per produrre la resistente lega. L'oro utilizzato per la produzione dei gioielli per i capi e le classi più elevate era perlopiù importato.» «È strano che una cultura senza grandi ambizioni possa essersi espansa su un cosi vasto territorio.» «Non puoi dire questo dei celti», puntualizzò Perlmutter. «Sono stati loro ad aprire la strada all'Età del Bronzo, inventando la lega grazie allo stagno trovato in grandi quantità in Gran Bretagna. Si dice che siano stati ancora loro a scoprire la tecnica per fondere il ferro, dando così il via all'omonima Età. Erano ottimi cavalieri e introdussero in Europa la ruota; costruirono carri da guerra e furono i primi a utilizzare carri agricoli a quattro ruote e attrezzi in metallo per l'aratura e la raccolta. Inventarono utensili usati ancora oggi, come tenaglie e pinze. Furono i primi a ferrare i cavalli con il bronzo e a rinforzare le ruote dei carri con bordi in ferro. E furono ancora i celti a diffondere l'uso del sapone nel mondo antico. La loro abilità nella lavorazione dei metalli non era seconda a nessuno e i gioielli e gli ornamenti in oro delle armi erano di squisita fattura. Anche nell'arte della ceramica e della terracotta rivelarono grande creatività e arrivarono persino a produrre manufatti in vetro. I romani e i greci appresero la tecnica dello smalto dai celti, che erano anche grandi musici e poeti; questi ultimi erano tenuti in considerazione maggiore dei druidi stessi. È a loro che si deve, infine, la pratica di iniziare il giorno a mezzanotte.» «Quali furono le cause del loro declino?» chiese Summer. «Soprattutto la conquista da parte dei romani. Da quel momento in poi,
il mondo dei galli, come i romani chiamavano i celti, iniziò a disfarsi sotto la spinta dei germani, dei goti e dei sassoni, che penetravano in Europa. In un certo senso, i peggior nemici dei celti erano loro stessi. La natura libera e selvaggia, l'amore per l'avventura e l'individualità li portavano a essere volubili, impulsivi e refrattari alla disciplina, fattori che ne accelerarono la sconfitta. Quando anche Roma cadde, i celti resistevano ormai solo in Scozia e Irlanda, la regione dove oggi è più sentita la loro influenza.» «Qual era il loro aspetto... come trattavano le donne?» chiese Summer con un sorriso accattivante. Perlmutter sospirò. «Mi chiedevo quando me l'avresti chiesto.» Versò il vino rimasto nei bicchieri. «I celti erano una razza robusta, alta e fiera. I capelli andavano dal biondo al rosso e al castano. Vengono descritti come gente turbolenta, con voci basse e roche. Ti farà piacere sapere, Summer, che le donne erano tenute in grande considerazione nella società celtica. Potevano sposare chi volevano ed ereditare le proprietà. Inoltre, a differenza di quasi tutte le culture dell'epoca, potevano reclamare i danni in caso di molestie. Le donne sono descritte robuste come gli uomini, impegnate in battaglia accanto ai loro compagni.» Perlmutter esitò un istante, sorridendo con soddisfazione. «La vista di un esercito di donne e uomini celtici doveva essere davvero impressionante.» «Perché?» chiese Summer, cadendo nella trappola. «Perché spesso andavano nudi in battaglia.» «Cosa che ci riporta ai manufatti celtici del Banco de la Navidad», disse Dirk con espressione seria. «Se non erano a bordo di una nave, da dove sono saltati fuori?» «E che cosa si può dire delle stanze ricavate nella roccia?» aggiunse Summer. «Siete sicuri che siano state scavate nella roccia e non costruite con la pietra?» chiese Perlmutter. Dirk guardò la sorella. «In effetti non lo siamo. Le incrostazioni potrebbero aver coperto le fughe tra le pietre.» «Non era abitudine dei celti scavare la roccia e raramente utilizzavano la pietra», disse Perlmutter. «Si può supporre che quando la scogliera era una terra emersa non ci fossero molti alberi da utilizzare. Il legno delle palme tropicali è troppo ricurvo e fibroso per essere lavorato.» «Ma come possono aver attraversato seimila miglia di oceano nel 1100 a.C?» «Domanda pertinente», ammise Perlmutter. «Le tribù che vivevano sulle
coste atlantiche erano anche marinare, spesso identificate come le 'civiltà dei remi'. Si sa che sono arrivate nel Mediterraneo partendo da porti del mare del Nord, ma non esistono leggende che parlino di celti arrivati da questa parte dell'oceano, tranne forse quella di san Brandano, un prete irlandese che compì un viaggio di sette anni e che secondo molti arrivò sulla costa orientale dell'America.» «A quando risalirebbe questo viaggio?» chiese Dirk. «Al 520-530 d.C. circa.» «Quindici secoli troppo tardi rispetto ai nostri reperti», osservò Summer. Dirk si abbassò per accarezzare Fritz, che prontamente gli leccò la mano. «Sembra che non si riesca a mettere una palla in buca.» Summer abbassò gli occhi e si sistemò il vestito. «Quindi adesso che cosa facciamo?» «Il primo punto da dirimere, nella vostra lista di enigmi», consigliò Perlmutter, «è quello di stabilire se il Banco de la Navidad fosse una terra emersa tremila anni fa.» «È la geomorfologia che studia le origini e l'età della superficie terrestre. Un esperto potrebbe aiutarci», suggerì Summer con buon senso. Perlmutter osservò il modellino del famoso sottomarino confederato Hunley. «Vi consiglio di iniziare con Hiram Yaeger e il suo magico computer. Il suo data base è la più estesa raccolta di dati sulle scienze marine. Se esiste uno studio qualsiasi sul Banco de la Navidad, non può che essere lì.» «E se fosse in russo o in tedesco?» «Hiram avrà la traduzione, potete esserne certi.» Dirk si alzò e iniziò ad avviarsi alla porta. «Quando saremo tornati alla NUMA, la nostra prima meta sarà l'ufficio di Hiram. Gli chiederemo di fare qualche ricerca.» Summer sorrise. «E poi?» Dirk non ebbe esitazioni. «La seconda fermata sarà l'ufficio dell'ammiraglio Sandecker. Se vogliamo venire a capo della faccenda, dobbiamo convincerlo ad affidarci una barca, un equipaggio e il necessario per un'esplorazione completa delle stanze sottomarine e per prelevarne i manufatti.» «Intendi tornare là?» «Conosci un altro modo?» «Temo di no», disse piano la sorella. Non si spiegava perché, ma un moto di timore le era salito nel petto. «Non credo però di riuscire a tornare
dove si trova Pisces.» «Conoscendo Sandecker», si intromise Perlmutter, «cercherà di risparmiare aggregandovi a un altro progetto.» «Dovete convenire che è una soluzione ragionevole», commentò Dirk; poi si rivolse alla sorella. «Andiamo? Abbiamo rubato anche troppo tempo al nostro amico.» Summer abbracciò Perlmutter. «Grazie per il favoloso pranzo.» «È sempre piacevole per un vecchio scapolo avere la compagnia di una donna giovane e bella.» Dirk gli strinse la mano. «Arrivederci e grazie.» «Salutatemi vostro padre e raccomandategli di venirmi a trovare.» «Sarà fatto.» Quando i ragazzi uscirono, Perlmutter rimase a lungo pensieroso. Fu il telefono a scuoterlo. Era Pitt. «Caro Dirk, i tuoi figli sono appena usciti.» «Li hai messi sulla giusta via?» chiese Pitt. «Ho stuzzicato il loro appetito, anche se non potevo offrire molto. Non c'è quasi niente sui celti marinai.» «Devo farti una domanda.» «A tua disposizione.» «Hai mai sentito parlare di un pirata di nome Hunt?» «Certamente. Era un bucaniere di minor fama della fine del XVII secolo. Perché me lo chiedi?» «Mi dicono che oggi sia un fantasma senza pace che risponde al nome di 'Bucaniere Errante'.» Perlmutter sospirò. «Sono giunte anche a me queste voci. Un'altra favola come quella dell'Olandese Volante. In questo caso, però, molte delle navi che hanno chiesto aiuto via radio dopo averlo avvistato sono scomparse.» «Quindi c'è un buon motivo per preoccuparsi se si naviga nel mare al largo del Nicaragua?» «Penso di sì. Perché lo vuoi sapere?» «Curiosità.» «Vuoi che ti faccia avere tutto ciò che ho su Hunt?» «Ti sarei molto grato se potessi mandarmi un corriere all'hangar», rispose Pitt. «Ho un aereo che parte domattina e io devo essere a bordo.» «Considera il tutto già per strada.» «Grazie, St. Julien.» «Terrò un piccolo ricevimento fra due settimane. Pensi di riuscire a par-
tecipare?» «Non perderei mai una delle tue favolose feste.» Dopo aver riagganciato, Perlmutter raccolse la documentazione su Hunt, chiamò il corriere e andò nella sua stanza, dove si soffermò davanti a una libreria carica di libri. Senza esitare, ne estrasse uno e tornò nello studio, dove adagiò il suo grande corpo su un divano Récamier, prodotto a Philadelphia nel 1840. Fritz saltò su e si mise sulla pancia del padrone, fissandolo con i dolci occhi marroni. Perlmutter aprì il libro di Iman Wilkens che s'intitola Where Troy Once Stood e cominciò a leggerlo. Dopo un'ora, chiuse il volume e guardò Fritz. «È possibile?» mormorò al cane. «È possibile?» A quel punto, non oppose più resistenza agli effetti dello Chardonnay d'annata e si addormentò. 18 Pitt e Giordino partirono il giorno dopo per Managua, capitale del Nicaragua, su un Citation della NUMA. Una volta a destinazione, trasbordarono su un Cassa 212 di fabbricazione spagnola che in un'ora e mezzo li portò oltre le montagne e il bassopiano fino alla costa caraibica, in una zona conosciuta come Costa de Miskitos. Avrebbero potuto arrivare direttamente con il jet della NUMA, ma Sandecker reputava fosse meglio presentarsi come semplici turisti, tanto per confondere le acque. Il sole al tramonto inondava le cime delle montagne di una luce dorata, lasciando in ombra il versante est. Pitt non riusciva a immaginarsi una galleria che attraversasse quel territorio così impervio, ma, in effetti, il Nicaragua era da sempre considerato il Paese più adatto per un'alternativa al canale di Panama. Aveva un clima migliore, il tracciato ispezionato era facile da scavare e si trovava più vicino agli Stati Uniti di trecento miglia; anzi di seicento, se si considerava andata e ritorno. Alla fine dell'Ottocento, come spesso capitava nei momenti di svolta, le manovre politiche prevalsero sul buon senso e non fu presa la decisione migliore. Panama aveva forti sostenitori che lavoravano per guastare i rapporti tra il Nicaragua e il governo americano, ma per un certo periodo le possibilità si equilibrarono. Poi, mentre Teddy Roosevelt manovrava da dietro le quinte per accelerare l'accordo con Panama, il governo nicaraguense fece una mossa sbagliata. Con pessima scelta dei tempi, emise una serie di francobolli che reclamizzavano il Paese come la «terra dei vulca-
ni» proprio nel momento in cui il vulcano Pelée, sull'isola della Martinica, aveva eruttato uccidendo più di trentamila persone. Su uno dei francobolli era riprodotta un'eruzione alle spalle di un porto e di una ferrovia. Non ci fu più possibilità di rimediare all'errore. Il Senato scelse Panama come sito dove gli Stati Uniti avrebbero costruito il canale. Pitt aveva iniziato a studiare un rapporto sulla Costa de Miskitos fin dalla partenza da Washington. Il bassopiano nicaraguense, sul lato caraibico del Paese, era separato dalla zona più popolata della costa occidentale da una catena di montagne e da una fitta fascia di foresta tropicale. La regione e la sua popolazione non furono mai assoggettate all'impero spagnolo, ma rimasero colonia britannica fino al 1905, quando l'intera costa venne assorbita dal governo nicaraguense. La meta di Pitt e Giordino era Bluefields, il principale porto orientale del Nicaragua, così chiamato dal nome del feroce pirata olandese che nascondeva le navi nella laguna costiera nei pressi della città. Il ceppo etnico principale era costituito dai miskito, i cui antenati provenivano dal Centro America, dall'Europa e dall'Africa. Vi erano poi i creoli, discendenti degli schiavi neri dell'epoca coloniale, e i meticci, con sangue misto spagnolo e indiano. La fiorente economia era basata soprattutto sulla pesca di gamberetti, aragoste e tartarughe. Il pescato veniva lavorato in un grande impianto cittadino e poi esportato, mentre una serie d'infrastrutture portuali si occupava del rifornimento, della manutenzione e della riparazione delle navi. Quando Pitt alzò gli occhi dal rapporto, il cielo era diventato nero come il carbone. Il ronzio delle eliche e il cigolio del motore catturarono la sua mente e lo portarono sulle ali della nostalgia. Il volto che vedeva tutte le mattine riflesso nello specchio non aveva più la pelle liscia e senza rughe di venticinque anni prima. Il tempo, le avventure e gli elementi avevano lasciato un segno. Mentre fissava il finestrino con lo sguardo perso nel vuoto, ritornò al momento in cui tutto era iniziato, su una solitaria spiaggia a Kaena Point, nell'isola di Oahu, alle Hawaii. Era disteso sulla sabbia, al sole, e guardava pigramente il mare aperto, oltre i frangiflutti. Era stato in quel momento che aveva visto un cilindro giallo che galleggiava sull'acqua. Nuotando fra pericolose correnti, l'aveva raggiunto e riportato con fatica a riva. Conteneva il messaggio del comandante di un sottomarino nucleare disperso. Da quell'istante, la sua vita era cambiata. Aveva incontrato la donna di cui si era innamorato a prima vista e di cui serbava il ricordo indelebile. Aveva
creduto di averla persa fino al momento in cui Dirk e Summer non si erano presentati alla sua porta. Il corpo di Pitt aveva retto bene il passare degli anni; forse i muscoli non erano più così tonici come una volta, ma non conosceva dolori articolari né altri acciacchi dell'età. I capelli neri erano ancora folti e ondulati, con qualche ciocca grigia che faceva capolino sulle tempie, le sue energie quasi totalmente assorbite dall'amore per il mare e dal lavoro per la NUMA. I ricordi delle sue imprese, alcuni piacevoli, altri da incubo, erano ben presenti nella memoria, accompagnati da numerose cicatrici. Ripensò a quante volte era riuscito a sfuggire alla signora con la falce: nel pericoloso viaggio lungo il fiume sotterraneo in cerca dell'oro degli inca, nella battaglia in condizioni proibitive al vecchio forte della Legione Straniera nel Sahara, nella lotta con il gigantesco veicolo delle nevi in Antartide e durante il recupero del Titanic. Due decenni di successi lo riempivano di soddisfazione e lo facevano sentire realizzato; dopotutto, pensava, non aveva vissuto invano. Quello che si era attenuato era la carica di energia, la voglia di sfidare l'ignoto. Adesso aveva una famiglia, delle responsabilità; i giorni dell'avventura stavano per finire. Si voltò a guardare Giordino, che riusciva a dormire profondamente in qualsiasi situazione, come se fosse a casa. Le loro imprese era diventate quasi leggendarie e, anche se nella vita privata non si frequentavano molto, davanti al pericolo riuscivano a pensare e ad agire all'unisono, a sfruttare al massimo le qualità fisiche e mentali dell'altro, e quasi sempre a vincere. Sorrise ripensando a quel che aveva scritto di lui un giornalista, una delle poche volte che le sue gesta erano state rese pubbliche. «C'è un po' di Dirk Pitt in ogni uomo che brama l'avventura. E, poiché lui è Dirk Pitt, brama più di tutti quanti.» Il rumore del carrello del Cassa che scendeva risvegliò Pitt dai suoi pensieri. Si affacciò al finestrino e vide le luci di atterraggio che si riflettevano nelle acque dei fiumi e della laguna che circondavano l'aeroporto. Una pioggerella sottile accompagnò l'aereo lungo la pista, fino al terminal, piegata da un fresco vento che soffiava a quattro nodi e che riempiva l'aria di umide fragranze. Pitt seguì Giordino sulla scaletta e fu piacevolmente colpito dalla temperatura mite, intorno ai 20 gradi; se l'aspettava di almeno dieci gradi più alta.
Raggiunsero in fretta il terminal, dove attesero venti minuti prima di poter recuperare il bagaglio. Pitt portava due valigie munite di rotelle, mentre Giordino teneva in spalla la pesante sacca con l'attrezzatura da immersione. Le uniche indicazioni ricevute da Sandecker dicevano che ci sarebbe stata un'auto ad attenderli all'ingresso dell'aeroporto. Attraversarono un passaggio pedonale lungo circa cinquanta metri e raggiunsero la strada, dove c'erano cinque autovetture e dieci taxi, con i conducenti che proponevano le loro tariffe. Declinarono le offerte dei taxisti e restarono in attesa per qualche minuto, finché l'ultima auto della fila, una scassatissima vecchia Ford Escort, non segnalò con i fari. Pitt raggiunse il finestrino dell'abitacolo, mise la testa all'interno e iniziò a chiedere: «State forse aspettando...» Non riuscì a proseguire: la sorpresa gli aveva bloccato le parole in gola. Rudi Gunn scese dal lato di guida e girò intorno alla macchina per venire a salutarli. Sorrise divertito. «Non possiamo continuare a incontrarci in questo modo.» Pitt lo guardava esterrefatto. «L'ammiraglio non ci ha detto che c'eri anche tu.» Giordino era ancora più stupito. «Da dove salti fuori e come hai fatto ad arrivare prima di noi?» «Ero stanco di star seduto dietro una scrivania e ho implorato Sandecker di lasciarmi andare. Sono partito subito dopo la riunione di ieri. Mi sembra di capire che non si è preoccupato di avvisarvi.» «Deve essersene dimenticato», tagliò corto Pitt, poi mise il braccio intorno alle spalle dell'amico, che non era molto alto. «Ne abbiamo passate tante insieme, Rudi. Mi fa sempre piacere lavorare con te.» «Come quella volta nel Mali, sul Niger, quando mi hai scaraventato giù dalla barca?» «Se ben ricordo, non c'erano alternative.» Sia Pitt sia Giordino avevano un grande rispetto per il vicedirettore della NUMA. Aveva l'aria di un professore, ma non si tirava mai indietro quando c'era da rischiare per realizzare una missione. Era anche apprezzato perché, qualsiasi errore o azione azzardata gli altri compissero, non lo riferiva mai all'ammiraglio. Misero le valigie nel bagagliaio e salirono sulla vecchia Escort. Gunn superò le altre auto ferme in attesa fuori del terminal e imboccò la strada che portava al molo principale. Costeggiarono il grande golfo di Bluefields, delimitato da ampie spiagge. Il delta dell'Escondido si ramificava in
centinaia di canali che circondavano la città e confluivano in uno stretto dalle pareti scoscese, noto come stretto di El Bluff, prima di gettarsi in mare. La laguna, i canali e il porto erano costellati di silenziosi pescherecci. «Sembra che un'intera flotta da pesca si sia data appuntamento in città», osservò Pitt. «L'attività langue a causa della melma», replicò Gunn. «Le aragoste e i gamberi stanno scomparendo e i pesci hanno raggiunto acque più sicure. Le navi di società internazionali, come quelle del Texas, si sono spostate in luoghi più produttivi.» «L'economia locale deve essere in seria difficoltà», osservò Giordino, ben sistemato sul sedile posteriore. «È un disastro. Tutti gli abitanti del bassopiano dipendono in un modo o nell'altro dalla pesca. Se il pesce scompare, non c'è più denaro. E questo è solo metà della tragedia. Ogni dieci anni circa, puntuale come un orologio, un uragano colpisce Bluefields e la costa. Nel 1988 l'uragano Joan ha devastato il porto e quel che è stato ricostruito è stato spazzato via da Lizzie. Il guaio peggiore rimane la melma, però: se non se ne va o non viene neutralizzata, molta gente sarà ridotta alla fame.» S'interruppe brevemente. «La situazione era già difficile prima della tempesta. La disoccupazione era già al 60 per cento, adesso ha raggiunto il 90. Dopo Haiti, la costa orientale del Nicaragua è l'altro fanalino di coda dell'emisfero occidentale. Prima che me ne dimentichi, avete mangiato?» «Siamo a posto», rispose Giordino. «Abbiamo preso qualcosa all'aeroporto di Managua.» Pitt sorrise. «Ti sei dimenticato i due giri di tequila.» «Non li ho dimenticati.» La Escort stava attraversando la vecchia città, sobbalzando per le buche che costellavano la strada, così profonde da trattenere l'acqua. Ciò che restava dell'architettura dei decrepiti edifici li ricollegava al periodo coloniale, in un misto di stile inglese e francese. Un tempo dovevano avere facciate colorate, ma il pennello era un ricordo lontano per molti di loro. «Non esageravi quando sostenevi che l'economia è un disastro», ammise Pitt. «Gran parte della povertà deriva dalla completa mancanza di infrastrutture e dall'amministrazione locale che non si preoccupa di realizzarle», spiegò Gunn. «Le ragazze senza mezzi finiscono quasi tutte per prostituirsi già a quattordici anni, mentre i maschi vendono cocaina. Nessuno si può permettere l'elettricità, perciò si attaccano ai fili comunali dei lampioni.
Non ci sono fogne, ma il governatore si è permesso di usare tutto il budget annuale per costruire un palazzo, con l'idea che fosse più importante fornire una facciata dignitosa ai funzionari stranieri. L'industria della droga prospera, ma la gente del luogo non si arricchisce, perché il commercio avviene perlopiù al largo o in posti segreti.» Entrarono nella zona del porto commerciale di El Bluff, che si trovava all'ingresso della laguna dall'altra parte del golfo rispetto a Bluefields. Il lezzo era insostenibile. Rifiuti di ogni genere, carburante e scarichi di fogna ammorbavano l'acqua putrida. Superarono alcune navi che stavano scaricando le merci e sembravano dover cadere a pezzi nel luridume da un momento all'altro. I tetti di quasi tutti i magazzini erano accartocciati. Pitt notò che da una nave venivano scaricate grandi casse di legno con la scritta MACCHINARI AGRICOLI, mentre su un'altra stavano salendo lucide e colorate cabine di camion che contrastavano con lo squallore circostante. Il nome della seconda nave, visibile alla luce delle lampade di servizio, era Dong He e l'acronimo COSCO era dipinto sul fianco dello scafo. Pitt sapeva che stava per China Ocean Shipping Company, una società di spedizioni cinese. Si chiedeva invece quale fosse il contenuto delle casse etichettate come MACCHINARI AGRICOLI. «Questo sarebbe il porto», esclamò incredulo Giordino. «Tutto ciò che resta dopo il passaggio di Lizzie», specificò Gunn. Trecento metri più avanti, la Escort raggiunse una vecchia banchina in legno stipata di pescherecci dall'aria alquanto derelitta. Gunn frenò davanti all'unico con le luci accese sul ponte. La barca sembrava aver conosciuto giorni migliori. Sotto il riflesso giallo della luce, la vernice nera sembrava sbiadita, striature di ruggine solcavano il ponte e lo scafo, e le attrezzature da pesca giacevano come abbandonate in un angolo. Chiunque l'avesse vista l'avrebbe senza dubbio scambiata per una barca da lavoro, uno dei tanti pescherecci in un porto di pescherecci, non diverso da quelli che gli si affollavano intorno. Mentre scrutava la nave illuminata da prua a poppa, dove sventolava la bandiera nicaraguense con due strisce orizzontali azzurre separate da una bianca, Pitt infilò la mano nella camicia e si assicurò che il pacchettino di seta fosse ancora al suo posto. Si voltò appena e scorse, con la coda dell'occhio, un pick-up color lavanda parcheggiato nell'ombra di un vicino magazzino. Percepì la presenza di una sagoma scura al volante e vide il lampo rosso di una brace di siga-
retta dietro il parabrezza velato dalla pioggia. Tornò a guardare la nave. «Così questa è la Poco Bonito.» «Niente di speciale, vero?» disse Gunn, mentre apriva il bagagliaio e aiutava a recuperare le valigie. «In realtà possiede due motori diesel da mille cavalli e un'attrezzatura scientifica per la quale molti laboratori farebbero la firma.» «C'è qualcosa che non va», dichiarò Pitt. Gunn lo fissò. «Che cosa?» «È, credo, l'unica nave della flotta della NUMA che non sia dipinta di turchese.» «Conosco queste piccole navi oceanografiche della classe Neptune», disse Giordino. «Sono robuste come auto corazzate e molto stabili con il mare mosso.» Si fermò per dare un'occhiata agli altri pescherecci presenti nel porto. «Un buon lavoro di mimetizzazione. Se non fosse per la tuga troppo grande, che non credo sia possibile ridurre, direi che è perfetta.» «Quanti anni ha?» chiese Pitt. «Sei mesi», rispose Gunn. «Come hanno fatto a renderla così... così vissuta?» «Effetti speciali», replicò Gunn, ridendo. «La vernice consunta e la ruggine sono state usate apposta per creare l'illusione.» Pitt saltò sul ponte e si girò per ricevere i bagagli che Giordino stava lanciando. Il suono dei passi richiamò l'attenzione di un uomo e una donna, che spuntarono dalla porta posteriore della tuga. Il primo, sui cinquanta, aveva una barba grigia dal taglio perfetto, folte sopracciglia e un cranio rasato, imperlato di sudore. Era poco più alto di Giordino e teneva le spalle leggermente ricurve. La donna raggiungeva quasi il metro e ottanta ed era sottilissima, con la figura asciutta di una fotomodella. I capelli biondi, lucidi e folti, arrivavano alle spalle. Il viso era abbronzato, con zigomi alti, e quando sorrise per salutare mostrò una fila di denti bianchissimi. Come molte donne che lavoravano all'aria aperta, aveva i capelli legati e un trucco leggero, ma si notava comunque che era molto attraente. E, come Pitt notò, non rinunciava ad alcuni vezzi femminili: le unghie dei suoi piedi erano smaltate. Entrambi indossavano una camicia di cotone con strisce verticali e pantaloncini beige. L'uomo aveva scarpe di tela talmente piene di buchi da sembrare mitragliate e la donna dei sandali a strappo. Gunn fece le presentazioni. «La dottoressa Renée Ford, la biologa della nostra industria della pesca locale, e il dottor Patrick Dodge, geochimico
capo della NUMA. Penso che voi conosciate Dirk Pitt, direttore dei progetti speciali, e Al Giordino, ingegnere navale.» «Non abbiamo mai lavorato insieme», disse Renée con voce sottile, poco più di un sussurro. «Ma ci siamo incontrati in occasione di alcune conferenze.» «Lo stesso vale per me», disse Dodge, stringendo la mano ai colleghi. Pitt fu tentato di chiedere se la Ford e Dodge avessero in comune lo stesso garage, ma pensò che la battuta fosse fuori luogo per il momento. «Piacere di rivedervi.» «Spero che condivideremo una piacevole navigazione», disse Giordino con uno dei suoi sorrisi più cordiali. «Non credo ci siano ragioni per cui non debba esserlo», rispose dolcemente Renée. Giordino non replicò. Era una delle rare volte in cui non era riuscito a controbattere. Pitt restò a lungo ad ascoltare lo sciabordio dell'acqua contro i piloni del molo. Non si vedeva anima viva in giro, ma l'uomo sapeva che la banchina non era deserta. Raggiunse la sua cabina a poppa, prese una borsa nera dalla valigia e tornò di sopra sul lato del ponte opposto al molo. Nascosto dietro la tuga, estrasse quella che sembrava una videocamera e l'accese; l'apparecchio emise un sibilo smorzato. Con una coperta in testa, raggiunse il tetto della cabina e, al riparo di un rotolo di cima, accostò l'occhio al monoculare per la visione notturna, mentre l'intensità della luce, la luminosità e l'infrarosso venivano regolati automaticamente. Scrutò nell'oscurità oltre la banchina, che adesso gli appariva in una luce verdognola, come se vedesse con gli occhi di una civetta. Il pick-up Chevrolet che aveva notato all'arrivo era ancora fermo nel buio. La luce delle stelle e quella di due fiochi lampioni poco distanti, amplificate di ventimila volte, misero a fuoco il conducente del veicolo come se fosse in una stanza illuminata. Pitt si rese conto che si trattava di una donna. Dal modo in cui lei spostava il visore a infrarossi da un oblò all'altro dello scafo, si rese pure conto che non sospettava di essere stata individuata. Notò che aveva i capelli bagnati. Pitt abbassò l'apparecchio per puntarlo sulla portiera di guida del pickup. La ficcanaso non era una professionista, e non era neppure prudente. Probabilmente si trattava di un'operaia che arrotondava lo stipendio facen-
do la spia, perché sulla fiancata del veicolo era scritto, in lettere dorate: ODYSSEY. Non c'erano altre parole, come «Limited» o «Corporation», e neanche «Company». Sotto la scritta era dipinta la figura stilizzata di un cavallo in corsa, un'immagine in qualche modo ancestrale che Pitt aveva già visto, ma non ricordava dove. Perché Odyssey era interessata a una spedizione di ricerca della NUMA, si chiedeva? Quale minaccia rappresentava una squadra di scienziati marini? Non aveva senso che una simile organizzazione si preoccupasse di farli sorvegliare senza un buon motivo. Non riuscì a trattenersi dallo scendere sul lato del ponte rivolto al molo e salutare l'ignara donna. Presa alla sprovvista, quella puntò il visore su di lui e, per un istante, i due sguardi s'incrociarono attraverso le lenti. Non era davvero una professionista. Si spaventò a tal punto che depose l'apparecchio sul sedile accanto, accese in tutta fretta il motore e sfrecciò sul molo facendo stridere i pneumatici posteriori, come per protesta. Renée, Giordino e Dodge apparvero insieme. «Che cosa succede?» chiese la scienziata. «Qualcuno che ha fretta», rispose Pitt divertito. Renée sciolse le cime di ormeggio a poppa e a prua mentre gli uomini continuavano a guardare il molo. Gunn era ai comandi e i potenti motori si accesero scoppiettando e rombando fino ad assestarsi su un vivace ronzio, che scuoteva leggermente il ponte. La Poco Bonito lasciò la banchina e s'immise nel canale che portava al mare. La direzione impostata nel sistema di navigazione automatico era nord-est, ma Gunn - come la maggior parte dei piloti di linea che non permetterebbero mai a un computer di fare il loro lavoro - prese il timone e condusse personalmente la nave. Pitt scese la scaletta ed entrò in cabina, dove ripose il visore a infrarossi e prese un telefono satellitare Globalstar. Poi tornò sul ponte e si abbandonò su una sdraio consunta. Quando Renée protese un braccio fuori dell'oblò della cambusa per porgergli una tazza, le sorrise con gratitudine. «Caffè?» chiese la donna. «Sei un angelo», disse Pitt. «Grazie.» Sorseggiò il caffè e poi digitò un numero sul telefono. Il capo della NUMA rispose al quarto squillo. «Parla Sandecker», disse la voce brusca all'altro capo. «Si è dimenticato di dirmi qualcosa, ammiraglio.»
«Cerchi di spiegarsi meglio.» «Odyssey.» Ci fu un attimo di silenzio. «Perché me lo chiede?» «Uno dei loro scagnozzi ci stava spiando quando siamo saliti a bordo. Vorrei sapere perché.» «Meglio se glielo spiego fra un po'», rispose Sandecker, enigmatico. «Ci sono per caso connessioni con i progetti di scavo in Nicaragua di quella società?» chiese Pitt, con aria innocente. Ancora silenzio, poi una sorta di eco. «Perché me lo chiede?» «Curiosità.» «Da chi ha avuto questa informazione?» Pitt non poté resistere, «Meglio se glielo spiego fra un po'.» E chiuse il collegamento. 19 Gunn condusse la Poco Bonito nelle acque scure dello stretto. Non vi erano altre imbarcazioni e fu in grado di rimanere al centro del canale. Le boe di segnalazione dell'ingresso del porto ondeggiavano sospinte dalla marea, una con la luce verde lampeggiante, l'altra con quella rossa. Pitt era ancora seduto sulla sdraio e si godeva il mare in quella sera tropicale, mentre le luci di Bluefields scomparivano gradualmente all'orizzonte. Nella sua mente, il pensiero della spia di Odyssey s'ingigantiva sempre più, come un albero che protenda le radici nel terreno. C'era qualcosa che gli sfuggiva in quella faccenda. Non era allarmato dal fatto che li avessero visti salpare, non ce n'era motivo. E anche il pick-up di Odyssey era l'ultima delle sue preoccupazioni. A lasciarlo perplesso era la fretta con cui la donna se n'era andata dal molo; quella fuga era del tutto immotivata. Era come se l'equipaggio della NUMA l'avesse spaventata. Ma come? Non avevano neanche tentato di avvicinarla. La risposta doveva essere cercata altrove. Poi, improvvisamente, rammentò i capelli bagnati della donna e tutto gli fu chiaro. La mano destra di Gunn spingeva la leva del gas in avanti e i due potenti motori stavano portando la barca verso il tranquillo mar dei Caraibi. Pitt scattò in piedi e urlò. «Rudi, ferma i motori!» Gunn si girò, stupito. «Che cosa?»
«Ferma i motori! Adesso!» La voce di Pitt era tagliente come una lama e Gunn obbedì subito, riportando la leva del gas in posizione di stop. Poi Pitt urlò a Giordino, che era nella cambusa con la Ford e Dodge ad assaporare una fetta di torta e una tazza di caffè: «Al, portami l'attrezzatura da immersione!» «Che cosa sta succedendo?» domandò Gunn confuso, mentre usciva dalla tuga. Anche Renée e Patrick, ugualmente perplessi, erano arrivati sul ponte per capire il perché di quel trambusto. «Non ne sono del tutto certo», spiegò Pitt, «ma sospetto che ci sia una bomba a bordo.» «Che cosa ti ha portato a questa conclusione?» chiese Dodge, scettico. «La donna al volante del camioncino se n'è andata troppo in fretta. Perché non ha potuto aspettare? Deve esserci un motivo.» «Se hai ragione, sarebbe meglio trovarla», convenne Dodge. Pitt annuì convinto. «Sì, penso di aver ragione. Rudi, tu, Renée e Patrick cercate nelle cabine. Al, tu vai in sala macchine. Io esplorerò lo scafo per vedere se non sia stata attaccata lì.» «Sbrighiamoci», disse Al. «L'esplosivo potrebbe essere collegato a un timer programmato per scattare non appena avessimo lasciato il porto e raggiunto il mare aperto.» Pitt scosse la testa. «Non credo. C'era sempre la possibilità che non partissimo fino al mattino. Nessuno poteva prevedere il momento esatto in cui saremmo partiti, né quello in cui saremmo stati in mare. Io penso ci sia qualcosa all'ingresso, un trasmettitore attaccato alle boe che attiverebbe il detonatore al nostro passaggio.» «Io invece sono convinta che tu stia correndo troppo», ribatté Renée, dubbiosa. «Non riesco proprio a credere che ci sia qualcuno che vuole ucciderci tutti e distruggere la barca.» «Qualcuno teme quello che potremmo trovare», replicò Pitt. «E, per quanto ne so, in cima alla lista dei sospettati ci sono quei furfanti di Odyssey. Devono avere un ottimo servizio informazioni se sono riusciti a scoprire la copertura che l'ammiraglio ci ha fornito.» Giordino arrivò con l'attrezzatura di Pitt. Lui non aveva bisogno di spiegazioni per accettare la teoria dell'amico. Grazie ai tanti anni passati insieme fin dalle elementari, sapeva che raramente Pitt sbagliava nell'interpretare i fatti. La fiducia in quello che l'altro pensava andava al di là di un semplice legame; in molti casi li aveva fatti agire all'unisono. «Faremmo meglio a sbrigarci», dichiarò Pitt, deciso. «Più tempo per-
diamo, prima i nostri amici si accorgeranno che li abbiamo scoperti. Si aspettano di vedere un bel fuoco d'artificio nei prossimi dieci minuti.» Il messaggio fu chiaro e nessuno indugiò. Si coordinarono in fretta e a ognuno toccò il controllo di un settore dell'imbarcazione. Pitt intanto indossava le bombole direttamente sulla camicia, perché non aveva il tempo d'infilare la muta. Non avendo il GAV, non ritenne opportuno farsi ostacolare dai pesi. Dopo aver messo in bocca l'erogatore, legò una piccola borsa degli attrezzi alla gamba sinistra, afferrò una torcia subacquea nella mano destra e si tuffò. L'acqua era più calda dell'aria e la visibilità quasi cristallina. Alla luce della torcia poteva vedere un anonimo fondo piatto e sabbioso, circa venticinque metri più in basso. L'acqua tiepida sul corpo gli dava una piacevole sensazione. La parte immersa dello scafo era priva d'incrostazione, perché la barca era stata in cantiere e ripulita prima che Sandecker ne ordinasse il trasferimento. Pitt si spostò dal timone e dalle eliche verso la prua, muovendo la torcia da sinistra a dritta e viceversa. C'era la possibilità che uno squalo si facesse attirare dalla luce, ma in tutti gli anni in cui si era immerso erano state poche le occasioni d'incontro con quelle macchine assassine degli abissi. L'attenzione di Pitt fu invece attirata da un oggetto che sporgeva come un bubbone dalla chiglia, circa a metà nave. I suoi sospetti erano così confermati. Con due colpi di pinna raggiunse quello che, senza alcun dubbio, era un dispositivo esplosivo e che adesso si trovava a non più di venticinque centimetri dalla sua maschera. Pitt non era un esperto di bombe. Tutto ciò che capiva in quel momento era che un contenitore ovale lungo circa novanta centimetri e largo venti era attaccato allo scafo di alluminio nel punto in cui si saldava alla chiglia. Era stato applicato con il nastro adesivo resistente all'acqua ed era sufficientemente robusto per resistere alla corrente mentre la barca navigava nello stretto. Non poteva dire di che tipo di esplosivo si trattasse, ma gli sembrava che ce ne fosse abbastanza per ridurre la Poco Bonito in minuscoli frantumi e per disintegrare il suo equipaggio. Non era una bella prospettiva. Mise la torcia sotto il braccio e afferrò il contenitore fra le mani, con delicatezza. Prese un bel respiro e tirò. Non accadde nulla. Tirò con maggior energia, ma senza risultato. Senza un punto di appoggio su cui fare pressione, Pitt non riusciva a esercitare la forza necessaria a staccare l'adesivo. Allora si ritrasse e aprì la borsa degli attrezzi, da dove estrasse un piccolo
coltello da pescatore a lama ricurva. Diede un'occhiata al quadrante arancio del suo vecchio orologio subacqueo: era in acqua da quattro minuti. Doveva affrettarsi, o l'agente dello Spettro che sicuramente stava controllando dalla costa si sarebbe reso conto che qualcosa non andava. Inserì il filo del coltello sotto il contenitore con molta attenzione e iniziò a recidere il nastro. Sembrava di stare segando un pezzo di legno; chiunque avesse fatto il lavoro aveva usato nastro adesivo sufficiente a soffocare una balena. Sebbene l'avesse tagliato in quattro punti, la bomba non si spostava. Decise allora di riporre il coltello, si attaccò al contenitore con entrambe le mani e, dopo essersi piegato in due, spinse con i piedi sullo scafo, tirando e pregando che solo un segnale elettronico potesse far esplodere il congegno. Il distacco avvenne di colpo, con una tale forza che Pitt indietreggiò nell'acqua per quasi tre metri, prima di fermarsi. Fu allora, con l'esplosivo in mano, che si rese conto che stava ansimando e che il cuore batteva come se volesse uscire dal torace. Senza aspettare che le sue funzioni si normalizzassero, nuotò lungo la chiglia ed emerse vicino al timone, a poppa. Non c'era nessuno in vista; erano tutti impegnati all'interno nella ricerca dell'ordigno. Sputò l'erogatore e urlò. «Ho bisogno di aiuto!» Non fu sorpreso che il primo a rispondere fosse Giordino. L'amico italiano si precipitò fuori della sala macchine e si sporse oltre la battagliola. «Che cos'hai trovato?» «Esplosivo sufficiente a disintegrare un nave da guerra.» «Vuoi che ti tiri a bordo?» «No.» Pitt annaspò, mentre un'onda gli passava sopra la testa. «Lega una lunga cima a una scialuppa e gettala fuori bordo.» Senza fare domande, Giordino corse verso la scala che portava sul tetto della tuga. Lì, estrasse con decisione una delle due scialuppe dal suo alloggio, dove non era legata per permetterle di galleggiare in caso di affondamento, e la calò sul ponte, dove Renée e Dodge erano appena arrivati per afferrarla. «Che cosa succede?» chiese Renée. Giordino indicò Pitt che galleggiava sull'acqua dietro la poppa. «Dirk ha trovato un ordigno attaccato allo scafo.» Renée guardò oltre la battagliola e vide la bomba illuminata dalla torcia di Pitt. «Perché non la scarica sul fondo?» mormorò, evidentemente spa-
ventata. «Perché ha un piano», rispose Giordino con tono paziente. «Adesso aiutatemi a gettare la scialuppa fuori bordo.» Dodge non disse niente. Il pesante scafo venne issato oltre la battagliola e lasciato cadere nell'acqua dove, con un tonfo sordo, sollevò un'onda che coprì il sommozzatore. Sbattendo le pinne il più velocemente possibile, Pitt si sollevò fino al petto, portò il pesante contenitore sopra la testa e lo depose con delicatezza sul fondo della scialuppa, del tutto consapevole che stava sfidando la fortuna. L'unica consolazione era che, se le cose non avessero funzionato, non avrebbe avuto il tempo di accorgersene. Quando l'ordigno fu infine al suo posto nella scialuppa, Pitt si concesse un respiro di sollievo. Giordino abbassò la scaletta e aiutò l'amico a risalire a bordo. Mentre gli toglievano le bombole disse: «Versa qualche litro di carburante nella barca, poi lascia andare la cima sino in fondo». «Dovremmo trascinarci dietro una scialuppa carica di esplosivo immerso nella benzina?» chiese Patrick con preoccupazione. «Questa è l'idea.» «E che cosa succederà quando passeremo il trasmettitore sulla boa?» Pitt guardò Dodge e fece un sorriso beffardo. «Sentiremo un grande bum!» 20 Entrando dal mare aperto verso il porto, la boa di sinistra che segnala l'ingresso nel canale, in genere, è verde, con una luce dello stesso colore all'estremità e un numero dispari. Quella di dritta, esattamente sull'altro lato, è rossa, con luce del medesimo colore e numero pari. Come ovvio, uscendo dal porto, la posizione appare invertita: rossa a sinistra, verde a dritta. E così le vide la Poco Bonito. Con l'eccezione di Giordino, che era al timone, tutti gli altri erano a poppa in attesa di sapere che cosa sarebbe successo quando la prua della nave fosse arrivata all'altezza delle boe. Anche se avevano visto Pitt recuperare l'esplosivo e metterlo nella scialuppa che adesso galleggiava a una buona distanza dietro di loro, la Ford e Dodge non erano ancora del tutto sicuri che non sarebbero saltati in aria. Mentre osservavano quel piccolo oggetto arancione che si stagliava sull'acqua nera a circa cinquanta metri da loro, la tensione era palpabile. Poco
dopo, però, la Poco Bonito superò le boe incolume e gli animi si distesero. Fu tuttavia questione di poco, perché un'apprensione ancora maggiore si ebbe quando nella trappola stava per passarci la scialuppa. Cinquanta metri, poi venticinque. Renée si portò istintivamente la mani alle orecchie; Dodge si voltò e si strinse nelle spalle. Pitt e Giordino fissarono calmi il mare, come se fossero in attesa di una stella cadente. «Non appena scoppia», disse Pitt a Dodge, «spegni tutte le luci. Devono pensare che ci siamo disintegrati.» Aveva appena impartito l'ordine, che un boato annunciò la fine della scialuppa. Il suono dell'esplosione rimbombò sulle scogliere dello stretto, provocando un moto ondoso che andò a infrangersi sulle rocce. L'oscurità divenne un incubo di fiamme e rottami mentre al centro del canale si creava un cratere di sei metri di diametro con pareti di acqua in ebollizione e una colonna di fuoco al centro, formata dal carburante che riempiva la scialuppa. L'equipaggio della Poco Bonito osservava ipnotizzato quel naufragio apocalittico e i pezzi della sventurata imbarcazione che ricadevano nell'acqua come meteore. Alcuni raggiunsero la nave, ma non ferirono nessuno né danneggiarono nulla. Di colpo, calò il silenzio e le acque si richiusero sul cratere. Il mare aveva avuto la sua vittima. La donna seduta nel pick-up aveva guardato l'orologio mille volte da quando la Poco Bonito era salpata dal molo. Quando infine udì il boato in lontananza e vide la lingua di fuoco che lacerava il cielo a circa due miglia, tirò un sospiro di sollievo. Ci avevano messo più del previsto, otto minuti di troppo, secondo i suoi calcoli. Forse il timoniere era stato prudente ed era avanzato con lentezza nelle acque scure dello stretto canale. Oppure avevano avuto un problema tecnico e si erano fermati a risolverlo. Qualunque fosse la risposta, non c'era più da preoccuparsi. Poteva informare i suoi colleghi che il lavoro era stato concluso con successo. Non si recò subito all'aeroporto, dove un aereo di Odyssey la stava aspettando. Decise invece di fare un salto nello squallido centro di Bluefields e concedersi un bicchiere di rum. Dopotutto, pensava, aveva diritto a un po' di svago e relax. Aveva ricominciato a piovere e dovette azionare il tergicristallo mentre lasciava il porto diretta in città.
La Poco Bonito si era ormai lasciata il canale alle spalle. La rotta era fissata su Laguna de Perlas e sulle successive isole Cayos Perlas. Il cielo si stava aprendo e cominciavano a vedersi le stelle, mentre una leggera brezza soffiava da sud. Pitt, che si era offerto per il turno da mezzanotte alle tre, era in plancia e lasciava correre i pensieri, mentre il pilota automatico seguiva senza errori la direzione impostata. Per un'ora buona, dovette combattere con tutte le sue forze per non addormentarsi. Poi, iniziò a pensare a Loren Smith. La loro era una relazione molto libera che però durava da quasi vent'anni. Erano arrivati vicino all'idea di sposarsi almeno due volte, ma entrambi erano saldamente legati al loro lavoro: Pitt alla NUMA, Loren al Congresso. Ma, adesso che Loren aveva deciso di non candidarsi per una quinta legislatura, forse era tempo che anche lui si trovasse un lavoro più sedentario, che non lo portasse da un capo all'altro degli oceani. Troppe volte si era scontrato con la morte e troppe erano le cicatrici, sia nel fisico sia nella mente. Il fatto era che aveva già troppo sfidato la sorte; la fortuna non poteva durare per sempre. Se non gli fossero venuti dubbi sulla donna nel camioncino di Odyssey, se non avesse avuto quell'intuizione sull'esplosivo, lui, il suo amico Giordino e gli altri dell'equipaggio a quel punto non ci sarebbero più stati. Forse era davvero tempo di andare in pensione. Dopotutto, aveva una famiglia, adesso, con due figli adulti e responsabilità che fino a due anni prima non avrebbe mai immaginato. L'unico problema era che amava il mare, sopra e sotto. Non era concepibile che gli voltasse le spalle e vi rinunciasse per sempre. Doveva trovare un compromesso. Tornò a concentrarsi sul problema del momento: la melma. Gli strumenti di rilevamento, i cui delicati sensori erano montati sotto lo scafo, ne segnalavano ancora solo minime tracce. Anche se non vedeva luci di altre navi all'orizzonte, decise di perlustrare l'oscurità con un binocolo. Procedendo alla tranquilla velocità di crociera di 20 nodi, la Poco Bonito si era lasciata le isole Cayos Perlas alle spalle da più di un'ora. Pitt abbassò il cannocchiale ed esaminò la carta nautica. Dovevano trovarsi circa trenta miglia al largo della città di Tasbapauni, sempre sulla costa nicaraguense. Gli indicatori analogici e i display digitali degli strumenti erano ancora fissi sullo zero. Si chiese se non stessero inseguendo un fantasma. I suoi pensieri furono interrotti da Giordino, che si presentò con una tazza di caffè. «Ho pensato che avresti gradito qualcosa che ti tenesse sveglio.»
«Grazie. Sei in anticipo di un'ora sul tuo turno.» Giordino si strinse nelle spalle. «Mi sono svegliato e non riuscivo a riaddormentarmi.» Pitt sorseggiò il caffè con grande piacere. «Al, com'è che non ti sei mai sposato?» Giordino sgranò gli occhi scuri. «Perché mi fai questa domanda proprio ora?» «È un po' di tempo che la mia mente mi porta su argomenti inusuali.» «Come si dice di solito?» chiese Giordino alzando le spalle. «Non ho trovato la ragazza giusta.» «Ci sei andato vicino, una volta.» Al annuì. «Pat O'Connell. Ci abbiamo ripensato entrambi all'ultimo minuto.» «E se ti dicessi che sto pensando di lasciare la NUMA e sposare Loren?» Giordino si voltò a guardare l'amico come se una freccia gli avesse trapassato un polmone. «Ripetilo.» «Penso che tu abbia capito.» «Ci crederò solo quando il sole sorgerà a ovest.» «Hai mai pensato di lasciare tutto e fare una vita più tranquilla?» «In realtà, no», rispose Giordino, dopo un attimo di riflessione. «Non ho mai avuto grandi ambizioni; sono felice di quello che faccio. La routine del marito-papà non mi si addice. Inoltre sono via da casa otto mesi l'anno. Come potrebbe accettarlo una donna? No, penso che lascerò le cose come stanno finché non mi porteranno a forza in una casa di riposo.» «Non ti vedo proprio finire i tuoi giorni in una casa di riposo.» «Il grande pistolero Doc Holliday lo ha fatto. Quando vide che aveva i piedi nudi e non moriva con gli stivali addosso, le sue ultime parole furono: 'Che io sia dannato'.» «Che cosa vuoi che si scriva sulla tua tomba?» chiese Pitt, seriamente. «'È stata una grande festa, finché è durata. Spero possa continuare altrove.'» «Me ne ricorderò... quando sarà il momento.» All'improvviso si azzittirono, la loro attenzione attirata da una novità. Gli strumenti stavano registrando tracce d'inquinamento chimico. «Guarda, stiamo rilevando qualcosa.» Giordino si girò verso la scala che scendeva negli alloggi. «Sveglio Dodge.» Dopo pochi minuti, un assonnato Dodge entrava in plancia e iniziava a
consultare i dati sul computer. Quando si ritrasse, era perplesso. «Questa cosa non assomiglia a nessun tipo d'inquinamento umano finora conosciuto.» «Cosa pensi che sia?» chiese Pitt. «Non ne sarò sicuro finché non eseguirò i test, ma sembra un vero e proprio cocktail di tutti i minerali della tavola degli elementi.» L'ambiente divenne affollato quando anche Gunn e Renée, svegliati dall'improvvisa attività, arrivarono e si offrirono di preparare la prima colazione. Senza volerlo ammettere apertamente, erano tutti in febbrile attesa dei risultati delle indagini di Dodge, che stava radunando i dati e analizzando i valori. Mancavano ancora tre ore alla comparsa del sole, quando Pitt uscì per osservare il mare scuro che defluiva lungo lo scafo. Come se avesse un presentimento, si sporse in avanti sulla battagliola e mise la mano in acqua. Quando la ritrasse e la guardò, si accorse che era coperta da una fanghiglia marrone. Tornò in plancia con la mano alzata, annunciando: «Siamo in piena melma. L'acqua sembra concime, come se tutto il fondo fosse stato rivoltato». «Sei più vicino alla verità di quanto tu non creda», disse Dodge, aprendo bocca per la prima volta dopo mezz'ora. «È la più incredibile mistura che abbia mai visto.» «Qualche idea sulla ricetta?» chiese Giordino, aspettando con pazienza che Renée gli servisse la pancetta affumicata con le uova strapazzate. «Gli ingredienti non sono certo quelli che pensi.» Renée fece uno sguardo interrogativo. «Di quale sostanza inquinante stiamo parlando?» Dodge la fissò con aria solenne. «La melma non deriva da un agente chimico di sintesi.» «Stai dicendo che il colpevole non è l'uomo?» chiese Gunn, mettendo il chimico alle strette. «No», rispose Dodge lentamente, «In questo caso, la colpevole è Madre Natura.» «Se non parliamo di sostanze chimiche, allora di che cosa si tratta?» insistette Renée. «Di un cocktail», rispose Dodge, versandosi una tazza di caffè. «Un miscuglio dei minerali più tossici che si trovino in natura. Elementi come il bario, l'antimonio, il cobalto, il molibdeno e il vanadio, derivati da minerali tossici come antimonite, baritina, patronite e mispickel.»
Renée alzò le sue perfette sopracciglia. «Mispickel?» «L'arsenopirite, il minerale da cui si ricava l'arsenico.» Pitt fissò Dodge con aria pensierosa. «Com'è possibile che una così alta concentrazione di minerali tossici, un simile 'cocktail', come lo chiami tu, si espanda, perché credo sia impossibile che si moltiplichi da solo?» «L'accumulo deriva dal fatto che viene continuamente alimentato», rispose Dodge. «Direi pure che ci sono forti tracce di magnesio, che indicano la presenza di dolomite, un concime calcareo presente in concentrazioni mai viste.» «E questo dove ci porta?» chiese Gunn. «Alla presenza di calcare, prima di tutto», rispose Dodge, senza esitare. Poi si fermò un istante a esaminare un tabulato appena uscito dalla stampante. «Un altro fattore importante è la forza di gravità che trascina i minerali e gli elementi chimici nelle acque alcaline verso il polo nord magnetico. In questo vortice, i minerali attraggono altri minerali e così si ossidano, formando ruggine, mentre gli elementi chimici nell'acqua alcalina attraggono altri elementi verso la superficie e sprigionano rifiuti tossici o gas. Ecco perché la maggior parte di questa marea letale va verso nord, in direzione di Key West.» Gunn scosse la testa. «Ciò però non spiega perché Dirk e Summer abbiano avvistato la melma al Banco de la Navidad, sulla costa atlantica della Repubblica Dominicana.» Dodge si strinse nelle spalle. «In parte sarà stata sospinta dai venti e dalle correnti attraverso il Canal de la Mona, fra la Repubblica Dominicana e Puerto Rico, e così è arrivata al Banco de la Navidad.» «Qualunque sia la composizione di questa miscela», intervenne Renée, «ha reso l'acqua dannosa e pericolosa per tutte le forme di vita, umana e animale, soprattutto per rettili, pesci e anche uccelli, per non parlare dei microrganismi.» «Ciò che mi lascia perplesso», mormorò Dodge, continuando come se non avesse sentito, «è come una sostanza della consistenza della sabbia possa legarsi in una massa coesa che galleggia come una nuvola a una profondità di non più di trentacinque metri dalla superficie.» Mentre parlava, prendeva appunti su un blocchetto. «Temo che la salinità del mare abbia un qualche ruolo; ciò spiegherebbe perché la melma non affonda.» «Non è l'unica stranezza», aggiunse Giordino. «Che cosa intendi dire?» chiese Pitt. «L'acqua del mare è a 27 gradi circa, direi cinque in meno rispetto alla
normalità dei Caraibi.» «In effetti, questo è un altro quesito cui rispondere», mormorò Dodge con aria stanca. «Un calo così significativo non era mai stato registrato.» «Hai già scoperto molto», si complimentò Gunn. «Il mondo non fu creato in un giorno. Raccoglieremo campioni e poi sarà il laboratorio NUMA di Washington a trovare le altre risposte. Il nostro lavoro, adesso, è di risalire all'origine.» «Lo possiamo fare solo seguendo le tracce che portano al punto di maggior concentrazione», disse Renée. Pitt sorrise. «Per questo siamo qui...» S'interruppe di colpo, irrigidendosi, poi guardò fuori del vetro. «Ecco», continuò tranquillo, «siamo pronti per il nostro giro a Disneyland.» «È meglio se vai a dormire», replicò Giordino, senza scomporsi. «Stai iniziando a farneticare.» «Qui non siamo a Disneyland», disse Renée, soffocando uno sbadiglio. Pitt si girò, fece un segno con il capo e indicò il mare oltre la prua. «Allora perché stiamo entrando nei 'Pirati dei Caraibi'?» Tutti si voltarono all'unisono e fissarono l'acqua scura che finiva dove iniziavano le stelle. Videro un bagliore giallognolo che cresceva lentamente in intensità a mano a mano che la Poco Bonito gli si avvicinava. In un silenzio glaciale, videro che il bagliore si materializzava nell'irreale forma di un vecchio vascello pirata, sempre più definito ogni minuto che passava. Credettero per un istante di aver perso il lume della ragione, finché Pitt non disse, senza scomporsi: «Mi chiedevo quando il vecchio Leigh Hunt si sarebbe fatto vivo». 21 L'umore a bordo cambiò repentinamente. Per circa un minuto nessuno si mosse. Nessuno osò parlare, come paralizzato dal bizzarro fenomeno. Infine, fu Gunn a rompere il silenzio. «Si tratta dello stesso pirata Hunt contro il quale ci ha messo in guardia l'ammiraglio?» «No, per la verità è Hunt il bucaniere.» «Non può essere vero.» Renée guardava terrorizzata, rifiutandosi di credere con il cervello a ciò che gli occhi le mostravano. «Siamo veramente di fronte a un vascello fantasma?» Le labbra di Pitt abbozzarono un sorriso beffardo. «Si vede quel che
qualcuno vuol farci vedere.» Poi parafrasò un verso dalla Ballata del vecchio marinaio. «Senza neanche un sussurro del mare, spesso sfreccia la barca di Odyssey.» «Chi era Hunt?» chiese Dodge. «Un bucaniere che razziò il mar dei Caraibi tra il 1665 e il 1680, anno in cui fu catturato da una nave della marina britannica e dato in pasto agli squali.» Per niente desideroso di vedere com'era fatto un fantasma, Dodge si girò, alquanto turbato, e mormorò: «Che differenza c'è tra un pirata e un bucaniere?» «Molto poca», rispose Pitt. «'Pirata' è un termine generico che definisce quei furfanti britannici, olandesi e francesi che catturavano le navi mercantili per depredarle di merci e denaro. 'Bucaniere' è una storpiatura del francese barbecue, perché i primi di loro avevano l'abitudine di grigliare la carne prima di farla essiccare. A differenza dei pirati che spesso ricevevano denaro dai loro governi divenendo per questo dei corsari - in virtù delle lettere di corsa che ne autorizzavano le scorribande -, i bucanieri erano indipendenti e depredavano qualsiasi nave, soprattutto quelle spagnole. Erano anche conosciuti come 'filibustieri'.» Il vascello fantasma era solo a mezzo miglio e si avvicinava rapidamente. Il vago bagliore giallo creava l'illusione di un'apparizione irreale. Mentre si avvicinava, delineandosi sempre più, si udì il distinto suono di urla umane provenire da bordo. Era un brigantino con vele quadre, tre alberi e basso pescaggio, uno dei vascelli preferiti dai pirati prima del 1700. La vela maestra e quella di trinchetto erano tese da una brezza inesistente. Montava dieci cannoni, cinque per lato del ponte principale. Uomini con il capo coperto da una bandana e sciabole in pugno erano pronti sul cassero. Sull'albero di maestra sventolava una bandiera nera con un inquietante teschio sanguinante, tesa come se la nave affrontasse un forte vento di prua. L'espressione dei passeggeri della Poco Bonito variava dal terrore alla curiosità scientifica. Giordino sembrava stesse guardando una pizza che si era raffreddata, Pitt scrutava nel binocolo con il volto di uno che si stesse godendo un film di fantascienza. Quando abbassò lo strumento, iniziò a ridere. «Sei diventato matto?» gli disse Renée. Le passò le lenti. «Guarda quell'uomo in rosso scarlatto con la fascia dorata che sta sul cassero e dimmi che cosa vedi esattamente.»
Renée fece come le era stato detto. «Un uomo con un cappello con la piuma.» «Che cosa ancora lo distingue dagli altri?» «Ha una gamba di legno e un uncino al posto della mano destra.» «Hai dimenticato la benda sull'occhio.» «Sì, ha anche quella.» «Gli manca solo il pappagallo sulla spalla.» La donna abbassò il binocolo. «Non capisco.» «Un perfetto stereotipo, non ti sembra?» Da ex ufficiale di marina, con quindici anni di servizio in mare, Gunn si accorse del cambiamento di rotta della nave fantasma quasi prima che avvenisse. «Sta per tagliarci la strada.» «Spero che non si stia preparando a prenderci a cannonate», disse Giordino, a metà fra il serio e il faceto. «Spingi al massimo i motori e valle addosso a mezza nave», ordinò Pitt. «No!» squittì Renée, guardando Pitt con aria disperata. «È un suicidio!» «Io sto con Dirk», annunciò Giordino, fedele all'amico. «Infilziamo il bastardo.» Gunn abbozzò un sorriso, mentre si rendeva conto dell'idea di Pitt. Si mise al timone e diede il tutto gas ai motori, sollevando la prua di un metro fuori dell'acqua. La Poco Bonito balzò in avanti come un cavallo da corsa spronato a sangue. Dopo pochi metri, stava volando sull'acqua a 50 nodi diretta verso la murata di dritta del vascello fantasma. Le bocche dei cannoni, già pronte nelle feritoie, aprirono il fuoco sputando fiamme, accompagnate da un tremendo boato che rimbombò nell'acqua. Dopo aver guardato velocemente il radar, Pitt si precipitò in cabina a prendere il visore a infrarossi. Ritornò sul ponte in meno di un minuto e fece segno a Giordino di seguirlo in cima alla tuga. Senza esitare, Al seguì l'amico su per la scaletta. Si sdraiarono proni sul tetto, con i gomiti appoggiati per passarsi il binocolo. Non stavano però guardando il fantasma luminescente, ma il mare avvolto nell'oscurità davanti e dietro il vascello. Domandandosi se i due uomini della NUMA avessero perso il senso della realtà, Dodge e Renée uscirono istintivamente sul ponte, dietro la tuga. Sopra di loro, Pitt e Giordino sembravano ignorare l'ormai imminente disastro. «Eccolo, ce l'ho», dichiarò Giordino. «Sembra una piccola chiatta, circa trecento metri a ovest» «Ce l'ho anch'io», gli fece eco Pitt. «Uno yacht, di quelli grandi, sopra i
trenta metri di lunghezza, alla stessa distanza a est.» Trecento metri, centocinquanta, in una corsa verso una collisione con l'ignoto. Ma invece di schiantarsi, la Poco Bonito passò attraverso la forma opaca di quello che sembrava un vascello pirata. Per un istante, il bagliore giallo si scompose in mille raggi color arancio simili a quelli dei concerti rock e avvolse la piccola nave da ricerca. Renée e Dodge videro pirati accanto a loro sul ponte, che sparavano all'impazzata, ma nessuna traccia del vascello contro cui si erano lanciati. La Poco Bonito si ritrovò a sfrecciare solitaria su uno scuro mare di velluto. Alle sue spalle, il bagliore giallo si spense di colpo e scomparve, e gli spari dei fucili si persero nella notte. Era come se l'apparizione fantasma non ci fosse mai stata. «Mantieni la velocità», disse Pitt a Gunn. «Non è sano rimanere da queste parti.» «Abbiamo avuto un'allucinazione?» mormorò Renée, con la faccia bianca come un cencio. «O siamo davvero passati attraverso un vascello fantasma?» Pitt le pose un braccio sulla spalla. «Ciò che hai visto, mia cara, era un'immagine quadridimensionale - altezza, larghezza, profondità e movimento - registrata e proiettata sotto forma di ologramma.» Renée osservava l'oscurità sul mare, con aria inebetita. «Sembrava tutto così vero, così convincente.» «Molto più che reale, con quel suo finto capitano che aveva la gamba di legno di Long John Silver dell'Isola del tesoro, l'uncino del capitano di Peter Pan e la benda sull'occhio di Orazio Nelson.» «Ma perché?» chiese Renée, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Perché questa messa in scena in mezzo al mare?» Pitt stava guardando il radar oltre la porta della plancia. «Siamo di fronte a un caso di pirateria moderna.» «Ma chi proiettava le immagini olografiche?» «Anch'io vorrei saperlo», intervenne Dodge. «Non ho visto altre navi.» «Mente e occhi erano fissi sull'apparizione», rispose Giordino. «Dirk e io abbiamo visto un grande yacht a est e una chiatta a ovest, entrambi a trecento metri. Non avevano luci.» Nella mente di Renée qualcosa scattò. «Erano loro che proiettavano i raggi per l'ologramma?» Pitt annuì. «Volevano dare l'illusione di una nave e un equipaggio fantasma condannati a solcare i mari per l'eternità. Ma tutta la scena era troppo
stereotipata. Devono aver creato il vascello dopo aver visto troppi dei vecchi film di Errol Flynn.» «Se il radar non m'inganna, lo yacht ci sta inseguendo», avvisò Giordino. Senza lasciare il timone, Gunn osservò i due punti lampeggianti sullo schermo. «Uno è fermo; deve trattarsi della chiatta. L'altro ci segue a una distanza di circa mezzo miglio a poppa, ma perde terreno. Devono essere alquanto stupiti di un peschereccio che gli fa mangiare la polvere.» Giordino smorzò subito l'esultanza degli altri. «Dobbiamo solo sperare che non abbiano mortai o missili a bordo.» «Avrebbero già fatto fuoco...» Non fece in tempo a terminare la frase. Un missile spuntò sibilando nel cielo scuro e passò sopra la Poco Bonito, attraversando lo schermo del radar e colpendo l'acqua cinquanta metri davanti a loro con un tonfo sordo. Pitt si rivolse a Giordino. «Dovevi proprio dar loro l'imbeccata!» Gunn non fiatava. Era troppo impegnato a virare a sinistra e a dritta, zigzagando in modo da rendere la barca un bersaglio difficile per i missili che ormai arrivavano ogni trenta secondi. «Spegni tutte le luci!» urlò Pitt a Gunn. L'oscurità calò immediatamente, perché il direttore della NUMA aveva azionato l'interruttore generale. Le ondate erano arrivate a quasi un metro e il lucido scafo della Poco Bonito sfrecciava nelle creste a quasi 45 nodi. «Come stiamo ad armi?» chiese Giordino a Gunn, senza scomporsi. «Due fucili M4 con estensore per il lancio di granate da 40 millimetri.» «Niente di più pesante?» «L'ammiraglio ha permesso solo l'imbarco di armi piccole, facili da nascondere nel caso fossimo fermati e perquisiti dalla polizia nicaraguense.» «Sembriamo dei trafficanti di droga?» chiese Renée. Dodge la guardò con un sorriso tirato. «Come dovrebbero sembrare i trafficanti di droga?» «Ho la mia vecchia Colt 45», disse Pitt. «E tu, Al?» «Una Desert Eagle calibro 50 semiautomatica.» «Non riusciremo ad affondarli», continuò Pitt. «Ma possiamo evitare che ci abbordino.» «Se non ci riducono a pezzettini prima», grugnì Giordino, mentre un altro missile atterrava a non più di quindici metri dietro di loro. «Se non usano missili con il dispositivo di ricerca automatica del bersaglio, non possono colpire ciò che non vedono.»
In quel momento, il fuoco delle armi automatiche brillò nell'oscurità dietro la poppa. I moderni pirati, che sparavano a caso nella direzione indicata dal radar, erano cinquanta metri più indietro, a dritta, e avanzavano sulla superficie sollevando grandi spruzzi. Gunn azzardò una virata a sinistra per qualche centinaio di metri, prima di rimettere la prua in avanti. Gli inseguitori non reagirono altrettanto velocemente. Brancolando nel buio, si lanciarono dove la Poco Bonito doveva trovarsi, ma dove invece non c'era. Altri due missili solcarono la notte: i pirati cercavano di sparare seguendo il lampeggio della luce del radar. L'idea era giusta, ma in quel momento Gunn aveva già riportato la nave in linea diritta, per fare subito una finta verso sinistra e virare invece a dritta. I missili caddero a quindici metri dai due lati della nave, riversando sul ponte due ondate gemelle di acqua. Poi il fuoco cessò e un manto d'immobilità sembrò essersi posato sulla Poco Bonito, in un silenzio rotto solo dal possente ronzio dei motori lanciati al massimo, dal brontolio dello scarico e dallo sciabordio dell'acqua. «Hanno rinunciato?» mormorò Renée con un filo di speranza. Dopo aver guardato il radar, Gunn annunciò con tono soddisfatto dalla porta della plancia: «Stanno invertendo la rotta». «Ma chi sono?» «I pirati del posto non usano ologrammi né missili lanciati da yacht», osservò Giordino. Pitt guardava verso poppa e ragionava fra sé. «I nostri amici di Odyssey sono i principali sospetti. Non potevano certo sapere che i nostri corpi non giacevano sul fondo del mare. Siamo semplicemente incappati in un'imboscata preparata per le sfortunate navi che capitano in questa zona.» «Non saranno molto felici quando si renderanno conto che non gli siamo sfuggiti una, ma due volte», intervenne Dodge. Renée era sempre più disperata. «Ma perché noi? Che cos'abbiamo fatto per spingerli a cercare di ucciderci?» «Penso che siamo entrati nel loro territorio», affermò Pitt, seguendo il corso logico dei suoi pensieri. «Deve esserci qualcosa in questa zona dei Caraibi che non deve essere vista né da noi né da altri.» «Forse un traffico di droga?» azzardò Dodge. «Lo Spettro potrebbe essere implicato in un giro del genere?» «Forse», rispose Pitt. «Ma, da quel poco che so, il suo impero trae grandi profitti dall'edilizia e dalle imprese di scavo. Non credo gli convenga immischiarsi con la droga, anche solo come attività marginale. No. Quello che abbiamo davanti è molto più di semplice traffico di droga o pirateria.»
Gunn inserì il pilota automatico, uscì dalla plancia e si accasciò su una sdraio. «Dunque, quale rotta devo impostare?» Seguì un lungo momento di silenzio. A Pitt non piaceva l'idea di mettere ancora in pericolo la vita di tutti, ma erano lì per compiere una missione. «Sandecker ci ha mandato a scoprire che cosa si nasconde dietro il fenomeno della melma. Continueremo a cercare la massima concentrazione di contaminazione nella speranza che ci conduca alla fonte.» «E se ci danno ancora la caccia?» lo incalzò Dodge. Pitt sfoggiò il suo più largo sorriso. «Viriamo e scappiamo, visto che siamo diventati così bravi a farlo.» 22 L'alba spuntò su un mare deserto. Il radar non segnalava navi nel raggio di trenta miglia e, fatta eccezione per le luci di un elicottero che li aveva sorvolati un'ora prima, la ricerca delle origini della melma procedette senza interruzioni. Per non correre rischi, non avevano più acceso le luci. Dopo l'incontro con la nave fantasma, avevano virato a sud e puntavano verso la baia di Punta Gorda, dove la scia di crescente tossicità li stava portando. Fino a quel momento il tempo era stato bello, con solo un leggero accenno di brezza, e poi di vento moderato. La costa del Nicaragua era adesso a sole tre miglia e il bassopiano formava una sottile linea sull'orizzonte, come se una mano gigante l'avesse disegnata con un'immensa squadra e una penna a inchiostro nero. La spiaggia era avvolta da una nebbiolina che si spingeva fino ai piedi delle colline verso ovest. «Davvero strano», disse Gunn, scrutando la costa con il binocolo. Pitt alzò lo sguardo. «Che cosa?» «Secondo le mappe di Punta Gorda, l'unico centro abitato è un villaggio di pescatori denominato Barra de Río Maiz.» «E invece?» Gunn passò il binocolo a Pitt. «Guarda tu stesso e dimmi che cosa vedi.» Pitt sistemò la messa a fuoco per i suoi occhi ed esaminò la costa. «Non c'è nessun villaggio; sembra piuttosto un porto per navi di grande stazza. Vedo due grandi navi portacontainer che stanno scaricando su un molo attrezzato con gru, e altre due ancorate in attesa del loro turno.» «Ci sono anche diversi magazzini.»
«Sembra un posto più operoso di un formicaio.» «Che cosa ne deduci?» chiese Gunn. «Posso solo pensare che si stiano immagazzinando attrezzatura e rifornimenti per la costruzione della famosa ferrovia di collegamento fra i due oceani.» «Sono stati dannatamente bravi a mantenere tutto segreto», osservò Gunn. «Non ho letto nulla che facesse pensare che il progetto fosse ancora finanziato e stesse procedendo.» «Due delle navi battono bandiera cinese», comunicò Pitt. «Ecco la risposta al problema del finanziamento.» Improvvisamente, le acque del grande golfo di Punta Gorda in cui stavano entrando divennero marroni e l'attenzione di tutti si spostò su quel colore di morte. Nessuno fiatava. Nessuno osava muoversi mentre la melma si materializzava nel chiarore mattutino spessa come una tazza di farina d'avena. Osservavano immobili e silenziosi la prua che solcava un'acqua appestata, la cui superficie sembrava dipinta con i marroni più scuri della tavolozza. L'effetto era quello della pelle devastata dalla lebbra. Fermo al timone, con in bocca un sigaro spento, Giordino rallentò la velocità mentre Dodge procedeva a una serie di registrazioni e analisi dell'acqua contaminata. In quella lunga notte, Pitt aveva potuto conoscere meglio Renée e Patrick. Lei era cresciuta in Florida ed era diventata istruttrice subacquea in giovane età. Si era innamorata a tal punto della vita subacquea da laurearsi in biologia marina. Portava le cicatrici di un divorzio avvenuto pochi mesi prima d'imbarcarsi sulla Poco Bonito. Di ritorno da un lungo periodo di ricerca in mare, al largo delle isole Salomone, aveva scoperto che l'amore della sua vita si era trasferito a vivere con un'altra donna. Adesso, per lei, gli uomini non erano più una priorità. Pitt s'impegnò nel tentativo di farla ridere il più possibile, non perdendo l'occasione di sdrammatizzare ogni cosa con una battuta. Ma il suo spirito umoristico non faceva presa su Dodge. Uomo taciturno, era stato sposato, apparentemente senza problemi, per trent'anni, aveva cinque figli e quattro nipotini. Grazie a un master in chimica e alla specializzazione in inquinamento dell'acqua, aveva lavorato per la NUMA fin dalla sua creazione, sempre nei laboratori di terra. Ma alla morte della moglie, avvenuta un anno prima, si era reso disponibile per la ricerca sul campo. Le battute di Pitt gli strappavano solo qualche sorriso tirato, mai
una risata. Intorno a loro, il sole sorto da non molto illuminava una superficie del mare impestata della famigerata melma. Aveva la consistenza di una macchia d'olio, solo un po' più densa, e appiattiva ogni tentativo di onda. Non c'erano spruzzi intorno alla nave, mentre Giordino procedeva alla velocità di solo dieci nodi. Dopo essere scampati all'esplosione nel porto di Bluefields e allo yacht dei pirati, l'inquietudine che era cresciuta nella notte sembrava essere divenuta reale, una fitta nebbia che pareva di poter toccare. Pitt e Renée avevano tirato a bordo diverse secchiate di melma, per versarla nei contenitori in vetro per le analisi previste nei laboratori di Washington. Avevano anche raccolto campioni di fauna morta che galleggiavano sull'acqua contaminata. Il loro esame spettava a Renée. Il grido di Giordino, che agitava le braccia in un modo tutto italiano, ruppe improvvisamente il silenzio. «Davanti a noi, a sinistra! Qualcosa sta accadendo nell'acqua!» Mentre tutti guardavano, immobili come statue, nel mare ci fu un movimento come se un immane cetaceo si stesse contorcendo in agonia. Giordino fece virare la prua della nave di 12 gradi verso quella turbolenza. Pitt corse in plancia ed esaminò i dati dello scandaglio. Il fondo del mare si stava alzando rapidamente. Era come se stessero per affrontare una scoscesa parete del Grand Canyon. Lo scarno orrore della melma rendeva il mare simile a un calderone di fango in ebollizione. «Incredibile», mormorò Dodge, come ipnotizzato. «Secondo le carte nautiche in questo punto ci dovrebbero essere centottanta metri di profondità.» Pitt non si pronunciò. Era in piedi a prua, con il binocolo puntato davanti a sé. «Sembra che il mare stia bollendo», disse a Giordino, che aveva aperto il finestrino vicino al timone. «Non può venire da un vulcano; non ci sono né vapore né ondate di calore.» «Il fondo sale a un'incredibile velocità», avvisò Dodge. «Sembra come l'eruzione di un vulcano, ma senza lava.» La spiaggia era adesso più vicina, a meno di due miglia. L'acqua era sempre più agitata, con onde in ogni direzione. La barca era sbattuta con violenza sui due lati, come percossa da un enorme vibratore. La melma si era fatta più spessa e sembrava fango. Giordino si affacciò sulla porta della plancia e fece segno a Pitt. «La temperatura dell'acqua ha avuto una variazione. È tornata ai normali 30
gradi nell'ultimo miglio.» «Come te lo spieghi?» «Come te lo spieghi tu.» Dodge faticava ad accettare la situazione. L'improvviso aumento di temperatura dell'acqua, l'incredibile rialzo del fondo marino, quella massa di melma che sembrava essere apparsa dal nulla. Era tutto inconcepibile. Ma anche Pitt era abbastanza sconcertato. Tutto ciò che avevano scoperto andava contro ogni legge del mare. Si sapeva che i vulcani potevano sorgere dal fondo, ma non in montagne di fango e sabbia. Il golfo avrebbe dovuto essere un ambiente marino vivo, con pesci di ogni varietà. Ma intorno a loro c'era solo morte. Forse, un tempo, il mare era pieno di creature, sepolte ormai sotto montagne di fango o emigrate altrove, in acque pulite. Non cresceva più niente, non c'era più vita. Era un mondo di morte, soffocato da una melma tossica che sembrava essersi materializzata dal nulla. Giordino manteneva faticosamente la rotta. Le onde non erano alte, non più di un metro e mezzo, ma a differenza di quelle di una tempesta, provenienti da un'unica direzione, quelle sbattevano e sferzavano la barca da ogni punto cardinale. Dopo altri duecento metri, la situazione diventò incontrollabile. «È una massa di fango impazzito», disse Renée, come in preda a una visione. «Diventerà un'isola da un momento all'altro.» «Prima di quanto pensi», urlò Giordino, inserendo di colpo la marcia indietro. «Tenetevi, il fondo ci ha raggiunto.» La barca arretrò, ma era troppo tardi. La prua colpì la massa crescente, facendo cadere tutti in avanti, e s'incagliò. Mentre davanti a loro il mare scompariva, le eliche giravano all'impazzata, frullando il fango in una schiuma color avorio, nel tentativo di liberare la Poco Bonito dal misterioso nemico. La barca imprigionata nella melma trasmetteva a tutti una sensazione d'impotenza. «Spegni i motori», ordinò Pitt. «L'alta marea arriverà tra un'ora. Aspettiamo allora per riprovare. Nel frattempo, porteremo tutto il materiale pesante a poppa.» «Pensi davvero che, spostando qualche centinaio di chili, riuscirai a sollevare la prua tanto da farla disincagliare?» chiese Renée dubbiosa. Pitt stava già portando un rotolo di cima verso la battagliola di poppa. «Aggiungi circa trecento chili di persone e... chissà? Potremmo essere fortunati.» Sebbene i quattro uomini e la donna lavorassero come se ne andasse del-
la loro vita, ci volle quasi tutta l'ora successiva per ammassare il più vicino possibile alla poppa bagagli, provviste, attrezzatura minore e arredi. Le reti e le gabbie usate per il camuffamento vennero gettate fuori bordo, insieme con l'ancora di prua. Pitt guardò le lancette del suo orologio Doxa. «L'alta marea sarà qui fra tredici minuti. Sarà il momento della verità.» «Quel momento è già qui», disse Giordino. «C'è una barca che si avvicina da nord. E sta arrivando in fretta.» Pitt inforcò il binocolo e guardò nella direzione indicata. «Sembra uno yacht.» Gunn si riparò gli occhi dal sole che brillava a est e cercò di scrutare oltre la marea nera. «Lo stesso che ci ha attaccato la scorsa notte?» «Non sono riuscito a vederlo bene al buio, con gli infrarossi. Ma credo di non sbagliarmi se dico che si tratta dello stesso. I nostri amici ci hanno raggiunto.» «Quale momento migliore, per fargliela vedere al nemico», disse Giordino. Pitt fece spostare i compagni nel punto più estremo della poppa. Giordino si mise al timone, voltato indietro in attesa che Pitt gli desse il segnale. Quando tutti furono saldamente aggrappati, spinse le leve del gas fin dove poteva e i due motori diesel rombarono esprimendo la loro potenza. La barca slittò e sbandò con la poppa, ma non si mosse. Lo spessore rendeva la melma simile a una colla che teneva intrappolata la prua della Poco Bonito. Anche se equipaggio e quasi una tonnellata di materiale vario si trovavano a poppa, la parte anteriore della nave si era alzata di solo cinque centimetri. Non abbastanza per liberarsi. Pitt sperò che un'onda potesse sollevarla, ma l'onda non venne. La spessa sostanza rendeva il mare piatto come un foglio di giornale. I motori erano al massimo dello sforzo e le eliche scavavano nel fango, ma non successe nulla. Gli occhi dell'equipaggio erano puntati sullo yacht che si avvicinava a gran velocità. Nel vederlo alla luce del sole, Pitt si rese conto che era un'imbarcazione da quarantacinque metri, per la quale il bianco abituale era stato sostituito dal color lavanda che aveva già visto sul pick-up di Odyssey. Capolavoro d'ingegneria navale, era la quintessenza del lusso marino. Aveva a bordo una lancia di sei metri e un elicottero sei posti. Era abbastanza vicino perché si riuscisse a leggerne il nome: EPONA. Sotto la scritta, lungo la murata del secondo ponte, c'era il logo di O-
dyssey, il cavallo stilizzato in piena corsa, riprodotto anche sulla bandiera color lavanda che sventolava dall'antenna delle comunicazioni. Pitt vide due uomini dell'equipaggio che si apprestavano a mettere in acqua la lancia, mentre molti altri prendevano posizione sul grande ponte di prua, con le armi in pugno. Nessuno badava a coprirsi. Contavano sul fatto che un peschereccio non avrebbe avuto modo di rispondere al fuoco. Il sangue di Pitt si gelò per un istante nelle vene, quando scorse due uomini impegnati a caricare un lanciamissili. «Ci arriva addosso», mormorò Dodge, visibilmente preoccupato. «Non assomigliano ai pirati che conosco», urlò Giordino da dentro la plancia, per contrastare il rumore dei motori. «In genere non si spostano su lussuosi yacht. Dieci a uno che l'hanno rubato.» «Non è rubato», precisò Pitt. «Appartiene a Odyssey.» «C'è qualcosa che mi sfugge. Questi sono ovunque?» Pitt si girò e gridò: «Renée!» Era seduta con le spalle contro la battagliola. «Che cosa c'è?» «Vai in cambusa e vuota tutte le bottiglie che trovi. Poi riempile con il carburante del serbatoio del generatore.» «Perché non quello dei motori?» chiese Dodge. «Perché la benzina prende fuoco più facilmente del gasolio», spiegò Pitt. «Quando sono piene, inserisci un pezzo di stoffa nel collo e avvolgilo in cima.» «Bombe molotov?» «Esatto.» Non appena Renée scomparve sottocoperta, l'Epona iniziò a compiere un ampio arco per raggiungerli. Sarebbe arrivato diritto, e quindi più in fretta. Vedendolo da quella nuova prospettiva, Pitt si accorse che aveva i due scafi di un catamarano. «Se non ci liberiamo da questa schifezza, avremo una serie di seccanti complicazioni», disse irritato. «Seccanti complicazioni?» gli fece eco Giordino. «È tutto quello che sai dire?» E, lasciando tutti di stucco, uscì senza preavviso dalla tuga, salì in pochi attimi la scaletta che portava al tetto, assunse la posa di un tuffatore olimpionico e saltò sul ponte di poppa, fra Pitt e Gunn. Chiamatela fortuna, lungimiranza o combinazione, ma il peso di Giordino unito alla potenza con cui colpì il ponte fu ciò che ci voleva per liberare la barca. Slittando, centimetro dopo centimetro, sgusciò lentamente fuori del fango che ormai aveva ceduto. Quando la prua fu del tutto libera, la
Poco Bonito compì un balzo indietro, come sospinta da un'enorme molla. Sul viso di Pitt fece capolino un'espressione soddisfatta. «Non ti dirò più di metterti a dieta.» Giordino sorrise divertito. «Non lo farò.» «Ora, signori, facciamo la prova generale della nostra fuga», disse Pitt. «Rudi, prendi il timone e stai più basso che puoi. Renée, tu e Patrick rimanete al riparo di tutta questa roba che abbiamo ammassato a poppa. Al e io ci nasconderemo sotto le poche reti che sono rimaste a bordo.» Non aveva ancora finito di parlare, che uno degli uomini dell'equipaggio dello yacht sparò un razzo di avvertimento. Il proiettile entrò dalla porta di sinistra della plancia e uscì dal finestrino di dritta, esplodendo in mare cinquanta metri oltre il traverso. «Buon per me che non ero ancora lì», commentò Gunn, cercando di comportarsi come se fosse a spasso in un parco. «Hai capito che cosa intendo quando ti dico di stare basso?» Gunn si precipitò nella plancia e si mise al timone, allontanando la nave dalla massa che cresceva sotto l'acqua. Ma, prima che potesse dare la massima potenza, un altro missile si piantò a metà scafo e colpì il motore di dritta. Miracolosamente non esplose, ma il gasolio che usciva dal motore in avaria prese fuoco. Con incredibile prontezza di riflessi, Gunn chiuse i contatti, per non alimentare ancor più le fiamme. Dodge prese l'iniziativa. Scese di corsa in sala macchine e afferrò un estintore, tolse la sicurezza e spense le fiamme, finché non rimase che un ricciolo di fumo nero che usciva dal boccaporto. «Imbarchiamo acqua?» chiese Pitt, urlando da sotto la rete. «C'è una confusione infernale qui sotto, ma la sentina è asciutta!» rispose Dodge, sempre a voce alta, fra un colpo di tosse e un altro. Quelli a bordo dello yacht videro il fumo nero che usciva dall'interno e pensarono che il peschereccio fosse definitivamente perduto. Credendo che l'equipaggio fosse perito o ferito in modo grave, e comunque non in grado di reagire, il comandante ordinò di invertire i motori, diminuire la velocità e dirigersi verso la prua della Poco Bonito. «Abbiamo ancora potenza, Rudi?» «Il motore di dritta è andato, ma l'altro funziona.» «Quindi, hanno commesso un grosso errore», disse Pitt con un ghigno di soddisfazione. «E quale?» chiese Gunn. «Ti ricordi la nave pirata?»
«Come posso dimenticarla?!» Gunn portò la leva del gas del motore ancora attivo in posizione di folle, in modo che la piccola nave oceanografica rimanesse immobile nell'acqua. La tattica funzionò. Certo che le loro vittime stessero per affondare, il comandante dello yacht cadde nella trappola e si avvicinò. Trascorsero alcuni interminabili secondi, finché lo yacht non fu quasi davanti alla prua della Poco Bonito, a un tiro di schioppo. Non vedendo movimenti a bordo, se non il fumo che continuava a uscire dallo scafo, non venne aperto il fuoco con i fucili su quella che sembrava una nave morente. A quel punto, un uomo barbuto si sporse dal finestrino della plancia con un altoparlante in mano e, con un forte accento del Sud degli Stati Uniti, disse: «Per tutti quelli che possono sentirmi. Se non abbandonate la nave, verrà fatta esplodere. Non cercate di usare apparecchi radio. Ripeto, non aprite le comunicazioni. Abbiamo dispositivi in grado d'intercettare le vostre trasmissioni. Avete esattamente sessanta secondi per uscire. Vi prometto un passaggio sicuro verso il porto più vicino». «Dobbiamo rispondere?» chiese Gunn. «Forse dobbiamo fare come dice», mormorò Dodge. «Voglio rivedere i miei figli e i miei nipoti.» «Se ti fidi di un pirata», replicò Pitt con tono asciutto, «allora avrei una miniera d'oro a Newark, nel New Jersey, per la quale ti farei un buon prezzo.» Senza apparentemente badare allo yacht, Pitt si alzò sino a farsi vedere, superò la massa ammucchiata a poppa e si avvicinò all'asta da cui sventolava la bandiera nicaraguense. Prese il pacchettino che aveva tenuto fino a quel momento nella camicia e, dopo qualche secondo, un nuovo emblema di seta di un metro e mezzo per uno veniva issato. «Adesso sanno da dove veniamo», disse Pitt, mentre tutti s'inchinavano davanti alla bandiera a stelle e strisce che sfidava il vento. Renée tornò sul ponte, portando due barattoli di vetro e tre bottiglie, di cui una da vino, pieni di benzina. Guardandosi intorno, capì subito che cosa stava per succedere. «Non vorrete davvero speronarla?» urlò. «Dammi tu il via», urlò Gunn, con la voce trepidante, ma il volto impassibile di un giocatore di poker che stesse bluffando. «No!» pregò Renée. «Questo non è un ologramma. È un oggetto solido. Se lo colpite ci schianteremo.» «Conto proprio su questo», replicò Pitt. «Tu e Patrick accendete le micce e preparatevi a lanciare le molotov non appena avviene la collisione.»
Non ci furono ulteriori esitazioni. Lo yacht avanzava lentamente davanti alla prua della Poco Bonito, a meno di trenta metri. Giordino lanciò a Pitt uno degli M4, poi imbracciò il suo ed entrambi aprirono il fuoco sullo yacht. Al sparò una raffica di proiettili NATO da 5.56 millimetri nella plancia, mentre Pitt mirava a bersagli precisi, colpendoli a uno a uno: due colpi per il marinaio addetto al lanciamissili, un altro per quello che stava raccogliendo un'arma... Sorpreso dall'inaspettata reazione della Poco Bonito, l'equipaggio dello yacht, invece di rispondere al fuoco, si affrettò a cercare riparo. Giordino non sapeva di aver ficcato un proiettile nella spalla del comandante, che si era accasciato scomparendo alla vista dei suoi uomini. Anche il timoniere era stato colpito dalla raffica e lo yacht aveva iniziato a virare incontrollato. Con un solo motore ancora funzionante, la Poco Bonito avanzava a metà della sua velocità massima, ma riusciva ancora a fendere con coraggio l'acqua con la potenza sufficiente per portare a termine il lavoro. Non ci fu bisogno di raccomandare agli altri di appoggiarsi alla paratia della tuga e proteggersi il capo con le braccia. Renée e Dodge guardavano con apprensione i giubbotti di salvataggio che Gunn aveva consegnato loro, mentre lui rimaneva ritto al suo posto, con le mani che stringevano il timone sino a far diventare bianche le nocche. L'unica elica in funzione vorticava nell'acqua, spingendo la nave dritta contro il grande e lussuoso yacht. I marinai di quest'ultimo erano attoniti, increduli e ammutoliti. Non riuscivano a capacitarsi che quell'innocuo peschereccio non solo non avesse gettato la spugna ma li stesse attaccando con l'intenzione di speronarli. Un lupo in veste d'agnello, una completa sorpresa, nessuno aveva osato resistere fino a quel momento. Infine, il colpo fatale l'aveva dato la bandiera degli Stati Uniti. Pitt e Giordino sparavano senza sosta, spazzando il ponte e cercando di eliminare quanti più uomini potevano prima dell'impatto. A mano a mano che si avvicinavano alla murata, circa all'altezza della plancia, l'Epona appariva sempre più grande. Sul ponte non c'era più nessuno. Come conigli impauriti, i marinai si erano nascosti sottocoperta, per non rischiare di essere colpiti dal fuoco di fila. La Poco Bonito ricordava un essere infernale, con esalazioni e fumo che uscivano dai boccaporti della sala macchine e formavano una scia che si piegava di 90 gradi sulla poppa della nave, trascinata dal vento marino. Quando era comandante in seconda su un'unità di stanza nel Mediterraneo durante un'operazione contro le forze di Saddam Hussein, Gunn aveva di-
retto lo speronamento di un sottomarino iracheno. Ma, in quel caso, tutto ciò che si vedeva era la parte terminale del periscopio. Adesso, invece, davanti a lui c'era un imponente yacht dall'aspetto assai solido. Dieci secondi all'impatto. 23 Pitt e Giordino deposero le armi e trovarono un punto cui aggrapparsi in attesa della collisione. Dalla sua posizione rannicchiata su un lato della tuga, Renée poteva cogliere l'espressione salda dei due uomini, che non rivelava paura né preoccupazione. Sembravano indifferenti come una coppia di anatre sotto la pioggia battente. In plancia, Gunn ripassava la sequenza delle sue mosse. Stava puntando la prua contro la sala macchine dello yacht, proprio dietro il salone da pranzo. Dopo l'impatto, avrebbe dovuto invertire la rotta, pregare di riuscire a estrarre la Poco Bonito dallo squarcio prodotto dall'impatto e sperare di riuscire a tenerla a galla, mentre i loro avversari colavano a picco. Il lucido scafo dell'Epona era vicinissimo e Gunn pensò che, se avesse teso il braccio fuori del finestrino in frantumi, avrebbe potuto toccare il cavallo stilizzato. Il sole fu oscurato dalla massa imponente dello yacht. Poi venne il momento del cataclisma e, come in una sequenza al rallentatore, il fragore sordo dell'urto echeggiò nell'aria per un tempo che a tutti parve interminabile. La Poco Bonito penetrò nel suo ben più grande antagonista, aprendo uno squarcio a forma di V, distruggendo la murata della sala macchine nello scafo di dritta del catamarano e travolgendo chiunque fosse all'interno. Accese le micce, Renée e Dodge si alzarono e lanciarono le molotov. Una delle bottiglie incendiarie atterrò sul ponte di tek senza infrangersi, ma un'altra esplose inondando di una cascata di fuoco un lato dello yacht. Senza indugiare, scagliarono anche i barattoli, poi la bottiglia, scatenando un inferno di fuoco sull'imbarcazione nemica. Il lussuoso vascello si era ormai trasformato in un inferno. Gunn invertì la marcia del motore prima che la spinta si esaurisse. Per diversi istanti di trepidazione, la nave rimase incagliata nell'altra con almeno diciotto metri di prua, stretta in una morsa da cui l'elica, che girava vorticosamente nell'acqua, non riusciva a liberarla. Dieci secondi, quindici, poi venti. E infine, con uno stridore lacerante, iniziò a retrocedere. Mentre la prua usciva dallo squarcio, la melma invadeva le viscere dello yacht
come un fiume in piena e lo scafo s'inclinava in maniera irreparabile. Due marinai dell'Epona, protetti sull'altro lato dello scafo, riuscirono a riaprire il fuoco con le armi automatiche contro la Poco Bonito. La mira era molto approssimativa, perché la visuale era impedita dallo scafo di dritta inclinato. Molti proiettili finirono in acqua e solo alcuni perforarono lo scafo della nave oceanografica aprendo piccoli fori da cui poteva entrare l'acqua. Pitt e Giordino spararono a caso tra il fumo sinché ogni tipo di resistenza non si esaurì. Il grande yacht era avvolto dalle fiamme; urla e gemiti si sovrapponevano alle deflagrazioni. Alimentato da una leggera brezza, il fuoco s'insinuò nello squarcio di dritta. Il catamarano era ormai talmente inclinato che lo scafo di sinistra, ancora integro, si era sollevato dall'acqua. Tutto l'equipaggio della Poco Bonito era in coperta, per assistere alla fine dello yacht. I sopravvissuti dell'Epona si affollavano intorno all'elicottero, dove il pilota aveva già acceso i motori e fatto girare il rotore. Tenendo il velivolo diritto, si alzò in volo abbandonando il vascello morente e puntò verso terra. I feriti erano condannati a morire tra le fiamme o per annegamento. «Passagli accanto», ordinò Pitt a Gunn. «Quanto vicino?» chiese l'altro con viva preoccupazione. «Abbastanza vicino perché possa saltare a bordo.» Sapendo che era inutile discutere con Pitt, Gunn si strinse nelle spalle e iniziò a riportare la nave oceanografica verso lo yacht ormai in preda alle fiamme dalla prua fino a metà scafo. Mantenne la marcia indietro muovendosi verso poppa, in modo da alleggerire la pressione dell'acqua che entrava nella prua squarciata. Nel frattempo, Giordino lavorava febbrilmente nell'intricata confusione della sala macchine, riparando quanto necessario per tenere a galla e in pressione la nave. Renée ripuliva invece il ponte di ogni cosa inutile, gettandola fuori bordo. Tutto coperto di fuliggine, Dodge scese sottocoperta nella sezione di prua con una pompa portatile e iniziò a ributtare l'acqua che entrava dallo squarcio verso l'esterno. Gunn portò lentamente la Poco Bonito a fianco dell'Epona e, quando i due battelli furono quasi a contatto, Pitt salì sulla battagliola e saltò sull'altra nave, atterrando sul ponte dietro il salone da pranzo. Per fortuna, la brezza spingeva il fuoco verso la prua e quella parte dello scafo non aveva ancora subito danni. Dirk doveva muoversi in fretta, se voleva trovare ancora qualcuno vivo prima che l'Epona affondasse. Il crepitare delle fiamme
ricordava il rumore di una locomotiva in corsa. Pitt si precipitò nel salone da pranzo e lo trovò vuoto. Un rapido controllo delle cabine padronali non rivelò la presenza di marinai o ufficiali. Provò a salire le scale foderate di moquette fino alla plancia, ma una parete di fuoco lo costrinse a tornare sui suoi passi. Il fumo s'infiltrava nei polmoni e nel naso, gli occhi erano pieni di lacrime e bruciavano come se volessero scoppiare nelle orbite. Aveva capelli e sopracciglia ustionati e stava per rinunciare, quando inciampò in un corpo steso nel corridoio. Si abbassò e, con stupore, si accorse che si trattava di una donna che indossava solo un minuscolo bikini. Se la caricò in spalla e tornò traballando sul ponte di poppa, tossendo e asciugandosi le lacrime con un braccio. Gunn comprese subito la situazione e cercò di avvicinarsi ancora di più, finché gli scafi non si urtarono. Poi corse sul ponte e afferrò il corpo privo di sensi della donna che Pitt gli passava oltre la battagliola, prima di risaltare a bordo a sua volta. Il calore emanato dalle fiamme stava fondendo la vernice sul fianco della nave da ricerca e Gunn doveva affrettarsi. Depose delicatamente la donna sul ponte, notando che aveva capelli rossi lunghi e lisci, e corse al timone per allontanare la Poco Bonito dal fuoco. Pitt, che ancora aveva la vista annebbiata dal fumo, riuscì a sentire il polso della vittima che, per fortuna, batteva ancora. Anche il respiro sembrava regolare. Spostò i capelli dalla fronte e scoprì un bernoccolo delle dimensioni di un uovo. Doveva aver picchiato la testa e perso i sensi durante la collisione. Il suo corpo era abbronzato, le gambe erano lunghe e sinuose e il viso piacevolmente modellato, con una carnagione perfetta e labbra piene. Il naso era in armonia con il resto del volto. Degli occhi, ancora chiusi, non poté dire nulla, ma per quel che si vedeva era una donna davvero attraente, con il fisico di una ballerina. Renée gettò oltre la battagliola un'ultima scatola di galleggianti per reti e si precipitò a guardare la donna. «Aiutami a portarla di sotto. Me ne occupo io», propose. Ancora semiaccecato, Pitt trasportò la donna giù dalle scale fino alla sua cabina e la depose sulla branda. «Ha preso un brutto colpo in fronte, ma credo non ci siano danni gravi. Devi darle un po' d'aria delle bombole di immersione, per aiutarla a liberare i polmoni dal fumo.» Pitt tornò in coperta appena in tempo per assistere alla fine dello yacht. Stava scivolando sotto la superficie e lo scafo, un tempo color lavanda, era completamente annerito dal fumo e lordo di melma. Una fine triste e ingloriosa per una magnifica imbarcazione. Pitt si rammaricò per un istan-
te di essere stato la causa di un simile destino, poi la logica prevalse: meglio lo yacht che la Poco Bonito con tutto il suo equipaggio. Al rimpianto seguì un senso di piena soddisfazione per il fatto di essere ancora tutti vivi e incolumi. Lo scafo di dritta del catamarano era ormai completamente sotto la superficie melmosa. Quello di sinistra rimase per un poco a galla e poi seguì il suo compagno, lasciandosi alle spalle solo un vortice di vapore e fumo. Le lucide eliche brillarono un'ultima volta al sole prima di sprofondare nel fango. A parte il sibilo delle fiamme che si estinguevano a contatto con l'acqua, non vi fu altro rumore. Lo yacht se ne andò in silenzio, senza protestare, come se volesse nascondere i segni della devastazione. L'ultima a scomparire nell'indifferente mare malato fu la bandiera con il cavallo dorato. A quel punto, il carburante si sparse sulla superficie della melma e la dipinse di una lucida patina scura che il riflesso del sole accendeva di striature arcobaleno. La piatta distesa era interrotta da bolle che salivano e scoppiavano e da rottami contorti, destinati a essere trascinati in qualche spiaggia lontana dalle correnti. Pitt distolse lo sguardo da quello spettacolo e si diresse in plancia. Lì il pavimento era coperto di frammenti di vetro dei finestrini. «Come vanno le cose, Rudi? Riusciamo ad arrivare a riva o dobbiamo calare le scialuppe?» «Dovremmo farcela se Al riesce a tenere acceso il motore, il che è probabile, e Patrick a rallentare l'entrata dell'acqua, cosa invece più improbabile. Le pompe non riescono a smaltire il deflusso.» «Entra anche acqua dai fori dei proiettili che sono penetrati sotto la superficie.» «C'è un grande telo di incerata giù nel magazzino. Se riuscissimo a metterlo sulla prua, potremmo rallentare l'acqua in modo che le pompe riescano a smaltirla.» Pitt notò che la parte anteriore dello scafo era sotto di almeno sessanta centimetri. «Ci provo.» «Non metterci troppo», disse Gunn, prudentemente. «Devo procedere a marcia indietro per rallentare l'inondazione.» Pitt si sporse sulla botola della sala macchine. «Al, come ti va la festa?» Giordino gli rivolse un'occhiata. Era immerso fino al ginocchio nell'acqua melmosa e i vestiti, le mani, le braccia e il viso erano coperti di carburante. «Riesco a malapena a rimanere a galla e, credimi, non è proprio una bella festa.»
«Puoi darmi una mano qui sopra?» «Concedimi cinque minuti per sturare la pompa di sentina. La melma la blocca se non pulisco i filtri ogni dieci minuti.» Pitt scese sul ponte delle cabine e si diresse verso il magazzino, nel quale trovò l'incerata ripiegata. Era pesante e ingombrante, ma riuscì a trascinarla fino alla scaletta e poi su fino al ponte di prua. Giordino lo raggiunse: sembrava caduto in una pozza di catrame. Insieme riuscirono ad aprire il telo e a fissare quattro funi di nylon negli angoli. A due di quelli appesero come zavorra dei frammenti del motore distrutto dal missile. Quando furono pronti, Pitt fece segno a Gunn di ridurre la velocità. Sempre lavorando congiuntamente, i due amici gettarono il telo, oltre la prua danneggiata, nell'acqua, trattenendo i quattro capi delle funi. Aspettarono che la parte zavorrata affondasse pian piano nella melma, poi Pitt chiamò Gunn. «Okay, avanti adagio!» Pitt e Al si misero ai due lati della prua e tirarono le funi della sezione zavorrata finché questa non si dispose sotto la chiglia aperta. Dopo averle legate, tirarono le altre due e il telo si distese sullo squarcio, riducendo notevolmente il flusso dell'acqua. Dopo aver legato anche le seconde funi, Pitt aprì il boccaporto del ponte e diede un'occhiata a Dodge. «Come ti sembra, Patrick?» «Una vera magia», rispose Dodge, stanco ma soddisfatto. «Avete ridotto l'afflusso almeno dell'80 per cento. La pompa dovrebbe farcela, adesso.» «Devo tornare in sala macchine», annunciò Giordino. «Non è un bello spettacolo, laggiù.» «Neanche tu lo sei», ribatté Pitt, sorridendo, mentre passava un braccio sulle spalle dell'amico. «Fammi sapere se hai bisogno di una mano.» «Cerca solo di mantenere la rotta. Mi occorreranno ancora un paio d'ore per riprendere il controllo della situazione.» Pitt raggiunse la plancia. «Possiamo procedere a marcia in avanti, Rudi. Il nostro rattoppo sembra funzionare.» «Per nostra fortuna il sistema computerizzato di navigazione non è stato danneggiato. Ho programmato una rotta verso Barra Colorado, in Costa Bica. C'è un mio vecchio compagno di marina che si è trasferito laggiù e vive nei pressi di un complesso per la pesca sportiva denominato Río Colorado Lodge. Possiamo attraccare al suo molo ed eseguire le riparazioni necessarie per permetterci di attraversare il mare fino ai cantieri navali della NUMA, a Fort Lauderdale.»
«Ottima decisione.» Pitt indicò la grande e misteriosa nave portacontainer al di là del golfo. «Potremmo avere grossi guai se ci avviciniamo ancora. Meglio salvarsi che scusarsi.» «Sono d'accordo. Se le autorità nicaraguensi scoprissero che abbiamo affondato un loro yacht a due passi dal porto, ci arresterebbero all'istante.» Premette un pezzo di stoffa su una ferita alla guancia da cui gocciolava il sangue. «Che mi dici della donna che hai salvato?» «Non appena riprende conoscenza, scoprirò chi è.» «Vuoi contattare l'ammiraglio e fargli un rapporto sull'accaduto, o devo farlo io?» «Me ne occupo io.» Pitt andò in cambusa e si sedette a un computer che veniva usato soprattutto per giocare, spedire e-mail a casa e fare qualche ricerca in Internet via satellite. Digitò il nome dello yacht, Epona, e aspettò. Nel giro di un minuto apparvero l'immagine di un cavallo e una breve descrizione. Pitt le memorizzò, spense il computer e uscì. Nel corridoio delle cabine, incontrò Renée. «Come va?» «Se fosse per me, avrei già gettato quell'arrogante scema fuori bordo.» «Va così male?» «Peggio. Mi ha fatto diventare matta dal momento stesso in cui ha riaperto gli occhi. Pretende di parlare solo spagnolo.» Renée sorrise con complicità. «Sta fingendo.» «Come puoi dirlo?» «Mia madre era una Ybarra. Parlo meglio io lo spagnolo di quella là.» «Non risponderà se le parlo in inglese?» chiese Pitt. Renée scosse la testa. «Come ti dicevo, sta recitando. Vuole farci credere che è una povera ragazza messicana che lavorava in cambusa. Ma il trucco e il bikini firmato la tradiscono. Questa tizia ha classe, non è una semplice cameriera.» Pitt estrasse la Colt 45 dal fodero sulla cintura. «Allora adesso giochiamo a 'Facciamo un affare'.» Entrò nella cabina dove c'era la misteriosa ospite, le si avvicinò e le appoggiò la canna della pistola sotto il naso. «Mi dispiace doverti uccidere, carina, ma non possiamo lasciare testimoni. Mi capisci, vero?» La donna spalancò gli occhi color ambra e guardò la semiautomatica. Al contatto con la fredda canna e alla vista degli imperscrutabili occhi verdi di Pitt le sue labbra iniziarono a tremare. «No, no, vi prego!» singhiozzò in inglese. «Non uccidetemi. Ho del denaro. Lasciatemi vivere e vi farò diventare ricchi.»
Pitt guardò Renée che lo osservava a bocca aperta, non del tutto sicura che non avrebbe sparato. «Vuoi diventare ricca, Renée?» Renée raccolse l'invito al gioco ed entrò in scena. «Abbiamo già una tonnellata d'oro sulla barca.» «Senza parlare dei rubini, degli smeraldi e dei diamanti», rincalzò Pitt. «Ma, siccome siamo buoni, aspetteremo un paio di giorni prima di buttarti agli squali. Questo a patto che ci dica tutto della finta nave pirata e del perché i veri pirati ci hanno dato la caccia per metà della notte intenzionati a ucciderci e affondarci.» «Sì, sì, per favore!» ansimò la donna. «Vi dirò tutto quello che so!» Pitt notò un lampo ambiguo nei suoi occhi, e comprese che era meglio non fidarsi. «Siamo tutt'orecchi.» «Lo yacht apparteneva a me e mio marito», iniziò. «Eravamo partiti da Savannah per raggiungere San Diego, attraverso il canale di Panama, ma durante la navigazione siamo stati avvicinati da quello che sembrava un innocuo peschereccio. Il comandante ci ha chiesto dei medicinali per curare un marinaio ferito. Era una trappola e, purtroppo, mio marito David ci è caduto. Prima che potessimo reagire, i pirati erano già a bordo.» «Prima che continui», disse Pitt, «il mio nome è Dirk Pitt e questa è Renée Ford.» «Scusatemi, non vi ho neanche ringraziato di avermi salvato. Mi chiamo Rita Anderson.» «Che ne è stato di suo marito e dell'equipaggio?» «Sono stati uccisi e i loro corpi gettati in mare. Io sono stata risparmiata solo perché intendevano usarmi come esca per attirare altre vittime.» «In che senso?» chiese Renée. «Pensavano che la vista di una donna in bikini sul ponte avrebbe indotto i proprietari delle loro prede ad avvicinarsi cadendo in trappola.» «Ed è questo l'unico motivo per cui l'hanno tenuta in vita?» chiese Pitt dubbioso. La donna annuì in silenzio. «Ha una qualsiasi idea di chi fossero e da dove venissero?» «Erano delinquenti locali, pirati. Ci avevano avvisato che era pericoloso attraversare questa zona, ma il mare lungo la costa sembrava tranquillo.» «Strano che dei pirati locali sapessero pilotare un elicottero», mormorò Renée, a voce bassissima. «Quante navi hanno catturato e distrutto utilizzando il suo yacht?» la incalzò Pitt.
«Tre, per quel che ne so. Uccidevano gli equipaggi, saccheggiavano le barche e poi le colavano a picco.» «Dove si trovava quando vi siamo venuti addosso?» chiese Renée. «Quindi è questo che è successo?» disse Rita, senza rispondere. «Ero chiusa a chiave in cabina. Ho sentito esplosioni e colpi di arma da fuoco, poi un gran botto e la barca che beccheggiava, infine il fuoco. L'ultima cosa che ricordo prima di aver perso i sensi è stata la paratia della cabina che mi cadeva addosso. Quando mi sono svegliata, ero qui.» «Si ricorda altro dei momenti precedenti la collisione e il fuoco?» Rita scosse lentamente la testa avanti e indietro. «Niente. Mi tenevano prigioniera in cabina e mi portavano sul ponte solo quando dovevo fare da esca.» «Perché usavano l'ologramma del vascello pirata?» chiese Renée. «Sembra più un espediente per tenere le navi lontano che un'azione di pirateria.» Rita la guardò con aria interrogativa. «Ologramma? Non sono neanche sicura di sapere di che cosa si tratta.» Pitt sorrise. C'erano ottime ragioni per ritenere che Rita si stesse inventando tutto. Renée aveva ragione. Il trucco della donna non era certo quello di una che aveva visto uccidere il marito ed era stata maltrattata da una banda di pirati. Il rossetto color pesca e il lucidalabbra erano stati applicati con troppa cura; la matita marrone scuro sulla palpebra, il mascara che sottolineava le ciglia... tutto parlava di una vita nel lusso. Decise di puntare dritto al cuore, per vederne la reazione. «Quali sono i suoi rapporti con Odyssey?» disse improvvisamente. La donna parve non comprendere subito la situazione. Poi si fece strada dentro di lei il sospetto di non avere a che fare con semplici pescatori. «Non so di che cosa stia parlando», tergiversò. «Suo marito non era un dipendente della Odyssey Corporation?» «Perché me lo chiede?» ribatté lei, prendendo tempo prima di rispondere. «Sullo yacht c'era il cavallo del logo di quella società.» Le sopracciglia delineate alla perfezione della donna si corrugarono quasi impercettibilmente. Era abile, pensò Pitt, molto abile. Non si turbava con facilità. Iniziò a rendersi conto che Rita non era la moglie viziata di un uomo ricco. Probabilmente rivestiva una posizione di comando. Trovò divertente osservarla mentre cercava di cambiare le carte in tavola, passando all'offensiva.
«Ma voi chi siete?» chiese all'improvviso. «Non siete semplici pescatori.» «No», rispose Pitt con deliberata lentezza. «Siamo della National Underwater and Marine Agency del governo degli Stati Uniti, impegnati in una spedizione di ricerca scientifica per scoprire dove ha origine la melma che infesta le acque di questa zona.» Fu come se l'avesse schiaffeggiata. La donna perse il suo sangue freddo e, prima di recuperarlo, esclamò: «Non è possibile. Voi...» Si trattenne, ricacciando in gola la voce. «Dovevamo essere morti nel canale di Bluefields.» Pitt finì la frase per lei. «Lei lo sapeva?» disse Renée sconcertata, muovendosi verso il letto con l'intenzione di strangolare Rita. «Certo che lo sapeva», rispose Pitt, trattenendo delicatamente Renée per un braccio. «Ma perché?» chiese Renée. «Che cosa abbiamo fatto per meritare una simile morte?» Era evidente che Rita non avrebbe più aperto bocca. L'espressione sul suo volto era passata dalla sorpresa alla rabbia mista a odio. Renée provò l'impulso di sferrare un pugno su quelle belle labbra, ma si trattenne e chiese: «Che cosa ne facciamo di lei?» «Niente», rispose Pitt alzando le spalle. Sapeva di non poter più sfruttare Rita; non avrebbe più risposto. «Tienila chiusa a chiave in cabina finché non arriviamo in Costa Rica. Dirò a Rudi di chiamare le autorità locali perché si trovino sul molo per quando arriviamo. Ci penseranno loro a prenderla in custodia.» La stanchezza s'impadronì di Pitt. Era esausto, come tutti gli altri. Aveva solo un'ultima cosa da fare prima di potersi concedere un pisolino. Si guardò intorno in cerca della sdraio, ma si ricordò che Renée l'aveva gettata in mare. Si distese allora sul ponte, ormai libero dalla finta attrezzatura da pesca, si appoggiò a una paratia e digitò un numero sul telefono satellitare Globalstar. Sandecker rispose con voce furente. «Perché non vi ho più sentito fino a oggi?» «Abbiamo avuto da fare», mormorò Pitt. Poi impiegò venti minuti per aggiornare l'ammiraglio. Sandecker ascoltò pazientemente, senza interrompere, fino al racconto dell'interrogatorio di Rita Anderson.
«Che cosa può entrarci lo Spettro in tutto questo?» chiese la voce perplessa dell'ammiraglio. «Quello che posso dire al momento è che ha un segreto da custodire e che uccide chiunque capiti nel suo territorio.» «So che hanno contratti di costruzioni con la Repubblica popolare cinese in Nicaragua e a Panama.» «Loren me ne ha parlato l'altra sera a cena.» «Ordino subito un'indagine sulle attività di Odyssey», disse Sandecker. «Dovrebbe anche cercare qualcosa su Rita e David Anderson e uno yacht chiamato Epona.» «Metto subito Yaeger al lavoro.» «Sarà interessante scoprire quali sono i legami di questa donna con l'intera vicenda.» «Avete scoperto l'origine della melma?» «Siamo arrivati nel punto in cui sorge dal fondo del mare.» «Quindi sembra un fenomeno naturale?» «Patrick Dodge non ne è convinto», rispose Pitt, soffocando uno sbadiglio. «Sostiene che le sostanze minerali che compongono la melma non potrebbero mai sollevarsi dal fondo in quel modo da sole; è come se fossero sparate da un cannone, o da un qualche altro congegno artificiale. Qui sta succedendo qualcosa d'inquietante; sembra di essere in un episodio di Ai confini della realtà.» «Quindi siamo al buio», disse Sandecker. «Non proprio», replicò Pitt con calma. «Devo svolgere ancora una piccola indagine per mio conto.» «Vi ho inviato un jet della NUMA all'aeroporto più vicino al Río Colorado Lodge, con un equipaggio in grado di riparare la Poco Bonito e di riportarla a nord. Gunn, Dodge e la Ford ritornano a Washington, mi piacerebbe che ci foste anche lei e Al.» «Il lavoro non è finito.» Sandecker non rispose. Sapeva da tempo che le variazioni di Pitt erano generalmente molto corrette. «Qual è il suo piano?» Pitt guardò oltre il mare, verso i monti coperti di foreste che si alzavano dietro le bianche spiagge sabbiose. «Penso che mi piacerebbe una crociera lungo il San Juan, fino al lago di Nicaragua.» «Che cosa spera di trovare sulla melma in un punto così lontano dal mare?» «Risposte», asserì Pitt, con la mente già in viaggio sul fiume. «Risposte
a questo gran casino.» PARTE TERZA DA ODYSSEY ALL'ODISSEA 24 23 agosto 2006 Banco de la Navidad Oltre a portare distruzione, l'uragano Lizzie compì anche una buona azione: spazzò la melma dal Banco de la Navidad. L'acqua tornò di una sfumatura verde-azzurra, con una visibilità fino a quasi sessanta metri. Una volta che il mare ebbe riacquistato la sua limpidezza fu di nuovo possibile vedere i pesci, che ritrovarono il loro habitat come se nulla fosse accaduto. Al posto della Sea Sprite, un'altra nave da ricerca era adesso sul posto per le indagini sulla struttura sommersa. Ideata e costruita come nave appoggio ai sommozzatori per esplorazioni in acque basse, la Sea Yesteryear difficilmente si allontanava molto dalla costa. Fra le missioni portate a compimento con successo annoverava la ricerca delle rovine sottomarine della biblioteca di Alessandria d'Egitto, della flotta cinese affondata dai kamikaze al largo del Giappone, dei primi mercantili svedesi e russi nel Baltico e di una serie di altri reperti legati ad avvenimenti storici studiati dal suo team di scienziati. Una piscina rotonda al centro dello scafo era perfettamente attrezzata per le operazioni d'immersione, il distacco e il recupero di veicoli autonomi e il prelevamento di oggetti dal fondo del mare. Tutta la parte inferiore della nave era occupata da uno spazioso laboratorio equipaggiato con i più aggiornati strumenti per l'analisi e la conservazione dei manufatti antichi recuperati. Un po' più corta rispetto alla lunghezza standard di quarantacinque metri adottata dalle altre navi oceanografiche, era però larga e spaziosa, con un traverso di tredici metri e mezzo. Due grandi motori diesel le permettevano di raggiungere una velocità di 20 nodi. A bordo aveva quattro uomini dell'equipaggio e dieci scienziati. Quelli che avevano servito sulla Sea Yesteryear erano orgogliosi di aver contribuito a riscrivere la storia del mare. E la missione del Banco de la Navidad prometteva di portare alla scoperta più importante di tutte.
In un primo momento, gli archeologi marini che esaminarono le stanze di pietra non furono certi che si trattasse dell'opera dell'uomo. Né c'era abbondanza di manufatti; tranne che per il catafalco in pietra e per il braciere, gli altri oggetti provenivano dalla cucina e non erano in gran numero. Ma, più le indagini proseguivano, sempre più venivano alla luce preziosi tesori archeologici. Una fondamentale informazione cui i geologi della spedizione riuscirono a risalire fu che la struttura un tempo era stata fuori dell'acqua, sopra una collinetta. Ciò venne accertato quando una porzione di trenta centimetri quadrati di parete della stanza del catafalco venne ripulita dalle incrostazioni; a quel punto fu chiaro che le stanze non erano state ricavate nella roccia, ma costruite in pietra e sistemate sul terreno quando il Banco de la Navidad era un'isola emersa. Dirk e la sorella facevano parte della spedizione. Quel giorno si trovavano nel laboratorio e stavano esaminando i manufatti riportati in superficie e sistemati con cura in vassoi con acqua di mare per prepararli al lungo processo di conservazione. Il giovane sollevò con molta attenzione una magnifica torque d'oro, la collana ad anelli ritrovata sul catafalco. «Tutti i reperti che abbiamo prelevato dal catafalco e dal braciere appartenevano a una donna.» «Sono molto più elaborati dei gioielli prodotti al giorno d'oggi», commentò Summer, mentre rimirava la catena d'oro illuminata dal sole che filtrava dagli oblò. «Finché non posso confrontarli con i dati archeologici degli archivi europei, devo classificarli come appartenenti alla media Età del Bronzo.» La voce che pronunciò quelle parole era tenue ma pungente, come un tiepido acquazzone estivo su un tetto in lamiera. Apparteneva al dottor Jeffrey Parks, un uomo dal fare circospetto, con lo sguardo basso e la fronte prognata. Campione di pallacanestro all'università, si era allontanato dallo sport in seguito a un brutto incidente al ginocchio e aveva intrapreso gli studi di archeologia marina. Era arrivato al dottorato con una tesi sulle antiche città sommerse. Era stato invitato a collaborare alla spedizione dall'ammiraglio Sandecker in persona, che l'aveva voluto per la sua competenza. Parks passò oltre il lungo tavolo sul quale erano appoggiati i vassoi con i manufatti e si fermò davanti a un grande pannello fissato sulla paratia che mostrava oltre cinquanta foto dell'interno dell'edificio sommerso. Dopo qualche secondo, con l'estremità di una matita indicò una sequenza di immagini del piano terra. «Non siamo di fronte a una città o a una fortezza.
Non esiste nessuna struttura che vada oltre le tre stanze da voi scoperte in origine. La si potrebbe definire una dimora, o un piccolo palazzo, poi trasformato in cappella funeraria per una donna di ceto elevato. Forse una regina, o una sacerdotessa, ricca quanto bastava da commissionare tutti quei gioielli.» «È un peccato che non sia rimasto niente di lei», osservò Summer. «Neanche una traccia dello scheletro, o qualche dente.» Parks fece una piccola smorfia. «Le ossa sono scomparse secoli fa, insieme con le vesti, poco dopo che la struttura fu sommersa.» Si spostò davanti a una grande foto scattata prima del prelevamento degli oggetti dal catafalco e indicò con la matita un primo piano della corazza in bronzo. «Doveva essere una guerriera che guidava gli uomini in battaglia. La corazza sembra essere stata forgiata in un solo pezzo e doveva essere indossata dall'alto, come un maglione.» Summer provò a immaginare se stessa con quell'armatura. Aveva letto che i celti avevano corporature grandi per la loro epoca, ma quell'armatura sembrava piccola persino per lei. «Come diavolo ha fatto a trovarsi qui?» «Non ho una risposta», disse Parks. «Se devo parlare da archeologo tradizionalista, che non crede al contatto fra le Americhe e le altre parti del mondo prima di Colombo, posso affermare soltanto che questa è un'elaborata mistificazione messa in atto dagli spagnoli dopo il 1500.» Summer aggrottò le sopracciglia. «Non può credere che sia andata così.» Parks sorrise. «In effetti, no. Non dopo quello che ho visto qui. Ma, finché non proviamo, senz'ombra di dubbio, come questi oggetti siano arrivati al Banco de la Navidad, la storia del mondo antico resterà con una grande questione in sospeso.» Summer insistette per dire la sua. «Secondo me è possibile che marinai dell'antichità abbiano attraversato l'oceano.» «Nessuno afferma che fosse impossibile. I popoli hanno attraversato l'Atlantico e il Pacifico con ogni mezzo, dalle barche in pelle di animale a quelle a vela da due metri. È del tutto concepibile che pescatori del Giappone o dell'Irlanda possano essere stati sospinti in America da qualche tempesta. Gli archeologi ammettono che ci sono alcuni singolari ritrovamenti che proverebbero l'influenza europea e asiatica sull'arte e sull'architettura dell'America centrale e meridionale. Ma non esiste ancora la prova contraria, cioè oggetti autentici di questa parte del mondo ritrovati di là dal mare.» «Nostro padre ha trovato le prove della presenza vichinga negli Stati U-
niti», insistette Summer. «E lui e Giordino hanno scoperto manufatti della biblioteca di Alessandria d'Egitto in Texas», aggiunse Dirk. Parks si strinse nelle spalle. «Il punto è sempre quello: nessun oggetto sicuramente proveniente dall'America è stato a tutt'oggi ritrovato negli scavi in Europa o in Africa.» «Ah», commentò Summer, decisa a non arrendersi, «che cosa mi dice allora delle tracce di nicotina e di cacao trovate sulle mummie egizie? Le piante del tabacco e del cacao crescevano solo in America, a quei tempi.» «Sapevo che le avresti tirate in ballo», disse Parks sospirando. «Gli egittologi si stanno ancora arrovellando per trovare una soluzione.» Summer assunse un'espressione pensierosa. «Le risposte potrebbero essere ancora nelle stanze?» «Forse», ammise Parks. «I nostri biologi marini stanno analizzando le incrostazioni delle pareti, mentre il fitochimico sta esaminando i resti della vita vegetale. Cercano di stabilire per quanto tempo l'edificio è rimasto sommerso.» Summer ormai seguiva il corso dei suoi pensieri. «Potrebbero esserci delle iscrizioni sotto le incrostazioni, qualcosa che può essere sfuggito agli archeologi?» Parks rise. «I primi celti non lasciarono nessuna traccia scritta su manufatti o documenti. Ritrovare iscrizioni sarebbe inconcepibile, a meno che, naturalmente, non ci siamo sbagliati sulla datazione di Navinia.» «Navinia?» Parks guardò una riproduzione al computer dell'edificio sommerso che simulava una possibile architettura originale. «È un nome come un altro, non trovate?» «Un nome come un altro», gli fece eco Dirk. Poi guardò Summer. «Perché non scendiamo noi due, domattina presto, e cerchiamo queste iscrizioni? Inoltre, penso sia il caso che rendiamo omaggio alla sacerdotessa per l'ultima volta.» «Non attardatevi», li ammonì Parks. «Il comandante ha fatto sapere che salperemo a mezzogiorno. Vuole portare i reperti a Fort Lauderdale il più in fretta possibile.» Uscendo dal laboratorio, Summer guardava il fratello con una strana luce negli occhi. «Fino a quando ti farai prendere dalla nostalgia?» «C'è un modo pratico per curare la mia malattia.» «Davvero? E qual è?» chiese Summer senza giri di parole.
Dirk ricambiò lo sguardo della sorella con un mezzo sorriso. «Non riesco a togliermi dalla testa che qualcosa d'importante sia stato ignorato.» Adesso che sapevano dove continuare le ricerche, nuotarono senza fermarsi nella galleria che portava alle stanze. Gli antichi ambienti, che fino al giorno prima erano più affollati di una sala d'attesa in aeroporto, erano decisamente vuoti. Gli scienziati della nave, dopo aver scandagliato ogni anfratto, portato tutti i manufatti a bordo e concluso le loro indagini sul posto, avrebbero continuato le valutazioni in laboratorio. Dirk e Summer avevano quindi tutto lo spazio a loro disposizione, senza nessuno che controllasse il loro operato. Potevano insomma agire sulle pareti senza troppi scrupoli. Come avevano stabilito, iniziarono le ricerche nella prima stanza, Summer su una parete, Dirk sull'altra, eliminando le incrostazioni con coltellini a scatto fino a raggiungere la nuda pietra. Erano consapevoli che, agli occhi degli archeologi più ortodossi, stavano commettendo un sacrilegio. Procedevano scrostando lunghe fasce orizzontali di parete, a un metro, un metro e mezzo dal pavimento. Quello doveva essere il livello degli occhi delle persone di tremila anni prima, la cui altezza media era molto inferiore a quella attuale. Basandosi su quel dato storico, i due ragazzi avevano così limitato il loro campo d'azione. Il lavoro procedeva lento. Dopo un'ora infruttuosa, ritornarono alla nave per sostituire le bombole quasi vuote. Benché quasi tutte le imbarcazioni della NUMA di appoggio ai sommozzatori fossero dotate di camera iperbarica, Dirk studiò accuratamente a computer le tabelle per le immersioni ripetute, in modo da evitare qualsiasi rischio di embolia. Da venti minuti si trovavano di nuovo nelle stanze, e si stavano spostando dalla prima alla seconda quando Summer batté il manico del coltello sulla parete per attirare l'attenzione del fratello. Dirk si portò subito al suo fianco e fissò il punto che la ragazza aveva scrostato e stava indicando con eccitazione. Per far capire al fratello, aveva inciso la parola PITTOGRAFIE nelle incrostazioni. Pitt annuì ed espresse la sua approvazione con il pollice in su. Iniziarono a ripulire in modo febbrile le pietre con i guanti, facendo attenzione a non danneggiare le preziose testimonianze che si stavano lentamente materializzando. Quando infine emersero le immagini incise nella pietra, fratello e sorella provarono un moto di soddisfazione per essersi dimostrati più furbi
dei professionisti ed essere i primi a vedere quelle incisioni dopo tremila anni. Quando Dirk le illuminò con la torcia per evidenziarne i particolari, si capì che le pittografie fornivano la tanto ricercata spiegazione del mistero dell'edificio sommerso. Ulteriori indagini rivelarono che le immagini erano incise su entrambi i lati del corridoio in due fasce da sessanta centimetri, a circa un metro e mezzo dal pavimento. Il soggetto era simile a quello dell'arazzo di Bayeux, che illustrava la battaglia di Hastings del 1066. Dirk e Summer rimasero immobili nell'acqua a osservare con religiosa devozione le scene incise. C'erano uomini dall'aspetto strano, con grandi occhi rotondi e barbe folte, che salivano su navi. Dovevano essere soldati, perché portavano armi, perlopiù lunghi pugnali, corte spade sul fianco e asce con bordi ricurvi. Alcuni di loro guidavano carri, ma la maggior parte procedeva a piedi. Le scene di battaglia erano rese con particolare cruenza e sembravano riprodurre i molti episodi di scontro di una lunga guerra. C'erano anche immagini di donne a seno nudo, che lanciavano giavellotti contro i nemici. Summer fece scorrere un dito guantato su una di quelle figure, poi si girò verso Dirk esprimendo con un sorriso tutto il suo orgoglio femminile. Il racconto iniziava con la partenza delle navi da una città in fiamme. Proseguiva con tempeste affrontate in mare e scontri a terra con creature dall'aspetto strano. A un certo punto, rimaneva un'unica nave e s'intuiva che le altre erano state distrutte. Poi si vedeva il naufragio anche di quest'ultima in una tempesta. Verso la fine della storia, un uomo e una donna si abbracciavano prima che lui salpasse su quella che sembrava una zattera con la vela. I ragazzi avevano ritrovato una classica cronaca incisa nella pietra da antichi artigiani, che era rimasta sommersa e occultata all'occhio umano per migliaia di anni. Si guardarono attraverso le maschere e capirono di essere entrambi sovraeccitati. Non avrebbero mai immaginato di scoprire qualcosa di così straordinario e incredibile. Dirk si diresse verso l'uscita della grotta. Una volta fuori, spense la torcia e si avviò con la sorella verso la superficie, lasciando il prezioso tesoro in attesa di coloro che di lì a poco sarebbero andati a fotografarlo e a riportarlo al suo antico splendore. 25
La Poco Bonito entrò nella foce del Colorado nel primo pomeriggio, in acque che erano passate dal marrone della melma al verde delle alghe del fiume. Gonfie nuvole bianche punteggiavano il cielo azzurro, alcune di esse scaricavano sottili scrosci di pioggia. L'equipaggio della NUMA era sul ponte e salutava la flotta di piccole imbarcazioni da pesca che affollava quelle acque; si udivano il ronzio dei motori fuoribordo, simile a quello di uno sciame di calabroni, e il vociare dei pescatori orgogliosi, che mostravano le loro prede. Per la malandata Poco Bonito ci fu anche un brindisi a bottiglie di birra da una barca su cui due pescatori sorreggevano un pesce che doveva pesare almeno quarantacinque chili. Gunn procedeva lentamente, tenendosi sul lato del fiume più sgombro dai piccoli scafi in fibra di vetro adibiti alla pesca, evitando le boe e seguendo le pieghe del corso d'acqua. Dopo una leggera curva, fece compiere un mezzo giro al timone e puntò la prua verso un molo situato poco più avanti del Río Colorado Lodge. Lì, un passaggio coperto e circondato da fiori conduceva a una grande casa all'ombra di un gruppo di palme. «Sembra un paradiso», disse Renée, ammirando la bellezza rigogliosa della foresta tropicale che circondava la casa, ricavata nella roccia lavica, con un tetto di fronde di palma intrecciate. «È il paradiso dei pescatori», fece Gunn dalla plancia. «Costruito da uno dei miei vecchi amici del tempo dell'accademia, Jack McGee. Se vi piace il pesce, potrete fare il pieno di specialità tropicali. Ha raccolto migliaia di ricette da tutto il mondo e ha scritto diversi libri sull'argomento.» Pitt saltò sul molo, prese le funi lanciate da Giordino e le legò alle gallocce. Ligi alle leggi, rimasero vicino alla barca finché i loro documenti non vennero controllati dalle guardie di frontiera, veramente sorprese del danno subito dalla nave. Renée fece uso del suo spagnolo per sciorinare una storia di trafficanti di droga cui erano sfuggiti, tagliagole pericolosi quanto i loro antenati che depredavano i vascelli dell'impero spagnolo. Poiché l'incidente era avvenuto in acque nicaraguensi, le guardie non richiesero un rapporto scritto. Rita Anderson, però, sarebbe stata un fastidioso problema, anche perché non aveva documenti. Pitt e Gunn non avevano intenzione di spiegarne la presenza a bordo e quindi Renée la legò e imbavagliò e Giordino la chiuse in uno sgabuzzino della sala macchine. Le guardie ispezionarono sommariamente la nave e, dopo aver visto Giordino uscire da sotto tale e quale a James Dean quando scopriva il petrolio nel Gigante, decisero di soprassedere con quella parte della nave, per non rischiare di macchiare le loro uniformi linde e impeccabili.
Quando le guardie furono fuori portata, Dodge si rivolse a Pitt. «Perché tratti la signora Anderson come una criminale e la tieni prigioniera? I pirati le hanno ucciso il marito e rubato lo yacht.» «Non è come pensi, Patrick», intervenne Renée. Pitt continuò a osservare le guardie finché non salirono su una Land Rover e scomparvero lungo una strada infangata dalle piogge. «Renée ha ragione. Rita Anderson non è quello che sostiene di essere. È immischiata fino ai capelli in affari poco chiari. Sandecker ha chiamato le autorità del Costa Rica che si sono dette disposte a prenderla in consegna e avviare un'indagine. Dovrebbero arrivare da un momento all'altro.» Renée scese la scaletta delle cabine. «Sarà meglio che prepari la principessa per il suo arresto.» Era appena scomparsa alla vista, che un uomo attraversò con passo deciso la passerella e salì sul ponte. Jack McGee aveva il viso rubicondo di un uomo di quasi cinquant'anni. I capelli erano biondi, senza traccia di grigio, come i baffi alla Wyatt Earp. Gli occhi marroni molto distanti lo facevano assomigliare a un animale sempre vigile contro i suoi predatori. Indossava pantaloncini blu, una camicia a fiori e un consunto berretto da ufficiale di marina che sembrava aver partecipato alla seconda guerra mondiale. Gunn gli andò incontro e gli strinse la mano, prima di abbracciarlo. «Jack, sembri più vecchio di dieci anni ogni volta che ci vediamo.» «Questo è perché ci vediamo ogni dieci anni.» McGee salutò Gunn con voce bassa e profonda. Gunn lo presentò agli altri che erano sul ponte, mentre Giordino si limitò a indirizzargli un saluto dal boccaporto della sala macchine. «C'è un'altra persona dell'equipaggio che voglio presentarti, Renée Ford. È di sotto a risolvere una faccenda.» McGee sorrise compiaciuto. «L'ospite indesiderata?» Gunn annuì. «Rita Anderson, la donna di cui ti ho parlato al cellulare quando ti ho detto del nostro arrivo.» «L'ispettore Gabriel Ortega è un vecchio amico», disse McGee. «Ti chiederà di andare alla stazione di polizia a firmare il rapporto, ma penso che lo troverai gentile e ragionevole.» «Si verificano molti casi di pirateria in queste acque?» chiese Pitt. McGee scosse la testa e rise di gusto. «Non in Costa Rica, ma spuntano come funghi nella zona settentrionale del Nicaragua.» «Perché là sì e qui no?» «Il Costa Rica è il fiore all'occhiello dell'America centrale. Il livello di
vita è più alto che negli altri Paesi latinoamericani. Anche se l'economia si basa soprattutto sull'agricoltura, l'industria turistica sta esplodendo e, incredibile ma vero, la nostra nazione è una grande esportatrice di componenti elettronici e microprocessori. Il Nicaragua, invece, ha alle spalle trent'anni di rivoluzione che hanno disintegrato le infrastrutture. Quando finalmente il governo si è stabilizzato, molti dei ribelli, senza altra specializzazione se non quella della guerriglia, si sono rifiutati di andare a lavorare in campagna o come domestici. Hanno ritenuto che il traffico di droga fosse più allettante e cosi è nata la pirateria: hanno costruito una flotta per i corrieri della cocaina.» «Hai sentito parlare della melma?» McGee scosse leggermente la testa. «So solo che esiste a nord e a est, nei Caraibi. Fra banditi, navi scomparse e contaminazione, l'industria della pesca nicaraguense è stata portata a morte naturale.» McGee si voltò e si tolse il cappello per salutare un ufficiale di polizia in uniforme che stava per salire sul ponte. «Bene, Gabriel, eccoti.» «Jack, vecchio mio», disse Ortega. «In quale guaio ti sei cacciato stavolta?» «Io non c'entro», rise McGee. «Sono i miei amici degli States che ne hanno uno.» Ortega sembrava un Hercule Poirot in versione latinoamericana. Gli stessi capelli neri impomatati e dritti, gli stessi baffi perfettamente regolati, gli attenti occhi neri cui non sfuggiva nulla del celebre detective creato da Agatha Christie. Parlava inglese con solo un accenno di accento spagnolo. Quando sorrise, durante le presentazioni, rivelò denti dallo smalto perfetto. «L'ammiraglio Sandecker mi ha avvisato della situazione. Spero che mi farete avere un rapporto dettagliato dell'avventura con i pirati.» Pitt assentì. «Può contare su di noi, ispettore.» «Dov'è, quindi, la donna che avete recuperato sull'imbarcazione pirata?» «È di sotto.» Mentre pronunciava quelle parole, la fronte di Pitt si corrugò. Si rivolse a Giordino. «Al, perché non scendi a vedere che cosa trattiene Renée e la nostra ospite?» Giordino si pulì le mani in uno straccio e, senza fare commenti, scomparve. Tornò dopo un minuto, una maschera di rabbia sul viso, gli occhi assenti. «Rita è scappata e Renée è morta», disse senza trattenere l'ira. «Assassinata.» 26
In quei primi istanti di assoluto sbalordimento, nessuno riuscì a reagire in una qualsiasi maniera. Fissavano Giordino inebetiti, senza capire che cos'avesse detto. Ci vollero altri cinque secondi perché le parole fossero messe a fuoco. Poi Dodge sbottò: «Che cosa stai dicendo?» «Renée è morta», ripeté calmo Giordino. «Rita l'ha assassinata.» La rabbia scorse nelle vene di Pitt. «Dov'è?» chiese. «Rita?» L'espressione di Giordino era quella di una persona che si è appena risvegliata da un incubo. «È fuggita.» «Impossibile; come può aver lasciato la barca senza essere vista?» «Io non l'ho trovata», disse Giordino. «Posso vedere il corpo?» chiese Ortega, con professionale distacco. Pitt si stava già precipitando di sotto, quasi travolgendo Giordino, che si scostò appena in tempo. «Da questa parte, ispettore. Erano nella mia cabina.» Pitt si sentiva in colpa per non aver intuito la pericolosità di Rita. Si maledisse per aver lasciato Renée sola con un'assassina. «Mio Dio, no», sussurrò quando vide Renée, nuda, distesa sul letto con le gambe unite e le braccia aperte, come se fosse in croce. Il logo di Odyssey era stato inciso nel suo ventre. Folgorato dal dolore, Pitt rammentò dove aveva già visto quell'immagine: si trattava del bianco cavallo celtico di Uffington. Rita si era dimostrata collaborativa e docile quando Renée le aveva tolto il nastro adesivo che le tratteneva i polsi. Ma, quando la scienziata, ignara di essere in pericolo, soprattutto con cinque uomini a meno di tre metri, si era chinata per slegarle le gambe, l'assassina aveva unito le mani e aveva colpito la sventurata con un duro colpo alla nuca. Renée era caduta senza un lamento. Rita le aveva tolto i vestiti, l'aveva adagiata sul letto e soffocata con il cuscino. Non c'era stata lotta. Renée era del tutto incosciente di quello che le stava accadendo. Poi Rita aveva preso un paio di forbicine dal bagno di Pitt e avevi inciso l'immagine del cavallo celtico sul ventre della vittima. Per commettere l'omicidio e realizzare quella macabra messa in scena aveva impiegato meno di quattro minuti. Quindi si era spostata rapidamente verso la parte anteriore della nave ed era uscita dal boccaporto di prua, coperto dalla tuga. Non vista dagli uomi-
ni che parlavano sul ponte di poppa, era salita sulla battagliola e si era lasciata scivolare in acqua, senza il minimo rumore. Aveva nuotato sott'acqua fino all'altro lato del molo e, dopo aver raggiunto la spiaggia, si era dileguata nella fitta vegetazione della costa. Nello stesso momento in cui Giordino scopriva il corpo di Renée, Rita stava svanendo nella giungla. «Quella donna non andrà lontano», sentenziò Ortega. «Non ci sono strade che portano al Río Colorado e non può sopravvivere nella giungla. I miei uomini la prenderanno prima che riesca a procurarsi un passaggio su una barca.» «Tutto quello che indossa è un bikini», lo informò Pitt. «Non ha preso vestiti?» «L'armadio di Renée non è stato toccato e gli indumenti che indossava sono sparsi sul ponte», disse Gunn, indicando il punto dove erano stati gettati. «Aveva denaro?» chiese Ortega. Pitt scosse la testa. «No, a meno che Renée non ne avesse indosso, ma ne dubito.» «Senza denaro né documenti, non poteva far altro che fuggire nella giungla.» «Un posto dove una donna in bikini difficilmente può cavarsela», intervenne McGee, apparso sulla soglia. «Vi prego, chiudete a chiave la cabina», li istruì Ortega. «E non toccate niente.» «Non possiamo neanche vestirla?» chiese Pitt. «No, finché la squadra del medico legale non esegue le normali procedure.» «Quando potremo rimandarla negli Stati Uniti?» «Massimo due giorni», rispose Ortega, cortesemente. «Nel frattempo, in attesa di essere interrogati e di stilare i rapporti, potrete godere dell'ospitalità del signor McGee.» Guardò Renée con aria indifferente. «Viene dal vostro Stato?» Dodge non riusciva a guardare l'amica e girò la faccia. «Viveva a Richmond, in Virginia», sussurrò con voce soffocata. Pitt guardò Gunn. «Sarebbe meglio informare l'ammiraglio.» «Non se ne starà con le mani in mano. Se lo conosco, chiederà al Congresso di dichiarare guerra e inviare i marine.» Per la prima volta, Ortega parve stupito. «Lo farebbe davvero, señor?»
«Era un modo di dire», disse Pitt e, ignorando le istruzioni di Ortega, stese un lenzuolo sul corpo di Renée. Rita corse più in fretta che poté nella giungla, costeggiando la riva del fiume sino a raggiungere il Río Colorado Lodge. Lì seguì i cartelli del vialetto che portava alla piscina e, con il bikini addosso, si mimetizzò tra le mogli dei pescatori che aspettavano pazientemente i mariti impegnati nella pesca. Ignorando gli sguardi di camerieri e inservienti, prese un asciugamano da una sdraio vuota e lo avvolse intorno alle spalle. Poi si avviò verso le stanze e, quando ne trovò una che la cameriera stava riordinando, vi entrò. «Tome su tiempo», le disse per prendere tempo, fingendo che fosse la sua stanza. «He acabado ya», replicò la cameriera, mentre portava gli asciugamani sporchi nel carrello in corridoio e chiudeva la porta. Rita si sedette alla scrivania, alzò il ricevitore del telefono e chiese la linea. Quando qualcuno rispose, disse: «Sono Flidais». «Un momento.» Poi si udì un'altra voce. «La linea è libera, parli pure.» «Flidais?» «Sì, Epona, sono qui.» «Perché chiami da una linea di albergo?» «Abbiamo un problema inaspettato.» «Quale?» «Una nave della NUMA, alla ricerca dell'origine della melma, non è stata ingannata dall'ologramma e ha distrutto lo yacht.» «Ho capito», rispose la donna che si faceva chiamare Epona, senza tradire la minima emozione. «Dove ti trovi?» «Quando lo yacht è affondato, sono stata catturata da quelli dell'agenzia, che mi hanno tenuto prigioniera. Adesso sono scappata e mi trovo in una stanza degli alloggi di una riserva di pesca sul fiume Colorado. È questione di minuti prima che mi rintraccino.» «L'equipaggio?» «Alcuni sono stati uccisi. Altri sono fuggiti in elicottero abbandonandomi.» «Ci occuperemo di loro.» Ci fu una pausa. «Ti hanno interrogato?» «Hanno cercato, ma ho inventato una storiella, ho detto loro di chiamarmi Rita Anderson.»
«Resta in linea e aspetta.» Flidais, alias Rita, andò in bagno e trovò un vestito estivo a fiori di una taglia in più rispetto alla sua. Abbastanza accollato, pensò, e, comunque, meglio largo che piccolo. Lo infilò sopra il bikini e raccolse un foulard, con il quale coprì i capelli rossi. Certamente, dopo aver assassinato Renée, non le importava molto di rubare vestiti a un'altra donna e di portarle la bolletta telefonica alle stelle. In ultimo, si mise un paio di sandali che le andavano abbastanza bene e degli occhiali da sole, che trovò di fianco al letto. Sorrise quando, aprendo i cassetti del comò, trovò il borsellino della proprietaria della stanza. Flidais non capiva perché le donne non avessero fantasia nel nascondere i propri valori. Tutti i ladri di albergo sapevano ormai che le donne mettevano invariabilmente borsellini e portafogli sotto i vestiti, in un cassetto. C'erano ottocento dollari americani e un po' di colón del Costa Rica; poiché un dollaro valeva 434.500 colón, la maggior parte delle transazioni avveniva in moneta straniera. Il nome sotto la foto della patente di guida e del passaporto era Barbara Hacken. A parte il colore dei capelli e qualche anno di differenza, potevano sembrare sorelle. Flidais socchiuse la porta per vedere se la proprietaria della stanza stesse arrivando, poi si concentrò su Epona che era tornata in linea. «Tutto a posto, sorella. T'invio il mio aereo privato a prenderti all'aeroporto. Quando arrivi, lo troverai già sulla pista ad attenderti. Hai un mezzo qualsiasi per recarti all'appuntamento?» «Il complesso deve avere un'auto per portare gli ospiti avanti e indietro.» «Dovrai però avere dei documenti per le guardie aeroportuali.» «Da quel punto di vista sono a posto», annunciò Flidais mettendosi la borsa a tracolla. «Ci vediamo con le altre sorelle fra tre giorni, per il rituale.» Poi appese il ricevitore e scese nell'atrio dell'albergo, superando due poliziotti locali che sorvegliavano la zona. Gli agenti cercavano una donna in bikini e quindi le diedero solo una rapida occhiata. Intravide Barbara Hacken che prendeva il sole in piscina e che sembrava stesse sonnecchiando. Quando Flidais raggiunse la reception e chiese un'auto, il padrone del complesso le sorrise da dietro il bancone. «Non starà pensando di lasciarci, spero?» «No», rispose Flidais in tono vago, soffiando il naso per nascondere il volto. «Mio marito è ancora sul fiume a caccia del pesce più grosso. Devo
andare incontro ad alcuni amici che fanno scalo qui per rifornimento e proseguono poi per Panama.» «La vedremo per cena, quindi?» «Naturalmente», rispose Flidais, voltandogli le spalle. «Dove potrei cenare, altrimenti?» Quando la macchina arrivò all'ingresso dell'aeroporto, una guardia uscì da un piccolo ufficio. «Lascia il Río Colorado?» chiese a Flidais attraverso il finestrino. «Sì, vado a Managua.» «Passaporto, prego.» Gli passò quello di Barbara Hacken e si appoggiò allo schienale con lo sguardo rivolto dall'altra parte. La guardia sfogliò il libretto e rimase qualche lungo istante a confrontare la foto con i lineamenti della donna. I capelli erano coperti, ma alcune ciocche rosse erano sfuggite sotto la seta. L'uomo non sembrò turbarsi; le donne difficilmente usavano la stessa tinta per due mesi di fila. La faccia era simile, ma non riusciva a vedere gli occhi dietro gli occhiali. «Apra i bagagli, prego.» «Mi spiace, non ho bagaglio. Domani è il compleanno di mio marito e mi sono dimenticata il regalo. Vado a Managua per fare shopping. Ritornerò domattina.» Soddisfatto della risposta, l'uomo le riconsegnò il passaporto e lasciò passare l'auto. Cinque minuti dopo, tutti quelli che si trovavano nel raggio di un chilometro dall'aeroporto si pietrificarono alla vista di un aereo color lavanda, apparentemente troppo grande per la pista d'atterraggio, e che invece si appoggiò al suolo senza un sobbalzo. Con i motori invertiti e i freni azionati, si fermò a nove metri dall'estremità nord della pista, poi virò e raggiunse il punto dove Flidais aspettava in auto. Altri cinque minuti e la donna era a bordo del Beriev Be-210 con destinazione la città di Panama. 27 I due uomini adagiati in quello che gli abitanti del luogo chiamavano un panga sembravano due comuni pescatori del fiume San Juan. Indossavano larghi pantaloncini bianchi, T-shirt e cappellini con visiera, sempre bianchi. Due canne da pesca erano appoggiate sulla poppa del panga, con le lenze in acqua, in attesa di procurare il pasto successivo ai due turisti.
Nessuno, se non un pescatore veramente esperto che avesse voluto controllare, si sarebbe accorto che le lenze non avevano amo. In acque così ricche di pesci, nessuna esca avrebbe resistito per più di pochi secondi prima di essere trascinata sott'acqua. Il panga era uno skiff con motore fuoribordo Mariner da trenta cavalli manovrato da cavi collegati a un quadro comandi centrale, sormontato da un volante di automobile. Con il fondo piatto e una lunghezza di sei metri, si muoveva agilmente sulle acque calme del fiume, tra le fronde della foresta tropicale e sotto uno scroscio di pioggia sottile. Si era in piena stagione delle piogge, che, in quei luoghi, iniziava a maggio e terminava a gennaio. La vegetazione della giungla che ricopriva le rive era così fitta che sembrava che ogni pianta fosse in costante conflitto con le vicine per conquistare un raggio di sole, così raro in quella massa di nuvole senza soluzione di continuità. Pitt e Giordino avevano acquistato il panga, che portava il nome di Greek Angel, il carburante e le provviste soltanto poche ore dopo che il jet della NUMA era decollato per Washington con a bordo Gunn, Dodge e il corpo di Renée Ford. La squadra di riparazione atterrata a Barra Colorado aveva portato la Poco Bonito in acque basse per lavorare più in fretta e metterla in grado di tornare a casa. Jack McGee aveva offerto loro una festa di addio e insistito per riempire la barca di birra e vino sufficienti per aprire un bar. Anche l'ispettore Ortega li aveva salutati, ringraziandoli con cortesia per la collaborazione nelle indagini ed esprimendo il suo cordoglio per la morte di Renée. Era anche spiacente e confuso per il fatto che la donna conosciuta come Rita Anderson fosse sfuggita ai suoi controlli. Quando era venuto a sapere che alla signora Barbara Hacken avevano rubato il passaporto, e dopo aver interrogato il padrone dell'albergo e la guardia di sicurezza dell'aeroporto, non aveva avuto dubbi che la donna fosse fuggita dal Costa Rica verso gli Stati Uniti. Pitt contribuì a far combaciare tutti i pezzi della vicenda quando seppe che l'aereo che l'aveva prelevata era color lavanda. Quel fatto la metteva in diretto collegamento con Odyssey e Ortega poté spiccare un mandato internazionale nei suoi confronti che la rendeva perseguibile anche negli Stati Uniti. Pitt sedeva rilassato davanti alla colonna di guida e pilotava l'imbarcazione con un piede, mentre attraversavano una pittoresca laguna formata dal fiume. Giordino si era fatto dare una sdraio con cuscino da McGee ed era adagiato indietro con i piedi sulla prua, osservando con gli occhi semi-
chiusi la sponda per individuare gli occasionali coccodrilli lunghi più di cinque metri che prendevano il sole. Consapevole delle insidie di una foresta tropicale, si era avvolto in una zanzariera. Anche se nei dépliant turistici non se ne faceva menzione, quella parte del mondo era il regno di quegli insetti succhiasangue, che rivaleggiavano in numero con le gocce di pioggia. Per non limitare i movimenti, Pitt si era cosparso invece di repellente. Le prime venti miglia le avevano percorse in direzione nord-ovest lungo il Colorado fin al punto in cui non avevano incontrato le acque fangose del San Juan, che fungeva da linea di confine tortuosa fra il Nicaragua e il Costa Rica. Da lì, vi erano ancora ottanta miglia prima di arrivare alla città di San Carlos, sul lago Cocibolca, meglio conosciuto come lago di Nicaragua. «Non abbiamo ancora visto segni di abitazioni», commentò Giordino, studiando la costa con un binocolo. «Sai come stanno le cose», replicò Pitt, osservando gli uccelli multicolore che nidificavano su rami che si appoggiavano sull'acqua corrente. Giordino si girò sulla sdraio, si abbassò gli occhiali e fissò Pitt da sopra il bordo come se vedesse un allibratore che dava cento a uno un favorito della corsa successiva. «Spiegamelo ancora.» «La tua amica, Micky Levy. Ti ricordi di lei?» «Il nome non mi è nuovo», mormorò Giordino, sempre cercando di seguire il pensiero di Pitt. «Siamo usciti a cena e ci ha parlato di certi progetti di costruzione di un 'ponte sotterraneo', un sistema di gallerie ferroviarie che dovrebbe collegare i due oceani attraverso il Nicaragua.» «Ha anche detto che il progetto non è mai partito perché lo Spettro si è tirato indietro.» «Tutto falso.» «Tutto falso», gli fece eco Giordino. «Quando ingegneri e geologi, come la tua amica, ebbero finito il lavoro d'indagine, i funzionari di Odyssey fecero firmare loro delle scritture private in cui s'impegnavano a non rivelare niente di quel lavoro. Lo Spettro li minacciò di sospendere i pagamenti se non lo avessero fatto. Poi annunciò che, dopo aver analizzato i rapporti, aveva deciso di abbandonare il progetto perché troppo oneroso.» «Come sai tutto questo?» «Prima di partire da Washington la tua amica mi ha inviato via fax la
mappa dei luoghi degli scavi che le avevo chiesto a cena», rispose Pitt con disinvoltura, «Vai avanti.» «Le ho fatto un paio di altre domande sullo Spettro e sul ponte sotterraneo. Non te l'ha detto?» «Credo se ne sia dimenticata», disse Giordino, pensieroso. «Comunque, è emerso che lo Spettro non ha mai avuto intenzione di sospendere il progetto. Gli ingegneri di Odyssey stanno scavando da più di due anni. Ciò si deduce anche dal porto da cui siamo passati, con le navi portacontainer che scaricavano, probabilmente, attrezzatura mineraria.» «Non sono forse stato io a dire: 'Sarebbe un vero mago se potesse nascondere milioni di tonnellate di roccia e fango'?» «E hai ragione, è proprio un mago.» Una luce si accese di colpo nella mente di Giordino. «La melma?» «Ecco la risposta da un milione di dollari», convenne Pitt. «Le foto dai satelliti non hanno mai rilevato attività di costruzione perché non c'era niente da vedere. L'unico modo per nascondere milioni di tonnellate di roccia e fango era quello di costruire una lunga canalizzazione, di mischiare il fango con acqua e di pomparlo un paio di miglia al largo, nel mare.» Giordino aprì una birra e si passò un fazzoletto sul volto, sotto la zanzariera, per asciugare il sudore provocato da quella pesante umidità. Poi fece scorrere la lattina fresca sulla fronte. «D'accordo, signor io-so-tutto, perché tutta questa segretezza? Perché lo Spettro sarebbe arrivato a tanto per coprire il suo segreto? Dove sta il guadagno se c'è una ferrovia che deve trasportare merci da un mare a un altro e nessuno sa che esiste?» Pitt afferrò una birra lanciatagli da Giordino e la aprì. «Se lo sapessi, non saremmo qui ad affogare nel nostro stesso sudore ammirando la natura lussureggiante di questo fiume.» «Che cosa speriamo di trovare?» «Un ingresso. Non possono nascondere del tutto uomini e materiali che entrano ed escono dalle gallerie.» «Pensi che lo troveremo in un viaggio infernale attraverso la giungla a bordo della Regina d'Africa?» Pitt rise. «Non attraverso, ma sotto. Secondo la mappa di Micky, gli scavi sarebbero passati sotto una città chiamata El Castillo, a metà strada lungo il corso del fiume.» «Che c'è d'interessante al El Castillo?»
«Le gallerie molto lunghe richiedono torri di aerazione per rifornire d'aria i minatori, rinfrescare o scaldare l'aria ed espellere gli scarichi dei macchinari di scavo e il fumo in caso d'incendio.» Giordino guardava preoccupato un grosso coccodrillo che stava scivolando in acqua. Poi spostò nuovamente l'attenzione sull'impenetrabile giungla della sponda nord. «Spero tu non abbia intenzione d'infilarti là dentro. Si perderebbe anche Pollicino.» «El Castillo è una comunità isolata sul fiume, senza accessi via terra. L'unica attrazione è una fortezza spagnola.» «E pensi che una torre di aerazione stia nel bel mezzo della città, dove tutti possono vederla?» disse Giordino dubbioso. «Mi sembra che la giungla sia un posto più adatto dove nasconderla. È così fitta che nessun aereo o satellite potrebbe rilevarla dall'alto.» «Non c'è dubbio che la maggior parte debba essere nella giungla, ma conto che una sia più vicina alla civiltà, da usarsi in caso di evacuazione di emergenza.» Lo spettacolo del fiume era magnifico e i due uomini rimasero per un po' in silenzio per assaporare la bellezza della vegetazione e delle varie specie animali. Era come partecipare a un safari fotografico sull'acqua in territori tropicali incontaminati. Videro scimmie ragno dalla faccia bianca che facevano smorfie ai giaguari acquattati sotto gli alberi; formichieri più grandi di maiali vincitori di concorsi nazionali, nascosti fra i cespugli lontani dalle rive per non incappare nei caimani e nei coccodrilli; tucani dai becchi colorati e pappagalli dalle piume multicolore che volavano tra arcobaleni di farfalle e orchidee. La giungla del fiume San Juan era stata descritta da Mark Twain come un paradiso terrestre, la terra più incantata di tutte quelle che si potevano esplorare. Pitt manteneva l'imbarcazione a una velocità di cinque nodi. Non erano acque dove andare più rapidi e causare onde che avrebbero disturbato la tranquillità della foresta. La favolosa foresta pluviale vergine da tremila acri era la Reserva Biologica Río Indio-Maíz. Ospitava trecento specie di rettili, duecento di mammiferi e oltre seicento di uccelli. Erano le quattro del pomeriggio quando imboccarono il Río Battola e raggiunsero l'attracco del Refugio Battola. Annidato nella foresta, il piccolo complesso aveva undici stanze con bagno e zanzariere. Pitt e Giordino ne presero una a testa. Dopo essersi ripuliti, si avviarono al bar e al ristorante. Pitt ordinò una tequila con ghiaccio di una marca che non conosceva. Giordino optò per
un gin, sostenendo di averlo visto fare in almeno una dozzina di film di Tarzan da gentiluomini inglesi impegnati nei safari. Pitt notò un uomo grasso con un vestito bianco che sedeva da solo a un tavolo vicino al bar. Dall'aspetto sembrava un rispettabile personaggio del posto, una miniera d'informazioni, se ben circuito. Pitt gli si avvicinò. «Mi scusi, signore, mi chiedevo se le farebbe piacere unirsi a me e al mio amico.» L'uomo alzò lo sguardo e, per quanto Pitt poté vedere, era piuttosto anziano, vicino agli ottant'anni. Il viso era colorito e rigato dal sudore, ma il vestito era incredibilmente candido. Si passò un fazzoletto sul cranio glabro e annuì. «Certo, certo. Sono Percy Rathbone. Vi prego, è più facile se venite voi qui», disse, indicando il suo girovita che riempiva ampiamente la sedia di vimini. «Io sono Dirk Pitt e questo signore è Al Giordino.» La stretta di mano era salda ma umida. «Piacere di conoscervi. Sedetevi, sedetevi.» Pitt era divertito da quel modo di ripetere le parole. «Lei ha l'aspetto di una persona che conosce e apprezza la giungla.» «Si vede, si vede, non è vero?» disse Rathbone, con una risata. «Ho risalito i fiumi in Nicaragua e Costa Rica per quasi tutta la vita. La mia famiglia è venuta qui durante la seconda guerra mondiale. Mio padre era un agente dei britannici, incaricato di sorvegliare le operazioni tedesche di installazione nelle lagune di impianti di rifornimento e riparazione dei loro U-Boot.» «Se posso permettermi la domanda, come ci si guadagna da vivere su un fiume in mezzo al nulla?» Rathbone guardò Pitt con aria scaltra. «Ci credereste, ci credereste se vi dicessi che vivo di turismo?» Pitt non era certo di credergli, ma stette al gioco. «Quindi ha una sua attività locale.» «Esatto, esatto. Faccio discreti affari con pescatori e amanti della natura che vengono a visitare quest'angolino. Sono proprietario di una piccola catena di impianti turistici fra Managua e San Juan del Norte. Vi invito, signori, ad andare a vedere il mio sito quando tornate a casa.» «Ma questo albergo è di proprietà dell'ente della riserva naturale.» Rathbone s'irrigidì leggermente, o almeno così sembrò a Pitt. «È vero, è vero. Sono in vacanza. Mi piace allontanarmi dalle mie attività e venire a rilassarmi qui, dove non sono infastidito dai miei ospiti. E che mi dite di
voi, amici? Siete venuti per la pesca?» «Per quello, e per la natura. Siamo partiti da Barra Colorado e intendiamo arrivare a Managua.» «Magnifica crociera, magnifica crociera. Assaporerete ogni minuto del viaggio. Non c'è niente di simile in questa parte del mondo.» Venne ordinato un giro di drink e Giordino li fece segnare sul suo conto. «Mi dica, signor Rathbone, come mai un fiume che praticamente collega il Pacifico all'Atlantico è così poco conosciuto fuori del Paese?» «Il fiume era famoso finché non hanno costruito il canale di Panama. Dopo quel fatto, la storia ha gettato nel cestino il San Juan. È stato un conquistador spagnolo, Hernández de Córdoba, a risalirlo nel 1524. Lo percorse fino al lago di Nicaragua e fondò la città coloniale di Granada all'estremità opposta. Gli spagnoli che seguirono Córdoba costruirono forti pieni di uomini armati per tutta l'America centrale, per tener lontano i francesi e gli inglesi. Uno di questi è El Castillo, qualche miglio più in su rispetto a qui, lungo il fiume.» «E gli spagnoli ce la fecero?» chiese Pitt. «Certo che sì, certo che sì», rispose Rathbone, agitando la mano. «Ma non del tutto. Henry Morgan e Sir Francis Drake riuscirono a risalire il fiume, ma non riuscirono mai a superare El Castillo e a entrare nel lago. Cento e più anni dopo, fu la volta di Orazio Nelson, quando era ancora un semplice capitano. Entrò nel San Juan con una piccola flotta e attaccò El Castillo, che però è ancora in piedi. L'attacco fallì. L'unica battaglia persa dal futuro ammiraglio, di cui avrebbe portato la vergogna per il resto della vita.» «In che senso?» chiese Giordino. «Perché fu qui che perse l'occhio.» «Destro o sinistro?» Rathbone ci pensò per un momento, poi si strinse nelle spalle. «Non ricordo.» Pitt sorseggiò la tequila. «Per quanto tempo gli spagnoli hanno controllato il fiume?» «Fino alla metà dell'Ottocento e alla corsa all'oro californiana. Il commodoro Vanderbilt, il magnate delle ferrovie e dei cantieri navali, intravide un'opportunità milionaria. Si mise d'accordo con gli spagnoli e fornì agli avidi cercatori che volevano raggiungere la California da New York e Boston un servizio completo. Quelli arrivavano sulle sue navi dalle grandi città fino a San Juan del Norte; qui venivano trasbordati su vapori fluviali,
sempre di Vanderbilt, e portati lungo il San Juan e attraverso il lago di Nicaragua fino a La Virgen; da lì rimanevano solo venti chilometri di ferrovia per raggiungere il porto sul Pacifico di San Juan del Sur, un paio di moli dove le navi dell'astuto magnate aspettavano i minatori per portarli a San Francisco. Non solo venivano risparmiate centinaia di miglia, non dovendo girare intorno a capo Horn, ma anche quelle seicento miglia per scendere fino all'istmo di Panama e risalire a nord.» «Quando terminò questo traffico?» chiese Pitt. «La Accessory Transit Company, come la chiamò Vanderbilt, scomparve con la costruzione del canale di Panama. Il commodoro fece edificare una grande residenza a San Juan del Norte, che è ancora in piedi, anche se abbandonata e coperta di vegetazione. Per ottant'anni il fiume fu dimenticato, fino agli anni '90 del Novecento, quando risorse grazie al turismo.» «Mi sembra che fosse un percorso più logico per un canale rispetto a quello di Panama.» Rathbone scosse la testa tristemente. «Molto più logico, molto più logico, ma un complicato gioco politico orchestrato dal vostro presidente Teddy Roosevelt fece scegliere la soluzione più lontana.» «Si potrebbe ancora farlo, però, il canale qui», disse Giordino, con aria pensierosa. «È troppo tardi. I vasti interessi legati al canale di Panama e le associazioni ambientaliste ed ecologiste si opporrebbero al progetto con tutte le forze. Anche se il governo nicaraguense desse la sua approvazione, nessuno vi investirebbe.» «Ho sentito dire di alcuni progetti per un tunnel ferroviario sotto il Nicaragua, fra un oceano e l'altro.» Rathbone indirizzò uno sguardo verso il fiume. «Sono circolate delle voci qui sul fiume, che sono girate per mesi, ma poi non si è fatto niente. Sono arrivati dei periti che hanno attraversato la giungla ed elicotteri hanno sorvolato la zona in lungo e in largo. I miei alberghi si sono riempiti di geologi e ingegneri, ma dopo un anno hanno impacchettato i loro strumenti e se ne sono tornati a casa. Così è finito tutto.» Giordino terminò lo scotch e ne ordinò un altro. «Non è mai tornato nessuno?» Rathbone scosse la testa. «Non che io sappia.» «Lei sa quali sono i motivi per cui il progetto è stato abbandonato?» s'informò Pitt. Di nuovo l'uomo scosse la testa. «Nessuno sembra saperne niente di più.
I contratti erano giunti al termine e i tecnici vennero liquidati. Tutta la vicenda sembrava avvolta da un alone di cospirazione. Uno degli ingegneri si ubriacò da me, la notte prima di partire, ma tutto ciò che mi disse fu che lui e i suoi colleghi avevano giurato di mantenere il silenzio.» «La società contraente si chiamava Odyssey?» Rathbone s'irrigidì impercettibilmente. «Sì, esatto, esatto, Odyssey. Il capo è anche stato da me a El Castillo. Un individuo alquanto ingombrante. Doveva pesare circa duecento chili. Si faceva chiamare 'lo Spettro'. Davvero strano. Non sono mai riuscito a vederlo in faccia. Era sempre circondato dal suo seguito, soprattutto donne.» «Donne?» Giordino alzò la testa. «Molto belle, anche, ma decisamente di quelle tutte dedite alla carriera. Impeccabili, molto efficienti. Non hanno mai scambiato una parola o un gesto con gli abitanti del posto.» «Come sono arrivati?» indagò Pitt. «Sono atterrati e ripartiti con un grande idrovolante dipinto come un'orchidea.» «Color lavanda?» «Diciamo che si può definire così.» Giordino fece girare lo scotch fra i cubetti di ghiaccio. «Le è mai giunta voce del perché il progetto non è mai decollato?» «Fra pettegolezzi, voci e 'sentito dire' ci sono circa cinquanta ragioni, ma nessuna ha senso. I miei amici del governo di Managua sono stupiti quanto noi del fiume. Dicono che non è stata colpa loro. Hanno offerto a Odyssey delle facilitazioni e ogni vantaggio, perché il progetto avrebbe aiutato molto l'economia nicaraguense. La mia opinione personale è che lo Spettro ha trovato qualcosa di più proficuo per la Odyssey Corporation e ha semplicemente cambiato obiettivo.» In quel momento, sembrò come se la terra fosse stata strattonata. I cubetti di ghiaccio nei bicchieri cozzarono l'uno contro l'altro e il liquido fremette, come se gocce di pioggia invisibile vi fossero cadute dentro. Le fronde apicali degli alberi della giungla ondeggiarono all'unisono e gli uccelli gridarono con voci roche e stridule per rispondere all'inquietante lamento di animali nascosti nell'ombra. «Un terremoto», disse Giordino senza scomporsi. «Sembrerebbe di più un tremore della terra», replicò Pitt, sorseggiando il suo drink. «Non mi sembrate turbati da questi movimenti del suolo», osservò Ra-
thbone, piuttosto sorpreso. «Siamo cresciuti in California», spiegò Giordino. Pitt scambiò uno sguardo con l'amico, poi disse: «Mi chiedo se ce ne saranno altri di questi fenomeni mentre saremo in viaggio sul fiume». Rathbone sembrava sulle spine. «Ne dubito. Arrivano e se ne vanno come i tuoni, ma non sono frequenti e non hanno mai fatto danni. I nativi sono molto superstiziosi. Credono che siano le antiche divinità dei loro antenati che sono tornate a vivere nella giungla.» Infine, con un grande sforzo, si alzò dalla sedia e rimase instabile sulle gambe. «Signori, vi ringrazio della bevuta. È stato veramente, veramente un piacere parlare con voi. Ma la mia età m'impone di andare a letto presto. Vi vedrò ancora domani?» Pitt si alzò e gli strinse la mano. «Forse. Faremo un giro naturalistico al mattino e proseguiremo il viaggio nel pomeriggio.» «Ci piacerebbe passare un giorno a El Castillo e vedere le rovine della vecchia fortezza, prima di entrare nel lago», aggiunse Giordino. «Mi dispiace, ma potrete vedere la fortezza solo da lontano», disse Rathbone. «La polizia locale proibisce a chiunque di avvicinarsi. Sembra che ci sia il rischio che crolli da un momento all'altro. Quanta ipocrisia. Fa più danni la pioggia dei piedi di qualche turista.» «La polizia nicaraguense presidia le mura?» «C'è più sorveglianza lì che in una centrale nucleare. Telecamere di sicurezza, guardie con cani e una recinzione alta tre metri con filo spinato in cima tutt'intorno. Un poveraccio di El Castillo, un certo Jesús Diego, che si era incuriosito e aveva tentato di superare le guardie, è stato ritrovato impiccato a un albero in riva al fiume.» «Morto?» «Stecchito.» Rathbone cambiò subito argomento. «Se fossi in voi, non mi avvicinerei.» «Seguiremo il suo consiglio», assicurò Pitt. «Bene, signori, molto piacere. Buonanotte.» Mentre guardavano il vecchio allontanarsi con fatica, Giordino disse a Pitt: «Che cosa ne pensi?» «Non è quello che sembra», disse Pitt sicuro. «Non ha parlato del porto sull'Atlantico.» «E che mani curate!» «La pelle era troppo liscia e senza macchie per essere quella di un uomo di oltre settant'anni.»
Giordino fece segno al cameriere. «Ti sei accorto della voce? Sembrava innaturale, come se fosse registrata.» «Sembra che il signor Rathbone ci abbia venduto un mare di sciocchezze.» «Sarebbe bello sapere a che gioco sta giocando.» Quando il cameriere arrivò con un altro giro di drink e chiese loro se erano pronti per cenare, entrambi annuirono e lo seguirono in sala da pranzo. Una volta seduti, Pitt gli chiese: «Come ti chiami?» «Marcus.» «Marcus, si verificano spesso movimenti della terra, qui, nella giungla?» «Sì, señor. Ma sono iniziati tre, forse quattro anni fa, quando hanno iniziato a risalire il fiume.» «I tremori si spostano?» chiese Giordino stupito. «Sì, molto lentamente.» «In quale direzione?» «Sono partiti alla foce, a San Juan del Norte. Adesso si fanno sentire nella giungla intorno a El Castillo.» «Decisamente non può essere un fenomeno causato da Madre Natura.» Giordino sospirò. «Dov'è Sheena, la regina della giungla, quando hai bisogno di lei?» «Gli dei non permetteranno mai agli uomini di scoprire i loro segreti. Non nella giungla», disse Marcus, guardandosi intorno come se si aspettasse l'aggressione di un assassino. «Nessuno che vi entra esce vivo.» «Quando hanno iniziato a scomparire gli uomini nella giungla?» chiese Pitt. «Circa un anno fa: una spedizione dell'università è entrata per studiare gli animali ed è scomparsa. Non se ne sono trovate più tracce. La giungla custodisce bene i suoi segreti.» Per la seconda volta nella serata, Pitt guardò Giordino ed entrambi sorrisero a denti stretti. «Mah, non saprei», disse Dirk lentamente. «I segreti hanno l'intrigante abitudine di farsi svelare.» 28 La fortezza dominava la cima di una collina isolata che sembrava più che altro un terrapieno ricoperto di erba e circondato da diverse specie di alberi. El Castillo de la Inmaculada Concepción - castello intitolato, appunto, all'Immacolata Concezione - era stato innalzato sui modelli di forti-
ficazioni dell'ingegnere militare Vauban, con bastioni sui quattro angoli. Nonostante gli oltre duecento anni di esposizione alle piogge torrenziali, era, incredibilmente, in buone condizioni. «Penso che tu sappia», disse Giordino, sdraiato a osservare il manto stellato, «che le irruzioni non rientrano nel nostro stile di lavoro.» Pitt era disteso al suo fianco e osservava con il visore a infrarossi la recinzione che circondava la fortezza di El Castillo. «Certo che lo so; e sono anche cosciente che la NUMA non ci paga per correre simili rischi.» «Sarebbe meglio chiamare l'ammiraglio e Rudi Gunn e aggiornarli sui nostri spostamenti. Quando saremo sottoterra, il telefono sarà inservibile.» Pitt estrasse il telefono satellitare dallo zaino e iniziò a comporre il numero. «Sandecker si alza presto, quindi va anche a letto presto. Rudi dovrebbe essere raggiungibile, perché siamo solo un'ora indietro rispetto a Washington.» Cinque minuti dopo, Pitt chiuse la comunicazione. «Rudi manderà un elicottero ad aspettarci a San Carlos, nel caso fossimo costretti a una ritirata precipitosa.» Giordino tornò a concentrarsi sulla fortezza. «Non vedo scale, solo rampe.» «Le rampe in pietra erano più funzionali per portare i cannoni su e giù dai bastioni», spiegò Pitt. «I costruttori dell'epoca ne sapevano di fortezze quanto i nostri imprenditori odierni di grattacieli.» «Vedi niente che assomigli a una torre di aerazione delle gallerie?» «Dovrebbe spuntare fra i merli.» Giordino apprezzò il fatto che non ci fosse la luna. «Dunque, qual è il piano per superare la recinzione ed eludere le telecamere di sicurezza, gli allarmi, le guardie e i cani?» «Prima di tutto, non possiamo sapere come affrontare i vari sistemi di difesa se prima non scavalchiamo la recinzione», rispose Pitt, con voce calma, studiando il terreno della fortezza. «E come ce la faremo, visto che sembra alta almeno tre metri?» «Potremmo cimentarci nel salto con l'asta.» Giordino guardò Pitt con occhi sospettosi. «Stai scherzando, vero?» «Sì.» Pitt prese un rotolo di fune dallo zaino. «Riesci ancora a salire su un albero o l'artrite t'impedisce ormai di muoverti?» «Le mie vecchie giunture sono almeno il doppio più agili delle tue.» Pitt batté la mano sulla spalla del vecchio amico. «Vediamo quindi se due matusa come noi possono ancora cimentarsi in gare di agilità.»
Dopo la colazione nell'albergo della riserva, come avevano detto a Rathbone, Pitt e Giordino si erano uniti a un gruppo di circa dodici persone per una visita guidata lungo un percorso naturalistico. Durante l'escursione, erano rimasti dietro tutti a parlare fra loro, notando appena i molti uccelli colorati e gli animali esotici. Di ritorno all'albergo, Pitt si era informato con discrezione sull'anziano personaggio della sera precedente e, come previsto, gli impiegati avevano detto che, per quanto ne sapevano, Rathbone era un ospite come gli altri che aveva esibito un passaporto panamense all'atto della registrazione. Del fatto che possedesse una catena di alberghi sul fiume non sapevano niente. A mezzogiorno, i due amici avevano caricato il Greek Angel con i bagagli e qualche panino e ripreso la via del fiume. Il motore era ripartito al primo colpo e in men che non si dica erano stati fuori della laguna, sul corso principale del San Juan. Lì la foresta vergine lasciava il posto a un territorio più aperto, delimitato da una serie di colline verdeggiati, con alberi regolarmente distanziati, come se fossero stati piantati da un esperto giardiniere in un grande parco. Avevano proceduto alla minima velocità, perché El Castillo si trovava solo tre miglia più in su lungo il fiume, uscendo dall'ultima ansa dominata dalla fortezza coloniale un'ora dopo la partenza. Il muschio che ricopriva le antiche mura di roccia lavica rendeva la roccaforte simile a una brutta macchia su un paesaggio altrimenti meraviglioso, mentre la pittoresca cittadina ai suoi piedi sembrava un'invitante oasi dai tetti di lamiera rossa e dai colorati panga che affollavano la riva del fiume. E proprio il fiume era l'unica via che collegava El Castillo con il resto del mondo. Non esistevano strade carrozzabili né aeroporto. Gli abitanti vivevano coltivando le colline circostanti o di pesca; alcuni lavoravano nella segheria o nell'industria dell'olio di palma dieci miglia più avanti sul corso d'acqua. Pitt e Giordino volevano che qualcuno li vedesse arrivare e partire dalla piccola comunità, per dare l'impressione di continuare la crociera verso il lago di Nicaragua. Ormeggiarono quindi l'imbarcazione a un piccolo molo e percorsero qualche metro di una sudicia stradina, verso un albergo con bar e ristorante. Le case di legno erano vivacemente colorate e i due uomini salutarono tre bambinette tutte ripulite e vestite di giallo, che giocavano a piedi nudi in un androne. Preferirono tenere i panini del Refugio Bartola per l'escursione notturna
e ordinarono un piatto di pesce di fiume, annaffiato da birra locale. Il proprietario, che si chiamava Aragón, li servì di persona. «Posso consigliarvi il gaspar. Non lo si cattura facilmente, e servito con la mia salsa speciale è davvero una prelibatezza.» «Gaspar», ripeté Giordino. «Non l'ho mai sentito.» «È un sopravvissuto di milioni di anni, con scaglie corazzate, una specie di proboscide e zanne. Vi posso assicurare che non troverete altro posto in cui gustarlo.» «Sono sempre pronto alle avventure culinarie», disse Pitt. «Vada per il gaspar.» «Non vedo l'ora», mormorò Giordino. «Peccato che la fortezza non sia visitabile», dichiarò Pitt con disinvoltura. «Ho sentito dire che il museo è interessante.» Aragón s'irrigidì impercettibilmente, gettando un'occhiata sfuggente fuori della finestra, in direzione del Castillo. «Sì, señor, è un peccato che ve lo perdiate. Ma il governo lo ha chiuso per la sicurezza dei turisti.» «A vederlo da qui sembra molto solido», osservò Giordino. Aragón si strinse nelle spalle. «Tutto ciò che so è quello che mi ha detto la polizia di Managua.» «Le guardie stanno qui in città?» chiese Pitt. Aragón scosse la testa. «Hanno organizzato una caserma nella fortezza e le si vede poco, in genere solo quando arrivano i cambi in elicottero da Managua.» «Nessuno lascia il forte, neanche per farsi una bevuta o trovare un po' di compagnia?» «No, señor. Non hanno contatti con la popolazione e nessuno si può avvicinare oltre i dieci metri dalla recinzione.» Giordino si versò l'intera bottiglia di birra nella caraffa. «È la prima volta che sento di un governo che tiene i turisti lontano da un museo perché potrebbe cadere.» «Avete bisogno di una stanza per la notte?» chiese Aragón. «No, grazie», rispose Pitt. «Mi dicono che ci sono delle rapide più avanti e voglio affrontarle con la luce.» «Non dovreste aver problemi se rimanete nel centro del corso d'acqua. Se si fa attenzione è molto difficile rovesciarsi. Il vero problema del finire in acqua sono i coccodrilli, ma stanno solo dove l'acqua è calma.» «Servite anche bistecche in questo ristorante?» s'informò Pitt. «Sì, señor, desiderate altro?»
«No, vorremmo portare la carne con noi per stasera. Dopo aver superato le rapide ci accamperemo sulla riva e la cucineremo sul fuoco.» Aragón annuì. «Per essere al sicuro, non state troppo vicini al fiume. Potreste diventare la cena di un coccodrillo affamato.» «Non è esattamente quello che ho in mente», replicò Pitt, con un ampio sorriso. Dopo essere ripartiti, nel tardo pomeriggio, i due amici superarono senza difficoltà le rapide che s'incontravano oltre la cittadina e si portarono fuori della vista dell'abitato. Quando non videro più altre barche sul fiume, accostarono il Greek Angel alla riva, sollevarono il motore fuoribordo e lo tirarono fin sotto i rigogliosi cespugli, in modo da nasconderlo perfettamente. Assistiti ancora dalla luce del giorno, trovarono un sentiero che riportava in città e si fermarono per mangiare i panini e riposare per breve tempo. Poi dormirono fin dopo la mezzanotte. Al risveglio, con l'aiuto del visore a infrarossi procedettero con cautela lungo il sentiero, passarono a fianco delle piccole case e penetrarono in una macchia di arbusti, dove si distesero a esaminare i sistemi di sicurezza che circondavano la fortezza, memorizzando i punti in cui erano installate le telecamere. Iniziò a cadere una pioggia sottile che in breve inzuppò i loro abiti leggeri. Stare sotto l'acqua ai tropici era come essere sotto la doccia di casa, perché la temperatura era piacevole come quella regolata da un miscelatore. Quando furono pronti, Pitt seguì Giordino su una jatoba che superava i trenta metri di altezza e i dodici di diametro. L'albero era abbastanza vicino alla recinzione della fortezza e i rami più bassi si allungavano oltre le punte affilate del filo spinato che stava in cima. Giordino lanciò un cappio intorno a un grosso ramo, tre metri più in alto, e si issò; poi strisciò lungo quelli più piccoli e si ritrovò oltre l'ostacolo, a tre metri e mezzo dal suolo. Lì si fermò e scrutò il terreno sottostante con il visore a infrarossi. Pitt si aggrappò alla fune e, mettendo una mano dopo l'altra e camminando sul tronco, si tirò su fino al ramo. Poi seguì Giordino oltre la recinzione fino a toccare lo stivale dell'amico. «Qualche segno di guardie e cani?» sussurrò. «Le guardie se la prendono comoda», rispose Giordino. «Hanno lasciato liberi i cani.» «Mi chiedo come mai non ci abbiano già fiutato.»
«Hai parlato troppo presto. Ne ho visti tre che guardano da questa parte. Oh, oh, ecco che arrivano al galoppo.» Prima che iniziassero ad abbaiare, Pitt infilò una mano nello zaino, estrasse le bistecche avute al ristorante e le lanciò sulla rampa che portava al bastione più vicino. Il rumore sordo che fecero atterrando attirò i cani che corsero in quella direzione. «Sei certo che funzioni?» si lamentò Giordino. «Nei film quasi sempre.» «Quindi possiamo stare sicuri», brontolò Giordino. Per tutta risposta, Pitt saltò al suolo e rimase immobile. Giordino lo seguì, fissando preoccupato i cani, che divoravano la carne cruda come impazziti, senza degnare i due intrusi del minimo sguardo. «Non dubiterò più di te», disse Giordino con un fil di voce. «Non mi dimenticherò che l'hai detto.» Pitt s'incamminò verso una delle rampe di pietra, utilizzando il visore a infrarossi per individuare il raggio più ampio d'intercettazione della telecamera. A un suo fischio, Giordino corse nella zona cieca della telecamera e spruzzò la lente con vernice nera. Poi avanzarono, passando all'esterno del museo buio e chiuso e cercando d'individuare rumori sospetti. Il suono di voci smorzate arrivava dal cortile principale, oltre le mura, dov'era stata eretta la caserma. I due amici entrarono in un ex magazzino, con pareti in pietra ancora solide, ma dove le travi di legno e il tetto erano da tempo scomparsi. A quel punto, Pitt si diresse verso una sorta di torretta a piramide tronca che spuntava sopra il forte. «Se esiste una torre di aerazione che sale da sotto, non può che uscire da là», disse, a bassa voce. «È l'unico posto logico», convenne Giordino. Poi portò una mano all'orecchio. «Che cos'è questo ronzio in sottofondo?» Pitt si fermò ad ascoltare, con tutti i sensi in allerta, le orecchie tese nell'oscurità. Poi fece un cenno col capo. «Devono essere i ventilatori.» Mantenendosi nell'ombra, i due uomini percorsero una stretta rampa di pietra che portava alle mura della torretta e terminava con una piccola porta d'ingresso. Quando furono in prossimità dell'angusta apertura, furono colpiti da folate di aria fresca dell'intensità di quelle di una galleria del vento. Tenendosi basso per contrastare la corrente d'aria, Pitt entrò e si trovò davanti a una gabbia in rete metallica, aperta sul fondo; lì, grandi lame di ventilatore colpivano l'aria producendo un ronzio che, amplificato dalla struttura chiusa, lacerava i timpani.
«Che frastuono infernale», urlò Giordino, che aveva raggiunto l'amico. «È perché ci troviamo proprio in cima al condotto. Sarebbe molto peggio se non ci fossero i silenziatori. Così com'è, è quasi inudibile all'esterno.» «Nel mio contratto non si parlava di simili raffiche di vento», protestò Giordino, mentre esaminava lo spessore della rete metallica. «I ventilatori sono progettati per produrre una portata d'aria a una data pressione calcolata dal computer.» «Ecco che inizi con la lezione. Non dirmi che hai anche fatto un corso d'ingegneria mineraria.» «Ti sei dimenticato di quell'estate, quando eravamo alla Air Force Academy, in cui ho lavorato in quella miniera di Leadville, in Colorado?» controbatté Pitt. «Non me ne sono dimenticato», disse Giordino sorridendo. «Io la passai facendo la guardia del corpo a Malibu.» Scrutò attraverso la rete e intravide un bagliore rosato provenire dall'apertura sul fondo. Allora girò intorno alla gabbia finché non trovò un chiavistello con un lucchetto. «Chiuso dall'interno», constatò. «Dovremo tagliare la rete.» Pitt estrasse un paio di piccole cesoie dallo zaino. «Pensavo che ci sarebbero servite per tagliare il filo spinato.» Giordino le appoggiò sulla rete, illuminata dalla luce che veniva dal fondo. «Dovrebbero funzionare. Ora, per favore, stai indietro mentre il maestro lavora.» Sembrava facile, ma non fu così. Quando venticinque minuti più tardi Giordino riuscì ad aprire un varco sufficiente a lasciarli passare, il sudore gli colava a fiotti da tutto il corpo. Restituì le cesoie a Pitt, piegò la rete metallica tagliata e diede un'occhiata al condotto. La torre quadrata che assicurava l'espulsione dell'aria dalla galleria sottostante era larga quattro metri e mezzo. In un angolo correva un tubo metallico circolare, cui era attaccata una scaletta che sembrava perdersi nelle viscere della terra. Era quello l'accesso. «Serve per la manutenzione e le eventuali riparazioni», spiegò Pitt a voce alta, senza aspettare le domande. «Funge anche da uscita di emergenza per i minatori, in caso di incendio o crollo della galleria principale.» Giordino passò per primo, appoggiando i piedi sui pioli più alti della scaletta. Prima di scendere, lanciò a Pitt uno sguardo irritato. «Spero di non dovermene pentire!» disse urlando, per sovrastare il rombo dei ventilatori. Poi iniziò la discesa.
Pitt era sollevato dal fatto che il condotto fosse illuminato. Dopo aver percorso circa quindici metri di scala, si fermò a guardare di sotto. Tutto ciò che vide furono i pioli che si perdevano nell'oscurità, come le traversine di una rotaia. Dal fondo, non arrivavano segnali di vita. Prese un fazzoletto di carta dalla tasca, lo divise in due pezzi e, dopo averli arrotolati, li infilò nelle orecchie, per attutire l'irritante frastuono prodotto dai ventilatori. Oltre a quello principale, ne erano stati installati di supplementari ogni trenta metri, per mantenere la pressione necessaria ad aerare tutta la galleria. Dopo un tempo che sembrò lungo come mezza esistenza, e dopo quelli che Giordino calcolò essere circa centocinquanta metri, Pitt si fermò e fece segno con la mano. Il fondo della scaletta era adesso in vista. Lentamente e con molta attenzione, si mise a testa in giù e strisciò verso il basso finché non si ritrovò a guardare dall'alto una piccola postazione di controllo e monitoraggio dei gas, dell'anidride carbonica, della temperatura e del sistema di ventilazione. I ventilatori erano ormai molti metri più sopra e i due uomini poterono parlare a bassa voce. Giordino si rimise in piedi e si rivolse a Pitt che stava scendendo dalla scala al suo fianco e che gli chiedeva quale fosse la situazione. «La scaletta ci ha portato al centro di controllo dell'intero sistema di aerazione, che si trova a quattro metri e mezzo dal pavimento della galleria. Alla console ci sono un uomo e una donna che, per fortuna, ci danno le spalle. Dovremmo riuscire a metterli fuori combattimento prima che si rendano conto di che cosa li ha colpiti.» Pitt guardò gli occhi scuri di Giordino, a pochi centimetri dai suoi. «Come pensi di fare?» Le labbra dell'uomo si aprirono in una smorfia di complicità. «Io mi occupo dell'uomo. Sei tu quello bravo nel mettere al tappeto le donne.» Pitt lo fissò con aria di sfida. «Sei un gran vigliacco.» Senza perdere altro tempo, avanzarono silenziosamente nella stanza. I due operatori, in tuta nera l'uomo e bianca la donna, erano occupati a controllare i computer e quando videro il riflesso dei loro aggressori sugli schermi era troppo tardi. Giordino si parò sul fianco dell'avversario e gli sferrò un gancio destro alla mascella. Pitt invece colpì la donna alla nuca, proprio sotto il cranio. Entrambi caddero senza neanche un lamento. Scivolando sotto la vetrata che dava sulla galleria, Pitt estrasse un rotolo di nastro adesivo e lo passò a Giordino. «Legali, mentre sfilo loro le tute.»
In meno di tre minuti i due operatori incoscienti si ritrovarono in mutande, legati e imbavagliati sotto il quadro comandi, fuori della vista di chiunque passasse. Pitt s'infilò la tuta nera, che gli stava grande, mentre Giordino mise quella bianca della donna, rischiando di far saltare le cuciture. Presero anche i rispettivi cappelli da uno scaffale. Pitt, con lo zaino in spalla, aveva un aspetto anonimo, da lavorante di basso livello, mentre Giordino, con una tabella e una penna, aveva assunto un'aria più ufficiale. Scesero l'uno dopo l'altro la scala che portava nella galleria. Una volta arrivati in basso, dopo essersi guardati intorno rimasero letteralmente stupefatti. Davanti a loro si apriva uno spettacolo immenso, illuminato dalla luce abbagliante di un'infilata di lampade che obbligava a socchiudere gli occhi. Non era una normale galleria ferroviaria. Non era affatto una galleria ferroviaria. 29 La galleria a ferro di cavallo era molto più vasta di quello che Pitt e Giordino avrebbero mai immaginato. Sembrava di trovarsi sulla scena di un romanzo di Giulio Verne. Il diametro interno doveva essere di quindici metri, vale a dire molto maggiore di qualsiasi galleria mai costruita. Tanto per fare un esempio, quello del tunnel che passa sotto la Manica collegando Francia e Inghilterra è di sei metri, mentre il diametro del tunnel Seikan che mette in comunicazione l'isola di Honshu con quella di Hokkaido arriva a nove e mezzo. Il rumore dei ventilatori venne sostituito da un ronzio simile, che rimbombava in tutta la galleria. Sul soffitto, attaccato a travi d'acciaio, scorreva un nastro trasportatore che, invece di rocce più o meno grandi, convogliava senza sosta verso l'estremità est una sorta di fanghiglia grumosa. «Ecco l'origine della nostra melma», indicò Pitt. «Frantumano la roccia fino a ridurla alla consistenza del fango per poi pomparla in un condotto che sbuca nel mar dei Caraibi.» Sotto il nastro trasportatore passavano una carreggiata in cemento e alcune rotaie, che Pitt si chinò a esaminare. «Sono alimentate elettricamente, come la metropolitana di New York.» «Attenzione quindi alla terza rotaia», lo avvisò Giordino. «Non si sa quanti volt passano lì dentro.» «Devono avere sottostazioni elettriche sistemate a distanza regolare lun-
go tutto il percorso per alimentarle.» «Vuoi mettere un penny sopra per vedere che cosa succede?» chiese Giordino, scherzando. Pitt si alzò e rivolse lo sguardo verso la galleria. «Queste rotaie non sono adatte per treni ad alta velocità, che toccano quasi i quattrocento chilometri orari. L'acciaio non è di prima qualità e le traversine sono troppo distanti fra loro. Inoltre, lo scartamento standard è di centoquarantun centimetri, mentre questo è di circa novanta. Si tratta quindi di una ferrovia a scartamento ridotto.» «Posata come back-up per una TBM, o Tunnel Boring Machine.» Pitt alzò il sopracciglio. «Come sai queste cose?» «Le chiamano anche 'talpe' o frese meccaniche. Ho letto qualcosa in un libro, da qualche parte.» «Mi diventi il primo della classe. In effetti questa galleria è stata scavata da una TBM, e da una molto grande.» «Forse le rotaie verranno sostituite in un secondo momento», azzardò Giordino. «Non ha senso aspettare che l'intero tunnel sia terminato. I tecnici che mettono in opera le rotaie devono seguire da vicino la talpa, altrimenti si perde troppo tempo.» Pitt scuoteva la testa, con aria pensierosa. «Una galleria di queste dimensioni non può essere destinata al traffico ferroviario. Deve esserci un altro scopo.» In quel momento un autobus a due piani color lavanda passò silenziosamente lì vicino e il conducente li salutò con la mano. I due amici si voltarono, facendo finta di discutere di qualcosa scritto sulla tabella di Giordino. All'interno vi erano operai che indossavano tute di diversi colori simili a quelle dei paracadutisti, caschetti e, stranamente, occhiali da sole. Pitt e Giordino videro inoltre che sulla fiancata dell'autobus c'erano il nome ODYSSEY e il logo a forma di cavallo. Il conducente rallentò, non sapendo se volevano salire, ma Pitt gli fece segno di no. «Anche questo è elettrico», osservò Giordino. «Per non avere problemi con gli scarichi dello scappamento.» Giordino si avviò verso due cart da golf a batteria che sembravano piccole macchine sportive. «Guarda che gentili! Ci hanno fornito un mezzo di trasporto.» Si mise al volante di uno e fece salire l'amico al suo fianco. «Dove andiamo?» Pitt rifletté un istante. «Seguiamo il nastro trasportatore nella direzione di marcia. Potrebbe essere l'unica occasione per confermare che si tratta
veramente dell'origine della melma.» Il tunnel sembrava non finire mai. Per quanto si vedeva, il traffico viario era limitato al trasporto degli operai, mentre la ferrovia era destinata alle merci. Sul cruscotto del cart c'era un indicatore di velocità e Pitt poté calcolare quella del nastro trasportatore. Andava addirittura a quasi venti chilometri all'ora. Guardando verso la volta, Pitt constatò che, dopo il passaggio della talpa, gli operai l'avevano rinforzata con una serie di bulloni da roccia che avevano favorito la naturale tendenza della roccia a ricompattarsi. Poi, con un'apposita macchina pneumatica, era stato spruzzato uno strato di gunite, convogliata lungo la galleria da pompe ausiliarie installate a distanza regolare dall'ingresso fino a dove si stava ancora scavando. A quel punto, avevano probabilmente iniettato della malta liquida pressurizzata per sigillare eventuali infiltrazioni d'acqua dall'alto. Oltre ad assicurare l'impermeabilizzazione esterna, malta e gunite avrebbero permesso un facile scorrimento dell'acqua all'interno, cosa che Pitt iniziava a vedere come una concreta possibilità. Le lampade sulla volta illuminavano la galleria con una luce talmente forte da ferire gli occhi. Adesso si capiva perché gli operai portavano gli occhiali da sole. Senza dire una parola, come se si fossero programmati in anticipo, Pitt e Giordino li indossarono nello stesso istante. Passò una locomotiva elettrica che tirava una serie di vagoni a pianale caricati con ceste di bulloni da roccia. Era diretta verso il punto in cui si stava scavando. Gli operai a bordo del treno salutarono con la mano i due uomini sul cart, che risposero nello stesso modo. «Sono tutti grandi amici, da queste parti», osservò Giordino. «Hai notato che gli uomini indossano tute nere, mentre le donne le hanno bianche o verdi?» «Lo Spettro deve essere stato un decoratore d'interni, in una vita precedente.» «È probabilmente un modo per distinguere i vari livelli gerarchici», rifletté Pitt. «Piuttosto che vestire in lavanda mi faccio tagliare un orecchio», mormorò Giordino, rendendosi conto all'improvviso di non avere il colore giusto. «Credo di non essere in tono.» «Imbottisciti il petto.» Giordino lanciò a Pitt uno sguardo tagliente che diceva più di qualsiasi parola.
L'amico lo ricambiò con un'occhiata innocente. «Mi chiedo se questi minatori hanno un'idea della tossicità di quel fango che riversano nell'oceano.» «Ce l'avranno quando i loro capelli inizieranno a cadere e gli organi interni a sfasciarsi», dichiarò Giordino. Proseguirono in quell'atmosfera irreale a molti metri sotto la superficie della terra e del mare. La loro curiosità fu stuzzicata da diversi passaggi laterali che si aprivano a distanza regolare sulla sinistra. Sembravano portare a una galleria parallela, che Pitt ritenne essere un tunnel di servizio per le canalizzazioni elettriche. «Ecco spiegati i lievi terremoti della superficie», annunciò Pitt. «Queste gallerie più piccole devono essere state aperte con martelli pneumatici ed esplosivi.» «Dobbiamo andare a dare un'occhiata?» «Più tardi», rispose Pitt. «Adesso continuiamo a seguire il nastro trasportatore e il suo carico.» Giordino si stupì della velocità che il cart poteva raggiungere. Riuscì a portarlo a ottanta chilometri orari e a superare gli altri veicoli presenti sulla carreggiata. «Meglio rallentare», lo ammonì Pitt. «Non dobbiamo destare sospetti.» «Pensi che ci siano controllori del traffico, qui sotto?» «No, ma il grande fratello ci guarda», ribatté Pitt, indicando con un leggero movimento del capo una telecamera fissata a una delle lampade. Giordino ridusse la velocità, anche se controvoglia, e si mise dietro uno degli autobus che procedevano nella loro direzione. Pitt iniziò a calcolare la frequenza di quei veicoli. Si rese conto ben presto che passavano ogni venti minuti e si fermavano nei punti in cui c'erano operai che chiedevano di salire o di scendere. Guardò le lancette dell'orologio. Era solo una questione di tempo: prima o poi i tecnici del turno successivo avrebbero scoperto i loro colleghi legati sul pavimento della postazione di controllo. Fino a quel momento, però, non erano scattati allarmi, né si erano viste guardie addette alla sicurezza che cercavano qualcuno. «Stiamo arrivando a qualcosa», avvisò Giordino. Un sordo rumore battente divenne sempre più forte a mano a mano che si avvicinavano a quella che Pitt identificò come una gigantesca stazione di pompaggio. La roccia ridotta a sabbia veniva fatta cadere dal nastro in un mostruoso bidone e poi convogliata in enormi condutture da pompe grandi come edifici a tre piani. A conferma della teoria di Pitt, il fango
contaminato veniva poi spinto in mare formando degli accumuli come quello in cui la Poco Bonito si era incagliata. Oltre la stazione di pompaggio c'erano gigantesche porte d'acciaio. «Il mistero s'infittisce», disse Pitt pensieroso. «Queste pompe sono monumentali, potrebbero estrarre dieci volte tanto materiale di quello che pompano adesso. Devono servire a qualcos'altro.» «Verranno probabilmente smantellate una volta che la galleria sarà finita.» «Non credo. Sembrano permanenti.» «Mi chiedo che cosa ci sia oltre quelle porte», disse Giordino. «I Caraibi», rispose Pitt. «Dobbiamo essere a diverse miglia dalla costa e parecchio sotto la superficie del mare.» Giordino non staccava gli occhi dalle porte. «Come diavolo hanno fatto a realizzare tutto questo?» «Hanno iniziato con uno scavo a cielo aperto sulla spiaggia, dove hanno creato una sorta d'ingresso. La prima parte della galleria è stata scavata con una macchina più piccola, un 'apripista' che ha permesso di arrivare a una determinata profondità. Qui è stata poi trasportata, pezzo per pezzo, la grande TBM, poi rimontata sul posto. Hanno proceduto verso est, sotto il mare, e poi l'hanno smontata e rimontata dall'altra parte per scavare verso ovest.» «Come hanno fatto a tenere segreta una simile operazione?» «Comprando il silenzio di minatori e ingegneri con grosse somme di denaro, o forse minacciandoli e ricattandoli.» «Secondo Rathbone, non esitano a uccidere gli intrusi. Perché non anche gli operai con la lingua troppo lunga?» «Non farmi pensare agli intrusi. Comunque, i miei sospetti sono confermati», disse Pitt lentamente. «Un'operazione di inquinamento che fa impallidire tutte le altre verificatesi finora.» Estrasse dallo zaino una piccola macchina fotografica digitale e iniziò a riprendere le operazioni di pompaggio. «Per caso, il tuo magico kit di sopravvivenza contiene anche del cibo e qualcosa da bere?» volle sapere Giordino. Pitt rimise la mano nello zaino e trovò un paio di barrette energetiche. «Mi spiace, questo è tutto quello che ho.» «Che cos'altro hai lì dentro?» «La mia fidata Colt 45.» «Bene, così potremo spararci prima di finire impiccati», sentenziò Gior-
dino in tono cupo. «Abbiamo scoperto quello per cui siamo venuti. È tempo di rientrare alla base.» Non aveva ancora finito la frase che Giordino stava già premendo sull'acceleratore. «Prima siamo fuori di qui, meglio è. Finora ci è andata fin troppo bene.» Sulla strada del ritorno, Pitt continuò a scattare fotografie a ogni particolare della costruzione, senza tralasciare nessun impianto né apparecchiatura. «Ancora una piccola deviazione; voglio vedere che cosa c'è in quei passaggi laterali.» Mentre accelerava, Giordino si rese conto che Pitt aveva ben altro in mente. Avrebbe scommesso qualsiasi cifra sul fatto che l'amico volesse andare fino all'altra estremità della galleria e vedere la talpa in azione. Al primo passaggio laterale, Giordino voltò a destra senza rallentare, sbandando su due ruote. Pitt si aggrappò e non parlò, limitandosi a lanciare all'amico uno sguardo irritato. Avevano percorso meno di cinquanta metri, quando entrarono in un'altra galleria, fermandosi di colpo. Non riuscivano a credere ai loro occhi. «Stupefacente», mormorò Giordino quasi senza fiato per lo stupore. «Non fermarti», ordinò Pitt. «Vai avanti.» Giordino obbedì ed entrò a tutta velocità in un altro passaggio laterale. Senza esitare, e senza aspettare l'invito di Pitt a proseguire, non tolse il piede dall'acceleratore finché non sbucarono, attraverso un ulteriore passaggio, in una quarta galleria. Lì dovette frenare prima di schiantarsi contro la parete. Rimasero immobili per qualche minuto, con lo sguardo perso intorno a loro, cercando di capacitarsi dell'immensità di ciò che vedevano. Le mostruose proporzioni di quel sistema di gallerie divennero ancor più sorprendenti quando Pitt e Giordino, attoniti e increduli, dovettero accettare il fatto che non c'era una sola immensa galleria, ma quattro, tutte della stessa dimensione e connesse fra loro. Lo stesso Giordino, che non si stupiva con facilità, non poté che provare un senso d'impotenza. «Non può essere vero», disse, con appena un filo di voce. Pitt si fece forza, cercando di sgombrare la mente dallo shock di quella visione per tornare a concentrarsi. Doveva esserci una spiegazione per quell'impresa titanica. Com'era stato possibile che lo Spettro avesse costruito quattro immani gallerie sotto le montagne del Nicaragua senza che i servizi segreti internazionali o i media fossero venuti a saperlo? Come a-
veva fatto un simile progetto a passare inosservato per quattro anni? «Quante ferrovie vuol far passare lo Spettro qui sotto?» mormorò Giordino, sconcertato. «Non sono gallerie concepite per il trasporto merci su ferrovia», rifletté Pitt. «Forse sono per il trasporto di barconi?» «Troppo costoso. Deve esserci un altro scopo dietro tutto questo.» «Deve esserci una pentola d'oro colossale alla fine di questo arcobaleno, altrimenti non si giustifica l'investimento.» «Il costo dell'operazione si può facilmente valutare in ben più dei sette miliardi di dollari stimati.» Le voci rimbombavano sulle pareti dell'enorme galleria che era del tutto vuota di uomini e veicoli. Se non fosse stato per la volta perfetta e liscia, avrebbero detto di trovarsi in un'immane caverna. Pitt abbassò la testa per osservare il pavimento. «Tutto questo per un rapido sistema di trasporto merci. Non ci sono più le rotaie.» Giordino accennò con il capo a una telecamera di sicurezza montata su un palo che era puntata su di loro. «Faremmo meglio a tornare in fretta nel tunnel principale e trovare un altro mezzo di trasporto. Questo cart è ormai troppo conosciuto.» «Hai ragione», convenne Pitt. «Se non sono completamente imbecilli, dovrebbero ormai aver capito di avere degli intrusi in casa.» Tornarono sui loro passi attraverso le tre gallerie vuote e raggiunsero la quarta, da dove erano partiti. Parcheggiarono il cart nel passaggio laterale, dietro una telecamera di sicurezza, e si avviarono a piedi con aria indifferente lungo la strada, sino a una fermata dove otto minatori stavano aspettando l'autobus. A quella breve distanza, Pitt poté vederne gli occhi attraverso gli occhiali da sole. Erano tutti asiatici. Fece un segno a Giordino, che recepì il messaggio. «Dieci a uno che provengono dalla Repubblica popolare cinese», sussurrò Pitt. «Non accetto la scommessa.» Era appena arrivato l'autobus a due piani, quando un gruppo di cart con luci rosse e gialle lampeggianti sfrecciò al loro fianco infilandosi nel passaggio laterale da cui erano usciti poco prima. «Quando troveranno il cart, ci metteranno dieci secondi a capire che siamo sull'autobus», disse Giordino. Pitt seguiva con gli occhi un treno che stava arrivando dal lato est della
galleria. «È esattamente quello che penso anch'io.» Alzò un braccio e fece segno al conducente dell'autobus di proseguire con i minatori che erano saliti. Le porte si chiusero con un sibilo e il veicolo proseguì la sua corsa. «Quand'è stata l'ultima volta che sei salito su un treno merci in corsa?» chiese Pitt a Giordino, mentre, dopo aver attraversato in tutta fretta la strada, facevano finta di conversare per non insospettire l'ingegnere che leggeva una rivista nella cabina della locomotiva. «Molti anni fa, nel Sahara. Il treno era quello che trasportava sostanze chimiche tossiche verso Fort Foureau.» «Se ben ricordo, sei quasi caduto.» «Detesto quando mi prendi in giro», disse Giordino, con una smorfia di disapprovazione. Nell'istante in cui la locomotiva li superò, scattarono lungo le rotaie. Pitt aveva già calcolato che il treno procedeva a trentadue chilometri orari e stabilito a quale velocità dovevano correre. Giordino era veloce per la sua taglia. Abbassò la testa e inseguì un vagoncino come se stesse caricando un avversario di football che stava andando in meta. Afferrò la scaletta mentre passava e, senza mollare, venne in pratica scaraventato sul pianale. Anche Pitt sfruttò la velocità del treno per farsi tirare a bordo. Sui pianali di carico dei vagoni c'erano due pick-up di marca sconosciuta ad alimentazione elettrica. Erano decisamente nuovi, forse appena sbarcati da una nave. Senza scambiarsi una parola, Pitt e Giordino spalancarono una delle portiere e s'infilarono nella cabina di uno dei due, accucciandosi sotto il parabrezza e il cruscotto. Non avrebbero potuto essere più tempestivi, perché proprio in quel momento due auto della sicurezza passarono a sirene spiegate e luci lampeggianti di fianco al treno, all'inseguimento dell'autobus. Pitt sembrava soddisfatto. «Le telecamere non devono aver scoperto il nostro piccolo trucco, altrimenti le guardie avrebbero puntato il treno invece dell'autobus.» «Era tempo di avere un po' di fortuna.» «Non ti muovere», disse Pitt. «Torno subito.» Aprì lo sportello dal lato del treno che non dava sulla strada e si abbassò sulle ginocchia. Strisciando verso la parte posteriore del veicolo, tolse i blocchi e le catene che fissavano il camioncino al vagone, poi ritornò di corsa all'interno. Giordino lo guardava perplesso. «Vedo quello che hai in mente e non riesco a capire come possiamo condurre questo aggeggio giù da un treno in
corsa e lungo un tunnel che è chiuso alle due estremità.» «Ci preoccuperemo di questo quando sarà il momento», ribatté Pitt, in tutta calma. Non c'era niente al mondo che assomigliasse a una grande TBM. La talpa che aveva scavato le gallerie sotto il Nicaragua dalla costa atlantica a quella del Pacifico superava i cento metri di lunghezza, cui si dovevano sommare i novanta dell'attrezzatura di back-up. Era una sorta di mostro incredibilmente complesso, simile al primo stadio di un missile interstellare, alimentato da un motore elettrico a velocità variabile che eliminava ogni problema di perdite di benzina e di inquinamento. La TBM dello Spettro frantumava intere falde di roccia sedimentaria con la rotazione di una serie di frese al carburo montate su un possente scudo-testa che poteva aprire nella roccia più dura un foro di quindici metri e sessanta centimetri di diametro al ritmo di quarantacinque metri al giorno. Nel corpo principale che conteneva lo scudo-testa fresante c'erano anche i motori che fornivano l'enorme spinta necessaria per far penetrare le lame nella roccia, nonché le presse idrauliche che esercitavano l'immane pressione che permetteva alla macchina di sgretolare qualsiasi parete. La talpa era anche articolata e l'operatore, sistemato nella parte anteriore, poteva automaticamente farla girare a mezzo di un laser senza mai perdere di vista ciò che stava accadendo. Il materiale scavato veniva trasportato nella parte posteriore della macchina e sgretolato da un apposito dispositivo che riduceva la roccia in sabbia. Poi, il nastro trasportatore lo convogliava all'altra estremità della galleria dove veniva pompato in mare. Il treno si fermò a centottanta metri dalla TBM sotto il nastro trasportatore, in prossimità di un deposito di merci. Lì, una serie di montacarichi saliva verso la volta e scompariva oltre quella. Un gruppo di donne in tuta bianca scese da uno degli ascensori e salì su un autobus. Pitt si protese verso di loro e sentì dire che l'ispezione doveva terminare entro otto ore, per poi inviare un rapporto di sopra, al quartier generale. Non aveva nessun senso. Quartier generale? Dove, di sopra? Nessuno sembrò far caso al camioncino che scendeva dal vagone sulla banchina e raggiungeva, lungo una rampa, la carreggiata, sterzando per allinearsi a una fila di altri tre veicoli elettrici. Giordino osservò la zona, dove almeno trenta minatori indaffarati si sta-
vano occupando delle varie attrezzature. «È stato troppo facile.» «Non siamo ancora a casa», obiettò Pitt. «Dobbiamo ancora trovare una via d'uscita.» «Possiamo sempre trovare un'altra torre di aerazione.» «No, se siamo sotto il lago di Nicaragua.» «Che ne dici di quella da cui siamo venuti?» «Penso che non possiamo più contarci.» Giordino era intento a osservare la grande talpa al lavoro. «Bene, maestro, qual è la prossima mossa?» «Non possiamo scappare da questa galleria perché non è ancora completata. La nostra unica speranza è di sgattaiolare sulla costa del Pacifico da una torre di aerazione di uno degli altri tunnel.» «E se non fosse possibile?» «Allora ci vorrà un altro piano.» Giordino indicò la banchina ferroviaria, dove alcune guardie stavano controllando i pass dei minatori. «È tempo di filarcela. Non collimiamo con le descrizioni dei documenti.» Pitt prese il pass attaccato alla tasca sul petto della sua tuta e lo guardò divertito. «Sono nei guai. Questo tipo è alto un metro e cinquanta; ci sono circa quaranta centimetri di differenza.» «Io sto peggio di te», disse Giordino con un sorriso appena accennato. «Dove trovo questi capelli lunghi e biondi e un paio di belle tette?» Pitt aprì la portiera e scrutò tutta la banchina di carico, che in quel momento era deserta. «Di qua.» Giordino scivolò sul sedile e usci dalla stessa parte, dietro l'amico. Attraversarono la banchina camminando carponi e poi corsero fino alla porta di un magazzino. Sgattaiolando fra casse di pezzi di ricambio per i vari macchinari e la TBM, trovarono un passaggio sul retro che li riportò all'esterno, lungo le rotaie. Si fermarono dietro una fila di WC portatili e ne approfittarono. «Potrebbero servire se dovessimo trasportare qualcosa», disse Giordino, arricciando il naso con aria disgustata. «Spero che sarà così», replicò Pitt con un largo sorriso. Senza aspettare l'amico, si alzò, aggirò l'ostacolo e si trovò per caso vicino a un veicolo della sicurezza che era rimasto incustodito. Si mise al volante, azionò l'avviamento del motore elettrico e pigiò sull'acceleratore, mentre Giordino saltava a bordo dal lato opposto. L'energia elettrica delle batterie raggiunse il differenziale e poi le ruote, e il veicolo si mosse silen-
ziosamente. La fortuna di Pitt reggeva. Le guardie erano così intente a controllare i minatori che non notarono il furto della loro auto. Il frastuono della talpa in funzione non solo coprì il lieve ronzio del motore del veicolo, ma anche le voci degli operai che cercavano di richiamare la loro attenzione su quanto stava accadendo. Per rendere la cosa più verosimile, Giordino cercò sul cruscotto l'interruttore delle luci lampeggianti del tetto e le azionò. Non appena raggiunsero uno dei passaggi laterali, Pitt svoltò a tutta velocità a sinistra e poi ancora a sinistra, dirigendosi lungo uno dei tunnel principali verso l'estremità ovest. Riteneva che le quattro gallerie passassero sotto il lago di Nicaragua e sbucassero in quella stretta fascia di terra che separava lo specchio d'acqua dall'oceano, nel punto in cui si trovava il vecchio porto di San Juan del Sur. Lì, prima che i tunnel proseguissero oltre la spiaggia, dovevano trovarsi dei ventilatori. Ma Pitt si sbagliava. Dopo aver guidato per molti chilometri, arrivarono a una stazione di pompaggio simile a quella vista sul lato est. E, come nell'altro caso, due immani porte d'acciaio chiudevano l'apertura. I rivoli d'acqua che passavano dalle fessure erano la prova che non erano arrivati sotto San Juan del Sur, ma svariate miglia al largo, sotto l'oceano Pacifico. Erano in un vicolo cieco. 30 Dopo la consueta corsa mattutina dal suo appartamento a Watergate alla sede della NUMA, l'ammiraglio Sandecker si diresse nel suo ufficio senza passare dalla palestra del centro per la doccia e il cambio d'abito. Rudi Gunn lo aspettava, con un'espressione corrucciata. Osservò attraverso gli occhiali con la montatura di tartaruga l'ammiraglio che si sedeva alla scrivania. Sandecker si deterse il sudore sul volto e sul collo con un asciugamano. «Ci sono notizie di Pitt e Giordino?» «Niente da otto ore.» Gunn era a disagio. «Nessuna notizia da quando sono entrati in quella che hanno descritto come una torre di aerazione che portava a una galleria sotterranea. Secondo Pitt il tunnel in questione passava sotto la giungla del Nicaragua collegando il Pacifico al mar dei Ca-
raibi.» «Proprio nessun contatto?» «Silenzio assoluto», rispose Gunn. «Impossibile comunicare per telefono, perché sono sottoterra.» «Un tunnel da mare a mare», mormorò Sandecker, perplesso. Gunn annuì appena. «Pitt ne era certo. Ha riferito che la società di costruzione è la Odyssey Corporation.» «Odyssey?» Sandecker rivolse a Gunn uno sguardo fisso. «Ancora?» Gunn rispose con un cenno affermativo. «Sembrano spuntare come funghi.» Sandecker si alzò dalla scrivania e fissò il Potomac oltre la finestra. Riusciva a vedere le vele rosse ripiegate della sua piccola goletta attraccata sul fiume. «Non so niente di un tunnel scavato sotto il Nicaragua. C'erano state voci della costruzione di una ferrovia sotterranea per trasportare le merci su treni ad alta velocità. Ma è stato diversi anni fa e, per quel che ne so, non se ne è fatto niente.» Gunn aprì un rapporto, estrasse diverse foto e le dispose sulla scrivania dell'ammiraglio. «Queste sono foto satellitari scattate nell'arco di diversi anni sul piccolo porto di San Juan del Norte.» «Da dove vengono?» chiese l'ammiraglio, interessato. Gunn sorrise. «Hiram Yaeger ha scartabellato fra i vari data base dei servizi segreti e le ha immesse nei file della NUMA.» Sandecker si sistemò gli occhiali sul naso e iniziò a esaminare i fotogrammi, soffermandosi sulle date stampate sul bordo inferiore. Dopo qualche minuto, alzò gli occhi. «Cinque anni fa, il porto sembrava deserto. Oggi si è trasformato in un'attrezzata stazione marittima in grado di ricevere navi portacontainer.» «Si nota pure che tutti i rifornimenti e le attrezzature vengono immediatamente spostati nei magazzini prefabbricati e da lì non escono più.» «È incredibile che una simile operazione sia passata inosservata così a lungo.» Gunn posò un altro rapporto sulla scrivania, di fianco alle foto. «Yaeger è anche riuscito a procurarsi questa documentazione sui progetti e sulle operazioni di Odyssey. Si può solo avere un'idea approssimativa della situazione finanziaria. La sede della società è in Brasile e in quel Paese non c'è obbligo di depositare i bilanci.» «Che cosa mi dice degli azionisti? Almeno loro dovrebbero ricevere i rapporti annuali.» «La società non è quotata in nessuna delle borse internazionali, perché
l'unico proprietario è lo Spettro.» «Potrebbe aver finanziato un simile progetto da solo?» chiese Sandecker. «Per quanto ci è dato di sapere, ne ha la possibilità. Ma Yaeger crede che in questo caso, trattandosi di un affare colossale, ci sia di mezzo la Repubblica popolare cinese, che già in passato ha finanziato lo Spettro in alcuni progetti nel Centro America.» «Tutto questo ha una logica. I cinesi stanno investendo parecchio in quella regione per crearsi una zona d'influenza.» «Un altro fattore che ha richiesto una tale segretezza è stato la necessità di evitare qualsiasi critica sull'impatto ambientale, economico e sociale di una simile operazione. Senza un progetto ufficiale, qualsiasi protesta da parte dei gruppi attivisti dell'opposizione nicaraguense o di altre fazioni è stata ignorata dal governo locale.» «Ci sono altri progetti comuni fra lo Spettro e la Repubblica cinese?» «La costruzione di impianti portuali alle due estremità del canale di Panama e un ponte sopra lo stesso canale, che dovrebbe essere pronto agli inizi dell'anno prossimo.» «Ma, anche in questo caso, perché tenere tutto segreto?» mormorò Sandecker, mentre tornava a sedersi. «Che cosa ci guadagna Odyssey?» Gunn alzò le mani per dichiarare la sua impotenza. «In attesa di ulteriori indagini, rimaniamo completamente al buio su questa cosa.» «Non possiamo certo restare a guardare senza intervenire.» «Dobbiamo informare i servizi segreti e il Pentagono dei nostri sospetti?» chiese Gunn. Sandecker rimase assorto nei suoi pensieri per qualche istante, poi disse: «No, andremo direttamente dal consigliere per la sicurezza nazionale». «Sono d'accordo», convenne Gunn. «Sembra una situazione davvero seria.» «Dannazione!» esplose Sandecker, esprimendo la sua frustrazione. «Se solo sapessimo qualcosa da Pitt e Giordino, avremmo un'idea di che cosa sta succedendo là sotto.» Nel punto in cui si trovavano, Pitt e Giordino non avevano altra scelta che quella di girare il veicolo e ritornare in gran fretta da dove erano venuti. L'ultima delle quattro gallerie era deserta e priva di qualsiasi attrezzatura, così vuota da non sembrare una creatura dell'uomo. Solo le pompe alle due estremità, innaturalmente silenziose, erano la prova di uno scopo na-
scosto che Pitt non riusciva davvero a immaginare. La cosa più strana era che, in quel tunnel vuoto e scuro, non erano stati seguiti da nessuna auto della sicurezza a sirene spiegate. Anche le telecamere erano state tolte quando il lavoro era stato terminato. La risposta non tardò a rivelarsi. «Ora capisco perché le guardie non hanno fretta d'inseguirci», osservò Giordino tranquillamente. «Perché da qui non possiamo fuggire», terminò Pitt per lui. «La nostra piccola avventura fuori programma è arrivata alla fine. Tutto quello che le guardie dello Spettro devono fare è prenderci per fame e per sete. Poi ci accoglieranno a braccia aperte nella galleria principale, dove ci concederanno un ultimo pasto prima d'impiccarci.» «Preferiranno lasciarci marcire qui.» «È probabile.» Pitt si passò l'avambraccio sulla fronte per detergere il sudore che all'improvviso aveva cominciato a colargli sugli occhi. «Hai notato che la temperatura in questa galleria è decisamente più alta che nelle altre?» «Sembra di essere in un bagno turco», confermò Giordino, con il volto lucido di sudore. «L'aria sa di zolfo.» «A proposito di fame. Come stiamo a barrette energetiche?» «Finite. Dobbiamo continuare a cercare le torri di aerazione, se vogliamo uscire di qui.» L'espressione di Giordino divenne immediatamente seria. «Forse non è possibile trovare una via d'uscita da questa parte. Non ho visto nessuna postazione di controllo sopraelevata nelle altre gallerie.» «Potrebbero essere state rimosse con le rotaie e l'illuminazione; le aperture sono state probabilmente sigillate perché non era più necessario eliminare i residui inquinanti degli scavi.» «È vero, ma i pioli della scaletta erano conficcati nelle pareti della galleria. Scommetto la paga del mese prossimo, se vivo abbastanza da poterla ricevere, che non si sono dati la pena di toglierli.» «Lo sapremo presto», disse Pitt, mentre Giordino, che era passato alla guida, premeva sull'acceleratore e ripartiva con i fari accesi, illuminando l'oscurità. Dopo circa trenta chilometri, Giordino vide dei pioli che salivano lungo una parete e posteggiò l'auto a circa dieci metri per illuminare una zona più ampia. «Arrivano fino al punto in cui doveva esserci la. postazione di con-
trollo», disse, sfregandosi la barba non rasata sulle guance e sul mento. Pitt scese dal veicolo e iniziò a salire. Era passato più o meno un anno dal completamento della galleria e dalla rimozione di tutta l'attrezzatura. I pioli erano scivolosi a causa dell'umidità e macchiati di ruggine. In cima, trovò una sorta di coperchio in ferro che probabilmente chiudeva la botola di accesso alla soprastante torre. C'era un chiavistello che lo attraversava da parte a parte. Passando un braccio intorno a un piolo per sostenersi, Pitt afferrò il chiavistello con entrambe le mani e tirò. Si sfilò senza molta resistenza. Poi Dirk si piegò su un lato, appoggiò una spalla al coperchio e spinse verso l'alto. Si mosse di appena un millimetro. «Dobbiamo spingere insieme», urlò a Giordino. Giordino salì fino a un piolo sopra quello su cui era appoggiato Pitt, per compensare la differenza di altezza. Era la potenza del lupo unita a quella dell'orso. Con le spalle appoggiate sul coperchio di metallo, impiegarono tutta la forza che avevano a disposizione nel tentativo di aprirlo. Ma la resistenza era notevole e, anche in due, non riuscirono a spostarlo di più di un paio di centimetri. «Cocciuto bastardo», brontolò Giordino. «Almeno si è mosso, il che significa che non è saldato», replicò Pitt. Giordino ringhiò mostrando tutta la sua grinta. «Riproviamo. Dobbiamo assolutamente spostare questo bastardo!» «Al mio tre.» Si guardarono negli occhi e poi annuirono. «Uno», disse Pitt, «due, treeeeeeee.» I due uomini spinsero verso l'alto con ogni briciola di energia residua. Dapprima il coperchio resistette, ma poi iniziò a cedere e, infine, si aprì di colpo producendo un suono metallico mentre sbatteva contro la parete della torre. Verso l'alto si apriva un'inquietante cavità nera con una scaletta su un lato che pareva portare fino al cielo. «Mi chiedo dove sbuchi», mormorò Giordino, respirando affannosamente. «Non ne ho idea, ma presto lo scopriremo.» Pitt stava per iniziare la salita, quando Giordino gli prese il braccio per trattenerlo. «Aspetta. Se per caso gli scagnozzi dello Spettro ci cercassero da queste parti, sarà meglio dar loro qualcosa da inseguire.» Ridiscese nella galleria e montò sul veicolo delle guardie che avevano
rubato. Si sfilò la cintura e legò il volante in modo che le ruote rimanessero dritte. Poi tolse il sedile anteriore e lo sistemò in modo che pigiasse sull'acceleratore. A quel punto, avviò l'auto e si ritrasse. Il veicolo partì a tutta velocità lungo la galleria, con i fari che disegnavano strani motivi nell'oscurità. Dopo neanche un chilometro di folle corsa, cozzò contro una parete del tunnel, si ribaltò sul fianco opposto e fu sbalzato da una parte all'altra con un efficace stridore di lamiere accartocciate che sicuramente fu udito anche in lontananza. «Chissà come farà lo Spettro a spiegarlo al suo assicuratore», osservò Giordino. Quando si voltò, Dirk stava già salendo lungo la torre. La tensione e lo stress delle ultime ore avevano irrigidito i muscoli di Pitt come cavi d'acciaio. Lui stesso si stupiva di ciò e saliva lentamente, cercando di risparmiare le forze. La quasi totale oscurità lo rendeva un po' claustrofobico e, per distrarsi, iniziò a contare i pioli, fermandosi ogni cinquanta per riprendere fiato. Erano a trenta centimetri l'uno dall'altro, perciò, con una semplice operazione, si poteva risalire alla distanza percorsa in salita. Al confronto, la discesa da El Castillo fino alla postazione di controllo, favorita dalla forza di gravità, era stata una passeggiata. Al piolo trecentocinquanta Pitt si fermò ad aspettare Giordino. «Ma non finiscono mai», disse quest'ultimo tra un affanno e l'altro, quando arrivò. «Guarda un po'», mormorò Dirk, respirando a fatica, «c'è una luce in fondo al pozzo.» Giordino alzò lo sguardo e vide un lieve bagliore molto più in alto. Sembrava ci fossero altri venti chilometri da scalare. «Non c'è modo di farlo avvicinare?» «Spera solo che non si allontani.» Proseguirono, sempre più colpiti da quell'atmosfera irreale. Il bagliore in cima s'intensificava a ogni passo, anche se con scoraggiante lentezza. A un certo punto, i pioli, intrisi dall'acqua che gocciolava dalle pareti, furono del tutto ricoperti da una ruggine simile a carta vetrata, che ferì le mani dei due uomini impegnati nella salita. Finalmente, il bagliore divenne una vera luce e la vicinanza dell'uscita diede loro un nuovo vigore. Pitt salì due pioli alla volta, dando fondo alle forze residue per percorrere gli ultimi metri. Con uno sforzo che lo portò sull'orlo del cedimento, riuscì infine a issarsi nella gabbia di rete metallica che copriva l'apertura della torre. Lì rimase immobile, ansimando come un mantice, con il sangue che gli scorreva sulle dita. «Fatto», disse in un rantolo.
Giordino arrivò poco dopo. «Non so se riesco a tagliare un'altra volta questo affare», biascicò tra un affanno e l'altro. Non appena la fatica e i dolori si furono attenuati, Pitt prese le cesoie dallo zaino e con grande sforzo iniziò ad attaccare la rete. «Faremo a turno, dandoci il cambio quando non ce la facciamo più.» Pitt tagliò solo pochi centimetri; poi non riuscì più a chiudere le mani sulle cesoie. Si scostò e le passò a Giordino che, a causa del sangue delle ferite, le fece quasi cadere. Mentre Pitt tratteneva il fiato, l'altro riuscì a riprenderle prima che scomparissero nell'oscurità sottostante. «Tienile strette», lo apostrofò Pitt, con un sorriso beffardo. «Non vorrai rifarti tutta la salita.» «Preferisco morire», mormorò Giordino con coraggio. Tagliò per circa dieci minuti prima di farsi sostituire dall'amico. Ci volle quasi un'ora di lavoro di entrambi prima che riuscissero ad aprirsi un varco. Una volta fuori, la luce del sole, fino a quel momento attenuata dalla rete, colpì con violenza gli occhi di Pitt, ormai abituati al buio. Dopo aver indossato gli occhiali scuri, si guardò intorno e scoprì di essere in una stanza con le pareti interamente di vetro. Mentre Giordino spuntava dall'apertura, Pitt fece il giro della camera e scoprì di avere una spettacolare vista a 360 gradi su un immenso lago e sulle isole circostanti. «Dove siamo sbucati?» chiese Giordino. Pitt si voltò e lo guardò con un'espressione stupita. «Non ci crederai, ma siamo in cima a un faro.» «Un faro!» ripeté Sandecker, altrettanto stupito, quando Pitt glielo disse al telefono. La voce tradiva la gioia di sentire che i suoi collaboratori erano sani e salvi. «Sì, signore», replicò Pitt dall'altra parte del satellitare. «È una specie di capriccio dello Spettro.» «Un capriccio?» «Sembrano le rovine di un'antica fortificazione o di un edificio storico», spiegò Gunn che, abbassandosi verso il ricevitore, si rivolse agli amici. «State dicendo che il faro è stato costruito per nascondere una torre di aerazione che si collega alle gallerie?» «Proprio così», rispose Pitt. Sandecker fece rotolare uno dei suoi sigari fra le dita. «È una storia incredibile.»
«Ma del tutto vera», ribatté Dirk. «Una TBM che può perforare la roccia al ritmo di un chilometro e mezzo al giorno!» «Il che spiegherebbe come lo Spettro sia riuscito a scavare quattro immense gallerie lunghe circa duecentoquaranta chilometri l'una in quattro anni.» «Ma se non servono per una ferrovia», riprese Gunn, «quale sarebbe il loro scopo?» «Né Al né io riusciamo ancora a capire la vera ragione di tutta questa operazione. Le pompe alle estremità sembrano indicare che debba essere risucchiata dell'acqua all'interno, ma tutto ciò non ha molto senso.» «Ho fatto mettere in forma scritta il vostro rapporto», li informò Sandecker, «e lo passerò a Yaeger perché elabori delle supposizioni in attesa del vostro arrivo e di un rapporto più dettagliato.» «Ho scattato anche delle foto in digitale.» «Bene, avremo bisogno anche della più piccola prova.» «Dirk?» intervenne Gunn. «Sì, Rudi?» «Vi ho rintracciato. Siete a soli cinquanta chilometri da San Carlos. Vi mando un elicottero. Dovreste avvistarlo sopra il faro fra circa due ore.» «Possiamo permetterci di aspettare questo tempo prima di lavarci e consumare un pasto decente.» «Non ci sarà tempo per questi trastulli», s'inserì Sandecker. «L'elicottero vi porterà dritti a Managua, dove un jet della NUMA vi aspetta. Vi laverete e mangerete quando sarete qui.» «Lei è un vero duro, ammiraglio.» «Cerchi d'imparare da me, allora», replicò Sandecker, con un sorriso compiaciuto. «Potrebbe prendere il mio posto, un giorno.» Mentre chiudeva la comunicazione, Pitt si chiese che cosa l'ammiraglio avesse voluto dirgli con le ultime parole. Si sedette vicino a Giordino, che sonnecchiava, e cercò un modo per informare l'amico che non avrebbe mangiato di lì a breve. 31 Dopo aver terminato di parlare con Pitt, Sandecker attese pazientemente che Gunn organizzasse il recupero in elicottero. A quel punto i due uomini uscirono dall'ufficio dell'ammiraglio e scesero nella sala conferenze al pia-
no di sotto, dove Sandecker aveva indetto una riunione per discutere dei ritrovamenti celtici del Banco de la Navidad. Intorno al grande tavolo ovale in tek c'erano Hiram Yaeger, Dirk e Summer Pitt e St. Julien Perlmutter. Oltre a loro, di fianco a Summer si trovava il dottor John Wesley Chisholm, storico e professore di storia antica all'università della Pennsylvania. L'aspetto dello studioso era quello di un uomo comune: di corporatura media, aveva i capelli di un normalissimo castano in tinta con gli occhi. Non comune era invece la sua personalità, con un cervello che andava ben oltre la media. Sorrideva di continuo ed era estremamente affabile e cortese. L'attenzione di tutti era tuttavia puntata sul dottor Elsworth Boyd, che stava in piedi davanti a un grande schermo con le foto e i rapporti sui manufatti e sull'edificio rinvenuti al Banco de la Navidad. La vicenda che si stava delineando era talmente incredibile, talmente fiabesca, che nessuno osava fiatare mentre Boyd descriveva gli oggetti, li datava e ne proponeva l'origine. L'attenzione crebbe quando passò alle incisioni nella roccia. Boyd era un uomo agile con il corpo di un acrobata, snello e veloce nel pieno vigore dei suoi quarant'anni, che si toglieva di tanto in tanto dal volto una ciocca di capelli biondo ramato. Era in piedi, con il busto eretto, e osservava la platea estasiata con occhi del colore grigio delle ali di un piccione. Professore emerito di antichità classica al Trinity College di Dublino, era da tempo totalmente assorbito dagli studi sulla storia antica dei celti e aveva pubblicato diversi libri su ogni aspetto della complessa società di quel popolo. Quando l'ammiraglio Sandecker l'aveva invitato a volare a Washington per esaminare i manufatti recuperati nei Caraibi, era salito sul primo aereo da Dublino. Alla vista di quei reperti e delle foto di quanto era rimasto sott'acqua, era stato sul punto di avere un vero e proprio collasso. In un primo momento, aveva seriamente pensato di essere vittima di un colossale scherzo, ma, dopo venti ore passate a esaminare gli oggetti, si era convinto della loro autenticità. Summer provava un senso di vera eccitazione mentre assorbiva parola per parola la lezione di Boyd, trascrivendola abilmente con l'ormai poco diffusa tecnica della stenografia su un taccuino. «A differenza degli egizi, dei greci e dei romani», stava spiegando Boyd, «i celti sono stati trascurati da molti storici, nonostante il fatto che siano la pietra miliare della civiltà occidentale. Molto del nostro patrimonio culturale - dalla religione alla politica, all'organizzazione sociale e alla tradizione letteraria - deriva dai celti. Persino il commercio, poiché furono i
celti i primi a produrre il bronzo e il ferro.» «Quindi perché non riconosciamo questa influenza celtica?» chiese Sandecker. Boyd rise. «Questo è il punto. Tremila anni fa, i celti tramandavano tutta la loro cultura oralmente. I rituali, gli usi e i modelli etici venivano trasmessi oralmente di generazione in generazione. Solo a partire dall'VIII secolo prima di Cristo iniziarono a scrivere qualcosa. Molto più tardi, quando i romani allargarono i loro confini in Europa, trattarono i celti come rozzi barbari e ne scrissero in termini molto poco lusinghieri.» «Ciò nonostante erano una popolazione ingegnosa», intervenne Perlmutter. «Al contrario di quanto molti pensano, i celti avevano una civiltà più avanzata di quella dei primi greci. Erano indietro solo nella scrittura e nell'architettura, ma, in effetti, la loro civiltà precede quella greca di diverse centinaia di anni.» Yaeger si spinse in avanti sulla sedia. «La datazione da lei determinata collima con quella messa a punto dal mio computer?» «Quasi del tutto, direi», rispose Boyd, «se cento anni in più o in meno possono considerarsi ininfluenti dal punto di vista cronologico. Penso inoltre che le pittografie siano di grande aiuto per inquadrare il periodo di Navinia.» Summer sorrise. «Mi piace questo nome.» Boyd prese un telecomando e fece apparire un'immagine su un grande schermo a parete. Era una riproduzione tridimensionale della struttura sommersa, che ipotizzava come dovesse essere al momento della costruzione. «La cosa interessante», continuò Boyd, «è che la struttura non era solo l'abitazione di una donna di alto rango, paragonabile a una regina tribale o a un'alta sacerdotessa, ma ne diventò anche il mausoleo.» «Quando lei parla di 'alta sacerdotessa', intende dire un druido?» chiese Summer. «Un druido donna, esatto», rispose Boyd. «Le elaborate incisioni e l'oro dei suoi orpelli ce la presentano, con ogni probabilità, come un personaggio di alto rango nel mondo sacro della religione druidica dei celti. L'armatura in bronzo è particolarmente significativa. Ne esiste solo un'altra, conosciuta al momento, che è appartenuta a una donna e che è stata datata tra l'XI e l'VIII secolo avanti Cristo. La nostra signora deve aver combattuto insieme con gli uomini e deve essere stata riverita come una dea.» «Una dea vivente», mormorò Summer. «Deve aver avuto una vita inte-
ressante.» «Anche questo è molto interessante.» Boyd sollevò una foto che riproduceva la base del catafalco di pietra, sulla quale era incisa l'immagine stilizzata di un cavallo. «Qui potete vedere una pittografia moderna e sofisticata di un cavallo al galoppo. Si tratta del bianco cavallo di Uffington, inciso sul fianco di una collina calcarea del Berkshire, in Inghilterra, nel I secolo dopo Cristo. È la rappresentazione della dea cavallo Epona, adorata in tutto il mondo celtico e in quei territori che poi si sarebbero chiamati 'Gallia'.» Summer osservò attentamente il cavallo. «Lei pensa che la nostra dea sia Epona?» Boyd scosse il capo. «No, non credo. Epona era adorata come la dea dei cavalli, dei muli e dei buoi durante l'epoca romana. Si pensa che circa mille anni prima fosse invece la dea della bellezza e della fertilità, con il potere d'incantare gli uomini.» «Mi piacerebbe possederlo», disse Summer, con una risata. «Che cosa ne è stato dei druidi?» chiese Dirk. «A mano a mano che il cristianesimo si diffuse in Europa, le usanze dei celti furono considerate riti pagani. Alle donne fu tolto il rispetto di cui godevano in seno alla tradizione druidica, perché i capi della Chiesa non potevano permettere interferenze od opposizioni alla loro autorità maschile. Per i romani, l'eliminazione dei culti druidici divenne una specie di crociata. Le sacerdotesse furono tacciate di stregoneria e bollate come creature del male che si accoppiavano con il diavolo; le più perseguitate erano, come ovvio, quelle con maggior potere. Da una società in cui la donna era una dea madre si passò a un'altra totalmente dominata dagli uomini.» La mente accademica di Gunn stava assorbendo ogni parola di Boyd. «Anche i romani adoravano divinità maschili e femminili. Perché dunque accanirsi contro i druidi?» «In primo luogo, perché pensavano che dai druidi potesse nascere il seme della ribellione contro Roma; secondariamente, perché i rituali cruenti dei sacerdoti celtici disgustavano i più raffinati romani.» «In che senso cruenti?» chiese Sandecker. «I primi druidi praticavano sacrifici umani e i riti di sangue rimasero frequenti nei secoli. Si dice che il culto pagano dei celti non conoscesse limiti. Una leggenda infamante, diffusa dai romani, parla dell''Uomo salice', una gigantesca gabbia in legno di forma umana in cui i condannati venivano rinchiusi per essere bruciati vivi.»
Summer era perplessa. «Anche le sacerdotesse partecipavano a questi barbari rituali?» Boyd si strinse nelle spalle. «Si può solo supporre che fossero responsabili quanto le loro controparti maschili.» «E questo ci riporta alla domanda che ci siamo posti almeno un centinaio di volte», disse Dirk. «Come può una sacerdotessa celtica di alto rango essere stata seppellita su quella che un tempo era un'isola del mar dei Caraibi, a cinquemila miglia dalla madre patria, in Europa?» Boyd si girò e rivolse un segno con il capo a Chisholm. «Credo che il collega John Wesley abbia risposte incredibili per questa domanda.» «Ma prima», interruppe Sandecker, girandosi verso Yaeger, «siete riusciti lei e Max a stabilire come la struttura sia finita a quindici metri di profondità?» «I dati sulla situazione geologica di quel periodo nei Caraibi sono praticamente inesistenti», rispose Yaeger, sparpagliando sul tavolo davanti a sé una serie di fogli di un rapporto. «Siamo più informati sulla caduta dei meteoriti in epoca preistorica e sui movimenti della terra di milioni di anni fa di quanto non sappiamo sulla storia del pianeta tremila anni fa. L'ipotesi più accreditata fra gli autorevoli geologi che abbiamo interpellato è quella che il Banco de la Navidad fosse un'isola che sprofondò durante un terremoto sottomarino fra il 1100 e il 1000 a.C.» «Come siete arrivati a queste date?» chiese Perlmutter, insofferente nella sedia troppo piccola per la sua mole. «Grazie a una serie di analisi chimiche e biologiche, gli scienziati sono in grado di stabilire l'età precisa delle incrostazioni e quanto tempo hanno impiegato a formarsi, il grado di corrosione e deterioramento dei manufatti e l'età dei coralli che circondano la struttura.» Sandecker, che aveva cercato inutilmente un sigaro nel taschino, iniziò a tamburellare sul tavolo con la penna. «Ecco, così avremo un'orda di esaltati che proclameranno il ritrovamento di Atlantide.» «Non Atlantide.» Chisholm scosse la testa e sorrise. «Sono anni che cerco di farlo capire. Penso che quello di Platone sia un racconto inventato che ha utilizzato l'eruzione del vulcano di Santorini del 1650 a.C. solo come spunto per la vicenda.» «Non crede, professore, che Atlantide fosse nei Caraibi?» disse Summer, cercando di scherzare. «C'è chi sostiene di aver trovato strade e città sommerse in profondità.» Chisholm non parve divertito. «Si tratta di formazioni geologiche e nien-
t'altro. Se Atlantide fosse esistita in un qualche punto dei Caraibi, perché non un...» - s'interruppe per dare più effetto alla sua affermazione - «non un singolo coccio o manufatto di origine antica è mai stato scoperto in quelle acque? Mi dispiace, ma Atlantide non è mai stata da questa parte dell'oceano.» «Secondo i dati paleontologici della mia banca dati», intervenne Yaeger, «gli Arawak che gli spagnoli incontrarono al loro arrivo nel nuovo mondo furono i primi esseri umani a colonizzare le Indie occidentali. Erano arrivati dal Sudamerica nel 2500 a.C. circa, millequattrocento anni prima che la nostra signora fosse adagiata sul suo letto di morte.» «Qualcuno arriva sempre per primo», disse Perlmutter. «Colombo sosteneva di aver visto dei relitti di grandi navi costruite in Europa abbandonati sulla spiaggia di un'isola.» «Non posso dirvi come la signora sia arrivata lì», riprese Chisholm. «Ma posso illuminarvi sulla sua identità.» Premette un pulsante del telecomando e sullo schermo apparve la prima foto delle incisioni rinvenute da Dirk e Summer. La scena riprodotta mostrava una flotta di navi in fila pronta ad approdare su una spiaggia. Sembravano simili ai drakkar vichinghi, ma erano molto più tozze, con chiglie piatte che permettevano loro di navigare in acque basse lungo le coste e nei fiumi. Avevano un unico albero, con vele quadrate apparentemente realizzate con pelli cucite per non strapparsi sotto le raffiche del vento oceanico. Le prue e le poppe erano alte, adatte alla navigazione durante le tempeste; file di remi uscivano da boccaporti nella parte superiore degli scafi. «La prima scena del pannello in pietra ci mostra una flotta di navi che approda e dalla quale scendono uomini, cavalli e carri.» Premette un altro tasto sul telecomando e alla prima foto se ne accostò un'altra. «Seconda scena: un esercito avversario sta uscendo da un grande fossato che circonda una città fortificata arroccata su un'altura. Nel quadro successivo l'esercito attraversa una pianura e attacca il nemico prima che possa scaricare le navi. Scena quattro: è in corso la battaglia per respingere la flotta.» «Se non fosse per le strutture in terra e la città che sembra costruita in legno, direi che si tratta della guerra di Troia», l'interruppe Perlmutter. Chisholm aveva lo sguardo del lupo che aspetta al varco un gregge di pecore. «Ma questa è la guerra di Troia.» Sandecker cadde nella trappola. «Questi greci e troiani hanno uno strano aspetto. Credevo avessero barbe e non folti baffoni.» «Ciò perché non si tratta di greci e troiani.»
«E di chi allora?» «Di celti.» Sul volto di Perlmutter si stampò un'espressione di genuina soddisfazione. «Ho letto anch'io Iman Wilkens.» Chisholm ammiccò. «Quindi lei conosce le sorprendenti rivelazioni su uno dei più grandi equivoci della storia antica.» «Potreste gentilmente informare anche noi?» interloquì Sandecker, con tono impaziente. «Sarò felice di accontentarla», rispose Chisholm. «La guerra di Troia...» «Sì?» «Non si è svolta sulla costa occidentale dell'odierna Turchia, nel Mediterraneo.» Yaeger lo fissava con aria interrogativa. «E allora dove?» «A Cambridge, in Inghilterra», rispose semplicemente Chisholm, «vicino al mare del Nord.» 32 Tutti, eccetto Perlmutter, fissarono Chisholm con un'espressione scettica. «Leggo il dubbio nei vostri occhi», li sfidò Chisholm. «Sono centoventisei anni che il mondo viene ingannato, da quando un mercante tedesco di nome Heinrich Schliemann dichiarò con grande clamore di aver trovato Troia seguendo l'Iliade di Omero. Affermò che l'antico poggio di Hissarlik era un punto perfetto per costruire la città fortificata di Troia.» «Molti archeologi e storici hanno sostenuto la tesi di Schliemann», obiettò Gunn. «È ancora un argomento molto dibattuto», spiegò Boyd. «Omero era un personaggio misterioso. Non ci sono prove che sia davvero esistito. Tutto ciò che le leggende riportano è che un uomo di nome Omero prese alcuni racconti riguardanti una grande guerra, che erano stati tramandati oralmente per centinaia di anni, e li trascrisse dando loro la struttura di poemi epici e trasformandoli nella più antica forma di letteratura. È stato davvero un solo uomo a fare questo o si è trattato di una serie di persone che, nei secoli, hanno messo a punto l'Iliade e l'Odissea, i grandi classici della storia? La verità non si saprà mai. Ma, oltre al mistero dell'identità, Omero ci ha lasciato anche quello sull'effettiva veridicità dei fatti della guerra di Troia. E, se davvero si è svolta agli inizi dell'Età del Bronzo, furono real-
mente i greci i nemici dei troiani, oppure Omero ci ha descritto un fatto accaduto a un'enorme distanza dall'Egeo?» Il volto di Perlmutter s'illuminò di un ampio sorriso. Boyd e Chisholm stavano affermando ciò che lui aveva sempre pensato. «Quello che nessuno ha considerato prima di Wilkens è che Omero, invece che greco, potesse essere un poeta celtico che scrisse di una leggendaria battaglia avvenuta quattrocento anni prima, ma non nel Mediterraneo, bensì nel mare del Nord.» Gunn era sconcertato. «Quindi l'epico viaggio di Odisseo...» «Si è svolto nell'oceano Atlantico.» La mente di Summer ragionava vorticosamente. «State dicendo che il bel volto di Elena non fu la causa della spedizione delle mille navi?» «Quello che vorrei dire», ribatté Boyd con un sorriso stanco, «è che dietro questo mito non c'è un conflitto iniziato a causa dell'ira di un re assetato di vendetta per il rapimento della moglie da parte dell'amante. Una donna infedele sarebbe stata una ben misera scusa per impegnare migliaia di uomini in una simile guerra. Il saggio Priamo, re di Troia, non avrebbe mai rischiato il regno e la vita della sua gente solo per permettere a un figlio ribelle di vivere con una donna che, come poi si seppe, aveva di propria volontà abbandonato il marito per un altro uomo. Né in tutto questo c'entravano le ricchezze di Troia. No, più realisticamente, la guerra fu combattuta per un elemento metallico duttile e cristallino che risponde al nome di 'stagno'.» «St. Julien ha spiegato a mia sorella e a me il modo in cui i celti hanno dato vita all'Età del Bronzo e a quella del Ferro», disse Dirk, alzando gli occhi dagli appunti che aveva diligentemente preso. Chisholm annuì in segno di approvazione. «È certo che ne avviarono il commercio. Nessuno, però, può dire con certezza chi fu a mettere a punto la formula del 10 per cento di stagno e 90 di rame, con cui si ottenne un metallo due volte più duro di qualsiasi elemento mai scoperto prima. Anche la datazione precisa non è certa. L'ipotesi migliore è quella che parla del 2000 a.C.» «La fusione del rame era nota fin dal 5000 a.C. nella Turchia centrale», affermò Boyd. «Il metallo abbondava in tutto il mondo antico e l'estrazione fu presto organizzata su vasta scala in Europa e nel Medio Oriente. Ma con l'avvento del bronzo sorse un problema. Lo stagno è un elemento molto più raro del rame. Come con la corsa all'oro del Nordamerica, minatori e mercanti si sparpagliarono per tutto il mondo antico alla ricerca del mine-
rale e, infine, scoprirono che i giacimenti più ricchi erano nel Sud-ovest dell'Inghilterra. Le tribù celtiche della zona ne approfittarono senza esitare e avviarono un commercio che partiva dall'estrazione dello stagno, passava attraverso la fusione in barre e terminava con la vendita in tutti i Paesi conosciuti.» «La richiesta era forte e gli antichi britannici crearono ben presto un monopolio che imponeva ai mercanti stranieri forti tariffe», aggiunse Chisholm. «Mentre i Paesi più ricchi, come l'Egitto, potevano permettersi acquisti costosi, i celti del centro Europa offrivano solo oggetti fatti a mano e ambra. Senza il bronzo non potevano sperare di progredire oltre una semplice società agricola.» «Quindi decisero di unirsi e acquisire il controllo delle miniere di stagno dei britannici», lo anticipò Yaeger. «Esattamente», convenne Boyd. «Le tribù celtiche del continente si allearono, invasero il Sud dell'Inghilterra e s'impadronirono delle miniere di un territorio allora conosciuto come 'Troade' e poi come 'Troia'. La città principale era Ilio.» «Quindi gli achei non erano greci», disse Perlmutter. Boyd annuì con un impercettibile movimento del capo. «Achaean era un termine generico per definire gli 'alleati'. I troiani spesso si definivano i 'discendenti di Dardano'. Proprio come la parola 'Egitto', che non si riferisce alla terra dei faraoni.» «Un attimo», volle sapere Gunn, «Da dove viene quindi il termine 'Egitto'?» «Prima di Omero, quella terra era conosciuta come Al Khem, Misr o Kemi. Fu lo storico greco Erodoto che, visitando le piramidi e il tempio di Luxor molti secoli dopo, chiamò l'impero morente con il nome di una terra descritta nell'Iliade di Omero. Da allora è rimasto Egitto.» «Quali prove porta Wilkens a sostegno della sua teoria?» chiese Sandecker. Boyd rivolse a Chisholm uno sguardo interrogativo. «Risponde lei, professore?» «Ne sa quanto me», disse Chisholm, con un sorriso cortese. «Posso intervenire?» chiese Perlmutter. «Ho molto studiato il libro di Wilkens, Where Troy Once Stood.» «Prego, faccia pure», acconsentì Boyd. «Di prove ve ne sono in abbondanza», esordì Perlmutter. «Ma prima di tutto occorre dire che quasi niente di quello che Omero ha descritto regge a
un attento esame. In nessuna pagina cita la parola 'greci' riferendosi alla flotta d'invasione. Nel 1100 a.C, quando presumibilmente la guerra ebbe luogo, la Grecia era ancora poco popolata e non esistevano città importanti che potessero mettere insieme una flotta così potente. Inoltre, i primi greci non erano marinai. Le descrizioni omeriche delle navi e degli uomini che le conducevano attraverso i mari sembrano più calzanti per gli antichi vichinghi di duemila anni dopo. Anche il mare assomiglia più a quello della costa atlantica europea che non al Mediterraneo. «Il clima è un altro punto controverso. Omero parla di pioggia costante e battente, nebbia fitta, foschie e nevischio, condizioni riferibili all'Inghilterra più che alla Turchia, che si trova nel Mediterraneo, non lontana dal Sahara.» «Non si dimentichi della vegetazione», suggerì Boyd. «Sicuramente», convenne Perlmutter con un cortese cenno del capo. «Quasi tutti gli alberi descritti da Omero sono più adatti all'aria umida dell'Europa del Nord che all'arido clima della Grecia e della Turchia. Parla soprattutto di latifoglie decidue, mentre in Grecia sono più diffusi gli ulivi. E poi c'è la questione dei cavalli. 1 celti erano un popolo che amava i cavalli, mentre per i greci non esiste nessun documento che ne riferisca l'uso in battaglia. Erano gli egizi e i celti ad avere carri da guerra, non i greci e nemmeno i romani. Preferivano combattere a piedi e utilizzare i carri solo per il trasporto delle vettovaglie e per le corse.» «Ci sono anche discrepanze sull'alimentazione?» chiese Gunn. «Omero parla di anguille e ostriche. Le prime nascono nel mar dei Sargassi e migrano verso le acque più fredde dell'Europa. Le seconde sono molto più diffuse nell'oceano che nel Mediterraneo. Omero usa l'espressione 'immergersi per ostriche', ma se un greco s'immergeva era per pescare le spugne, molto diffuse a quell'epoca.» «E a proposito delle divinità?» lo incalzò Sandecker. «Entrambi i poemi del grande vate sono ricchi d'interferenze da parte dei vari dei che parteggiano per l'una o l'altra fazione.» «I celti sono arrivati per primi in Europa. Gli studiosi di antichità classica ritengono che gli dei descritti da Omero erano in origine celtici e furono poi assorbiti dai greci proprio attraverso l'Iliade e l'Odissea.» Perlmutter fece una pausa, poi aggiunse: «Un altro punto interessante è che Omero afferma che i greci e i troiani cremavano i loro morti. Questa però era un'usanza dei celti. I popoli mediterranei in genere tumulavano i defunti». «Sono tutte ipotesi interessanti», disse poco convinto l'ammiraglio San-
decker. «Ma sempre di congetture si tratta.» «Devo ancora arrivare alla parte migliore.» Perlmutter sfoggiò il suo miglior sorriso. «La rivelazione più sorprendente di Wilkens dimostra senza ombra di dubbio che le città, le isole e le nazioni di cui Omero scrisse nei suoi poemi epici o non sono mai esistite o erano qualcosa di completamente diverso. La geografia e la topografia nell'Iliade semplicemente non collimano con quelle delle terre e dei mari del Mediterraneo di quel tempo. Wilkens ha scoperto che i nomi delle città, delle regioni e dei fiumi utilizzati da Omero derivano da toponimi europei e inglesi. I vocaboli greci non combaciano con quelli del territorio di Troia né dei regni degli eroi greci, come non si accordano le descrizioni dei posti con la realtà geofisica.» «E molti sono ancora gli argomenti», aggiunse Chisholm. «Per Omero, Menelao ha i capelli rossi, Odisseo è fulvo e Achille biondo; inoltre, molti guerrieri hanno la pelle chiara. Questi tratti non sono quelli delle popolazioni del Mediterraneo. È come se arrivassero da un altro tempo e un'altra dimensione.» «Le tribù achee arrivarono dalle regioni produttrici di bronzo di Francia, Svezia, Danimarca, Spagna, Norvegia, Olanda, Germania e Austria», riprese Perlmutter. «Con ogni probabilità, la flotta fu riunita nell'attuale Cherbourg e salpò verso il mare di Elle, che diede poi il nome all'Ellesponto, in Turchia, ed è oggi noto come mare del Nord. Approdarono in un grande golfo denominato mare di Tracia, quello che sulle carte geografiche odierne si chiama The Wash, nel Cambridgeshire. Le acque toccavano le spiagge della pianura dell'Inghilterra orientale, l'antica East Anglia.» Boyd aggiunse qualcosa al resoconto di Perlmutter. «Omero parla di quattordici fiumi intorno a Troia. Tutto ciò sembra incredibilmente correlato ai quattordici fiumi dell'East Anglia. Wilkens ha scoperto che anche dopo trenta secoli i nomi sono rimasti simili e possono facilmente essere messi a confronto con quelli di allora. Per esempio, in greco si legge del fiume Temese, che, tradotto in inglese, darebbe Thames.» «E i troiani?» chiese Sandecker, ancora non del tutto convinto. «Il loro esercito veniva dall'Inghilterra, dalla Scozia e dal Galles», rispose prontamente Perlmutter. «Furono anche aiutati dagli alleati bretoni e belgi, sul continente. Adesso che abbiamo il golfo e la pianura, possiamo passare al campo di battaglia e alle difese. Due immensi fossati paralleli esistono ancora a nord-est di Cambridge. Wilkens crede che siano stati scavati dagli invasori, trincee simili a quelle della prima guerra mondiale
per impedire ai difensori di attaccare l'accampamento e le navi.» «Quindi dove si trovava la cittadella di Troia?» insistette Sandecker. Perlmutter raccolse la sfida. «L'ipotesi più plausibile è quella delle Gog Magog Hills, dove sono stati portati alla luce grandi terrapieni con fortificazioni circolari circondati da profondi fossati, segno della presenza di palizzate in legno. Molti anche gli oggetti in bronzo, le urne funerarie e un elevato numero di scheletri con segni di mutilazioni.» «Da dove viene il buffo nome di Gog Magog?» chiese Summer. «Diversi anni fa, quando gli abitanti della regione scoprirono per caso una miriade di ossa sepolte nei campi, iniziarono a riferirsi al posto come il luogo della 'grande battaglia' o del 'grande massacro'. Si ricordarono allora del racconto biblico del profeta Ezechiele in cui gli spiriti del male si radunano per combattere una guerra indetta dal re Gog di Magog.» A quel punto, Sandecker fissò prima Boyd e poi Chisholm. «D'accordo, ora che abbiamo saputo che la guerra di Troia fu combattuta nel Sud dell'Inghilterra per il possesso delle miniere di stagno, che cos'ha a che fare tutto questo con le scoperte celtiche di Dirk e Summer al Banco de la Navidad?» I due studiosi si scambiarono uno sguardo divertito. Poi fu Boyd a parlare. «La spiegazione è chiara, ammiraglio. Adesso che siamo ragionevolmente sicuri che la guerra di Troia si svolse in Inghilterra, possiamo iniziare a legare il nome di Odisseo a un viaggio avventuroso fino al Banco de la Navidad.» Nella sala conferenze non si sentiva volare una mosca. La notizia era stata talmente inaspettata che nessuno riuscì a emettere un suono per almeno trenta secondi. «Che cosa dice?» chiese Gunn, cercando di digerire quello che aveva appena sentito. Sandecker si rivolse a Perlmutter con voce pacata. «St. Julien, lei è d'accordo con questa assurdità?» «Non c'è niente di assurdo», ribatté Perlmutter, con un ampio sorriso. «È scritto nel poema di Omero che Odisseo era il re di un'isola chiamata Itaca. Ma sulle isole greche non è mai esistito un regno, né sono state trovate rovine. Wilkens ha dimostrato, con mia ampia approvazione, che il regno di Odisseo non era in Grecia. Théophile Cailleux, un avvocato di origine belga di Calais, in Francia, ha sostenuto che l'Itaca di Omero sia in realtà Cadice, in Spagna. E, benché oggi non vi siano isole in quel punto, i geologi possono dimostrare che sono state inglobate nella terraferma nel corso dei
secoli. Cailleux e Wilkens hanno identificato la maggior parte dei porti in cui Odisseo si sarebbe fermato, e nessuno è nel Mediterraneo.» «Devo convenire», interloquì Yaeger, «che, utilizzando le informazioni conosciute sul viaggio di Odisseo, le descrizioni omeriche, le teorie di Cailleux e Wilkens, le conoscenze sulle tecniche di navigazione dell'Età del Bronzo, l'andamento delle maree e delle correnti, Max e io abbiamo delineato una mappa degli scali di questo navigatore.» Yaeger prese il telecomando e digitò un codice. Sullo schermo apparve una mappa della parte settentrionale dell'oceano Atlantico. Una linea rossa partiva dall'Inghilterra del Sud, raggiungeva la costa africana e, passando dalle isole di Capo Verde, si spingeva fin nei Caraibi. Con un indicatore luminoso al laser, Yaeger seguì il percorso di Odisseo. «Il primo scalo dopo aver ripreso il mare viene descritto come la 'terra dei mangiatori di loto'. Secondo Wilkens, si trattava probabilmente del Senegal, sulla costa occidentale dell'Africa. Il loto in quel Paese è una pianta della famiglia del pisello, abitualmente consumata dai nativi fin da epoche remote, soprattutto per l'effetto narcotizzante. Da lì, i venti lo avrebbero sospinto a ovest, a Capo Verde, luogo assimilabile all'isola dei ciclopi, perché la descrizione combacia perfettamente.» «Era la terra dei giganti con un occhio solo», disse Sandecker con un sorriso appena abbozzato. «Omero non parla mai di un posto in cui tutta la popolazione aveva un occhio solo», spiegò Yaeger. «In realtà unicamente Polifemo ne aveva uno solo, e non era al centro della fronte.» «Se non ricordo male», si intromise Gunn, «dopo essere sfuggito ai ciclopi Odisseo venne sospinto a ovest oltre il mare, verso l'isola Eolia.» Yaeger annuì senza parlare. «Calcolando la direzione dei venti prevalenti e le correnti, ho stabilito che lo scalo successivo dovette essere in una delle molte isole a sud della Martinica e a nord di Trinidad. Da lì, la nave venne poi sospinta da una tempesta nella terra dei lestrigoni, che corrisponderebbe a una piccola isola chiamata Branwyn, al largo della Guadalupa. Le alte scogliere e lo stretto canale in cui Odisseo dice di essere passato con la nave corrispondono alla forma a T dell'isola.» «Si tratta del luogo in cui i lestrigoni distrussero la flotta», aggiunse Perlmutter. «Se è vero», continuò Yaeger, «le navi cariche di tesori dovrebbero essere ancora in fondo al golfo.» «Come si chiama l'isola?»
«Branwyn», ripeté Yaeger, «che altro non era che il nome di una dea celtica e una delle tre figure matriarcali della Gran Bretagna.» «A chi appartiene oggi l'isola?» chiese Dirk. «È proprietà privata.» «E si sa chi è il proprietario?» chiese Summer. «Una rock star, un attore, un ricco faccendiere?» «No, Branwyn è proprietà di una ricca signora.» Yaeger si fermò per controllare gli appunti. «Si chiama Epona Eliade.» «Epona è il nome della dea celtica», disse Summer. «Che strana coincidenza.» «Forse è qualcosa di più di una piacevole coincidenza», ribatté Yaeger. «Controllerò.» «Quale fu lo scalo successivo di Odisseo?» chiese Sandecker. «Era rimasto con un'unica nave su dodici», continuò Yaeger, «e proseguì fino all'isola di Circe, Eea, che corrisponderebbe al Banco de la Navidad, un luogo che Omero mette ai confini del mondo.» «Circe!» esclamò Summer, quasi senza fiato. «Circe era la donna che visse e morì nella struttura che abbiamo scoperto?» Yaeger si strinse nelle spalle. «Che cosa posso dire? È un'ipotesi, che sarà molto difficile da provare.» «Ma che cosa l'avrebbe spinta al di là dell'oceano così tanti secoli fa?» si chiese Gunn a voce alta. Perlmutter congiunse le mani sopra il suo grande ventre. «Il traffico fra i continenti era molto più intenso di quanto non possiate immaginare.» «M'interessa sapere dove avresti collocato l'Ade», disse Sandecker a Yaeger. «Il luogo più plausibile sono le grotte di Santo Tomás, a Cuba.» Perlmutter si soffiò il naso, cercando di non disturbare, poi chiese: «Dopo aver lasciato l'Ade, dove avrebbe incontrato le sirene, il mostro Scilla e il gorgo Cariddi?» Yaeger alzò le braccia. «Penso di dover imputare tali avvenimenti alla fervida fantasia di Omero. Non ci sono luoghi geografici da questa parte dell'Atlantico che corrispondano alle sue descrizioni.» Si fermò un attimo, prima di riprendere a seguire il percorso di Odisseo. «A questo punto, il nostro eroe tornò verso est e raggiunse l'isola di Calipso, Ogigia, che Wilkens identifica con São Miguel, nelle Azzorre. Concordo con questa teoria.» «Calipso era la bella sorella di Circe», disse Summer. «Erano donne di
alto rango. Dopo la storia con Circe, non è con lei che Odisseo visse un romantico periodo d'amore in un giardino paradisiaco?» «Sì», rispose Yaeger. «Infine, dopo averla lasciata in lacrime, Odisseo, sospinto da venti avversi, approdò alla reggia di re Alcinoo, vale a dire sull'isola Lanzarote, alle Canarie. Dopo aver raccontato le sue avventure alla famiglia reale, gli venne concessa una nave e poté finalmente fare ritorno a Itaca.» «E dove sarebbe Itaca?» chiese Gunn. «Proprio dove ha detto Cailleux, a Cadice, nel Sud della Spagna.» Ci furono alcuni minuti di silenzio in cui i presenti cercarono di ricordare il racconto classico per metterlo a confronto con tutte quelle nuove teorie. Quanta verità ci fosse in quelle parole, solo Omero poteva saperlo, e non parlava da quasi tremila anni. Dirk sorrise a Summer. «Devi ammettere che Odisseo aveva un considerevole fascino. È riuscito a conquistare due delle donne più belle e influenti del suo tempo. Prima che arrivasse lui, entrambe erano caste e inviolabili.» «La verità», intervenne Chisholm, «è che probabilmente nessuna delle due era una dea e neppure una donna illibata. Entrambe vengono descritte come donne dalla bellezza mozzafiato con personalità magnetiche. Circe era una strega, Calipso un'incantatrice. Da mortale, Odisseo non avrebbe mai potuto soddisfarle. Ci sono quindi forti probabilità che fossero due sacerdotesse druidiche dedite a ogni sorta di perverso rituale. Di certo compivano sacrifici umani, ritenuti necessari per guadagnarsi la vita eterna.» Summer scosse la testa. «È difficile crederci.» «Ma è vero», dichiarò Chisholm. «Si sa che erano le sacerdotesse ad attirare gli uomini da sacrificare nei riti e nelle orge. Inoltre, in qualità di guide del culto femminile, avevano il potere di far fare ai loro fedeli qualsiasi cosa volessero.» Yaeger annuì. «Buon per noi che il culto druidico è scomparso un migliaio di anni fa.» «E qui sta il nocciolo della questione», osservò Chisholm. «La tradizione druidica è ancora molto radicata nella nostra società. Ci sono adepti in tutta Europa che seguono antichi rituali.» «Tranne i sacrifici umani», azzardò Yaeger sorridendo appena. «Purtroppo non è così», replicò Boyd serio. «Sebbene oggi sia considerato un crimine, il sacrificio umano è ancora praticato dalle sette occulte dei druidi.»
Quando tutti se ne furono andati, Sandecker chiamò Dirk e Summer nel suo ufficio, li fece accomodare e arrivò subito al punto. «Vorrei che vi occupaste di un progetto archeologico.» Summer e Dirk si scambiarono occhiate interrogative. Non avevano idea di dove l'ammiraglio volesse arrivare. «Vuole che torniamo al Banco de la Navidad?» chiese il giovane. «No. Desidero che vi rechiate nella Guadalupa e sorvegliate il porto dell'isola di Branwyn.» «È un'isola privata, non avremmo bisogno di un permesso?» indagò Summer. «Fintanto che non sbarcate sull'isola, non infrangete nessuna legge.» Dirk riservò a Sandecker uno sguardo scettico. «Dovremmo cercare il tesoro perso da Odisseo nella terra dei lestrigoni?» «No. Dovrete cercare le navi e i manufatti che trasportavano. Se avrete successo, si tratterà del più antico naufragio dell'emisfero occidentale, qualcosa che potrà modificare i dati della storia antica. Se si può fare, deve essere la NUMA a realizzare questa impresa.» Summer unì le mani con un gesto nervoso. «Ammiraglio, si rende conto che le probabilità di ritrovarle sono una su un milione?» «Anche se solo una, vale la pena fare questo sforzo. Meglio tentare piuttosto che rimanere con le mani in mano a chiedersi se tutto ciò è vero.» «Ha un programma?» «Rudi Gunn sta organizzando il passaggio aereo. Partirete domattina. Dopo l'atterraggio nell'aeroporto di Pointe-à-Pitre, nella Guadalupa, sarete contattati da un rappresentante dell'agenzia di nome Charles Moreau. Ha affittato una barca per voi con la quale raggiungerete l'isola di Branwyn, che è a sud. Dovrete portare la vostra attrezzatura da immersione. Rudi vi spedirà una draga subacquea per registrare qualunque anomalia si celi sotto il fondo marino.» «Perché tanta fretta?» domandò Dirk. «Se si sparge la voce, e così sarà, tutti i cacciatori di tesori del globo arriveranno sul posto. Voglio che la NUMA arrivi per prima, faccia i suoi rilevamenti e se ne venga via. Se avrete successo, ci accorderemo con la Francia, di cui la Guadalupa fa parte, per salvaguardare la zona. Domande?» Dirk prese la mano di Summer. «Che cosa ne pensi?» «Sembra eccitante.»
«Sapevo che l'avresti detto», commentò Dirk, con voce laconica. «A che ora dobbiamo trovarci all'aeroporto, ammiraglio?» «Meglio partire per tempo. L'aereo decolla alle sei.» «Del mattino?» chiese Summer, perdendo un po' di entusiasmo. Sandecker sorrise in tono cordiale. «Con un po' di fortuna, potreste anche sentire il gallo cantare mentre andate all'aeroporto.» 33 Dopo la riunione, Yaeger prese l'ascensore e raggiunse il suo regno al decimo piano. Non era il tipo da frequentare i ristoranti alla moda di Washington e quindi si portava da casa un vecchio portavivande con frutta e verdura e un thermos di succo di carota. Al mattino, stentava a ingranare e ci metteva un po' a prendere il ritmo di lavoro. Si sedette alla scrivania e assaporò una tazza della tisana che teneva in un armadietto lì a fianco; poi si appoggiò allo schienale e iniziò a leggere il Wall Street Journal, per verificare i suoi investimenti. Terminata quell'operazione, passò al rapporto che Sandecker gli aveva trascritto riguardo alle immani gallerie sotterranee che Pitt e Giordino avevano scoperto in Nicaragua. Scansionò il documento dell'ammiraglio per immetterlo nel computer, sorseggiò ancora un po' di tisana e poi digitò il codice di Max. La collega virtuale di Yaeger si materializzò con indosso un abito di seta azzurra con una fascia gialla, stelle azzurre e una scritta sulla schiena con le parole WONDER WOMAN. «Come ti sembro oggi?» chiese con voce melensa. «Dove hai trovato questa roba?» domandò a sua volta Yaeger. «Nella cassetta dei buoni propositi?» «Quando sono libera, navigo in Internet e mi diletto con i cataloghi di moda. Questo l'ho fatto addebitare sul conto di tua moglie.» «Come vuoi.» Max era un ologramma. Non poteva ordinare, indossare o pagare nessun oggetto reale. Scosse quindi la testa per quel comportamento un po' capriccioso. C'erano volte in cui pensava fosse stato un errore programmarla con lo stesso aspetto e la medesima personalità di sua moglie. «Se hai finito di pavoneggiarti, Wonder Woman, avrei un lavoretto per te.» «Sono pronta, maestro», rispose lei, imitando la star di un celebre programma televisivo.
Yaeger inserì il file scansionato nella memoria di Max. «Leggi con calma e cerca di scoprire quello che puoi su questa faccenda.» Max restò immobile per qualche istante, poi chiese: «Che cosa vuoi sapere?» «La domanda è: che motivo potrebbero avere Odyssey e la Repubblica popolare cinese per scavare quattro immani gallerie nelle viscere del Nicaragua, allo scopo di collegare l'Atlantico con il Pacifico?» «Facile. È un indovinello che non riesce neanche a scaldarmi i circuiti.» Yaeger la osservò perplesso. «Come puoi avere una risposta? Non hai ancora analizzato il problema.» Max si portò la mano alla bocca per sbadigliare. «È una cosa elementare. Mi stupisco sempre del fatto che gli uomini non vedano più in là del loro naso.» Yaeger era certo di aver commesso un errore di programmazione. La risposta era stata elaborata troppo velocemente. «D'accordo, sono ansioso di sentire le tue congetture.» «Le gallerie sono state costruite per trasferire grandi quantità di acqua.» «Non mi sembra una scoperta sorprendente.» Iniziò a pensare che fosse andata fuori strada. «È una conclusione ovvia per una serie di gallerie che partono e terminano nell'oceano e sono dotate di grandi stazioni di pompaggio.» «Ah», disse Max, alzando una mano con l'indice sollevato. «Ma tu sai perché vogliono pompare tutta quell'acqua nelle gallerie?» «Per un vasto programma di desalinizzazione, per un progetto d'irrigazione? Miseriaccia, certo che non lo so!» «Come possono gli uomini essere così complicati?» continuò Max, con un'aria frustrata. «Sei pronto, maestro?» «Se sei così gentile...» «I tunnel sono stati scavati per deviare il corso della corrente equatoriale sud che parte dalle Azzorre e raggiunge il mar dei Caraibi.» Yaeger era perplesso. «Quale tipo d'impatto ambientale ne risulterebbe?» «Non lo immagini?» «C'è tanta di quell'acqua nell'oceano Atlantico da poter sopportare la perdita di qualche milione di litri.» «Non è divertente.» «E allora, dove sta il problema?» Max alzò le mani. «Deviando la corrente equatoriale sud, la temperatura
di quella del Golfo calerebbe di circa otto gradi prima di raggiungere l'Europa.» «E quindi?» insistette Yaeger. «Otto gradi in meno nell'acqua che scalda l'Europa porterebbero il continente a una condizione climatica simile a quella della Siberia.» Yaeger non comprese subito la gravità delle parole di Max, né le immani conseguenze. «Ne sei sicura?» «Mi sono mai sbagliata?» ribatté Max, mettendo il broncio. «Otto gradi sembrano davvero tanti», insistette Yaeger, dubbioso. «Stiamo parlando di circa tre gradi al largo della Florida, ma, dopo l'incontro davanti al Canada con la gelida corrente del Labrador, che arriva dall'Artico, il calo s'intensificherebbe. Tutta la temperatura europea subirebbe una diminuzione consistente con conseguente sconvolgimento del china dalla Scandinavia al Mediterraneo.» All'improvviso Yaeger mise a fuoco l'orrendo scenario prospettato da Max. Lentamente, prese il ricevitore del telefono e compose il numero dell'ufficio di Sandecker. La segretaria dell'ammiraglio glielo passò subito. «Ha avuto delle risposte da Max?» chiese Sandecker. «Sì.» «Allora?» «Ammiraglio», iniziò Yaeger con la voce scossa. «Sono spiacente di avvisarla che siamo sull'orlo di una catastrofe.» 34 In attesa dell'elicottero, che era in ritardo di più di un'ora, Giordino era placidamente entrato nel mondo dei sogni e Pitt aveva esplorato le acque del lago di Nicaragua con il binocolo. La costa occidentale era a meno di tre miglia e, dalla loro posizione, si scorgeva un piccolo villaggio, che dalla mappa risultò essere Rivas. Sempre verso ovest, ma un po' più vicino, c'era un'isola lussureggiante. Il nome sulla mappa era isola di Ometepe e Pitt stimò che avesse una superficie di cinquecento metri quadrati. L'attenzione di Pitt fu attirata da due vulcani uniti da uno stretto istmo di circa tre chilometri. Quello all'estremità nord dell'isola superava i millecinquecento metri di altitudine e sembrava attivo. C'era infatti un filo di fumo che usciva dal cono in cima al cratere e raggiungeva le ondulate nubi che passavano nel cielo. Il vulcano a sud formava un cono perfetto ed era spento. Pitt valutò che
fosse più basso dell'altro di circa trecento metri e considerò che i quattro tunnel dovevano passare sotto l'istmo, vicino alla base del vulcano a nord. Ciò probabilmente spiegava l'improvviso rialzo di temperatura che avevano rilevato nella quarta galleria. Il vulcano attivo, secondo la mappa, si chiamava Concepción, mentre il compagno era il Maderas. Spostò il binocolo e, con grande sorpresa, si trovò a osservare quello che sembrava un centro industriale costruito sulle pendici meridionali di Concepción, proprio sopra l'istmo. Gli sembrava avesse una superficie di cinque o seicento acri, ma la cosa che lo stupiva di più era che si trovasse in un luogo praticamente inaccessibile. Non sembrava un posto adatto per investire milioni di dollari nella costruzione di un complesso industriale che non poteva usufruire di nessun trasporto. A meno che, rifletté, non ci fosse di mezzo un segreto. Improvvisamente, da nord apparve un aereo che si apprestò ad atterrare su una pista che percorreva l'istmo fino ai limiti del complesso. Virò in corrispondenza della cima del Maderas e si appoggiò al suolo, raggiungendo un terminal alla fine della pista. Pitt abbassò il binocolo con l'espressione di uno che avesse visto qualcosa che non voleva vedere. Un velo di grande preoccupazione oscurò gli occhi verdi. Bagnò le lenti con qualche goccia d'acqua della borraccia e le pulì con un lembo della camicia, che portava sotto la tuta di Odyssey. Poi riprese l'osservazione, concentrandosi sull'aereo. Il sole faceva capolino fra due nuvole, inondando l'isola di Ometepe con una luce dorata. Anche se l'aereo, visto attraverso le lenti, non era più grande di una formica, non ci si poteva sbagliare sul color lavanda della fusoliera e delle ali, messo in evidenza dal sole. «Odyssey», mormorò fra sé, con la mente in pieno lavorio. Solo in quel momento si rese conto che il complesso si trovava proprio sopra le gallerie e ciò spiegava i montacarichi che avevano visto nei pressi della banchina ferroviaria. La struttura doveva essere in qualche modo collegata ai lavori sotterranei, ma le dimensioni lasciavano intendere che doveva avere anche altre funzioni. Mentre spaziava con lo sguardo oltre gli edifici alla base del vulcano, si soffermò a guardare quella che sembrava una vasta zona portuale dietro una fila di magazzini. I tetti delle costruzioni non lasciavano vedere le banchine, ma si distinguevano quattro grandi gru da carico che si stagliavano sul cielo azzurro. Ecco perché il complesso non aveva bisogno di collegamenti. Era del tutto autosufficiente.
Poi, quasi nello stesso istante, accaddero tre cose che lo preoccuparono in misura notevole. Il faro prese inspiegabilmente a oscillare come un danzatore hawaiiano. Come aveva detto a Percy Rathbone, Dirk era cresciuto in California ed era abituato ai terremoti. Una volta, mentre si trovava in un palazzo di trenta piani sul Wilshire Boulevard, c'era stata una scossa e l'edificio aveva iniziato a ondeggiare e oscillare. Fortunatamente era appoggiato su gigantesche fondamenta piantate nel terreno, predisposte per affrontare simili eventi. La situazione adesso era analoga, ma il faro tremava e si piegava come una palma scossa da venti contrastanti. Pitt si voltò subito verso il vulcano Concepción, pensando a un'eruzione, ma la cima era tranquilla, senza segni di fumo o ceneri. Guardò l'acqua e vide che ribolliva, come se fosse agitata da un gigantesco frullatore nascosto sott'acqua. Un minuto che sembrò un'eternità, e tutto era finito. Pitt non si sorprese che Giordino non si fosse svegliato. Il secondo pericolo si manifestò sotto forma di una piccola barca color lavanda che era partita dall'isola e si dirigeva verso il faro. Le guardie che erano a bordo dovevano pensare di averli ormai presi in trappola, perché procedevano a una velocità di crociera. La terza e ultima minaccia era proprio sotto di loro. Quello che probabilmente salvò la vita dei due uomini nei pochi secondi che seguirono fu un rumore quasi impercettibile: un leggerissimo suono di due oggetti di metallo che si urtavano che salì dalle viscere del condotto di aerazione. Pitt diede un calcio a Giordino. «Abbiamo visite. Sembra che ci abbiano rintracciato.» Giordino scattò in piedi con la Desert Eagle calibro 50 semiautomatica già estratta dalla cintura sotto la tuta bianca, mentre Pitt afferrava la vecchia Colt 45 dallo zaino. Accucciato di fianco all'apertura, Pitt urlò verso il basso senza sporgersi: «Restate dove siete...!» Ciò che successe poi non fu del tutto inaspettato. La risposta fu una scarica di proiettili che uscirono dalla torre e trapassarono il tetto in metallo del faro, fino a ridurlo a un colabrodo. Il fuoco fu così violento che Pitt e Giordino aspettarono a rispondere per non rischiare di perdere qualche dito mettendo una mano sul bordo. Pitt strisciò sino a una delle finestre del faro e batté sul vetro con il calcio della Colt. Le lastre erano spesse e ci vollero diversi potenti colpi simili a martellate per ridurle in frantumi. Molti frammenti caddero nel lago,
ma Pitt riuscì a mettere il braccio fuori e a picchiare dall'esterno, facendo cadere gli ultimi pezzi sul pavimento del faro. Lì li radunò con il piede e li spinse fino al bordo del condotto, dove caddero trasformandosi in affilate lame. Urla e grida di dolore esplosero nell'oscurità, mentre il fuoco cessava. Approfittando di quel momento di sosta, Pitt e Giordino spararono a caso nella torre e i proiettili, rimbalzando sulle pareti in cemento, seminarono il panico fra le guardie di sicurezza di Odyssey che si trovavano sulla scaletta. Alle grida di dolore seguirono il silenzio e poi l'inquietante tonfo di corpi che atterravano dopo essere precipitati nel vuoto. «Questo dovrebbe costringerli a rivedere i loro piani», disse Giordino, con la voce priva di qualsiasi rimorso, mentre inseriva un nuovo caricatore. «Abbiamo altri ospiti indesiderati con cui trattare», annunciò Pitt, indicando l'imbarcazione di pattuglia che si affrettava verso il faro, con la prua sollevata e una scia spumeggiante dietro la poppa. «Si sta avvicinando.» Giordino indicò con la testa oltre il vetro infranto: un elicottero proveniva da nord sorvolando il lago. Effettuato un calcolo veloce della distanza che la barca e l'elicottero dovevano percorrere, Pitt si concesse un timido sorriso. «Gli uccelli sono più veloci. Dovrebbe superare l'imbarcazione di oltre un chilometro.» «Prega solo che non abbiano missili a bordo», lo ammonì Giordino, smorzando il cauto entusiasmo dell'amico. «Lo sapremo presto. Tieniti pronto ad afferrare l'imbracatura, quando la lanceranno.» «Ci vorrebbe troppo tempo per tirarci a bordo uno alla volta», obiettò Giordino. «Suggerisco un lacrimoso congedo con il faro tutti e due insieme.» Pitt era d'accordo. «Sono con te.» Uscirono su uno stretto balconcino che girava intorno alla testa del faro. L'elicottero, per quanto vide Pitt, era un Bell 430 con due motori RollsRoyce. Era giallo e rosso, con la scritta MANAGUA AIRWAYS su un lato. Una volta raggiunto il faro, il pilota si avvicinò con una manovra studiata mentre il secondo iniziava ad abbassare l'imbracatura mediante un cavo fissato a un verricello sporgente dal portello laterale aperto. Grazie alla statura più alta, Pitt saltò e afferrò l'imbracatura. La fece passare intorno alle spalle di Giordino. «Sei più robusto di me. Tu prendi lo strappo e io mi aggrappo a te.»
Giordino passò le mani nelle bretelle e le strinse intorno al cavo, mentre Pitt lo afferrava saldamente intorno alla vita. L'uomo addetto al verricello, che non poteva farsi sentire a causa del rumore delle turbine, si sbracciava in modo frenetico per far capire ai due che poteva recuperare solo un uomo alla volta. L'avvertimento arrivò troppo tardi. Pitt e Giordino furono trascinati via dal balcone del faro e rimasero appesi a trenta metri dall'acqua mentre una raffica di vento colpiva il velivolo. Il pilota fu sorpreso dall'improvvisa inclinazione verso destra provocata dal doppio peso, ma riuscì a riportare velocemente l'apparecchio in assetto, mentre il suo secondo controllava il verricello che faticava a sollevare i due uomini insieme. La fortuna li assistette e la barca degli inseguitori non sparò dei missili. Partì invece un fuoco intermittente da un paio di fucili di grosso calibro montati a prua. Anche in quel caso, la buona sorte fece la sua parte. La barca era infatti ancora troppo lontana e i salti della prua sull'acqua fecero mancare il bersaglio di quasi cinquanta metri. Il pilota, spaventato dai colpi indirizzati verso il suo velivolo, si dimenticò degli uomini che era andato a salvare e inclinò l'elicottero su un lato per allontanarsi il più in fretta possibile e mettersi in salvo verso la spiaggia. Pitt e Giordino avevano ancora sei metri di risalita quando iniziarono a girare su se stessi nell'aria. A Giordino sembrò che le braccia venissero strappate fuori della loro sede, mentre Pitt, che non sentiva dolore, non poteva far altro che aggrapparsi con tutte le forze all'amico e urlare di affrettare l'operazione di recupero. Pitt vedeva il tremendo sforzo stampato sul volto di Giordino. Per due minuti, forse i più lunghi della sua vita, fu tentato di lasciarsi cadere, ma uno sguardo all'acqua che era ormai a quasi centocinquanta metri sotto i suoi piedi penzolanti gli fece cambiare idea. Alzò gli occhi e vide l'uomo al verricello a circa un metro e mezzo da lui. Quest'ultimo si girò e urlò qualcosa al pilota, che prontamente inclinò l'elicottero e riuscì a far atterrare i due amici nel bagagliaio del velivolo. Il portello laterale venne subito richiuso e sprangato. Ancora scioccato, il secondo pilota li fissava esterrefatto. «Voi hombres siete locos», gracchiò, con un forte accento spagnolo. «Questo aggeggio è calibrato per pacchi postali di circa cinquanta chili.» «Parla inglese», osservò Giordino. «Non molto bene», rimarcò Pitt. «Ricordami di mandare una lettera di raccomandazione alla ditta che ha costruito il verricello.» Si alzò e rag-
giunse in fretta la cabina di pilotaggio, dove da un finestrino laterale individuò l'imbarcazione di pattuglia. Aveva rinunciato a inseguirli e stava ritornando verso l'isola. «Cosa diavolo sta succedendo?» chiese il pilota, sinceramente infuriato. «Quei pagliacci sparavano pallottole vere.» «Meno male che erano dei pessimi tiratori.» «Non mi hanno parlato di difficoltà quando ho accettato l'incarico», continuò il pilota, senza smettere di tenere sotto controllo la barca. «Chi siete voi e perché vi inseguivano?» «Come vi è stato detto al momento dell'ingaggio», rispose Pitt, «il mio amico e io siamo della National Underwater and Marine Agency. Mi chiamo Dirk Pitt.» Il pilota staccò una mano dalla cloche e la sporse sopra la spalla. «Marvin Huey.» «Lei è americano. Del Montana, direi, dalla pronuncia.» «Lì vicino. Sono cresciuto in un ranch del Wyoming. Dopo avere pilotato per vent'anni gli elicotteri nella Air Force, e dopo che mia moglie se n'è andata con un petroliere, mi sono ritirato qui e ho messo in piedi questa piccola ditta di trasporti.» Pitt gli strinse la mano, guardandolo di sfuggita. Seduto ai comandi, sembrava di bassa statura, con capelli rossi che si stavano diradando sulle tempie. Indossava un paio di Levi's stinti, una camicia a fiori e stivali da cowboy. Gli occhi azzurro chiaro sembravano averne viste davvero troppe. Doveva avere fra i cinquantacinque e i sessant'anni. Huey ricambiò lo sguardo di Pitt con aria incuriosita. «Non mi avete spiegato il perché di questa grande fuga.» «Abbiamo visto qualcosa che non dovevamo vedere», rispose Pitt, senza scendere nei particolari. «Che cosa c'è da vedere in un faro abbandonato?» «Non è quel che sembra.» Huey era visibilmente perplesso, ma preferì non insistere. «Atterreremo sul campo di Managua fra venticinque minuti circa.» «Prima sarà, meglio è.» Pitt si mosse verso il posto vuoto del secondo pilota. «Posso?» Huey rispose con un cenno del capo appena abbozzato. «Prego.» «Non è che si possa fare un giretto sopra il complesso di Odyssey sull'isola?» Huey si girò di scatto e fissò Pitt con uno sguardo riservato in genere ai
matti. «Scherza? Il posto è più sorvegliato dell'Area 51. Li avremmo addosso ancor prima di esserci avvicinati.» «Che cosa succede là sotto?» «Nessuno lo sa. L'impianto è talmente segreto che i nicaraguensi ne negano persino l'esistenza. Era nato come una piccola industria, ma negli ultimi cinque anni si è trasformato in un grande complesso, con immensi magazzini e, si dice, catene di montaggio. Le misure di sicurezza sono davvero esagerate. Secondo indiscrezioni, ci sarebbero alloggi per tremila persone. Sull'isola c'erano due centri abitati, Altagracia e Moyogalpa, e la popolazione coltivava caffè e tabacco. Sono stati rasi al suolo e bruciati dopo che le autorità nicaraguensi hanno obbligato la gente ad abbandonare la terra e trasferirsi sulle montagne orientali.» «Il governo deve avere investito parecchio in questa impresa.» «Non ne so nulla, ma sono stati molto accondiscendenti nei confronti di Odyssey, lasciandola operare senza interferenze.» «Non c'è nessuno che sia riuscito a eludere i sistemi di sicurezza di Odyssey?» chiese Pitt. Huey sorrise nervoso. «Nessuno che sia tornato a raccontarlo.» «È così difficile penetrare lì dentro?» «Tutte le spiagge dell'isola sono sorvegliate da veicoli equipaggiati con i migliori sistemi di sicurezza. Imbarcazioni di pattuglia ed elicotteri sono continuamente all'opera. Tutti i sentieri e le strade che portano al complesso sono dotati di sensori. Si dice che gli ingegneri di Odyssey ne abbiano messo a punto di molto sofisticati, in grado di riconoscere gli odori e distinguere quelli umani da quelli animali.» «Dovrebbero esserci foto satellitari», insistette Pitt. «Si potrebbero comprare dai russi, ma non rivelano certo che cosa succede in quel labirinto di edifici.» «E per quanto riguarda le voci che circolano?» «Ce ne sono molte, ma l'unica che sembra attendibile è quella secondo cui si tratterebbe di un'installazione di ricerca e sviluppo. Che cosa poi si ricercherebbe è lasciato alla fantasia di ognuno.» «Deve avere un nome.» «Solo quello che gli ha dato la gente del luogo.» «Che sarebbe...» lo incalzò Pitt. «È un'espressione spagnola che corrisponde a 'casa degli invisibili'», rispose infine Huey. «C'è un motivo per questo?»
«Dipende dal fatto che chiunque entri non viene mai più rivisto.» «La polizia locale non ha mai indagato?» chiese Pitt. Huey scosse la testa. «La polizia fa quello che vuole. Si dice che Odyssey abbia comprato tutti i politici, i giudici e i responsabili della sicurezza del Paese.» «E per quanto riguarda la Cina? Ci sono prove del suo coinvolgimento?» «Da un po' di tempo a questa parte, i cinesi sono ovunque nell'America centrale. Circa tre anni fa hanno stipulato un contratto con Odyssey per la costruzione di un canale sulla riva occidentale del lago di Nicaragua, fino a Pena Bianca, per permettere alle navi di grande stazza di passare liberamente.» «Ci sarebbe stato un vantaggio per l'economia del Paese?» «In realtà, no. Quasi tutte le navi che usano il canale sono di una compagnia mercantile cinese.» «La COSCO?» Huey annuì. «Esatto, proprio quella. Attraccano sempre al molo di Odyssey.» Pitt non parlò più per il resto del viaggio. La sua mente cercava di vagliare la miriade di contraddizioni e misteri che riguardavano Odyssey, il suo enigmatico fondatore e le ancora più misteriose operazioni. Non appena Huey atterrò vicino all'hangar della sua compagnia, a tre chilometri da Managua, Pitt scese e chiamò Sandecker. Com'era nel suo stile, l'ammiraglio non si perse in convenevoli. «Non siete ancora partiti per Washington?» «No», rispose Pitt, cercando di blandirlo. «E non partiremo.» Sandecker sapeva che nella mente del suo agente frullava qualcosa e quindi gli si rivolse in tono neutro. «Ritengo che lei abbia una buona ragione.» «Sapeva dell'esistenza di un grande complesso industriale segreto, di proprietà di Odyssey, situato sul lago di Nicaragua proprio sopra le gallerie?» «Tutto quello che so è ciò che ho letto in un rapporto su Odyssey. Si parlava di un canale che dall'oceano arrivava al lago per permettere il passaggio di grandi mercantili.» Sandecker fece una pausa. «Ripensandoci, il rapporto accennava a impianti portuali che le autorità nicaraguensi stavano costruendo nella città di Granada, pochi chilometri a est di Managua.» «Il rapporto era vago perché in realtà si trattava degli impianti costruiti per il complesso di Odyssey sull'isola di Ometepe, a uso esclusivo di quel-
la società.» «Che cos'ha in mente?» chiese Sandecker, come se leggesse il pensiero di Pitt. «Propongo che Al e io andiamo a vedere che cosa succede in quel posto.» Sandecker esitò. «Siete appena scappati fortunosamente dai tunnel. Sfidate un po' troppo la fortuna.» «Stiamo diventando bravi nelle irruzioni.» «Non è divertente», tagliò corto Sandecker. «La sorveglianza deve essere molto stretta. Come pensa di entrare?» «Arriveremo dall'acqua, in immersione.» «Non crede che ci siano sensori sottomarini?» «In effetti, mi stupirei se così non fosse», rispose Pitt con un tono solenne. 35 Dieci minuti dopo aver parlato con Pitt, l'ammiraglio fissava Hiram Yaeger con uno sguardo di assoluta incredulità. «È certo di quel che dice? Ci deve essere un errore.» Yaeger era irremovibile. «Max non è infallibile al cento per cento, ma su questa cosa credo che abbia perfettamente ragione.» «È davvero incredibile», disse Gunn, esaminando le congetture di Max. Sandecker scuoteva piano la testa, sbalordito e infuriato al tempo stesso. «Dunque le gallerie sarebbero state costruite per deviare la corrente equatoriale sud, fatto che provocherebbe un deciso calo di temperatura della corrente del Golfo.» «Secondo la proiezione elaborata da Max, si tratterebbe di otto gradi in meno una volta raggiunta l'Europa.» Gunn alzò gli occhi dal rapporto. «Per il clima europeo sarebbe un cataclisma. L'intero continente resterebbe congelato per otto mesi all'anno.» «Non dimentichiamoci degli effetti della corrente del Golfo sulla costa orientale degli Stati Uniti e delle province atlantiche del Canada», aggiunse Sandecker. «Tutti gli Stati a est del Mississippi subirebbero un freddo simile a quello prospettato in Europa.» Gunn replicò in tono sarcastico: «È davvero una bella prospettiva». «La corrente atlantica settentrionale, una diramazione di quella del Golfo, è una corrente temperata che rimane in superficie per effetto della tem-
peratura e del tasso salino dell'acqua», spiegò Yaeger. «Quando, salendo verso nord, l'acqua calda si mischia alle correnti fredde che provengono dall'Artico, diventa densa e scende in profondità a sud-est della Groenlandia. Questo fenomeno viene detto 'circolazione termoalina'. Poi, in prossimità dell'Europa, si riscalda di nuovo e torna in superficie. Se la corrente del Golfo subisce una diminuzione potrebbe alterare completamente il sistema della circolazione termoalina con un peggioramento climatico che durerebbe per diversi secoli.» «Quali sarebbero gli effetti immediati di questo fenomeno?» chiese Sandecker. Yaeger dispose una serie di documenti sulla scrivania dell'ammiraglio e iniziò a citare i dati. «Morte e distruzione dilagherebbero senza controllo. In un primo momento, migliaia di senzatetto morirebbero congelati o per ipotermia, e molti altri ancora li seguirebbero quando le fonti energetiche, sottoposte a uno sfruttamento esagerato, si estinguessero. Il traffico fluviale rimarrebbe per sempre bloccato nel ghiaccio e tutti i porti del Baltico e del mare del Nord diventerebbero inutilizzabili, impedendo l'arrivo dei rifornimenti dei combustibili usati per il riscaldamento, per non parlare di quelli alimentari. Anche il trasporto su strada subirebbe un arresto dovuto al ghiaccio e alla neve; aeroporti e ferrovie arriverebbero alla completa paralisi. Il contrarsi della stagione vegetativa porterebbe a una drastica riduzione, quasi del 50 per cento in verità, della produzione agricola con conseguenti carestie. In aumento sarebbero invece le malattie legate al freddo, soprattutto quelle polmonari. Il turismo scomparirebbe del tutto e l'economia europea entrerebbe nel caos, senza possibilità di trovare una via d'uscita. E stiamo parlando solo dell'inizio.» «Basti pensare alla produzione vitivinicola della Francia o a quella floricolturale dell'Olanda», mormorò Gunn. «Che cosa ne sarebbe dei gasdotti provenienti dal Medio Oriente e dalla Russia?» chiese Sandecker. «Non si potrebbe aumentarne il flusso per alleviare le sofferenze?» «Una goccia nel mare, se paragonato all'aumento della domanda. Il gelo e le tormente farebbero anche scarseggiare l'elettricità. Max ha calcolato che almeno trenta milioni di case in tutta Europa resterebbero senza riscaldamento.» Gunn alzò lo sguardo dagli appunti che stava prendendo. «Hai detto che questo è solo l'inizio.» «Esatto, perché ulteriori distruzioni e tragedie si verificherebbero con
l'aumento delle temperature a fine primavera», continuò Yaeger. «Al terribile scenario si sommerebbero piogge torrenziali e forti venti, con conseguenti massicce inondazioni. Il disgelo di enormi masse di neve farebbe straripare i fiumi, che si riverserebbero in migliaia di villaggi e città distruggendo ponti e strutture vitali come le abitazioni. Le valanghe e gli smottamenti seppellirebbero interi centri abitati, distruggendo autostrade e vie di comunicazione. Non credo sia possibile immaginare le perdite di vite umane con un simile cataclisma.» Gunn e Sandecker restarono in silenzio per qualche istante. Fu l'ammiraglio a romperlo. «Perché?» domandò, senza preamboli. Gunn completò la frase che passava nella mente di tutti. «Che cosa possono guadagnarci lo Spettro e la Repubblica cinese da un piano tanto atroce?» Yaeger aprì le mani in un gesto d'impotenza. «Max non ha ancora trovato una risposta.» «Si può ipotizzare che lo Spettro abbia il monopolio del gas che entra in Europa?» s'informò Sandecker. «Abbiamo fatto la stessa domanda a tutti i maggiori produttori di gas che riforniscono il vecchio continente», rispose Yaeger. «La risposta è sempre stata negativa. Odyssey non ha interessi nel settore del gas naturale o del petrolio in nessuna parte del mondo. Gli unici minerali cui lo Spettro è interessato sono il platino, il palladio, l'iridio e il rodio. Di questi possiede i principali giacimenti e miniere estrattive in Sudafrica, Brasile, Russia e Perù. E avrebbe il monopolio mondiale se riuscisse ad acquisire le miniere Hall in Nuova Zelanda, che producono una quantità di minerale pari a quella degli altri quattro Paesi messi insieme. Per il momento, però, Westmoreland Hall, il proprietario, ha rifiutato qualsiasi offerta.» «Se mi ricordo qualcosa delle lezioni di chimica al liceo», disse Sandecker, scandendo le parole, «il platino viene usato soprattutto per gli elettrodi, come quelli delle candele delle auto, e in gioielleria.» «È anche molto richiesto nell'industria chimica per la sua alta resistenza al calore.» «Non trovo il collegamento fra gli interessi minerari e il piano di riportare l'Europa all'era glaciale.» «Eppure deve esserci una spiegazione logica», dichiarò Gunn. «Il ritorno su un investimento colossale come quello dello scavo delle quattro gallerie deve essere davvero astronomico. Se non trae profitto dall'aumento del
fabbisogno energetico, quali altre possibilità di guadagno avrebbe?» Sandecker si girò verso la finestra e fissò il Potomac con aria pensosa. Quando si voltò di nuovo, fissò Yaeger. «Quelle pompe, alimentate da quell'immane massa d'acqua, non potrebbero servire per produrre energia elettrica? Se così fosse, ce ne sarebbe così tanta da alimentare la maggior parte dell'America centrale.» «Il rapporto di Pitt non accennava a generatori», obiettò Yaeger. «Lui e Giordino dovrebbero essere in grado di riconoscere una centrale elettrica quando la vedono.» Sandecker puntò gli occhi chiari e autorevoli su Gunn. «Sa che cosa vogliono combinare quei due?» «Non so niente.» Gunn sostenne lo sguardo dell'ammiraglio, senza farsi intimidire. «Mi era sembrato di capire che stessero tornando a casa.» «C'è stato un cambiamento di programma.» «Davvero?» «Mi hanno fatto sapere che avrebbero fatto una visitina a un'installazione segreta di Odyssey, costruita su un'isola al centro del lago di Nicaragua.» «E lei li ha autorizzati?» chiese Gunn, con un sorriso astuto. «Da quando accettano i miei 'no'?» «Potrebbero trovare le risposte a questi nostri interrogativi.» «Forse», sorrise cupo l'ammiraglio. «Ma potrebbero anche farsi uccidere.» PARTE QUARTA LA SOLUZIONE 36 30 agosto 2006 Isola di Branwyn, Guadalupa Aerei privati e jet della Odyssey Corporation iniziarono ad arrivare sull'isola di Branwyn, situata quindici miglia a sud di Basse-Terre, uno dei due territori principali della Guadalupa, nei Caraibi. Dei minibus color lavanda, dall'aspetto esotico e con interni raffinati, prelevarono i passeggeri e i loro bagagli per trasferirli nelle eleganti suite di un palazzo-santuario costruito nel sottosuolo, aperto solo per gli ospiti privati dello Spettro. Da-
gli aerei scesero solo donne, senza accompagnatori né soci in affari. Arrivarono tutte sole. L'ultimo aereo atterrò alle sei del pomeriggio. Era l'ormai noto Beriev Be-210 dello Spettro, l'unico uomo presente alla riunione. Il grottesco personaggio uscì a fatica dall'abitacolo e caracollò giù dalla scaletta. Al suo seguito vi era un corpo adagiato su una barella e tutto coperto da un lenzuolo. Lo Spettro, rigorosamente in bianco come di consueto, si sistemò sul sedile posteriore di un'auto e si versò un bicchiere di Beaujolais dal bar della vettura. L'autista, che aveva accompagnato lo Spettro in altre occasioni, si stupì per l'ennesima volta dell'agilità di quel corpo così sgraziato. Rimase per un attimo a fissare con curiosità la sagoma adagiata sulla barella che veniva sistemata senza troppa delicatezza sul pianale di un pick-up, incurante della forte pioggia che iniziava a scendere. All'estremità sud dell'isola, nella roccia e nel corallo era stato ricavato un cratere simile a un immane braciere, con un diametro di novanta metri e una profondità di nove, in modo che, dal mare, non si potesse vedere che cosa succedeva all'interno. Sul fondo del cratere erano stati sistemati trenta megaliti aiti quattro metri, a una distanza di novanta centimetri l'uno dall'altro. Si trattava di una riproduzione del famoso complesso di Stonehenge, termine che significava «circolo di pietra». I megaliti erano larghi due metri e profondi novanta centimetri, leggermente rastremati verso l'alto. Sorreggevano pietre di tre metri, che formavano un architrave lungo tutto il perimetro del cerchio. All'interno si trovava una seconda struttura a ferro di cavallo, conosciuta come il «Trilithon» e formata da cinque coppie di pietre chiuse in alto da altrettanti architravi. Invece della dura arenaria della struttura originale, eretta in Inghilterra fra il 2550 e il 1600 a.C, era stata impiegata la nera roccia lavica. L'unica differenza fra il complesso antico e quello moderno era la presenza di un voluminoso blocco di marmo lavorato e profilato come un sarcofago. Era stato sollevato a quasi tre metri dal suolo, all'interno del Trilithon, e vi si accedeva tramite una serie di gradini. Una passerella correva lungo le pareti, decorate con il famoso cavallo bianco di Uffington. Di notte, il cratere era illuminato all'interno con fasci di luce color lavanda che turbinavano intorno ai megaliti, mentre una serie di raggi laser distribuiti lungo il cerchio esterno proiettava il suo chiarore nel cielo. Quella notte, vennero accesi per brevi istanti a inizio serata e poi spenti.
Pochi minuti prima di mezzanotte, come se qualcuno glielo avesse ordinato, la pioggia cessò. Quando le luci si riaccesero, al centro del Trilithon si trovavano trenta donne abbigliate con vesti senza maniche che ricadevano in pieghe lungo il corpo. Conosciute come «pepli» nell'antica Grecia, coprivano le gambe fino ai piedi ed erano in un arcobaleno di colori, senza che nessuna fosse uguale a un'altra. Copricapi rossi adornavano i capelli, mentre motivi color argento decoravano il volto, il collo e le braccia aperte. Il trucco rendeva i lineamenti simili a maschere, facendo apparire le partecipanti al rito come sorelle dello stesso sangue. Erano in piedi, in silenzio, e fissavano una figura sdraiata sul blocco di marmo. Era un uomo, di cui si vedeva solo la parte superiore del viso. La bocca, il mento e il corpo erano strettamente avvolti in un drappo di seta nera. Sembrava essere vicino ai sessant'anni, con una massa di capelli grigi. S'intuivano dei lineamenti decisi, con un naso appuntito e la carnagione abbronzata. Gli occhi grandi e sporgenti roteavano atterriti e abbagliati dalle luci in cima alle pietre. Saldamente legato alla lastra di marmo, non poteva né muoversi né girare la testa. L'unica vista che gli era concessa era verso i raggi laser che perforavano il cielo nero. All'improvviso, le luci color lavanda si spensero, mentre i laser continuarono a illuminare il cielo. Trascorse un minuto, poi si riaccesero ricominciando a turbinare. La scena era apparentemente la stessa, ma come per magia era apparsa una donna con il peplo color oro. Una massa di capelli rosso fiamma, lunghi e lucenti, cadeva libera fino ai suoi fianchi e la carnagione del volto e del corpo riluceva di un bianco perlaceo. La donna era magra, dotata di un fisico dalle forme prossime alla perfezione. Con grazia felina, salì gli scalini per raggiungere il blocco di marmo che ormai si poteva identificare come un altare. Alzò le braccia e intonò un canto: «Oh, figlie di Odisseo e di Circe, possa la vita essere tolta a coloro che non ne sono degni. Inebriatevi delle ricchezze e dei beni degli uomini che tentano di renderci schiave. Cercate solo uomini ricchi e con potere. E, quando li trovate, sfruttateli, disperdete i loro desideri, depredate i loro tesori e prendete il loro posto». A quel punto, tutte le donne alzarono le braccia e cantarono: «Grande è la nostra sorellanza, perché siamo i pilastri del mondo; grandi sono le figlie di Odisseo e Circe, perché il loro cammino è gloria». L'inno fu ripetuto, a volume sempre più alto, finché non tornò a essere un sussurro e le braccia si abbassarono. In piedi davanti all'uomo terrorizzato, la sacerdotessa dai capelli rossi,
identificabile come l'alta sacerdotessa, estrasse da sotto la veste un coltello e lo sollevò sopra la testa. Le altre donne salirono gli scalini e si disposero sulla passerella, per quello che si capiva essere un sacrificio pagano. All'unisono, estrassero un coltello e lo alzarono. La sacerdotessa intonò un'ultima strofa: «Qui giace colui che non sarebbe dovuto nascere». E, senza esitazioni, conficcò il coltello nel petto della vittima legata sull'altare. Poi sollevò la lama grondante di sangue e si fece da parte, mentre tutte le altre donne compivano, una alla volta, lo stesso macabro rituale. Scesero gli scalini e si disposero nella posizione iniziale, sollevando i coltelli insanguinati davanti a sé in segno di offerta. Un silenzio irreale regnò per qualche istante, poi si udì un canto: «Sotto lo sguardo dei nostri dei, abbiamo trionfato». Le luci e i laser si spensero e il tempio pagano della morte rimase avvolto in una fitta oscurità. Il giorno dopo, il mondo degli affari fu colpito dalla notizia della presunta morte del magnate Westmoreland Hall, scomparso in mare al largo della spiaggia della sua lussuosa residenza in Giamaica. Hall era uscito da solo al mattino per la consueta nuotata. Come al solito, si era spinto oltre la barriera, in acqua alta, da cui rientrava sospinto dalle onde attraverso uno stretto canale. Non era dato di sapere se Hall fosse annegato, fosse stato attaccato da uno squalo o fosse morto di cause naturali, poiché il corpo, nonostante le intense ricerche della guardia costiera locale, non era stato ritrovato. Il necrologio recitava: Fondatore di un impero minerario che possedeva, in Nuova Zelanda, i più vasti giacimenti del mondo di platino e altri cinque metalli, Hall era un imprenditore dal pugno di ferro, che aveva costruito il suo successo rilevando le miniere quando erano sull'orlo della bancarotta e trasformandole in imprese produttive, per poi utilizzarle come garanzia per nuove acquisizioni in Canada e Indonesia. Aveva perso la moglie tre anni fa, in un incidente d'auto. Lascia un figlio, Myron, che è un artista di successo, e una figlia, Rowena, vicepresidente esecutivo della società che prenderà il suo posto di amministratore delegato. Sorprendentemente, gli economisti di Wall Street affermano che, alla notizia della presunta morte, le azioni delle Hall Enterprises sono salite di
dieci punti. In genere, quando scompare la guida di una grande società, le azioni precipitano, ma in questo caso sono state acquisite da una serie di speculatori sconosciuti. Gli esperti del settore prevedono che Rowena Hall venderà l'impero paterno alla Odyssey Corporation, poiché si sa che il fondatore, il misterioso personaggio conosciuto come lo Spettro, le ha fatto un'offerta decisamente più alta rispetto alle altre. Una funzione religiosa in memoria del defunto verrà celebrata per parenti e amici nella cattedrale di Christchurch mercoledì prossimo, alle ore 14. Dieci giorni dopo, nella pagina finanziaria dei maggiori giornali mondiali, apparve la seguente notizia: La Odyssey Corporation, nella persona del suo presidente, ha rilevato la Hall Mining Company dalla famiglia del fu Westmoreland Hall, per una cifra che non è stata rivelata. Il presidente e maggior azionista Rowena Hall continuerà a svolgere il suo compito di amministratore delegato. Non si faceva cenno al fatto che tutto il platino estratto sarebbe stato acquistato dalla Ling Ho Limited di Beijing e spedito su navi cinesi in un complesso industriale sulla costa della provincia del Fujian. 37 Le acque del Nicaragua erano appena increspate dal vento che soffiava dal Pacifico. Benché il lago fosse molto esteso, la marea era quasi inesistente e la temperatura si attestava sui 29 gradi. Sulle onde scure, il silenzio della notte era rotto dal secco ronzio di una moto d'acqua. Procedeva al buio a una velocità di oltre 50 nodi, invisibile sia agli occhi umani sia a quelli del radar, grazie a un involucro di gomma morbida che assorbiva le onde radio e ne impediva il ritorno a qualsiasi trasmettitore. Pitt era alla guida di un Polaris Virage TX, con Giordino alle sue spalle e una borsa di equipaggiamento stipata nel vano di prua. Oltre all'attrezzatura subacquea, arrivata in volo da Washington, avevano le tute rubate a Odyssey e i pass, in cui avevano sostituito le foto. L'operazione di scambio era avvenuta in un negozio specializzato, dove avevano provveduto a togliere le vecchie foto e inserire quelle nuove sotto la plastica laminata; quella di Giordino era stata ritoccata per farlo assomigliare almeno a una
brutta donna. Il proprietario aveva preteso un prezzo esorbitante, ma non aveva posto domande. Dopo aver superato la costa dell'isola ai piedi del vulcano Maderas, procedettero a circa un miglio dalla spiaggia sabbiosa dell'istmo, distesa fra le due montagne. Le luci del complesso si stagliavano sul cupo versante del vulcano Concepción. Non c'era pericolo di black-out. L'esercito di guardie e lo schieramento di strumenti di rilevamento rendevano i dirigenti della Odyssey Corporation molto sicuri di sé. Pitt rallentò in prossimità del porto, dove una grande nave portacontainer della COSCO era rischiarata dalla luce di una miriade di riflettori. Pitt notò che le gru stavano scaricando i container su camion parcheggiati ai piedi dello scafo. Niente invece veniva caricato. Iniziò seriamente a credere che il complesso fosse qualcosa di più di un semplice centro di ricerca e sviluppo. Doveva esserci una connessione con le gallerie sottostanti. Quando Sandecker si era infine convinto della necessità della missione, Yaeger e Gunn li avevano aggiornati sul motivo per cui i tunnel erano stati costruiti. A quel punto era diventato chiaro a tutti che qualsiasi informazione fossero riusciti a ottenere lì dentro avrebbe potuto essere vitale per la scoperta della vera ragione per cui lo Spettro voleva congelare l'Europa. Il Virage TX era grigio antracite e si confondeva con l'acqua scura. Al contrario di quel che si vede nei film, in cui gli agenti segreti usano indumenti neri, il grigio scuro è il colore che meno si vede in una notte stellata. Il motore da tre cilindri della moto d'acqua era stato elaborato dagli ingegneri della NUMA per sviluppare una potenza di centosettanta cavalli. Anche il rumore era stato abbattuto del 90 per cento. Quando filava sull'acqua, gli unici suoni distinguibili erano quello della prua che sbatteva sulle onde e il sordo ronzio del tubo di scappamento. I due uomini erano partiti da un molo deserto a sud di Granada e avevano raggiunto il limite esterno dell'isola di Ometepe in mezz'ora. Pitt rallentò, mentre Giordino studiava l'azione di un radar di rilevamento. «Come ti sembra?» chiese il pilota. «Il raggio passa senza fermarsi, quindi non deve averci tracciato.» «Abbiamo fatto bene a decidere di completare il viaggio sott'acqua», disse Pitt, indicando con la testa un paio di riflettori che scandagliavano l'acqua fino a cinquecento metri dalla riva. «Penso che siano circa quattrocento metri.» «Il profondimetro indica che il fondale è di soli sette metri e mezzo. Dobbiamo essere fuori del canale principale.»
«È tempo di abbandonare la nave e di andare a mollo», annunciò Giordino, mentre un'imbarcazione di pattuglia appariva in fondo a un lungo molo. Le mute umide leggere le avevano già addosso; aprirono quindi il vano della moto e, mantenendosi in equilibrio sullo stabile veicolo, si aiutarono vicendevolmente a indossare i rebreather a circuito chiuso, del tipo usato per le operazioni militari in acque basse. Dopo una rapida esecuzione delle procedure di sicurezza precedenti le immersioni, Giordino scivolò in acqua. Prima di raggiungerlo, Pitt legò la leva di sterzo della moto in posizione diritta, puntò la prua verso la sponda ovest del lago e diede gas. Nessuno dei due si girò a vedere la sorte del loro veicolo prima d'immergersi. Anche se avevano le radio per comunicare, decisero di evitare qualsiasi rischio di perdersi in quell'acqua nera come l'inchiostro: si legarono fra loro con una cima da tre metri. Pitt aveva optato per i rebreather a circuito chiuso perché quelli a circuito semichiuso non solo erano più adatti alle maggiori profondità, ma rilasciavano anche bolle d'aria che salivano in superficie e potevano rivelare la presenza di un sommozzatore. Con una percentuale di ossigeno del cento per cento, i rebreather a circuito chiuso erano le uniche apparecchiature subacquee che non producevano nessuna bolla, ed era per questo motivo che venivano utilizzati dai militari per missioni segrete. Occorreva un addestramento specifico per poterli usare al meglio, ma Pitt e Giordino avevano ormai accumulato un'esperienza ventennale con quel genere di apparecchi. I due agenti della NUMA procedevano nel silenzio più completo. Giordino seguiva ogni movimento dell'amico grazie a una torcia a stilo schermata dal fascio così sottile che era praticamente impossibile da rilevare in superficie. Quando arrivarono al canale principale, Pitt vide il fondo scendere. Si fermò un istante, controllò la bussola e poi si diresse deciso verso il molo di Odyssey. In lontananza, amplificato dall'acqua, si udiva il rumore delle due eliche dell'imbarcazione di pattuglia. Con l'aiuto della bussola e del GPS, procedettero lungo la parte del molo principale che era addossata alla costa. Nuotavano lentamente, a ritmo costante, mentre l'acqua in superficie si faceva meno scura per effetto delle luci del porto che si avvicinavano. Il bagliore più forte era quello prodotto dai fasci dei riflettori di perlustrazione, che percorrevano l'intera area. L'acqua era sempre più trasparente e la superficie più chiara e a un certo punto Al e Dirk iniziarono a distinguere le sagome dei piloni del molo.
Passarono a fianco della grande portacontainer della COSCO, mantenendo una distanza alla quale nessun marinaio che si trovasse per caso sul ponte potesse vederli. Le attività di scarico si erano interrotte. Le gru erano immobili e i magazzini chiusi, mentre i camion si erano allontanati. Improvvisamente, Pitt avvertì un formicolio alla nuca ed ebbe la sensazione che qualcosa di enorme si fosse materializzato dall'oscurità e l'avesse sfiorato sopra la spalla, prima di scomparire. S'irrigidì di colpo e Giordino sentì la cima che si allentava. «Che cosa succede?» domandò Al. «Penso si tratti di un tiburón toro», rispose Pitt. «Uno squalo?» «Uno squalo toro del Nicaragua, una bestia di due metri e mezzo o tre, con il muso schiacciato e un colore grigio.» «Gli squali d'acqua dolce sono pericolosi?» «Ne hai mai visto uno che non sia carnivoro?» Pitt fece girare la torcia a stilo davanti a sé, ma non riusciva a vedere più in là di tre metri. «È meglio se ci mettiamo in posizione.» Giordino afferrò immediatamente il senso delle parole di Pitt; gli si avvicinò e si appoggiò alla sua schiena, in modo che insieme avessero una visuale di 360 gradi. Come se si fossero letti nel pensiero, estrassero i coltelli dal fodero attaccato sul polpaccio e li tennero puntati in avanti. Il nemico si ripresentò e iniziò a girare intorno a loro a spirale, avvicinandosi sempre più. La mostruosa bestia aveva la pelle grigia, che alla lieve luce della penna creava un'ombra sinistra. Li fissava con un occhio nero grande come una tazzina da caffè e mostrava due file di denti triangolari serrati in un ghigno minaccioso. Si girò di scatto per passare a vedere le sue prede più da vicino. Non aveva mai visto pesci con quelle strane appendici e sembrava incuriosito dal fatto che non scappassero. Aveva l'aspetto di un mostro affamato che cercasse di decidere se quei due strani pesci che avevano invaso il suo territorio fossero appetitosi oppure no. Pitt sapeva che quella macchina di morte non era pronta ad attaccare. La bocca era semichiusa e le labbra erano ancora attaccate ai terribili denti. Decise quindi che l'offesa era la miglior difesa e si protese verso la creatura, vibrando il coltello in un colpo che sfregiò il muso della bestia, l'unico punto molle di quel corpo coriaceo. Lo squalo si allontanò, lasciando una scia di sangue, confuso e irritato dall'improvvisa resistenza di quella preda che aveva giudicato indifesa. Poi si voltò, rimanendo sospeso per pochi istanti, mosse la coda e si scagliò su
di loro a una velocità sorprendente, con lo slancio assassino di chi sapeva di essere sul punto di uccidere. Pitt aveva solo un ultimo trucco a disposizione. Puntò il fascio di luce della penna direttamente nell'occhio destro dello squalo, che rimase accecato per quei pochi istanti sufficienti a indurlo a virare sulla sinistra, con la bocca aperta pronta a mordere chiunque si trovasse sulla sua strada. Mentre gli passava davanti sospinto dalla pinna caudale, Pitt, spostatosi sul fianco, gli sferrò un potente calcio. Le possenti fauci si chiusero sull'acqua senza riuscire a ghermire nulla. A quel punto Pitt si lanciò in avanti con il coltello in mano e lo infilzò nell'occhio nero e ottuso del mostro. Potevano accadere due cose. Lo squalo, impazzito dal dolore e dalla rabbia, avrebbe potuto attaccare senza più esitare; oppure, poteva decidere di allontanarsi, semicieco, rinunciando a una battaglia troppo difficile. Fortunatamente optò per la seconda soluzione e non si fece più vedere. «Non siamo mai stati così vicini a diventare il pasto di qualcuno», commentò Giordino, con una voce ancora carica di tensione. «Avrebbe probabilmente digerito me e sputato te, per il cattivo sapore», lo incalzò Pitt. «Non sapremo mai se gli sarebbe piaciuto il cibo italiano.» «Cerchiamo di muoverci prima che uno dei suoi compagni decida di venire a ficcare il naso.» Proseguirono facendo molta più attenzione di prima e provando un senso di sollievo quando le luci del porto assicurarono una visibilità di nove metri. Una volta raggiunti i piloni del molo, vi nuotarono in mezzo e, a un certo punto, decisero di riaffiorare. Rimasero fermi a fissare le assi sopra di loro, in attesa di capire se qualche sensore li avesse individuati. I minuti passarono e fortunatamente non ci furono segni di pattuglie in arrivo. «Seguiremo il molo fino alla spiaggia, prima di tornare ancora in superficie», stabilì Pitt. Giordino si mosse per primo, seguito dall'amico. Il fondale aumentò di colpo e furono contenti che non ci fossero rocce. Al riparo sotto la banchina per non farsi individuare dai riflettori, si tolsero l'attrezzatura e le mute umide ed estrassero dalle borse impermeabili le tute di Odyssey e i caschetti. Dopo aver terminato di vestirsi e aver infilato le calze e le scarpe, controllarono che i pass fossero nella posizione corretta e uscirono allo scoperto. Sulla strada asfaltata che passava vicino all'entrata del porto c'era solo una guardia in una casupola, concentrata su un vecchio film americano in
spagnolo che davano in televisione. Pitt si guardò in giro, ma non ne vide altre. «Verifichiamo se la nostra presenza è gradita?» chiese Giordino, guardando per la prima volta Pitt in faccia da quando si erano immersi. «Vuoi vedere come reagisce quando passiamo?» «Ora o mai più. È il momento di capire se possiamo muoverci liberamente nel complesso.» Senza aspettare oltre, passarono con aria indifferente a fianco della casupola. L'uomo di guardia, che indossava la tuta nera maschile, avvertì il movimento e uscì sulla strada. «La parada?» urlò, scuro in volto. «La parada?» ripeté Giordino. «Significa 'alt'.» «¿Para qué está usted aquí? Usted debe estar en sus cuartos.» «Ecco l'occasione di mettere alla prova il tuo spagnolo», disse Giordino, con le dita già strette sulla pistola sotto la tuta. «Quale spagnolo?» replicò Pitt. «Ho dimenticato quasi tutto quello che ho imparato a scuola.» «Prova almeno a indovinare che cos'ha detto.» «Vuole sapere che cosa facciamo qui. Poi ci ha detto che dovremmo essere nei nostri alloggi.» «Non male.» Giordino sorrise, poi si avviò verso la guardia con l'aria più indifferente del mondo. «Yo no hablo el español», disse, con la voce in falsetto, nel disperato tentativo di imitare quella di una donna. «Molto bene», si complimentò Pitt, a sua volta. «Sono stata a Tijuana», disse Giordino avvicinandosi alla guardia e stringendosi nelle spalle. «Siamo canadesi.» L'uomo aggrottò le sopracciglia, mentre lo osservava. Probabilmente stava pensando di non aver mai visto una donna così brutta in vita sua. Poi la fronte si distese e le labbra si aprirono in un sorriso. «Oh, sì, canadesi, io parlo inglese.» «So che dovremmo essere nelle baracche», disse Pitt, ricambiando il sorriso. «Volevamo solo fare una passeggiata prima di andare a dormire.» «No, no, non è permesso, amigos», replicò l'uomo. «Non potete uscire dalla zona che vi è stata assegnata dopo le otto.» Pitt alzò le mani. «Scusaci, amigo, stavamo parlando e non ci siamo accorti di essere nella zona sbagliata. Adesso ci siamo persi. Puoi dirci dove sono gli alloggi?» La guardia si avvicinò e illuminò con la torcia i due pass, confrontandoli
con le loro facce. «Siete quelli degli scavi?» «Sì, veniamo da là. Il superiore ci ha mandato su per un giorno di riposo.» «Capisco, señor, ma dovete ritornare ai vostri alloggi. È il regolamento. Seguite la strada e girate a sinistra alla torre dell'acqua. Il vostro edificio è trenta metri sulla sinistra.» «Gracias, amigo», disse Pitt. «Siamo sulla buona strada.» Convintosi che Pitt e Giordino non fossero intrusi, l'uomo tornò nella casupola. «Abbiamo superato il primo test», dichiarò Giordino. «Ora però è meglio se ci nascondiamo da qualche parte finché non diventa giorno. Non è sano girovagare di notte. Desteremmo troppi sospetti. La prossima guardia che ci ferma potrebbe non essere così cordiale.» Seguirono le indicazioni ricevute finché non raggiunsero una lunga fila di prefabbricati. Si mossero nell'ombra sul limite di un boschetto di palme, esaminando le porte delle baracche degli impiegati di Odyssey. Nessun edificio era sorvegliato, tranne il quinto, dove c'erano due guardie all'ingresso e due lungo il perimetro, all'esterno di un'alta recinzione. «Chiunque stia là dentro non deve essere bene accetto da Odyssey», osservò Pitt. «Sembra un carcere.» «Deve esserci un prigioniero, là dentro.» «Sono d'accordo.» «Quindi entriamo in un'altra baracca non sorvegliata.» Pitt scosse la testa. «No, entriamo in questa. Voglio parlare con chi c'è dentro. Forse si può scoprire qualcosa su quanto sta succedendo qui.» «Non vedo come potremmo riuscire a entrare.» «Mi sembra che ci sia un piccolo capanno per gli attrezzi qui a fianco. Giriamoci intorno, al riparo degli alberi, e verifichiamo.» «Mai che si scelga la via più facile», brontolò Giordino vedendo che l'amico, illuminato dai lampioni, aveva un'espressione pensierosa e distante. «Non ci sarebbe gusto se fosse troppo facile», replicò Pitt, in tono serio. Come ladri che strisciassero in un quartiere residenziale, si mossero fra alberi dai tronchi sottili, finché non arrivarono ai limiti della macchia. Correndo piegati su se stessi, coprirono altri trecento metri fino a raggiungere il retro del capanno. Dietro uno degli angoli, trovarono una porticina. Giordino provò ad aprirla e, siccome non era chiusa a chiave, sgattaiolò all'interno seguito dall'amico. Accesero le torce a stilo per dare un'occhiata e
scoprirono che era un garage dove veniva tenuto un camioncino per la pulizia delle strade. Alla fioca luce della penna, Pitt poté immaginarsi le labbra di Giordino che si aprivano in un sorriso soddisfatto. «Tombola!» «Pensi anche tu quello che penso io?» «Sì», rispose Pitt. «Accendiamo il camioncino e lo mandiamo giù per la strada, ma con un piccolo particolare che attirerà l'attenzione delle guardie.» «E cioè?» «Gli diamo fuoco.» «La tua mente malata non finirà mai di stupirmi.» «È una dote naturale.» In dieci minuti riuscirono a riempire mezza tanica di benzina da venti litri. Poi Pitt salì sul mezzo e l'accese, mentre Giordino stava pronto ad aprire le porte. Per fortuna il motore partì al primo colpo, con un unico scossone, e si assestò senza troppo rumore. C'erano quattro marce e Pitt stava sulla porta pronto a innestare la seconda, ma intenzionato a ingranare la prima per far prendere un po' di velocità al veicolo. Aspettò fino all'ultimo minuto per evitare un'esplosione nel garage, poi sterzò il volante del camioncino per fargli imboccare la strada, in direzione di alcuni camion posteggiati. A quel punto Giordino aprì le porte e afferrò la tanica, rovesciandone il contenuto all'interno della cabina. Aveva la fiamma ossidrica in mano. «Bum», disse laconico. Pitt innestò la marcia e saltò giù dal veicolo, mentre Giordino apriva le bombole e accendeva l'ugello, ottenendo una lunga fiammata azzurra. La cabina prese immediatamente fuoco con un sibilo simile a una folata di vento; poi il mezzo si mosse e superò le porte d'ingresso. Sfrecciando sulla strada come una cometa, percorse quasi cinquanta metri sollevando polvere e sporcizia con le spazzole, prima di schiantarsi contro il primo camion che rimbalzò con le quattro ruote su una palma. A quel punto, colpì il secondo camion con un orrendo stridore di metallo accartocciato e di vetri infranti, e via via tutti gli altri a catena, finché non si creò un groviglio di lamiere e fiamme che salivano al cielo, seguite da una spirale di fumo nero. Le due guardie fuori dell'edificio rimasero pietrificate a osservare incredule quell'improvvisa eruzione di fuoco. Poi, recuperato il sangue freddo, si precipitarono giù per la strada al pensiero che l'autista potesse ancora essere nella cabina. Fu così che abbandonarono le loro postazioni, seguite
quasi subito dalle due guardie che erano all'interno. I due uomini della NUMA approfittarono immediatamente del diversivo creato dal camioncino in fiamme. Pitt si precipitò oltre il cancello della recinzione e poi all'interno dell'edificio, dalla porta lasciata aperta, giusto in tempo per essere travolto da Giordino, che non era riuscito a frenare la sua corsa. «Dovresti dimagrire un po'», si lamentò Pitt. Giordino si affrettò a rimetterlo in piedi. «E ora, genio?» Invece di rispondere, Pitt iniziò a correre lungo un corridoio illuminato dove c'erano delle porte chiuse con chiavistelli. Si fermò davanti alla terza e si rivolse a Giordino. «Questa è la tua specialità», disse, mettendosi di lato. L'italiano gli scoccò uno sguardo interrogativo, poi si piegò all'indietro e sferrò un calcio all'altezza dei cardini. Concluse il lavoro con una spallata. La porta non sostenne la potenza muscolare dell'uomo e cadde sul pavimento con un tonfo sordo. Pitt entrò rapidamente nella stanza e vi trovò un uomo e una donna seduti sul letto, paralizzati dal terrore alla vista di due sconosciuti che irrompevano in quel modo. «Scusate l'intrusione», disse Pitt a bassa voce, «ma abbiamo bisogno di un posto dove nasconderci.» Mentre parlava, Giordino stava già rimettendo la porta al suo posto. «Dove avete intenzione di portarci?» chiese la donna, in preda al panico, con un forte accento tedesco, mentre tirava il lenzuolo fino al mento. Rotondetta, con il volto rubicondo, grandi occhi marroni e i capelli grigi raccolti in uno chignon, sembrava una nonna e probabilmente lo era. Anche se del tutto nascosta dal lenzuolo, Pitt si rendeva conto che non aveva più le forme di una ragazza. «In nessun posto. Non siamo chi pensate.» «Ma lei è uno di loro.» «No, signora», disse Pitt, cercando di tranquillizzarla. «Non siamo impiegati di Odyssey.» «In nome di Dio, chi siete allora?» chiese l'uomo, che si stava riprendendo. Quando si alzò dal letto, videro che indossava un pigiama di quelli di una volta e una vestaglia dello stesso stile. Era l'opposto di quello che doveva essere sua moglie, alto e magro come uno stecco. Superava Pitt di quasi otto centimetri e aveva folti capelli grigi, una pelle chiara, un naso affilato e labbra fini, sottolineate da sottilissimi baffi.
«Mi chiamo Dirk Pitt e il mio amico è Al Giordino. Lavoriamo per il governo degli Stati Uniti e siamo qui per scoprire perché l'esistenza di questo posto deve essere tenuta così segreta.» «Come siete arrivati sull'isola?» chiese la donna. «Dall'acqua», rispose Pitt, senza dilungarsi. «Siamo entrati qui dopo aver creato un diversivo che ha distratto le guardie.» Mentre parlava, si sentiva il suono delle sirene che riecheggiava nel corridoio attraverso la porta ancora aperta. «Non ho mai incontrato nessuno cui non piacesse guardare un bel falò.» «Perché avete scelto questa stanza?» «Per puro caso, nient'altro.» «Se ce lo permettete, vorremmo passare qui la notte. All'alba saremo già scomparsi», disse Giordino. La donna lo guardò con sospetto, spostando gli occhi dalla tuta al volto e viceversa. «Lei non è una donna.» Giordino rispose con un ampio sorriso. «Per fortuna no, ma come io sia finito in un'uniforme femminile di Odyssey è una storia lunga e noiosa.» «Perché dovremmo credervi?» «Non posso darvi nessun motivo concreto.» «Vi dispiacerebbe spiegarci perché vi hanno rinchiuso qui dentro?» chiese Pitt. «Perdonateci», disse la donna, cercando di riprendersi. «Mio marito e io siamo terribilmente confusi. Lui è il dottor Klaus Lowenhardt, e io sono sua moglie, la dottoressa Hilda Lowenhardt. Ci tengono sotto chiave di notte. Durante il giorno lavoriamo sotto stretto controllo nei laboratori.» Pitt era divertito da quelle presentazioni formali. «Come siete arrivati qui?» «Stavamo conducendo una ricerca all'Istituto di ricerca tecnica di Aquisgrana, in Germania, quando alcuni agenti che lavoravano per lo Spettro e la Odyssey Corporation ci chiesero un lavoro di consulenza. Mia moglie e io eravamo due dei quaranta migliori scienziati del mondo nel nostro campo e fummo allettati dall'offerta di forti somme di denaro e dalla promessa di un finanziamento per le nostre ricerche, che avremmo potuto proseguire una volta concluso il contratto. Sull'aereo, ci venne detto che stavamo andando in Canada, ma, quando atterrammo, ci ritrovammo su quest'isola, nel mezzo del nulla. Da allora, lavoriamo praticamente in schiavitù.» «Da quanto tempo siete qua?» «Cinque anni.»
«Che tipo di ricerche vi obbligano a condurre?» «Noi siamo specializzati nel campo dell'energia prodotta tramite le celle a combustibile.» «È per tale ragione che è stata costruita questa struttura, per condurre esperimenti sulle celle a combustibile?» Klaus Lowenhardt confermò. «Odyssey ne ha iniziato la produzione circa sei anni fa.» «Avete contatti con il mondo esterno?» «Non abbiamo più potuto metterci in contatto telefonico né con i familiari né con gli amici», rispose Hilda. «Ci permettono solo di tenere una corrispondenza, che però è fortemente censurata.» «Cinque anni sono tanti per stare lontano da casa. Perché non avete cercato di ostacolare la ricerca con rallentamenti e sabotaggi?» Hilda scosse la testa con aria solenne. «Perché minacciano di farci fare una morte orribile se ostacoliamo il lavoro.» «E la minaccia è estesa ai nostri cari, a casa», aggiunse Klaus. «Non abbiamo altra scelta che quella di mettere tutto il nostro impegno. Continuiamo inoltre ad avere il desiderio di proseguire i nostri studi e di trovare una fonte energetica pulita ed efficace da mettere al servizio dell'umanità.» «Ci hanno dato un esempio della loro crudeltà con un uomo che non aveva famiglia», disse Hilda. «Lo torturavano di notte e lo obbligavano a lavorare di giorno. Lo hanno trovato una mattina, impiccato alla lampada della stanza. Sappiamo tutti che è stato assassinato.» «Pensate che sia stato ucciso per ordine dei funzionari di Odyssey?» «È stata un'esecuzione», lo corresse Lowenhardt. Sorrise tristemente e indicò il soffitto. «Guardi lei stesso, signor Pitt. Secondo lei quella lampada, con un filo così sottile, reggerebbe il peso di un uomo?» «Capisco che cosa intende dire», riconobbe Pitt. «Facciamo quello che ci dicono», disse Hilda in tono pacato, «qualsiasi cosa pur d'impedire loro di fare del male a nostro figlio, alle nostre due figlie e ai cinque nipotini. Gli altri scienziati sono nella stessa situazione.» «Avete fatto, con gli altri, dei progressi nella tecnologia delle celle a combustibile?» chiese Pitt. Hilda e Klaus si girarono a guardarsi, con espressioni interrogative. Poi l'uomo disse: «Il mondo non sa dei nostri sorprendenti risultati?» «Sorprendenti risultati?» «Insieme con gli altri scienziati, abbiamo sviluppato una fonte energetica che sfrutta l'azoto e l'ossigeno dell'atmosfera per creare considerevoli
quantità di elettricità a costi veramente bassi, con acqua pura come unico prodotto di scarto.» «Pensavo che fossimo ancora molto lontani dall'avere un'energia pulita», osservò Giordino. «Se si parla di idrogeno e ossigeno per produrre energia, allora sì. L'ossigeno può venire dall'aria, ma l'idrogeno non è disponibile e deve essere immagazzinato come un carburante. Con la nostra fortunata e quasi miracolosa scoperta, abbiamo aperto la strada verso un'energia pulita, già disponibile per milioni di persone.» «Ne parlate come se fosse già in produzione», fece notare Giordino. «È stata messa a punto e collaudata con successo più di un anno fa.» Lowenhardt lo guardava come se fosse lo scemo del villaggio. «La produzione è iniziata subito dopo. Dovreste conoscerla perfettamente.» La coppia di scienziati si accorse che le espressioni di imbarazzo e incredulità sul volto di Pitt e Giordino erano autentiche. «È una cosa nuova per noi», spiegò Pitt, in tono scettico. «Non so nulla di una nuova energia miracolosa che trovo al supermercato e che alimenta le automobili.» «Neanch'io», gli fece eco Giordino. «Non capiamo. Ci hanno detto che milioni di unità erano già state prodotte da uno stabilimento cinese.» «Mi dispiace contraddirvi, ma i vostri sorprendenti risultati sono ancora segreti», replicò Pitt, con un tono comprensivo. «Posso solo immaginare che i cinesi stiano facendo scorte della vostra invenzione per motivi che restano oscuri.» «Ma a che cosa servono le gallerie?» mormorò Giordino, che non riusciva a mettere insieme i pezzi dell'intricata vicenda. Pitt si sedette su una sedia e fissò pensieroso i motivi del tappeto. Quando alzò gli occhi disse: «Le conclusioni del computer di Yaeger, che l'ammiraglio mi ha riferito, sono che le gallerie servirebbero ad abbassare la temperatura della corrente del Golfo per provocare un cataclisma climatico, con otto mesi polari in Europa e negli Stati Uniti orientali». Si rivolse poi ai Lowenhardt. «La vostra tecnologia energetica va bene anche per le automobili?» «Non ancora, ma ci stiamo arrivando. Con qualche ulteriore sforzo di ricerca, dovremmo riuscire ad applicare la tecnologia delle celle a combustibile a tutti i veicoli, compresi aerei e treni. Siamo già oltre la fase dei progetti. Al momento stiamo terminando la produzione per poi passare ai test su strada.»
«Cos'è in grado di fare questo aggeggio che state producendo?» chiese Pitt. Klaus trasalì alla parola «aggeggio». «Il Macha è un generatore autoalimentato, una cella appunto, che può fornire energia elettrica a bassi costi a qualsiasi abitazione, ufficio, posto di lavoro, scuola nel mondo. Fa dell'inquinamento un incubo del passato. Ogni casa, non importa quanto grande e dove si trovi, potrà avere la sua fonte di energia indipendente.» «L'avete chiamato 'Macha'?» «È stato lo Spettro a battezzarlo, quando ha visto la prima unità operativa. Macha, ci ha detto, sarebbe la dea celtica dell'astuzia, anche conosciuta come la regina degli spiriti.» «Ci risiamo con i celti», mormorò Giordino. «Il mistero s'infittisce», sentenziò Pitt. «Guardie in avvicinamento», avvisò Giordino, che era accanto alla porta. «Sembrano in due.» Si appoggiò con tutto il peso. La stanza divenne così silenziosa che le voci delle guardie si potevano udire distintamente, mentre si avvicinavano lungo il corridoio, controllando le porte degli scienziati in ostaggio. I passi si fermarono proprio davanti a loro. Gli occhi dei due coniugi si trasformarono in quelli di due conigli terrorizzati dall'ululato dei coyote, finché non videro le pistole nelle mani dei loro ospiti e si resero conto che quei due sapevano quello che facevano. «Este puerta aparece dañada.» «Ha detto che la porta sembra danneggiata», sussurrò Pitt. Una delle guardie verificò il chiavistello e la spinse, ma il peso di Giordino non le permise di spostarsi. «Se parece seguro», disse l'altra voce. «Sembra sicura», tradusse Pitt. «Lo tendremos reparada por la mañana.» «Hanno detto che sarà riparata entro domattina.» Poi i passi e le voci si allontanarono, mentre le guardie proseguivano il loro giro di controllo. Pitt si girò e fissò i Lowenhardt con un sguardo molto serio. «Dobbiamo lasciare l'isola e voi dovete venire con noi.» «Pensi che sia opportuno?» domandò Giordino. «Fondamentale», rispose Pitt. «Queste persone sono la chiave del mistero. Sanno tutto. Non abbiamo bisogno di andare in giro a ficcare il naso in questo complesso e, anche se lo facessimo, non arriveremmo a scoprire
neanche un terzo di quello che i dottori sanno.» «No, no!» si affannò a dire Hilda. «Non osiamo andarcene. Quando si accorgeranno che siamo scomparsi, i sicari di Odyssey se la prenderanno con i nostri figli e nipoti.» Pitt le prese la mano e gliela strinse con calore. «La vostra famiglia verrà protetta. Vi prometto che non permetterò che facciano loro del male.» «Non sono così sicuro», obiettò Giordino, considerando la situazione e le probabili conseguenze. «Avendo abbandonato la moto d'acqua, l'unico piano per fuggire è quello di rubare una barca o un aeroplano, perché un altro recupero da elicottero è impensabile. Un simile piano diventa complesso con una coppia di persone anziane al traino.» Pitt si rivolse ancora ai due coniugi. «Ciò che non avete considerato è che, quando non servirete più, voi e gli altri ostaggi sarete eliminati. Lo Spettro non può rischiare che voi riveliate al mondo ciò che succede qui.» Klaus Lowenhardt comprese perfettamente, ma non riuscì ad accettare sino in fondo le parole di Pitt. «Non possono ucciderci tutti, sarebbe diabolico. Non oseranno. Il mondo verrebbe a sapere la verità.» «No, se, per esempio, l'aereo che vi riporta a casa precipita accidentalmente in mare. A meno di un'inchiesta, nessuno saprebbe cos'è successo davvero.» Klaus guardò la moglie e le mise una mano sulla spalla. «Temo che il signor Pitt abbia ragione. Lo Spettro non ci può lasciare in vita.» «Una volta che rivelerete tutto alla stampa, lo Spettro non oserà uccidere gli altri scienziati. I servizi segreti dei vostri Paesi si unirebbero e si metterebbero subito a cercarlo, con tutte le leggi internazionali dalla loro parte. Credetemi, partire ora con noi è l'unica soluzione.» «Potete garantirci di portarci fuori di qui sani e salvi?» chiese Hilda, con voce esitante. Pitt sembrò davvero preoccupato. «Non posso promettervelo, perché non sono un indovino. Ma ciò che posso assicurarvi è che morirete se rimarrete qui.» Klaus prese la moglie per le spalle. «Bene, mamma, sembra che sia l'unica possibilità di rivedere i nostri figli.» La donna alzò la testa e lo baciò sulla guancia. «Bene, partiamo insieme.» «Stanno tornando», annunciò Giordino, con l'orecchio sulla porta. «Se gentilmente potete vestirvi», disse Pitt ai due anziani, «il mio amico e io ci occuperemo delle guardie.» Poi, mentre gli scienziati iniziavano a
infilarsi i vestiti, raggiunse l'amico e si mise dall'altra parte della porta, con la fidata Colt 45 pronta a far fuoco. I secondi sembravano scanditi a uno a uno mentre le guardie tornavano sui loro passi. Pitt e Giordino le attesero pazientemente, finché non sentirono che erano dietro di loro. A quel punto, l'italiano spinse la porta rotta all'esterno e la fece cadere a terra. Gli uomini della sicurezza rimasero troppo sorpresi per opporre resistenza mentre venivano tirati nella stanza e minacciati con due pistole automatiche. «!A tierra, rápido!» disse Pitt facendo schioccare le dita per ordinare ai due di stendersi sul pavimento. Giordino strappò le lenzuola e in men che non si dica li disarmò, legò e imbavagliò. Cinque minuti dopo Pitt, con Klaus e Hilda al seguito e Giordino che chiudeva la fila, percorreva l'ingresso ormai incustodito e il cancello della recinzione, quindi attraversò di corsa la strada ancora affollata di guardie e pompieri che circondavano il camioncino in fiamme. Il gruppo di fuggiaschi scomparve nell'ombra. 38 Avevano una lunga strada da percorrere. Gli hangar al termine della pista di atterraggio sull'istmo si trovavano a circa un chilometro e mezzo dalla prigione e bisognava attraversare parte del complesso. Oltre a una foto satellitare dell'insieme con cui orientarsi, adesso gli agenti della NUMA potevano contare anche sui due scienziati, che conoscevano bene la disposizione delle strade. Klaus Lowenhardt si attardò un momento per parlare con Giordino. «È certo che il suo amico abbia il controllo della situazione?» «Diciamo che Dirk è un uomo dalle mille risorse, che in genere riesce a tirarsi fuori dalle situazioni più ingarbugliate.» «Ha fiducia in lui.» Era un'affermazione più che una domanda. «Gli affiderei la mia vita. Lo conosco da quarant'anni e non mi ha mai deluso.» «È un agente segreto?» «Più o meno.» Giordino non riuscì a soffocare del tutto la risata. «Dirk è un ingegnere marino. È il direttore dei progetti speciali della National Underwater and Marine Agency. Io sono il suo vice.» «Che Dio ci aiuti!» mormorò Lowenhardt. «Se avessi saputo che non eravate agenti addestrati della CIA, non sarei mai venuto con voi a rischiare
la vita di mia moglie.» «La vostra vita non potrebbe essere in mani migliori», lo rassicurò Giordino, con una voce bassa ma salda. Pitt si muoveva da un edificio all'altro, cercando di rimanere fuori del cono di luce dei lampioni e delle lampade sul tetto delle costruzioni. Non era un percorso facile. Tutto il complesso era ben illuminato e su ogni edificio c'erano dei riflettori per scoraggiare ogni tentativo di fuga. Grazie a una simile illuminazione, Pitt poteva usare il binocolo invece del visore a infrarossi, per verificare che non ci fossero guardie nascoste nell'ombra. «Le strade sembrano stranamente poco sorvegliate», mormorò. «Questo perché di notte sguinzagliano i cani», spiegò Hilda. Giordino si fermò di colpo. «Non ci ha mai parlato di cani.» «Non me l'avete chiesto», replicò la scienziata in tono asciutto. «Scommetto che si tratta di dobermann», si lamentò Giordino. «Io odio quelle bestiacce.» «Siamo stati fortunati ad arrivare fin qui», ammise Pitt, «Dobbiamo stare due volte più attenti da adesso in poi.» «E siamo anche senza carne», brontolò Giordino. Pitt stava per abbassare il binocolo quando vide un alto reticolato con filo spinato in cima. Nella rete si apriva un cancello che era sorvegliato da due uomini, ben visibili alla luce di un riflettore. Pitt mise a fuoco le lenti e osservò con più attenzione. Non erano uomini, ma donne in tuta azzurra. Davanti al cancello c'erano due cani liberi che fiutavano il terreno. Erano dobermann, naturalmente, e Dirk sorrise pensando ai timori del collega. «C'è una recinzione fra noi e la pista», annunciò, passando il binocolo a Giordino. Questi osservò con attenzione l'ostacolo. «Hai notato che c'è una seconda recinzione più piccola a pochi metri da quella alta?» «Sicuramente è stata predisposta per proteggere i cani.» «Per impedire che si friggano sulla graticola.» Giordino si fermò a esaminare la rete per cento metri nelle due direzioni. «Nel reticolato principale deve passare elettricità sufficiente ad arrostire un bufalo.» Si guardò intorno. «E non ci sono camioncini delle pulizie da queste parti.» Improvvisamente il suolo iniziò a muoversi e un sordo brontolio si diffuse tra gli edifici. Gli alberi oscillarono e le finestre sbatacchiarono. Era un tremore simile a quello che avevano percepito nel faro e sul fiume, ma durò di più, oltre un minuto, prima di diminuire. I dobermann iniziarono ad abbaiare come forsennati mentre le guardie perlustravano la zona con
preoccupazione. Impossibile sorprendere le guardie con i cani così eccitati. «Che cosa sono questi piccoli sommovimenti del terreno?» chiese Pitt a Klaus. «Sono causati dal vulcano?» «Indirettamente», rispose l'altro con disinvoltura. «Uno degli scienziati rapiti è il dottor Alfred Honoma, geofisico dell'università delle Hawaii ed esperto di vulcani. Alfred sostiene che i terremoti non dipendono da rocce surriscaldate che salgono nelle viscere del vulcano. Secondo lui, il pericolo incombente è quello di un'improvvisa frana di un intero versante, che provocherebbe un crollo catastrofico.» «Da quanto si verificano questi fenomeni?» chiese Pitt. «Sono iniziati un anno fa», rispose Hilda. «Poi sono aumentati in frequenza e adesso si verificano praticamente ogni ora.» «Sono anche diventati più intensi», aggiunse Klaus. «Il dottor Honoma sostiene che la montagna stia per franare per strani fenomeni che avvengono sotto di essa.» Pitt rivolse un cenno a Giordino. «Il quarto tunnel passa sotto la base del vulcano.» Il collega gli fece capire di essere d'accordo. «Honoma ha anche previsto quando potrebbe avvenire la frana?» s'informò Pitt. «Sostiene che potrebbe verificarsi da un momento all'altro.» «Quali sarebbero le conseguenze?» chiese Giordino. «Se il nostro collega ha ragione, una simile frana riverserebbe milioni di metri cubi di roccia nel lago a una velocità di quasi centotrenta chilometri orari.» «Quindi provocherebbe onde gigantesche?» volle sapere Pitt. «Sì, spazzerebbero via qualsiasi centro abitato intorno al lago.» «E il complesso di Odyssey?» «Dal momento che si trova proprio sul fianco del vulcano, verrebbe anch'esso spazzato via e seppellito dalla roccia.» Klaus fece una pausa e poi aggiunse, con aria grave: «E tutte le persone con lui». «I dirigenti della società si sono resi conto della minaccia?» «Hanno chiamato i loro geologi. Questi hanno sostenuto che simili frane sono molto rare e accadono solo una volta ogni diecimila anni. Da quel che ne so, lo Spettro ha assicurato che non c'è pericolo e quindi di ignorare il tutto.» «Lo Spettro si è guadagnato la fama di un capo che se ne infischia dei suoi impiegati», replicò Pitt, rammentando l'incidente dell'Ocean Wande-
rer. In quel momento, si udì il distinto fragore di un elicottero che si avvicinava al terminal e tutti s'irrigidirono, lo sguardo rivolto al cielo punteggiato di stelle. I riflettori mettevano in evidenza la verniciatura color lavanda del velivolo. Rimasero immobili, addossati alla parete di un edificio, mentre le pale fendevano l'aria della notte avanzando verso di loro. «Ci cercano», farfugliò lo spaventato Klaus, serrando il braccio intorno alle spalle della moglie. «Improbabile», dichiarò Pitt. «Il pilota non sta eseguendo una ricerca a vasto raggio per controllare la presenza di intrusi. Non ci inseguono ancora.» Il velivolo passò sopra di loro, a non più di sessanta metri. Giordino aveva l'impressione che fosse così vicino da poterlo colpire con un calcio ben assestato. Le luci di atterraggio avrebbero potuto scovarli in ogni momento, come topi sorpresi in un granaio. Ma la fortuna decise di favorirli e il pilota non accese i fari finché il velivolo non ebbe superato la loro posizione. Virò di colpo sul tetto di un edificio di uffici e atterrò senza problemi. Pitt riprese il binocolo da Giordino e lo puntò sull'elicottero nel momento in cui, dopo aver toccato terra, le pale rallentavano. Il portello si aprì e scesero diverse figure in tuta color lavanda che circondarono la scaletta per far scendere una donna che indossava un abito dorato. Pitt cercò di osservarla meglio modificando la risoluzione del binocolo. Anche se non ne era completamente certo, avrebbe potuto scommettere la paga di un anno: la donna che stava uscendo dall'elicottero era quella che si era fatta chiamare Rita Anderson. Con l'espressione irrigidita dalla rabbia, passò il binocolo a Giordino. «Guarda bene la regina dalla tuta d'oro.» Giordino la studiò attentamente fino a quando non entrò, con la sua scorta, nell'ascensore che scendeva dal tetto. «La nostra amica dello yacht», disse, con una voce bassa e rabbiosa. «Quella che ha ucciso Renée. Il mio regno per un fucile di precisione.» «Non possiamo occuparcene adesso», replicò Pitt, con tono dispiaciuto. «Prima dobbiamo portare i Lowenhardt sani e salvi a Washington.» «A proposito, come facciamo a superare la rete elettrificata, due dobermann e due guardie pesantemente armate?» «Non passeremo attraverso la rete», rispose Pitt con sicurezza, mentre calcolava i rischi futuri, «ma sopra.»
I Lowenhardt non fiatavano, troppo sbalorditi per formulare anche una sola parola. Giordino seguì lo sguardo di Pitt che era puntato sull'elicottero in cima al palazzo, e che aveva un'espressione seria e calcolatrice. Senza necessità di discussioni, il medesimo piano prese forma nella loro mente. Pitt tornò a sollevare il binocolo e studiò l'edificio. «Si tratta del quartier generale di tutto il complesso», dichiarò. «Sembra non sia sorvegliato.» «Non hanno motivo di rinchiudere la gente, lì dentro. Tutti gli impiegati sono fedeli alla società.» «E non si aspettano neppure che qualche ospite indesiderato si presenti alla porta.» Pitt spostò il binocolo. I piloti seguirono Rita in ascensore, lasciando l'elicottero del tutto incustodito. «Non avremo mai un'opportunità migliore di questa.» «Stento a vedere come un'opportunità l'entrare in un ufficio affollato, aprirci una strada fra duecento operai, raggiungere il decimo piano e rubare un elicottero senza destare i sospetti di nessuno.» «Forse potrebbe essere utile avere una tuta color lavanda.» Giordino indirizzò a Pitt uno sguardo che avrebbe fatto avvizzire un sempreverde. «Sono già andato ben oltre quello che è il mio dovere. Devi trovare un'altra soluzione.» Pitt raggiunse i Lowenhardt, immobili, abbracciati l'uno all'altra. Erano preoccupati, ma non spaventati. «Stiamo per entrare nel quartier generale e salire all'ultimo piano per impadronirci di un elicottero», riferì Pitt. «Statemi vicino. Se succede qualcosa, sdraiatevi sul pavimento. Non possiamo rischiare di avervi nella linea di fuoco. Perché il piano funzioni, dobbiamo azzardare. Al e io cercheremo di far credere che vi stiamo scortando per un interrogatorio o qualcosa del genere. Una volta sul tetto, salite subito sul velivolo e allacciate le cinture. Il decollo potrebbe essere burrascoso.» Klaus e Hilda gli assicurarono che avrebbero seguito le istruzioni alla lettera. Erano ormai dentro fino al collo nella faccenda e non potevano più tornare indietro. Pitt era sicuro che gli avrebbero obbedito. Non avevano scelta. Camminarono sul ciglio della strada finché non raggiunsero i gradini d'ingresso all'edificio. Un camion di passaggio li illuminò in pieno, ma l'autista non li notò. Subito fuori del portone c'erano due donne, una in lavanda e l'altra in bianco, che fumavano. Giordino si fece avanti per primo, sorridendo cortesemente, e il gruppo passò senza problemi. Si ritrovarono in un grande atrio dove diverse donne e un unico uomo stavano conver-
sando. Pochi fecero caso al quartetto e quelli che li guardarono non ebbero nessun sospetto. Muovendosi con l'aria disinvolta di chi compiva quel lavoro tutti i giorni, Giordino li fece salire su un ascensore vuoto prima che si chiudessero le porte. Ma non fece in tempo a schiacciare il pulsante dell'ultimo piano che un'attraente donna bionda in tuta lavanda entrò, si sporse davanti a lui e schiacciò l'ottavo. La donna si voltò a fissare i Lowenhardt, fece una pausa significativa mentre un'ombra di sospetto passava nei suoi occhi, e chiese, in inglese: «Dove portate queste persone?» Giordino esitò, non certo sulla tattica da usare. Più deciso, Pitt si portò di fianco a Giordino e rispose, con uno spagnolo stentato: «Perdónenos pero no hablamos inglés». Gli occhi le si accesero di rabbia. «Stavo parlando con te!» Fece schioccare le dita in modo provocatorio. «Mi stavo rivolgendo alla signora.» Chiamato in causa, Giordino non sapeva cosa dire, anche perché dalla voce si sarebbe capito che non era una donna. Quando finalmente emise un suono, era una specie di gridolino stridulo che sembrava ancora più strano in quell'ascensore. «Parlo poco inglés.» La risposta fu un'occhiata penetrante. La donna gli osservò il viso e gli occhi le si spalancarono quando vide la barba non rasata. Protese una mano e la passò sulla guancia. «Sei un uomo!» gracchiò. Si girò di scatto per tentare di fermare l'ascensore al piano successivo, ma Pitt le diede un colpo sulla mano. La rappresentante di Odyssey guardò Pitt sconcertata. «Come osi?» Lui sorrise diabolicamente. «Mi hai colpito al punto che voglio rapirti e portarti in un mondo migliore.» «Sei pazzo!» «Sono furbo, come una volpe.» L'ascensore si fermò all'ottavo piano, ma Pitt spinse il pulsante bloccando le porte. La cabina proseguì il suo viaggio verso l'alto, sino all'ultima fermata del decimo piano. «Che cosa sta succedendo?» Per la prima volta la donna guardò bene i Lowenhardt, che sembravano divertiti dalla situazione. Il viso le si rannuvolò. «Conosco queste persone. Dovrebbero essere rinchiuse per la notte. Dove le state portando?» «Al bagno più vicino», rispose Pitt in tono di scherno. La donna non sapeva se fermare l'ascensore o gridare. Confusa, si lasciò
guidare dal suo istinto e aprì la bocca per chiamare aiuto. Pitt non esitò: le assestò un pugno alla mascella. Cadde come un sacco di farina. Giordino l'afferrò sotto le braccia prima che toccasse il pavimento e la trascinò in un angolo, dove non sarebbe stato possibile vederla all'apertura delle porte. «Perché non l'ha semplicemente imbavagliata?» chiese Hilda, impressionata da tale brutalità contro una donna. «Perché mi avrebbe morso e non me la sono sentita di comportarmi da cavaliere.» Dopo qualche lento minuto di agonia, l'ascensore raggiunse finalmente il decimo piano, da cui si poteva salire al tetto. Quando fu fermo, le porte si aprirono e il gruppo scese. E capitò proprio fra le braccia di quattro guardie di sicurezza in uniforme che erano rimaste nascoste dietro un grande apparecchio di condizionamento. Nell'attico di Sandecker, al Watergate di Washington, l'atmosfera era sospesa esattamente a metà fra la calma e la tensione. L'ammiraglio camminava nervoso sul pavimento seguito da una scia del fumo azzurrognolo di uno dei suoi sigari giganti. Altri uomini sarebbero stati più cavalieri con le signore presenti e non le avrebbero avvolte in una nuvola di tabacco; ma non l'ammiraglio. Se non accettavano quella sua fastidiosa abitudine, non potevano intrattenersi con lui. Nonostante quella condizione, le signore di Washington passavano con sorprendente frequenza la sua porta. Considerato un ottimo partito perché era vedovo con una figlia e tre nipoti che vivevano a Hong Kong, Sandecker era conteso per le serate mondane. Per caso, o per sfortuna, a seconda di come si volessero vedere le cose, veniva di continuo presentato a donne in cerca di marito o di una relazione. Incredibile ma vero, l'ammiraglio era un fenomeno nel tenere in ballo cinque donne contemporaneamente e quello era uno dei motivi per cui si allenava con tanta energia. La donna di quella sera era Bertha Garcia, un membro del Congresso, che aveva preso il posto del marito defunto, Marcus. Era seduta sul balcone e sorseggiava del Porto, mentre osservava la capitale dall'alto. Elegante nel vestito da sera nero alle ginocchia con cui si era recata alla festa insieme con l'ammiraglio, sorrideva del nervosismo del suo ospite. «Perché non ti siedi, Jim, finirai per consumare il tappeto...» L'ammiraglio si fermò e la raggiunse, accarezzandole la guancia. «Perdonami se non ti do retta, ma ho due dei miei in Nicaragua in una
situazione delicata.» Si sedette pesantemente. «Per non parlare del fatto che la nostra costa orientale e l'Europa potrebbero dover affrontare inverni come non ne abbiamo mai visti.» «Si può sopravvivere a un anno difficile.» «Sto parlando di secoli.» La donna appoggiò gli occhiali su uno dei tavolini. «Certamente non è possibile con l'innalzamento globale della temperatura nell'atmosfera.» «Un riscaldamento globale», disse cupo l'ammiraglio. Il telefono squillò e Sandecker si alzò per andare a rispondere dall'ufficio. «Sì?» «Sono Rudi, ammiraglio», disse la voce di Gunn. «Ancora niente.» «Hanno fatto rapporto?» «Non li abbiamo più sentiti da quando sono partiti sulla moto d'acqua da Granada.» «Non mi piace», mormorò Sandecker. «Avremmo dovuto avere notizie.» «Dovremmo lasciar fare il loro mestiere a quelli del servizio segreto.» «Sono d'accordo, ma è impossibile fermare Pitt e Al.» «Ce la faranno», lo rassicurò Gunn. «Ce l'hanno sempre fatta.» «Sì», convenne Sandecker, con tono grave. «Ma prima o poi il piatto della bilancia si dovrà livellare e la fortuna scomparirà.» 39 Le guardie furono sorprese quanto Pitt. Tre indossavano le tute blu della sicurezza, mentre la quarta, una donna, indossava una combinazione verde. Pitt si rese conto che quest'ultima era di rango più elevato rispetto agli uomini. A differenza di quelli, non aveva un fucile, ma una semiautomatica nella fondina al fianco. Pitt prese subito l'iniziativa e avanzò verso la donna. «È lei che comanda qui?» chiese con voce calma e autorevole. La donna lo fissò, prima di rispondere: «Sì, sono io, che cosa ci fa lei qui?» Sollevato che parlasse inglese, si mosse verso i Lowenhardt. «Abbiamo trovato questi due che vagavano al quarto piano. Nessuno sembra sapere come siano entrati. Ci hanno detto di portarli alle guardie sul tetto. Ed eccoci qui.»
La donna esaminò i due coniugi, che guardavano Pitt con aria sempre più sconcertata e spaventata. «Li conosco, sono scienziati del progetto. Dovrebbero essere nei loro alloggi.» «C'è stato un incidente e un veicolo ha preso fuoco. Devono essere scappati durante la confusione.» Sconcertata da quelle notizie, la donna non pensò di chiedere come mai si trovassero in quell'edificio. «Chi vi ha detto di portarli qui?» Pitt si strinse nelle spalle. «Una donna con la tuta viola.» I tre uomini, che fino a quel momento erano stati pronti a far fuoco, sembrarono rilassarsi. Probabilmente, a differenza della donna in tuta verde, credevano a quella versione. «Qual è il vostro livello di occupazione?» chiese la donna. Giordino fece due passi verso l'elicottero e l'osservò pieno di ammirazione. Pitt fissò l'avversaria. «Lavoriamo nelle gallerie. Il capo ci ha mandato su per un paio di giorni di riposo.» Con la coda di un occhio vedeva Giordino che, lentamente, impercettibilmente, si stava portando dietro le guardie. La storia aveva già funzionato. Sperò che fosse credibile anche in quell'occasione, e così fu. La donna annuì. «Ciò non spiega perché vi trovavate nel quartier generale di notte.» «Abbiamo ricevuto l'ordine di tornare giù domattina e ci hanno detto di venire qui a prendere i pass.» Pitt cadde proprio sull'ultimo particolare. «Quali pass? So che i lavoratori della galleria non li hanno. Un cartellino d'identificazione è sufficiente.» «Faccio solo quello che mi è stato detto», replicò Dirk, cercando di apparire seccato. «Volete prendervi questi prigionieri o no?» Prima che potesse rispondere, Giordino aveva già la pistola in mano. Con un movimento fulmineo, colpì con il calcio la testa di uno degli uomini e poi la fece cozzare contro quella del secondo. Il terzo fu costretto ad allontanare la mano dal fucile quando vide la canna della pistola calibro 50 di Giordino puntata in mezzo agli occhi. «Così va meglio», disse Pitt calmo. Si voltò verso l'amico e sorrise. «Gran bel lavoro.» Giordino ricambiò il sorriso. «Lo penso anch'io.» «Prendi i fucili.» La donna era riuscita a far scivolare la mano sino alla fondina della pistola.
Pitt le disse: «Non lo farei se fossi in lei». Il volto della signora era una maschera di rabbia, ma la donna era abbastanza intelligente da capire che non poteva farcela. Alzò le mani mentre Giordino la disarmava. «Chi siete?» sibilò. «Mi piacerebbe che la gente mi fermasse per chiedermelo.» Pitt si rivolse all'uomo ancora in piedi. «Togliti la tuta, svelto!» La guardia non se lo fece ripetere: aprì la cerniera lampo e si sfilò la tuta. Pitt fece lo stesso, togliendosi quella nera e infilando quella blu. «Forza, sul tetto, dietro gli altri», ordinò Pitt alla donna e all'uomo in mutande. «Che cos'hai in mente?» chiese Giordino senza affannarsi. «Sono come le compagnie aeree. Detesto decollare con il velivolo semivuoto.» Senza fare altre domande, Giordino sapeva già cos'aveva in mente Pitt. Aveva occupato una posizione tale che i prigionieri potevano vedere la sua pistola passare da una testa all'altra. Poi fissò i Lowenhardt. «È tempo d'imbarcarsi», disse senza esitare. Obbedienti, senza lamentarsi, i due anziani coniugi salirono sul velivolo, mentre Pitt raggiungeva l'ascensore. Due secondi dopo, le porte si chiusero e lui era sparito. In un attico adibito a ufficio, al decimo piano proprio sotto il tetto, si trovava una magnifica sequenza di stanze. La suite lavanda era decorata in modo da suggerire il passaggio di una marea di quel colore. I grandi soffitti erano profilati di color lavanda, le volte decorate con scene di strani riti religiosi e danze eseguiti da donne in vestiti drappeggiati, sullo sfondo di foreste, laghi e montagne mitici. Anche la moquette era lavanda, con punteggiatura dorata, così spessa da arrivare alla caviglia. Gli arredi prevedevano sedie in marmo bianco dalla forma di un trono come quelle rappresentate sui vasi greci. Erano imbottite con spessi cuscini color lavanda. I lampadari erano rivestiti con vernice iridescente sempre lavanda, con cristalli intorno alle luci tinte nello stesso colore. Le pareti erano foderate di un ricco velluto, ovviamente lavanda. Dello stesso materiale erano le pesanti tende. Sensuale, esotico, decadente, un vero sogno fantasy, l'effetto colpiva l'immaginazione del visitatore molto più di quanto non avesse potuto pensare. C'erano due donne sedute su un lungo divano di marmo, cosparso di lussuosi e morbidi cuscini. Fra di loro vi era un tavolino di vetro, finemente
inciso, sul quale un secchio conteneva uno champagne d'annata dall'etichetta color lavanda. Una delle donne indossava una tunica color oro, l'altra era in viola. I capelli erano dello stesso rosso, come se usassero la medesima tinta e pettinatura. Se non si fossero mosse, si sarebbe potuto credere che facessero parte dell'arredo. La donna in viola sorseggiava lo champagne da un calice e stava dicendo, con una voce senza inflessioni: «Siamo nei tempi previsti. Dieci milioni di unità di Macha saranno pronte per la vendita al dettaglio per le prime nevicate. A quel punto, le catene di produzione dei nostri amici cinesi saranno pienamente operative. Le nuove industrie prenderanno il via alla fine dell'estate e la produzione salirà a due milioni di unità al mese». «Sono pronti anche i canali distributivi?» chiese la donna in oro, che era sorprendentemente bella. «I magazzini di nostra proprietà o affittati in tutta Europa e nel Nord-est degli Stati Uniti stanno già ricevendo le forniture dalle navi mercantili cinesi.» «Siamo state fortunate che Druantia sia potuta succedere al padre e soddisfare il nostro disperato bisogno di platino.» «Senza la sua ricchezza non avremmo mai potuto far fronte alla domanda.» «Sei arrivata in tempo per inaugurare le gallerie?» La donna in viola annuì. «Il 10 settembre è la data calcolata dai nostri scienziati. Ritengono che ci vorranno sessanta giorni per far calare la temperatura della corrente del Golfo fino al punto di innescare le temperature polari.» La donna in oro sorrise e si versò altro champagne. «Bene, tutto sta andando come dovrebbe.» L'altra annuì e alzò il bicchiere. «A te, Epona, che presto diventerai la donna più potente della storia dell'umanità.» «E a te, Flidais, che hai saputo realizzare tutto questo.» Pitt aveva giustamente intuito che la suite con l'ufficio principale si trovasse all'ultimo piano, sotto il tetto. Le segretarie e i funzionari avevano finito di lavorare ore prima e le stanze erano vuote, quando lui uscì dall'ascensore. Aveva indosso la tuta blu delle guardie di sicurezza e passò quindi senza problemi sotto gli occhi di altre due, che non fecero caso a lui mentre entrava nell'anticamera della suite principale. Non c'era nessun controllo e quindi aprì con calma la porta ed entrò, chiudendola alle sue
spalle. Rimase quasi paralizzato per lo stupore alla vista di quell'arredo così sconcertante. Udì le voci che provenivano dalla stanza a fianco e scivolò dietro una tenda color lavanda che ricadeva su un'apertura ad arco ed era trattenuta da fasce color oro. Vide le due donne indugiare nel lusso sul divano e scrutò l'ostentato arredo della stanza al cui paragone il più opulento bordello sarebbe sembrato una stamberga di fianco a una ferrovia. Le donne erano sole. Uscì dal tendaggio e rimase al centro del vano della porta, ammirando la bellezza delle due mentre conversavano senza girarsi e senza accorgersi che c'era un intruso. «Partirai presto?» chiese Flidais a Epona. «Fra qualche giorno. Devo occuparmi di un piccolo guaio a Washington. Una commissione governativa sta indagando sulla nostra nuova acquisizione mineraria nel Montana. I politici sono sconvolti perché impieghiamo tutto l'iridio estratto per i nostri scopi e non ne lasciamo per la vendita a imprese statunitensi o al governo.» Epona si appoggiò comodamente ai morbidi cuscini. «E tu, mia cara, dove ti portano i tuoi impegni?» «Ho assoldato un'agenzia d'investigazioni internazionale per rintracciare i due uomini che hanno superato la sicurezza e hanno vagato per le gallerie prima di scappare dal faro.» «Nessuna idea di chi possano essere?» «Sospetto siano membri della National Underwater and Marine Agency. Gli stessi dai quali sono scappata dopo che mi hanno distrutto lo yacht.» «Pensi che la nostra segretezza sia compromessa?» Flidais scosse la testa. «Non credo. Almeno non ancora. I nostri agenti non segnalano indagini sui tunnel da parte dei servizi segreti americani. Stranamente, non si sono avute notizie; è come se quei diavoli della NUMA fossero scomparsi dalla faccia della terra.» «Non bisogna preoccuparsi inutilmente. Ormai nemmeno gli americani possono più fermarci. Inoltre, dubito che abbiano scoperto il vero scopo delle gallerie. Ancora otto giorni e verranno aperte: la corrente equatoriale sud sarà così risucchiata nel Pacifico.» «Spero che il motivo di questo silenzio non sia che hanno fatto due più due e capito qual è la minaccia.» «In effetti, il rischio c'è.» «D'altra parte», disse Epona pensierosa, «si potrebbe anche credere che cerchino di vendicare l'assassinio di uno di loro.» «Un'esecuzione dettata dalla necessità», assicurò Flidais.
«Non sono d'accordo», disse Pitt. «L'assassinio a sangue freddo non è mai una questione di necessità.» Per un istante il tempo parve fermarsi, prima che il bicchiere di champagne sfuggisse dalle dita curate di Epona e cadesse, senza neanche un suono, sulla spessa moquette. Poi le due donne si voltarono di scatto agitando le chiome. Gli occhi esprimevano un misto di stupore e irritazione per quell'interruzione non autorizzata di una delle loro guardie della sicurezza. Ma la sorpresa maggiore fu quella della vista della Colt di Pitt puntata su di loro. Pitt colse l'occhiata che Epona lanciò a un piccolo telecomando dorato che stava sul tappeto, sotto il tavolino di vetro, cui cercava di arrivare con il piede. «Non il minimo movimento, mia cara», disse, con voce tranquilla. Il piede si fermò di colpo, a pochi centimetri dal pulsante che voleva premere. Poi lentamente si ritrasse. In quel momento Flidais riconobbe Pitt. «Tu!» sibilò fra i denti. «Ciao, Rita, o come diavolo ti chiami.» Scrutò la stanza con lo sguardo. «Sembra che te la passi molto bene.» Gli occhi color ambra lo fissarono con odio. «Come sei entrato?» «Non ti piace la mia tuta di sartoria?» disse lui, come se fosse a una sfilata di moda. «Non sai quante porte si aprono quando ti vesti bene.» «Flidais, chi è quest'uomo?» chiese Epona, studiando Pitt come se fosse un animale dello zoo. «Mi chiamo Dirk Pitt. La sua amica e io ci siamo incontrati al largo della costa orientale del Nicaragua. Se ben mi ricordo, indossava un costume giallo e possedeva un elegante yacht.» «Che tu hai distrutto», sibilò Flidais con lo sguardo di un cobra. «Non ricordo che tu ci abbia lasciato un'alternativa.» «Che cosa vuole?» chiese Epona, fissandolo con occhi di giada striati d'oro. «Pensavo che sarebbe carino se Flidais - è così che ti chiami? - pagasse per i suoi misfatti.» «Posso chiederle che cos'ha in mente?» domandò ancora Epona, con sguardo enigmatico. Quella donna aveva classe, decise Pitt, niente la turbava, neanche la sua pistola. «La porto con me per un giretto a nord.» «Tutto qui?» Pitt annuì. «Tutto qui.»
«E se rifiuto?» ringhiò Flidais con disprezzo. «Diciamo che le conseguenze sarebbero spiacevoli.» «Se non farò come dici, mi ucciderai. È così?» Pitt appoggiò la canna della Colt 45 sul viso di lei, accanto all'occhio sinistro. «No, ti faccio solo saltare gli occhi. Vivrai ancora a lungo. Cieca e brutta come il peccato.» «Lei è spietato e volgare, come la maggior parte degli uomini», disse Epona indignata. «Non mi sarei aspettata altro da lei.» «Sono lieto di non aver deluso una simile astuta e bella signora.» «Non c'è bisogno di blandirmi, signor Pitt.» «Non la sto blandendo, Epona, la sto sopportando.» Doveva continuare su quella strada, pensò, soddisfatto di sé. «Forse un giorno ci incontreremo di nuovo, in circostanze più piacevoli.» «Non conti troppo sulla fortuna, signor Pitt. Non vedo una vita felice per lei nel futuro.» «Buffo, non mi sembrava una zingara.» Spinse Flidais delicatamente sulla spalla con la pistola e la seguì mentre usciva dalla stanza. Si fermò sulla porta e si rivolse a Epona. «Prima che mi dimentichi, non sarebbe carino aprire le gallerie, deviare la corrente equatoriale sud e congelare l'Europa. Molte persone non sarebbero d'accordo con questa decisione.» Prese Flidais per il braccio e la condusse di buon passo, ma senza correre, oltre la porta e lungo il corridoio, fino all'ascensore. Una volta all'interno, Flidais rimase dritta, sistemandosi la veste fluente. «Non sei solo uno sbruffone, Pitt, sei anche estremamente stupido.» «Davvero?» «Non riuscirai a lasciare l'edificio. Ci sono guardie a ogni piano. Non puoi pensare di attraversare l'atrio senza essere fermato.» «Chi ha detto che andiamo nell'atrio?» Gli occhi di Flidais si spalancarono mentre l'ascensore saliva e si fermava sul tetto. Dirk invitò la donna a uscire non appena le porte si aprirono. «Non vorrei farti fretta, ma la situazione sta per diventare incandescente.» Flidais vide le guardie sul pavimento, sorvegliate da Giordino. Poi il suo sguardo cadde sull'elicottero e capì che la sua speranza di essere intercettata da una pattuglia sarebbe volata via nella notte. Cercando un ultimo disperato appiglio, si rivolse a Pitt con voce tagliente. «Non sai portare un elicottero.» «Mi dispiace deluderti», rispose l'uomo con tono paziente. «Sia il mio
amico sia io siamo in grado di pilotare l'uccellino.» Giordino fissò Flidais, così elegante in quella veste, e sorrise disgustato. «Vedo che hai trovato Rita. L'hai invitata a un party?» «Un party a due a base di champagne d'annata. Si chiama Flidais, tienila d'occhio.» «Con due occhi», disse gelido Giordino. Pitt la guardò un attimo prima di salire in elicottero. La luce negli occhi della donna era scomparsa. La calma e il coraggio avevano lasciato il posto alla preoccupazione. Pitt diede un'occhiata anche al velivolo prima di sistemarsi al posto di pilotaggio in cabina. Era un McDonnell-Douglas Explorer con due motori a turbina Pratt & Whitney, fabbricati dalla MD Helicopters di Mesa, Arizona. Fu contento di vedere che si trattava di un modello con dispositivo di antirotazione che eliminava l'elica di coda. Prima di iniziare la procedura di accensione, si assicurò che i comandi, passo ciclico e collettivo, fossero bloccati nella posizione di sicurezza. Aprì la valvola del carburante e premette lo starter. Quando il rotore iniziò a muoversi, aprì con dolcezza la manetta del gas fino a raggiungere il 60 per cento. Effettuò i controlli degli indicatori e infine portò la turbina a regime. Si sporse dal finestrino e urlò a Giordino per coprire il sibilo delle turbine: «Salta su!» Giordino non fu galante come Pitt. Sollevò letteralmente Flidais di peso e la gettò nell'elicottero. Poi salì e chiuse il portello scorrevole. L'interno era elegante e confortevole, con quattro comodi sedili in pelle e due console in radica di noce; la prima era un piccolo ufficio con computer, fax e videotelefono satellitare, la seconda conteneva un bar con caraffe in cristallo, bicchieri e bevande. I Lowenhardt erano seduti con le cinture allacciate e fissavano ammutoliti la donna sdraiata sul pavimento, dove Giordino l'aveva buttata. L'uomo la sollevò e la mise di peso su un sedile, allacciandole le cinture. Per fare ciò, passò il fucile a Klaus Lowenhardt. «Se muove anche solo il mignolo, le spari.» Non provando simpatia per le sue precedenti carceriere, Klaus non si sarebbe lasciato scappare l'opportunità. «I nostri agenti vi aspetteranno all'arrivo, a Managua», disse Flidais con disprezzo. «Buono a sapersi.» Giordino si girò e raggiunse Pitt, accomodandosi nel sedile del secondo
pilota. Pitt guardò le porte dell'ascensore e vide che si chiudevano. Avvisate dall'altra donna della suite, le guardie di sicurezza stavano aspettando la cabina per poter accedere al tetto. Pitt si abbassò, tirò il dispositivo di variazione collettiva e l'elicottero si sollevò dal suolo. Poi spinse quello di variazione periodica in avanti e il muso si abbassò; l'MD Explorer lasciò il tetto. Pitt lo spinse subito alla massima velocità di 184 nodi, sorvolando il complesso verso la pista di atterraggio fra le montagne. Non appena raggiunse il versante del Maderas, virò intorno al picco e scese fino a meno di nove metri dalla cima degli alberi, prima di sorvolare la spiaggia sulle acque del lago. «Non andiamo a Managua, spero», disse Giordino, indossando le cuffie. «Sua altezza reale ha detto che i suoi accoliti ci aspettano.» «Non mi stupirei se fosse così», commentò Pitt con un largo sorriso. «Ecco perché ci dirigiamo a ovest, verso il Pacifico e poi deviamo a sud, fino a San José, in Costa Rica.» «Abbiamo carburante a sufficienza?» «Se voliamo a velocità di crociera, dovrebbe anche avanzarne un po'.» Pitt sfiorò la superficie dell'acqua per sfuggire ai radar di Odyssey e superò la striscia di terra sul lato occidentale del lago. Quando fu a quindici chilometri dalla costa del Pacifico, virò a sud e iniziò a salire, mentre Giordino impostava la rotta per San José. Per il resto del viaggio, l'italiano controllò la spia del carburante. Il cielo era coperto di nuvole che non portavano pioggia ma schermavano le stelle. Pitt era stanco, più distrutto di quanto non gli fosse mai capitato. Passò i comandi a Giordino e si distese sul sedile, respirando a fondo e chiudendo gli occhi. C'era ancora una cosa da fare prima di concedersi il lusso di dormire. Prese il telefono satellitare dalla sacca impermeabile e compose il numero privato di Sandecker. La voce dell'ammiraglio uscì quasi immediatamente. «Sì!» «Siamo fuori», disse Pitt senza scomporsi. «Era tempo.» «Abbiamo dovuto prolungare un po' il giro.» «Dove siete?» «Su un elicottero rubato, ci dirigiamo verso San José, in Costa Rica.» Sandecker tacque qualche istante per capire. «Mi sembrava che i vostri ordini fossero di curiosare un po' in giro nel complesso durante il giorno.» «Ci siamo presi una pausa», ribatté Pitt, combattendo contro il sonno. «Avete raccolto i dati che ci servono?» chiese Sandecker con impazien-
za. «Abbiamo tutto», rispose Pitt. «Grazie a scienziati che hanno rapito e tenuto in ostaggio sono riusciti a mettere a punto una nuova tecnologia energetica che sfrutta l'azoto al posto dell'idrogeno. I cinesi stanno producendo milioni di unità elettriche autoalimentate che saranno pronte per essere vendute nel momento in cui apriranno le gallerie e congeleranno l'America orientale e l'Europa.» «Mi sta dicendo che tutta questa pazzia è stata messa in piedi per vendere un nuovo combustibile?» domandò Sandecker incredulo. «Si tratta di centinaia di miliardi di dollari, senza contare il potere che deriverebbe da un simile monopolio. Comunque la consideriamo, con la prima neve l'economia mondiale passerebbe nelle mani dello Spettro.» «È certo che sia riuscito a mettere a punto questa tecnologia? Eminenti scienziati di tutto il mondo la stanno ancora cercando», insistette Sandecker. «Lo Spettro dispone dei migliori scienziati», controbatté Pitt. «Apprenderà tutti i particolari da due di loro che hanno lavorato al progetto.» «Sono con voi?» chiese Sandecker, sempre più impaziente. «Sono proprio qui dietro di me, insieme con la donna che ha assassinato Renée Ford.» Sandecker sembrava un battitore che avesse fatto il colpo della sua vita a occhi chiusi. «C'è anche lei?» «Ci assicuri un volo da San José e gliela serviremo su un piatto domani a quest'ora.» «Contatto subito Rudi», disse Sandecker, con evidente soddisfazione e gioia nel tono di voce. «Venga nel mio ufficio non appena arriva.» Non ci fu risposta. «Dirk, è ancora lì?» Pitt si era addormentato senza accorgersi di aver interrotto la comunicazione. 40 Il jet dell'Air Canada uscì da una spessa coltre di nuvole tinta di rosso dalla luce del tramonto. Mentre l'aereo iniziava a scendere verso la Guadalupa, Summer sbirciò dal finestrino e vide l'acqua profonda di un intenso azzurro-viola diventare azzurro chiaro e poi turchese, quando sorvolarono la barriera e la laguna. Di fianco a lei, nel sedile del corridoio, c'era Dirk,
che stava esaminando una mappa delle acque intorno alle isole Les Saintes, un piccolo arcipelago a sud della Guadalupa. La ragazza guardò con grande interesse la sorprendente forma a farfalla della Guadalupa, con i due territori di Basse-Terre e Grande-Terre. Il primo era sull'estremità occidentale, con colline e montagne ricoperte di foresta. Tra felci lussureggianti, nella foresta pluviale si trovava una delle più alte cascate dei Caraibi, che precipitava dalla cima più alta dell'isola, il monte La Soufrière, un vulcano attivo che arrivava a quasi millecinquecento metri. I due territori, che insieme raggiungevano la superficie del Lussemburgo, erano separati da uno stretto canale ricoperto di mangrovie, chiamato Rivière Salée. All'estremità orientale si trovava Grande-Terre, prevalentemente pianeggiante e collinoso, perlopiù coltivato a canna da zucchero, la maggior risorsa di tre distillerie che producevano il rinomato rum della Guadalupa. Il cuore di Summer era in festa all'idea di potersi godere le numerose isole di sabbia bianca e nera che si estendevano romanticamente sotto le palme. Ma in fondo sapeva che quel sogno sarebbe rimasto tale. Una volta che lei e Dirk avessero finito d'indagare sulla flotta perduta di Odisseo, Sandecker li avrebbe richiamati immediatamente a casa, senza concedere loro neanche un giorno di riposo. Si ripromise di restare a ogni costo, quali che fossero le conseguenze. L'aeroplano descrisse un largo cerchio che lo portò sopra Pointe-à-Pitre, la capitale commerciale della Guadalupa. La ragazza vide una serie di tetti in tegole rosse confondersi con quelli in lamiera ondulata. La piacevole cittadina era caratterizzata da una piazzetta suggestiva circondata da bar e negozi. Le stradine sembravano piene di vita e affollate di gente che stava tornando a casa per cena. Le auto erano poche. Molti erano a piedi, ma la maggior parte usava motociclette e scooter. Le luci tremolanti cominciavano a rischiarare le piccole case intorno al porto. Le navi erano all'ancora, mentre le barche da pesca, stavano rientrando dopo una giornata in mare. Il pilota portò il velivolo in avvicinamento all'aeroporto Pôle-Caraïbes. Un rumore d'ingranaggi segnalò che il carrello era sceso ed era stato bloccato, mentre i flap si abbassavano nella posizione di atterraggio. Per qualche istante ancora, gli ultimi raggi del sole al tramonto colpirono i finestrini, poi l'aereo si posò al suolo con il caratteristico rimbalzo, lo stridore di pneumatici e il sibilo acuto delle turbine dovuto all'inversione di marcia. Con un'ultima frenata, il velivolo si fermò davanti al terminal. Summer adorava il crepuscolo ai tropici. A quell'ora si alzava sempre
una brezza dal mare che spezzava l'intenso calore e l'umidità del giorno. Amava i profumi della vegetazione bagnata dopo la pioggia e l'aroma sempre presente dei grandi fiori tropicali. «Come parli il francese?» le chiese il fratello, mentre scendevano la scaletta all'aeroporto della Guadalupa. «Più o meno come tu parli lo swahili», gli rispose, radiosa nel suo completo di gonna e camicetta a fiori. «Perché me lo chiedi?» «Solo i turisti parlano inglese. Quelli del posto usano il francese o un dialetto franco-creolo.» «Visto che nessuno di noi due eccelleva in lingue straniere a scuola, useremo il linguaggio dei segni.» Dirk la fissò a lungo e poi rise, passandole un libretto. «Ecco un pratico dizionario inglese-francese. Conto su di te per qualsiasi traduzione.» Entrarono nel terminal e seguirono i primi passeggeri che erano scesi fino al controllo di frontiera. Il funzionario addetto all'immigrazione alzò lo sguardo mentre timbrava i loro passaporti. «Siete qui per lavoro o piacere?» chiese, in perfetto inglese. Summer arricciò il nasino scoccando un'occhiata a Dirk. «Piacere», rispose, mettendo in mostra quello che sembrava un anello con brillante alla mano sinistra. «Siamo in luna di miele.» Il funzionario le sbirciò i seni con aria distaccata, annuì e sorrise in segno di approvazione, mentre timbrava le pagine vuote dei passaporti. «Buona vacanza, allora.» La voce aveva un tono malizioso. Non appena furono abbastanza lontani perché l'uomo non potesse ascoltare, Dirk chiese: «Cos'è questa storia della luna di miele? E dove hai preso quell'anello?» «Ho pensato che la copertura degli sposini fosse perfetta. L'anello è di vetro. L'ho pagato otto dollari.» «Spero che nessuno lo guardi da vicino, o penseranno che tuo marito è un vero spilorcio.» Si spostarono nella zona di ritiro bagagli, dove furono costretti ad attendere venti minuti per recuperare le valigie. Dopo averle caricate su un carrello, passarono i controlli doganali ed entrarono nell'atrio dell'aeroporto. C'erano circa trenta persone in attesa dell'arrivo di amici e parenti. Un uomo basso e vestito di bianco, con la pelle olivastra dei creoli, teneva in mano un cartello con la scritta PITT. «Siamo noi», disse Dirk. «Lei è Summer e io sono Dirk.» «Charles Moreau», si presentò l'uomo, tendendo la mano. Gli occhi era-
no neri come l'inchiostro e aveva un naso talmente affilato che avrebbe potuto usarlo come spada in un duello. Arrivava alle spalle di Summer ed era esile ed elastico come un giunco. «Avete avuto un ritardo di soli dieci minuti, il che è un record.» Poi s'inchinò, prese la mano di Summer e appoggiò le labbra sulle nocche, come un gentiluomo delle colonie. «L'ammiraglio Sandecker mi aveva detto che eravate una coppia affascinante.» «Penso vi abbia anche informato che siamo fratello e sorella.» «Certo. C'è qualche problema?» Dirk fissò la sorella, che sorrise con aria innocente. «Volevamo solo essere chiari su questo punto.» Summer e Moreau si avviarono all'uscita, mentre Dirk li seguiva con il carrello dei bagagli. Proprio in quel momento, una donna con i capelli corvini e il tradizionale vestito creolo - gonna dai colori vivaci con fusciacca in cotone di Madras arancio e giallo e turbante in tinta, camicetta e sottogonna in pizzo bianco e sciarpa appoggiata su una spalla - gli andò decisamente addosso. Abituato a viaggiare, Dirk mise subito la mano sul portafoglio, ma lo trovò al suo posto. Quando si voltò, la donna era al suo fianco, che si massaggiava una spalla. «Mi spiace, è colpa mia.» «Si è fatta male?» le chiese premuroso. «Adesso so cosa vuol dire scontrarsi con un albero», rispose lei, alzò lo sguardo verso di lui e sorrise cordialmente. «Sono Simone Raizet. Può essere che ci si veda in giro.» «Può essere», convenne Dirk, senza rivelare il suo nome. La donna rivolse un cenno del capo a Summer. «Ha un uomo molto affascinante.» «Potrebbe essere in svendita», replicò la ragazza, con una punta di sarcasmo. La donna si voltò e si perse tra la folla del terminal. «Che cosa ti salta in testa?» le disse il fratello, stupito. «Non puoi negare che era una sfacciata», mormorò Summer. «Davvero strano», disse Moreau. «Ha dato l'impressione di essere una del posto, ma io non l'ho mai vista prima.» Summer era leggermente preoccupata. «Se vuole la mia opinione, l'incidente è stato preparato.» «Sono d'accordo», disse Dirk. «Stava cercando qualcosa, anche se non so che cosa. Ma l'incontro non è stato fortuito.» Moreau li guidò al di là della strada, al parcheggio dove aveva lasciato
una BMW 525 berlina. Spinse il pulsante della chiusura sul portachiavi e aprì il bagagliaio. Dirk vi depose le valigie e poi salì in macchina con la sorella e il loro accompagnatore. Moreau imboccò la strada di Pointe-àPitre. «Vi ho prenotato una piccola suite a due stanze all'hotel Canella Beach, uno dei più conosciuti del posto, frequentato da giovani coppie che non possono spendere troppo. Le istruzioni dell'ammiraglio sono che non vi facciate troppo notare durante questa caccia al tesoro.» «Tesoro dal punto di vista storico», lo corresse Summer. «Ha ragione», rimarcò Dirk. «Se si spargesse la voce che la NUMA è alla ricerca di un vero tesoro, arriverebbero schiere di avventurieri.» «E sarebbero ricacciati indietro», aggiunse Moreau. «Ci sono leggi severissime per la protezione del patrimonio sottomarino.» «Se avremo successo, la sua gente erediterà una scoperta epocale», disse Summer. «Ragione di più per tenere la spedizione nel più cauto riserbo.» «Lei è un vecchio amico dell'ammiraglio?» «Ho conosciuto James molti anni fa, quando ero console della Guadalupa a New York. Da quando sono in pensione, mi affida qualche incarico per conto della NUMA in queste zone dei Caraibi.» Moreau guidò attraverso le verdi colline fino al porto e poi ai margini della città, lungo la costa sudorientale di Grande-Terre. Quando raggiunse i sobborghi di Le Gosier, svoltò in una stradina sporca per riportarsi sull'arteria principale. Summer, che non staccava gli occhi dal finestrino, vide case con giardini rigogliosi e ben tenuti. «Stiamo facendo un giro turistico?» «Un taxi ci ha seguito fin dall'aeroporto», spiegò Moreau. «Volevo capire se ci stesse pedinando.» Dirk si girò sul sedile e guardò alle loro spalle. «Una Ford verde?» «Proprio quella.» Moreau uscì dal quartiere residenziale e s'immise nel flusso del traffico con autobus, turisti in motoretta e la flotta di taxi della città. Il conducente della Ford verde stava lottando per rimanere nella loro scia, ma era ostacolato dalla marea di veicoli lenti. Moreau riuscì a sgattaiolare fra due autobus che bloccavano i due lati della strada, poi svoltò di colpo a destra, in una stradina che passava tra file di case dal grazioso stile delle colonie francesi. Girò ancora a sinistra e nuovamente all'incrocio successivo, finché non si ritrovò sulla via principale. Il taxi superò gli autobus sul mar-
gine della carreggiata, recuperò il distacco e si appiccicò dietro di loro. «È decisamente interessato a noi», osservò Dirk. «Vediamo se riesco a seminarlo», disse Moreau. Aspettò che ci fosse un punto più scorrevole. Poi, invece di girare, accelerò di colpo passando pericolosamente fra le auto di una via che incrociava quella principale. Il taxi rimase incastrato in una fiumana di motorini e scooter, auto e autobus e perse circa trenta secondi prima di riuscire a passare e riprendere l'inseguimento. Dopo aver girato in una laterale mentre il taxi non era in vista, Moreau s'infilò nel vialetto di una casa e posteggiò dietro un alto arbusto di oleandro. Dopo qualche istante, il taxi passò nella via a gran velocità e si perse in una nuvola di polvere. «L'abbiamo seminato, ma temo sia solo questione di tempo prima che ci ritrovi.» «In effetti, potrebbe adottare lo stesso sistema e fermarsi ad aspettarci», ragionò Dirk. «Ne dubito», obiettò Summer convinta. «Scommetto che sta ancora correndo dietro un fantasma.» «Hai perso», rise Dirk, mentre indicava il taxi verde parcheggiato sulla via, con il conducente che parlava in modo frenetico al telefono. «Si avvicini a lui, Charles.» Moreau gli arrivò alle spalle lentamente e, all'improvviso, lo affiancò e fermò l'auto. Dirk si sporse dal finestrino e bussò sul suo. «Cerchi noi?» Lo stupito conducente fissò per un attimo il volto sorridente del giovane, lasciò cadere il telefono, premette sull'acceleratore e sfrecciò lungo il viale costeggiato da palme verso la città di Sainte-Anne, con le gomme che slittarono sulla ghiaia del bordo strada finché non riuscirono a recuperare l'asfalto con un suono stridulo di protesta. Moreau si spostò sul lato e fermò l'auto, guardando il taxi che scompariva nel traffico. «Prima quella donna e ora il taxi», borbottò. «Chi può essere interessato a un paio di rappresentanti della NUMA impegnati in operazioni subacquee?» «La parola 'tesoro' ha un potere afrodisiaco e si diffonde come un'epidemia», disse Summer. «In qualche modo, la voce della nostra missione è arrivata prima di noi.» Dirk guardò pensieroso il punto della strada in cui era scomparso il taxi. «Ora sappiamo chi ci seguirà domani quando partiremo in direzione di
Branwyn.» «Sa qualcosa di quell'isola?» chiese Summer a Moreau. «So che è pericoloso avvicinarsi», rispose l'uomo, senza scomporsi. «Veniva chiamata l'Ile-de-Rouge, 'rosso' in francese, a causa del suolo vulcanico che ha assunto quella tonalità. Il nuovo proprietario l'ha chiamata Branwyn, dal nome di una dea celtica conosciuta come la Venere dei mari del Nord, dea dell'amore e della bellezza. Per i locali, invece, che sono superstiziosi, si tratta dell'isola della morte.» Dirk stava gustando la brezza calda e profumata che entrava dal finestrino. «A causa della pericolosa barriera e delle onde traditrici?» «No», rispose Moreau, frenando per lasciar attraversare due bambini con vestiti dai vivaci colori. «Il proprietario non ama gli intrusi.» «Da quanto ci hanno detto al dipartimento informatico della NUMA», disse Summer, «la proprietaria è una donna di nome Epona Eliade.» «Una misteriosa signora. Per quel che si sa non è mai sbarcata a GrandeTerre né a Basse-Terre.» Summer si ravviò i capelli che stavano diventando crespi per l'umidità. «La signora deve avere dei guardiani che le tengono in ordine quell'elegante casa di Branwyn.» «Le foto satellitari hanno rivelato la presenza di una pista d'atterraggio, qualche edificio, uno strano cerchio di alte colonne e un'elegante residenza», riferì Moreau. «Si dice che i pescatori e i turisti che hanno cercato di sbarcare sull'isola siano stati ritrovati morti. In genere vengono sbattuti dalle onde su una spiaggia di Basse-Terre, a molte miglia da qui.» «Ci sono state indagini in tal senso?» Moreau scosse lentamente la testa, mentre accendeva i fari nella luce crepuscolare. «Non hanno mai trovato prove che si trattasse di crimini e non hanno mai potuto dimostrare che le vittime fossero davvero sbarcate sull'isola.» «I medici legali non sono riusciti a stabilire le cause dei decessi?» Moreau rispose con una smorfia. «I corpi sono stati esaminati dal primo medico locale disponibile al momento del ritrovamento; una volta era persino un dentista. Ma erano in avanzato stato di decomposizione e quindi non si è potuto fare che congetture. La maggior parte dei casi è stata archiviata come annegamento.» Poi aggiunse: «Però, secondo voci del posto, il cuore delle vittime era stato asportato». «Suona abbastanza morboso», mormorò Summer. «Direi piuttosto come voci distorte», replicò Dirk.
«Comunque un'altra buona ragione per starne alla larga.» «Non è possibile, se vogliamo esplorare il porto sommerso.» «Cercate di stare all'erta», li ammonì Moreau. «Vi lascio il mio numero di cellulare. Se vedete che ci sono problemi, chiamatemi immediatamente. Vi manderò la guardia costiera in dieci minuti.» Moreau proseguì sulla strada per altri tre chilometri, poi svoltò nel vialetto dell'hotel e si fermò all'ingresso. Un facchino arrivò di corsa ad aprire la portiera di Summer. Dirk andò al bagagliaio e lo aprì per consentire all'uomo di recuperare le valigie e l'equipaggiamento da immersione e portarli in camera. «Qui intorno ci sono molti ristoranti raggiungibili a piedi, negozi e night-club», illustrò Moreau. «Vengo a prendervi domattina alle nove per condurvi al porto, dove c'è la barca che ho noleggiato per l'operazione. La draga subacquea, il metal detector e l'eiettore a getto che il comandante Rudi Gunn ha spedito via aereo dalla Florida sono già a bordo. Ho fatto installare anche un piccolo compressore sul ponte, per la draga e l'eiettore a getto.» «Molto efficiente», si complimentò Dirk. «La ringraziamo per la cortesia e l'aiuto», disse Summer, mentre Moreau le baciava galantemente la mano. «E grazie per l'interessante tour dall'aeroporto», aggiunse Dirk, stringendogli la mano. «Non lo dovete tutto a me», replicò Moreau con un sorriso. Poi si rabbuiò e aggiunse: «Vi prego, fate molta attenzione. Qui sta succedendo qualcosa che va al di là della nostra comprensione. Non voglio che facciate la fine di quei poveretti». Dirk e Summer si fermarono sulla soglia dell'hotel a guardare Moreau che si allontanava. «Che ne pensi di tutto questo?» chiese Summer. «Non ne ho la più pallida idea», rispose piano Dirk. «Ma darei il braccio destro per avere qui con noi papà e Al.» 41 Il comitato di benvenuto era molto diverso da quello cui Pitt e Giordino erano abituati. Non c'era una bella donna del Congresso, né un'elegante auto d'epoca. L'aereo era circondato dalle forze di sicurezza di una base militare vicina. Per quanto riguardava le vetture, c'erano una Lincoln Town Car, una Navigator turchese della NUMA e un furgoncino bianco di marca
sconosciuta. Rudi Gunn era di fianco alla Navigator e osservava i due uomini mentre scendevano a terra. «Mi chiedo se riuscirò mai a fare una doccia e a gustarmi una bistecca», brontolò Giordino, pensando che Sandecker avesse mandato Gunn per portarli subito alla sede della NUMA. «Non possiamo far altro che rimproverare noi stessi per esserci ficcati in questo pasticcio», sospirò Pitt. «Risparmiami le lamentele», disse Gunn, sorridendo. «Sarete contenti di sapere che l'ammiraglio non vuole vedervi fino a domani pomeriggio. È fissata una riunione alla Casa Bianca alle due. Sarete ricevuti dai consiglieri del presidente.» I Lowenhardt sbarcarono e si avvicinarono a Pitt e Giordino. Hilda si mise in punta dei piedi per baciare Pitt sulle guance, mentre Klaus stringeva la mano di Giordino con vigore. «Come potremo mai ringraziarvi?» disse la donna, con la voce rotta dall'emozione. «Vi dobbiamo molto più di quel che potremo fare per ripagarvi», aggiunse Klaus, con il volto raggiante nel vedere la città di Washington davanti a sé. Pitt gli passò un braccio intorno alle spalle. «Sarete sotto scorta e mi hanno assicurato che i vostri figli saranno protetti e portati qui il più presto possibile.» «Vi prometto la massima collaborazione con il vostro governo. Saremo onorati di condividere le nostre conoscenze sulla tecnologia delle celle a combustibile all'azoto con i vostri scienziati.» Si girò. «Vero, Hilda?» «Sì, Klaus», disse la donna, sorridendo. «La nostra scoperta sarà un dono all'intera umanità.» Dopo un ultimo saluto, i due anziani scienziati vennero scortati verso la Lincoln da un agente dell'FBI. Sarebbero stati portati in un appartamento sicuro della città. Pitt, Giordino e Gunn si girarono allora a guardare Flidais che scendeva dall'aereo con le manette ai polsi tra due massicci agenti della polizia federale e veniva fatta salire sul furgoncino. Lanciò a Pitt uno sguardo di odio puro al quale l'uomo rispose con un sorriso sarcastico e un saluto con la mano prima che lo sportello si chiudesse. «Ti manderò dei dolci in prigione.» A quel punto i due amici salirono sulla Navigator mentre Gunn si metteva alla guida. Attraversarono la pista fino al cancello con il casotto delle
guardie, mostrarono i loro pass e si avviarono verso la città. Gunn svoltò in un viale alberato che portava al ponte più vicino sul Potomac. «Ora forse potremo riposarci e stare tranquilli per un po'», disse Giordino rilassato, mentre si sdraiava sul sedile posteriore chiudendo gli occhi, incurante del verde paesaggio e degli alberi carichi di foglie che scorrevano ai lati della via. «Avrei potuto essere a casa quattro giorni fa, a corteggiare e intrattenere una bella signora; e invece no, hai insistito per infiltrarti nel sancta sanctorum dello Spettro.» «Non mi ricordo di averti dovuto pregare», obiettò Pitt, senza scusarsi. «Mi hai preso in un momento di follia.» «Non prenderti in giro. Se le nostre informazioni verranno usate prontamente, avremo contribuito a salvare l'America e l'Europa da un tempaccio mai visto.» «Chi dovrebbe impedire a Odyssey di aprire le gallerie?» chiese Giordino. «Il governo nicaraguense, le unità speciali statunitensi, una forza dell'ONU? I diplomatici europei discuteranno fino a diventare scemi e intanto i loro Paesi si trasformeranno in cubetti di ghiaccio. Nessuno avrà il fegato di smascherare Odyssey prima che sia troppo tardi.» Pitt sapeva che Giordino non era lontano dalla verità. «Forse hai ragione, ma non spetta più a noi decidere. Noi li abbiamo avvisati, non possiamo fare altro.» Gunn superò il ponte in direzione di Alexandria, dove si trovava la casa di Al. «Il più felice di tutti è l'ammiraglio. È l'uomo del momento alla Casa Bianca. La vostra scoperta è ancora segreta, per ovvi motivi, ma non appena i consiglieri per la sicurezza nazionale metteranno a punto un piano per fermare lo Spettro e Odyssey, si scatenerà l'inferno. Non appena trapelerà qualcosa, la stampa andrà in visibilio e la NUMA verrà portata in palmo di mano.» «E tutti vissero felici e contenti», mormorò un laconico Giordino. «Accompagni prima me?» «Visto che sei il più vicino», rispose Gunn. «Poi prendo la Mount Vernon Highway e lascio Pitt all'hangar.» Pochi minuti dopo, uno stanco Giordino recuperava i suoi bagagli e saliva i gradini del suo palazzo, un ex magazzino costruito durante la guerra civile e trasformato in un condominio di lusso. Prima di scomparire all'interno, si girò a salutare con la mano. Ci volle solo una breve corsa lungo il Potomac per arrivare all'aeroporto nazionale Ronald Reagan, dove abitava Pitt. Gunn percorse il polveroso
viale interno e si fermò davanti al vecchio hangar, dichiarato monumento nazionale dopo che Pitt l'aveva acquistato e riadattato. «Vieni a prendermi per la riunione di domani?» chiese Pitt uscendo dall'auto. Gunn scosse la testa con un sorriso di scuse. «Non sono sulla lista degli ospiti. Ci sarà un'auto del servizio segreto.» Pitt si voltò e digitò la serie di codici del suo stravagante sistema di sicurezza, mentre la Navigator tornava sui suoi passi, in una scia di polvere. Aprì la porta che aveva la vernice scrostata a causa delle intemperie ed entrò. La vista delle sue auto non finiva mai di togliergli il fiato. Era come entrare in un autosalone di lusso. Fra pareti, soffitto e pavimento bianchi si stagliavano le lucenti carrozzerie di decine d'automobili d'epoca. Fra le altre, oltre a una Marmon V-16, c'erano una Duesenberg del 1929, una Stutz del 1932, una Cord L-29 del 1929 e una Pierce-Arrow del 1936 con un carrello della stessa marca. Su un'altra fila si trovavano una Ford elaborata del 1936, la Meteor di Dirk e una rossa e lucente Allard J2X del 1953. In fondo all'hangar trovavano posto due velivoli, un trimotore Ford dell'inizio degli anni '30 del secolo precedente e un Messerschmitt 262 della seconda guerra mondiale. Lungo una parete c'era invece una carrozza Pullman con la prestigiosa scritta MANHATTAN LIMITED sul fianco. Gli unici oggetti che sembravano fuori posto erano la tuga di una barca a vela montata su una zattera di gomma e una vasca da bagno con un motore fuoribordo su un lato. Pitt salì i gradini della scala a chiocciola in ferro che portava all'appartamento al primo piano, portando stancamente in spalla la borsa dell'attrezzatura subacquea e la valigia. Sembrava di entrare nel negozio di un antiquario di nautica. I mobili provenivano da vecchie navi, alle pareti c'erano marine e sugli scaffali modellini di imbarcazioni di ogni tipo. Il pavimento era in assi di tek ricavate dal ponte di un vapore, incagliatosi al largo dell'isola di Kauai nelle Hawaii. Pitt aprì i bagagli e gettò gli indumenti nel cesto della biancheria sporca vicino alla lavatrice-asciugatrice. Poi si tolse anche ciò che aveva addosso e lo mise da lavare. Con grande sollievo, entrò nella doccia di tek, aprì l'acqua alla temperatura giusta e s'insaponò, strofinando vigorosamente la pelle finché non la sentì bruciare. Dopo essersi risciacquato, si mise un asciugamano in vita e si avviò verso il letto, sdraiandosi di traverso e cadendo addormentato all'istante.
Era ormai buio quando Loren Smith entrò nell'hangar utilizzando la sua chiave. Salì al primo piano e si guardò in giro per trovare Pitt, poiché Rudi Gunn l'aveva avvisata del suo ritorno. Lo trovò sdraiato sul letto, nudo e addormentato. Le labbra si distesero in un sorriso sensuale mentre si chinava su di lui e lo copriva con un lenzuolo. Quando Pitt si svegliò sei ore dopo, il cielo oltre il lucernario era punteggiato di stelle. Con le narici, percepiva un profumo di bistecca alla griglia, Vide il lenzuolo e capì che era stata Loren a metterlo. Si alzò e s'infilò un paio di pantaloncini kaki, una camicia a fiori di seta e i sandali. Loren era molto attraente in un paio di attillati pantaloncini bianchi e una camicia di seta a righe. Le braccia e le gambe erano abbronzate, perché prendeva il sole sul terrazzo di casa. Sospirò quando Pitt la abbracciò alle spalle e la strinse mentre le baciava il collo. «Non adesso», disse, fingendo irritazione. «Sono occupata.» «Come sapevi che sono cinque giorni che sogno una bistecca?» «Non occorre essere uno scienziato per sapere che non mangi altro. Ora siediti e schiaccia le patate.» Pitt obbedì, sedendosi al tavolo ricavato dalla botola di un boccaporto passata a lucido. Schiacciò le patate in una ciotola e le mise su due piatti, mentre Loren divideva in due una fiorentina. Prima di sedersi, servì anche un'insalata mista in una ciotola. Pitt aprì una bottiglia di Chardonnay Martin Ray, alla giusta temperatura. «Ho sentito che avete avuto parecchi guai», disse lei, tagliando la carne. «Qualche graffio, ma niente che richieda l'intervento del medico.» Lei lo guardò negli occhi, il viola che incontrava il verde. Il viso era dolce, ma la voce determinata. «Stai diventando troppo vecchio per cacciarti in tutti questi guai. È tempo di rallentare.» «Andare in pensione e giocare a golf cinque giorni su sette? Non fa per me.» «Non devi andare in pensione, solo accettare di dirigere progetti che non siano pericolosi come quelli passati.» Pitt le versò da bere e si appoggiò allo schienale, guardandola mentre assaporava il vino. Ne studiò i lineamenti eleganti, i capelli e le orecchie delicate, il naso finemente scolpito, il mento fermo e gli zigomi alti. Avrebbe potuto avere qualsiasi uomo di Washington, dai membri del gabinetto presidenziale ai senatori e ai membri del Congresso, per non parlare di ricchi finanzieri, avvocati, magnati dell'industria e diplomatici stranieri. Ma da
vent'anni, a parte qualche storia insignificante, amava solo lui: Dirk Pitt. Si era allontanata ma era sempre ritornata e, adesso che gli anni erano passati, linee sottili le delineavano gli occhi, e il corpo, anche se mantenuto in forma dall'esercizio fisico, aveva perso un po' di quelle curve giovanili. Ciò nonostante, se la si fosse messa in una stanza con un gruppo di belle e giovani donne, ogni uomo avrebbe notato solo lei. Non aveva mai temuto confronti. «È vero. Potrei stare di più a casa», disse lentamente, senza staccare gli occhi da quelli di lei. «Ma dovrebbe esserci un motivo.» Come se non avesse sentito, Loren disse: «La legislatura al Congresso sta per terminare e sai che ho annunciato che non mi candiderò più». «Hai già pensato a cosa farai tutto il giorno sulla spiaggia?» Lei scosse la testa. «Ho avuto diverse proposte per dirigere varie organizzazioni, e almeno quattro lobby e tre uffici legali mi hanno chiesto di diventare socia. Ma io preferirei ritirarmi, viaggiare un po', scrivere il libro sugli affari interni del Congresso che ho in mente da tempo, e passare più ore a dipingere.» «Ti manca la tua arte», disse Pitt, prendendole la mano da sopra il tavolo. «I tuoi paesaggi sono opera di professionista.» «E che cosa mi dici di te?» gli chiese Loren, pensando di conoscere già la risposta. «Continuerai ad andare in giro con Al a scherzare con la morte cercando di salvare gli oceani del mondo?» «Non posso parlare per Al, ma per quanto mi riguarda quelle cose sono finite. Voglio farmi crescere una barba bianca e giocare con le mie auto, finché non sarò su una sedia a rotelle di una casa di riposo.» Loren rise. «Non so perché, ma non riesco proprio a immaginarlo.» «Speravo che tu venissi con me.» Lei si bloccò e lo fissò con occhi spalancati. «Che cosa mi stai dicendo?» Pitt le prese la mano e la strinse forte. «Ti sto dicendo, Loren Smith, che penso sia venuto il momento di chiedere la tua mano.» Loren non ci poteva credere. «Non starai... non puoi stare scherzando», disse, con voce soffocata. «Sono tremendamente serio», replicò Pitt, mentre vedeva le lacrime scendere dagli occhi viola di Loren. «Ti amo e ti ho amato per quella che sembra un'eternità. Adesso voglio che tu diventi mia moglie.» Era lì, tremante, la donna d'acciaio della Camera, colei che non aveva mai ceduto nonostante le pressioni politiche, quella più forte dei più forti
uomini di Washington. Poi tolse la mano da quella di Pitt e la portò con l'altra sugli occhi, iniziando a singhiozzare senza controllo. Pitt si alzò e andò ad abbracciarla. «Mi dispiace, non intendevo sconvolgerti.» Lei lo guardò, tra le lacrime. «Stupido presuntuoso, sai quanto ho aspettato di sentirmi dire questa frase?» Pitt era sconcertato. «Ma, quando ne abbiamo parlato in passato, mi hai sempre detto che il matrimonio era fuori questione perché eravamo sposati al nostro lavoro.» «Credi a tutto quello che ti dicono le donne?» Pitt con tenerezza la fece alzare e le diede un bacio delicato sulle labbra. «Perdonami per essere stato così lento, oltre che stupido. Ma la domanda rimane. Vuoi sposarmi?» Loren gli gettò le braccia al collo e gli riempì il viso di baci. «Sì, canaglia», rispose estasiata. «Sì, sì, sì!» 42 Quando Pitt si svegliò il mattino successivo, Loren era già uscita per tornare al suo appartamento, farsi una doccia e cambiarsi per la consueta giornata di battaglia al Congresso. Pitt provò una forte emozione ricordando le braccia di lei intorno al suo corpo quella notte. Anche se aveva un appuntamento alla Casa Bianca, non si sentiva dell'umore di indossare un completo da uomo d'affari e giocare il ruolo del burocrate. Inoltre, già pensava alla pensione e non si sentiva in dovere di fare bella figura con i consiglieri presidenziali. Si mise quindi dei pantaloni ampi e casual, una camicia da golf e una giacca sportiva. Nel primo pomeriggio, un'altra Lincoln nera, guidata da un agente del servizio segreto, lo aspettava fuori dell'hangar. Il conducente - spalle squadrate e corpo asciutto - si mise al volante senza parlare, lasciando che Pitt salisse da solo sul sedile posteriore. Il viaggio fino a casa di Al avvenne nel più totale silenzio. Quando anche Giordino prese posto accanto a Pitt, si capì che l'auto non stava prendendo la strada normale per la Casa Bianca. «Mi scusi, amico, ma questa non è la strada più lunga?» L'uomo mantenne lo sguardo fisso e non rispose, Giordino si rivolse a Pitt con un'espressione circospetta. «Gran chiacchierone, questo ragazzo.»
«Chiedigli dove ci sta portando.» «Dunque.» Giordino parlò direttamente nell'orecchio dell'autista. «Se la meta non è la Casa Bianca, dove stiamo andando?» Ma non ottenne risposta. L'uomo ignorò Giordino mentre guidava come se fosse un automa. «Che cosa ne pensi?» Al mormorò a Pitt. «Dobbiamo mettergli un punteruolo da ghiaccio nell'orecchio al prossimo semaforo e dirottare l'auto?» «Chi ci dice che sia davvero del servizio segreto?» disse Pitt. Attraverso il retrovisore, il volto dell'autista rimaneva impassibile. Ma un braccio si protese per mostrare ai due amici il tesserino di riconoscimento del servizio. Giordino lo esaminò. «È autentico. Sembra che si chiami Otis McGonigle.» «Sono contento di non andare alla Casa Bianca», disse Pitt sbadigliando come se fosse annoiato. «Sono tutti così monotoni e deprimenti, là dentro. E, quel che è peggio, è che pensano che il Paese andrebbe alla malora senza di loro.» «Soprattutto quei palloni gonfiati che proteggono il presidente», aggiunse Giordino. «Intendi quei senza cervello che gli stanno intorno con radioline nelle orecchie e occhiali scuri che andavano di moda trent'anni fa?» «Esatto.» Ma l'uomo non diede mostra di reagire: neanche un segno d'irritazione. I due amici smisero di stuzzicarlo e rimasero seduti tranquilli per il resto del viaggio. McGonigle fermò la vettura davanti a un pesante cancello di ferro. Una guardia, con l'uniforme della sicurezza della Casa Bianca, lo riconobbe, entrò nella guardiola e premette un bottone. Il cancello si aprì e l'auto imboccò una rampa che scendeva in una galleria. Pitt sapeva che nel sottosuolo di Washington c'erano gallerie che portavano a quasi tutti i palazzi governativi intorno al Campidoglio. Dopo quello che Pitt calcolò essere un chilometro e mezzo, McGonigle fermò l'auto, scese e aprì lo sportello posteriore per farli scendere davanti a un ascensore. «Okay, signori, siamo arrivati.» «Parla!» disse Giordino, guardandosi intorno. «Ma come? Non vedo il ventriloquo!» «Mi spiace, ragazzi, ma il teatro non è il vostro forte», mormorò McGonigle, senza raccogliere la provocazione. Si mise da parte mentre le porte
si aprivano. «Attenderò il vostro ritorno con il fiato sospeso.» «Non so perché, ma mi piaci», disse Giordino, battendogli la mano sulla spalla mentre saliva in ascensore. Non udì la risposta, perché la porta si chiuse prima che l'altro potesse reagire. Invece di salire, scesero per quelli che sembrarono più di trecento metri. Quando le porte si aprirono senza neanche un rumore, davanti a loro c'era un marine armato che presidiava una porta d'acciaio. Studiò a lungo i loro volti, confrontandoli con le loro foto, poi, soddisfatto, digitò un codice su una tastiera a parete e si fece da parte mentre i due pesanti battenti si spalancavano. Senza parlare, fece loro segno di entrare. Si ritrovarono in una sala conferenze lunga e con apparecchi di telecomunicazione tali da far fronte a una guerra a tavolino. Tre pareti erano coperte di schermi televisivi, carte geografiche luminose e fotografie. Sandecker si alzò dalla sedia e li salutò. «Bene, avete scoperchiato il vaso di Pandora, questa volta.» «Spero che i risultati delle nostre indagini siano stati utili», replicò Pitt, con modestia. «Utili è dire poco.» Si girò per salutare un uomo alto dai capelli grigi, che si avvicinava in un completo gessato e cravatta rossa. «Penso conosciate il consigliere per la sicurezza nazionale, Max Seymour.» Pitt strinse la mano che gli veniva porta. «L'ho incontrato da mio padre, per le grigliate del sabato pomeriggio.» «Il senatore Pitt e io ci conosciamo da molti anni», disse Seymour con tono affabile. «Come sta la tua deliziosa madre?» «Tranne che per qualche problema d'artrite, direi che non c'è male», rispose Pitt. Sandecker presentò velocemente gli altri tre uomini presenti nella stanza. Erano Jack Martin, consigliere scientifico della Casa Bianca, Jim Hecht, vicedirettore della CIA, e il generale Arnold Stack, le cui esatte mansioni al Pentagono non era dato di sapere. Presero tutti posto al tavolo mentre l'ammiraglio chiedeva a Pitt di descrivere che cosa avevano trovato nelle gallerie di Odyssey e nel complesso industriale sull'isola di Ometepe. Quando la segretaria annunciò che il registratore era in azione e riceveva, Pitt iniziò a parlare per primo, confrontandosi spesso con Giordino e completando a vicenda il racconto. Descrissero in modo esauriente i vari avvenimenti e ciò di cui erano stati testimoni e riportarono le loro conclusioni. Non furono interrotti da domande finché non ebbero terminato il resoconto con la fuga dall'isola insieme con i coniugi Lowenhardt e l'as-
sassina di Odyssey. Gli uomini del presidente impiegarono un po' ad assimilare l'enormità dell'incombente disastro. Max Seymour fissava con occhi di gelo Jim Hecht, della CIA, dall'altra parte del tavolo. «Sembra che i tuoi uomini abbiano passato la palla, questa volta, Jim.» Hecht alzava le spalle, imbarazzato. «Non abbiamo avuto ordini dalla Casa Bianca di indagare e le foto del satellite non giustificavano l'invio di uomini. Non c'era niente che indicasse che fosse in corso un progetto di costruzione così dannoso per gli Stati Uniti.» «E il complesso di Ometepe?» «L'abbiamo controllato», rispose Hecht, stizzito dalle domande di Seymour, «e sapevamo che era impegnato nella ricerca di fonti energetiche alternative. I nostri tecnici non hanno rilevato elementi che rivelassero la volontà di Odyssey di mettere a punto armi di distruzione e morte. Però ci siamo mossi, anche perché uno dei nostri obiettivi è quello di monitorare e analizzare la penetrazione della Repubblica cinese nell'America centrale, in particolare nella zona del canale.» Intervenne Jack Martin: «Trovo inquietante che i nostri migliori sforzi scientifici siano ben lontani dal produrre un'efficace tecnologia delle celle a combustibile. Non solo Odyssey è riuscita a realizzare un'impresa scientifica eccezionale, ma i cinesi ne hanno già prodotto milioni di unità». «Non possiamo essere i primi al mondo in tutti i campi, sempre», disse il generale Stack. Poi accennò a Pitt e Giordino. «Ciò che ci state dicendo è che Odyssey ha attirato in una trappola i maggiori scienziati del mondo impegnati nella ricerca sulle celle a combustibile, li ha tenuti prigionieri in un complesso in Nicaragua e li ha obbligati a sviluppare un prodotto pratico ed efficace.» Pitt assentì. «Esattamente questo.» «Posso fare il nome di almeno quattro dei nostri scienziati che hanno lasciato i loro laboratori nelle università e sono praticamente scomparsi», disse Martin. Jim Hecht guardò Pitt. «È certo che i Lowenhardt coopereranno e ci forniranno gli elementi per ricreare le loro avanzate celle a combustibile all'azoto?» «Sono d'accordo su tutta la linea, da quando ho promesso loro di far arrivare i loro figli negli Stati Uniti e di proteggerli da questo momento in poi.» «Ben fatto», approvò Sandecker con occhi pieni di orgoglio. «Anche se
è andato un po' oltre la sua autorità.» «Mi sembrava la cosa più onorevole da fare», si giustificò Pitt, con un sorriso appena abbozzato. Jack Martin scarabocchiava su un taccuino. «Non appena si saranno ripresi da questa brutta vicenda e riposati, inizieremo a interrogarli.» Guardò Pitt oltre il tavolo. «Che cosa vi hanno detto sul funzionamento delle celle?» «Solo che, una volta stabilito che l'idrogeno non poteva essere utilizzato come combustibile, hanno iniziato a sperimentare con l'azoto, anche perché costituisce il 78 per cento dell'atmosfera terrestre. Prelevandolo da lì insieme con l'ossigeno, hanno ingegnosamente creato una cella a combustibile autoalimentata da gas naturali, che produce acqua pura come elemento di scarto. Secondo Klaus, hanno messo a punto un'ingegnosa unità con meno di otto parti. È questa semplicità che ha permesso ai cinesi di produrre un tal numero di pezzi in così poco tempo.» Il generale Stack sembrava cupo. «Simili cifre di produzione in un tempo brevissimo sono davvero sorprendenti.» «Simili proporzioni giustificano anche la corsa per accaparrarsi le miniere di platino, minerale che serve per rivestire gli anodi e separare i gas in elettroni e protoni», spiegò Martin. Hecht completò il discorso: «Negli ultimi dieci anni, Odyssey ha acquisito l'80 per cento delle miniere produttive mondiali di platino. Un fenomeno che ha messo notevolmente in difficoltà l'industria dell'automobile che utilizza il platino per una serie di parti del motore». «Una volta che i Lowenhardt ci avranno svelato i segreti della tecnologia», interloquì Seymour, «avremo anche noi lo stesso problema di reperire una quantità di platino sufficiente per fronteggiare la produzione cinese.» «Hanno anche sostenuto di non aver ancora messo a punto celle a combustibile da applicare alle automobili», aggiunse Giordino. Martin seguiva il corso dei suoi pensieri. «Con i dati dei Lowenhardt e con uno sforzo congiunto, dovremmo riuscire a riprendere Odyssey e i cinesi anche in quel campo.» «Vale la pena di tentare, ora che ci sono le basi e la tecnologia è a nostra disposizione», dichiarò il generale Stack. «Cosa che ci riporta al problema di mettere a punto un piano per far fronte a Odyssey e al progetto delle gallerie», continuò Stack, che cercava con gli occhi Seymour, dall'altra parte del tavolo.
«Per inviare le forze speciali a sigillare delle gallerie occorre avere una valida giustificazione», sentenziò Seymour. «Non posso in tutta coscienza consigliare il presidente di inviare l'esercito americano.» «Ma le conseguenze catastrofiche di un simile gelo sopra il trentesimo parallelo non sono di per sé un motivo ragionevole?» «Max ha ragione», convenne Martin. «Convincere il resto del mondo del pericolo è un'impresa quasi impossibile.» «Da qualsiasi parte si affronti il problema», intervenne Sandecker, «rimane il fatto che occorre chiudere quelle gallerie e occorre farlo in fretta. Se le aprono, e milioni di litri di acqua iniziano a scorrere, sarà molto più difficile intervenire.» «E se inviassimo una piccola squadra sotto copertura, che piazzi dell'esplosivo e chiuda la questione?» «Non supererebbe mai la sicurezza di Odyssey», considerò Giordino. «Lei e Dirk ci siete riusciti», obiettò Sandecker. «Non avevamo con noi tonnellate di esplosivo, perché tanto ce ne vuole per poter riuscire nell'impresa.» Pitt si era alzato e camminava nella stanza, studiando gli schermi e le mappe alle pareti. Trovò particolarmente interessante una grande foto satellitare che riprendeva il complesso di ricerca e sviluppo di Ometepe. Si avvicinò soffermandosi sul versante del vulcano Concepción e un pensiero si formò nella sua mente. Tornò a sedersi. «Una pioggia di bombe penetranti da novecento chili da un B-52 potrebbe farcela.» «Non possiamo bombardare i Paesi amici, nemmeno con una simile minaccia», si oppose Seymour. «Quindi lei ammette che un possibile mutamento climatico sia una minaccia per la sicurezza della nazione.» Stack lo aveva messo alle strette. «Questo è fuori discussione», ammise Seymour, laconico. «Ciò che dico è che si deve trovare una soluzione che non faccia passare il presidente e la nazione come mostri inumani agli occhi del mondo.» «E non possiamo dimenticare», sentenziò Hecht, con un sorriso astuto, «che una decisione sbagliata avrebbe conseguenze politiche negative nelle prossime elezioni.» «Deve esserci un altro modo di affrontare il problema», disse Pitt lentamente, sempre guardando la foto dal satellite. «Un modo che possa soddisfare tutte le parti in causa.» «Dunque, Pitt», disse il generale Stack con voce dubbiosa, «come pensa
di distruggere i tunnel senza inviare le forze speciali o uno squadrone di bombardieri?» Tutti i presenti si girarono verso Dirk. «Propongo di lasciar fare a Madre Natura.» Gli sguardi divennero ancora più inquisitori, mentre serpeggiava il sospetto che l'uomo avesse perso parte della ragione. Poi Martin, lo scienziato, ruppe il silenzio. «Può spiegare, per favore?» «Secondo i geologi, un versante del vulcano Concepción su Ometepe starebbe per staccarsi dalla montagna in una gigantesca frana. Il fenomeno è stato senz'altro favorito dalla costruzione della galleria che passa sotto il margine esterno del vulcano. Quando Al e io eravamo là sotto, la temperatura era decisamente più alta.» «Sì, sui 40 gradi», specificò Giordino. «I Lowenhardt ci hanno detto che uno degli scienziati in ostaggio, il dottor Honoma, un geofisico dell'università delle Hawaii...» «Uno di quelli che mancano all'appello», lo interruppe Martin. «Be', il dottor Honoma ha calcolato che una frana di simili proporzioni si potrebbe verificare da un momento all'altro, con conseguenze catastrofiche.» «Quanto catastrofiche?» chiese il generale, non ancora convinto. «L'intero complesso e le persone che vi risiedono sarebbero seppelliti sotto milioni di tonnellate di roccia che, cadendo nel lago, provocherebbero un'onda anomala che spazzerebbe tutte le città e tutti i villaggi delle sue coste.» «Questa sicuramente non è una situazione che ci augureremmo», obiettò Hecht. Seymour fissò Pitt con un lungo e significativo sguardo. «Se ciò che Honoma dice è vero, la montagna farebbe il lavoro per noi distruggendo anche le gallerie.» «Questa è l'idea.» «Quindi non dobbiamo far altro che sederci e aspettare.» «I dati su catastrofi precedenti non sono tali da permettere agli scienziati di fare previsioni certe. Ci possono volere pochi giorni, come qualche anno. E allora sarebbe troppo tardi.» «Non possiamo aspettare con le mani in mano mentre le gallerie diventano operative», intervenne Stack, con un tono deciso. «Potremmo stare con le mani in mano, o agire in un altro modo», replicò Pitt.
«Le dispiace dirci che cos'ha in mente?» lo esortò Sandecker, spazientito. «Informiamo le autorità nicaraguensi che i nostri scienziati hanno rilevato il probabile smottamento del vulcano grazie ai satelliti, e che questo può avvenire da un momento all'altro. Li spaventiamo per bene, descrivendo uno scenario di morte e distruzione, poi inneschiamo la trappola.» Seymour sembrava confuso. «Trappola?» «Ci offriamo di fornire l'aiuto necessario per evacuare le persone nel complesso e spostare gli abitanti del lago di Nicaragua più in alto. Una volta che non c'è più nessuno, possiamo sganciare una bomba sul vulcano da quindicimila metri senza essere incolpati di niente, provocare la frana e distruggere le gallerie.» Sandecker si appoggiò allo schienale della sedia e fissò pensieroso la superficie del tavolo. «Sembra troppo facile, troppo elementare per una questione di tal genere.» «Per quello che so della zona, il Concepción è ancora attivo», si inserì Martin. «Una bomba potrebbe innescare un'eruzione.» «Sì, se facciamo cadere la bomba nel cratere», disse Pitt. «Ma di sicuro no, se la facciamo esplodere alla base del versante.» Per la prima volta, il generale Stack sorrise. «Credo, signor Pitt, che abbiamo un piano. La semplicità lo rende logico ed efficace. Propongo di analizzare la sua realizzabilità.» «Che cosa mi dite dei lavoratori nei tunnel?» chiese Seymour. «Non avrebbero il tempo di fuggire.» «Non c'è da preoccuparsi», rispose Giordino. «A ventiquattr'ore dall'apertura delle chiuse li avranno già fatti evacuare.» «Non c'è tempo da perdere», avvertì Pitt. «Ho sentito due donne nella sede di Odyssey che parlavano di aprire le chiuse fra otto giorni. Questo è stato tre giorni fa, quindi ne rimangono cinque.» Hecht fissò Seymour da sopra gli occhiali da lettura. «Devi decidere tu, Max, se lanciare la palla. Dobbiamo avere l'approvazione del presidente per procedere.» «Ve la farò avere tra un'ora», assicurò fiducioso Seymour. «Il mio prossimo compito sarà quello di convincere il segretario di Stato Hampton ad avviare le trattative con il Nicaragua, per permettere alle forze di salvataggio di entrare nel Paese.» Guardò Stack. «Conto su di lei, generale, per organizzare e dirigere l'evacuazione.» Poi fu il turno di Martin. «Jack, tu avrai il compito di mettere una paura del diavolo ai nicaraguensi, prospet-
tando loro scenari di catastrofe e distruzione.» «M'impegnerò personalmente anch'io in questo senso», si offrì Sandecker. «Sono molto amico di due scienziati oceanografici del Paese.» Gli ultimi a essere apostrofati furono Pitt e Giordino. «Vi dobbiamo molto, signori. Spero di riuscire un giorno a ripagarvi.» «Una cosa ci sarebbe», disse Pitt, con un sorrisetto, scambiando occhiate con Giordino. «C'è un agente segreto che conosciamo come Otis McGonigle. Ci piacerebbe che fosse promosso.» Seymour si strinse nelle spalle. «Penso si possa fare. C'è un motivo per cui me lo chiedete?» «È un nostro amico», rispose Giordino. «E ha dei meriti di servizio.» «Ci sarebbe un altro favore», continuò Pitt, guardando Hecht. «Mi piacerebbe vedere il vostro file sullo Spettro e sulla Odyssey Corporation.» Hecht annuì. «Ve lo farò recapitare alla sede della NUMA. Pensate che possa contenere qualcosa di utile ai fini di questa storia?» «Non lo so, ma credo di poterne ricavare qualcosa.» «I miei uomini l'hanno già esaminato a fondo, senza risultati.» «Forse ha ragione», ammise Pitt, «ma potrei vedere qualcosa che agli altri è sfuggito.» 43 Con una tenuta coloniale composta da pantaloncini bianchi, camicia dello stesso colore e calzettoni al ginocchio, Moreau stava aspettando Dirk e Summer alle nove precise. E proprio in quel momento i ragazzi uscirono dall'atrio dell'hotel con le borse dell'attrezzatura subacquea. Il portiere sistemò le borse nel bagagliaio e tutti salirono a bordo della BMW 525 sotto una pioggerella provocata dall'unica nuvola in un cielo altrimenti azzurro. Il vento era solo una brezza che scuoteva appena la cima delle palme. Il percorso fino al molo dove Moreau aveva noleggiato la barca era di soli tre chilometri lungo una strada a curve in discesa. Una volta al porto, l'uomo imboccò una stretta gettata in pietra che partiva dalla spiaggia e s'inoltrava nell'acqua, il cui colore passava dal giallo-verde al verde-azzurro a mano a mano che il fondo scendeva. Moreau si fermò a fianco di una barca attaccata al molo come una paperetta a mamma anatra, con i parabordi schiacciati fra la pietra e lo scafo in fibra di vetro che beccheggiava per effetto delle onde provenienti dalla laguna. Il nome scritto in caratteri dorati sulla poppa era DEAR HEART.
Era una barca a vela abbastanza piccola, uno sloop per la precisione, con la randa e il fiocco alti come tutto l'albero. Sette metri e ottanta di lunghezza, con traverso di due e sette e una deriva di poco superiore al metro e venti. Aveva una superficie velica di trentun metri quadrati e un piccolo motore diesel ausiliario da dieci cavalli. La cabina era confortevole, con due posti letto, una doccia e una piccola cambusa. Come promesso da Moreau, a bordo c'erano un metal detector Fisher e una draga subacquea Klein, montati nel pozzetto e pronti a entrare in funzione. Dirk saltò sul ponte dalla scaletta e prese le borse che Moreau gli passava, prima di portarle in cabina. «Buon viaggio e state attenti», disse Moreau a Summer. «Terrò il cellulare sempre acceso. Chiamatemi se ci sono difficoltà.» «Lo faremo», gli assicurò Summer. Poi salì con grazia la scaletta e raggiunse Dirk che stava accendendo il motore diesel. A un suo segnale, Moreau levò gli ormeggi e rimase sul molo, con un'espressione di viva preoccupazione stampata in volto, mentre la piccola imbarcazione attraversava la laguna e guadagnava il mare. Dopo aver superato l'ultima boa, Summer si mise al timone e Dirk issò le due vele in tela rosso cremisi, che, dopo aver sbattuto avanti e indietro, si gonfiarono al vento stagliandosi sul cielo azzurro. La barca prese agilmente il mare tagliando le onde sempre più alte che si formavano al largo. Guardando il ponte, Dirk lo trovò pulito e luminoso; la Dear Heart doveva avere meno di un anno e gli ottoni erano ancora lucidi e splendenti sotto i raggi solari. Era una barca slanciata ed elegante, che sfiorava l'acqua e fendeva le onde come un gatto che corresse nell'erba. Passarono tra gli scrosci di un temporale passeggero, che scompigliò la superficie dell'acqua e tinse la cresta delle onde di schiuma bianca. Subito fuori, l'aria fu di nuovo asciutta e secca e il mare calmo, come un tappeto gigante disteso davanti alla prua. «Quanto c'è per Branwyn?» chiese Summer, chiudendo abilmente il vento per guadagnare un altro nodo di velocità. «Circa ventitré miglia», rispose Dirk. «Punta verso sud, non c'è bisogno di una rotta precisa. L'isola ha un caratteristico faro sulla punta orientale.» Dirk si tolse la camicia e rimase in pantaloncini a badare alle vele. Summer si era sfilata il vestito, sotto il quale aveva indossato un bikini verde a motivi floreali. Teneva il timone con una presa salda e prendeva le onde con un tocco da maestro, con un occhio sulle isole che s'intravedevano all'orizzonte e l'altro sulla bussola.
Con i capelli rossi e sciolti che volavano nel vento, la ragazza sembrava un marinaio che affrontasse il viaggio giornaliero da Newport Beach all'isola di Santa Catalina. Dopo un'ora di navigazione, prese un binocolo in una mano e guardò l'orizzonte. «Penso di aver visto il faro», annunciò, indicando un punto preciso. Dirk seguì con lo sguardo il braccio disteso della sorella, ma non riuscì a distinguere la torre. Quello che vide fu invece una linea sottile che presto diventò il profilo di un'isola. «Quella è Branwyn. Punta dritto su di lei, il porto è sulla costa sud.» Un branco di pesci volanti emerse davanti alla prua e si disperse in tutte le direzioni; alcuni seguirono il fianco della barca, sperando forse in un po' di cibo. Poi fu la volta di cinque delfini, che piroettarono intorno all'imbarcazione come giullari che richiamassero gli applausi. Quando furono a tre miglia dall'isola, il faro si distinse nettamente come una costruzione a tre piani sulla spiaggia più vicina. Dirk prese il binocolo e lo osservò, ma le finestre erano chiuse e non si vedeva segno di vita umana. C'era un molo nei pressi della spiaggia sabbiosa, ma non vi era attraccata nessuna barca. Si scambiarono di posto, con Dirk al timone e Summer a prua, attaccata al sartiame e con gli occhi fissi sull'isola. Era brulla, come spesso erano le isole, senza sottobosco dai fiori colorati e senza nemmeno le palme intorno alla spiaggia. In genere, ogni isola ha il suo odore. Può essere la fragranza umida della vegetazione e delle piante tropicali o l'aroma dei piatti cucinati dai suoi abitanti, l'odore pungente del fumo dei campi bruciati o quello oleoso della copra e della noce di cocco. Quell'isola invece sapeva di morte, come se il diavolo vi avesse lasciato il suo fetore. Le orecchie allenate di Summer percepirono il suono dell'onda che s'infrangeva sulla barriera corallina, oltre la quale la laguna si apriva davanti alla residenza. Si distingueva poi un edificio basso alla fine di una lunga pista, probabilmente un hangar. Ma, come Dirk, neppure Summer vedeva segni di vita. Branwyn sembrava un cimitero abbandonato. Dirk si tenne a distanza di sicurezza dalla barriera e continuò a osservare con interesse l'acqua, trasparente come quella di una vasca da bagno. Apparve il fondo, liscio e sabbioso, libero da coralli. Il ragazzo guardava l'eco sonar di continuo, per controllare la profondità e non rischiare d'incagliarsi. Virò con sicurezza in modo da proseguire il periplo dell'isola e finalmente raggiunse la costa sud. Consultò la carta nautica e aggiustò la rotta prima di virare ed entrare nel canale, come gli indicava l'eco sonar.
Le onde incalzanti s'infrangevano in quel varco di soli novanta metri presidiato dagli scogli della barriera. L'ingresso era insidioso, perché la corrente portava a sinistra. Dirk pensò a Odisseo e ai suoi marinai che, reduci da una traversata oceanica, dovevano aver considerato quel passaggio una manovra facile. Il vantaggio per loro era che, se il mare fosse diventato mosso, avrebbero potuto tirar fuori i remi e ammainare le vele. Dirk poteva usare il motore, ma, come il pilota di un aeroplano che non volesse atterrare con i dispositivi automatici, anche lui preferiva far ricorso alla sua abilità e condurre di persona la barca. Passato lo stretto, il mare si calmò nuovamente e Dirk rivide il fondo che scorreva sotto la chiglia. Ripassò il timone a Summer e ammainò le vele. Poi accese il motore e iniziò a ispezionare l'interno del golfo. Era un'insenatura piccola, non più lunga di settecento metri per la metà in larghezza. Mentre Summer era chinata sul bordo per tenere sotto controllo il fondale, Dirk cercò di percepirne la corrente e immaginandosi sul ponte di una delle navi di Odisseo: dove poteva aver gettato l'ancora, tanti secoli prima? Infine, si fermò in una zona al riparo dai venti prevalenti dell'isola, dove sorgeva una collinetta di sabbia che spuntava di trenta metri sopra la linea della spiaggia. Spense i motori e azionò l'interruttore del pozzetto che azionava il verricello dell'ancora di prua. «Questo sembra un posto come un altro per scendere in acqua e ispezionare il fondo.» «Sembra più piatto di una tavola», osservò Summer. «Non vedo nessuna asperità della sabbia. È ovvio che il legno delle navi celtiche si è ormai decomposto e che qualsiasi altro oggetto deve essere sepolto in profondità.» «Immergiamoci. Io controllerò la consistenza della sabbia e del fango. Tu guardati intorno per una visione più generale.» Dopo aver indossato le bombole, Dirk controllò che l'ancora fosse saldamente fissata al fondo e non rischiasse di staccarsi mandando la barca alla deriva. Certo, in quell'insenatura non sarebbe andata lontano. Senza indossare la muta, perché la temperatura dell'acqua non lo richiedeva, scivolarono nell'acqua che non superava i tre metri di profondità. Era cristallina, con visibilità di sessanta metri e una temperatura superiore ai 30 gradi: condizioni perfette. Quaranta minuti più tardi, Dirk risaliva a bordo con la scaletta e si toglieva le bombole e i pesi. Aveva passato uno scandaglio sotto la superficie della sabbia per vedere se non ci fosse uno strato argilloso più duro, ma
aveva trovato quasi cinque metri di sabbia soffice, prima d'incontrare la roccia. Si sedette per qualche minuto, controllando le bolle di Summer che giravano intorno alla barca. Ben presto, anche lei tornò a bordo, soffermandosi sulla scaletta per deporre un oggetto incrostato di coralli sul ponte. Quando fu sul ponte, completamente gocciolante, si sfilò l'attrezzatura subacquea. «Che cos'hai trovato?» chiese Dirk. «Non lo so, ma è troppo pesante per essere roccia. Sporgeva dalla sabbia a circa cento metri dalla spiaggia.» Dirk guardò la costa, sempre deserta in apparenza, ma provava una strana morsa allo stomaco, come se si sentisse sorvegliato. Raccolse l'oggetto e cercò di rimuovere le incrostazioni con il coltello. Ben presto comprese che era un volatile con le ali aperte. «Sembra un'aquila o un cigno», disse. Poi la punta del coltello tagliò una scaglia che sembrava argento. «La ragione per cui è così pesante è che è realizzato in piombo.» Summer lo prese in mano e osservò le ali e il capo, rivolto a destra. «Potrebbe essere celtico?» «Il fatto che sia di piombo è un buon segno. Il dottor Chisholm mi ha detto che, oltre allo stagno, una delle ricchezze della Cornovaglia era rappresentata dalle miniere di piombo. Hai segnato il posto in cui l'hai trovato?» Summer annuì. «Ho lasciato lo scandaglio nella sabbia con una bandierina arancio.» «Quant'è lontano il punto?» «Circa quindici metri in quella direzione», disse lei indicando. «Okay, prima di dragare o scandagliare, passeremo sopra il posto con il metal detector. Il sonar non sarà di grande aiuto se i resti del naufragio sono sepolti.» «Forse dovremmo farci inviare un magnetometro da Rudi.» Dirk sorrise. «Un magnetometro rileva i campi magnetici del ferro e dell'acciaio. Odisseo passò di qui prima dell'Età del Ferro. Un metal detector invece rileva molti altri metalli, anche l'oro e il bronzo.» Summer prese quindi il metal detector Fisher Pulse 10 mentre Dirk collegava il sensore all'indicatore e lo immergeva in acqua spingendolo lentamente fin quasi a toccare il fondo. A quel punto doveva solo levare l'ancora. «Pronta?» chiese.
«Tutto a posto», rispose Summer. Dirk accese i motori diesel e procedette tracciando file serrate avanti e indietro, avvicinandosi sempre più alla zona del ritrovamento. Dopo solo quindici minuti, l'ago dell'indicatore iniziò a muoversi accompagnato da un ronzio sempre più forte nelle cuffie di Summer. «C'è qualcosa», annunciò. Quando passarono sopra lo scandaglio che Summer aveva lasciato sul fondo, il suono si ripeté e l'ago oscillò. «Rileva qualcosa?» chiese Dirk. Summer stava per rispondere di no, quando l'ago iniziò a muoversi come impazzito avanti e indietro indicando che oggetti metallici stavano passando sotto la chiglia. «Deve esserci una bella massa qui sotto. In che direzione stiamo andando?» «Da est a ovest», rispose Dirk, ricavando la posizione esatta dal GPS. «Passaci sopra ancora, ma stavolta da nord a sud.» Dirk lo fece, passando oltre il punto a una distanza di centro metri, prima di far virare la barca di 90 gradi e imboccare la direzione nord-sud. Ancora una volta l'indicatore sembrò impazzire e l'allarme acustico si scatenò. Summer trascrisse i dati su un taccuino e guardò Dirk che era al timone. «L'oggetto è lineare, lungo circa quindici metri. Sembra avere una massa piccola e poco compatta, come quella di uno scafo aperto.» «Sembrerebbe proprio trattarsi di un relitto. Meglio controllare.» «Quanto è profonda l'acqua?» «Solo tre metri.» Dirk fece fare un altro giro alla barca, poi spense i motori ma lasciò giù la deriva. Quando il GPS indicò gli stessi valori rilevati nel punto dell'anomalia, calò l'ancora e accese il compressore. I ragazzi indossarono di nuovo le bombole e scesero in acqua dai due lati. Dirk girò la valvola dell'eiettore e lo spinse nella sabbia. Dopo cinque tentativi andati a vuoto, improvvisamente sentì che la punta della sonda aveva colpito un oggetto duro a meno di un metro dalla superficie sabbiosa. Sondando il terreno tutt'intorno, riuscì a delineare una zona il cui angolo esterno era costituito dal punto in cui Summer aveva messo lo scandaglio. «C'è qualcosa laggiù», annunciò, sputando il respiratore, quando furono in superficie. «Sembra proprio delle dimensioni di una vecchia nave.» «Potrebbe essere qualsiasi cosa, da un vecchio peschereccio a rifiuti ca-
duti da una chiatta», precisò Summer giustamente. «Lo sapremo non appena scaveremo una buca con la draga.» Tornarono in barca, attaccarono la canna alla draga e la buttarono in acqua. Dirk si offrì di fare il lavoro sporco dello scavo, mentre Summer rimaneva a bordo a controllare il compressore. Tirò la canna che terminava con la lancia in acciaio che risucchiava la sabbia dal fondo e la ributtava a diversi metri di distanza. La draga era una sorta di aspirapolvere del mare. La sabbia era soffice e in meno di venti minuti era stata scavata una buca larga un metro e venti e profonda novanta centimetri. All'interno, Dirk trovò un oggetto rotondo che identificò come un portabalsamo in terracotta, simile a uno mostratogli dal dottor Boyd durante la conferenza alla NUMA. Lo ripulì con cura e lo depose in un angolo. Poi tornò al lavoro. Fu la volta di una tazza, sempre in terracotta, e poi di altre due. A quelle seguirono il manico e la lama di una spada molto consunta. Stava per smettere e risalire a bordo, quando mise alla luce un oggetto rotondo simile a una cupola, con due protuberanze che spuntavano dalla superficie. Era ancora a metà strada nel disseppellirlo, quando il suo cuore iniziò a battere all'impazzata. Si ricordò della descrizione fatta da Omero di un elmo con corna dell'Età del Bronzo. Dirk terminò di ripulire l'antico oggetto dai depositi di tremila anni e lo depose con attenzione sulla sabbia, vicino alle altre scoperte. Il lavoro con la draga era faticoso, ma in circa cinquanta minuti di scavo aveva trovato quello per cui era andato fin lì: la prova che la flotta di Odisseo aveva incontrato serie difficoltà nelle Indie occidentali e non nel Mediterraneo. L'aria era quasi finita e, anche se poteva raggiungere la superficie senza respiratori, decise che era tempo di fare una pausa. Il passo successivo era quello di portare i manufatti a bordo. Tenendo l'elmo come se fosse un neonato, Dirk risalì. Summer lo aspettava alla scaletta, per aiutarlo a liberarsi dei pesi e delle bombole. Dirk sollevò l'elmo e glielo passò. «Prendilo, ma trattalo con delicatezza. È molto consunto.» Poi, prima che lei potesse commentare, si tuffò all'indietro e ridiscese a recuperare gli altri oggetti. Quando tornò in barca, Summer aveva vuotato la borsa termica e stava immergendo i manufatti in acqua e sale, per conservarli. «Al fresco», ripeté tre volte. «Non posso credere a ciò che vedo. Un elmo, niente di meno che un antico elmo in bronzo.» «Siamo stati proprio fortunati a trovare queste cose il primo giorno.»
«Allora sono oggetti della flotta di Odisseo?» «Non ne saremo certi finché gli esperti, come Boyd e Chisholm, non li avranno identificati. Per fortuna sono stati sepolti nel limo e questo li ha conservati.» Dopo un rapido pasto e un'oretta di riposo, mentre Summer ripuliva con delicatezza il primo strato di incrostazioni, Dirk si rituffava per continuare a dragare. Nel secondo giro trovò quattro lingotti di rame e uno di stagno, con una strana forma concava ai lati, segno evidente che erano dell'Età del Bronzo. Poi fu la volta di un martello di pietra. A un metro e mezzo di profondità s'imbatté in pezzi di assi e pancali. Uno di essi era lungo sessanta centimetri e spesso più di dieci. Forse, pensò Dirk, un laboratorio di dendrocronologia sarebbe stato in grado di contare i cerchi della crescita dell'albero e capire quand'era stato tagliato. Quando finalmente riuscì a portare tutti i manufatti a bordo e a ritirare la draga, era ormai tardo pomeriggio. Trovò Summer che si godeva un bellissimo tramonto con nuvole dipinte di rosso e un grande globo solare color arancio che s'inabissava all'orizzonte. La ragazza aiutò il fratello a togliersi l'attrezzatura. «Preparo la cena se tu stappi il vino.» «Che ne dici di un drink per festeggiare?» propose Dirk, sorridendo. «Ho acquistato una bottiglia di rum locale e abbiamo il ginger ale. Posso preparare degli ottimi cocktail.» «Saranno caldi e io ho buttato tutto il ghiaccio quando ho usato la borsa termica come contenitore dei manufatti.» «Ora che abbiamo trovato un ottimo luogo di raccolta, penso che domani potremmo cercare le altre navi della flotta», disse Dirk. Summer guardava curiosa l'acqua che stava diventando blu scuro mentre il sole svaniva nel mare. «Mi chiedo quanti tesori ci siano qui sotto.» «Forse nessuno.» La ragazza vide il dubbio negli occhi del fratello. «Perché dici così?» «Non ne sono certissimo, ma mi sembra che la zona in cui ho lavorato sia già stata toccata.» «Toccata?» ripeté Summer scettica. «E da chi?» Mentre parlava, Dirk guardava preoccupato gli edifici sull'isola. «Mi è sembrato che i manufatti siano stati spostati dall'uomo piuttosto che dalle correnti e dalle mutazioni del fondo. Era come se fossero impilati l'uno sopra l'altro in una fila innaturale.» «Ci preoccuperemo di questo domani», decise la sorella, dando le spalle
al tramonto. «Ho fame e sete. Spicciati con quei drink.» Era buio quando Summer terminò di scaldare la zuppa di pesce e di bollire un paio di aragoste che aveva preso durante l'immersione. Alla fine della cena, dopo un po' di frutta, i fratelli si distesero sul ponte a guardare le stelle e parlarono fin quasi a mezzanotte, cullati dall'acqua che sbatteva lievemente sui fianchi della barca. Dirk e Summer erano molto uniti ma, a differenza dei gemelli monozigoti, quando non lavoravano facevano vita indipendente. Summer si stava facendo strada nel mondo della diplomazia, nel quale era stata introdotta dal nonno senatore. Dirk era ancora incerto sul da farsi; non gli piacevano le relazioni fisse e preferiva passare da una ragazza all'altra di ogni aspetto e personalità. Anche se molto simile al padre, Dirk non ne condivideva tutti gli interessi. Le auto antiche, gli aerei e il mare erano punti in comune; ma lì si esaurivano. A Dirk piacevano le gare di motocross e quelle con gli off-shore, così come amava mettersi in competizione con se stesso. Suo padre invece preferiva gli sport di squadra. Così il primo aveva praticato atletica all'università delle Hawaii e il secondo aveva giocato sempre a football, diventando un apprezzato quarterback all'accademia dell'aviazione. Quando ebbero finito gli argomenti su Odisseo, i ragazzi decisero di andare a dormire. Summer andò di sotto e dormì in una delle brande, mentre Dirk preferì rimanere sul ponte, sui cuscini del pozzetto, sotto le stelle. Alle quattro del mattino, il mare era nero come una lastra di ossidiana. Un leggera pioggia iniziò a scendere dal cielo creando un velo di umidità su tutto il ponte. Dirk si era coperto con uno straccio e aveva continuato i suoi sogni. Non si svegliò per il rumore del motore di una barca, perché non ci fu né barca né motore. Vennero dall'acqua, silenziosi, come fantasmi che sorvolassero le tombe nella notte di Halloween. Erano in quattro, tre uomini e una donna. Dirk non sentì i passi felpati sulla scaletta che si era dimenticato di ritirare. Senza rendersene conto, aveva favorito il nemico. Le persone che vengono svegliate di notte dagli intrusi reagiscono in modi diversi. Dirk non ebbe il tempo di reagire. A differenza del padre, non aveva ancora imparato a non fidarsi della fortuna e a contare solo sul motto degli scout: «Sii pronto». Prima di rendersi conto che degli sconosciuti erano a bordo, lo straccio che lo copriva gli fu avvolto intorno al capo e una mazza da baseball o qualcosa di simile lo colpì con violenza, facendolo sprofondare nell'oblio, in un pozzo nero che sembrava non avere
fine. 44 I preparativi per l'evacuazione dell'isola di Ometepe si svolsero senza intoppi. In quattro giorni, il segretario di Stato George Hampton riuscì a convincere il presidente nicaraguense Raúl Ortiz che le intenzioni degli americani erano dettate unicamente da spirito umanitario. Gli promise che, una volta terminata l'evacuazione, le forze americane si sarebbero ritirate subito. Jack Martin e l'ammiraglio Sandecker fecero pressione sugli scienziati del Paese, che, una volta conosciute le caratteristiche del possibile disastro, diedero la loro totale disponibilità. Come ci si aspettava, i funzionari locali che erano finanziati dallo Spettro si opposero a qualsiasi ingerenza. Così fecero quelli legati, in un modo o nell'altro, ai cinesi. Ma, come preannunciato durante la conferenza, Max e Sandecker spaventarono le autorità con visioni apocalittiche della catastrofe al punto che l'opposizione si smorzò ben presto in un fiume di panico. Con un lavoro di collaborazione con il generale Juan Morega, comandante in capo dell'esercito del Nicaragua, il generale Stack riuscì a organizzare l'azione della squadra speciale di salvataggio. Una volta ottenuti i permessi, si mosse velocemente. Tutte le imbarcazioni presenti sul lago si occuparono di evacuare gli abitanti dei villaggi e delle città che non avevano collegamenti con l'esterno. Camion dell'esercito americano ed elicotteri portarono invece in salvo in zone più elevate tutte le altre persone. Contemporaneamente, venne organizzato l'assalto al complesso di Odyssey da parte delle squadre speciali. Nessuno dubitava che dall'interno della struttura si sarebbero difesi con le armi per mantenere segreti le ricerche e il rapimento degli scienziati. Si temeva inoltre che lo Spettro potesse ordinare di uccidere e far sparire gli ostaggi per non lasciare tracce. Il generale Stack era comprensivo, ma sulla bilancia aveva la possibilità di migliaia di morti e la distruzione dell'economia occidentale da un lato e circa venti o trenta vite dall'altro. Ordinò quindi che il complesso e tutti coloro che ci lavoravano fossero evacuati il più in fretta possibile, compresi gli scienziati, se erano ancora là. Mise Pitt e Giordino al comando del tenente colonnello Bonaparte Nash, detto «Bony» dagli amici. Nash accolse i due in una base provvisoria della squadra di elicotteri da evacuazione, situata sul lato ovest del lago nella
città di San Jorge. Capelli a spazzola biondi, un fisico asciutto e muscoloso costruito con lunghe ore di esercizio, il militare aveva un viso rotondo e cordiale, con occhi azzurri amichevoli ma che tradivano la durezza che c'era dietro. «Sono molto contento d'incontrarvi, signori. Mi hanno parlato dei vostri meriti in seno alla NUMA. Davvero impressionanti. Spero possiate guidare i miei uomini e me nel punto dove sono tenuti prigionieri gli scienziati.» «Sappiamo dov'è», dichiarò Pitt. «Ma, se ho capito bene, ci siete stati solo una volta.» «Se l'abbiamo trovato di notte, possiamo farlo anche di giorno», sentenziò Giordino. Nash distese una foto satellitare sul tavolo. «Ho cinque elicotteri Chinook CH-47, ognuno con trenta uomini a bordo. Il mio piano è di farne atterrare uno al terminal, un secondo al porto, un terzo dove c'è l'edificio che descrivete come il quartier generale delle guardie e un quarto in un posteggio tra una fila di magazzini. Voi due verrete con me sul quinto, per mostrarmi l'edificio giusto da cui recuperare gli scienziati.» «Se posso dare un suggerimento...» disse Pitt. Prese una penna nel taschino della camicia a fiori e la batté su un edificio a fianco del viale alberato. «Questo è il quartier generale principale. Si può atterrare sul tetto e catturare gli amministratori di Odyssey prima che possano fuggire con il loro elicottero.» «Come lo sapete?» chiese Nash pensieroso. «Al e io abbiamo rubato un elicottero proprio su quel tetto, quando siamo scappati, sei giorni fa.» «Sul tetto ci sono almeno dieci guardie di cui occuparsi», aggiunse Giordino. Nash li guardò con ulteriore rispetto, sebbene non del tutto certo di poter credere alle loro parole. «C'erano le guardie quando siete scappati?» Pitt vide l'indecisione del tenente. «Sì, quattro.» Giordino contribuì a tranquillizzarlo. «Tenerli a bada è stato un gioco da ragazzi.» «Mi hanno detto che siete ingegneri navali», borbottò Nash, confuso. «Facciamo anche quello», convenne Giordino, in tono asciutto. «D'accordo, se lo dite voi.» Il tenente scosse leggermente la testa come se fosse sconcertato. «Dunque, non posso fornirvi delle armi. Siete nella missione come guide. Lascerete che a combattere siamo i miei uomini e io.»
Pitt e Giordino si guardarono e gli occhi si scambiarono un segnale. Entrambi avevano le loro fidate vecchie pistole nascoste dietro la schiena, nella cintura dei pantaloni e nascoste dalle ampie camicie. «Se ci troveremo nei guai, lanceremo pietre finché non ci verrete a salvare», disse Giordino. Nash non era certo di apprezzare quei due. Alzò il polso per guardare l'ora. «Decolliamo fra dieci minuti. Voi verrete con me. Dopo l'atterraggio, ci direte se siamo sull'edificio giusto. Non possiamo perdere neanche un minuto per cercarlo, se vogliamo recuperare gli ostaggi vivi.» Pitt assentì. «Molto bene.» Dopo esattamente dieci minuti, Dirk e Giordino erano sui sedili del grande Chinook per trasporto truppe, con le cinture allacciate e il tenente colonnello Nash al fianco. Con loro c'erano trenta possenti e silenziosi uomini, dall'aspetto determinato, in mimetica da combattimento e giubbetti antiproiettile con fucili che sembravano usciti da un film di fantascienza, oltre a un assortimento di missili. «Gran bella squadra», ammise Giordino, ammirato. «Sono contento che siano dalla nostra parte», accondiscese Pitt. Il pilota staccò l'elicottero dal suolo e sorvolò la spiaggia sul lago. C'erano solo venticinque chilometri fino alla Odyssey. L'intera operazione puntava sulla sorpresa. Il piano del tenente colonnello Nash prevedeva di mettere fuori combattimento le guardie, salvare gli ostaggi e poi evacuare centinaia di operai sulle barche che già si stavano avvicinando all'isola. Non appena l'ultima persona fosse stata tratta in salvo, sarebbe toccato a Nash dare il segnale al pilota del bombardiere B-52 - che stava già sorvolando la zona a diciottomila metri - di sganciare le bombe penetranti alla base della montagna per provocare il distacco del versante e il conseguente crollo delle gallerie sottostanti. L'impressione di Pitt fu di un viaggio brevissimo. L'elicottero rimase per qualche istante sospeso nell'aria e poi si adagiò al suolo. Nash e i suoi uomini balzarono dai sedili e poi giù dal velivolo, urlando alle guardie dell'edificio-prigione di gettare le armi. In quello stesso istante, anche gli altri quattro elicotteri erano atterrati, incontrando poca resistenza da parte della sicurezza di Odyssey. Vista la differenza di preparazione, le guardie si erano arrese quasi subito, gettando le armi e alzando le braccia. Non erano state assoldate per combattere con professionisti, ma solo per proteggere il complesso. Pitt, con Giordino alle calcagna, si precipitò oltre la recinzione e poi nel-
la baracca, precedendo Nash e i suoi uomini. Le guardie all'interno, che pur avevano udito gli spari provenire dal complesso, rimasero alquanto sorprese di trovarsi di fronte le canne di due grandi pistole semiautomatiche. Non fecero in tempo a capire cos'era successo, perché rimasero paralizzate dalla paura. Nash era molto stupito nel vedere i due impugnare delle armi e s'infuriò come un matto. «Consegnatemi quelle pistole!»urlò. Fu ignorato. Pitt e Giordino iniziarono ad abbattere le porte delle stanze. La prima, la seconda, la terza, la quarta. Erano tutte vuote. Pitt corse a cercare le guardie che venivano portate via dai militari. Afferrò la prima e le mise la canna della pistola nel naso. «Parli inglese?» «No, señor.» «¿Donde están los científicos?» Gli occhi della guardia si spalancarono mentre mettevano a fuoco la pistola nel naso. «Ellos fueron llevados a la dársena y colocados en el transbordador.» «Che cosa succede?» domandò Nash. «Dove sono gli ostaggi?» Pitt ritirò la Colt dal naso dell'uomo, che iniziò a sanguinare. «Gli ho chiesto dove sono gli scienziati e mi ha detto che li hanno portati al porto e messi sul traghetto.» «Sembra una bella gita in mezzo al lago con successivo affondamento della barca», disse Giordino, convinto. Pitt guardò Nash. «Abbiamo bisogno dei vostri uomini e di un velivolo per recuperarli prima che le guardie affondino il traghetto.» Nash scosse la testa. «Mi spiace, ma non si può fare. I miei ordini sono di assicurarmi che tutto il personale della base venga evacuato. Non posso sprecare uomini o elicotteri.» «Ma quelle persone sono vitali per gli interessi nazionali», lo contraddisse Pitt. «Hanno la chiave della tecnologia delle celle a combustibile.» Il volto di Nash era più duro di una roccia. «I miei ordini sono sempre quelli.» «Allora ci presti un lanciagranate e lo inseguiremo noi.» «Sapete che non posso fornire armi ai civili.» «Lei è davvero cocciuto», s'infuriò Giordino. «Non abbiamo tempo da perdere discutendo con un cocciuto mulo.» Indicò con la testa un cart simile a quello guidato nei tunnel. «Se non li troviamo al porto, potremmo prendere una delle barche della sicurezza.»
Pitt guardò Nash con disgusto e poi si precipitò sul cart con l'amico. Otto minuti dopo, con Giordino alla guida, entrarono nel porto. Uno sguardo di rabbia e impotenza passò negli occhi di Pitt quando vide un vecchio ferryboat allontanarsi sul lago, seguito da una barca della sicurezza. «Troppo tardi», brontolò Giordino. «Hanno portato una delle imbarcazioni di pattuglia per far salire le guardie prima di affondare la nave.» Pitt corse sul lato opposto del molo e vide un piccolo fuoribordo legato a un palo, a circa nove metri. «Coraggio, la Good Ship Lollipop ci aspetta.» Poi prese a correre verso la barca. Era un Boston Whaler da cinque metri e mezzo con motore Mercury da centocinquanta cavalli. Pitt accese e Giordino mollò gli ormeggi. Partirono a tutta velocità e la piccola imbarcazione planò sull'acqua come se le avessero dato un calcio in poppa, lanciata all'inseguimento del traghetto. «Cosa faremo quando li avremo raggiunti?» urlò Giordino sopra i motori. «M'inventerò qualcosa al momento», rispose Pitt. Giordino notò che la distanza tra loro e la nave andava rapidamente diminuendo. «Cerca di pensare in fretta. Hanno fucili da assalto contro le nostre pistolette e sull'imbarcazione di pattuglia c'è un antipatico cannone di prua.» «Tentiamo questa», disse Pitt. «Cercherò di avvicinarmi al traghetto in modo che ci copra dall'altra barca, così non potrà colpirci. Quando siamo lì, saltiamo a bordo.» «Ho sentito piani peggiori, ma non negli ultimi dieci anni», grugnì Giordino. «Sembra che ci siano due, massimo tre guardie sul ponte superiore, di fianco alla plancia. Giocherò al cowboy con la Colt. Se li intimidisci, forse si buttano in acqua da soli.» «Non tratterrò il fiato.» Pitt girò il timone e allargò la rotta del fuoribordo, girando intorno al traghetto in modo che l'altra barca non fosse in vista. Il motoscafo rimbalzò sulla cresta delle onde della scia creata dalla grossa imbarcazione e cercò di accostarla mentre una salva di proiettili passava senza colpire il bersaglio. Giordino rispose al fuoco premendo il grilletto di entrambe le pistole il più in fretta possibile. Le guardie furono colte di sorpresa e una cadde con un proiettile nella gamba, un'altra si allontanò tenendosi la spalla, mentre la terza abbassò l'arma e alzò le mani. «Visto?» disse Pitt. «Che ti avevo detto?»
«Ecco, con due fuori uso, l'altro si è arreso.» A venti metri dal battello Pitt diminuì la velocità e virò leggermente a dritta. Con un tocco veloce dettato da anni di pratica, si accostò al traghetto. Il primo a salire fu Giordino, che disarmò la guardia ferita sul ponte. «Ho inserito un intero caricatore.» Gettò a Pitt la sua calibro .50. «Prendi!» Pitt l'afferrò e si precipitò di sotto, rotolando da una scaletta. Si era appena rimesso in piedi, quando, dalla sala macchine, arrivò un rombo che scosse la barca. Una delle guardie aveva azionato i detonatori e l'esplosione aveva aperto una falla nello scafo. Pitt fu gettato a terra, ma si riprese subito e corse nel corridoio centrale calciando tutte le porte delle cabine. «Fuori, fuori, presto!» urlava ai poveri scienziati spaventati che vi erano rinchiusi. «Questa barca sta per affondare!» Li mise in fila verso la scaletta, poi fermò un uomo con i capelli grigi. «Ce ne sono degli altri?» «Ne hanno rinchiusi alcuni nel magazzino alla fine del corridoio.» Non aveva ancora finito di parlare che Pitt si era diretto al magazzino. L'acqua era già alle caviglie. La porta era troppo solida per darle un semplice calcio. «State indietro!» urlò. Poi puntò la pistola di Giordino sul chiavistello e sparò. Il meccanismo saltò e Pitt poté gettarsi dentro. C'erano dieci persone terrorizzate, sei uomini e quattro donne. «Svelti, tutti fuori! Abbandonare la nave!» Quando tutti furono sul ponte e Pitt stava per raggiungerli, ci fu una seconda esplosione che lo fece ricadere di sotto. L'impatto gli tolse il respiro provocandogli un bernoccolo sulla nuca. Per un istante perse i sensi. Quando li riprese, si ritrovò seduto nell'acqua fino al petto. Si alzò dolorante e lottò per risalire. Ancora un minuto e il battello sarebbe affondato. Pitt sentiva uno strano rumore martellante sopra il rombo dell'acqua che saliva. Che ne era stato delle persone che aveva portato sul ponte? Erano annegate? Erano state uccise dal cannone dell'imbarcazione di pattuglia? E Al dov'era? Aveva aiutato i sopravvissuti? Ancora confuso dal colpo, fece ricorso a tutte le sue forze residue e si tirò sul ponte. La poppa stava per affondare, l'acqua inondava il ponte ed entrava nel boccaporto. Il suono martellante divenne più forte e Pitt vide Giordino appeso a un cavo a mezz'aria. Poi vide anche l'elicottero. Per fortuna Nash aveva cambiato idea, pensò con la mente annebbiata. Si aggrappò alla vita di Giordino con la stretta più salda che riuscì a dare. Il battello scivolò via sotto i suoi piedi e affondò, mentre loro salivano nell'aria.
«Gli scienziati?» riuscì a dire annaspando. Non ne vedeva in acqua. «Sono nell'elicottero», urlò Giordino. «Le guardie si sono arrese quando Nash è arrivato.» «Non c'è più nessuno sull'isola?» chiese a Nash quando gli fu accanto sul velivolo. «Abbiamo evacuato proprio tutti», rispose il tenente con un sorriso soddisfatto. «Abbiamo fatto quel che era in programma e poi vi abbiamo seguito. Quando non l'abbiamo vista riemergere, abbiamo pensato al peggio. Tutti tranne Al. Prima che potessi fermarlo, si è buttato giù lungo il cavo sul ponte. Solo dopo l'abbiamo vista vagare.» «Per fortuna siete arrivati al momento giusto.» «Quanto manca al gran finale?» chiese Giordino. «Una volta evacuati dalla spiaggia di Ometepe, i superstiti sono stati portati in alto, insieme con i residenti del lago.» Nash fece una pausa per guardare l'orologio da polso. «Penso che ci vorranno altri trentacinque minuti prima che siano del tutto al sicuro. Non appena ne avrò conferma, darò l'ordine di gettare le bombe.» «Avete incontrato un piccolo esercito di donne in uniforme che hanno opposto resistenza?» s'informò Pitt. Nash lo guardò con soddisfazione e sorrise. «Indossavano tute di colori strani.» «Verde e lavanda?» «Hanno combattuto come amazzoni», rispose Nash, ancora incredulo. «Hanno ferito tre dei miei che non se la sentivano di sparare alle donne. Non abbiamo potuto far altro che rispondere al fuoco.» Giordino guardò il palazzo da cui erano scappati la volta precedente. Le finestre erano saltate e il fumo usciva dal decimo piano. «Quante ne avete abbattute?» «Abbiamo contato nove corpi almeno», rispose Nash. «Molte di loro erano davvero belle. Per i miei uomini è stata dura. Penso che al ritorno alcuni dovranno ricevere assistenza per superare lo shock. Non erano pronti a sparare a civili, soprattutto a un gruppo di donne.» «Ce n'era una che indossava una tuta color oro?» indagò Pitt. Nash ci pensò un attimo, poi scosse la testa. «Non l'ho vista.» Fece una pausa. «Aveva i capelli rossi?» «Sì, rosso fuoco.» «Come tutte quelle che sono morte, lo stesso tono di rosso. Hanno combattuto come belve. Incredibile.»
L'elicottero rimase a volteggiare sopra l'isola. Nash ricevette il segnale che l'evacuazione era completamente riuscita come previsto. Senza esitare ancora, diede il via libera al B-52. Il bombardiere era molto alto e non potevano vederlo, né scorgere le bombe. Non videro neppure quando esse colpirono il vulcano sopra il complesso di Odyssey e cominciarono a insinuarsi sotto la superficie. Una specie di tuono si produsse sul versante del monte Concepción, che indicava che le bombe erano esplose. Qualche istante dopo un nuovo fragore segnalò che la montagna si era staccata dalla base e stava franando nel lago, a una velocità che aumentava di metro in metro, finché non raggiunse gli 80 nodi. Dall'alto sembrò che l'intero complesso di ricerca e sviluppo, con gli edifici, i moli e l'aeroporto, scivolasse sott'acqua in un mostruoso gorgo provocato da una moneta gettata da un gigante. Nuvole di detriti e polvere si alzarono nel cielo e una mostruosa onda di oltre sessanta metri iniziò la sua corsa di morte. Percorse tutto il lago a velocità sorprendente e infine s'infranse sulla costa inondando e distruggendo tutto ciò che trovava sul suo cammino, prima di dissolversi in mille rivoli e ritornare nel lago. Nel tempo necessario a voltare due pagine di libro, il grande centro di ricerca creato dallo Spettro, le sue direttrici e l'impero Odyssey erano svaniti nel nulla, insieme con le gallerie sotterranee. La corrente equatoriale sud non venne deviata nel Pacifico. Quella del Golfo mantenne la sua temperatura, e il nord Atlantico e l'Europa non avrebbero conosciuto una nuova era glaciale. 45 La nebbia grigia che gli offuscava la mente era squarciata da intermittenti bagliori. Le stelle che gli vorticavano nella testa si dissolsero, mentre Dirk riprendeva lentamente conoscenza. Confuso dal dolore, si appoggiò sui gomiti e si guardò in giro. Era in una stanzetta rettangolare, non più di un metro per uno e mezzo. Soffitto, pavimento e pareti erano di cemento e in una di esse si apriva una porta di ferro arrugginita. All'interno non c'era maniglia. Sul soffitto si apriva una finestrella non più grande di una teglia per dolci. La luce filtrava e illuminava di grigio quel triste universo. Non c'erano branda, né coperte, solo un bugliolo per le necessità fisiche. Non aveva mai dovuto affrontare una confusione così grande nella testa.
Aveva un bernoccolo sopra l'orecchio sinistro. Alzarsi in piedi era uno sforzo immane, ma, se non altro per soddisfare la curiosità, tentò di spingere la porta. Era come se avesse cercato di abbattere una quercia. Quando era andato a dormire aveva indosso una maglietta e dei pantaloncini. Al loro posto aveva adesso un costume da bagno di seta bianca che stonava decisamente con l'insieme squallido della prigione. Non ne capiva il significato. All'improvviso si ricordò di Summer. Che cosa ne era stato di sua sorella? Dov'era? Non ricordava altro che la luna che saliva mentre si addormentava. Il dolore alla testa stava pian piano diminuendo. Si rese conto che qualcuno doveva averlo colpito con una mazza e poi trasportato in quel posto. Ma cos'era successo a Summer? L'angoscia si fece strada nel suo cuore. Era una situazione senza speranza. Era intrappolato in una scatola di cemento senza possibilità di fuga. Doveva essere pomeriggio inoltrato quando Dirk sentì un suono fuori della cella. Poi ci fu uno scatto di serratura e la porta si aprì verso l'esterno. Una donna dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, in tuta verde, era in piedi davanti a lui e lo minacciava con una pistola automatica. «Seguimi», gli disse piano, senza scortesia. In un'altra situazione, Dirk l'avrebbe trovata carina, ma in quel caso gli sembrava piuttosto la Perfida Strega dell'Ovest del Mago di Oz. «Dove?» chiese. Invece di rispondere, la donna lo spinse con la canna della pistola. Percorsero un corridoio con diverse altre porte di ferro e Dirk si chiese se Summer fosse dietro una di quelle. Arrivarono a una scala e iniziarono a salire. In cima, oltre una porta, si ritrovarono in un atrio dal pavimento in marmo con le pareti incastonate di milioni di tesserine d'oro di mosaico. Le sedie erano ricoperte di pelle color lavanda e i tavoli avevano intarsi dello stesso colore. Dirk lo considerava molto fuori moda. La sua carceriera lo spinse fino a una grande porta dai battenti dorati, poi bussò e si scostò mentre veniva aperta dall'interno. Quindi lo spinse dentro. Dirk rimase senza fiato alla vista di quattro bellissime donne con fluenti capelli rossi e tuniche color lavanda e oro. Erano a un tavolo da conferenza ricavato da un blocco di corallo rosso. Al tavolo c'era anche Summer, con una veste bianca. Si precipitò da lei e la prese per le spalle. «Stai bene?» La sorella si voltò a guardarlo come se fosse in trance. «Sto bene, non ti
preoccupare.» Dirk si accorse che era stata drogata. «Che cosa ti hanno fatto?» «La preghiamo di sedersi, signor Pitt», ordinò la donna seduta a capotavola, quella con la tunica dorata. Quando parlò, la voce era calma e melodiosa, con una punta di arroganza. Dirk colse un movimento alle sue spalle. La guardia si era ritirata e aveva chiuso le porte. Per un istante, pensò che, anche se erano più di lui, avrebbe potuto fare un bel casino e stenderne qualcuna, riuscendo a portare Summer fuori di lì. Ma la sorella era così imbottita di droga che non avrebbe potuto correre da nessuna parte. Prese quindi una sedia e si accomodò. «Posso chiedervi quali sono le vostre intenzioni riguardo noi due?» «Può farlo», rispose la donna, che evidentemente era il capo. Poi lo ignorò e si girò verso quella alla sua destra. «Avete perquisito la barca?» «Sì, Epona. Abbiamo trovato l'attrezzatura da sub e quella per scandagliare il fondo.» «Mi scuso per l'intrusione, ma pensavamo che l'isola fosse deserta», spiegò Dirk. Epona lo fissò con occhi duri e freddi. «Noi gli intrusi li trattiamo in un certo modo.» «Stiamo facendo una spedizione archeologica per trovare antichi relitti. Niente di più.» La donna guardò Summer, e poi Dirk. «Sappiamo che cosa cercate. Sua sorella ci ha fornito tutte le informazioni.» «Dopo essere stata drogata», aggiunse Dirk, con l'impulso di gettarsi sul tavolo addosso a quella donna. Era come se gli leggesse nel pensiero. «Sta pensando di opporre resistenza, signor Pitt? Le mie guardie saranno qui in un secondo.» Dirk si sforzò di stare calmo e di apparire indifferente. «Quindi cosa vi ha detto Summer?» «Che lavorate per la NUMA e che state cercando la flotta perduta di Odisseo, descritta da Omero come affondata dai lestrigoni.» «Ha letto Omero, quindi.» «Io vivo e respiro per Omero il celtico, non Omero il greco.» «Perciò sapete la vera storia di Troia e del viaggio di Odisseo oltre l'oceano.» «È la ragione per cui le mie sorelle e io siamo qui. Dieci anni fa, dopo lunghe ricerche, arrivammo alla conclusione che i celti e non i greci combatterono la guerra di Troia, e non per amore di Elena, ma per i depositi di
stagno della Cornovaglia. Come voi, ci siamo messi sulle orme di Odisseo oltre l'Atlantico. Sarà lieto di sapere che la flotta non venne distrutta da rocce gettate dai lestrigoni, ma da un violento uragano.» «E il tesoro che trasportava?» «L'abbiamo recuperato otto anni fa e usato per finanziare l'impero di Odyssey.» Dirk era immobile, ma le mani, nascoste sotto il tavolo, gli stavano tremando. Una vocina lo avvertì interiormente. Quelle donne avrebbero lasciato vivere Summer, ma dubitava che avrebbero fatto lo stesso con lui. «Posso chiedere in che cosa consisteva il tesoro?» Epona si strinse nelle spalle. «Non vedo perché nasconderle i risultati. Non ci sono misteri. Abbiamo recuperato oltre due tonnellate di oggetti d'oro, vasellame, sculture e altri manufatti celtici. Quel popolo era maestro nell'arte del metallo. Abbiamo venduto tutto nei mercati del mondo, ricavandone più di settecento milioni di dollari.» «Non è stato rischioso?» chiese Dirk. «I francesi, padroni della Guadalupa, i greci e le nazioni europee un tempo governate dai celti non hanno reclamato la proprietà del tesoro?» «Il segreto è stato ben conservato. Tutti i compratori dei manufatti hanno voluto rimanere anonimi e tutte le transazioni sono state completate con discrezione. L'oro è finito in depositi cinesi.» «Intende dire nella Repubblica popolare cinese.» «Naturalmente.» «E che cosa mi dice delle persone che hanno effettuato il recupero? Si saranno aspettate di ricevere qualcosa o di tenere qualcosa.» «Non hanno ricevuto niente», specificò Epona, con un sorriso sardonico, «e il segreto è morto con loro.» Dirk non aveva perso l'intuito. «Li avete uccisi?» disse come se fosse un'affermazione più che una domanda. «Diciamo che hanno raggiunto i marinai di Odisseo.» Esitò un attimo, poi gli rivolse un sorriso enigmatico. «Nessuno che sia sbarcato su quest'isola è mai sopravvissuto per poterlo raccontare. Nemmeno i turisti che hanno gettato l'ancora, i pescatori o i semplici curiosi. Non dovevano raccontare ciò che avevano visto.» «Finora non ho visto niente per cui valga la pena morire.» «E non lo vedrà.» Per un attimo, Dirk si sentì perduto. «Perché una simile crudeltà? Perché uccidere persone innocenti? Da dove vi viene questa misantropia e che co-
sa sperate di ottenere?» La voce di Epona tradiva una collera a lungo trattenuta. «Ha ragione, signor Pitt. Le mie sorelle e io siamo tutte misantrope. Conduciamo la vita e gli affari senza lasciarci coinvolgere. Ecco perché siamo arrivate fin qui in così pochi anni. Lasciate libere di agire, le persone come noi possono governare il mondo. Non conoscono etica, non sono influenzate dalla morale. La mancanza assoluta di sentimenti rende più facile perseguire i propri scopi. Abbiamo il più alto livello di genialità e niente altro importa. Sì, signor Pitt, questa è una sorellanza di dee.» «Sorellanza di dee», ripeté Pitt lentamente, calcando ogni parola. «Quindi vi siete elevate al rango divino. Essere mortali non vi andava bene.» «I grandi condottieri del passato erano tutti come noi e alcuni hanno quasi governato il mondo.» «Intende Hitler, Stalin, Attila, Napoleone. Gli istituti psichiatrici sono pieni di pazzi con mania di grandezza.» «Hanno tutti fallito perché sottovalutavano il loro potere. Noi non commetteremo lo stesso errore.» Dirk osservò le magnifiche femmine che gli stavano davanti. Non gli sfuggì che i capelli rossi di Summer erano in tinta con quelli delle altre. «A parte il fatto che avete lo stesso colore di capelli, non potete essere tutte sorelle di sangue.» «No, in effetti non siamo parenti.» «Quando parla al plurale, che intende dire?» «Le donne della sorellanza. Noi, signor Pitt, siamo le sacerdotesse. Seguiamo gli insegnamenti degli antichi druidi celtici tramandati nei secoli.» «Gli antichi druidi erano soprattutto un mito.» Le labbra di Epona tradirono la sua irritazione. «Esistono da cinquemila anni.» «Sono solo materia di leggenda. Non ci sono documenti che provino che i loro rituali si siano svolti davvero fino a cento anni prima di Cristo.» «Non documenti scritti, ma la conoscenza e le sfere di potere furono tramandate oralmente per generazioni. I druidi nacquero nelle antiche tribù celtiche. Radunati intorno al fuoco di notte, offrivano alla gente i loro sogni di felicità. Concepirono il misticismo, la filosofia, la percezione. Inventarono una religione che ispirò e illuminò il mondo celtico. Erano guaritori e maghi, mistici e consiglieri e, forse più importante, erano precettori. Una più grande intelligenza si diffuse nel mondo occidentale grazie ai
druidi. Per diventare druido bisognava studiare vent'anni, fino a divenire un'enciclopedia vivente. Molti di essi erano donne, che divennero dee e furono adorate dai celti.» Dirk si strinse nelle spalle. «La religione druidica era una patetica illusione. Era malvagia, praticava sacrifici umani allora e, oggi, commette delitti. I vostri affari si basano sull'assassinio. Il culto dei druidi è morto secoli fa e voi non lo accettate.» «Come tutti gli uomini, avete pietre al posto del cervello. La tradizione druidica, anche se antica nella concezione, è attuale oggi come cinquemila anni fa. Ciò che lei non capisce, signor Pitt, è che stiamo vivendo un rinascimento. Perché il culto dei druidi è una saggezza senza tempo, è spiritualità e carisma ed è rinato nel mondo.» «Praticate ancora sacrifici umani?» «Se il rituale lo richiede.» Dirk non riusciva a credere che quelle donne potessero davvero concepire i sacrifici religiosi e parteciparvi trovando in essi una giustificazione per commettere degli omicidi. Iniziò a pensare che, se non fosse riuscito a portar via Summer dall'isola, loro due sarebbero stati le prossime vittime. Guardò la superficie levigata del tavolo, si ricompose, e notò una lunga asta da tenda in metallo che avrebbe potuto diventare un'arma. Epona riprese dopo una pausa. «Aderendo ai principi della religione dei druidi, le mie sorelle e io siamo riuscite a mettere in piedi un impero colossale in molti campi tradizionalmente controllati dagli uomini. Abbiamo capito che insieme potevamo surclassarli. Sì, abbiamo costruito un impero, e così potente che presto controllerà l'economia occidentale con la tecnologia delle celle a combustibile.» «La tecnologia si può riprodurre. Nessuno, nemmeno il vostro impero, può reggere a lungo un monopolio. Ci sono troppi grandi scienziati finanziati per riprodurre il vostro modello.» Epona rispose in tono calmo. «Sono stati tutti lasciati ai blocchi di partenza. Una volta avviata la nostra operazione, sarà troppo tardi.» «Le dispiace dirmi di quale operazione lei sta parlando?» «I suoi amici della NUMA lo sanno.» Dirk ascoltava solo a metà. Stava ragionando sul fatto che nessuna delle altre donne presenti parlava. Erano come statue in un museo delle cere. Le fissò per vedere se erano drogate, ma non gli sembrò che fosse così. Iniziò a capire che erano sotto l'influenza di Epona, come se avessero subito un lavaggio del cervello.
«Non si sono preoccupati di informarmi. Non so di che cosa parla.» «Sotto la mia direzione, lo Spettro...» Si fermò. «Sa di chi parlo?» «So soltanto ciò che ho letto sui giornali», mentì Dirk. «È una specie di eccentrico magnate, come Howard Hughes.» «Lo Spettro è il genio che ha reso possibile il successo di Odyssey. Ciò che abbiamo realizzato è dovuto alla sua intelligenza superiore.» «Mi sembrava che fosse lei il cervello.» «Le mie sorelle e io eseguiamo i suoi ordini.» Qualcuno bussò alla porta e una donna in tuta verde entrò, girò intorno al tavolo e consegnò un messaggio a Epona prima di uscire. Epona lesse il testo e la sua espressione passò dall'arroganza all'orrore. Sembrava che fosse stata colpita e si portò una mano alla bocca. Infine, confusa, annunciò con voce rotta dall'emozione: «È un dispaccio da Managua. Il nostro centro di Ometepe e le gallerie sono stati distrutti da una frana del vulcano Concepción». La notizia diffuse angoscia e sconcerto. «Tutto distrutto?» chiese una delle donne, incredula. Epona annuì lentamente. «È confermato. Il centro giace ora in fondo al lago di Nicaragua.» «Sono morti tutti?» chiese un'altra. «Ci sono superstiti?» «Gli operai sono stati salvati da una flotta di imbarcazioni e di elicotteri delle forze speciali degli Stati Uniti che hanno attaccato il centro. Le sorelle che lo hanno difeso eroicamente sono state uccise.» Epona si alzò e scostò la sedia. Prese Summer per il braccio e la costrinse ad alzarsi. Poi due donne marciarono fino alla porta, come se una fosse in un sogno e l'altra in un incubo. Epona si girò, con le labbra rosse aperte in un ghigno. La testa s'inclinò verso Dirk. «Si goda le sue ultime ore sulla terra, signor Pitt.» Poi la porta si aprì, la guardia entrò e spinse con la pistola il giovane finché questi non si alzò, spostando la sedia, e si mosse verso Epona con la morte negli occhi. Dirk seguì la donna provando la rabbia della frustrazione. «Dica addio a sua sorella. Non credo che la rivedrà.» Mise un braccio intorno a Summer e la portò fuori della stanza. 46 Il sole riluceva sull'asfalto all'esterno del terminal privato dell'aeroporto internazionale di Managua. Pitt e Giordino osservavano il Citation della
NUMA da sotto una tettoia. Il pilota lo portò al suolo e si fermò proprio davanti al terminal. Non appena l'aereo fu fermo, il portello si aprì e Rudi Gunn scese a terra. «Oh, no», brontolò Giordino. «Ho il brutto presentimento che non andremo a casa.» Gunn non andò verso di loro ma fece segno ai due di avvicinarsi all'aereo. Come furono vicini, disse: «Salite a bordo, non abbiamo tempo da perdere». Senza commentare, i due amici obbedirono e gettarono i bagagli nell'apposito vano. Non si erano ancora seduti, che le turbine già rollavano e l'aereo era lanciato sulla pista pronto a decollare. «Non dirmelo, resteremo per sempre in Nicaragua», disse Giordino, irritato. «Perché questa fretta?» chiese Pitt. «Dirk e Summer sono scomparsi», li informò Gunn senza preamboli. «Scomparsi», ripeté Pitt, con un lampo di apprensione negli occhi. «Dove?» «A Guadalupa. L'ammiraglio li aveva mandati a cercare reperti della flotta di Odisseo che si pensa sia stata distrutta da quelle parti.» «Vai avanti.» «Charles Moreau, il nostro rappresentante in quella zona dei Caraibi, ci ha chiamato la scorsa notte per avvertirci che le comunicazioni con i tuoi figli si erano interrotte. Ripetuti tentativi di contattarli si sono rivelati infruttuosi.» «C'è stata una tempesta?» Gunn scosse la testa. «Il tempo è ideale. Moreau ha noleggiato un aereo e ha sorvolato l'isola di Branwyn, dove i ragazzi erano diretti. La barca è sparita e non c'è traccia di loro lì intorno.» A Pitt sembrò di avvertire un peso terribile sul petto. La possibilità che i suoi figli potessero essere feriti o morti non riusciva a farsi strada nella sua mente. Per un attimo fu incapace di credere che gli fosse successo qualcosa. Ma poi vide la faccia di Giordino e vi lesse molta preoccupazione. «Stiamo andando lì», disse Pitt, dandolo per scontato. Gunn annuì. «Atterreremo all'aeroporto della Guadalupa. Moreau ha preparato un elicottero che ci porterà direttamente a Branwyn.» «Qualche idea di che cosa possa essere successo?» chiese Giordino. «Sappiamo solo ciò che ci ha detto Moreau.» «Che cosa si sa dell'isola? È abitata? Ci sono pescatori?»
Un'espressione grave passò sulla faccia di Gunn. «L'isola è proprietà privata.» «A chi appartiene?» «A una donna di nome Epona Eliade.» Gli occhi verde opale di Pitt s'illuminarono dalla sorpresa. «Epona, sì, non può essere che lei.» «Hiram Yaeger ha eseguito dei controlli. È ai vertici di Odyssey e si dice che sia il braccio destro dello Spettro.» Si fermò per guardare Pitt. «La conosci?» «Ci siamo incontrati brevemente quando abbiamo salvato i Lowenhardt e portato via Flidais. Sembrava che fosse al grado più alto della gerarchla di Odyssey. Ho capito che non è stata uccisa in quest'ultima battaglia.» «Sembra che sia riuscita a sfuggire prima della distruzione. Sandecker ha chiesto alla CIA di rintracciarla. Uno degli agenti ha riferito che il suo jet privato è stato rilevato da un satellite in avvicinamento all'isola di Branwyn.» Pitt tratteneva a stento l'ansia. Poi disse con calma certezza e decisa convinzione: «Se Epona ha fatto del male a Dirk e Summer, non vivrà abbastanza da veder spuntare l'alba». Il crepuscolo aveva lasciato il posto alla sera quando il jet della NUMA atterrò nella Guadalupa e si fermò all'hangar privato. Moreau era a terra che li aspettava. Dopo essersi presentato, li scortò a un elicottero posteggiato a pochi metri di distanza. «Un vecchio Bell JetRanger», esclamò Giordino, ammirando l'elicottero restaurato. «Non ne vedo da molto tempo.» «È usato per giri turistici», spiegò Moreau. «È tutto ciò che ho potuto trovare.» «Andrà benissimo», affermò Pitt. Gettò la borsa dentro e salì, dirigendosi verso il pilota, un uomo sulla sessantina con migliaia di ore di volo alle spalle. Dopo aver perso la moglie, morta di cancro, era andato in pensione e si era stabilito lì. Si chiamava Gordy Shepard e aveva accettato un lavoro part-time per accompagnare i turisti sulle isole. I capelli erano un cespuglio bianco che contrastava con gli occhi neri. «È una manovra che non eseguo da molto», stava dicendo a Pitt. «Penso di potermela cavare.» «Speriamo», disse Pitt con la solita espressione determinata, «altrimenti
il mio amico e io colpiremo l'acqua con la forza di una palla di cannone.» Fuori, Gunn ringraziò Moreau e chiuse il portello mentre le pale iniziavano a girare sempre più forte e il velivolo si alzava. Ci vollero meno di quindici minuti per coprire i quarantatré chilometri fino a Branwyn. Su richiesta di Pitt, una volta che furono sopra il mare, il pilota volò senza luci. Sembrava di essere in uno sgabuzzino sigillato, ma le luci dell'isola servivano da guida. Nello scompartimento dei passeggeri, Pitt e Giordino aprirono le loro borse, estrassero le mute umide e gli stivali di gomma. Non presero bombole, pinne né maschere, solo i pesi per compensare la tendenza al galleggiamento delle mute di neoprene. L'unica cosa che Pitt portò fu il telefono satellitare, in una busta sigillata attaccata sotto la cintura. I due si portarono sul retro e aprirono il portello posteriore. Pitt fece segno a Gunn. «Okay, Rudi, ti chiamo per il recupero veloce.» Gunn alzò il telefono e sorrise. «Rimarrò incollato all'apparecchio finché non ce ne andiamo tutti insieme da qui.» Anche se non era così ottimista, Pitt fu grato all'amico per la fiducia dimostrata. Prese un citofono interno e avvisò il pilota. «Siamo pronti.» «Bene», disse Shepard. «Saremo sul golfo fra tre minuti. Siete sicuri che ci sia la profondità necessaria per l'immersione?» «Il salto», lo corresse Pitt. «Se le coordinate sono state programmate bene sul GPS e ci fermiamo in quel punto, non dovremmo avere problemi.» «Farò del mio meglio», dichiarò Shepard. «Noi rimarremo qui, sopra un'isola vicina, in attesa della chiamata.» «Sa che cosa fare.» «In bocca al lupo, ragazzi», disse Shepard, prima di chiudere. Poi si raddrizzò al suo posto con le mani e i piedi ai comandi e si concentrò sulla manovra. L'isola era senza luci, come se fosse deserta, solo il faro faceva da guida. Pitt distingueva appena il profilo degli edifici e la replica di Stonehenge al centro dell'isola. Era un approccio difficile, ma Shepard sembrava tranquillo, come uno scommettitore che sa di aver puntato sul cavallo giusto. L'elicottero arrivò proprio sopra il canale nel golfo. Sul retro, Pitt e Giordino erano sul portello aperto. Andavano quasi a 120 nodi, quando Shepard portò di colpo l'elicottero in stallo e diritto, con la coda in giù in modo che i due uomini potessero saltare nel buio. Poi riprese l'assetto e proseguì il volo, virando verso l'altra isola. Non ci furono intoppi. Chiunque avesse osservato dall'isola non si sarebbe accorto che l'elicottero aveva
avuto un arresto. Pitt e Giordino, con il fiato sospeso, caddero per nove metri prima di colpire l'acqua. Nonostante i tentativi di entrare con i piedi, l'improvvisa inclinazione dell'elicottero non permise loro di scendere in linea retta. Si trovarono sbattuti nell'aria e dovettero abbracciarsi le gambe per non rischiare di schiantarsi sull'acqua e ferirsi gravemente o perdere i sensi. Le mute umide in neoprene assorbirono l'impatto e i due affondarono per circa tre metri prima di fermarsi. Pesti come se qualcuno li avesse presi a pugni, emersero appena in tempo per vedere due riflettori che illuminavano la superficie e poi il cielo, dove l'elicottero divenne un albero di Natale. Shepard era un veterano del Vietnam e non si fece fregare. Prevedendo la mossa, portò il velivolo in picchiata verso il mare ed evitò la raffica della mitragliatrice che sparò nella notte. Poi rialzò il muso e si librò verso l'alto più che poté. Anche la seconda raffica andò a vuoto. Shepard sapeva che i suoi trucchi non avrebbero funzionato per sempre, soprattutto con quei fari che gli davano la caccia. Intuendo ancora una volta le mosse del nemico, rimase per qualche istante immobile nell'aria. Chi sparava si rifece allo schema precedente e mirò nel punto dove sarebbe dovuto andare l'elicottero. Ma Shepard li ingannò ancora. I proiettili colpirono solo il vuoto. Incredibilmente, aveva guadagnato quasi un chilometro, quando alcuni colpi raggiunsero la carlinga e mandarono in frantumi il parabrezza. Un proiettile entrò nel braccio di Shepard senza colpire l'osso. Gunn si era gettato a terra e fu preso solo di striscio alla testa. In acqua, Pitt vide con sollievo l'elicottero uscire dalla portata delle mitragliatrici. Non sapeva se qualcuno fosse stato ferito, ma sapeva che non sarebbero potuti tornare con un simile fuoco puntato su di loro. «Non possono tornare se non facciamo fuori i riflettori», disse Giordino, nuotando sul dorso come se fosse in piscina. «Ci preoccuperemo di questo dopo aver trovato Dirk e Summer.» Pitt guardava l'isola, la voce ferma e convinta di chi sapeva di non essere visto. Poi si accorse che i fari si abbassavano per sondare l'acqua. Si immersero, senza sprecare fiato ad avvisarsi, sapendo che il loro istinto li faceva agire all'unisono. A tre metri, Pitt si girò e guardò la superficie, dove il raggio stava spazzando l'acqua come se ci fosse il sole. Solo quando le luci passarono oltre, i due tornarono a prendere fiato. Erano stati sotto per più di un minuto, ma non erano affannati, avendo fatto molta pratica
di immersioni in apnea. Studiando attentamente i movimenti dei riflettori e calcolandone i tempi, iniziarono a nuotare verso la riva, che era a meno di cento metri. Alla fine i riflettori furono spenti e loro poterono rimanere in superficie. Dieci minuti dopo, toccavano la sabbia. Si alzarono, sganciarono le cinture dei pesi e strisciarono nell'ombra fino a un gruppo di rocce, fermandosi per valutare il da farsi. «Dove andiamo?» sussurrò Giordino. «Siamo arrivati a sud della casa e circa duecento metri a est del finto Stonehenge», rispose Pitt tranquillo. «È una vera stravaganza», commentò Giordino. «Che cosa?» «Finti castelli, facsimili di antiche strutture... io li chiamo stravaganze.» «Ti sei bevuto il cervello», mormorò Pitt. «Dai, individuiamo e sabotiamo i riflettori, non voglio fare la fine del coniglio.» Impiegarono altri otto minuti per trovare i due fari. Ci finirono quasi sopra, ma per fortuna le mute scure, che li rendevano praticamente invisibili, impedirono che venissero individuati dalle guardie. Videro la sagoma di un uomo sdraiato sul dorso nella sabbia, mentre un altro scrutava il mare con un visore. Non si aspettavano intrusi alle spalle e quindi non erano vigili. Giordino uscì dall'oscurità in silenzio, ma lo squittio degli stivali bagnati avvertì il suo avversario che fece in tempo a scorgere un'ombra che si avvicinava. Afferrò un fucile automatico, lo appoggiò sul fianco e puntò verso Giordino. Non premette mai il grilletto. Pitt era arrivato dall'altro lato. Gli prese il fucile e lo colpì con il calcio. Giordino si occupò del guardiano sdraiato, sferrandogli un pugno alla mascella che gli fece perdere i sensi ancor prima di rendersene conto. «Non ti dà un senso di sollievo sapere che siamo armati?» disse Giordino in tono bonario, mentre recuperava il fucile. Pitt non rispose; stava staccando le lenti dei riflettori e, dopo averli aperti senza il minimo rumore, ruppe i filamenti. «Prima guardiamo in casa, poi nella struttura stravagante.» Non c'era la luna, ma per non sfidare la sorte si mossero lentamente e con prudenza, quasi senza vedere dove andavano. Gli stivali proteggevano i piedi dai coralli affilati nascosti nella sabbia. Trovarono una fronda sotto una palma e la tirarono dietro di sé per cancellare le impronte. Se non fossero riusciti ad andarsene prima del giorno, avrebbero dovuto trovare un
posto dove nascondersi fino a quando Gunn e Moreau non avessero organizzato un altro recupero. La casa era una grande struttura coloniale con un'ampia veranda che girava intorno all'edificio. Strisciarono sotto il patio nel più totale silenzio. Si vedeva solo una luce da una fessura nelle assi che chiudevano le finestre, messe per proteggerle dalle raffiche degli uragani. La stanza dall'altra parte era senza mobili. Sembrava una casa abbandonata da anni. Non riuscendo a comprendere la necessità di tutte quelle precauzioni, Pitt si alzò e, con voce normale, disse: «Questo posto è abbandonato da tempo». L'espressione sbalordita di Giordino era invisibile al buio. «Non ha senso. Il proprietario di un'isola esotica delle Indie occidentali che non sta nell'unica casa dell'isola. Che scopo c'è nell'averla?» «Moreau ha detto che aerei e persone vanno e vengono in certi periodi dell'anno. Deve esserci un posto dove mettono gli ospiti.» «Deve essere sottoterra», ipotizzò Giordino. «Sopra ci sono solo la casa, quel posto dall'aspetto bizzarro e il piccolo hangar.» «Ma allora perché quel benvenuto armato?» si chiese Pitt. «Che cosa nasconde Epona?» Gli rispose il suono improvviso di una strana musica seguito da lampi di luci colorate che salivano dalla stravagante ricostruzione di Stonehenge. La porta della cella di Dirk si aprì con clangore. Il caldo del pomeriggio aveva reso la piccola stanza simile a una fornace. Mentre la guardia lo spingeva fuori con la pistola, Dirk sentì un gelo improvviso, come se fosse entrato in una cella frigorifera. La pelle d'oca gli coprì le braccia e la schiena. Sapeva che era inutile chiedere alla donna. Non avrebbe potuto dirgli niente d'interessante. Non erano entrati nella stanza decorata in modo esotico, ma erano passati attraverso una porta in un lungo corridoio di cemento che sembrava non finire mai. Percorsero quasi un chilometro prima di raggiungere una scala a chiocciola che saliva per forse quattro piani. In cima c'era un arco in pietra che dava su una specie di trono, illuminato da una luce dorata. Due donne con il peplo azzurro uscirono dall'oscurità e lo incatenarono alla sedia. Una di loro gli legò un fazzoletto di seta nera sulla bocca. Poi le tre donne scomparvero. Improvvisamente, raggi di luce color lavanda iniziarono a volteggiare all'interno del cratere di pietra, un anfiteatro senza posti a sedere. Seguirono
dei fasci di raggi laser che perforarono il cielo scuro illuminando una serie di colonne di lava nera sistemate nel cratere secondo un preciso schema. Solo in quel momento il giovane vide un grande blocco di pietra nera simile a un sarcofago. S'irrigidì e tentò di buttarsi in avanti, ma le catene lo trattennero. Si era reso conto che si trattava di una specie di altare e che lì dovevano avvenire i sacrifici rituali. Negli occhi gli si leggeva il terrore quando riconobbe Summer, in un peplo bianco, distesa con le braccia e le gambe aperte sull'altare, come se fosse in qualche modo legata alla superficie. Una paura glaciale s'impossessò di lui mentre lottava con tutte le sue forze. Malgrado le energie decuplicate dall'adrenalina, i suoi sforzi erano vani. Nessun uomo che non possedesse la forza di quattro Schwarzenegger avrebbe potuto rompere quei legami o sradicarli dalla sedia. Lottò comunque sinché fu in grado di farlo. Le luci si spensero all'improvviso e il suono di strani canti celtici lacerò la notte. Dieci minuti dopo la zona fu nuovamente illuminata, rivelando la presenza di trenta donne in abiti di tutti i colori. I capelli rossi rilucevano sotto le luci che facevano brillare anche dei motivi argentei simili a stelle, sulla pelle delle donne. Poi le luci vorticarono mentre Epona faceva la sua apparizione con il peplo dorato. Salì fino all'altare sacrificale e intonò il canto: «Oh, figlie di Odisseo e Circe, possa la vita essere tolta a coloro che non ne sono degni». La voce di Epona risuonò, prima di fermarsi ad aspettare la risposta delle consorelle. Il canto salì d'intensità fino a diventare fortissimo per poi ridiscendere al livello di un sussurro impercettibile. Dirk si rese conto che Summer era incosciente di ciò che accadeva. Guardava Epona e le colonne, ma non le vedeva. Non c'era paura nei suoi occhi. Era così drogata da non rendersi conto del pericolo. Epona estrasse il coltello cerimoniale da sotto la veste. Le altre donne salirono i gradini e si disposero sulla passerella, estraendo a loro volta i coltelli e levandoli in alto. Gli occhi verdi del ragazzo erano quelli di chi sapeva che una tragedia tremenda stava per colpire il suo mondo. Urlò di angoscia, ma il suono della sua voce era trattenuto dal fazzoletto. Epona pronunciò il canto di morte: «Qui giace colei che non sarebbe dovuta nascere». Il suo coltello e tutte le altre lame brillarono della luce riflessa. 47
Nella frazione di secondo prima che Epona e le altre affondassero i coltelli nel corpo inerme di Summer, due fantasmi completamente neri si materializzarono davanti all'altare. La figura più alta afferrò il braccio alzato di Epona per il polso, glielo torse e la costrinse a inginocchiarsi, sotto gli occhi sconvolti delle altre donne. «Non questa notte», disse Pitt. «Lo spettacolo è terminato.» Giordino strisciava intorno all'altare, spostando la canna del fucile da una donna all'altra nel caso qualcuna avesse intenzione di colpire. «State indietro!» ordinò con voce dura. «Mettete giù i coltelli e andate verso i gradini.» Tenendo la canna del fucile premuta sul fianco di Epona con una mano, Pitt si accinse a liberare Summer, che era legata con una fascia sopra la vita. Confuse e spaventate, le sacerdotesse dai capelli rossi si ritrassero lentamente e si radunarono in gruppo, come per proteggersi a vicenda. Giordino non si lasciò ingannare. Sapeva che le loro consorelle si erano battute come tigri a Ometepe. Aveva tutti i muscoli tesi mentre vedeva che non solo non deponevano i coltelli, ma iniziavano pure a disporsi in cerchio intorno a lui. Sapeva che non era il momento di essere gentile con l'altro sesso, ripetendo la richiesta. Prese attentamente la mira, premette il grilletto e fece saltare l'orecchino sinistro di quella che gli sembrava comandasse il gruppo. Sconvolto, si accorse che la donna non sembrava aver provato né paura né dolore. Non alzò la mano per tastarsi il lobo, continuò solo a fissare l'uomo, con uno sguardo carico di odio. Giordino guardò Pitt da sopra la spalla e vide che stava tentando di liberare Summer. «Ho bisogno d'aiuto. Sembra che queste femmine impazzite stiano per caricarmi.» «E questo è solo l'inizio. Le guardie non ci metteranno molto a capire che c'è qualcosa che non va.» Pitt alzò lo sguardo e vide le trenta sacerdotesse che si avvicinavano all'altare. Sparare a una donna andava contro tutti i suoi principi e la sua educazione, ma in gioco adesso c'era ben più della loro vita. I suoi figli sarebbero morti se lui e Al non avessero fermato quelle invasate. Loro avevano i fucili, le donne il numero e potevano attaccare in gruppo. Pitt interruppe il tentativo di liberare Summer. Nello stesso istante Epona riuscì a liberarsi dalla stretta dell'uomo, procurandogli un taglio profon-
do nel palmo con un anello affilato. Lui le prese la mano e fissò l'anello che l'aveva ferito. Era una pietra della Tanzania tagliata nella forma del cavallo di Uffington. Senza badare al dolore, spinse Epona da parte e alzò l'arma. Incapace di uccidere, ma nella necessità di salvare i suoi figli e il suo amico da una morte atroce, sparò quattro colpi che colpirono le donne più vicine alle gambe. Tutte caddero urlando di dolore. Le altre esitarono, ma, pochi attimi dopo, sostenute dalla rabbia e dal fanatismo, iniziarono ad avanzare, muovendo in modo minaccioso i coltelli. Non ancora pronto, come l'amico, a uccidere una donna, Giordino si mosse lentamente e metodicamente fino a raggiungere Pitt e iniziò a sparare alle gambe, azzoppandone cinque. «Fermatevi!» urlò Pitt. «O saremo costretti a uccidervi.» Quelle ancora sane ebbero un'esitazione e guardarono le sorelle accasciate. Una di loro, vestita in argento, alzò il coltello e lo lasciò cadere con un forte rumore metallico sul pavimento di pietra. Lentamente, tutte le altre la imitarono. «Prendetevi cura delle vostre compagne ferite!» Pitt liberò in fretta Summer, mentre Giordino lo copriva e controllava che non arrivassero le guardie. Si maledisse quando si accorse che Epona era fuggita nella confusione. Vedendo che Summer non era in grado di camminare, Pitt se la gettò in spalla e si fece largo per raggiungere il trono, dove spezzò i ganci delle catene di Dirk con il calcio del fucile. Una volta libero, Dirk disse, con voce soffocata: «Papà, in nome di Dio, da dove spuntate tu e Al?» «Penso si possa dire che siamo arrivati dal cielo», rispose Pitt felice di abbracciarlo. «Ce l'avete fatta per un pelo. Un altro secondo e...» La voce gli tremò al pensiero di ciò che sarebbe potuto succedere. «Adesso dobbiamo trovare il modo di andarcene.» Pitt guardò l'occhio fisso di Summer. «Sta bene?» chiese a Dirk. «Quelle streghe l'hanno imbottita di droga.» Pitt avrebbe voluto avere Epona sotto le mani, ma la donna sembrava sparita. Aveva abbandonato le sorelle ed era fuggita nella notte. Pitt prese il telefono satellitare e compose il numero di Gunn. Dopo una lunga pausa, sentì la sua voce. «Dirk?» «Come va, lassù?» chiese Pitt. «Mi è sembrato che vi avessero colpiti.» «Shepard ha una ferita al braccio, ma non è niente di grave. L'ho benda-
to come ho potuto.» «Può volare?» «È robusto e matto a sufficienza per farlo.» «Siete in aria?» «Sì, circa cinque chilometri a nord dell'isola.» Quindi Gunn chiese, esitante: «Dirk e Summer?» «Sani e salvi.» «Grazie a Dio. Siete pronti per il recupero?» «Venite a prenderci.» «Puoi dirmi che cos'hai trovato?» «Le risposte a dopo.» Pitt spense il telefono e guardò Summer, che stava riprendendo coscienza di sé mentre Giordino e Dirk la facevano camminare. Mentre aspettavano l'elicottero, girò intorno al blocco sacrificale, stando attento a che non arrivassero guardie. A un certo punto le luci si spensero e il mondo divenne nuovamente buio e silenzioso. Quando Gunn e Shepard apparvero, si udì il rombo di diversi motori sulla pista dell'isola. Gli aerei stavano decollando, l'uno dopo l'altro, in tutta fretta. Sicuro che ormai non sarebbe più apparsa nessuna guardia, Pitt informò Shepard che poteva accendere le luci. Quando l'elicottero arrivò e scese, Pitt vide che non c'era più nessuno. Tutte le donne erano scomparse. Guardò il cielo punteggiato di milioni di stelle, chiedendosi quale direzione avesse preso Epona. Quali erano i piani di quella donna, adesso che la sua folle operazione che avrebbe causato sofferenze a milioni di persone era andata in fumo? Sarebbe stata ricercata, adesso che si conoscevano i progetti criminali suoi e del suo capo, lo Spettro. Tutte le agenzie del mondo sarebbero state sulle loro tracce. Ogni operazione di Odyssey sarebbe stata sorvegliata e le accuse avrebbero riempito i tribunali di Europa e America. Non credeva che Odyssey potesse sopravvivere a tutto ciò. E che ne sarebbe stato dello Spettro? Che ruolo aveva in tutto ciò? Era il capo, quindi il responsabile. Quale forza governava il rapporto fra lo Spettro ed Epona? Le domande che passavano nella testa di Pitt non avevano risposta. Il mistero, però, l'avrebbero risolto altri, pensò. Il suo ruolo e quello di Giordino erano, grazie a Dio, terminati. Pensò a cose più piacevoli, come il suo futuro. Alzò gli occhi e vide Giordino che veniva a mettersi accanto a lui. «È uno strano momento per dirlo», disse l'amico come se stesse medi-
tando. «Ma ci ho pensato a lungo, soprattutto negli ultimi dieci giorni. Sono arrivato alla conclusione che sto diventando troppo vecchio per queste cacce nell'oceano e le pazze avventure di Sandecker. Sono stufo di imprese rocambolesche e di fughe all'ultimo istante, di spedizioni che potrebbero mettere fine alla mia felice vita amorosa. Non posso più farlo. Le mie giunture e i miei muscoli ci mettono il doppio del tempo a guarire.» Pitt lo guardò e sorrise. «Quindi?» «L'ammiraglio può scegliere. Può mandarmi via, così trovo un lavoro tranquillo per qualche società d'ingegneria, oppure mi mette a dirigere il dipartimento dell'attrezzatura tecnica della NUMA. O mi affida qualsiasi altro lavoro in cui non debba più rischiare la pelle tutti i giorni.» Pitt si girò e fissò a lungo la distesa nera del mare. Poi guardò Dirk e Summer, mentre il ragazzo aiutava la sorella a salire sull'elicottero. Erano loro il suo futuro. «Sai», disse. «Mi hai letto nel pensiero.» PARTE QUINTA RIVELAZIONE FINALE 48 11 settembre 2006 Washington, D.C. Alle nove del mattino, tre giorni dopo il suo ritorno all'hangar con i figli, Pitt si aggiustò la cravatta dell'abito «buono», come lo chiamava lui, perché era l'unico fatto su misura. Allacciò il panciotto e sistemò nel taschino un antico orologio d'oro, facendo correre la catena fino all'altra tasca. Non lo indossava spesso, ma quello era un giorno speciale. Lo Spettro era stato arrestato dalla polizia federale quando aveva fatto l'errore di atterrare a San Juan, a Puerto Rico, per far rifornimento nel volo verso Montreal. Gli fu contestato un reato minore per costringerlo a testimoniare davanti a una commissione congressuale che stava indagando sulle sue poco chiare operazioni minerarie negli Stati Uniti. Gli investigatori l'avevano preso in custodia e portato a Washington, in modo che non potesse raggiungere nessun altro Paese. Era impossibile accusarlo dell'operazione volta a congelare l'Europa e il Nordamerica, perché era avvenuta fuori del territorio statunitense e quindi la commissione aveva le mani le-
gate. Le possibilità di vittoria erano scarse. Tutto ciò che si poteva fare era cercare di bloccare ogni sua iniziativa futura negli Stati Uniti. Epona, però, era scappata e nessuno sapeva dove fosse. Quella era un'altra delle domande che ci si riservava di porre allo Spettro. Pitt si guardò per l'ultima volta in uno specchio intero antico che veniva dalla prima classe di un vecchio vapore. L'unica cosa che lo differenziava dal resto della Washington bene era una cravatta bianca e grigia. I folti capelli neri e ondulati erano ben pettinati e gli occhi verdi brillavano più del solito, nonostante la mancanza di sonno dopo una notte con Loren. Andò alla scrivania e prese il coltello che aveva strappato a Epona a Branwyn. Il manico era incrostato di rubini e smeraldi e la lama era sottile e affilata sui due lati. Lo fece scivolare nella tasca interna del soprabito. Scese la scala a chiocciola in ferro battuto e guardò le sue auto. Fuori della porta lo aspettava una Navigator della NUMA. Era ingombrante da condurre per le strade affollate della capitale, ma rispondeva bene ed era comoda. Inoltre, la scritta NUMA e il colore la rendevano un'auto ufficiale, che si poteva posteggiare ovunque. Superò il ponte per entrare nel cuore della città e parcheggiò in un luogo destinato ai funzionari governativi, a due isolati dal Campidoglio. Dopo aver salito i gradini ed essere entrato sotto la cupola, seguì le istruzioni di Loren per raggiungere la sala riunioni, dove si svolgeva l'indagine. Non volendo affrontare la stampa, percorse i corridoi fino a una porta riservata ai rappresentanti, ai loro segretari e agli avvocati. Pitt mostrò un pezzo di carta alla guardia che la sorvegliava e gli chiese di passarlo a Loren Smith, membro del Congresso. «Non sarebbe un mio compito», protestò la guardia in uniforme grigia. «È estremamente urgente», ribatté Pitt con voce autoritaria. «Sono in possesso di una prova fondamentale da produrre di fronte alla commissione.» Pitt esibì le sue credenziali NUMA per dimostrare all'uomo che non era uno qualunque. La guardia confrontò il volto con la foto, annuì ed entrò nella stanza. Dieci minuti dopo, durante una breve sospensione, Loren uscì dalla porta. «Che cos'è questa storia?» chiese, con le perfette sopracciglia alzate. «Devo entrare.» Lei lo guardò confusa. «Avresti potuto entrare dall'ingresso riservato al pubblico.» «Ho qui un oggetto che rivelerà chi è veramente lo Spettro.»
«Dammelo, e lo farò vedere alla commissione.» Scosse la testa. «No, devo farlo io.» «Non posso lasciartelo fare», controbatté Loren. «Non sei sulla lista dei testimoni.» «Fai un'eccezione», insistette. «Chiedi al presidente.» Loren fissò quegli occhi che conosceva così bene, cercando qualcosa che non trovò. «Dirk, non posso e basta. Devi dirmi di che cosa si tratta.» La guardia era lì accanto e ascoltava. La porta, in genere chiusa, era leggermente aperta. Pitt prese Loren per le spalle, le fece fare un mezzo giro e la spinse verso la guardia. Prima che quella potesse fermarlo, lui era già dentro e camminava in fretta nella corsia verso i rappresentanti. Nessuno protestò né cercò di bloccarlo mentre raggiungeva la zona dei testimoni. Si fermò davanti al tavolo dov'era seduto lo Spettro, circondato da una selva di avvocati. Christopher Dunn, rappresentante del Montana, disse con voce tonante: «Lei, signore, sta disturbando un'importante indagine. Devo chiederle di lasciare l'aula immediatamente o chiamerò la sicurezza». «Con il vostro permesso, onorevoli, ho la possibilità di far prendere all'indagine una svolta decisiva.» Dunn si rivolse alla guardia che stava cercando Pitt. «Lo porti fuori.» Pitt estrasse il coltello dal soprabito e lo protese verso la guardia, che si fermò di colpo. Lentamente, portò la mano verso la pistola, ma esitò quando Pitt mosse il coltello a un centimetro dal suo petto. «Per favore, onorevoli signori», ripeté. «Credetemi, vale la pena sentire ciò che ho da dire.» «Chi è lei?» chiese Dunn. «Mi chiamo Dirk Pitt. Sono il figlio del senatore George Pitt.» Dunn rifletté un momento, poi fece un segno alla guardia. «Fermati, sentiamo che cosa deve dirci il signor Pitt.» Poi lo fissò. «Metta giù il coltello. Ha esattamente un minuto, e speri che la sua dichiarazione sia interessante, altrimenti la faccio processare per direttissima.» «Arresterebbe il figlio di uno stimato senatore?» chiese Pitt scherzando. «È un repubblicano», rispose Dunn, con un sorriso di sfida. «Io sono democratico.» «Grazie, onorevoli signori.» Pitt depose il prezioso coltello sul tavolo e si mise davanti allo Spettro, che sedeva in silenzio, vestito di bianco, con la solita sciarpa avvolta sul viso e gli occhiali scuri. «Può alzarsi, signor Spettro?»
Uno degli avvocati si alzò e parlò nel microfono. «Protesto recisamente, onorevole Dunn. Quest'uomo non ha niente a che fare con quello che succede qui. Il mio assistito non ha l'obbligo di obbedirgli.» «Ha per caso paura?» disse Pitt provocandolo. «È spaventato? È un codardo?» Fece una pausa, poi fissò l'uomo con aria di sfida. Lo Spettro abboccò. Era troppo arrogante per ignorare gli insulti di Pitt. Mise una mano sul braccio dell'avvocato per farlo smettere e lentamente si alzò, sollevando la massa immane del suo corpo, il trito indovinello di un mistero. Pitt sorrise e s'inchinò appena, gongolando per la soddisfazione. All'improvviso, prima che chiunque capisse che cosa intendeva fare, prese il coltello e lo conficcò nel ventre dello Spettro, perforando il vestito bianco. Urla e gemiti di uomini e donne riempirono l'aula. La guardia si lanciò su Pitt che era pronto a farsi da parte, facendola cadere al suolo. Poi conficcò la lama nel tavolo, davanti allo Spettro, e attese, con un'espressione soddisfatta. Loren, che era scattata in piedi urlando a Pitt, tacque di colpo. Fu una delle prime a rendersi conto che lo Spettro non sanguinava. Sangue e viscere avrebbero dovuto imbrattare il vestito bianco, che rimaneva invece immacolato. Ben presto anche tutti gli altri presenti si resero conto della cosa. Con il volto cereo, Dunn osservò lo Spettro, battendo il martello nervosamente. «Che cosa succede, qui?» tuonò. Nessuno fece un gesto per fermare Pitt quando girò intorno al tavolo, sfilò gli occhiali da sole allo Spettro e li lasciò cadere a terra. Poi gli tolse anche il cappello e la sciarpa e li mise sul tavolo. Il fiato di tutti rimase sospeso nel vedere quella massa di capelli rossi cadere sulle spalle dello Spettro. Pitt si avvicinò a Dunn. «Signore, mi permetta di presentarle Epona Eliade, altrimenti conosciuta come lo Spettro, fondatrice dell'impero Odyssey.» «È la verità?» chiese Dunn confuso, alzandosi. «Questa donna è lo Spettro e non un alter ego camuffato?» «È quello vero», assicurò Pitt. Poi si girò verso Epona. «Strano a dirsi, ma mi mancava», disse, con una punta di sarcasmo. La donna avrebbe dovuto tremare come un topolino in gabbia alla vista del serpente. Invece era ritta in piedi e non rispondeva. Non doveva farlo.
Gli occhi balenavano, le labbra erano serrate e l'odio usciva da ogni poro della sua pelle. Nei successivi secondi accadde una cosa inconcepibile. Lo sguardo di odio scomparve dagli occhi e dalle labbra. Lentamente, molto lentamente, Epona iniziò a togliersi il vestito lacerato, finché non rimase in un perfetto abito di seta che le cadeva dalle spalle e le copriva appena i fianchi. Era incredibilmente serena e bella, con i capelli che le coprivano le spalle nude. Era una visione che nessuno degli attoniti presenti avrebbe mai più rivisto. «Ha vinto, signor Pitt», disse, con una voce suadente, appena increspata. «Si sente bene da vincitore? Crede di aver compiuto un miracolo?» Pitt scosse la testa lentamente. «Vincitore, no, e nemmeno credo di aver compiuto un miracolo. Gratificato, questo sì. Il suo oltraggioso tentativo di sopprimere un tale numero di vite umane è deprecabile. Poteva condividere le scoperte fatte con il mondo, per non parlare dei tunnel sotto il Nicaragua, un'opportunità immensa per il commercio. Invece si è alleata con una nazione straniera solo per soldi e potere.» Pitt si rendeva conto che Epona era maestra nel controllo delle emozioni, e che non intendeva discutere. Sorrise, con un'espressione allusiva. Nessuno di coloro che erano nella stanza quel giorno avrebbe dimenticato quella creatura esotica e provocante che trasudava femminilità magnetica. «Belle parole, signor Pitt. Ma prive di senso. Se non ci fosse stato lei, avrei potuto cambiare il corso della storia. Era quello lo scopo, il risultato finale.» «Pochi si rammaricheranno per il fallimento del suo piano», ribatté Pitt, con un tono gelido. Solo allora vide un vago accenno di disperazione negli occhi della donna. Epona s'irrigidì e si rivolse ai membri della commissione. «Fate di me ciò che volete, ma vi avviso: sarà molto difficile accusarmi di un qualsiasi crimine.» Dunn puntò il martello verso due uomini seduti in fondo alla stanza. «Possono gli investigatori federali avanzare e prendere in custodia questa donna?» I legali di Epona si alzarono subito, protestando che Dunn non aveva quel potere. Lui li liquidò con uno sguardo. «Questa donna ha commesso il crimine di frode davanti a questa commissione. Sarà trattenuta il tempo necessario perché il procuratore legale possa stilare un nuovo atto di accusa.»
Mentre Epona veniva presa per un braccio e condotta fuori, si fermò davanti a Pitt per fissarlo con sguardo sardonico, stranamente privo di odio. «I miei amici d'oltremare non permetteranno che mi processino. Ci incontreremo ancora, signor Pitt. Niente finisce oggi. Ma, la prossima volta, lei cadrà nella mia rete, ci può contare.» Pitt mise da parte a sua volta la rabbia e le sorrise in modo enigmatico. «La prossima volta? Non credo, Epona. Lei non è il mio tipo.» Le labbra di lei si strinsero nuovamente in una morsa d'odio. Epona impallidì e i suoi occhi persero il loro bagliore, mentre veniva condotta fuori. Pitt non poté che ammirarne la bellezza. Poche donne avrebbero fatto un'uscita così elegante dopo aver affrontato momenti simili. Ma dentro di sé Pitt si tormentava, consapevole che, prima o poi, i loro cammini si sarebbero davvero ritrovati. Loren scese vicino a Pitt e lo abbracciò. «Pazzo che non sei altro. Potevi farti sparare.» «Perdona la messa in scena, ma ho pensato che questi fossero il luogo e il momento di smascherare quella strega.» «Perché non me lo hai detto?» «Perché, se avessi avuto torto, ti avrei coinvolto.» «Non eri sicuro?» chiese lei sorpresa. «Sapevo che doveva essere così, ma c'è sempre un dubbio.» «Che cosa te lo ha fatto capire?» «Era solo un sospetto. Quando sono venuto qui, oggi, ero ancora incerto. Ma, quando me la sono vista davanti, non ho più avuto dubbi. Pur seduta, la massa di grasso non era distribuita come quella di un uomo che pesi centottanta chili.» Pitt alzò la mano e mostrò la cicatrice sul palmo. «Poi ho riconosciuto l'anello sull'indice destro con cui Epona mi ha fatto questo taglio a Branwyn. Tutto tornava.» Dunn imponeva di fare ordine perché voleva chiudere la sessione. Senza badare a ciò che potevano pensare gli altri, Loren baciò Pitt sulla guancia. «Devo tornare al lavoro. Hai scoperchiato una fossa di serpenti che cambierà il corso delle indagini.» Pitt si mosse, come per uscire, si girò e le prese la mano. «Ti andrebbe bene fra una settimana da domenica?» «Che cosa succede fra una settimana da domenica?» chiese senza capire. Le labbra di lui si aprirono nel sorriso astuto che Loren conosceva bene. «È il giorno del nostro matrimonio. Ho prenotato la cattedrale.» E così lasciò la rappresentante del Colorado al Congresso in piedi, con
uno sguardo allibito negli occhi viola. 49 11 ottobre 2006 Washington, D.C. In nessun modo Pitt riuscì a convincere Loren a sposarsi dopo una settimana. Lei insistette perché il matrimonio si svolgesse un mese dopo, il che le dava appena il tempo di programmare tutto, riservare il luogo per la cerimonia, trovare una sarta che le sistemasse l'abito da sposa di sua madre e organizzare il rinfresco, che si sarebbe svolto nell'hangar di Pitt. La cerimonia ebbe luogo nella cattedrale di Washington, a Mount Saint Alban, una collina che dominava la capitale. La chiesa, dedicata ai santi Pietro e Paolo, era stata costruita fra il 1907 e il 1990. La prima pietra fu posata da Theodore Roosevelt. La pianta dell'edificio è a forma di T con due torri gemelle ai lati della facciata che formano la testa della T. Una terza torre è quella campanaria, alta più di novanta metri. La cattedrale è un esempio del New Gothic, lo stile che nell'Ottocento e Novecento riprese i canoni del gotico europeo di settecento anni prima. All'interno vi sono duecentocinquanta vetrate, molte delle quali istoriate, che filtrano la luce solare riflettendo sul pavimento i motivi dei pannelli. Alcune presentano disegni floreali, altre hanno un soggetto religioso e altre ancora raccontano episodi della storia americana. La più sorprendente è la cosiddetta Space Window, un'opera stupefacente che contiene un frammento di roccia lunare. Circa cinquecento persone, tra parenti e amici, parteciparono all'evento. Il padre e la madre di Loren arrivarono dal ranch del Colorado, con i due fratelli e le due sorelle della giovane donna. Il padre di Pitt, il senatore George Pitt, e la madre, Barbara, erano raggianti nel vedere che quel figlio scapestrato metteva finalmente la testa a posto con una donna che entrambi amavano e ammiravano. La squadra della NUMA era presente al completo: l'ammiraglio Sandecker, che sembrava proprio divertirsi; Hiram Yaeger, con la moglie e le due figlie; Zerri Pochinsky, l'ormai consolidata segretaria di Pitt; e tutta una serie di altre persone con cui Pitt aveva lavorato per anni nell'agenzia. Non mancava St. Julien Perlmutter, che occupava tre posti da solo. Quasi tutta la Washington che conta era fra gli invitati: senatori, membri
del Congresso, burocrati, deputati e persino il presidente e la moglie, che si trovavano in sede e poterono intervenire. Le damigelle di Loren erano le sue sorelle. La damigella d'onore era invece la sua segretaria, Marilyn Trask, che era stata al suo fianco sin dalla prima legislatura. Anche Summer Pitt, la sua quasi figliastra, era nel gruppo delle damigelle. Al fianco di Pitt c'era, in testa a tutti, Al Giordino, e insieme con lui il figlio dello sposo, Dirk, Rudi Gunn e i fratelli di Loren. Loren indossava l'abito da sposa di sua madre, un modello del 1950: aveva un corpetto in pizzo con una profonda scollatura a V sulla schiena e maniche lunghe, sempre di pizzo, e una gonna a tre strati in raso con una sottogonna rigida che ne accentuava la forma. Dirk e gli uomini erano perfetti con la cravatta e l'abito scuro. Il coro ufficiale della cattedrale intonò un canto quando gli ospiti ebbero preso posto. Poi tacque, mentre le note tradizionali della marcia nuziale suonate dall'organo si diffondevano nella chiesa. Tutti fissavano la navata mentre sull'altare Pitt e i suoi testimoni aspettavano composti. Il corteo della sposa era aperto da Summer, seguita dalle damigelle, fra cui, ultima, era quella d'onore. Loren le seguiva, radiosa al braccio di suo padre, e non smetteva di sorridere mentre teneva gli occhi fissi su Pitt. Una volta arrivata all'altare, il padre si fece da parte e Pitt lo sostituì. La cerimonia fu officiata dal reverendo Willard Shelton, amico di famiglia degli Smith. Il rito fu tradizionale, senza originali dichiarazioni di amore eterno fra gli sposi. Al termine, mentre gli sposi ripercorrevano insieme la navata, Giordino sgattaiolò da una porta laterale e portò l'auto ai piedi della scalinata, proprio mentre la coppia usciva in uno splendido pomeriggio autunnale, con nuvole bianche che solcavano il cielo azzurro. La sposa si girò e lanciò il bouquet, che venne preso dalla figlia maggiore di Yaeger, che diventò rossa e scoppiò in una risatina imbarazzata. Giordino era al posto dell'autista nella Marmon V-16 rosa e Pitt aprì lo sportello alla moglie aiutandola a salire. Come volevano le nuove regole, il riso fu sostituito da semini per volatili che caddero come una fitta pioggia primaverile, mentre gli sposi salutavano gli amici. Giordino ingranò la prima e la grande auto si mosse. Seguì i giardini di Wisconsin Avenue e girò verso il Potomac per raggiungere l'hangar di Pitt, dove si sarebbe tenuto il ricevimento. Il finestrino di divisione con l'abitacolo era alzato e Giordino non poteva sentire che cosa si dicessero gli sposi.
«Be', il peggio è passato», disse Pitt ridendo. Loren gli diede un pizzicotto sul braccio. «Il peggio? È così che tu definisci un bel matrimonio?» Lui le prese la mano e guardò l'anello che le aveva appena infilato. Aveva un rubino da tre carati circondato da piccoli smeraldi. Dopo l'impresa delle onde d'urto, sapeva che rubini e smeraldi erano cinquanta volte più rari dei diamanti, che in realtà si trovavano in abbondanza sul mercato mondiale. «Prima mi sono dovuto abituare a due figli adulti che non sapevo di avere, e adesso ho una moglie da adorare.» «Mi piace la parola 'adorare'», disse Loren piano, gettandogli le braccia al collo e baciandolo con passione sulla bocca. Quando finalmente riuscì a liberarsi, il marito sussurrò: «Aspettiamo la luna di miele per lasciarci prendere da tanto trasporto». Lei rise e lo baciò ancora. «Non mi hai detto dove vuoi portarmi. È una sorpresa.» «Ho affittato una barca a vela in Grecia. Gireremo il Mediterraneo.» «È meraviglioso.» «Pensi che una ragazza di campagna del Colorado possa imparare a governare una barca?» «Ti farò vedere.» Arrivarono all'hangar e Giordino usò il telecomando per disinserire gli allarmi e aprire la porta. Poi portò la Marmon al suo posto. Pitt e Loren scesero dall'auto e salirono al piano di sopra, dove si cambiarono per il ricevimento. St. Julien entrò nell'hangar come un ippopotamo impazzito, impartendo ordini agli addetti al rinfresco. Grondava sudore dalle sopracciglia per la temperatura mite dell'estate indiana, mentre riprendeva il maìtre del ristorante con tre stellette Michelin - Le Curcel - che aveva ingaggiato per l'occasione: «Le ostriche che vorrebbe servire sembrano noccioline, non vanno bene». «Le faccio sostituire subito», si affrettò a dire il maître. Arrivarono gli ospiti e venne servito lo champagne California Estate ai tavolini sparsi per l'hangar. Poi seguirono squisitezze di ogni tipo, offerte sui tavoli del buffet allestiti intorno alla vasca da bagno con il fuoribordo che Pitt aveva usato per scappare da Cuba molti anni prima. C'erano piatti in argento riscaldati e terrine piene di ghiaccio per le molte varietà di pesce proposte. Perlmutter era davvero orgoglioso di se stesso per aver creato un menu
che probabilmente non sarebbe mai più stato riproposto. Quando l'ammiraglio Sandecker arrivò, chiese di vedere Pitt da solo. Fu ricevuto in una delle suite della carrozza Pullman che Pitt usava come ufficio. Quando la porta fu chiusa, Sandecker si accese uno dei suoi sigari e soffiò il fumo azzurrognolo verso l'alto. «Sa che il vicepresidente Holden non sta bene», esordì l'ammiraglio. «Me l'hanno detto.» «La situazione è peggiore di quel che si dice. Non dovrebbe avere più di un mese di vita.» «Mi spiace molto», disse Pitt. «Mio padre lo conosce da trent'anni. È un brav'uomo.» Sandecker guardò Pitt per vederne la reazione. «Il presidente mi ha chiesto di diventare il suo vice per la corsa alla Casa Bianca delle prossime elezioni.» Le spesse sopracciglia nere di Pitt si unirono. «Il presidente è il favorito alla vittoria. Non riesco a immaginarla come vicepresidente.» Sandecker si strinse nelle spalle. «È un lavoro più facile del mio attuale impiego.» «Sì, ma la NUMA è la sua vita.» «Io non sto diventando più giovane ogni giorno e, dopo venticinque anni, avrei bisogno di uno stacco. È tempo di cambiare. Inoltre, non sarei certo il tipo di vicepresidente che se ne sta con le mani in mano. Mi conosce abbastanza per sapere che ribalterei il governo sottosopra.» Pitt rise. «So che non si nasconderebbe in uno sgabuzzino della Casa Bianca e che non starebbe zitto.» «Soprattutto su faccende riguardanti l'ambiente marino», continuò Sandecker. «Più ci penso e più credo di poter essere più utile alla NUMA dalla Casa Bianca che dal mio ufficio attuale.» «E chi dovrebbe sostituirla alla NUMA?» chiese Pitt. «Rudi Gunn?» Sandecker scosse il capo. «No, Rudi non vuole. Si sente più tranquillo come vice.» «Quindi chi vuole intrappolare?» Un sorriso asciutto si stagliò sulle labbra dell'ammiraglio. «Lei», disse semplicemente. In un primo momento la parola «lei» non venne recepita da Pitt. Poi capì. «Io? Non può dire sul serio.» «Non riesco a pensare a nessuno di più qualificato.» Pitt si alzò e camminò avanti e indietro. «No, no, io non sono un ammi-
nistratore.» «Gunn e i suoi si occuperanno degli aspetti pratici», spiegò Sandecker. «Con il suo curriculum, sarebbe la persona perfetta per fare da portavoce della NUMA.» Era una decisione troppo importante per essere presa sui due piedi. «Devo rifletterci.» Sandecker si alzò e andò alla porta. «Ci pensi in luna di miele. Ne parleremo al vostro ritorno.» «Devo parlarne con Loren, prima, adesso sono sposato.» «Ne abbiamo già parlato. Lei è d'accordo.» Pitt lo fissò pietrificato. «Vecchio diavolo!» «Sì», disse allegro l'ammiraglio. «È quello che sono.» Pitt tornò al ricevimento e si mischiò agli ospiti, posando per le fotografie con Loren e i genitori. Stava parlando con sua madre quando Dirk lo raggiunse e gli batté sulla spalla. «Papà, c'è un signore alla porta che ti vuole vedere.» Pitt si scusò, passando tra le auto d'epoca e la folla di amici e ospiti. Quando arrivò sulla porta vi trovò un uomo anziano, sui settant'anni, con barba e capelli bianchi. Era alto come Pitt e, benché gli occhi non fossero così verdi, avevano lo stesso bagliore. «Posso aiutarla?» chiese Pitt. «Sì, l'avevo contattata un po' di tempo fa per venire a vedere la sua collezione. Avevamo parcheggiato vicino a un raduno, un po' di anni fa.» «Mi ricordo, ero lì con la Stutz e lei aveva una Hispano Suiza.» «Esatto.» L'uomo sbirciò la festa all'interno. «Sembra che sia arrivato al momento sbagliato.» «No, no», disse Pitt, allegro. «Mi sono sposato oggi. Se vuole unirsi a noi è il benvenuto.» «Molto gentile, grazie.» «Mi spiace, ho dimenticato il suo nome.» L'anziano signore alzò gli occhi e sorrise. «Cussler, Clive Cussler.» Pitt lo studiò pensieroso per un istante. «Strano», disse in tono vago. «Mi sembra di conoscerla da tanto tempo.» «Forse in un'altra dimensione.» Pitt mise il braccio sulle spalle di Cussler. «Si accomodi, Clive, prima che lo champagne finisca.» Entrarono insieme nell'hangar e chiusero la porta.
RINGRAZIAMENTI Un ringraziamento particolare va a Iman Wilkens, che con il libro Where Troy Once Stood ha validamente contribuito alla soluzione del mistero della guerra di Troia. Desidero ringraziare inoltre Mike Fletcher e Jeffrey Evan Bozanic per la consulenza sui rebreather. FINE