OLTRE IL SOGGETTO Dall’intersoggettività all’agape a cura di Dario Fiorensoli *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* PREMESSA “Ol...
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OLTRE IL SOGGETTO Dall’intersoggettività all’agape a cura di Dario Fiorensoli *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* PREMESSA “Oltre il soggetto “ è stato il titolo del Convegno culturale promosso dal Centro Studi Albert.Schweitzer di Trieste,che si è svolto nell’ottobre 2003. Nelle due giornate di lavoro si è discusso sul possibile parziale ma reale superamento del soggetto quale si manifesta nella relazione con l’altro, con il noi, nel contatto di gruppo, sia esso di coppia, famigliare, sociale, religioso. Questo superamento parziale come è stato pensato nella filosofia del secolo trascorso dai filosofi che hanno riflettuto sulla intersoggettività? E la psicologia, la sociologia, quanto colgono di questa realtà quotidiana? Allontaniamo subito il sospetto di essere amanti della pura astrazione: De nostra re agitur. La crescita del soggetto nell’apertura verso l’altro è costitutivo della sua realtà né più né meno come il nostro organismo fisico ha organi programmati per la relazione con il mondo di cui siamo parte. Ma non si tratta solo di finestre sul mondo. C’è un percorso che il soggetto compie quotidianamente attraverso l’esperienza, l’interiorizzazione, l’introiezione e la propria azione, e che, in gran parte, tutto si raccoglie in questa “boule de neige” di bergsoniana memoria, sempre crescente che è la propria vita. Ma,alla fine, sino a dove siamo noi stessi? Quanto è entrata la relazione più pervasiva dentro la nostra personalità? Come un bosco è costituito da piante singole che sopravvivono solo per il tramite di un ecoambiente, così il nesso fra individuo e società fra prassi di difesa e movimenti di crescita, fra proiezione autoplastiche ed alloplastiche, fra possibili meccanismi sociali perversi di annientamento, e slanci liberatori tende a costituire il tessuto di base della nostra personalità (autocoscienza e inconscio). Riflettiamo su questo problema osservandolo da diversi punti di osservazione. Il Convegno ha coinvolto nella prima giornata docenti dell’università di Trieste: un filosofo, alcuni psicologi, un sociologo. Sono state esposte analisi di situazioni particolari ed esperienze di carattere generale nella comunicazione interpersonale. Nella seconda giornata il tema si è ampliato includendo l’orizzonte religioso della intersoggettività cioè i valori di trascendenza che possono coinvolgere e distinguere il soggetto e il gruppo. Varie angolazioni teologiche sono state espresse. Cercare di andare oltre se stessi è un percorso indicato dalle religioni mondiali più significative anche nell’occidente. Rispondere alla chiamata all’amore verso il prossimo e verso Dio significa credere non solo più in noi stessi,significa tenere non solo a freno il proprio egoismo ma cercare una identità più vasta,un’appartenenza,una crescita; è compiere, non da soli, un cammino verso valori che si rivelano irrinunciabili via via che la vita ci pone delle scelte e la libertà morale viene richiamata verso il bene. Il Centro Studi Albert Schweitzer desidera esprimere un particolare ringraziamento alla Comunità Luterana di Trieste ed al Pastore Dieter Kampen, alla Comunità evangelica di confessione elvetica ed alla Presidenza della Regione Friuli Venezia Giulia che,in vario modo, hanno contribuito alla realizzazione dell’incontro culturale e del presente volume. Dario Fiorensoli. *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* PREFAZIONE
La tematica proposta nel 2003 dal Centro Studi “Albert Schweitzer” nel suo ormai pluriennale impegno di stimolo alla discussione su punti rilevanti della cultura contemporanea, “Oltre il soggetto – Dalla intersoggettività all’agape”, fa riferimento concettualmente e terminologicamente all’ambito classico della riflessione filosofica e teologica. Si riallaccia a problematiche antiche, ormai bene avvertite nella storia del pensiero, non solo occidentale. Discutendone si intende mettere a fuoco un profondo disagio del vivere nel mondo attuale; tentando di decifrare una realtà che si presenta complessa, contraddittoria, con indubbi elementi di novità, che gli strumenti tradizionali sembrano non saper inquadrare sufficientemente, per ricavarne una miglior comprensione e un convincente orientamento. Alcuni tratti problematici della realtà attuale, con il loro indubbio peso nella ricerca di identità e nel rapporto con l’altro da parte di ciascuno, soggetto non astratto ma persona viva interagente in molteplici modalità, vengono denunciati anche da diversi contributi: l’estendersi di una globalizzazione di cui non risultano ben definite le conseguenze per singoli e gruppi, l’irrompere massiccio dell’immagine che privilegia un apparire di superficie, l’invasività della telematica nella vita quotidiana e soprattutto nella comunicazione mutandone la qualità, un’inedita massificazione sociale a livello planetario, il disegnarsi di un orizzonte sempre più ampio all’esterno ma anche all’interno, la dinamica insopprimibile di una scienza oltre ogni ostacolo e limite, il modificarsi imprevedibile di una società che non si lascia costringere in schemi teorici prefissati, uno sviluppo economico che segue sue linee di incremento insensibile a correzioni o interferenze umanitarie, il persistere oltre ogni logica guerre e conflitti non solo di natura telematica-chirurgica, il ritorno in forza aspetti tradizionali ma anche nuovi nell’ambito delle religioni assieme all’inarrestabile processo di secolarizzazione, il risorgere di particolarismi e nazionalismi a fronte di aperture planetarie e cosmiche. La prima e fondamentale parte del titolo, “Oltre il soggetto”, viene a delineare il movimento da un soggetto, faticosamente giunto a consapevolezza nella storia del pensiero occidentale, che rimane inevitabile punto di riferimento; acquisito come centro relazionale, è oggi messo in crisi e depotenziato in rapporto ad alterità schiaccianti o assorbenti. La seconda parte del titolo, “Dalla intersoggettività all’agape” prospetta un ulteriore avanzamento nella qualità dell’interazione, o forse solo una tautologia, a seconda del significato dato ai due termini, come afferma esplicitamente uno degli interventi della pubblicazione e di fatto lo fanno capire altri. L’intersoggettività, che incide nel costituirsi e svilupparsi del soggetto in rapporto all’altro, nel dibattito attuale attraversa filosofia, psicologia, psicoanalisi, scienze positive, etica, religione, storia delle religioni, teologia, sociologia, geopolitica, anche in questa pubblicazione. Come tutte le discussioni di ampio respiro, può rischiare di non offrire alla fine apporti settoriali nuovi; più punti di vista però consentono di mettere a fuoco le questioni, ponendo con maggior chiarezza e documentazione i termini di un problema, eliminando piste morte, evitando pseudoproblemi, assicurando alcune condizioni per un loro superamento. L’intreccio dei contributi confluiti nella pubblicazione, prevalentemente dall’ambito della filosofia e della teologia, in pieno movimento oggi come statuto epistemologico e in ricerca di contatti in una pluralità di direzioni, ha anche il vantaggio di mettere a confronto metodologie e risultati, senza separatezze ed esclusioni a priori a lungo presenti nella cultura italiana, troppo segnata da una parte dalla presenza monopolistica del religioso della chiesa Cattolica e dall’altra da posizioni laiche non sufficientemente avvertite e documentate nell’affrontare la dimensione religiosa. Anche e soprattutto nel campo del soggetto teologia e filosofia si sono travasate più volte reciprocamente terminologia, sollecitazioni, conclusioni nel loro percorso storico. Forse, oltre al più volte ricordato Agostino con l’interiorità, non va dimenticata, per le implicazioni che hanno portato alla tematizzazione del soggetto, le discussioni trinitaria e cristologica dei primi secoli del cristianesimo, che via via hanno definito
tecnicamente un primo concetto di persona, e in modo profondamente rinnovato quelli di relazione e di ousia, sostanza e/o natura, per giungere fino alla filosofia/teologia esistenziale di S. Kierkegaard, ripreso dalla Römerbriefe di K. Barth nel primo dopoguerra del secolo scorso, e ai numerosi contatti e scambi contemporanei. Una tematica, quella del soggetto, determinatasi in occidente nella fase che si può definire “oggettiva” della riflessione filosofica, che si annuncia sullo sfondo in qualche modo già nei primordi della riflessione, nel superamento di quella mentalità o pensiero mitico, descritta da un Lévy Bruhl con il principio di identificazione rassicurante con il tutto, il superiore, la divinità o anche con il gruppo rispetto a quello di distinzione, strumento fondamentale nel pensiero logico: mentalità mitica, con tracce nei poemi antichi, nella Bibbia, che tendono a conservarsi a lungo nelle religioni. L’ impossibilità o scelta logica di staccarsi dall’ ente-tutto di Parmenide, la mìmesis platonica ancorata alle idee, lasciano il posto al distinguere della logica aristotelica e agli sviluppi successivi; e nella riflessione, che distingue, separa, paragona, approfondisce nell’interiorità, inizia la parabola del soggetto nella sua ascesa e nelle sue crisi nel pensiero occidentale, da un piano astratto sempre più a esperienza viva che diventa oggetto di riflessione teorica. Un porsi assolutamente diverso e di estremo interesse per le possibili considerazioni in vari campi appare quello dell’esperienza e della riflessione religiosa nell’oriente, in cui l’individuazione nel soggetto e l’intreccio della realtà vengono a costituire il male radicale; posizione non priva di influssi nell’occidente, seppur tenui ma leggibili, ad esempio in area neoplatonica. Di una problematica così vasta, dalle antiche radici, oggi sentita acutamente nelle sue implicazioni esistenziali con richiesta di risposte convincenti e spendibili, la pubblicazione affronta, e non può che essere così, solo alcuni aspetti da determinate prospettive. Si possono avvertire la mancanza, nel dibattito, di contributi che discutano espressamente gli esiti dell’epistemologia postpositivista e il ricco dibattito sulla scienza, molto attenti al rapporto soggetto e oggetto nella problematicità del conoscere nelle necessarie interazioni e modificazioni; o di rappresentanti della filosofia analitica, con gli interessi per il linguaggio, le domande di significato, senso, e per la comunicazione; o, ancora, si può rilevare l’assenza di contributi teologici che offrano ulteriori esperienze del vastissimo mondo delle religioni, oltre a quelli pur importanti dall’ occidente e dall’oriente riportati. Anche se in modo inevitabilmente limitato, la pubblicazione tende ad affrontare con apertura di orizzonte, documentazione e riflessioni un problema, diventato rilevante non solo teoreticamente, ma anche nei timori e nelle prospettive di vita, oggetto di riflessione e orientamento in una ricerca, che nelle grandi questioni non si chiude mai. Nella prima parte sono raccolti contributi che prendono atto, come di dato acquisito, del superamento del soggetto, per delineare da vari punti di vista quell’intersoggettività, nella quale il soggetto stesso si costruisce. Analizzando la storia del pensiero e il dibattito presente in ambito filosofico, seguendo le prospettive della psicologia, della psicoanalisi e della sociologia, ma anche la viva attualità del mondo telematico, non manca il confronto stimolante con altri ambiti culturali, talora diversi anche drammaticamente da quello occidentale di tradizione cristiana. L’ampio saggio introduttivo di Maurizio Pagano presenta con ricchezza di riferimenti e notazioni la crescita lunga e faticosa del soggetto nella cultura occidentale, con il volgersi più recente all’intersoggettività; ascesa e declino attraverso punti nodali in un percorso che, dall’interiorità di Agostino e dall’esperienza personale di fede di Lutero, tocca Cartesio come momento saliente del porsi del soggetto, non dimenticando altri apporti, per incontrare nelle filosofie romantiche quell’intreccio delle relazioni che ne rendono già insicuri i contorni. L’attualità del problema viene sottolineata dall’interesse della filosofia e della teologia contemporanee, nelle quali l’intersoggettività è variamente percepita, a partire dalla fenomenologia di Husserl, ancora punto
fondamentale di riferimento nella discussione. Nuovi elementi e spunti vengono dal processo di globalizzazione in atto con le sue implicazioni sociali e culturali, dal superamento della impostazione puramente teorica del soggetto per l’attenzione ad altre dimensioni come quella etica, indirizzando la discussione su nozioni focali, quali pluralismo, universalità oggi. Decisamente sul lato che ha fatto di più discutere e percepire il soggetto vivo, anche nella sua crisi, si snoda il contributo di Luca Chicco e Franca Amione, psicologi di orientamento psicanalitico: il campo dell’intrapsichico, con l’inconscio, parte predominante del soggetto. La difficoltà di assemblare i diversi aspetti teorici del soggetto con i classici strumenti scientifici ha fatto riscoprire come metodo di comprensione la narrazione, in effetti messa in auge dalla psicoanalisi, rispetto al pensiero logico-paradigmatico; narrazione che è ricostruzione più che rappresentazione, situata nelle trame complesse delle vicende personali. L’intersoggettività nello strutturarsi del soggetto viene sottolineata da Maria Teresa Bassa Poropat, nel contesto dei principali modelli teorici presenti in ambito psicosociale. La stessa formazione oggi viene proposta come crescita nella complessità delle interazioni, nell’innovazione e nella scelta tra diverse alternative, in un processo che dura tutta la vita. La comunicatività, nell’ambito della quale viene indicata ancora la narratività, si dispiega nella formazione, fatto collettivo, in un insieme di saperi in divenire. Vengono analizzate dall’intervento di Robert A. Wicklund e Cristina Maran le ripercussioni sul determinarsi del soggetto degli attuali mezzi di comunicazione, tra cui emblematica e senz’altro leader è la comunicazione mediata dal computer nelle forme sempre più varie, che portano a nuove modalità e vie di interazione psicologica e sociale. Un modo senza dubbio facilitato nell’approccio all’altro per la ridotta dimensionalità, obbligata dalla struttura dei mezzi rispetto al contatto diretto, che porta a superare difficoltà e timidezza del contatto personale; l’ immediatezza, il superamento di lontananze e semplificazione di messaggi ne determinano inevitabilmente una ridotta valenza, per cui possono rappresentare un deterioramento negli atti comunicativi nella attuale società, nella quale velocità ed efficienza vengono a favorire l’egocentrismo nelle relazioni umane. L’intervento di Fouad Allam, trattando di soggetto e società civile riferiti al mondo mussulmano, non starebbe male nella seconda parte per il riferimento a una cultura fortemente permeata, se non dominata, da elementi religiosi; mantenendo però un approccio sociologico, lo scritto contribuisce a far capire, nella globalizzazione in atto, il destino di culture che oggi sembrano incapaci di comunicare in punti rilevanti; ad esempio nella società civile e religiosa, tutt’uno in molte zone dell’islam, i contrasti laceranti tra diritto soggettivo e shariah, ma soprattutto i veri e propri conflitti che si stanno aprendo con altre culture. Interessante l’esperienza laica turca, ormai secolare, e la diaspora araba in Europa, per verificare le permanenze e gli eventuali mutamenti della tradizione religiosa nella società, provenienti da spinte diverse e innovative, in contatti/scontri sociali che diventano politici, con estremismi pronti a tutto. Una situazione comunque in movimento nell’islam, che non riveste quella compattezza che la cronaca europea e occidentale tendono ad attribuirle. La seconda parte presenta l’approccio alla tematica da parte delle religioni, con la storia delle religioni e le teologie, queste prevalentemente cristiane, nelle linee di riflessione protestante e cattolica; religioni e teologie con il loro contributo storico alla tematica del soggetto da diversi punti di vista e prospettive teoriche, soprattutto con le istanze esistenziali della domanda di senso, di superamento del disagio, di orientamento di vita e, tipica del contesto religioso, di ricerca di salvezza. La crisi dell’io, partendo dall’ambito della storia delle religioni, che assume forme che vanno dall’ ipertrofia al depotenziamento, viene ampiamente analizzata da Aldo Natale Terrin nella cultura attuale fino al postmoderno; la tematica del soggetto fatta risalire ad un atteggiamento comune nelle religioni, che reagiscono a marginalità e perseguono una rinuncia dell’io storico reale per un io sublime.
Divergenti risultano gli esiti: in una linea positiva, sublimata nell’amore spirituale nel cristianesimo, con l’ esempio del passaggio dal fisico allo spirituale che ricorda l’eucaristia transustanziale cattolica; in una linea di negazione dell’io per il sé impersonale (atman) nell’induismo o anche di negazione totale dell’io e del sé (anatman) nel buddismo. Nella pluralità degli elementi della cultura contemporanea, in cui viene a porsi con forza il problema della verità come una o plurima, si inserisce l’intervento di Sergio Rostagno, fiducioso, con Gadamer, nella parola non come prigione, ma elemento di comunicazione. L’intersoggettività viene correlata al senso primitivo della solidarietà universale e teologicamente all’agape, facendo cadere come tautologico il movimento dall’intersoggettività all’agape, indicato dal sottotitolo della tematica proposta alla discussione. Agape che un analisi convergente di testi, da Paolo a Platone e Cicerone in ambito classico, porta a definire non amore disinteressato, dalle radici neoplatoniche e romantiche, ma semplicemente e profondamente “rapporto di umanità che sovrintende e riassume ogni altro rapporto umano”. Dopo essersi soffermato su Calvino, che riprende e focalizza con la segnalazione del limite, la “modestia” per Paolo, base per una rete reale di relazioni, egli analizza il fallimento della relazione, chiarissimo in Sartre, significativo interprete del mondo contemporaneo, che vede nella relazione oppressione, sottomissione o anche non chiarita e sperata “conversione”, pur attraverso la negatività, verso relazioni vivibili. Riprendendo l’ispirazione razionalmente positiva di Leibnitz, la filosofia recente si orienta verso possibili accordi in cui la reciprocità interessa la logica del concetto, con la trascendenza che tende a mantenere aperto il dialogo intersoggettivo, prendendo sul serio non solo l’Altro ma ogni altro. Sul “noi” presente nella Riforma e da non dimenticare accanto alla responsabilità personale dell’io posta al centro della vita della fede, si sofferma il contributo di Giovanni Carrari; lo fanno percepire i “tutti” bisognosi di grazia e giustificati, la chiesa, i sacramenti correttamente amministrati, e specialmente il significato della cena. Con il puritanesimo la lettura biblica spinge fortemente all’etica e impegno sociale e, da spunti che vengono insieme dal puritanesimo e pietismo, nel contesto storico della prima rivoluzione industriale, John Wesley pone con forza in una chiesa che deve essere missionaria il problema della salvezza non solo di ciascuno, ma degli altri, nei quali si riscopre l’ immagine di Dio; in modo particolare va segnalata la crescita comunitaria nelle “classi”, intersoggettività impegnata e creativa. Dall’io in Lutero, considerato nella situazione di peccato dell’ “uomo inclinato su sé stesso” più che nella novità della forte accentuazione della responsabilità personale, prende avvio la relazione di Dieter Kampen. Nel cammino dalla legge al vangelo, in una vita che conserva un aspetto penitenziale, il soggetto si muove verso Dio (e il noi) in un superamento del sé, tra le ipertrofie di un io che si contrappone a Dio e il panteismo, nel quale l’Altro viene dissolto; un io rafforzato dall’unione con Dio, nel quale Dio rimane l’Altro. Sulle caratteristiche del “noi” nell’ ekklesìa, vista come scopo di gran parte dell’attività del Gesù storico per la sua volontà di radunare intorno a sé una comunità di seguaci, si sofferma l’intervento di Vincenzo Mercante, descrivendola come corpo di Cristo dalle lettere di Paolo; un’intersoggettività in continuità dalla fase presente a quella finale, nel passaggio da comunità di credenti all’ eskaton della Gerusalemme celeste che viene dall’alto. Indicative di intersoggettività nell’immenso articolarsi del Buddismo tra l’India e il Giappone, vengono presentate da Ani Melina Savio le linee essenziali della sua forma maggioritaria, il Mahayana. In modo particolare pone l’attenzione sulla figura del Bohdisattva, il saggio che rinuncia al Nirvana, a lui ormai possibile, per aiutare gli infelici lontani dalla perfezione, percorrendo il suo sentiero di formazione, nell’itinerario delle sei “palamita”, dal dono-amore alla saggezza. Il Mahayana e forse ancor più il Varijana nel Buddismo sembrano ricuperare una certa positività del processo dell’io e dell’esistente, negato nella dottrina originaria del Budda e dall’ Hinayana. L’esperienza di una compassione piena d’amore avvicina indubbiamente questa ad altre esperienze religiose, come quella cristiana, in una
prospettiva di fondo che rimane quella della negazione dell’io; forse testimonia l’emergere insopprimibile dell’io e quindi di una soggettività, anche quando questa viene teoricamente negata. Il testo di Dario Fiorensoli, posto in appendice per alcuni risvolti che si collocano oltre il tema principale del libro, costitusce una riflessione articolata, che sottolinea la complessità del soggetto con le sue molteplici sfaccettature in campo teorico, esistenziale, etico e religioso, cercando di mettere a fuoco le istanze culturali attuali più pressanti, per cui il problema si pone all’attenzione e si cerca una qualche uscita, tra il non senso e l’assolutizzazione del presente, situazione vissuta con disagio storico ed esistenziale da parte del soggetto; una traduzione nell’attuale società dell’ Unbehagen in der Kultur di freudiana denuncia nel lontano 1929, che cerca altri esiti. Nell’enigma dell’universo e della vita, oltre al nichilismo favorito anche da certa ascetica cristiana, si apre la prospettiva di un futuro di speranza, richiamata da teologi cristiani contemporanei, descritta con il “noi” paolino del corpo mistico. I diversi contributi raccolti su soggetto e intersoggettività, inseriti in un presente di non facile lettura, costituiscono concretamente e in modo articolato incontro di diversità; rappresentano esigenze, timori, segmenti di cammino e convergenze ancora alla ricerca di impianto teorico, normalmente elaborato in tempi successivi, ma talora anche prima o durante i processi; spingono ad affrontare in modo nuovo e urgente punti cruciali, quali pluralismo, pluridimensionalità, universale, verità una e plurima, affioranti da vari interventi, nel cruciale discorso contemporaneo sulla verità. Anche nelle tradizioni religiose, nel loro nascere, evolversi, rinnovarsi, rapportarsi, l’impegno esistenziale ha spesso preceduto non di rado con sofferenze, altre volte ha influito nei cambiamenti in atto, andando oltre le logiche istituzionali e le giustificazioni teologiche, mutando approcci teorici e preparando profeticamente nuove e diverse stagioni; un piccolo tratto di cammino, pur nelle notevoli differenze sotto vari aspetti degli interventi qui pubblicati, mi pare ci sia anche in queste pagine. GIANFRANCO HOFER Centro studi “Albert Schweitzer” *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* Maurizio Pagano L’intersoggettività nell’orizzonte del pensiero contemporaneo La questione dei rapporti intersoggettivi è emersa negli ultimi decenni come uno dei nodi principali su cui si concentra la riflessione filosofica. Si tratta di un tema tipicamente moderno: esso infatti affonda le sue radici nella problematica relativa al soggetto che, come noto, si afferma nei primi secoli dell’età moderna e non si trova, almeno in forma esplicita e tematica, nel pensiero antico. D’altra parte la questione dell’intersoggettività si collega oggi al tema dei rapporti interculturali, che negli ultimi anni si è imposto all’attenzione dei filosofi e dei teologi specialmente grazie all’intensificarsi dei processi di globalizzazione. Il nostro percorso si articolerà in tre tappe, corrispondenti ai temi del soggetto, dell’intersoggettività e dell’interculturalità: si tratta di un cammino che ha uno sviluppo storico, perché il tema del soggetto si afferma nella modernità da Cartesio in poi, quello dell’intersoggettività si sviluppa negli ultimi due secoli a partire da Fichte e da Hegel, e quello dell’intercultura occupa l’orizzonte degli ultimi decenni; attraverso queste tappe storiche, tuttavia, vedremo emergere
altrettanti nodi teorici legati tra loro. 1. Ascesa e declino del soggetto nella modernità Nel pensiero antico non v’era uno spazio adeguato né per la questione del soggetto né per quella dell’intersoggettività. Certamente la filosofia antica dà molta importanza al pensiero, e anche alla ragione dell’uomo. Tuttavia l’elemento fondamentale della realtà, a cui essa guarda principalmente, è il suo ordine oggettivo. Questo orientamento si esprime in modo compiuto nella filosofia di Platone: il mondo delle idee, inteso come un ordine oggettivo ed eterno, è la verità dell’essere e del cosmo. La ragione umana può cogliere questo ordine oggettivo, e ad esso deve conformarsi. L’esperienza umana si colloca entro un ordine cosmico e ontologico, con cui è chiamata ad accordarsi. Nonostante l’impulso fornito dal cristianesimo, con la sua sottolineatura del valore della singola persona, e nonostante la riflessione di Agostino sull’interiorità (in interiore homine habitat veritas), il pensiero medievale mantiene questo orientamento di fondo: anche qui la verità è concepita in termini piuttosto oggettivi e non v’è spazio per una riflessione sui caratteri originali e sul ruolo centrale del soggetto. Una situazione analoga si verifica per quanto riguarda i rapporti intersoggettivi: per gli Antichi l’uomo è per natura un animale politico, zóon politikón, e la sfera politica è un prolungamento e un’estensione della famiglia. La socialità è una dimensione naturale dell’individuo, sicché i rapporti intersoggettivi non costituiscono un problema e non v’è motivo di dedicare ad essi un’attenzione particolare. Nel complesso il mondo spirituale della tradizione antica e medievale è un intero ordinato e gerarchico, basato su nessi tradizionali garantiti dall’autorità politica e religiosa; esso s’inserisce in un ordine cosmico che ha il suo fondamento ultimo nella volontà divina. Questa visione oggettivante del mondo cominciò a incrinarsi negli ultimi secoli del Medioevo ed entrò definitivamente in crisi con il Rinascimento. Lo sviluppo delle attività economiche, la crescente articolazione dei rapporti politici, le scoperte geografiche, i primi successi della ricerca scientifica, la diffusione della cultura entro strati più ampi della popolazione favorirono l’avvento di una nuova mentalità, in cui il ruolo del soggetto umano e della sua autonoma iniziativa assunse progressivamente un posto centrale. Un contributo importante a questo mutamento venne anche dalla sfera religiosa, con la Riforma protestante: nel pensiero di Lutero la verità di Cristo si manifesta al singolo credente nella sua esperienza personale di fede, che così assume un’importanza sconosciuta al pensiero teologico medievale. Nel complesso il mondo moderno ai suoi inizi abbandona la visione di un cosmo chiuso e ordinato in cui l’uomo è chiamato a inserirsi armoniosamente: il mondo è uno spazio aperto da conoscere e da conquistare, e nel suo centro si colloca, con la sua libertà e la sua iniziativa, il soggetto umano. Questo processo trova la sua formulazione filosofica più compiuta nel pensiero di Cartesio. Anzitutto egli mostra la crisi della cultura tradizionale: nella celebre scuola dei Gesuiti di La Flèche gli è stato trasmesso il meglio del sapere dell’epoca; egli ha appreso molte nozioni, ma non ha imparato a stabilire una sola verità certa. Tuttavia il nuovo mondo che sta nascendo ha bisogno proprio di questo, di trovare elementi certi su cui costruire il suo nuovo sapere. Perciò si tratta di uscire dal mondo ampio, multiforme e incerto del sapere tradizionale per trovare un punto fermo: solo così si potrà ripartire, ricostruire la cultura su nuove basi e stabilire un terreno solido su cui tutti possano intendersi e mettersi d’accordo. Dunque dentro all’orizzonte malsicuro dell’intero si ritaglia la linea del certo: Cartesio cerca il punto minimo che possa garantire l’assoluta certezza. Questo procedimento mette in atto, forse per la prima volta, quello che potrei definire il “principio del minimo”: di fronte a una situazione che si presenta malsicura perché molto complessa, questa strategia sacrifica la complessità per ottenere la certezza, squarcia la trama sottile che lega i diversi aspetti dell’esperienza, riduce la sua ricchezza, allo scopo di semplificare il quadro e raggiungere un punto su cui ci si possa liberare dal dubbio.
Come si sa Cartesio assume in pieno la situazione d’incertezza della cultura dell’epoca e la radicalizza, spingendosi fino all’ipotesi del genio maligno: ma proprio all’interno del dubbio egli attinge, col cogito, la roccia a cui aggrapparsi, il punto fermo su cui fondare il nuovo edificio del sapere. La prima certezza che emerge dal dubbio e dalla crisi del sapere tradizionale è il soggetto, che coglie se stesso nel pensiero, e conosce sé prima e meglio della realtà esterna. Così il soggetto diventa centro e criterio della conoscenza e del mondo: in questo Cartesio va molto al di là di Agostino, perché in quest’ultimo l’uomo interiore era sì il luogo privilegiato dell’esperienza della verità, ma la verità da cogliere era ancora un ordine divino e oggettivo. Tuttavia proprio da questa impostazione, che privilegia così nettamente l’esperienza del soggetto, deriva anche la maggiore difficoltà che Cartesio incontra e che non riesce a risolvere, e cioè il dualismo tra la sostanza pensante e il mondo esterno al pensiero, ossia la sostanza estesa. In questa conseguenza inaggirabile si manifesta tutta la debolezza della strategia del “principio del minimo” che, dopo avere scardinato il quadro complessivo della realtà, spinta dall’ossessione della certezza, non riesce poi a ricostruire un disegno plausibile del mondo. In Cartesio non è ancora manifesta la tensione tra la dimensione concreta e individuale del soggetto e la sua struttura universale. Il Discorso sul metodo racconta la storia del suo spirito, le Meditazioni espongono il suo cammino personale verso la verità, ma al tempo stesso l’evidenza del cogito che egli raggiunge viene proposta come l’accesso universale alla verità, che vale egualmente per tutti gli uomini. L’illuminismo mantiene il valore universale della ragione, ma sottolinea insieme i suoi limiti, il suo carattere di facoltà finita, legata al supporto che le viene fornito dall’esperienza. Kant fornisce una distinzione precisa tra il soggetto concreto e individuale, che egli chiama “l’io empirico”, e il soggetto universale della conoscenza scientifica, che egli chiama “l’io penso”. Quest’ultimo agisce in concreto nelle singole esperienze di ognuno, ma in ciascun caso mantiene il suo carattere universale, che fornisce validità alla conoscenza oggettiva raggiunta di volta in volta da ognuno di noi. Una distinzione analoga vale sul terreno pratico, dove all’universalità della legge morale, egualmente presente in ogni persona, si contrappone la realtà concreta e singola dell’uomo sensibile. Hegel poi riconoscerà anche alle esperienze della ragione un carattere storico, e quindi ogni volta diverso, ma cercherà di comporre questa dimensione individuale e storica dell’esperienza con l’universalità dell’idea logica e dello spirito. La grande filosofia dell’epoca moderna, dunque, sottolinea fortemente il carattere universale della ragione, che le appare sempre come la garanzia principale dell’autonomia dell’uomo contro i pregiudizi della tradizione e i privilegi dell’autorità, che avevano in genere una giustificazione storica. Questo è uno dei motivi per cui nel periodo classico del pensiero moderno non si pone ancora il problema dell’intersoggettività: i rapporti tra i singoli soggetti appaiono garantiti dalla struttura universale della ragione; i conflitti, almeno in linea di principio, si possono appianare ricorrendo alla sua legge universale. La questione dell’intersoggettività comincerà a diventare un problema solo quando il pensiero riconoscerà il carattere storico e quindi sempre diverso dell’esperienza umana: e ciò avverrà precisamente con Fichte e con Hegel. Questo orientamento prevalente nella filosofia non deve però far pensare che l’epoca moderna non conosca, sul terreno pratico e anche su quello teorico, la realtà dell’individuo. Al contrario già le grandi scoperte dei navigatori, le spedizioni dei conquistatori, le imprese degli ammiragli agli ordini dei sovrani e dei primi finanziatori, consacrano il nuovo ruolo dell’individuo (Colombo o Magellano, Carlo V o Fugger). Un processo analogo avviene sul terreno della politica e della cultura, anche se queste avevano conosciuto già in precedenza l’emergere di forti individualità. Tuttavia è proprio ora che il pensiero politico, a partire dal Principe di Machiavelli, riconosce e proclama l’importanza decisiva dell’agire individuale. Successivamente, con Hobbes, un ruolo fondamentale sarà attribuito all’agire di ogni individuo, considerato come l’unica base dei rapporti sociali. L’uomo di Hobbes è, nello stato di natura, “un lupo” per i suoi simili, ha
un diritto assoluto sui beni che gli servono; tra gli uomini si scatena una lotta per l’autoconservazione in cui per mantenersi ciascuno deve escludere l’altro. Questa visione così cruda si stempera nel liberalismo di Locke; tuttavia anche per lui, che vuole difendere la libertà contro gli eccessi dell’autorità e dell’intolleranza, il centro dell’esperienza politica resta l’individuo. Su queste basi si svilupperanno poi, com’è noto, le teorie economiche del liberalismo a partire da Smith. Sul piano del pensiero teorico un’apertura verso la dimensione del soggetto individuale si ha con l’empirismo di Locke e di Hume, attento a riconoscere il carattere concreto dell’esperienza di ognuno. Nell’ambito delle grandi visioni sistematiche della metafisica moderna il ruolo decisivo della realtà individuale è sostenuto come noto da Leibniz, con la sua teoria delle monadi. Nel complesso la concezione del soggetto nel pensiero moderno di dispiega su due piani, non sempre connessi tra loro: da una parte v’è la ragione, come struttura universale presente in tutti i soggetti; dall’altra v’è il soggetto individuale, che viene preso in considerazione sia sul terreno conoscitivo ed epistemologico, dove è responsabile della diversità di opinioni che si registra tra gli uomini, sia nel campo dell’agire economico e politico. Quest’ultimo livello è forse quello che alla lunga esercita la maggiore influenza, e contribuisce a diffondere l’opinione che la vera cellula e l’unico punto di partenza dei rapporti sociali e di ogni esperienza che avviene tra gli uomini sia l’individuo. Di fatto l’individuo sembra essere il grande mito, e forse la grande illusione, dell’epoca moderna. Sono note le ragioni della sua affermazione, che in larga misura corre parallela allo sviluppo della civiltà moderna. Questa si è affermata grazie al nuovo ruolo e al contributo dell’individuo, e d’altra parte man mano che si è sviluppata ha offerto all’individuo uno spazio sempre maggiore; oltre a questo, la civiltà moderna ha dovuto lottare contro forme di vita e assetti sociali ereditati dal passato, in cui prevaleva un orientamento collettivistico e soprattutto un’autorità giustificata dalla tradizione, che lasciava poco spazio all’iniziativa individuale. In questa lotta per la propria affermazione, la società moderna ha esaltato anche in modo eccessivo e ideologico il ruolo dell’individuo, fino a disconoscere l’importanza della dimensione collettiva, familiare e sociale, in cui l’individuo è collocato fin dall’inizio. Sotto questo aspetto risultano in buona parte giustificate le dure critiche di Hegel alla teoria che lo stato nasca da un “contratto sociale” tra gli individui, o il sarcasmo di Marx verso le “robinsonate” dell’economia politica classica. Bisogna aggiungere poi che questa esaltazione un po’ sconsiderata dell’individuo ritorna con nuovo vigore nel panorama della cultura contemporanea, specialmente in certe forme scontate e convenzionali della mentalità oggi corrente. Certo questa “fuga nell’individualità” ha anche le sue giustificazioni, dopo la crisi delle ideologie e dopo il fallimento dei progetti di rivoluzione sociale; essa inoltre riceve nuovo vigore dall’accelerarsi del processo di globalizzazione, dato che quest’ultimo tende a scardinare i legami comunitari e le appartenenze tradizionali. Per questo oggi si sente spesso ripetere, come una verità evidente non bisognosa di verifica, che l’unica realtà, o l’unica speranza che ci è rimasta, è l’individuo. Questa retorica dell’individualismo sembra declinarsi su due versanti, tra cui sarebbe difficile trovare un collegamento logico: da una parte ha un accento cinico, sottintende che ormai non ci sono più valori e tanto vale che ciascuno pensi per sé; dall’altra pretende un valore etico, perché afferma la libertà dell’individuo contro l’autorità e contro le esigenze della collettività. Ma in questo caso sarebbe più giudizioso parlare di arbitrio, piuttosto che di libertà. Già a questo punto, comunque, risulta evidente che la dimensione del soggetto è messa in questione, e richiede un ulteriore esame. Questo esame può trarre nuovi spunti e nuovi motivi di riflessione da una considerazione più approfondita dei rapporti intersoggettivi. Sul terreno della filosofia, comunque, già nel corso dell’Ottocento lo statuto del soggetto assume contorni via via meno sicuri, e in seguito entra decisamente in crisi. Per prima viene messa in questione l’universalità: come s’è detto Hegel aveva già mostrato il carattere storico delle manifestazioni della ragione, ma era
ancora riuscito ad accordarlo con la sua visione universale dello spirito. Nella filosofia successiva l’universalità viene abbandonata, anche perché viene sentita come una minaccia per la libertà individuale; resta la storicità, che però, almeno in alcune manifestazioni dello storicismo ottocentesco, apre la strada al relativismo e poi anche all’irrazionalismo. L’altro carattere fondamentale del soggetto cartesiano, cioè l’autotrasparenza, viene distrutto dalla filosofia posthegeliana. I “maestri del sospetto”, ossia Marx, Nietzsche e Freud, mostrano che alla base delle manifestazioni coscienti dell’uomo agiscono forze potenti e irrazionali, che il soggetto non può dominare e di cui generalmente non è neppure consapevole. Questo attacco al soggetto universale della tradizione moderna sembra aprire la strada a una più decisa affermazione del soggetto individuale: dato il carattere sempre storico e relativo dell’esperienza, l’unica realtà che resta è la dimensione del singolo, che già Kierkegaard aveva contrapposto sul terreno religioso, e con tanta enfasi, allo spirito universale hegeliano. In realtà la critica dei maestri del sospetto e dei loro successori finisce per coinvolgere anche il soggetto individuale, perché mostra che gli elementi inconsci, irrazionali e non dominabili rendono malsicuro anche lo statuto dell’identità dell’individuo. In ciascuno di noi vive una moltitudine di elementi “altri”, che la nostra coscienza non riesce a ricondurre a sé. Più in generale, ciascuno di noi è rimandato ad altro, nella costruzione e nella sintesi della propria identità: come suggerisce il titolo di un importante lavoro di Paul Ricoeur1, che riprende peraltro un’espressione già presente nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, per comprendere il “Sé” bisogna intenderlo “come un altro”, bisogna soffermarsi sugli elementi di alterità che concorrono alla formazione della sua identità e che sono presenti negli altri soggetti a cui si rapporta e anche dentro di lui. Ma questa opera di Ricoeur è già un contributo importante alla riflessione della filosofia contemporanea sulla dimensione dell’intersoggettività. 2. Le vie dell’intersoggettività Anche se il termine “intersoggettività” viene introdotto in filosofia soltanto nel Novecento, con Husserl, la questione è già ben presente fin dagli inizi del secolo precedente, e si fa avanti dapprima sotto forma di indagine sul tema del “riconoscimento” (Anerkennung). Questo termine viene introdotto da Fichte, che mette in luce il carattere reciproco del rapporto tra due individui e mostra come su questa base si forma una coscienza comune. Fichte però mantiene questo tema sul piano di un principio puro e formale. Hegel lo riprende e ne fa il filo conduttore di un’analisi “storico-genetica “ (L. Siep) delle forme dell’esperienza pratica, intese come gradi di realizzazione del riconoscimento stesso. Nei suoi abbozzi jenesi Hegel affronta la questione dei rapporti intersoggettivi sviluppando sia il tema dell’amore che quello della lotta: il primo corrisponde al tema dell’unità tra i soggetti, il secondo a quello della distanza. Per questa via egli riesce a intendere il processo del riconoscimento come sintesi di amore e lotta, di unità e distanza, di rinuncia a sé e di autoaffermazione che inizialmente nega l’altro per arrivare da ultimo a riconoscerlo. Queste riflessioni giungono a maturazione nella Fenomenologia dello spirito. Qui Hegel mostra che l’autocoscienza ha la stessa struttura della vita, che è un processo di unità e distinzione, ma al tempo stesso sporge al di là della vita, attinge un livello superiore, che è quello dello spirito. Questo risulta chiaro nella dialettica dell’appetito: negli animali esso s’indirizza a un oggetto naturale, come il cibo, e dopo essere stato soddisfatto ritorna ogni volta a farsi sentire. Per l’autocoscienza umana questo livello non è sufficiente, essa ha bisogno di qualcosa di più, e precisamente richiede che un’altra autocoscienza le risponda, compia verso di lei quello stesso gesto di tensione spirituale che essa mette in atto. Questo operare reciproco di un altro verso di noi, a cui noi sempre tendiamo, è per Hegel il riconoscimento, ed è questo che essenzialmente noi cerchiamo in tutti i rapporti intersoggettivi che ci troviamo a vivere. Nasce di qui la “lotta per la vita e per la morte”, perché ciascuna autocoscienza deve
dimostrare, a se stessa e all’altra, che per lei la sua natura di autocoscienza conta più della vita, del suo essere naturale. Il primo risultato di questa lotta è un rapporto ineguale (quello del servo e del signore), in cui per l’appunto il riconoscimento fallisce. La vicenda dei rapporti intersoggettivi tuttavia non termina qui, ma prosegue lungo tutto il percorso della Fenomenologia. I nodi principali si trovano nella sezione sulla ragione e poi al termine del capitolo sullo spirito. Nel primo caso Hegel mostra che la “cosa stessa”, cioè la realtà spirituale e sociale in cui siamo collocati, è il frutto dell’”operare di tutti e di ciascuno”, ossia è il risultato dell’intreccio dei molteplici rapporti intersoggettivi tra le diverse autocoscienze. Il cammino dello spirito poi, giunto all’ultima tappa dell’”anima bella”, vede divampare lo scontro tra la “coscienza agente”, che passa all’azione e si sporca le mani con i conflitti inevitabili sul terreno della storia, e la “coscienza giudicante”, che per mantenere la sua purezza di anima bella rifiuta ogni coinvolgimento pratico e condanna i compromessi a cui l’altra coscienza deve sottostare. Il punto finale è segnato dal “perdono tra le coscienze”, ossia dalla riconciliazione delle due parti, che riconoscono ciascuna i propri torti e le buone ragioni dell’altra. Il percorso dello spirito termina dunque con un ultimo rapporto intersoggettivo, che stavolta riesce e realizza la forma compiuta del riconoscimento: in questo modo, commenta Hegel conclusivamente, lo spirito assoluto entra nel mondo. Il contributo di Hegel è molto importante non soltanto perché introduce in filosofia il tema dell’intersoggettività, ma anche perché mette in questione tutta l’impostazione della filosofia politica moderna. Fin dai suoi inizi con Machiavelli e Hobbes quest’ultima concepisce l’uomo come un individuo, che deve lottare con i suoi simili allo scopo di mantenere se stesso. Ma questa lotta per l’autoconservazione (Selbsterhaltung) assume facilmente i tratti di una lotta per l’autoaffermazione (Selbstbehauptung), in cui per mantenersi il soggetto deve escludere l’altro: è molto difficile, in tali condizioni, creare uno spazio comune che renda possibile una vera convivenza. Hegel rovescia questa impostazione: la struttura costitutiva del soggetto include, come componente essenziale, i suoi rapporti con gli altri, sicché risulta impossibile, fin dall’inizio, concepire le relazioni sociali in termini atomistici. I rapporti intersoggettivi si estendono naturalmente a tutti i livelli dell’esperienza, dall’ambito familiare e affettivo al piano dei rapporti economici e politici. A tutti i livelli può accadere che il soggetto non sia soddisfatto del rapporto in cui si trova e lotti perché il suo contributo e il suo ruolo venga riconosciuto; ma questa lotta per il riconoscimento (Kampf um Anerkennung) non ha il carattere escludente della guerra di tutti contro tutti di Hobbes: io lotto non per annientare l’altro, ma per allargare lo spazio comune, affinché in esso trovi posto il riconoscimento dei miei diritti, accanto a quello delle ragioni dell’altro. In questo modo Hegel critica alla radice l’individualismo moderno e al tempo stesso apre la strada a una considerazione dei rapporti intersoggettivi che tiene conto non soltanto dei rapporti di fatto, ma anche della dimensione etica e normativa. Dopo l’eclissi della filosofia hegeliana nella seconda metà del secolo, il tema dell’intersoggettività ritorna in grande stile nel Novecento con Husserl, che è il fondatore della fenomenologia e anche l’autore dell’ultimo grande progetto di una filosofia del soggetto. Di fronte alla crisi della scienza del suo tempo, Husserl ripete a modo suo il percorso cartesiano. Allo scopo di costruire la filosofia come “scienza rigorosa” egli sospende il giudizio sull’esistenza del mondo; da questo passaggio attraverso il dubbio egli esce con una nuova formulazione del cogito, in cui l’io non è più, come in Cartesio, “un pezzo di mondo”, ma un soggetto trascendentale. Anche in Husserl, come già in Cartesio, si profila a questo punto il rischio del solipsismo: per superarlo, e per tornare al mondo concreto, non è possibile fare appello a Dio, che sarebbe una garanzia extrafilosofica. L’unica via che resta passa attraverso la ricostruzione dell’altro soggetto, che sola permette la costruzione di un mondo comune. Con questa impostazione Husserl mette in luce il carattere enigmatico che riveste sempre il nostro rapporto con l’altro soggetto: noi entriamo sì in comunicazione con lui, ma non possiamo metterci nei suoi panni,
vedere il mondo dal suo punto di vista; quello che ci resta è la possibilità di ricostruire la sua prospettiva attraverso un’analogia con la nostra esperienza. Come si vede la via percorsa da Husserl privilegia nettamente la dimensione teoretica del rapporto intersoggettivo; essa inoltre resta dubbia nei suoi esiti perché, come ha mostrato lucidamente Ricoeur, oscilla tra l’intenzione di riconoscere pienamente l’alterità dell’altro e i limiti costitutivi di un’impostazione che parte sempre dal punto di vista del soggetto. Io riconosco sì l’altro nella sua indipendenza, ma sono sempre io a costruirlo. Anche nella soluzione di Husserl continua a pesare quella strategia della riduzione al minimo che abbiamo già incontrato nella filosofia cartesiana. Nella prospettiva di Hegel, dunque, il soggetto è già da sempre collocato in una trama di relazioni con gli altri soggetti, e non può essere considerato adeguatamente se lo si isola dall’insieme di questi rapporti. Con Husserl, al contrario, ritorna la soluzione cartesiana, che fa del soggetto il punto di partenza assoluto dell’analisi. Questa alternativa si ripresenta dunque in tutta la sua ampiezza ai filosofi del Novecento. Heidegger, almeno su questo punto, si colloca dalla parte di Hegel: non si dà un soggetto senza mondo, né un io isolato dagli altri (Essere e tempo, § 25). La sua analisi del con-esserci come modalità dell’essere-nel-mondo non apporta tuttavia risultati particolarmente rilevanti sul nostro tema, e in generale si deve dire che l’intersoggettività non è una delle questioni che gli stanno più a cuore. Sartre comunque si richiama a lui quando affronta il nostro tema ne L’Essere e il nulla: non solo Husserl, ma anche Hegel, a suo dire, s’arrestano al livello puramente conoscitivo, mentre Heidegger raggiunge il vero terreno su cui impostare la questione, che è quello ontologico; in lui il soggetto è “un essere che implica l’essere d’altri nel suo stesso essere”2, e questo permette al filosofo francese di sviluppare la sua ricerca sul terreno ontico e concreto. Husserl resta comunque il punto di riferimento fondamentale della discussione contemporanea sull’intersoggettività, sia per la sua approfondita analisi dell’argomento sia, più in generale, per lo stile di ricerca che ha inaugurato. Molti autori rilevanti degli ultimi decenni, infatti, si muovono sul terreno della fenomenologia, o almeno ne prendono le mosse. Un filosofo che in gioventù è stato discepolo sia di Husserl che di Heidegger, e cioè Emmanuel Levinas, giunge addirittura a rovesciare l’impostazione di Husserl: non è più l’io a fondare l’altro, ma è piuttosto l’altro a fondare il soggetto. Il Tu mi si impone con il suo appello etico, con l’istanza insopprimibile che viene dal suo volto; con questa prospettiva Levinas intende rovesciare il primato della teoria e più in generale l’intera impostazione della filosofia occidentale, che ha sempre cercato di costruire un’ontologia della totalità, e ha finito così per escludere dal suo campo visivo la considerazione della sofferenza e dei bisogni concreti degli uomini, e in particolare degli emarginati. Nella prospettiva di Levinas l’etica diventa dunque la filosofia prima, e il soggetto è attraversato, fin dall’inizio e fin nelle sue più intime fibre, dal rapporto con l’altro. Tra le opposte soluzioni estreme di Husserl e di Levinas, che esaltano rispettivamente il primato dell’Io e quello dell’altro, Ricoeur offre una prospettiva più complessa, ma anche più aderente alla costellazione problematica in cui si colloca il tema del soggetto per noi. L’identità che si può riaffermare oggi non è quella dell’idem, del medesimo che si mantiene immutabile, ma quella dell’ipse, che si mette in gioco nel percorso dell’esperienza e solo così si ritrova e si riafferma. Non è dunque un’identità garantita in partenza, e neanche pura e indenne da commistioni: essa è attraversata da un rapporto costitutivo all’alterità, che è anzitutto quella del mio corpo e poi quella degli altri con cui entro in rapporto. Una linea di ricerca importante è quella coltivata, pur con accentuazioni differenti, da J. Habermas e da K.-O. Apel. Questi pensatori condividono la critica alla figura del soggetto, qual è stata sviluppata da Cartesio fino a Husserl; la debolezza di questa figura, secondo loro, sta nel suo carattere individuale, “monologico”, che rende difficile il riconoscimento dell’alterità. Tale difficoltà può essere superata se si considera che il soggetto è fin dall’inizio collocato in
un contesto di rapporti intersoggettivi, quindi implica, nella sua stessa costituzione, il rapporto agli altri. Questa prospettiva permette di mantenere vivo, anzi di rilanciare, il grande progetto moderno fondato sulla ragione, senza cedere alla critica neoconservatrice del postmoderno: l’importante è riconoscere che la ragione ha un carattere originariamente intersoggettivo, comunicativo, e quindi ammette, per sua natura, il dialogo tra una pluralità di voci. Questa prospettiva viene sviluppata da Habermas mostrando che il soggetto si trova fin dall’inizio all’interno di una comunità della comunicazione, mentre Apel preferisce formulare un’argomentazione di tipo trascendentale, sostenendo che, ogni volta che qualcuno afferma sensatamente qualcosa, il suo discorso presuppone alcune “pretese di validità”, che hanno la loro fondazione ultima nella dimensione universale della ragione comunicativa. La ricerca di Habermas e di Apel contribuisce a rendere evidente che, nel dibattito contemporaneo, la riflessione sul soggetto è ormai strettamente legata a quella sull’intersoggettività. Inoltre le loro posizioni si aprono ormai alle domande, oggi molto vive, che riguardano la globalizzazione e il dibattito interculturale, come dimostra anche l’attenzione di Apel per la questione di un’etica planetaria. Nel complesso il dibattito degli ultimi anni rende evidente che l’interesse per il tema dell’intersoggettività si è fatto sempre più intenso, tanto che questo è oggi uno dei punti nodali della discussione filosofica. Nei decenni precedenti la riflessione si era concentrata sulla crisi del soggetto, sull’orizzonte nichilistico in cui veniva inquadrata, e sulla dimensione dell’individuo come luogo dominante della considerazione antropologica. In quella situazione si poteva pensare che la ricerca filosofica fosse giunta a una sorta di grado zero, a un livello minimo, sia quanto ai temi di sua competenza, sia quanto alla sua pretesa di offrire un contributo al dibattito culturale e alla convivenza civile. L’interesse per i rapporti intersoggettivi, proprio perché indica una via che va oltre la dimensione dell’individuo e oltre la concentrazione sulla crisi del soggetto, sembra segnare l’avvio di una fase più “ricostruttiva” e impegnata della ricerca filosofica. 3. Intersoggettività e intercultura nell’età della globalizzazione La linea più costruttiva, che negli ultimi anni sembra affermarsi almeno in alcuni settori del pensiero filosofico, si trova oggi di fronte a un nuovo orizzonte, segnato dall’avanzare del processo di globalizzazione e dal nuovo modo in cui si configurano ormai i rapporti tra le culture. La società globalizzata comporta alcuni mutamenti e anche nuove difficoltà per l’esperienza del soggetto, e di conseguenza impone un ripensamento sia della figura del soggetto, sia dei rapporti intersoggettivi; d’altra parte offre anche le condizioni per un rapporto più stretto tra uomini di culture diverse, e anche a questo livello sollecita un ripensamento ulteriore. Il processo di globalizzazione tende a rendere sempre più labili e incerti i rapporti dei singoli con le comunità in cui sono cresciuti e all’interno delle quali hanno avuto le prime esperienze di rapporto con gli altri; in questa “società dalle pareti sottili” (P. Sloterdijk) le forme di vita tradizionali vengono gradualmente erose, e al tempo stesso si presentano nuove e più incerte possibilità di incontro con altri esseri umani, anzi potenzialmente con tutti gli altri soggetti. Certo attraverso la rete di Internet o grazie alle altre forme di comunicazione planetaria è possibile, in linea di principio, incontrare qualunque altro essere umano; ma l’individuo che incontro in questo orizzonte globalizzato e omogeneizzato sembra essere una specie di soggetto privo di sfondo, un atomo antropologico che certo ha diritti e doveri, ma non ha un contesto, un “mondo della vita” concreto in cui io possa collocarlo. Sembra un soggetto privo di profondità, che ripete in questo una delle tendenze più marcate della cultura di oggi, per cui si tende a privilegiare, ad ogni livello, le dimensioni più superficiali e immediate dell’esperienza. La civiltà dell’immagine fa premio sulla civiltà dell’ascolto, e dove si ascolta sistematicamente l’individuo, ad esempio nei sondaggi, ciò che si vuole rilevare è sempre l’opinione del momento, il gusto o
l’orientamento considerato nella sua dimensione più immediata e superficiale: solo così, del resto, la risposta dei singoli può essere inserita nelle caselle predisposte di una statistica. La globalizzazione tende a omogeneizzare e a livellare le differenze. L’estensione dell’economia di scambio fino alla dimensione del mercato unico accresce il livello di quantificazione dei beni e delle risorse umane; d’altra parte l’impiego generalizzato di un unico idioma, l’inglese, come lingua franca e della tecnologia informatica, mentre estende le possibilità di comunicazione a una dimensione planetaria, contribuisce anche a una certa uniformazione delle culture: non succede soltanto che ci conosciamo di più e magari ci assomigliamo di più, ma accade anche che elementi concreti, dotati di forme specifiche e di un colorito locale, per essere resi comunicabili vengono stilizzati e quasi risucchiati in forme standard più astratte e generiche. La tendenza principale del processo di globalizzazione comporta quindi un certo appiattimento nei rapporti tra gli uomini; questo non significa però che venga meno il bisogno fondamentale dell’uomo, di sviluppare la sua esperienza in rapporto con altri esseri umani. Il soggetto nell’epoca della globalizzazione può incontrare più soggetti che in passato, e tendenzialmente l’incontro ha un carattere più standardizzato e livellato. Una novità fondamentale in questo panorama della nostra epoca è che è molto più facile incontrare soggetti che provengono da altre culture, anche radicalmente diverse dalla nostra. Il problema dell’incontro tra soggetti provenienti da culture diverse e più in generale la questione del confronto e del dialogo tra le diverse tradizioni e culture si era già presentato a più riprese in passato, e anzi si può dire che s’intrecci fin dall’inizio con la storia della civiltà e della riflessione dell’Occidente. Tuttavia oggi esso ha assunto una forma molto più intensa che in precedenza, e costituisce uno dei nodi fondamentali dell’esperienza contemporanea, così da imporsi come un tema ineludibile anche per la riflessione filosofica. Su questo punto è opportuno che la filosofia faccia appello al contributo della teologia, perché in ambito religioso il tema del dialogo con le altre tradizioni è stato avvertito assai presto in modo acuto, e ha già suscitato un ampio spettro di ricerche e di riflessioni. L’emergere del pluralismo ha portato ben presto molti teologi cristiani, e anche diverse chiese, a prendere nettamente le distanze dalla più chiusa e tradizionale prospettiva dell’esclusivismo, secondo cui non v’è salvezza fuori della chiesa. La maggior parte delle posizioni teoriche che sono state sviluppate in questo processo si è potuta raccogliere sotto l’etichetta dell’inclusivismo: la sua tesi è che la vera salvezza è in Cristo, ma questa ricomprende in sé e invera gli elementi positivi presenti nelle altre religioni. Questa posizione, che si presenta a prima vista come aperta e insieme equilibrata, non è però del tutto innocua: essa infatti implica l’ammissione che anche le altre tradizioni contengono reali elementi di salvezza. Una volta imboccata questa strada, ad alcuni teologi è parso che l’unica opzione coerente fosse quella di percorrerla fino in fondo, fino cioè a riconoscere che tutte le grandi religioni hanno eguale valore e dignità. Questo passo è stato compiuto da John Hick, che ha dato così una formulazione esemplare alla tesi radicale del pluralismo. Questa prospettiva si presenta per Hick come una nuova rivoluzione copernicana: nel grande processo culturale grazie a cui le civiltà si incontrano e si confrontano, il mondo occidentale non può continuare a pensare di occupare il punto centrale; analogamente sul piano religioso occorre abbandonare la vecchia prospettiva cristocentrica, e collocare decisamente Dio al centro dell’universo religioso. Il cristianesimo con questo non perde affatto la sua dignità, ma diventa una delle molteplici vie attraverso cui gli uomini esprimono la loro risposta all’unica realtà divina. La Realtà ultima, come il noumeno kantiano, risulta in sé in conoscibile per l’uomo; tuttavia essa si fa in qualche modo presente nell’esperienza umana, e le grandi tradizioni religiose rappresentano altrettante interpretazioni di questa Realtà e cercano tutte di elaborare la risposta dell’uomo all’incontro con essa. Perciò a tutte le grandi religioni dobbiamo riconoscere, secondo Hick, eguali diritti e pari dignità. La proposta di Hick ha suscitato molte discussioni e anche vivaci critiche. Queste
ultime sono venute non soltanto da posizioni conservatrici, ma anche da teologi che condividono l’atteggiamento di apertura dei pluralisti, ma intendono elaborare una soluzione più articolata e adeguata ai problemi posti dal dialogo interreligioso. Sul piano del metodo si è rilevato che i pluralisti, per affermare la pari dignità delle altre tradizioni, le presentano come altrettante varianti di un’unica essenza del religioso, che è concepita secondo i moduli tipici dell’esperienza e del pensiero dell’Occidente. Sul terreno teologico si è osservato che la proposta di relativizzare la figura di Cristo pregiudica fin dalle premesse l’intero corso del confronto: se infatti uno dei partner abbandona fin dall’inizio la propria posizione, questa mossa anziché favorire il dialogo lo rende impossibile, perché significa che non si attribuisce veramente valore alla propria concreta esperienza religiosa, e in fondo neanche a quella degli altri. Nel dibattito che si è sviluppato su questi temi sono emersi alcuni elementi importanti, che si possono a mio parere considerare acquisiti. Anzitutto si è fatta strada la convinzione che il problema del confronto tra le culture e le religioni non può essere affrontato adeguatamente nell’ambito di un pensiero oggettivante, che pretenda di fornire una descrizione panoramica delle posizioni, quasi collocandosi al di fuori del confronto. Noi siamo interessati al dialogo proprio perché ne facciamo parte, occupiamo una delle posizioni che sono in gioco. Il nostro pensiero è sempre collocato e prospettico, noi non possiamo fornire una descrizione neutrale della nostra tradizione, ma in realtà neppure delle altre, perché le osserviamo e le apprezziamo solo sulla base della nostra specifica esperienza. Questo primo esito del dibattito converge evidentemente con la prospettiva generale dell’ermeneutica, ed è maturato anche grazie ai contributi di studiosi che ad essa fanno esplicitamente riferimento, come i teologi Claude Geffré e David Tracy e come lo stesso Paul Ricoeur. Il fatto che il nostro pensiero sia inevitabilmente situato e prospettico, d’altra parte, non va inteso in senso relativistico. Noi siamo interessati al dialogo proprio perché siamo situati; dunque per la stessa ragione siamo aperti all’altro e alla dimensione universale che ci ricomprende tutti. Il pensiero è sempre collocato in un punto e insieme in relazione a ciò che sta fuori di quel punto e contribuisce a determinare la sua posizione. Buona parte dei contributi teologici degli ultimi anni si sono impegnati a enucleare il carattere relazionale dell’esperienza e del pensiero: in questo ambito vanno segnalati in particolare i lavori di Claude Geffré e di Jacques Dupuis, che hanno sottolineato fortemente la dimensione relazionale della rivelazione cristiana. Il contributo più significativo all’elaborazione teorica di questi temi è venuto da due teologi americani, il protestante John Cobb e il cattolico David Tracy. Il primo si è dedicato a una lunga e approfondita esperienza di dialogo con alcuni esponenti del buddismo Mahayana: muovendo di qui ha criticato la prospettiva essenzialista di Hick e sviluppato la sua tesi, presentandola come “pluralismo radicale”. Non è vero che esista un’unica essenza o un unico centro dell’esperienza religiosa; piuttosto v’è una pluralità di centri, in sé autonomi, ma collegati almeno ad alcuni altri: si può pensare a una rete, in cui v’è uno scambio tra alcuni nodi. Ogni tradizione è unica, però è anche aperta e dinamica, e almeno alcune delle grandi tradizioni sono rivolte al confronto perché lo impone la loro rivendicazione di validità universale. Nel corso del dialogo, le diverse istanze di validità giungono a confrontarsi tra loro; non si può pensare, come si è fatto finora, che basti ampliare in modo lineare la propria prospettiva per farne l’universale assoluto, valido e cogente per tutti. Piuttosto accade che nel corso del confronto le diverse prospettive sono messe alla prova e proprio da questo rapporto con le altre sono costrette a rivedersi ed eventualmente a trasformarsi, non solo nelle loro credenze specifiche, ma anche nelle linee direttive che le reggono. La sfida del dialogo richiede dunque che ciascuna tradizione sappia arricchirsi e trasformarsi attraverso il confronto, pur rimanendo fedele al proprio passato. In questa apertura relazionale del pensiero normativo consiste il contributo teorico più rilevante della proposta di Cobb. L’indagine di Tracy è invece rivolta a esplorare l’alterità in tutte le sue dimensioni, sia individuali che collettive, e a mostrare come questi diversi
livelli dell’esperienza interagiscono tra loro. Il pluralismo, secondo lui, non è soltanto una realtà esterna, che sperimentiamo quando incontriamo religioni e culture diverse dalla nostra; ma, altrettanto profondamente, esso è una realtà interna, che esperiamo dentro la nostra tradizione, come all’interno della nostra stessa individualità. Sul piano individuale egli mostra come dentro di noi viva la traccia di quell’altro radicale che è l’uomo arcaico, il cosiddetto primitivo, che nonostante i tentativi di espellerlo resta presente nei nostri sogni e terrori, come nei rituali della nostra vita quotidiana. Sul piano collettivo Tracy sottolinea che dentro ogni religione sono presenti diversi filoni, che con qualche variazione si ritrovano anche nelle altre: quelli principali sono secondo lui il filone etico-profetico e quello mistico-metafisico-estetico. La forma più adeguata di rapporto con l’alterità che Tracy propone ed elabora è quella dell’immaginazione analogica. L’analogia è uno dei grandi linguaggi della tradizione cristiana: essa si configura come un modo di riconoscere e interpretare somiglianze nella diversità, e si presenta quindi come la chiave più adeguata per vivere e intendere la situazione del pluralismo. Nel corso del confronto, io scopro nell’altro un elemento simile alla mia esperienza, ad esempio la compassione buddista che richiama la carità cristiana: a partire di lì articolo e sviluppo le somiglianze sullo sfondo della diversità. Questo procedimento mi permette di approfondire la conoscenza dell’altro senza inglobarlo nella mia prospettiva e d’altra parte senza abbandonare la mia posizione, che tuttavia può essere arricchita dal dialogo. In questa proposta di Tracy il carattere relazionale dell’esperienza è pensato in modo radicale e sviluppato su un piano di vera parità, senza nessuna caduta nel relativismo. L’intensità del dibattito interreligioso e più in generale l’esigenza di un dialogo tra le culture nel difficile contesto del mondo contemporaneo dimostrano che uno dei compiti più urgenti, per il pensiero filosofico, è quello di ripensare le condizioni del confronto. In particolare occorre, secondo me, tornare a riflettere sul tema dell’universalità, intesa come quella dimensione che permette a soggetti diversi, e specialmente a soggetti che provengono da culture e tradizioni diverse, di comunicare e di confrontarsi tra loro. Questo compito è reso più impegnativo dal fatto che, come s’è visto, ognuna delle prospettive in gioco è collocata in un punto determinato, e non può quindi aspirare a una visione panoramica dell’intero. Il nostro pensiero è situato e relazionale, e anche l’universale va pensato in termini relazionali. Anzitutto è necessario distinguere tra due nozioni ben diverse di universalità. V’è una prima concezione, che la intende come la proprietà, attribuita a un concetto o a una norma, di valere senza eccezione per tutti i casi che si possono presentare, prescindendo dalle differenze specifiche. Questo universale a priori, che riduce ogni particolare alla sua misura omogenea ed esclude il pluralismo, presuppone proprio quella veduta panoramica e oggettiva che, come abbiamo visto, non ci è dato di raggiungere. V’è però un’altra concezione dell’universalità, che la intende come l’orizzonte entro cui si svolge la comunicazione e che anzi la rende possibile: mentre il primo universale pretende che tutti pensiamo allo stesso modo, il secondo permette che ci parliamo e ci confrontiamo. Per articolare questa seconda concezione si può osservare che il pensiero dell’universale nasce e si sviluppa nella storia, e conosce alcuni momenti salienti proprio là dove si tratta di venire a capo di una forte esperienza di pluralità, come mostra la critica di Senofane alle tradizioni religiose o l’indagine dei deisti, volta a trovare un elemento minimo, comune a tutte le religioni e capace di assicurare la coesistenza. In questi casi il pensiero dell’universale è qualcosa che si produce in relazione all’esperienza concreta, che viene elaborato per entrare in un rapporto più ricco e più adeguato con essa, per farla risaltare nella sua concretezza e non per privarla dei suoi caratteri specifici. Alla radice della genesi dell’universale v’è sempre una presa di distanza nei confronti della concretezza; essa avviene di volta in volta nella storia, ma si connette a un dato antropologico di carattere generale, che qualifica gli esseri umani nei confronti degli animali. Intendo riferirmi a quel fenomeno della presa di distanza dall’immediatezza che l’antropologia filosofica, a partire da Scheler, ha
descritto come “apertura al mondo”. Questa presa di distanza opera una frattura nei confronti della realtà concreta e apre una dimensione formale, che rappresenta l’unico terreno possibile su cui può svolgersi un pensiero universale. Tale dimensione formale non è contrapposta al concreto; piuttosto è in relazione con esso, o meglio offre il terreno su cui ogni singola esperienza o prospettiva concreta può confrontarsi con le altre. Nella prospettiva qui delineata l’universale va pensato come una dimensione formale, che non richiede di ruotare intorno a un unico centro e non impone quindi una struttura gerarchica; esso non è un punto di vista o un centro che si tratta di conquistare per non essere esclusi dal gioco, ma uno spazio formale che permette al concreto di elaborare la propria particolarità in modo da comunicare e confrontarsi con gli altri3. Accanto a questa riflessione sul tema dell’universalità, v’è un’altra direzione di ricerca che s’impone, nelle condizioni attuali del confronto fra le culture e del mondo globalizzato. Occorre ripensare il tema del soggetto, tenendo conto del percorso che si è svolto fin qui e della nuova situazione in cui ci troviamo. Anzitutto è opportuno riconsiderare, e dove è il caso recuperare, quegli aspetti e quelle dimensioni del soggetto che il “principio del minimo” di Cartesio e la sua ricerca della certezza avevano escluso o messo ai margini. Il soggetto non è il punto di partenza assoluto o comunque il punto minimo da cui deve prendere le mosse l’analisi. Esso è già da sempre collocato in una trama di relazioni intersoggettive che occorre considerare fin dall’inizio e non come qualcosa di secondario che venga istituito dal soggetto; queste relazioni inoltre vanno indagate sullo sfondo dei rapporti tra le culture, come mostra la nostra analisi sul tema dell’universalità, che vale sia per i rapporti interculturali che per quelli intersoggettivi. L’identità del soggetto è segnata fin dall’inizio dal rapporto con gli altri. Essa tuttavia non va pensata come un dato già costituito fin dall’origine, ma come una dimensione che il soggetto cerca e costruisce, e che è sempre in gioco nel corso della sua esperienza; e non va dimenticato che questa identità, che il soggetto cerca, passa anche attraverso il riconoscimento degli altri. Come ha mostrato la ricerca condotta fin qui, e specialmente la riflessione sui rapporti interculturali, la dimensione dell’alterità non è soltanto qualcosa che incontriamo fuori di noi, ma è una realtà che penetra profondamente all’interno della nostra esperienza: il soggetto è già in sé plurale, e in questo senso vanno valorizzate e sviluppate le indicazioni di Tracy sulla presenza dell’altro dentro di noi e sul pluralismo interno alle culture e alle religioni. Esse del resto convergono con le osservazioni di diversi filosofi che riflettono sulle condizioni del mondo globalizzato, da Bernhard Waldenfels ad Amartya Sen, e in un senso più ampio sono in sintonia con le riflessioni già ricordate di Ricoeur sul tema del “sé come un altro”. L’impostazione cartesiana e husserliana ha privilegiato la dimensione teorica della questione del soggetto, ma oggi risulta chiaro che il tema può essere affrontato adeguatamente solo se lo si considera in tutta la sua ampiezza e complessità. Anzitutto bisogna riconoscere che la dimensione etica entra profondamente a costituire la figura del soggetto come pure i rapporti intersoggettivi; inoltre l’indagine su questi temi non può limitarsi al livello razionale dell’esperienza umana, ma deve includere una riflessione approfondita sulla sfera del sentimento e del desiderio, come pure su quella della corporeità. In questo quadro più ampio l’indagine specificamente filosofica sul soggetto potrà trarre vantaggio dal confronto con altre linee di ricerca, ispirate anche da un interesse religioso, che hanno indagato temi connessi all’esperienza soggettiva e intersoggettiva: penso in particolare alla millenaria riflessione sul tema dello spirito, che ormai da tempo ha superato la contrapposizione tradizionale tra spirito e corpo e si è volta fruttuosamente a riflettere sullo spirito inteso come dimensione dell’esperienza; e penso anche alle ricerche sulla nozione di persona, che sono state spesso ispirate da una preoccupazione etico-religiosa rivolta a difendere i contenuti tradizionali di fronte all’incalzare dell’esperienza e della cultura moderna, ma che hanno comunque evidenziato aspetti significativi dell’esperienza soggettiva. La questione del soggetto resta dunque fortemente attuale per la riflessione filosofica; le ricerche condotte fin qui hanno permesso di scartare alcune
soluzioni parziali, come ad esempio l’impostazione puramente teorica dell’argomento. Nel tempo si è imparato a vedere la figura del soggetto nella sua complessità e problematicità, e forse anche a guardarla più da vicino. In ogni caso resta assodato che l’indagine sul soggetto non è conclusa, e che essa oggi si lega strettamente a quella sui rapporti intersoggettivi: non si può studiare il soggetto senza tematizzare i suoi rapporti con gli altri, non si possono indagare le relazioni intersoggettive senza riflettere sempre di nuovo sul tema del soggetto. Queste note finali implicano già una presa di posizione critica verso l’esaltazione dell’individualismo che pervade alcuni filoni della cultura contemporanea. Al tempo stesso esse intendono segnalare i nuovi cammini che occorre percorrere alla luce delle nuove sfide e delle nuove opportunità che si presentano nell’orizzonte dell’incontro fra le culture e del mondo globalizzato. La tendenza alla standardizzazione e all’appiattimento del soggetto moltiplica le possibilità di relazioni intersoggettive, ma insieme minaccia di rendere più scontati e superficiali i rapporti; l’incontro tra culture diverse rende problematico il rapporto con l’altro che viene da lontano. Al tempo stesso, però, l’urgenza dei problemi indotti dal pluralismo suscita nuove energie, e in particolare costringe a uno sforzo più intenso per individuare ed elaborare quegli elementi comuni che rendono possibile l’incontro dei soggetti e delle prospettive diverse. NOTE 1 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990, trad. it. Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993. 2 J. -P. SARTRE, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943, trad. it. L’essere e il nulla, di G. del Bo, EST, Milano 1997, p. 292. 3 Per una trattazione più approfondita intorno al dibattito interreligioso e alla nozione di universalità rimando ai miei saggi: Pluralità e universalità nel dibattito interreligioso, in Esperienza e libertà, a cura di P. Coda e G. Lingua, Città Nuova, Roma 2000, pp. 63-86, e La dimensione dell’universalità e l’esperienza ermeneutica, in L’universale ermeneutico, a cura di G. Nicolaci e L. Samonà, Tilgher, Genova 2003, pp. 47-69. *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*
DALL’INTRAPSICHICO ALL’INTERSOGGETTIVO: LA NARRAZIONE COME METAFORA DELL’INCONSCIO LUCA CHICCO E FRANCA AMIONE
La possibilità di accogliere nell’ambito della cultura, intesa in senso lato, l’esistenza del concetto di inconscio, transitato dalla filosofia, in particolare attraverso Leibniz, Kant e Schopenauer, alla medicina con Freud e poi, ancora, per il suo tramite, alla psicologia, presuppone un importante passaggio epistemologico da un materialismo e sperimentalismo unicamente centrati sugli aspetti direttamente osservabili dei fenomeni e sulle loro relazioni, a riflessioni e paradigmi di indagine e di ricerca volti a delineare, invece, la peculiarità dei fenomeni della vita psichica inconsapevoli e soprattutto la centralità degli affetti. Se da un lato, infatti, anche in seno alla psicologia stessa, nella difesa del rigore e della scientificità sperimentale, è stata via via posta grande attenzione allo studio dei processi di pensiero spiegati in base all’azione di strutture organizzate a vari livelli e in modi diversi, ma tutti, in fondo, riconducibili a principi generali di funzionamento della mente che rispecchiano sostanzialmente la logica della fisica e della matematica, dall’altro, tuttavia, in uno sforzo di
spiegare fenomeni psicologici complessi, si è anche passati a considerare quegli aspetti attinenti alla sfera dell’affettività e delle emozioni consapevoli e non che, insieme alla realtà storica e culturale cui appartengono gli individui, possono fornire preziosi elementi di conoscenza, comprensione ed interpretazione sul comportamento umano. È in quest’ottica, dunque, che può essere inserito il concetto di inconscio il quale ha trovato un’ampia collocazione teorico-clinica, in particolare, nell’ambito dei modelli psicodinamici anche se, essi stessi, nel corso del tempo, lo hanno definito in termini sempre più plastici e dinamici favorendo il passaggio da una visione meccanicistica e causale dell’accadere psichico, molto presente nei primi lavori di Freud, ad una più centrata sui processi di evoluzione della mente e sulla dinamica intrapsichica ed interindividuale. In altre parole cioè, la psicoanalisi, in particolare dagli anni settanta in poi, ha, sempre di più, posto in secondo piano il concetto di causa nel trattamento del disturbo psichico per ricorrere, invece, a modelli teorici e di intervento intesi in senso narrativo ovverosia centrati sulla costruzione di significati collocabili nell’area di transizione tra realtà esterna e condivisa e mondo interno e degli affetti del soggetto (Bion, 1971). Il compito dell’analista non consiste più, quindi, nel far riemergere in coscienza materiali depositati in maniera defintiva nell’inconscio, ma nell’aiutare il paziente a riscrivere la propria storia di vita in un modo che si imponga sulla precedente con maggiori coerenze e persuasività. Tentando, quindi, di fornire una definizione di inconscio che tenga conto di tutta la complessità che da Freud ad oggi è venuta delineandosi nell’orizzonte teorico cui le diverse teorie psicoanalitiche fanno riferimento, si può dire che esso può essere connotato, da un punto di vista descrittivo, come aggettivo che si riferisce a tutti quei contenuti psichici che non compaiono nell’orizzonte attuale del qui ed ora della coscienza, da un punto di vista topico, invece, come luogo dell’apparato psichico dove si trovano tutti quei contenuti a cui è stato rifiutato l’accesso al sistema conscio tramite rimozione (Galimberti, 1999). Certamente, come già sopra detto, fu Freud, in particolare dal 1915, il primo studioso a proporre una teoria esplicita che desse significato e sistematicità al concetto di inconscio stesso, suddividendolo in inconscio descrittivo ed inconscio dinamico. Tuttavia l’estrema complessità nell’utilizzo teorico-clinico di questo concetto ha determinato, in seno al movimento psicoanalitico stesso già ai tempi di Freud, forti conflitti esitati in scissioni che hanno prodotto punti di vista significativamente diversi fra loro. Sarà interessante infatti focalizzare, nelle considerazioni che seguono, gli elementi di divergenza con Jung, il quale giunse, fra l’altro, all’estremo opposto rispetto a Freud nella concettualizzazione dell’inconscio, per capire soprattutto quali implicazioni questo dibattito possa avere, al di là della clinica e della terapia, nella comprensione ed analisi di contesti relazionali complessi come quelli attuali e sul piano esistenziale in senso più ampio. 1. L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI INCONSCIO IN FREUD E NEI POST-FREUDIANI La teoria psicoanalitica di S. Freud introduce nell’epistemologia scientista della fine ‘800 un cambiamento di prospettiva grazie al ricorso a due nuovi concetti esplicativi: quello di esperienza psichica inconscia e quello relativo all’efficacia dinamica di bisogni e desideri. In particolare, ne La rimozione, Freud (1915) distingue il desiderio o pulsione dal bisogno o istinto. Mentre quest’ultimo, infatti, deve essere soddisfatto e non può cambiare il suo oggetto e la sua meta, il primo può spostare il suo oggetto e la sua meta andando incontro, non essendo soddisfatto, alla rimozione. Quest’ultima è un meccanismo di difesa che opera in due fasi: nella prima, alla rappresentazione psichica della pulsione viene interdetto l’accesso alla coscienza, nella seconda, sono i derivati psichici di questa rappresentazione ad essere rimossi. Ne deriva un concetto dinamico ed energetico in cui la rimozione viene a trasformare la pulsione in rappresentazione e viene quindi ad aumentarne il potenziale nell’inconscio (Mancia, 1994). In base a questi assunti la dimensione psicologica non è spiegata soltanto come complesso di
risposte a stimoli esterni, ma anche, e soprattutto, in termini di sollecitazioni interne che si originano a partire dall’area dei bisogni: è il bisogno, infatti, che tendendo all’appagamento, muove l’organismo in un ambiente percepito come potenziale fonte di sollecitazione. La percezione e la coscienza del mondo esterno, di conseguenza, non sono concepite come pure e neutrali attività di contemplazione, ma come interpretazioni conoscitive interessate, parziali, legate ai bisogni. I fenomeni coscienti, ed in questo si può dire che stia la rivoluzione copernicana operata da Freud, non vanno identificati con l’esperienza psichica stessa: essi ne costituiscono solo un aspetto, il più superficiale, al di là del quale si colloca l’area, assai più vasta, dei contenuti inconsci e rimossi. 0 Fonte: L’Io e l’Es (Freud, 1913) Nel modello introdotto da Freud, la coscienza perde il suo connotato di contenitore della vita psichica: coscienza è solo una dimensione che alcuni eventi psichici hanno nella risonanza soggettiva e che possono essere portati nella relazione analitica. La presenza di eventi psichici inconsci è strettamente connessa alla concezione dinamica e conflittuale dell’apparato psichico, infatti, l’inconscio non è costituito tanto da ricordi dimenticati che possono tornare alla memoria attraverso processi di attenzione quanto, piuttosto da ricordi rimossi, i quali, a causa di una forte conflittualità tra il bisogno che essi rappresentano e le esigenze di controllo normativo, sono stati censurati o respinti dalla coscienza. Il materiale inconscio è attivo nel nostro mondo interiore e accompagna e condiziona l’attività conscia intesa nei termini di percezione e pensiero ed il comportamento. I contenuti psichici per Freud vanno intesi in termini di rappresentazioni; nella coscienza, infatti, come nell’inconscio non ci sono oggetti materiali e neppure tendenze e bisogni biologici, ma soltanto le loro rappresentazioni (Freud, 1900). Strettamente legato al concetto di rimozione, l’inconscio viene a coincidere con l’insieme dei contenuti psichici rimossi ed il criterio per definire l’appartenenza a tale sistema non è la struttura dei contenuti mentali, ma la qualità di non accesso alla coscienza, causata appunto dalla rimozione. Con il procedere del lavoro clinico di Freud, però, in particolare sulle nevrosi ossessive, si fa progressivamente strada la tendenza, formulata chiaramente, a considerare l’inconscio non tanto come insieme di contenuti ma come struttura o sistema, intesa come insieme di regole o di leggi che stabiliscono particolari relazioni tra le rappresentazioni mentali o tra gli oggetti di tali rappresentazioni, come un’agenzia costruttrice di pensieri in costante intreccio con il modo di esistenza della coscienza. Si delinea, quindi, l’idea di inconscio strutturale accanto a quello contenutistico che si caratterizza come un vero e proprio modo di essere della mente, una modalità di entrare in relazione con il mondo esperenziale. Ne L’inconscio (1915), Freud ribadisce che la pulsione è l’oggetto della rimozione, ma il rimosso non esaurisce la sfera dell’inconscio, quest’ultimo infatti ha un’estensione più ampia, viene, quindi, proposto un inconscio non rimotivo accanto a quello prodotto dalla rimozione. Sempre in quest’opera, lo studioso precisa che la pulsione non può mai diventare, di per sé, oggetto della coscienza, ma lo può la sua rappresentazione. Le rappresentazioni interne delle pulsioni costituiscono lo zoccolo duro dell’inconscio e sono fuori dal tempo e dalla realtà, esse sono metastoriche e seguono il principio di piacere. Interessante, come ricorda Mancia (1994), è anche l’affermazione di Freud che paragona l’inconscio ad una popolazione preistorica della psiche, il cui nucleo è composto da formazioni ereditarie simili alle programmazioni genetiche degli istinti animali. In questo modo, Freud, ribadendo il carattere primario della pulsione, ha aperto una finestra su un campo di grande interesse per l’attuale ricerca cognitivista che attribuisce alla trasmissione ereditaria un ruolo
essenziale nello sviluppo di funzioni psichiche collegate alle emozioni e all’apprendimento. Intorno alle concettualizzazione teoriche elaborate da Freud a partire dal 1915 nell’opera L’Io e l’Es e L’inconscio i contributi successivi di M. Klein e dei post-kleiniani hanno portato un ulteriore allargamento della determinante inconscia spostando l’attenzione alla coscienza piuttosto che solo alla dimensione inconscia e al suo esistere. Il capovolgimento di prospettiva, ampiamente approfondito nel lavoro di Bion è avvenuto a partire dall’assunto che non esistono elementi o rappresentazioni da cancellare (il rimosso) quanto piuttosto esperienze da elaborare, laddove l’elaborazione stessa può approdare, in taluni casi, al risultato soggettivo della consapevolezza. L’impostazione teorica kleiniana e postkleiniana privilegia lo studio delle matrici da cui trae origine tutto lo sviluppo della mente nella dinamica delle rappresentazioni inconsce che si generano a partire e nell’ambito dei primi rapporti interpersonali madre/bambino. Qualunque evento mentale, consapevole, presuppone sottostanti processi inconsci e la natura di un pensiero non ha necessariamente bisogno del carattere della consapevolezza per esistere in quanto tale. In questa prospettiva ogni pensiero contiene in sé una catena di processi inconsci, da quelli più primitivi ed arcaici a quelli via via più evoluti, fino ad assumere non sempre e completamente, la qualità della consapevolezza.
2. JUNG: DALL’INCONSCIO INDIVIDUALE ALL’INCONSCIO COLLETTIVO Rispetto a Freud, Jung giunse a considerare una sorta di autonomia dell’inconscio suddiviso in inconscio personale ed inconscio collettivo, laddove il primo coincideva pressappoco con l’inconscio freudiano mentre il secondo assumeva un significato diverso e, per certi versi, più ampio. Esso viene così connotato da Jung (1935, pp. 35-40): “vi sono poi contenuti di origine indubbiamente sconosciuta, o per lo meno la cui origine non può essere individuata in un’acquisizione personale. Questi contenuti possiedono una spiccata peculiarità: il loro carattere mitologico. Producono l’impressione di appartenere non ad una persona in particolare, bensì piuttosto a tutta l’umanitàb. Non vi è assolutamente nulla di mistico nell’inconscio collettivo. Si tratta unicamente di un nuovo ramo della scienza, e ammettere l’esistenza di processi collettivi inconsci è in realtà soltanto conforme ad una sana razionalità umanas. Lo strato più profondo a cui possiamo pervenire nella nostra indagine sull’inconscio è quello in cui l’uomo non è più un individuo singolo e limitato, bensì si dilata e si fonde con l’essenza dell’umanità, non con la sua parte cosciente, ma con quella inconscia, quella che è comune a tutti noi”. Jung, in altre parole, non soltanto considera come un’ipotesi scientificamente fondata il fatto che, per orientarsi negli avvenimenti psichici individuali, si debba cercare di approfondire lo studio di quanto appartiene al patrimonio inconscio collettivo recante il segno dello spirito umano ma ritiene anche che l’osservazione dei meccanismi psichici individuali può costituire una pratica atta a penetrare i segreti di creazioni artistiche o di fenomeni storici più ampi. Per Jung l’inconscio individuale non è che una frazione ridotta della più vasta regione costituita dall’inconscio collettivo che è, in prima istanza, la memoria del gruppo etnico al quale l’individuo appartiene ma, in profondità, esso è costituito dalla sedimentazione di tutte le vicende storiche e persino biologiche dell’uomo. Il concetto di “inconscio collettivo” accompagnato dalla nozione di “archetipo” inteso come l’espressione di modelli collettivi fondamentali costituiscono il nucleo centrale della concezione junghiana della realtà psichica e sono il fulcro di un lavoro che è stato il frutto di un complesso intreccio di esperienza psicanalitica concreta e di vastissime conoscenze scientifiche ed umanistiche. Su questi due principi Jung si è esercitato in un continuo sforzo di apprendimento, diversamente, i suoi detrattori, invece, hanno sollevato obiezioni ma anche
incomprensioni e distorsioni più gravi, quali l’accusa corrente di misticismo, di oscurantismo e la frequente confusione tra “archetipi”, condizioni a priori strutturanti l’esperienza, e contenuti archetipicistoricamente definiti. Dalla lettura dei tre saggi pubblicati tra il 1934 e il 1954, appartenenti tutti alla piena maturità dell’autore, risulta evidente il vero e proprio rovesciamento operato da Jung nella concezione della dimensione psichica, vista non più come appendice personale dell’organizzazione biologica ma come l’aspetto manifestante degli istinti, la possibilità stessa di emanazione del loro dinamismo attraverso l’immaginazione e la creatività, intesa come capacità di rendere manifesto. Il materiale clinico portato da Jung, a sostegno delle sue ipotesi teoriche, proviene, dal lavoro con i suoi pazienti e dalla storia della cultura che suggerisce la percezione dell’altissima carica energetica propria alle immagini archetipiche che danno senso al dinamismo degli istinti, e nel contempo sottolineano l’estrema indefinitezza della potenza strutturante. La terapia consiste allora nel risalire dai simboli personali del paziente agli archetipi universali dell’inconscio collettivo. Essi sono rintracciabili nelle religioni, nelle filosofie, nei miti in cui troviamo una straordinaria consonanza di temi. La trasmissione degli archetipi è ereditaria, consistendo in una saggezza così radicale da strutturare, ad un tempo, la mente dell’uomo e la sua visione del mondo. In questo quadro di diffusione dello psichico, la libido viene intesa come una generica forza vitale che si organizza di volta in volta in funzioni particolari. La causa delle nevrosi non viene più attribuita al conflitto tra le pulsioni dell’Es e le esigenze poste dal mondo esterno ma ad un disarmonico funzionamento delle componenti intrapsichiche. Nei saggi Gli archetipi dell’inconscio collettivo, pubblicati per la prima volta nel 1935, ne Il concetto d’inconscio collettivo del 1936 e ne Sull’archetipo, con particolare riguardo all’anima sempre del 1936, è legittimato l’accostamento seppur prudente al pensiero platonico, operato esplicitamente più volte da Jung, così come sono possibili certi accostamenti al pensiero orientale da lui studiato in quegli anni. Indubbia e costantemente ribadita è, invece, l’adesione da parte di Jung alla teoria della conoscenza elaborata da Kant, in particolare al concetto dell’a priori. Tuttavia, l’espressione di archetipo la si trova già in Filone di Alessandria nella sua opera De opificium Mundi in cui si fa riferimento all’immagine che l’uomo ha di Dio, nel Corpus Hermeticum, una raccolta di sedici libri di carattere gnostico e misterico, Dio è chiamato la luce archetipica. Nello stesso modo “archetipo” è usato anche dagli alchimisti, ad esempio nel Tractatus aureus di Ermete Trismegisto “ come Dio che porta l’intero tesoro della sua divinitàcnascosto in sé come in un archetiponin quel modo stesso Saturno occultamente porta in sé le immagini dei corpi metallicii”. Tutto questo ci fa comprendere come fossero esistite già molto prima di Jung concettualizzazione sull’archetipo nei termini di immagini universali che, a ben guardare, possono essere riconducibili all’inconscio collettivo proposto da Jung stesso. Levy Bruhl, per designare le rappresentazioni simboliche nelle primordiali visioni del mondo, utilizza il termine representation collectives, ovverosia formule consce, tramandate sotto forma di “insegnamento esoterico”, tipica forma di trasmissione di contenuti collettivi originariamente derivati dall’inconscio. Non bisogna, comunque, dimenticare che anche la fiaba ed il mito sono la più familiare forma di trasmissione dell’archetipo trattandosi di forme letterarie specificamente organizzate per essere lungamente trasmesse. Tuttavia mentre la sua apparizione diretta, per esempio nel mito, risulta non sempre comprensibile, diversamente, nella forma dei sogni o delle visioni, l’archetipo rappresenta in sostanza un contenuto inconscio che viene modificato attraverso la presa di coscienza e per il fatto di essere percepito, a seconda della consapevolezza individuale nella quale si manifesta. Per questo occorre distinguere tra archetipo e rappresentazioni archetipiche, l’archetipo, infatti, in quanto tale, rappresenta un modello ipotetico, non evidenziabile, simile al modello di comportamento noto nella biologia (pattern of behaviour). Comprendere comunque che cosa sia da un punto di vista psicologico un archetipo è
un’operazione complicata. Nel mito, ad esempio, le rappresentazioni solari, lunari non sono necessarie all’uomo primitivo per spiegare oggettivamente un fenomeno, esse costituiscono un accadimento psichico. Per questo tutti i fenomeni naturali mitizzati, le stagioni, le fasi lunari, il moto del sole non sono allegorie, cioè parafrasi di un contenuto che è cosciente, ma simboli, modi di esprimere contenuti presagiti ma non ancora conosciuti, dove il conoscere è il socratico ricordare. La vita dell’inconscio collettivo, dunque, sbocca nelle rappresentazioni archetipiche del dogma e confluisce nel simbolismo del Credo e del suo rituale. Le immagini archetipiche sono così cariche di significato che non ci si chiede mai quale sia il loro significato e quando lo facciamo è con la ragione che tentiamo di spiegarcele. Per Adler e Freud, gli archetipi non rivestono alcun ruolo, tuttavia l’istinto sessuale o la spinta all’autoaffermazione non sono caratteristiche meramente personali, le pulsioni istintuali comuni sia all’uomo che agli animali hanno nella psicologia adleriana e freudiana grande influenza sulla psicologia personale tanto che la psicoterapia moderna si pone il compito di rendere espliciti e quindi coscienti tali istinti. Gli istinti sono vere e proprie forze dirompenti che molto prima di raggiungere un qualsiasi grado di coscienza perseguono i loro scopi intrinseci. Per questo essi hanno analogie molto strette con gli archetipi. Per Jung gli archetipi sono le immagini inconscie degli istinti stessi. In quest’ottica l’ipotesi dell’esistenza dell’inconscio collettivo non è più audace dell’assunto secondo il quale esistono gli istinti. Ma nella maggior parte dei casi le nevrosi non sono fatti privati ma fenomeni che per Jung sono “sociali”, nei quali l’archetipo corrispondente alla situazione viene attivato spesso in modo esplosivo e con esiti imprevedibili. Scrive Jung nella conferenza Il concetto di inconscio collettivo, pubblicata nel 1936:. . non v’è follia a cui la persona, sotto il dominio di un archetipo collettivo non possa soggiacere. Se trent’anni fa qualcuno avesse osato predire che il nostro sviluppo psicologico tendeva ad una riviviscenza delle persecuzioni medievali degli Ebrei, che l’Europa avrebbe di nuovo tremato davanti ai fasci romani e al passo cadenzato delle legioni e che un’arcaica svastica, invece della croce cristiana, avrebbe attirato milioni di guerrieri pronti a morire, sarebbe stato accolto come un mistico folle. ” Ecco quindi che ad un certo punto, all’umanità intera si presenta una situazione che corrisponde ad un dato archetipo e una forza istintiva si fa strada contro ogni ragione e volontà oppure produce un conflitto di dimensioni patologiche, cioè una nevrosi. Per questo gli sforzi dell’umanità sono stati interamente volti al consolidamento della coscienza tramite i riti e le rappresentazioni collettive, i dogmi che erano le muraglie erette contro i pericoli dell’inconscio. Per Jung, poiché gli archetipi sono relativamente autonomi richiedono un procedimento dialettico: il paziente attua senza saperlo la forma alchimistica della meditatio in un processo che di solito è drammatico e si esprime con simboli onirici legati a quelle forme di representation collectives che, sotto forma di motivi mitologici, hanno da sempre rappresentato e determinato processi di trasformazione. 3. LA SVOLTA NARRATIVA Tenendo conto dell’acceso dibattito generato a partire dalle differenti concettualizzazioni dell’inconscio poste, in particolare, da Freud e Jung, ma anche dalle evoluzioni che queste hanno avuto in seguito nell’ambito della psicologia clinica e, non solo, si può dire che è venuto delineandosi, di recente, un interessante approccio allo studio del comportamento umano focalizzato non tanto sui contenuti rimossi in un inconscio individuale e/o collettivo quanto piuttosto sui processi della narrazione intesi sia come percorsi individuali di attribuzione di senso, sia come pratiche collettive, socio-culturali o sistemiche di costruzione consensuale o co-costruzione di mondi esperenziali. Alcuni modelli più recenti
della stessa psicoanalisi, infatti, in particolare quello di Schafer e Spence, hanno evidenziato il fatto che continuamente raccontiamo storie su di noi a noi stessi e agli altri e che queste giocano un ruolo fondamentale, oltre che nella costituzione della nostra memoria biografica, anche del nostro inconscio. Da questo punto di vista, estremamente nuovo e ricco di suggestioni teoriche ed applicative, chi tenta di recuperare in coscienza il proprio passato attraverso un percorso di tipo psicoanalitico, si trova di fronte ad una riserva potenziale di esperienze fissate nella propria storia individuale e ne avvia un’ulteriore riorganizzazione con l’aiuto dell’analista che diventa, prima che interprete, un co-autore della nuova narrazione. Il tratto dominante di questo nuovo orizzonte teorico è, dunque, rappresentato dal tentativo di coniugare dinamicamente l’intrapsichico con l’interindividuale, il mondo degli affetti con il sistema di significati condivisi in una certa cultura all’interno di un processo dinamico narrativo costruttivo e ricostruttivo che renda il proprio percorso di vita dicibile a sé stessi e agli altri. 3. 1 Il pensiero narrativo Nell’attività di costruzione e di ricostruzione e, quindi, in ultima analisi, di appropriazione consapevole del proprio percorso di vita, l’attività del pensiero svolge un ruolo fondamentale in quanto permette all’individuo, oltre che di rappresentarsi la realtà, la possibilità di riflettere e di dare senso alle proprie conoscenze ed alle proprie esperienze. Smorti (1994), propone due modi differenti di pensare: uno logico-paradigmatico ed uno narrativo. Il pensiero logico-paradigmatico, efficace nella soluzione di problemi di tipo scientifico, impiega strategie di ragionamento della logica formale, costruisce leggi, è validato attraverso la falsificazione, ma può rivelarsi del tutto inadeguato nella soluzione di problemi di tipo sociale che l’individuo affronta nella sua vita quotidiana. Il pensiero narrativo, invece, per certi versi parallelo o complementare al primo, ha le sue proprie regole, le sue proprie funzioni nell’organizzare le modalità di adattamento al modo in cui si esprime il particolare etogramma della specie umana. Ad entrambi è comune il distacco dall’hic et nunc del campo senso-motorio immediato e la funzione di “mediare” la relazione con il mondo attraverso sistemi di significazione che lo riorganizzino, lo ricostruiscano e lo aprano ad orizzonti sconfinati. Il pensiero narrativo, in particolare, è dotato di una sua propria intelligenza che Ricoeur definisce narrativa nel senso di costruzione di entità significative, organizzazione semantica, configurazione interpretativa: è attraverso l’intelligenza narrativa che l’uomo può organizzare il caos, unificare il molteplice, dare una trama al magma dei personaggi e degli avvenimenti. Il pensiero narrativo, quindi, consiste in una sequenza organizzata secondo rapporti spaziotemporali di eventi esperiti, i contenuti rappresentati sono le azioni realizzate da un agente e le intenzioni che le hanno animate, si fonda sul principio della coerenza nel senso che, molto spesso, l’attivarsi di tale forma di pensiero è determinata dal fatto che si verificano, nel corso degli eventi, delle discrepanza o delle situazioni inattese. In altre parole, l’impiego del pensiero narrativo è legato all’esigenza, da parte dell’individuo, di dare senso ed un significato a situazioni avvertite come incongruenti, ovverosia apparentemente incomprensibili o che comunque non riescono a trovare collocazione all’interno di schemi interpretativi consolidati ed abituali. In questo senso Bruner (1986) attribuisce un ruolo fondamentale al pensiero narrativo soprattutto considerando la funzione che esso riveste nei termini di attribuzione e costruzione di un ordine significativo nel mondo e nelle esperienze. In particolare, lo studioso ne evidenzia le seguenti proprietà quali: sequenzialità: nella narrazione gli eventi sono disposti in un processo temporale e hanno una durata; particolarità ed incertezza: la narrazione tratta essenzialmente di avvenimenti e di questioni specifiche riguardanti le persone. Sono le persone a fungere da
soggetti della trama narrativa; intenzionalità: le persone compiono delle azioni, sono mosse da scopi e da ideali, posseggono delle opinioni, provano stati d’animo; opacità referenziale: nella narrazione il rapporto tra senso e referenza non è univoco. Il valore della realtà esterna è sospeso. È come se il narratore dicesse: “Ammettete che questo mondo immaginario che io vi presento sia reale, ed accettate per buone le cose che vi racconto”; componibilità eremeneutica: gli eventi che compongono una storia possono essere compresi unicamente in rapporto al più generale contesto che li contiene (circolarità tra il tutto e le parti); violazione della canonicità: nella narrazione c’è una fase di processualità “normale” nella quale le cose si svolgono secondo le attese: è questa la dimensione canonica della narrazione. Vi è anche, però, una violazione della canonicità quando si verificano fatti inaspettati. La narrazione, quindi, affronta contemporaneamente la canonicità e l’eccezionalità; composizione pentadica: una narrazione ben formata è composta da cinque elementi: attore, azione, scopo, scena, strumento; incertezza: la narrazione si svolge secondo un livello di realtà incerto. Svolgendosi su di un piano a metà strada tra realtà e rappresentazione gli interlocutori possono contrattare i significati da attribuire alla narrazione; appartenenza ad un genere: sebbene particolare e concreta, la narrazione può essere inserita in un suo genere o tipo. Le narrazioni, allora, si caratterizzano per il loro riferimento al concreto della realtà umana, vera o rappresentata ma comunque legata ad uno dei molteplici sensi dell’esistenza; per il legame con la vita emotiva ed i sentimenti; per la definizione di uno spazio valutativo in cui i fatti sono inquadrati; per il loro essere sempre rivolte a qualcuno, quindi comunicative; per la presenza di una dimensione soggettiva mai assente. Per capire cosa accade nel mondo dobbiamo inserire azioni ed eventi in una sequenza temporale che dia a ciascuno un suo significato; per capire gli altri dobbiamo collocare le loro azioni in un contesto narrativo; per capire noi stessi dobbiamo collocare le nostre azioni in una storia in cui la nostra vita assuma un senso. Di conseguenza “la propria identità cresce a mano a mano che aumenta la capacità di narrare le proprie esperienze e di ascoltare quelle degli altri. È attraverso i momenti narrativi che entriamo nell’universo semantico dell’altro, ci misuriamo continuamente per creare narrazioni condivise o contrapposte, diventiamo più consapevoli di quali credenze, valori improntano la nostra vita e quindi noi stessi “ (ivi, p. 18). Per questo, ogni incontro modifica il nostro modo di essere a patto che siamo in ascolto degli altri e di noi stessi; la narrazione degli altri s’intreccia, così, con la nostra in modo da tessere una continua trama che si modifica. Le storie sono dunque interpretazioni sulla vita e in quanto tali non sono soltanto rappresentazioni ma piuttosto ricostruzioni. In quest’ottica, anche il sé dell’individuo può essere inteso come un racconto continuo che si modifica ed è modificato da ciò che narra. Ogni sé è un narratore con un proprio stile che acquista consapevolezza della propria stabilità ma anche della mutabilità in conseguenza ai cambiamenti cui è sottoposto. Tramite la possibilità di raccontarsi come un resoconto di testi, agisce sia come narratore sia come attore. Il resoconto, infatti, non è solo la rappresentazione di un testo, o ciò che raccoglie ed organizza l’esperienza, ma anche ciò che la produce, quindi è uno sguardo sul passato, un’anticipazione sul futuro, una guida per l’azione (Smorti, 1997). Oltre a ciò, indipendentemente dal fatto che il resoconto della propria vita o di parte di essa sia prodotto in forma orale o scritta, si può dire che si parla di narrazione quando un emittente racconta un’azione o un insieme di azioni siano esse concrete e oggettive o mentali. Da questo punto di vista, narrare una storia significa raccontare qualcosa di dinamico, qualcosa che si collega all’idea di movimento e, dal punto di vista psichico, significa possibilità di trasformazione se collocata all’interno di un contesto comunicativo-relazionale. La narrazione può essere distinta dal narrato (Arrigoni e Barbieri, 1998). Un racconto o un testo di letteratura, per esempio, sono narrazioni perché in essi è
presente un movimento e sono trasmessi in modo aperto, invece, un postulato o un assioma sono dei narrati perché sono dati e, per questa ragione, non sono trasformabili. Nella narrazione è possibile costruire delle ipotesi, co-costruendo cioè in itinere una ristrutturazione del campo cognitivo-emotivo del soggetto narrante. Nel narrato, invece, predomina la descrizione il più oggettiva possibile dell’evento accaduto. Nel narrato, inoltre, non c’è discrepanza tra il sistema concettuale di riferimento del soggetto e la realtà percepita, nella narrazione, invece, questa discrepanza è presente e può creare un certo dinamismo all’interno della persona e, quindi, suscita la necessità di raccontare lasciandosi aperte delle possibilità rispetto alle ipotesi formulabili. Se un soggetto, per motivi di ordine sia cognitivo che emotivo, si racconta in modo narrato, sarà difficile riuscire a mobilizzare la sua comunicazione in quanto siamo di fronte ad un narrato nella narrazione. Essa infatti, propone già uno schema che per il soggetto può essere funzionale anche se, non sempre, consente l’introduzione di nuovi concetti per trasformare i contenuti pre-esistenti in modo mobile. Uno degli obiettivi, dunque, della narrazione, collocata nella dinamica comunicativo-relazionale, può essere proprio quello di riuscire a convertire un narrato in narrazione. Si potrebbe considerare il narrato come il luogo in cui predominano le difese, e la narrazione come il luogo in cui predomina il conflitto. È evidente, allora, che nel caso di situazioni emotivamente pesanti o di eventi traumatici, un soggetto, per tenersi insieme, elevi delle barriere difensive e, quindi, parli di sé utilizzando per lo più dei narrati piuttosto che delle narrazioni. In ogni dialogo di tipo narrativo, si crea tra due soggetti, in relazione, un campo nel quale si possono generare infinite storie e infiniti percorsi possibili che prendono corpo dall’interazione delle variabili del campo stesso. Esiste, però, un limite legato al fatto che non tutti gli eventi sono trasformativi, cioè mobili nella mente e nell’affettività del soggetto narrante, per cui si danno resoconti in cui aree di narrazione si susseguono ad aree di narrato: rigidità e flessibilità cognitiva e/o affettiva si alternano. Narrazione e narrato certamente fanno riferimento a due modi diversi di organizzare il pensiero: la narrazione attiene ad un pensiero discorsivo e dialogico, mentre il narrato, da un punto di vista cognitivo, attiene ad un pensiero logico-matematico che non presuppone una discorsività ma una logica stringente che conduce da un’ipotesi alla dimostrazione di una tesi. Il pensiero che viene utilizzato in una narrazione (pensiero narrativo), quindi, ha un orientamento orizzontale, nel senso che dispone i fatti l’uno accanto all’altro secondo una sequenza; dà una grande attenzione al contesto e trova una sua validazione nei termini della coerenza. Il pensiero che produce narrati, invece, ha un organizzazione verticale, produce leggi ed è sganciato dal contesto. A questa distinzione corrispondono almeno due livelli di narrazione: una logica di causa ed effetto ed una intenzionale quando si perviene ad un livello di astrazione e di elaborazione della narrazione più complesso in cui all’azione subentra sempre un’intenzione. Il resoconto narrativo, da un lato, presenta una sequenza temporale e di causa-effetto fra gli eventi accaduti e, dall’altro, il mondo interno del soggetto che commenta tali eventi mettendo in gioco i propri stati d’animo. Parallelamente l’individuo, a seconda del grado di elaborazione dell’esperienza vissuta può utilizzare nella comunicazione dei narrati, o delle narrazioni. Si può dire che il narrato sta alla logica causa-effetto come la narrazione sta alla logica del pensiero dialettico di stati d’animo e vedere quanto sia predominante, nella narrazione, la componente cognitiva e quanto lo sia la componente emotiva. Se è predominante, infatti, la prima, il narratore riesce a trasmettere i propri stati d’animo, se, invece, è predominante la seconda, può accadere che, all’interno di un rapporto dialogico un possibile interlocutore non capisca completamente ciò che il narratore gli vuole trasmettere in quanto la componente emotiva, essendo molto soggettiva, se non viene tradotta nella mente o nel sé di colui che racconta, non permette la comprensione. La narrazione e/o il narrato assumono un senso quando e se si incontrano con un interlocutore attento che si pone lo scopo di interpretare quanto viene comunicato. Numerosi studi, non solo in ambito letterario, hanno posto al centro dell’interesse
del processo comunicativo le domande intorno alla natura del senso e alle possibilità e ai limiti dell’interpretazione, in un gradiente che riporta l’attenzione sul ruolo del lettore nel processo di produzione del senso del testo (Arrigoni e Barbieri, 1998). Inoltre, in una narrazione, in cui il soggetto viene chiamato a raccontare di sé esplicitamente, è importante sottolineare che di tutte le storie possibili il narrante sceglie a favore della storia che urge di essere narrata e che comporta la sospensione di altre possibilità narrative. L’apertura e la chiusura di senso, che viene riverberata nell’ascoltatore-interlocutore implica che quest’ultimo sia in grado di aprire il narrato alla narrazione, non nel senso infinito che porta alla assenza di limiti, ma al senso della rete di credenze coerenti per quel soggetto in quel momento. La fluidità del racconto nell’autobiografia deve stare all’interno delle interpretazioni (segni e punteggiature) plausibili per il soggetto che la produce. Come esiste una differenza sostanziale tra narrazione e narrato, dove nel primo è presente un aspetto dinamico e nel secondo un aspetto statico e quindi difficilmente trasformativo, analogamente, esiste una distinzione tra il narrare, come produzione di conoscenza, e l’enunciare. Mentre la narrazione, infatti, possiede un aspetto dinamico e conoscitivo in cui esiste la possibilità che tale conoscenza sia trasformabile, l’enunciato invece è simile al narrato, esso è statico, già dato e la conoscenza che produce non è trasformabile (ivi, 1998). Il narrare implica, inoltre, la comunicazione di un messaggio articolato in forma comprensibile che per essere tale deve comportare due caratteristiche imprescindibili: la transitività (si narra qualcosa) e la finalità (si narra per qualcosa) (AA. VV. , 1975). Si narrano storie per trasmettere conoscenza e l’oggetto della conoscenza può essere di varia natura. Il narratore può, infatti, raccontare qualcosa per far conoscere se stesso (funzione emotiva), può produrre una conoscenza sulla realtà esterna (funzione referenziale) oppure può fornire una conoscenza sul destinatario, facendo in modo che quest’ultimo focalizzi la sua attenzione su determinati aspetti di sé (funzione conativa). Questa terza funzione è la più complessa perché implica sempre una dinamica e precisamente che chi narra cerchi di produrre una conoscenza volta a modificare il modo di essere e l’immagine che chi ascolta ha nei suoi confronti, oppure che cerchi di produrre una conoscenza sul comportamento dell’altro che sia inseribile all’interno del proprio paradigma di equilibrio cognitivo. Una vera narrazione dovrebbe contenere tutte e tre queste componenti: le componenti intorno al sé, intorno all’altro (se parlo a qualcuno vuol dire che in quel momento possiedo di lui una rappresentazione significativa), e intorno al dato di realtà. La narrazione per essere tale, infatti, deve avere una matrice cognitiva e una matrice relazionale-affettiva. La prima la ritroviamo nella funzione rappresentativa (il racconto dell’evento), la seconda la ritroviamo nella funzione emotiva (parte del racconto inerente al sé) e conativa (parte del racconto relativa alle aspettative e alle motivazioni nei confronti del destinatario). Se intendiamo l’area relativa a se stessi come area della soggettività e le altre due, relative alla realtà esterna, come area dell’oggettività, la narrazione di sé si deve collocare a metà fra le due. Tentando, infine, di connotare ulteriormente la narrazione autobiografica, si può dire che tutti noi siamo inseriti all’interno di un sistema di credenze che rappresentano le storie che gli individui si narrano per interpretare e strutturare la loro esistenza. La nostra storia personale, di conseguenza è organizzata secondo una catena sequenziale di credenze che possono essere tra loro essere integrate, cioè originarsi nel mondo delle credenze familiari, in cui veniamo collocati e interagire poi con il contenitore più ampio rappresentato dal sistema socioculturale di riferimento. Un’altra componente molto importante nella narrazione sia scritta che orale e nella costruzione di credenze è il tempo. Ci sono concetti diversi di tempo: il tempo emotivo o soggettivo (vissuto) e il tempo oggettivo o degli eventi. In una narrazione queste due tipologie si coniugano costantemente e si modulano continuamente. Come si è detto, nel corso della vita le diverse esperienze che le persone fanno o
subiscono producono delle credenze. Un individuo che ha vissuto prevalentemente eventi che si confermano possiede un sistema di credenze consolidato e contestualizzato anche in relazione ad una temporalità. Il soggetto, quindi, è in armonia, quando il suo sistema di credenze consolidate, collocato nella temporalità della vita (scuola, lavoro, ecc. ), si mantiene sempre coerente. Sarebbe, invece, immaturo se, ad esempio, lungo l’intero arco della vita continuasse a pensarsi come era in passato, durante l’infanzia, vale a dire, in una situazione di costante valutazione da parte di un ipotetico adulto che si occupi di lui. Poche sono, comunque, le persone che per tutta la vita hanno un sistema di credenze consolidate, coerente nella temporalità e in cui sia sempre presente l’armonia, nonostante i diversi contesti esperienziali in cui sono chiamate a vivere. Quando un individuo adulto si narra, sicuramente racconta esperienze che cronologicamente sono avvenute in momenti diversi della sua vita. Fondamentale, allora, è capire se riporta di sé una rappresentazione coerente. Se c’è coerenza, infatti, significa che sente ed esplicita un sistema di credenze che per lui è armonico (narrato) e quindi racconterà l’esperienza accaduta. Se, invece, racconta un’esperienza in cui si avverte una discrepanza tra la descrizione dell’evento e il sistema di credenze, quelli che sono stati fino a quel momento gli strumenti utili di cui si sentiva in possesso per stare all’interno della sua attuale realtà (lavorativa, affettiva, amicale), non gli sono più sufficienti a causa di un evento critico che non padroneggia. Il concetto di tempo si può articolare in due aspetti: da una parte, l’aspetto diacronico che è il tempo a cui fa riferimento o risale la narrazione, cioè, il tempo dell’esperienza (passato, presente o futuro) in cui il narratore sceglie di collocare la storia; dall’altra, l’aspetto sincronico che è il momento in cui avviene, nel qui e nell’ora, la narrazione, vale a dire, la scelta di un momento specifico per parlare. Il tempo nella narrazione, quindi, come si è già detto prima, ha un valore soggettivo per il soggetto che può scegliere sia di narrare la storia della sua vita o fasi di essa, al passato, al presente o al futuro (tempo diacronico), sia di trasmetterla a qualcuno in un preciso momento, nel qui e nell’ora, operando delle selezioni (tempo sincronico). A questo proposito, gli individui possono utilizzare tipologie di tempo nel raccontarsi anche in relazione ad una plasticità più o meno sviluppata delle proprie mappe cognitive. Ci sono soggetti, infatti, che nel narrarsi sono capaci di passare costantemente dal passato al presente e di proiettarsi nel futuro, la qual cosa rappresenta il massimo dell’armonia, ci sono altri, invece, che sono bloccati nel loro passato, gli anziani, ad esempio, o proiettati solo nel futuro, come gli adolescenti. Il che, in termini di operatività, rende molto difficile tradurre le narrazioni nel qui e nell’ora e quindi realizzare insieme una narrazione. I narrati chiusi nel passato o proiettati nel futuro spesso possono svelare una componente difensiva, legata alla non accettazione o alla negazione del presente, riguardo alla necessità di creare un progetto di lavoro nel qui e nell’ora. Che cos’è allora una narrazione coerente? È una narrazione che avviene nel presente, attinge al passato e si proietta verso il futuro. La narrazione della propria vita attiene al racconto di storie individuali che sono una versione soggettiva della realtà e la cui attendibilità è governata da una convenzione e da una necessità narrativa. Tali storie essendo fortemente soggettive, non sono vere o false ma attendibili o non attendibili e il parametro dell’attendibilità è dato dalla presenza o meno di coerenza al loro interno. In questo senso, allora, dare coerenza significa colmare, da parte di chi racconta, il vuoto fra due eventi slegati fra loro per attribuirvi un significato. Nel narrare la sua storia di vita, un individuo, dopo aver fatto una selezione, cerca di connotare la catena degli eventi in modo coerente, cioè cerca di collegare o di riempire i vuoti tra un evento e un altro. Può accadere però che, non comprendendo realmente gli eventi che gli sono accaduti, egli non li narri, li lasci scissi, li faccia cadere, e si formi di conseguenza una sorta di vuoto. In termini relazionali, quindi si parla di coerenza, in termini cognitivi, invece, di senso, di dare un senso. La narrazione di sé è, quindi, un processo di consapevolizzazione in cui l’esperienza, non essendo mai completamente dicibile, per venir comunicata deve
essere tradotta in modo più o meno complesso e armonico in un’astrazione. Si realizza, quindi, un passaggio dall’esperienza al pensiero su quell’esperienza che attiene all’astrazione e dall’astrazione al racconto della stessa. È importante, infine, ricordare come, in un contesto narrativo, in cui, come si è detto, si alternano narrazione e narrato, cioè elementi mobili, per la mente e gli affetti dell’Io narrante, ed elementi chiusi, il luogo dialogico tra narrante ed interlocutore può essere inteso come quel medium che consente operazioni trasformative, narrative e piccole ipotesi interpretative che non hanno bisogno di essere rimarcate ma che preludono ad ulteriori cambiamenti. La parte di narrazione che viene man mano esplorata, si allarga continuamente divenendo la matrice di storie possibili, molte delle quali sono lasciate in deposito in attesa di potersi sviluppare (Ferro, 1999; Borgogno, 1994). 4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE In base quanto fin qui esposto, l’uso costante di procedimenti mentali di tipo narrativo può avere una funzione trasformativa importante per l’individuo ed analizzarne la portata significa riconoscere al suo interno l’esistenza di prospettive psico-sociali e di intervento, in senso lato, diverse. Al centro di questo modello vi è la nozione di adultità nei termini di rappresentazione complessa, ritenuta non tanto come il prodotto o l’esito di un percorso, ma come sistema aperto, continuamente volto al cambiamento e come espressione di un sé pluridimensionale dove convergono elementi di individualità e sociali complessi. In tal senso, infatti, l’età adulta non è pensata unicamente dipendente dai tragitti evolutivi precedentemente percorsi da un individuo e, in parte rimossi, ma come vissuto pluridimensionale e molteplice e, nel contesto narrativo, lo sviluppo non è orientato necessariamente verso un punto di arrivo o di stasi, ma potenzialmente aperto, per tutto il corso della vita, verso nuovi traguardi, e sempre situato entro la trama delle vicende, degli incontri, delle occasioni di cui è intessuta ogni vicenda umana (Paolicchi, 1994). La complessità sociale, infatti, chiede al singolo una capacità continua di differenziazione e ridefinizione dei propri compiti evolutivi e reidentificazioni cognitive ed affettive sempre più plastiche e dinamiche. Se si adotta allora un punto di vista processuale, l’individuo adulto non sarà il “prodotto” di una storia lineare che approda ad un’identità unica, ma piuttosto l’adultità potrà esprimersi nella trasformazione e integrazione di diversi continuum vital che possono essere intesi come manifestazioni strutturali derivanti sia da origini filogenetiche ed ontogenetiche, cioè metà prodotto della vicenda biologica ed individuale, metà di quella culturale (Demetrio, 1990, ) che sono in definitiva, le caratteristiche nelle quali una persona si coglie nella sua pienezza umana, nella sua autorealizzazione, nel suo equilibrio con sé e con gli altri. All’interno di ogni singolo cammino, quindi, esistono queste dimensioni fondamentali su cui ciascuno può pensare e forse riconoscersi, e la narrazione di sé permette di indagare tale pluralità coinvolgendo l’individuo in una riflessione continua. Da un lato, quindi, si evidenzia la costruzione di un “sé narrativo”, vale a dire il raccontare se stessi nell’auto-presentazione, nelle storie di vita, nelle conversazioni, nella terapia che sottolinea il significato plurimo e negoziale delle nostre storie, dall’altro lato, si evidenzia la costituzione a più livelli di reticoli di interazioni e interconnessioni in continua trasformazione; determinando una pluridimensionalità dell’identità, che si manifesta, di volta in volta, con diverse sfumature in rapporto a circostanze, e soprattutto ad interazioni con gli altri all’interno di scambi comunicativi, culturali e sociali complessi, dove l’elemento della consapevolezza e della conoscenza di sé si gioca in una dinamica interattiva volta promuovere, di fatto, l’incontro tra individuo-ambiente, e mente e cultura. Riferimenti Bibliografici:
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Le tappe dello sviluppo psicosociale. Il comportamento umano si struttura attraverso l’interazione con gli altri all’interno di un preciso contesto di riferimento. In tal senso possiamo affermare che il processo di socializzazione inizia all’atto della nascita e si sviluppa nel corso dell’ infanzia e dell’adolescenza tramite complessi processi di apprendimento che portano l’individuo ad assumere nel tempo modelli di comportamento che sono in gran parte simili a quelli degli altri individui che formano il suo gruppo di appartenenza. Già da questa prima affermazione appare evidente come a determinare il processo di socializzazione concorrano contemporaneamente aspetti più strettamente cognitivi di matrice individuale, caratterizzati dal fatto che solo il possesso di determinati schemi concettuali rende possibile il porsi in relazione con gli altri in un rapporto di reciprocità, congiuntamente ad aspetti di natura sociale e culturale, per cui la stessa socializzazione può esser definita come quel processo attraverso il quale gli individui acquistano le conoscenze, le abilità, i sentimenti e i comportamenti che consentono di adattarsi alla società in cui si vive mediante
processi di apprendimento sociale. Tali puntualizzazioni ci consentono altresì di definire il percorso di socializzazione fondamentalmente secondo tre principali direttive che corrispondono ad altrettanti modelli teorici in ambito psicosociale: la teoria dell’apprendimento sociale di matrice comportamentistica, che parte dall’assunto che l’individuo acquisisce la motivazione sociale per effetto del rinforzo. Un esempio paradigmatico in tal senso, anche perché si situa all’inizio della vita di ogni essere umano, è rappresentato dalle prime forme di interazione sociale madre –bambino. Nel corso dell’allattamento infatti la madre, rispondendo sistematicamente al richiamo del neonato per soddisfare il bisogno fisiologico fondamentale rappresentato dalla fame, determina un legame stretto col figlio creando le precondizioni necessarie per altre e successive forme di interazione. Non a caso infatti Freud definisce questo primo stadio di sviluppo come stadio orale, ed Erikson come stadio della fiducia; l’approccio psicobiologico invece sottolinea come vi sia una predisposizione innata alla relazione sociale a prescindere da qualsiasi modalità di risposta e quindi di rinforzo da parte dell’adulto. Autori divenuti ormai classici come Bowlby, Bruner, Kaye affermano che il bambino, fin dalla primissima infanzia, è dotato di capacità percettive strutturate e funzionali che gli consentono di partecipare a sequenze interattive che implicano modalità di comunicazione diverse, visive, tattili e vocali che vanno dalla risposta del sorriso alla presentazione di un volto umano purchè in movimento e visto di fronte piuttosto che di profilo, alla risposta selettiva nei confronti di frequenze sonore proprie della voce materna. La teoria dell’attaccamento di Bowlby sul finire degli anni 50, rielaborata successivamente da altri autori, tra i quali Ainsworth, analogamente a quanto gli etologi già avevano evidenziato all’interno del mondo animale, sottolinea proprio come lo sviluppo sociale ed affettivo vada considerato come un processo primario a base innata, codificato cioè nel patrimonio genetico della specie umana. Secondo tale modello quindi il legame di attaccamento, che rappresenta una delle principali forme di legame socioaffettivo, non dipende dal condizionamento ambientale (premi e punizioni) come nella teoria dell’apprendimento sociale, né può considerarsi come nella teoria psicoanalitica basato sulla dipendenza del bambino dalla madre vista come unica dispensatrice di cibo e benessere (amore interessato), ma è costruito su base filogenetica e quindi biologica. I comportamento di segnalazione (pianto, sorriso)e quelli di accostamento (aggrapparsi, seguire ecc. ) svolgono la funzione di assicurare contatto fisico e vicinanza, quindi protezione piuttosto che nutrimento. L’influenza degli studi etologici appare evidente. Le osservazioni di Lorenz sul fenomeno dell’imprinting, processo in virtù del quale i nuovi nati degli uccelli appena usciti dall’uovo, stabiliscono un legame relativamente permanente con i genitori e gli esperimenti di Harlow con i piccoli di scimmia rhesus dove si evidenzia come la scimmietta che al momento della nascita era stata separata dalla madre biologica ed era stata nutrita tramite biberon da due diversi tipi di sostituti materni, uno costituito da un’intelaiatura di filo di ferro, l’altro da un’ intelaiatura rivestita da morbido peluche, in caso di pericolo sceglie di aggrapparsi non alla madre di filo di ferro, ma a quella di stoffa che trasferisce calore. Il legame di attaccamento quindi quale prima forma di relazione sociale viene concepito come un sistema di schemi comportamentali innati che promuovono spontaneamente la vicinanza tra madre e bambino. Per Bowlby il sistema di attaccamento va inteso come un sistema aperto, nel senso che esso si modifica ed adatta in relazione ai contesti all’interno dei quali il bambino sperimenta la relazione sociale. Questa dimensione più ampia del contesto relazionale, a partire dagli anni 70 dà avvio ad un modello di socializzazione che tende a evidenziare in particolare il ruolo dell’adulto nel processo di costruzione sociale. Non a caso si parla proprio di modello sociocostruttivista, nel senso che pur riconoscendo al bambino una competenza sociale innata, attribuisce all’adulto l’importante funzione non solo di rispondere ai segnali del bambino, ma di costruire una relazione significativa per entrambi inserendo il neonato in un sistema significativo di scambi. Sarà ’ all’interno di questo contesto comunicativo in cui la madre attribuisce
“significati”ai gesti, alle espressioni, all’attività spontanea del piccolo, che il bambino costruirà la sua comprensione del mondo. L’inserimento del bambino nel mondo sociale passa attraverso un processo nel corso del quale entrambi i partners condividono una storia fatta da ripetuti tentativi di comunicazione ed hanno pattuito un insieme significativo di segnali spesso comprensibili solo all’interno di quella relazione. Compito dell’adulto è quello di organizzare la propria attività in modo tale da strutturare modelli di reciprocità in cui i diversi canali comunicativi visivo, vocale, tattile assumono le caratteristiche del dialogo. Esempio ancora una volta illuminante in questo senso è rappresentato dall’esperienza dell’allattamento dove la madre interagisce con il bambino in una perfetta sincronia secondo un modello attività –pausa proprio del succhiare caratterizzato da fasi di attività motoria e fasi di riposo. La madre si inserisce nelle fasi di pausa cullando il neonato, accarezzandolo e parlandogli: per Schaffer questo rappresenta il prototipo di una grande quantità di interazioni precoci. Altrettanto dicasi per quella condizione di turn-taking che precede la comparsa del linguaggio caratterizzata dagli scambi vocali dei neonati con le loro madri. Lo scambio può assumere la struttura del dialogo solo se l’adulto svolge una funzione strutturante, adattando la propria iniziativa ai momenti di pausa all’interno di un contesto in cui la madre attribuisce “significati” ai gesti, alle espressioni, all’attività spontanea del piccolo. Compito dell’adulto è quello di organizzare la propria attività in modo tale da strutturare modelli di reciprocità attraverso diversi canali comunicativi, visivo, vocale, tattile che assumono le caratteristiche del dialogo (protodialoghi). Appare evidente quindi la stretta relazione tra sviluppo sociale, sviluppo cognitivo e sviluppo affettivo. La condizione perché tutto ciò avvenga è data dal fatto che il bambino acquisisca un’iniziale forma di conoscenza di sé in quanto diverso dall’altro. Ciò accade intorno all’ottavo mese di vita. Spitz non a caso parlava di angoscia dell’ottavo mese individuando in questa fase dello sviluppo del bambino un momento cruciale nella relazione con l’adulto; il bambino infatti non solo ricerca selettivamente la presenza della madre se questa si allontana, ma reagisce nascondendo il volto in presenza di estranei. Verso la fine del primo anno il bambino ha già acquisito una competenza sociale articolata caratterizzata dauna competenza interattiva e comunicativa connesse con l’intersoggettività propria del dialogo umano. L’allargamento delle esperienze sociali ( ingresso al nido, alla scuola materna, incontri con altri i adulti ) accelera la capacità interattiva del bambino. La nuova sfida è rappresentata dalla capacità di relazionarsi con l’altro capendo il punto di vista altrui ed adattandovisi per non interrompere l’interazione in corso. In questa fase l’adulto assume un ruolo importante nel guidare il bambino a riconoscere ed accettare le nuove regole. Piaget parla di egocentrismo: di fatto tra i due e i tre anni l’interazione tra bambini determina un forte incremento nell’interazione sociale. Da una prima fase caratterizzata da modalità di interazione speculare, caratterizzata dalla contemporaneità e similarità dei comportamenti, si passa a modalità più complesse quali l’attendere il proprio turno, l’alternarsi e lo scambiarsi dei ruoli, l’eseguire azioni complementari. L’uscita dall’egocentrismo e l’acquisizione di capacità di decentramento, caratterizzate dal fatto che le regole vengono accettate non perché imposte (morale eteronoma) ma perché riconosciute come necessarie sia in relazione agli altri che sotto il profilo dell’equilibrio personale (morale autonoma) consente il passaggio ad una reciprocità complementare con l’altro, caratterizzata da un rapporto di tipo cooperativo. L’amicizia nella sua genesi ed evoluzione rappresenta un esempio significativo in tal senso. Il bambino passa infatti da una prima fase (fino a 7 anni) in cui l’amicizia viene vissuta come un rapporto temporaneo, ad una fase successiva intorno ai 9 anni, ove la relazione è caratterizzata semplicemente da un interesse comune, per arrivare poi all’età adolescenziale in cui l’amicizia diviene vera relazione interpersonale permanente nel tempo (accettazione dell’altro). Da una relazione quindi incentrata sui possibili vantaggi, si passa ad una
relazione caratterizzata da una reciprocità simmetrica che prevede il contributo paritetico di entrambi i partecipanti alla relazione, ma è solo con il rapporto cooperativo che la relazione acquista un’effettiva stabilità. L’osservazione del gioco tra bambini ne evidenzia tutte queste modalità: dal gioco ancora fortemente caratterizzato da elementi di tipo egocentrico, si passa al gioco collettivo caratterizzato dal rispetto del turno, mentre il gioco simbolico o sociodrammatico costringono il bambino, attraverso l’assunzione di altri ruoli, a decentrarsi da sè. Altrettanto interessanti e significative le osservazioni che evidenziano come i bambini siano capaci di comportamenti sociali positivi di aiuto, altruistici nel vero senso della parola. Si tratta cioè di comportamenti intenzionali esibiti dal bambino a favore degli altri, quali il condividere, il mostrare e offrire gli oggetti, il coinvolgere, l’aiutare, il cooperare per raggiungere uno scopo comune con richiesta reciproca di aiuto. Già all’età di due anni e mezzo sono osservabili azioni altruistiche caratterizzate dalla disponibilità a confortare, aiutare, donare. Ma è solo in età adolescenziale che la dimensione gruppale assume un ruolo determinante anche in relazione a quella che è la specificità del comportamento adolescenziale caratterizzata dalla non facile transizione da una condizione di dipendenza affettiva e psicologica soprattutto dal gruppo parentale alla necessitò di trovare spazi di autonomia sociale ed affettiva che proprio nel gruppo dei pari trova sostegno e conforto. L’egocentrismo adolescenziale come giustamente lo definiva Piaget, caratterizzato dalla volontà di adattare la realtà ai propri desideri e alle proprie aspettative si scontra spesso con le esigenze degli adulti producendo spesso insanabili divisioni. Ancora una volta sarà l’adulto a dover assumere su di sé l’impegno a riconoscere la pluralità dei punti di vista, a valorizzare le differenze ad accompagnare come direbbe Rogers con atteggiamento empatico e non critico questa fase spesso lacerante. È soprattutto in questa fase del percorso evolutivo di un individuo che la formazione intesa come processo di accompagnamento dalla soggettività all’alterità può assumere un ruolo determinante. Dal soggetto all’intersoggettività:linee di un percorso formativo. Alla luce di questo percorso evolutivo che porta il soggetto a superare la dimensione individuale per confrontarsi con una realtà di tipo collettivo, senza mai perdere il senso della sua identità, quale può essere il compito dell’intervento formativo e quali le strategie da attualizzare? Partiamo da alcune considerazioni che costituiscono la trama di un possibile percorso: innanzitutto la convergenza verso un’idea di formazione legata a processi di pensiero e di elaborazione personali, verso un’ipotesi di apprendimento dall’esperienza intesa come valorizzazione dei contesti e delle situazioni in cui i soggetti costruiscono il loro rapporto con la realtà; la connessione tra formazione ed azione in un’ ottica costruttivista, secondo la quale la conoscenza viene intesa come processo interattivo, conversazionale e negoziale, situato in contesti socio-culturali dati; la valorizzazione della differenza, della diversità, della molteplicità dei punti di vista. In altre parole la formazione deve essere intesa come una dimensione regolativa di percorsi di crescita ed evoluzione personale e collettiva caratterizzata da processi di produzione e trattamento di significati, connessi alle modalità di attribuzione di senso agli eventi e alla realtà che viene sperimentata e condivisa nel rapporto quotidiano con il mondo. La formazione viene intesa quindi come accompagnamento e vicinanza all’azione dei soggetti, come coinvolgimento nella loro esperienza e come supporto nelle situazioni operative difficili e incerte. Partendo da questa prospettiva si può intravedere la possibilità di colmare la distanza tra conoscenza e azione, tra storie personali e storie collettive, tra
individuo e contesto, tra dimensione soggettiva e dimensione gruppale, al fine di superare quelle divisioni che impediscono ai vari attori sociali “di riappropriarsi e di liberare parole e visioni altre da quelle abituali”, di solito caratterizzate da frammentarietà rispetto alle “dimensioni di senso e significato circa le cose che le persone fanno e le esperienze lavorative e organizzative che vivono” (Kaneklin, Scaratti, 1998, p. XI). Questa spinta deriva dalla necessità, per la formazione stessa, di riflettere nuovamente sul suo senso e sulla sua natura. Sembra profilarsi, infatti, una tendenza a considerare la formazione in funzione di una più adeguata progettualità dei soggetti su di sé e verso i problemi che incontrano e di una più articolata capacità di attribuzione e costruzione di senso e di significato alle situazioni all’interno di un contesto collettivo aperto. Gran parte della formazione oggi praticata, osserva Gamelli, implica un concetto riduttivo di “informazione”, in quanto intesa come sapere cumulabile. Una formazione autenticamente agita “va oltre la ricostruzione documentata del passato e la raccolta di informazioni, per diventare pratica di trasformazione, di riflessione, di ricostruzione, di ri-cognizione e ri-strutturazione di sé” (1997; p. 116). Le istituzioni formative troppo spesso si presentano invece come luoghi formali e distanziati, fortemente strutturati da rituali e regole, spazi e tempi, che producono una sorta di realtà separata: vita e formazione raramente riescono a coniugarsi, ancor meno a coincidere. Per chi partecipa a questi contesti è esperienza comune la presa di distanza emotiva, l’adesione rigida a norme, la difficoltà di dare un senso personale e collettivo alle esperienze e agli apprendimenti che pure hanno luogo, l’impressione di un appiattimento legato ad esigenze di standardizzazione che conducono inevitabilmente al distacco dei soggetti, delle storie e delle relazioni dai contesti della formazione. Al contrario, “una formazione ecologica”, così vorremmo definirla, che utilizzi ad esempio come strumento privilegiato il racconto autobiografico – ricca di dimensioni narrative e simboliche – invoca la presenza di soggetti unici e irripetibili nelle loro uniche e irripetibili relazioni ed emozioni, proponendo così un correttivo alla relazione educativa tradizionale, nella direzione della reciprocità, del coinvolgimento, della comprensione delle dinamiche emotive e mentali proprie dell’apprendere e del pensare” (Formenti, Gamelli; 1997, p. 117). Il processo di conoscenza che si vuole sviluppare, non può esser quindi inteso come un prodotto valutato in termini di meri contenuti singolarmente appresi, ma piuttosto come la realizzazione di una serie di “connessioni apprenditive” tra contenuti “già esistenti” collettivamente appresi: “trasferimento/rielaborazione di idee tramite codici diversi, integrazione di livelli di conoscenza abitualmente separati, passaggio dall’esperienza diretta al discorso (narrazione), alla metacognizione, e ancora all’esperienza e così via” (ivi, p. 117-118). Quando si è adulti, infatti, conoscere assume sempre più, come abbiamo già avuto modo di dire, i caratteri di un’impresa riflessiva, auto-referenziale, metaconoscitiva e tra le tante azioni formative che generano riflessività, perché “spiazzanti” (Fabbri, Formenti; 1991), un posto privilegiato spetta a quelle tecnologie che comportano un’implicazione personale o meglio una vera e propria “compromissione” del discente. In gioco è, in altri termini, la possibilità di intravedere “una valorizzazione non retorica delle persone nei contesti formativi e una loro effettiva partecipazione (connessa ai modi di porsi, di prendere parte e di portare parti di sé e della propria storia) funzionale al conseguimento di aperture di senso e di creazione di nuovi eventi” (Kaneklin, Scaratti, 1998, p. XI). “L’educabilità dell’adulto, può essere ricondotta, dunque, alla possibilità di ri-scoprirsi soggetto in formazione, di ri-appropriarsi della capacità di autotrasformazione, per così dire, dall’interno” (Formenti, 1998, p. 15). Accanto al tradizionale paradigma dell’aiuto, che ha caratterizzato la formazione del bambino o dell’ adulto sia nell’ambito pedagogico classico sia in quello psicoterapeutico, emerge e si affianca oggi un nuovo orientamento quello dello scambio, caratterizzato dal fatto che i significati e le narrazioni in esso contenuti sono il risultato di una costruzione comune e negozialmente prodotta da parte delle persone interagenti, con ruoli diversi, all’interno di contesti dati (Kaneklin, Scaratti, 1998). Trattandosi quindi della coesistenza di soggettività
interconnesse, della co-costruzione di una realtà condivisa attraverso lo scambio di punti di vista, è opportuno parlare di formazione come relazione formativa, cioè “un processo che implica più livelli interagenti e irriducibili, e che comprende al suo interno sia l’autonomia formatrice (la formazione come auto-formazione) dei singoli sia la dinamicità costruttiva (l’organizzazione come un dar forma) delle loro interconnessioni” (L. Formenti, 1998; p. 35). Diversi sono, infatti, i fattori responsabili del cambiamento nell’attuale scenario della formazione: - il passaggio dal “teaching” al “learning”, ovverossia dall’insegnamento all’apprendimento, vale a dire, il superamento del modello trasmissivo-scolastico, finora dominante, caratterizzato da un rapporto unidirezionale tra “il formatore che parla” e “i partecipanti che ascoltano”. Tale modello accentra nelle mani dell’educatore gran parte del processo, per cui la quasi totalità delle strategie formative viene progettata in funzione dei contenuti da trasmettere, piuttosto che delle persone che dovranno assimilarli. Ripensare la formazione, quindi, significa ripensare i luoghi e le forme, farla uscire dall’aula, valorizzare i modi che i soggetti utilizzano per leggere ed interpretare la loro realtà ed esperienza, in un contesto di interazione e di scambio tra formatore e partecipanti coinvolti nell’elaborazione e condivisione di “eventi” (Kaneklin, Scaratti, 1998, p. XII); - la “mutazione” del ruolo del formatore che da “dispensatore” diventa co-artefice delle conoscenze, sostenitore dei processi di apprendimento e cambiamento; - l’imprescindibile esigenza di una vicinanza ai concreti contesti e alle situazioni operative, in cui le persone sono impegnate nella costante costruzione e ricostruzione di dimensioni di senso. La formazione si sta muovendo oggi verso “luoghi” di maggior significatività per le persone, sia in riferimento alla propria storia personale e professionale, sia riguardo alla possibilità di condividere nei contesti formativi esperienze che, tra aiuto e scambio, possano contribuire a costruire percorsi concreti in cui teoria e pratica non siano così rigidamente divise. Lipari (1990) segnala l’opportunità di affiancare a una formazione per l’apprendimento adattivo, fondata sulla trasmissione di saperi e conoscenze, una formazione per l’apprendimento generativo, fondata su logiche di scoperta e di innovazione socialmente condivise. É possibile, in questo modo, pensare alla formazione in termini narrativi come se si trattasse di un testo che si crea progressivamente attraverso le interazioni fra soggetti, il loro contesto esperenziale e lavorativo, mediante la scrittura e riscrittura di nuovi testi. L’individuazione e ricostruzione di storie personali e professionali, ha una forte valenza formativa, trasformativa e di rifocalizzazione (Demetrio, 1992) perché permette quel distacco, che gli autori definiscono come bilocazione cognitiva. La narrazione all’interno dei contesti formativi deve essere regolata metodologicamente per la determinazione delle condizioni che aiutino le persone a riflettere, a capire come si collocano nei loro contesti concreti, che cosa stanno facendo, perché lo fanno, quali funzioni assolvono e che senso attribuiscono a ciò che fanno (Kaneklin e, Scaratti, 1998). Questo discorso generale aiuta a comprendere come l’asse su cui sembrano orientate le nuove logiche di azione formativa sia quello connesso alle pratiche narrative e in particolare a quelle auto-riferite. Numerosi autori sostengono che la formazione deve confrontarsi con i nuovi bisogni soggettivi centrati sull’autorealizzazione, sulla qualità della vita, sulla ricomposizione tra vita e lavoro e sulla piena realizzazione di tutte le potenzialità positive dell’uomo, in primo luogo la creatività. La formazione deve, cioè, consentire l’opportunità per le persone che ne fruiscono, di leggere, interpretare e gestire, attraverso nuovi linguaggi e nuovi punti di vista più “complessi” e adeguati, i contesti e le situazioni concrete in cui si trovano ad operare e di ritrovarsi e ritrovare in esse un valore di senso rispetto al loro essere spesso segnate da elementi di contraddizione, da percezioni di immodificabilità, da vissuti d’impotenza e rassegnazione. È necessario, allora, immettere nei contesti organizzativi percorsi significativi di promozione di senso come condizione che permetta agli individui di sviluppare quelle capacità atte non soltanto a risolvere i problemi, ma a porli, non soltanto
ad adattarsi a ruoli prestabiliti ma ad orientarli e al limite a crearli. La formazione deve divenire “luogo di eventi”, sede non solo di scambi e di elaborazione di saperi ma soprattutto di rilettura di eventi già avvenuti e di possibile creazione di nuovi in contesti interattivi ampi. (Fabbri, 1998, p. 12). Ci sono, infatti, per lo meno tre tendenze a livello sociale, culturale ed economico, da cui si possono ricavare le coordinate entro cui si muove la formazione oggi. La prima è individuata nella crescita della complessità delle interazioni fra le persone, i gruppi e le istituzioni, che rende, di conseguenza, inadeguati tutti i modelli formativi che propongono saperi troppo frammentati e specialistici. La seconda tendenza è costituita dall’importanza attribuita alla logica dell’innovazione a scapito della razionalizzazione per cui il successo di un “sistema” non è determinato dall’aumento dell’efficienza, ma dalla capacità di progettare e sviluppare nuovi servizi. La terza è costituita “dall’irresistibile moto verso la libertà” (ivi, p. 118) ovverosia dalla possibilità di scegliere fra diverse alternative di azioni e da cui consegue l’importanza alla possibilità di compiere delle scelte da parte dell’individuo. Da tutto questo deriva una concezione della formazione intesa quale attività che non trasmette esclusivamente tecniche professionali ma che aiuta i soggetti a cogliere i problemi e a elaborare strategie relazionali atte a risolverli. Saraceno osserva come, nel corso della vita, gli individui siano costretti ad affrontare sempre di più discontinuità e ad interpretare segnali incerti e per questo, i nuovi bisogni formativi richiedono ai soggetti stessi di “adattare le proprie mappe cognitive” (Saraceno, 1995, p. 53) e di imparare a “dare significato ad eventi talmente discontinui rispetto all’esperienza pregressa, da aver bisogno di un’elaborazione collettiva, e non soltanto individuale, dell’evento che è successo” (ivi, p. 53). Tutto questo all’interno di un contesto in cui, come sottolinea De Michelis, “gli approcci razionalistici al management ed alla organizzazione si sono dimostrati inadeguati (t), le competenze specialistiche non sembrano più essere sufficienti per dare soluzione a problemi che sono mal definiti, i cui contorni cambiano rapidamente (i), le tecniche tradizionali di sviluppo di capacità relazionali non riescono ad attrezzare i lavoratori per sviluppare le attitudini alla comunicazione, alla cooperazione, all’apprendimento di cui essi dovrebbero fare uso per far fronte alla crescente complessità sociale che li investe” (De Michelis, 1995, p. 217). Per questo motivo la formazione deve ripensare a se stessa, assistere le persone nel ripensare al loro ruolo aiutandole a sviluppare nuove competenze comunicative, relazionali e cognitive in cui la soggettività diventi parte fondante. Mediante i processi conversazionali e relazionali, infatti, i soggetti negoziano decisioni, assunzioni di ruoli e funzioni, significati da assegnare ad eventi, situazioni e risultati (Kaneklin e Scaratti, 1998, p. 37). In quest’ottica, allora, la formazione può fornire gli strumenti conoscitivi atti ad assolvere questi compiti, i quali consistono in competenze quali l’adattabilità, le capacità concettuali e di giudizio, le capacità di ascolto e di empatia, l’attenzione per il nuovo e la qualità, l’interpretazione e la visione della realtà in senso “globale” e non riduzionistico. Natoli evidenzia, infatti, l’importanza di un’intelligenza polimorfa e di una logica polivalente (1993, p. 215) ma soprattutto di una disposizione all’ascolto che includa anche un’abitudine all’ascolto di sé (Demetrio, 1996). La narratività della dimensione formativa risiede proprio nel doversi confrontare, all’interno dei setting formativi, con storie e racconti autobiografici che partano da punti di vista, rappresentazioni, modi di pensare diversi. La formazione, da questo punto di vista, è fatto collettivo “un insieme di saperi in divenire che assume forme diverse a seconda delle ricombinazioni possibili e a seconda del nostro e altrui modo di viaggiare nell’oceano della conoscenza” (Fabbri, 1998, p. 8).
*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* Intersoggettività e possibili implicazioni dei moderni mezzi di comunicazione Robert A. Wicklund e Cristina Maran Università di Trieste*
Riassunto La moderna letteratura ha trattato le relazioni sociali su internet, in una serie di articoli, partendo da queste due prospettive: (1) la comunicazione su internet rappresenta un mondo sociale sostanzialmente diverso da quello rappresentato dalle relazioni faccia-a-faccia o “normali”, e che (2) le relazioni sociali mediate elettronicamente apportano un chiaro numero di vantaggi o arricchimenti alla comunicazione faccia-a-faccia, che è stata tradizionalmente concepita dalla psicologia sociale. Nel presente scritto discutiamo questi due punti in modo critico, in particolare, sottolineando i seguenti: (1) non ci può essere una “psicologia sociale per internet”, piuttosto, la questione può essere ricondotta alla presenza di maggiori o minori modalità sensoriali utilizzate durante l’interazione; (2) concludere che la comunicazione ridotta coinvolge solo modalità sensoriali in quantità minima, o nulla, significa non considerare (a) i bisogni a lungo termine dell’individuo e (b) i bisogni e le prospettive dei partner di interazione e della società. Introduzione Molta letteratura negli ultimi anni si è occupata di descrivere o analizzare le relazioni sociali mediate dal computer. Le relazioni lavorative, pedagogiche, psicoterapiche e romantiche sono state tutte trattate piuttosto estesamente (Döring N. , 1999; Gackenbach J. , 1998). Molta della letteratura si è focalizzata sugli aspetti tecnici del passaggio dalla comunicazione faccia-a-faccia alla comunicazione mediata dal computer (CMC), spesso promovendo la CMC come vantaggiosa sotto molti aspetti; allo stesso modo, vi sono anche dei punti di vista critici (Locke J. , 1998; Kiesler S. , Sproull, L. , Waters, K. , 1996; Postman N. , 1982). I lavori di McKenna K. , Bargh J. e collaboratori (McKenna K. , Green A. , Gleason M. , 2002; McKenna K. , Bargh J. , 2000; McKenna K. , Bargh J. , 1998) sono di particolare interesse, perché hanno concepito uno speciale tipo di psicologia, unico per l’interazione su internet. Ne conviene che la comunicazione mediata dal computer richiama la necessità di nuovi principi o nuovi fenomeni, un’implicazione che noi troviamo completamente ingannevole. La realtà sociale della CMC non è qualitativamente differente La modernizzazione spesso è causa non solo delle alterazioni nei contesti in cui gli esseri umani interagiscono, ma anche dei mezzi attraverso cui essi comunicano. A cominciare dalle culture così chiamate “orali” (Baldini M. , 1995), molto è stato scritto riguardo ai cambiamenti nella comunicazione/interazione che hanno avuto luogo sin dall’invenzione della stampa, dei telegrafi, del telefono, delle e-mail, ed altri mezzi che hanno velocizzato il contatto interpersonale o ridotto la separazione, come il treno, le automobili o gli aeroplani. Ovviamente, ogni tipo di sviluppo tecnologico può alterare la forma o la frequenza che assumono le interazioni umane. Persone con diversi background culturali hanno potuto venire a contatto gli uni con gli altri, proprio grazie allo sviluppo dei treni o degli aerei; in tal modo, il contatto tra individui o gruppi può avvenire più
frequentemente e con un ritardo temporale minore, grazie allo sviluppo delle poste, del telefono e della CMC. Tali tipi di sviluppo vanno a costituire un potenziale materiale di studio per analisi psicologiche. Ma potrebbe tutto ciò implicare che vi sia la necessità di sviluppare degli speciali principi psicologici per parlare della vita sociale all’interno delle automobili o tra i possessori di automobili? C’è bisogno di una psicologia sociale per il telefono, distinta da quella per l’interazione faccia-a-faccia? Allo stesso modo, vi è la necessità di una psicologia qualitativamente distinta per le relazioni mediate dal computer? A ciò rispondiamo dicendo che i tipi di contesti fisici (es. aeroplani) e i modi di comunicazione (es. telefono, e-mail) non sono, in se stessi, delle variabili psicologicamente pertinenti. Piuttosto che pensare che ogni nuovo contesto tecnico in qualche modo porti con sé la sua personale psicologia, è importante coordinare le differenze tra i contesti e le differenze tra i modi di comunicare a variabili psicologiche quali la percezione, la motivazione o l’apprendimento. Per cui, quale tipo di percezioni, stati motivazionali o processi di apprendimento differiscono in funzione dei tipi di mediatori tecnici dell’interazione umana? Un semplice esempio può essere lo sviluppo del rapido trasporto tra diverse località. In antichità, era richiesta una considerevole capacità di differire la gratificazione quando le distanze tra parenti o amici stretti erano coperte da cavalli e carrozze. Utilizzando il linguaggio di Mischel W. (1996, 1974), queste rappresentavano delle circostanze ideali per infondere la capacità di ritardare la gratificazione rispetto allo stare assieme alle persone amate. Da quando l’accesso alle macchine o agli aerei è diventato largamente esteso, la necessità di ritardare la gratificazione e, quindi, la tolleranza alla frustrazione, ha cominciato a declinare. Chi vive in una società molto moderna dovrebbe sviluppare, di conseguenza, una minore capacità a ritardare la gratificazione nell’incontro. È da notare che qui non stiamo parlando di due diversi tipi di psicologia, piuttosto, la differenza fra i due contesti ha a che fare con la necessità di imparare certi repertori, in tal caso, la capacità di ritardare la gratificazione a proposito del contatto interpersonale. Un secondo esempio: da quando gli uffici postali sono stati resi accessibili alle grandi masse, è stato reso possibile un modo di comunicare completamente diverso da quello delle culture “orali” (Baldini M. , 1995). Non meno importante, le differenze tra culture con e senza servizio postale sono diventate descrivibili in termini di percezione. Più concretamente, la cultura orale richiede potenzialmente l’utilizzo di tutte le modalità sensoriali (visiva, acustica, olfattiva, tattile e persino la temperatura umana). La distanza interpersonale (Hall E. , 1966), il contatto visivo, il tono di voce, la postura, il modo di vestire, il tocco e l’espressione facciale sono assenti nel caso in cui la distanza sia percorsa da lettere o, nella storia più recente, dalle e-mail, dal fax e simili. Ma questo non richiede che la psicologia vada alla ricerca di una psicologia speciale per le relazioni mediate dalle lettere, o per quelle mediate dal fax. Dal nostro punto di vista l’analisi comincia domandandosi che cosa succede alle percezioni degli altri o di noi stessi, alle motivazioni pertinenti all’interazione ed ai processi di apprendimento quando viene meno la dimensionalità sensoriale delle relazioni. Partendo da questo punto di vista, vogliamo espandere la discussione a cominciare da McKenna K. , Bargh J. e collaboratori. Più specificatamente, vogliamo ripercorrere le loro assunzioni e conclusioni, non nel senso di un’ opposizione della vita reale alla CMC, ma dal punto di vista del ruolo della stimolazione sensoriale nella percezione interpersonale, nella motivazione e nell’apprendimento. Il ruolo dell’incompetenza sociale e della paura L’incompetenza sociale è costituita da una carenza di doti necessarie all’interazione sociale. Sin da bambino, ciascuno di noi trae infiniti insegnamenti dalla sincronia delle interazioni e dalle regole implicite dell’armonia sociale. L’incapacità a seguire tali regole produce l’effetto di diffondere disagio ed
ansia. Gli individui che mostrano carenze in questa capacità trovano delle difficoltà nel gestire gli scambi sociali anche dal punto di vista delle emozioni altrui. Infatti, ai fini del raggiungimento della competenza sociale, è importante saper osservare, interpretare e rispondere ai messaggi interpersonali ed emozionali. Tali capacità, ora descritte, fanno parte delle abilità dell’Intelligenza Sociale (Hatch, T. 1990), che permette di analizzare il comportamento sociale altrui, di produrre un comportamento adeguato alle situazioni e riconoscere le insidie motivazionali e comportamentali di se stessi, e dell’Intelligenza Emotiva ( Goleman D. , 1995), ossia, l’abilità a percepire, comprendere, regolare e gestire le emozioni in modo adattivo in sé e negli altri (Salovey, P. , Mayer J. 1990). Noi vediamo la possibilità che l’utilizzo di mezzi che abbiano una ridotta dimensionalità, ad esempio il telefono, il fax o internet, come tramite per stabilire e coltivare contatti sociali possa compromettere la struttura personale degli utenti, influendo negativamente sull’esercizio di queste capacità sociali, sull’espressione e la comprensione delle emozioni. McKenna K. e Bargh J. (2000) non sono i primi a dire che le relazioni mediate dal computer offrono un vantaggio speciale per le persone timide o imbarazzate, infatti, già nel 1993 la letteratura ha trattato questo punto per la realtà virtuale (Rheingold H. , 1993) ed ora la stessa idea sta permeando la letteratura sull’uso del computer. Da quando è nata, tale idea nella letteratura è stata formulata in termini di una contrapposizione tra l’ “essere timidi nel mondo reale” e l’ “ essere relativamente coraggiosi nel mondo della CMC”. Anche se vi sono delle varianti, sia Rheingold H. (1993) sia McKenna K. e Bargh J. (2000) assumono ciò: i contatti mediati dal computer che la popolazione dei timidi stabilisce implicheranno certamente delle esperienze remunerative, non ha importanza se queste continueranno ad essere “on line”, o, in qualche modo, si svilupperanno con degli incontri nel mondo reale. Evidentemente, gli autori assumono che questa popolazione di timidi sarà soddisfatta di questa vita sociale mediata dal computer, essendone gratificata attraverso tale esistenza sostitutiva, mentre la popolazione di non timidi semplicemente continuerà a svolgere i propri affari sociali nella modalità faccia-a-faccia. Accelerazione delle incompetenze sociali Ma ora ripartiamo dal punto della dimensionalità del contatto interpersonale, ovvero, può una data situazione di contatto comportare la dimensione visiva, acustica, olfattiva, tattile o, forse, nessuna di queste? Il lettore potrebbe, allo stesso modo, utilizzare il termine “ricchezza” del contatto, “densità”, o un altro termine. Ma, volendo essere specifici, per utilizzare la nozione di dimensionalità, dovremmo riferirci all’utilizzo di maggiori (o minori) dimensioni sensoriali. Ritornando al discorso sulle persone timide, è importante notare che i timori e le paure delle situazioni sociali che queste persone provano hanno a che fare con specifiche dimensioni. A differenza dei bambini piccoli, i quali vogliono un pieno contatto fisico con le loro madri, le persone che si prendono cura di loro, o con i compagni di gioco (Bowlby J. , 1973), crescendo, i bambini e gli adulti sviluppano dell’apprensione a proposito di una o più modalità sensoriali utilizzabili nelle relazioni sociali (Cottrell N. , Wack D. , Sekerak G. , Rittle R. , 1968). La dimensione acustica è un caso tipico: con la crescita si vengono a sviluppare delle paure riguardo al proprie modo di parlare. Forse perché non si è soddisfatti delle parole usate, forse per il tono della voce o probabilmente per la mancanza di un repertorio appropriato alle diverse occasioni, come nel caso in cui ci si trovi a parlare di fronte ad un’autorità, ad un gruppo di persone, quando ci si presenta ad un membro di sesso opposto, oppure, dovendo adeguare il proprio parlato a seconda dell’età del nostro interlocutore o delle sue origini etniche. In altre parole, numerose persone hanno delle paure ad utilizzare la loro voce in una moltitudine di contesti sociali concreti. La psicologia dell’educazione (Gresham F. , Elliott S. , 1984), la logopedia la
psicologia clinica (Reimer C. , Eckert J. , Hautzinger M. , Wilke E. , 1996) e molte altre scuole professionali vedrebbero la soluzione in termini di immersione. Dato che un’elevata dimensionalità nelle relazioni è importante per lo sviluppo, le persone “timide” dovrebbero sottoporsi ad un training attivo del parlato (di fronte ad una classe, di fronte a persone di vari background etnici o professionali). Questo è il classico rimedio per la mancanza di training e, per quanto riguarda la paura che lo accompagna, dovrebbe essere fornita un’esperienza terapeutica educativa, capace di condurre la persona ad una piena dimensionalità delle relazioni sociali. Vi è un’altra soluzione per le persone che mancano di esperienza. Si tratta di offrire alla persona i mezzi per sopravvivere nell’età adulta usando una ridotta dimensionalità nel contatto con gli altri. Ad esempio, se un bambino delle elementari mostra di aver paura nel parlare di fronte alla classe, l’insegnante potrebbe permettergli di sostituire il discorso con un piccolo riassunto scritto. Se un ragazzo è spaventato all’idea di chiedere ad una ragazza di uscire assieme, un amico potrebbe fare da mediatore, chiedendo lui stesso, per conto dell’altro, alla ragazza di uscire. Un giovane professore, terrificato dall’idea di parlare davanti ad una classe molto numerosa, potrebbe collezionare una raccolta di film, diapositive, interventi o quant’altro per scongiurare il momento critico rappresentato dalla performance orale. Proprio come nel proposito di McKenna K. e Bargh J. , queste persone timide fanno ricorso alla CMC per iniziare e continuare le relazioni sociali, quindi, il risultato di tutte queste manovre di fuga saranno ovviamente una continuazione del livello di paura ed incompetenza originali di trovarsi di fronte ad una comunicazione faccia-a-faccia. La prospettiva di chi? L’idea di offrire un facile modo di approcciare gli altri per chi è spaventato e manca di competenza, un modo di contatto che esuli dalla dimensionalità si indirizza immediatamente verso i bisogni della persona spaventata. Il focus dell’attenzione è su questa prima persona, l’attore, il “me” ed, in particolare, su ciò che tale persona desidera immediatamente. In questo caso, i desideri possono essere riassunti in termini di (a) desiderio di contatto umano, (b) evitamento degli incontri che provocano paura. Una negligenza nei termini di Rheingold H. (1993) e McKenna K. e Bargh J. (2000) offre la prospettiva a lungo termine della stessa persona che prova paura. Lo sviluppo di ogni repertorio complesso, sia esso un insieme di esperienze sociali e non, richiede dei conflitti di avvicinamento-evitamento. L’avvicinamento è un desiderio a lungo termine, che significa la crescita dei talenti della persona, la flessibilità, la confidenza con se stessi, l’intelligenza intellettuale ed emotiva. L’evitamento è costituito dagli sforzi, dal dolore, dall’umiliazione e dall’autoconsapevolezza che accompagnano in modo inevitabile l’acquisizione e l’internalizzazione di ogni nuovo insieme di esperienze (Wicklund R. , Brehm J. , in stampa, 2004). Nel reame dei repertori sociali e del loro sviluppo, è chiaro che gli sforzi, l’imbarazzo, il dolore e simili correlano a delle specifiche dimensioni che vengono coinvolte. Una persona richiede un training diretto o indiretto all’interno degli ambienti riguardo alle parti orali, visive, olfattive e tattili dell’interazione. Ad esempio, nell’apprendere come fronteggiare le numerose situazioni orali, la persona deve essere esposta e deve essere attiva nei confronti di situazioni che richiedono un’ampia varietà di vocabolario, toni di voce ed espressioni emotive. Lo stesso avviene per quanto riguarda il corpo, la postura o il modo di vestire. Gli aspetti tattili ed olfattivi dell’interazione sono inoltre inafferrabili (sottili) e non si possono imparare da un libro o da uno show televisivo. Di conseguenza, considerando le prospettive a lungo termine di bambini ed adolescenti, l’idea di offrire ad una persona una facile via di fuga, nel senso di una comunicazione mancante di dimensionalità, è piuttosto bizzarro. Tale forma di soluzione può soltanto impedire l’educazione nella vita sociale e rinforzare le
preesistenti paure e sentimenti di inferiorità. Dopo la prima, vi sono altre due prospettive che non sono state prese in considerazione dalla letteratura sulla comunicazione moderna. Una di queste è la presenza di una seconda persona, ovvero, il partner di interazione. Infatti, in queste trattazioni non vi è alcun riferimento a tale figura, all’altra persona, ai suoi bisogni, alle sue abitudini, alla sua disponibilità, al suo carattere, etc. Ad esempio, quando McKenna K. e Bargh J. (2000) si riferiscono chiaramente ad una “nuova forma di attrattiva”, non evidenziano l’esistenza dell’altro, disponibile via CMC, in termini di corporeità, tono di voce, modo di vestire o altre modalità sensoriali. Gli altri esistono, invece, in termini di parole che compaiono sullo schermo del computer, facendo sì che il partner venga a conoscenza della propria bellezza interiore, senza il “disturbo” degli indizi fisici. Sicuramente, l’assunzione di prospettiva visiva (Piaget J. , 1924) è per definizione impossibile nelle relazioni via CMC. Infatti, non vi è la presenza del tono di voce, dei movimenti del corpo, dell’espressione facciale o di altre situazioni che permettano di inferire la condizione altrui, come la timidezza, gli interessi o qualsivogliano emozioni concrete. In altre parole, una forte riduzione nella dimensionalità della comunicazione/relazione, ovvero delle informazioni forniteci dai nostri cinque sensi che insieme alle caratteristiche spazio-temporali ci permettono di dare forma alla realtà che ci circonda, porterà sicuramente con sé pesanti difficoltà nella lettura della prospettiva altrui in ogni dato momento. Non dovrebbe sorprendere troppo il fatto che è molto più facile venire meno alle promesse se si comunica via CMC, rispetto alla comunicazione faccia-a-faccia ( Wicklund R. , Vandekerckhove M. , 2000; Kiesler S. e coll. , 1996). Qualche anno fa, Baruch Y. (2001) ha proposto l’idea che l’organizzazione virtuale e delle telecomunicazioni in espansione possano creare una società severamente invalidata per quanto concerne la comunicazione interpersonale. Si tratterebbe di una società nella quale ciascuno è sempre più disabituato ad entrare in interazione con gli altri, se non attraverso dei modi puramente transazionali, venendo, così, a creare un “villaggio di poveri comunicatori”. Gli individui di trovano sempre più isolati dalle istituzioni sociali in direzione di un metaforico autismo. L’uso dei moderni mezzi di comunicazione guida la società verso l’autismo per tre ragioni fondamentali (Baruch Y. , 2001), che sono anche le tre caratteristiche principali di questo disturbo: 1) mancanza di contatto emotivo ed affettivo con gli altri; 2) presenza di comportamenti ripetitivi, infatti nell’utilizzare mezzi di comunicazione a bassa dimensionalità si rischia di cadere in un’insistente monotonia a causa della quale le persone si sottopongono a cicli di comportamento ripetitivi e, talvolta, alieni; 3) evitamento del contatto visivo. La terza prospettiva riguarda la società, ovvero, gli altri che osservano la relazione. Una relazione “on-line”, che avviene fuori dallo spazio sociale usuale, garantisce che gli altri non abbiano accesso alla relazione in corso. Gli altri non possono essere divertiti, impegnati o affascinati nell’assistere ad un’animata discussione di affari, un corteggiamento, un’esternazione di emozioni, perciò, gli altri risultano necessariamente esclusi dal partecipare alla relazione, dalla possibilità di alterarla, dall’esserne divertiti o spaventati, semplicemente perché la comunicazione via CMC non appartiene allo spazio pubblico. La letteratura sulla comunicazione, sulle relazioni, sull’intersoggettività è sensibile nei confronti dei possibili desideri dei partecipanti di ampliare la dimensionalità, ad esempio, incontrandosi di persona in qualche luogo, dopo che si è venuto a creare un legame grazie alla CMC. Ma vi è un evidente salto di fede in quest’idea, simile al presupposto che la verginità o l’astinenza siano la miglior preparazione per il matrimonio. Questo moderno metodo di socializzazione sostitutivo evidenzia una sorta di scetticismo legata alla disciplina del Puritanismo (Weber M. , 1904). Le parole che si scambiano sullo schermo di un computer, in una lettera o, persino oralmente al telefono, vanno a costituire piuttosto il minor contributo che causa il successo o il fallimento finali di una potenziale amicizia. Non è inutile che la psicologia e l’antropologia culturale abbondino in letteratura parlando a proposito del comportamento non-verbale relato all’armonia o alla disarmonia nelle relazioni sociali (Wicklund R. e Vandekerckhove
M. , 2000; Tannen D. , 1992; Hall E. , 1966). Questi potenziali incontri di persona, ed il successivo fiorire della relazione, che segue una prima conoscenza avvenuta attraverso una via che richiede una bassa dimensionalità, non sono poi così remunerativi come certi autori vogliono far credere, poiché, in realtà, si rivelano regolarmente dei fallimenti. Nuove identità e vero sé Focalizzandosi sui desideri immediati della persona, alcuni autori hanno ricercato un tipo di psicologia del sé per quanto riguarda internet. Ad esempio, secondo quanto è stato scritto dalla vasta letteratura sull’auto-stima (Markus H. e Kitayama S. , 1991; Brown J. , 1998; Tesser A. , 1988; Snyder M. , 1987 ), McKenna K. e Bargh J. (2000) hanno prestato particolare attenzione a quel tipo di soggetto che vuole incrementare l’auto-stima, sostenere un’identità insufficiente o danneggiata, o, più genericamente, ottenere la desiderabilità sociale come possessore di alcuni attributi positivi. Riferendosi all’assenza di costrizioni nell’esprimere una libera auto-presentazione su internet, McKenna K. e Bargh J. enfatizzano l’utilità di questo modo di comunicare nell’assegnare un’immagine positiva di se stessi. Per essere sicuri, un’interazione che sia priva di dimensionalità può difficilmente fornire una correzione al modo in cui le persone caratterizzano se stesse (attraente, intelligente, atletico, benestanteb) e senza tali correzioni che fanno, invece, parte di un’interazione con più dimensionalità, è probabile che i soggetti riconoscano la loro propria caratterizzazione. Dall’analisi di McKenna K. e Bargh J. , tutto ciò permette alle persone di sentirsi meglio con se stesse. Gli autori, così facendo, difficilmente tengono conto delle prospettive a lungo termine di chi fa uso di internet e che va in cerca di una nuova ed arricchita identità di sé. Ad esempio, se questa nuova identità viene poi portata negli incontri faccia-a-faccia, nei quali questi “costruttori di identità” si vedono, si ascoltano e si toccano reciprocamente, potrebbe essere che queste discrepanze si rivelino dei veri disastri? Quando Swann W. , Ely R. (1984) e Swann W. , Hill C. (1982), ad esempio, parlano della necessità di confermare l’immagine di sé negli altri, si riferiscono a delle ambientazioni sociali più classiche, in cui tutti i repertori delle esperienze sociali ed intellettuali possono essere confermate o disconfermate. Se confrontata, la versione della costruzione dell’identità di McKenna K. e Bargh J. risulta un processo “qui ed ora”, on-line e l’auto-stima, ottenuta in tale maniera, è destinata a rimanere un’auto-stima on-line. Considerando le prospettive del partner e della società, la concezione di McKenna K. e Bargh J. risulta essere un assalto all’intelligenza delle altre persone. Quando la persona A prende contatto con la persona B via lettera, telefono, fax, attraverso l’annuncio su un giornale, chat-room ed e-mail, vi è un implicito contratto sociale in cui le aspettative della persona B non verranno meno nel momento in cui si aggiungerà dimensionalità alla relazione. In breve, se una riduzione di dimensionalità alla relazione permette alla persona A di confondere le aspirazioni ed i desideri con la realtà, allora le prospettive delle parti della comunicazione, così come quelle che testimoniano la relazione, saranno ingannate ( Jones E. , 1964). L’unico modo che la persona A ha di uscire da tale dilemma, è una relazione continuativa limitata a delle interazioni con zero dimensionalità. Il vero sé. Due anni dopo aver trattato l’identità desiderata, Bargh J. , McKenna K. e Fitzsimons G. (2002) si sono occupati di dimostrare che ciò che loro chiamano “vero sé” risulta più accessibile su internet. Questa affermazione, presa da sola, crea senza dubbio una considerevole confusione nella letteratura del sé, semplicemente perché il sé è stato in letteratura definito come intimamente legato alla presenza fisica, al feedback altrui in certe situazioni, alle competenze ed alle esecuzioni in ambienti pubblici, e simili (Locke J. , 1998; Tesser A. , 1988; Wicklund R. e Gollwitzer P. , 1982;Swann W. , Hill C. , 1982; Mead G. , 1934; James W. , 1890). La confusione si allenta leggendo qual è l’idea che Bargh J. e colleghi (2002)
hanno a proposito del vero sé. Per loro, il vero sé si riferisce a delle affermazioni auto-referenziali che solitamente non si fanno nelle situazioni faccia-a-faccia (“io sono contro ogni religione; ho spesso il pensiero di nuocere agli altri; so di essere meglio dei miei amici”). Questi tipi di affermazioni costituiscono una varietà di confessioni sulla verità che riguarda la propria persona, confessioni che, in presenza di fattori inibenti, come la presenza di altri, verranno cancellati dalla comunicazione. Questo è molto simile ad una confessione all’interno di una chiesa cattolica, in cui l’anonimato è garantito e la dimensionalità della comunicazione è limitata soltanto alla voce. L’osservazione che delle affermazioni auto-referenziali estreme si possano effettuare quando sono assenti elementi sociali inibenti, non è di certo una novità. Di sicuro ciò viene attestato dalla letteratura sull’apertura del sé (Archer R. , Hormuth, S. , Berg J. , 1982; Jourard S. , Landsman T. , 1980. ) e sulla presentazione del sé ( Jones E. , 1990). Ma, all’interno del presente contesto della psicologia sociale su internet il fenomeno si trasforma nella seguente idea: va bene (per ciascuno) esprimere il vero sé, così come le espressioni sul vero sé hanno luogo prontamente nella comunicazione mediata dal computer, e il “vero sé” è costituito da delle affermazioni auto-referenziali, estreme, verbali, nel corso di una relazione virtuale. Da un punto di vista clinico, si potrebbe arguire che tutte le circostanze che permettono ad una persona di confessare, rivelare la verità personale siano salutari per il proprio essere (Pennebaker J. , 1989; Jourard S. , Landsman T. , 1980; Rogers C. , 1951). Il nostro interrogativo, riguardante Bargh J. e colleghi (2002), ha a che fare con la loro riduzione del sé ad un’auto-descrizione verbale estrema o socialmente non desiderabile. Dato che la letteratura classica sulla formazione e sul cambiamento del sé pone la persona all’interno di un ambiente sociale che richiede molteplici competenze e mutue reazioni, ne deriva che una comunicazione che richieda una dimensionalità vicina allo zero abbia praticamente zero capacità di toccare il sé di una persona, sé che è stato sviluppato lungo il corso degli anni. Da un punto di vista del partner e della società, di che utilità sono tali affermazioni estreme ed auto-referenziali? A parte il fatto di essere divertiti dalla reazione altrui, hanno forse qualche tipo di validità? Questo argomento, centrale nella psicologia del concetto del sé e dell’auto-stima, non trova posto all’interno della discussione di McKenna K. , Bargh J. e colleghi. Questo perché la validità richiede la dimensionalità del contatto con gli altri; la validità è più della semplice congruenza tra due o tre affermazioni auto-referenziali (Wicklund R. , 1990). Gli studi sulla validità pongono la persona all’interno di situazioni sociali vive, in modo tale che gli psicologi possano calcolare le correlazioni tra, ad esempio, gli indici comportamentali dell’estroversione, dell’aggressività e le affermazioni verbali precedenti o successive dei soggetti. Se chi si descrive non viene portato all’interno di situazioni con un’elevata dimensionalità ed attività, fare delle affermazioni estreme in un confessionale o su internet non serve a nessuno, se non ai propri impulsi catartici. Perché la dimensionalità ridotta si auto-perpetra? McKenna K. e Bargh J. (2000) suggeriscono che molte persone sono riluttanti ad adottare internet, o forse altre alternative permesse dalla CMC, a causa della paura nei confronti dell’avanzamento tecnologico. In altre parole, molte persone sono simili ai “Luddisti” (cfr, Roszak T. , 1986), scettiche e paurose nei confronti del progresso nella produzione, nel trasporto e nella comunicazione. Sicuramente, la paura del progresso tecnologico e la paura di imparare nuove routine possono essere trattate come un tema psicologico. Affrontare seriamente questo argomento richiederebbe di indagare sulle basi delle paure e delle appropriate procedure di training per le riserve riguardanti il mondo della tecnologia. Allo stesso tempo, McKenna K. e Bargh J. dichiarano che è
ingiustificato lo scetticismo riguardo alla possibilità di investire la vita sociale di una persona su internet. Nelle loro argomentazioni, vediamo che non viene trattato un tema centrale per la psicologia, ossia: come può la dimensionalità sostenere le relazioni umane nelle relazioni sociali, siano esse politiche, commerciali, di amicizia, di vicinato o innescare delle relazioni romantiche? In una discussione ampia e recente a proposito di internet e dell’educazione, Ferneding K. (2003) conclude che gli insegnanti delle scuole spesso sono critici riguardo la trasformazione in classi elettroniche, non perché questi insegnanti siano dei “Luddisti”, ma perché essi hanno testimoniato un declino nella qualità di certi aspetti centrali del processo pedagogico: è mutato, infatti, il significato del contatto tra insegnante ed alunni. Allo stesso modo, Gleick J. (1999), Locke J. (1998), Postman N. (1982) e Roszak T. (1986) hanno discusso in dettaglio le conseguenze socio-emozionali dello slittamento delle relazioni da una dimensionalità elevata ad una bassa. La preponderanza della letteratura associata alla CMC è a malapena accordata a quest’analisi e mostra solo un piccolo interesse nei confronti dei fenomeni sociali che richiedono una dimensionalità, ossia della ricchezza e del realismo propri degli scambi faccia a faccia, più completa, come, ad esempio, l’attaccamento e l’affetto tra gli infanti e chi se ne prende cura (Bowlby J, 1973), l’assunzione di prospettiva in contrapposizione all’egocentrismo, il comportamento non-verbale e para-linguistico, la prossemica. Un tipo di letteratura come quella allegata a McKenna K. e Bargh J. o Rheingold H. , inoltre, dimostra di non avere nessun interesse per quei gruppi che non acquisiscono il significato della riduzione di dimensionalità. Piuttosto, c’è l’orientamento a considerare che il mondo sia preparato per regolare il focus delle dinamiche interpersonali, per allontanarsi dagli indizi visivi, tattili, acustici ed olfattivi e di muoversi verso un ambiente in cui la dimensionalità sia minima. Ma perché esiste quest’ orientamento? Vogliamo proporre una risposta a questa domanda in due modi: (1) attraverso le giustificazioni per implementare la diminuzione di dimensionalità e, (2) le basi psicologiche del desiderio che ha chi comunica di ridurre la dimensionalità. Giustificazioni. La psicologia della dissonanza cognitiva ( Brehm J. e Cohen A. , 1962; Festinger L. , 1957) e la psicologia dell’attribuzione difensiva (Snyder M. L. , Stephan, W. , Rosenfield, D. , 1978; Shaver K. , 1975) rendono chiaro il fatto che gli esseri umani trovano delle ragioni e degli affetti positivi per ciò che hanno scelto. Non dovrebbe, quindi, sorprendere che le persone che scelgono un modo di vita sociale al posto di un altro, un modo di comunicare al posto di un altro, tenderanno a favorire e promuovere tale direzione. Una comune giustificazione, che sottende la ridotta dimensionalità, è proprio la velocità. Una lettera arriverà in soli due giorni (se confrontata con il tempo che si impiegherebbe a coprire la distanza andando a piedi), mentre, il telefono, il fax o l’e-mail sono praticamente istantanee. Ma, come precedentemente abbiamo notato, questo vantaggio della velocità deriva dal punto di vista della prima persona, e si radica nei desideri immediati di questa. Ad esempio, un utilizzatore A della CMC ha bisogno di un’opinione da un amico, l’utilizzatore B. La realizzazione di questo richiede pochi minuti o secondi, il tempo della scrittura e dell’invio del messaggio. Al momento dell’invio, A sa che il messaggio perverrà nella cassetta della posta di B in una frazione di secondo dopo la spedizione. Da qui il senso della velocità. Ma la velocità per chi? McKenna K. e Bargh J. (2000) considerano il ritardo nelle risposte come un vantaggio tra chi ha spedito il messaggio e chi lo riceve, per cui, se non siamo forzati a rispondere immediatamente (come nel caso del contatto “reale”), possiamo prenderla in modo più rilassato, senza dover annaspare per le parole. Allo stesso tempo, dobbiamo notare che non c’è niente di così particolarmente veloce negli scambi da assicurare A, che ha spedito il messaggio. Entrambi i partecipanti sono liberi di gestirsi il proprio tempo, di non rispondere o di rispondere in una maniera che corrisponda al senso del primo messaggio. In opposizione, una volta che è stato stabilito il primo contatto per telefono, o faccia-a-faccia, questo procede, ovviamente, con velocità. Gli obblighi costringono i partecipanti a dare una risposta; niente meno di una veloce risposta porta al margine tra “disturbato “ o “autistico”.
La velocità di comunicazione che riduce la dimensionalità è, in realtà, più lenta da un punto di vista fondamentale. Secondo la critica di Locke J. (1998), infatti, esercitare il proprio sé richiede una piena partecipazione sociale. Per dare senso al proprio ed altrui potenziale, alle competenze, alle emozioni, all’eloquenza e simili, non vi è altra alternativa che stare all’interno di un ambiente sociale con una piena dimensionalità. L’autore vede la separazione come una perdita di “voce”, ad esempio, la perdita del significato del sé e del sé degli altri. Partendo da questo punto di vista, simile a quello di seguire le prospettive altrui, piuttosto che gli stati di bisogno immediati del comunicatore stesso, un metodo per comunicare che non offre dimensionalità potrebbe essere considerato come infinitamente lento. Si potrebbero facilmente trovare altre giustificazioni nei desideri o bisogni immediati della prima persona. Perciò, il desiderio di fare una buona impressione nel momento in cui si familiarizza con gli altri, il desiderio di confessare, il desiderio di prendere contatto con numerose altre persone. Tutti questi argomenti vengono considerati vantaggiosi per la CMC all’interno della discussione di McKenna K. e Bargh J. . Tutte queste sono delle giustificazioni per una ridotta dimensionalità nella comunicazione, per la prospettiva immediata, del “qui ed ora” della prima persona. Tali giustificazioni, che prendono la forma del “è una buona cosa per me, per la mia persona, proprio ora”, hanno poi l’effetto di perpetuare l’orientamento alla ridotta dimensionalità. Allo stesso tempo, le giustificazioni di questo modello egocentrico sopprimono necessariamente la visione di altrui prospettive che si potrebbero acquisire potenzialmente per dare vita alla comunicazione ed alle relazioni. Le basi psicologiche Una lettura ingenua di Bowlby J. (1973), Tinbergen N. (1951), Hall E. (1966) o praticamente ogni altra lettura frutto dell’antropologia culturale potrebbe portarci a pensare che le persone rinuncino alla dimensionalità delle loro relazioni solo malvolentieri. Considerando questi punti di vista classici, i bisogni della persone e le proprie soddisfazioni hanno a che fare con il tatto, l’odorato, l’udito e la visione tridimensionale. Tale letteratura implica che l’essere umano è necessariamente attratto dal contatto umano, il quale richiede l’uso di modalità sensoriali. Com’è possibile, allora, che una parte della letteratura psicologica moderna dichiari praticamente l’opposto? La paura. Proprio come i bambini piccoli sono molto attratti dallo stare in compagnia di altre persone, la psicologia dello sviluppo parla anche di uno sviluppo relativamente universale della paura nei confronti di persone sconosciute o di oggetti spaventosi. Tali avversioni o paure, poi, diminuiranno o si moltiplicheranno, a seconda degli ambienti familiari o culturali. In casi estremi, potremmo parlare di un’atmosfera urbana, anonima ed oppressa dal crimine, in cui i media fanno del loro meglio per accentuare la valenza del pericolo. Ogni strada, allora, sarà pericolosa, automobili, scuole e chiese diventeranno associabili a delle paure anticipate, alla violenza. Anche il contatto con la dimensionalità, così, sarà pericoloso nella mente dei bambini, sovrastata da queste esperienze formative che come risultato produrranno una paura cronica, il sospetto ed una paranoia generalizzata. Nessuno si sorprenderà alla conclusione che questa varietà di paure croniche o di paranoia spingeranno le persone ad utilizzare dei modelli “sicuri” di comunicazione, portandoli a cercare di accontentarsi di un’educazione o di un’avventura virtuale. Ma le persone, inclusi coloro che scrivono letteratura sulla moderna comunicazione e sulle moderne relazioni e, sicuramente, la cultura della paura, influenzano il modo in cui questi autori affrontano l’argomento della dimensionalità. Un chiaro caso a riguardo è “ la nuova forma di attrattiva” di cui parlano McKenna K. e Bargh J. : conoscere la bellezza interiore delle persone, cosa apparentemente quasi attuabile senza il contatto faccia-a-faccia, diventa una forma di attrattiva migliore rispetto a quella basata sull’ingannevole presenza fisica, come ad esempio quella basata sulla rispettiva bellezza dei partner, i gusti nel
vestire, l’uso di gesti, la voce, il modo di parlare ed il movimento. Si ha l’impressione che una concentrazione culturale su questa bellezza non fisica, sia il prodotto di tante paure. Adattamento alla dimensionalità ridotta. Gli psicologi, i sociologi, i giornalisti ed altre persone che si occupano di scrivere sulla comunicazione moderna potrebbero (o non potrebbero) portare a relazionarsi agli altri sempre più spesso via telefono o internet. Come le persone medie di una società occidentale (Locke J. , 1998), possono essere allontanate dalla dimensionalità ed essere spinte ad affidarsi alla CMC. Come processo di adattamento, sembrerebbe chiaro che una persona, la quale vita sociale ruoti attorno alla CMC, consigli anche agli altri di seguire una simile condotta. D’altra parte, coloro che si sono adattati alla dimensionalità nelle relazioni raccomanderanno uno stile di vita con più dimensionalità. È stato condotto uno studio recente su questo argomento da Manger T. , Wicklund R. e Eikeland O. (2003) in cui tutti i partecipanti hanno ricevuto l’incarico dare dei consigli ad una persona che presumibilmente aveva dei problemi ad entrare in contatto con gli altri. I risultati dimostrano che, indipendentemente dall’età dei soggetti, coloro che facevano un pesante uso di forme di comunicazione a bassa dimensionalità (come e-mail ed sms) erano più inclini a risolvere i problemi dei target consigliando l’uso di chat-rooms, programmi al computer e cellulari. Al contrario, coloro che hanno un background di contatto diretto ed attivo, ad esempio gli insegnanti, sono meno disposti a consigliare chat-rooms, programmi al computer e cellulari come soluzioni.
Sommario Da una prospettiva psicologica non sarebbe ragionevole dire che alcune persone scelgono di usare la comunicazione via la CMC e che tali persone godranno quindi di una vita sociale superiore usufruendo dei vantaggi inerenti alla comunicazione elettronica. Piuttosto, le problematiche psicologiche sono queste: quali fattori, come la paura o la semplice disponibilità della tecnologia, spingono una persona a muoversi verso una minore dimensionalità nelle relazioni umane e da quale prospettiva emerge un risultato favorevole o non favorevole? Una riduzione drastica nella dimensionalità umana nelle culture occidentali e nelle loro psicologie ha prodotto un orientamento verso la prima persona. Tale orientamento riguarda gli imminenti desideri di questa persona portando ad un deterioramento degli atti comunicativi che questa persona svilupperà successivamente e dal benessere del partner e della società. La velocità e l’efficienza vengono, così, associati all’egocentrismo nelle relazioni umane.
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dalla traiettoria culturale occidentale. Ma attenzione: oggi, per le società musulmane, sarebbe più pertinente parlare di una crisi del soggetto nella sua relazione con il gruppo. Infatti lo sradicamento profondo di queste società ha spinto l’individuo a confrontarsi con altri orizzonti, che sono emanazione di una cultura di tipo individualistico: nel mondo islamico contemporaneo le nuove culture urbane, le nuove socializzazioni, i nuovi vettori culturali definiscono una relazione conflittuale fra il soggetto e il gruppo, dove il gruppo può essere la tribù, il clan, la famiglia allargata, il sistema della parentela, vale a dire una serie di luoghi in cui la relazione fra individuo e identità tende e tenderà a riformularsi. Uno studioso marocchino, Abdelkader Khatibi, ha evidenziato nel suo saggio La blessure du nom propre (La ferita del nome proprio) come la famiglia nel mondo musulmano costituisca il luogo privilegiato in cui si articola tale scontro fra soggetto e gruppo: un individuo si trova, secondo l’autore, ferito dal nome che porta perché quest’ultimo gli rende difficile o impossibile conquistarsi uno spazio di libertà; il nome proprio è dunque spesso una prigione. Si capisce allora come, in tutto il mondo musulmano, la questione della società civile rappresenti una posta in gioco fondamentale: poiché una società civile senza il paradigma del soggetto rimane una società zoppicante nelle vie complesse della soggettività. Negli ultimi anni la nozione di “società civile” è stata spesso utilizzata senza definirla chiaramente. Il suo significato più diffuso tende a individuare la capacità dei cittadini di dotarsi di organizzazioni sociali autonome che possono resistere, in alcune situazioni, all’esercizio arbitrario del potere dello stato. Ma il termine “civile” designa anche la persona, l’organismo, le istituzioni che non sono né militari né religiose. Dunque la società civile può essere analizzata a partire dalla sua relazione da un lato con la “società militare” e dall’altro lato con la “società confessionale”; queste ultime, durante il XX secolo, hanno svolto un ruolo importante nella formazione della cittadinanza del mondo arabo (Maghreb e Machreq). Capire la società civile nel mondo arabo significa quindi analizzarne i diversi aspetti rispetto a due elementi: la relazione dei cittadini con il potere – governo ed esercito – e con le appartenenze religiose. La dicotomia fra società civile e comunità religiose e il suo tradursi nel considerare gli individui dei cittadini/credenti, costituisce una delle caratteristiche delle società nel mondo arabo. Tale atteggiamento risale all’epoca della creazione dello stato-nazione e va ricondotto al tentativo delle élite nazionaliste di favorire una comprensione politicamente moderna della nazione: cercando di sottrarre alla religione il ruolo di principio organizzatore della società, si voleva introdurre una comprensione culturale del fatto nazionale ricorrendo all’islam in quanto meccanismo di controllo; esso serviva a legittimare l’ordine stabilito e fungeva da elemento di identità per riaffermare i valori culturali endogeni. La funzione della religione in questo caso è stata duplice: in primo luogo è valsa a legittimare l’ordine politico, in secondo luogo ad aggregare l’individuo intorno all’islam in quanto identità strutturante. I due elementi destinati a destituire la religione dal ruolo di elemento centrale della società sono stati la secolarizzazione e il nazionalismo. Con la secolarizzazione, si cercava di rimpiazzare la religione in quanto fondamento primario dell’identità, della lealtà e dell’autorità. Con il nazionalismo, si voleva offrire una soluzione di ricambio: la nazione doveva rappresentare un nuovo oggetto di culto. Perciò i nuovi stati, attraverso il nazionalismo arabo, fondarono gran parte della loro legittimità sull’edificazione, lo sviluppo e la modernizzazione della nazione. Ma l’incapacità dei governi di definire il ruolo della religione e del sacro nella società li ha condotti al fallimento quasi totale nel portare a termine il processo di secolarizzazione. L’eclettismo dei valori su cui quelle nazioni si sono fondate, e le loro ambiguità, sono all’origine delle gravi contraddizioni che caratterizzeranno, dagli anni ’80 del secolo scorso ad
oggi, lo scontro fra due legittimità: quella secolare e quella religiosa. Da un lato si pretende che l’islam regni ma non governi: le costituzioni dei paesi arabi sottolineano con insistenza l’appartenenza dei loro popoli alla nazione araba, proclamando l’islam religione di stato e spesso, anche se con interpretazioni diverse, la shari’a fonte di legittimazione. E anche se alcuni elementi del diritto positivo articolano oggi quelle società, negli ultimi trent’anni si è assistito ad un processo di shariatizzazione del diritto, strategia adottata da quegli stati per cercare di non essere travolti dai movimenti neofondamentalisti. Il caso dell’Egitto è emblematico in proposito: gli ulema di Al Azhar diventano i censori dello stato, e lo obbligano a cedere sempre più sul terreno della legge religiosa. Ne risulta da una parte l’indebolimento della società civile, dall’altra un’esasperazione delle contraddizioni fra stato e società. In tal modo la sovrapposizione tra il carattere confessionale assunto dalle entità statali e il carattere “laico” dello stato nelle sue prassi caratterizza la maggioranza dei paesi arabi: emerge cioè una difficile coabitazione fra la società civile e lo stato. In quanto entità politiche, gli stati arabi sono formalmente organizzati secondo i canoni della modernità nelle loro norme: costituzione, codice civile e penale, istituzioni, parlamento, partiti, elezioni e forme di governo liberale o socialista. Le costituzioni dei paesi arabi assumono i principi universali di uguaglianza, senza discriminare sesso, razza o religione, considerando gli individui dei cittadini (muwawitinun) che obbediscono a legislazioni spesso basate sul diritto positivo. Ma la nazione in quanto entità culturale si è concretizzata nel considerare l’individuo come credente (mu’minun), e nel primato della comunità sull’individuo. La nazione è quindi definita nel quadro di un insieme sovraterritoriale, rappresentato dalla umma in quanto comunità formata da tutti i musulmani, comunità che sin dall’origine dell’islam rappresenta il patrimonio culturale e religioso comune. La umma non permette dicotomia tra società civile e società religiosa. In essa, la comunità o il gruppo prevale sull’individuo, e la società si organizza in funzione dell’appartenenza culturale e religiosa, al di là della nozione di cittadinanza. È dunque la legge religiosa che regola lo statuto personale fra i musulmani, e determina così forti discriminazioni fra uomini e donne, fra musulmani e non musulmani. Così ad esempio in alcuni paesi arabi le donne non possono accedere alla carriera di magistrato, perché secondo la shari’a un uomo non può essere giudicato da una donna. Anche se le costituzioni nei paesi arabi possono sancire un principio di eguaglianza teorico, quel principio d’uguaglianza è subito negato da varie norme, che regolano ad esempio il diritto di famiglia o lo statuto personale. Di conseguenza la società civile, nel mondo arabo in generale, si scontra con gli imperativi della comunità culturale e religiosa in cui l’individuo non è autonomo ma appartiene al gruppo, dal quale non deve differenziarsi ma al quale deve fedeltà.
Alcune linee di riflessione La società civile mette a fuoco le contraddizioni fra il condizionamento culturale e religioso e i principi fondativi della nazione nel mondo arabo. Esiste oggi nel mondo arabo il tentativo di leggere la società civile attraverso il ruolo che alcuni apparati dello stato possono svolgere nel promuovere associazioni caritative, culturali o altro. Ma è evidente che questo processo si inserisce in una doppia logica: logica del controllo sociale attraverso lo stato, logica del controllo religioso attraverso i corpi religiosi dello stato stesso (università religiose, etc. ). Vi è la necessità di definire delle tipologie sulla questione della società civile nel Maghreb e nel Machreq. La contraddizione che scaturisce dall’idea di società civile nel mondo arabo fa apparire oggi nuovi attori (donne, scrittori, artisti) e nuove culture urbane delle metropoli arabe. Tutte queste espressioni sono ancora alogene al modo di
strutturarsi della società nel mondo arabo, ma vanno considerate dei segni inediti di un nuovo ambito, oggi sociale e domani politico. Vi è la necessità per il mondo arabo di guardare ad altre esperienze, in particolare quella turca, ma anche alla diaspora araba in Europa. *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* IL SUPERAMENTO DELL’IO NEL MONDO DELLE RELIGIONI. Una breve tipologia e un confronto tra cristianesimo e religioni orietali. 1. Introduzione: la sproporzione dell’io. “La mia anima oggi si fa albero. Ieri, la sentii fonte” (P. Valéry) Quello che intendo mettere in risalto in questo saggio, rispettando il compito che mi è stato affidato, vuole essere la messa a punto dell’asserto seguente: vi è una sproporzione all’interno dell’io tra il suo essere “soggetto per il mondo” e, nello stesso, tempo il suo essere “oggetto nel mondo”. Il riferimento è soprattutto a Husserl e a Derrida. Ora su questo primo asserto fondamentale, facendo riferimento a tipi ideali nel costituirsi del mondo delle religioni, cercherò di elaborare l’asserto espresso mettendo a fuoco la lacerazione dell’uomo che ne è l’esito più evidente. In altre parole cercherò di chiarire sullo sfondo delle varie esperienze religiose lo stato di ‘ambivalenza’ e di ‘fibrillazione’ dell’io, mettendo in gioco i presupposti più importanti delle religioni, nel tentativo di risolvere l’ enigma della soggettività che ha sempre come sua interfaccia l’opacità dell’oggettivo e dell’ “oggettivazione”. Per questo disegno globale interrogherò brevemente il cristianesimo creando poi un breve confronto con le religioni orientali e appgoggiandomi a brevi considerazioni di carattere fenomenologico e storico-religioso nello stesso tempo. Del resto, a un pensiero che pensa in un orizzonte teorico e trascendentale, non può sfuggire la dualità insanabile della persona umana. Anche se si volessero mettere in parentesi le classiche distinzione tra corpo e spirito, tra mente e pensiero, tra esterno e interno, tra Leib e Koerper resta qualcosa di non risolto nell’uomo e nella sua persona in quanto persona. Il leit-motiv alla fine è sempre lo stesso: l’io è il luogo della contraddizione della realtà dell’uomo, contraddistinta dal disagio del suo non potersi mai cogliere in pienezza, del suo essere in un modo e poi in un altro, diverso. Il cambiamento nel tempo del suo essere in quanto un insieme di sensazioni e percezioni, ha un risvolto contradditorio nell’ego trascendentale che appare essere il vero momento di identità della persona, dove l’io è portato a commisurarsi all’ “idea” e a un orizzonte globale di significato. In definitiva, l’io vive una doppia vita: il suo essere “nel particolare” e nello stesso tempo il suo potersi pensare nell’ “universale”. Tutto ciò ha avuto da sempre degli effetti non secondari anche o soprattutto in chiave religiosa. Nella riflessione di Derrida questo problema diventa la contraddizione stessa tra l’originario e il costituirsi nello scorrere del tempo: “Ma come è possibile l’impossibile? - egli scrive - Come può la fonte dividersi - le fonti germinali fin dal titolo - e dunque distanziarsi da se stessa per rapportarsi a se stessa, lei che è, in quanto origine pura, la mancanza di riferimento a sé? ”1. La coscienza pura non può darsi di se stessa alcuna immagine, ma anche questo lo si può dire a partire già da un momento derivato e non più originario, in quanto si è fatto di questa coscienza un occhio che guarda, e della fonte, nella considerazione di Derrida, si è già fatto una spettatrice. In chiave religiosa, tramite questa dicotomia e questa contraddizione si è forse venuto a configurare il luogo per eccellenza della “salvezza”, come soluzione della contraddizione, come congiunzione di particolare e universale, e dunque come “integrità”, come ricongiunimento dell’io con un io più profondo e più alto, dove
inside l’ idea stessa della redenzione. Quell’intercapedine o meglio quell’abisso (Abgrund), che esiste nell’io tra il suo essere “soggetto per il mondo” e il suo essere nello stesso tempo “oggetto nel mondo”, sembra dunque riportarci al punto della più alta dialettica e tensione tra due poli di riferimento, tra due dinamiche totali. La filosofia, la religione, l’arte si sono impegnate da sempre a esaltare il particolare nell’universale o l’universale del soggetto nel particolare dell’oggetto, facendo costante riferimento, alternativamente ma mai disgiuntamente, all’io, alla sensibilità, al pensiero, allo spirito, al sé spirituale, per arrivare fino alla concezione di Dio come il vero Sé. K. Popper nel famoso saggio Conoscenza oggettiva2 aveva distinto tre tipi di mondo: il mondo degli oggetti fisici o degli stati fisici; il mondo degli stati di coscienza o degli stati mentali e in terzo luogo, il mondo dei “contenuti oggettivi del pensiero”, specialmente dei pensieri scientifici e delle opere d’arte. Si è trattato di una grande distinzione che cercava di fare ordine tra mondo e mondo, tra oggettivismo e soggettivismo, tra realtà esterne e realtà interne, ma con questo non si può pensare che l’autore credesse di poter convincere l’uomo di essere in parte ‘soggetto’ e in parte ‘oggetto’. L’uomo non è diviso a metà, consegnato per metà al mondo degli oggetti fisici e per metà al mondo dell’universale. Non è così. L’uomo pretende di essere soggetto in ogni caso e non riconosce la divisibilità del suo essere. Per questo motivo occorre dire dell’assoluta incompletezza delle tesi di Popper. Si può distinguere il mondo come fa K. Popper in maniera tanto semplice e credere che quelle distinzioni possano valere e restare tali nell’ambito della conoscenza umana? Dal punto di vista teorico rappresentano significativamente diversi livelli di realtà, ma in pratica quei livelli non hanno alcuna funzione, soprattutto in relazione all’io, in quanto le interferenze sono talmente frequenti che annullano qualsiasi possibilità di delimitare i rispettivi campi del sapere. Non occorre ricorrere ai post-popperiani come T. Kuhn, P. Feyerabend, o I. Lakatos ecc. per capire che quelle distinzioni erano alla fine molto provvisorie e nascondevano ancora le insidie ideologiche della scienza. Gli stati di coscienza, infatti, interferiscono con gli oggetti, mentre i “contenuti oggettivi di pensiero” sono sempre pronti a trasformarsi in forme “soggettive”, in costruzioni autonome, sono sempre tentati di passare ad altro, di “essere altro” da quello che sono. Gli stati mentali infatti, per loro natura non sono rigidi e non sono descrivibili come oggetti. Non si possono considerare neppure livelli distinti nel mondo della vita per le innumerevoli interferenze che provocano e i corticircuiti che vi nascono. L’ermeneutica ci insegna da tempo che la mente sfugge - almeno per ora - a ogni categorizzazione scientifica, a ogni visione oggettiva e oggettivante, a ogni determinazione puramente fisica, nonostante le nuove pretese che avanzano ora le neuroscienze3. Parlando dell’uomo e delle sue esperienze, occorrerebbe far riferimento a una logica “non lineare”, a un mondo soggettivo/oggettivo per descrivere il quale, occorre valorizzare i vari incroci e le interferenze che si danno tra mondi e occorre, alla fine, accettare la complessità che ne risulta. Il grande paradigma di riferimento, il vero topos è quello di Husserl. Nel famoso paragrafo 53 della Krisis parla dell’uomo come “soggetto per il mondo” e dell’uomo come “oggetto nel mondo”4, tema che mette in luce, nella sua radice ultima, la correlazione, l’intreccio e il paradosso che risulta tra “esterno” e “interno”, tra “dentro” e “fuori”, tra etics (fonetica esterna) ed emics (fonemica interna), tra causa e motivazione, tra regole sociali ed esperienza interna. È tutta qui la forza e la contraddizione dell’uomo e dei suoi mondi. È data dall’intreccio profondo e inestricabile tra queste due polarità che sconvolgono ogni riflessione superficiale, in quanto l’oggetto, inteso come “lo spazio della natura”, deve giocare con l’interfaccia sconcertante della mente intesa come “lo spazio delle ragioni”5. “L’elemento soggettivo del mondo - scrive Husserl - inghiotte per così dire il mondo e perciò anche se stesso”. Questo è il dato di fatto. “Il mondo che è per noi, che nel suo senso e nell’ ‘essere -così’, è il nostro mondo, attinge il suo senso d’essere esclusivamente alla nostra vita intenzionale, attraverso un
complesso di operazioni tipiche di operazioni che possono essere rilevate a priori”6. Perciò, per capire il senso autentico delle proprie operazioni occorre partire da auto-considerazioni, da riflessioni che devono essere sempre rinnovate. 2. L’io al centro del mondo? La crisi dell’io. Dopo una prima messa in scena della contradditorietà in cui vive l’io, vediamo alcune espressioni moderne e post-moderne di tale situazione riferentesi all’io nel mondo attuale e importanti nel mondo contemporaneo. Questa breve sottolineatura ci introduce in maniera più immediata ai tentativi che poi da sempre le religioni compiono in ordine alla composizione del conflitto. La più forte contraddizione che si vive nel mondo contemporaneo sta proprio in rapporto all’io. Da una parte, ci si porta dietro un’eredità pesante, in cui soprattutto a partire da Cartesio l’io è sempre più al centro: tutto è in riferimento al soggetto, all’io all’intenzionalità, alla coscienza. L’uomo è al centro come realtà spirituale. Il soggetto uomo è qualcosa di autonomo, si presenta come sciolto dalla sua natura biologica e capace di assomigliare più a Dio che al mondo naturale in cui abita. Non c’è dubbio, l’ego cogito ha significato in epoca moderna l’innalzamento dell’ uomo al di sopra di ogni altro essere vivente e senziente. L’uomo è stato posto in una nicchia a parte, quasi non fosse più figlio della terra e con la sua mente potesse vivere esclusivamente nell’ “universale”. Si è arrivati incautamente a considerare “l’io è al di sopra di tutta la realtà”. Si ricordi Pascal quando osservava che un pensiero soltanto valeva più di tutte le galassie e di tutti gli universi celesti. Il riferimento all’io è stato forte, soprattutto nella cultura occidentale. Si è fatta l’apoteosi dell’io “soggetto nel mondo”, unico soggetto capace di trascendere totalmente tutta la materia e il mondo animale, con una spregiudicatzza tale che oggi ci appare del tutto “dissennata”. Si è parlato di antropo-centrismo (l’uomo è al centro del mondo) chiaramente in relazione e in dipendenza da un mono-teismo e teo-centrismo altrettanto assoluto (Il Dio unico è il supremo signore). E come Dio è unico e supremo così l’uomo starà al centro dell’universo: sarà unico sulla terra e sarà la prima creatura, oltre che il primo antogonista di Dio7. In questo contesto si è iscritta sempre più la visione mono-logica del mondo, la razionalità onnicomprensiva, si è iscritta soprattutto la comprensibilità totale dell’universo à la Laplace. Dall’altra, oggi le attuali scienze cognitive così come le neuroscienze - sempre più consapevoli dell’altro polo, quello opposto alla spiritualità - considerano l’io come un organismo biologico, la cui mente altro non fa che cercare di organizzare il mondo/ambiente nel modo più adatto alla sopravvivenza. Queste scienze tendono a consegnarci una figura di uomo che è ‘depotenziata’. L’uomo viene visto per così dire ‘decapitato’ della sua coscienza e sottratto al suo mondo particolare della sua intenzionalità originaria. Queste scienze, facendo capo sempre più alla visione dell’uomo in quanto realtà “naturale” si alleano al mondo delle scienze positive, esaltano sempre più i problemi degli automatismi conoscitivi fatti di informazione a carattere più o meno computazionale e traducono la semantica dei significati in una semiotica dei puri segni mentre l’intenzionalità del pensiero si sottostima in nome di una pura strumentalità causale. Si giunge così ad escludere o a eliminare la coscienza stessa. Tutto ciò si presenta oggi con il crisma della scienza, della scienza della mente e trova grandi convalide. Ciò ad esempio avviene nella visione eliminativista della coscienza di P. Churchland8, nella visione neurobiologica dello scienziato Changeux9, come anche nel cognitivista e filosofo D. Dennett10, soltanto per nominare alcuni studiosi più significativi. 3. La deriva estetizzante dell’io nel post-moderno. Ora tra le due figure, questa second figura che indica il “depotenziamento” dell’io sembra prevalere. L’uomo post- moderno supera in qualche modo il rapporto di tensione tra i due poli dell’io non credendo più a se stesso e dubitando anche delle scienze. L’uomo d’oggi è scettico sia in relazione alla metafisica, sia in
rapporto alle scienze neurologiche, alla natura, al mondo della pura naturalità, in poche parole, non assolutizza neppure l’io “opaco” dell’oggettività. Potremmo dire che vive la contraddizione portandola a una sua catarsi estetica. Naturalmente la problematica è viva anche oggi: l’io potente e l’io debole, l’io trascendentale e l’io fatto di carne, le grandi idee metafisiche dell’uomo e la sua miseria biologica ed esistenziale, ambedue gli ambiti diventano però abbastanza indifferenti all’uomo post-moderno, che ha scelto di vivere senza presupposti e senza pregiudizi. Oggi più che mai ci si rende conto della futilità dei nostri presupposti e del valore effimero dei nostri pregiudizi di “onnipotenza”. Oggi risalta soprattutto la fragilità dell’io: l’io è “il volto di sabbia disegnato sulla spiaggia del mare” (Foucault). Questo forse è ciò che maggiormente è posto in evidenza. È sufficiente un colpo di vento e quel volto si cancella, scompare, non esiste più. Ricchezza e povertà dell’io, grandezza e miseria del soggetto diventano temi centrali della riflessione contemporanea sotto un’altra luce, meno metafisica e più umana, meno esistenziale e drammatica e più a livello di. L’uomo è consapevole di questa sua difficile tenuta, ma preferisce vivere in una specie di “seconda ingenuità”. J. Lyotard ha colto bene il senso della dinamica del mondo contemporaneo quando ha scritto: “Ognuno di noi è rinviato a se stesso. E ognuno di noi sa che questo sé è ben poca cosa”11. Il nostro tempo si scopre essere perttanto in una situazione di deriva, ma nello stesso tempo questo smarrimento, in cui si gioca le sorti dell’io, viene accettato e metabolizzato a livello estetico ed estetizzante. Se tutta la cultura ormai gravita intorno all’io e se l’io - nella sua soggettività, che decade continuamente in oggettività - sente sempre più la crisi e l’evanescenza di tutte le sue performances: l’io è poca cosa. E il post-moderno si accontetna di questa poca cosa. Se l’esperienza del soggetto si dà essenzialmente in quanto essere ‘depotenziato’ e ‘destrutturato’ se l’io risulta essere soltanto una costellazioni di desideri e di pulsioni e niente altro, l’io dell’uomo post-moderno convive con queste sue difficoltà cercando sempre di nuovo un superamento a sfondo ludicoestetico. Ha ragione Ihab Hassan quando scrive che l’uomo post-moderno “si rivolge verso forme giocose, desiderative, disgiuntive, dislocate o intederminate, verso un discorso di frammenti, un’ideologia della frattura, . . . un’invocazione di silenzi”. Va verso tutto ciò pur implicando i loro contrari e le relative realtà antitetiche”12 Annunciata questa incapacità di essere se stesso, sembra dunque che l’unica variante di significato che ne risulta per l’uomo post-moderno sia una rinnovata visione “estetico-ludica”. Egli teorizza e vive soprattutto il frammento, la precarietà, l’istantaneità, la de-strutturazione. Perciò si può dire ormai che la vita esiste se esiste l’arte, se esiste il gioco, come evasione, come momento di divertissement. Le religioni però possono fare quanto l’arte o forse di più dell’arte stessa, nella vita concreta per la composizione del dissidio. 3. L’io è tematizzato nella sua dualità nel mondo delle religioni. Anzitutto, anche nelle religioni il “doppio io” fa problema: quello materiale e quello spirituale vengono tematizzati in vario modo e secondo annotazioni chiare derivanti dai rispettivi principi religiosi. Da una parte è in gioco sempre l’io, ‘oggetto nel mondo’ (io materiale) e dall’altra, dell’io ‘soggetto per il mondo’ (io spirituale). Si crea presto una visione a sfondo manicheo. In questo contesto anzitutto è da notare che tutte le religioni sembrano insegnare il distacco dall’io materiale per raggiungere il centro della religione e dell’esperienza religiosa (“io spirituale”). Anzitutto, dunque, occorre osservare che nessuna religione incoraggia l’io empirico, l’io “oggetto” nel mondo. Ora la domanda diventa naturale anche in questo contesto: come mai questa opposizione al mondo dell’io? Come mai le religioni tutte le religioni si oppongono all’io, direttamente o indirettamente? Forse si incomincia a intravvedere attraverso questa domanda come l’io faccia parte del
mondo fattuale e sia pertanto la causa prima del limite, dell’esperienza de limite (Grenzerfahrung) che le religioni hanno capito profondamente. A livello esistenziale, da sempre si è capito il senso del limite, ma a livello fenomenologico ne è stato esplicitato il significato, l’eidos attraverso i miti “violenti” delle origini, il peccato originale, il dualismo iranico, l’apocalittica come dissidio, come esperienza contradditoria tra il problema della storia e l’esigenza inderogabile della fine della storia. Le religioni hanno capito più profondamente delle culture come il limite dell’uomo è dato dal suo stesso “io empirico” quale fenomeno di corrosione nel tempo e dunque hanno cercato di negare l’io per ritrovare lo spirituale. Nella dialettica enunciata sopra, hanno optato costantemente e risolutamente per l’io in quanto “soggetto per il mondo”. In questo senso, si può osservare che ogni religione dà un giudizio almeno in parte negativo sulla vita e sul presente. Negare il valore dell’io empirico ha comportato un certo dualismo, così come una qualche forma di “manicheismo”. Il platonismo e il neo-platonismo, e indietro il dualismo iranico, e in avanti lo gnosticismo, il mandeismo, l’encratismo hanno accettato e riproposto questa sfida dualistica, questa alterità dell’io rispetto all’io. È un motivo assolutamente prioritario nelle religioni l’idea che occorre combattere l’io fatto di limiti, fatto di materia e occorre dare la priorità alla luce contro le tenebre (manicheismo), all’ io spirituale contro quello carnale o psichico (gnosticismo), occorre priviliegare l’io vero come il vero Sé del mondo orientale (Atman). Per questa stessa dicotomia fondamentale tra sé e se stessi, secondo la maggior parte delle religioni, ha sempre osservato che le cose non vanno bene. In questo mondo non c’è “salvezza”, salvezza intesa come integrità, come olon, Heil, svastha, come whole. L’io è un io che bisogna superare: bisogna raggiungere lo spirituale, in quanto l’io può nascondere e occultare totalmente lo spirituale. E lo spirituale dell’io non è altro che il sé, che è il divino stesso, nel mondo orientale. Ogni religione è basata, dunque, su una dicotomia originaria. Si dirà che occorre rinunciare al peccato, che è necessario non accumulare karma e distaccarsi dal proprio io per tornare a Dio ( o per capire il valore del Sé). L’ascesi è fondamentale nelle religioni così come lo yoga e la meditazione lo sono nelle religioni orientali. Per liberarsi dalla visione ‘mondana’ e rinunciare a quell’io che è soggetto di tutte le nostre sofferenze, secondo il Buddhismo, servono delle tecniche meditative, serve la meditazione vipassana, quella chiarificatrice. Alla fine c’è uno scarto incolmabile tra l’insegnamento delle religioni e ciò che insegna il mondo: c’è una scelta da fare tra l’io empirico e l’io spirituale. Come opera e come si mostra questo distacco dall’io personale e sociale nelle religioni? Anzitutto e in chiave storica, tutte le religioni nascono dalla ‘marginalità’. Dunque nascono da un io non considerato e non riconosciuto socialmente. È la prima sconfessione dell’io: un io povero dal punto di visto strutturale e sociale si avvicina a un “non-io empirico”. Gesù Cristo era infatti un marginale. È nato in una stalla. È vissuto quaranta giorni nel deserto. Non predicava la dottrina degli altri maestri. Viveva fuori dalla convenzioni sociali e religiose del suo tempo. Socialmente anche il profeta Zaratustra era un marginale; Buddha, a suo modo, si è fatto un marginale per scoprire la bodhi, la verità. La marginalità era anche la condizione più grande in ordine alla valorizzazione del suo messaggio13. In secondo luogo predicano il distacco dall’io come vera ascesi. Tutte le religioni contemplano l’ascetica come una grande iniziazione, come un rito di iniziazione, come la necessità di separarsi dal sociale e il bisogno assoluto di staccarsi dalla “struttura” per dare spazio “anti-struttura”, alla communitas14. Ciò è presente sia nelle religioni orientali come anche nella visione cristiana. Gesù era un grande asceta. Ma si può affermare la stessa cosa anche dello gnosticismo, del manicheismo, del mandeismo, nel buddhismo, nell’induismo, nel jainismo, e di pressoché tutte le religioni. Sempre si è praticato e si pratica l’ascesi, il distacco dai piaceri, la mortificazione dei sensi, la rinuncia all’io. Non da ultimo, anche nel mondo New Age vi è qualcosa come un’ascesi. L’accentuazione dell’io infatti è il segno di una disarmonia tra il nostro io, che
è ancora schiavo e la realtà che invece dovremmo ritrovare intera e armoniosa. Se non avviene l’integrazione dell’io con l’universo intero, con le energie spirituali, non c’è possibilità di armonia15. E tutto ciò richiede un distacco e un controllo dei sensi. Anche nella visione della Scientologia ci sono tappe e modi diversi per raggiungere l’io più vero e più profondo: dall’io ‘engrammatico’ (l’io materiale) occorre pervenire all’io del ‘clear’(l’io spirituale), di colui che è libero spiritualmente e l’io del ‘clear’ a sua volta deve poi promuovere l’io totalmente spirituale che è l’io più profondo che è in noi e cioè il thetan; si tratta di un io totalmente libero dai condizionamenti materiali, libero dalle forze del MEST (materia, energia, spazio e tempo). Dunque in tutte le religioni sembra che ci sia una lotta contro l’io per raggiungere un io più alto, più sublime. 4. Diverso modo di superare l’io nel Cristianesimo e nelle religioni dell’Oriente. 4. 1. Il distacco dall’io nel Cristianesimo. Il distacco dall’io predicato da Cristo è stato forte, potente: “occorre perdere la propria vita per ritrovarla”; “lascia tutto quello che ha vieni e seguimi!” La visione del Vangelo è radicale e non ammette un qualsiasi attaccamento al proprio io. “Chi ha posto mano all’aratro e si volge indietro, non è degno di me”. Questo comandamento è stato svolto poi nel cristianesimo secondo il principio dell’amore: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito. . . ”. Ascesi e donazione si incontrano nell’amore, nella visione cristiana. La novità della visione cristiana si realizza attraverso il superamento e il distacco dall’io per mezzo dell’amore e della donazione ai fratelli. Il cristianesimo ha così combinato il primo momento quello ascetico con quello agapico trovando una convergenza nel fratello: “qualunque cosa avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”. Il cristianesimo cerca di ricongiungere l’io oggetto nel mondo con l’io spirituale soggetto per il mondo attraverso l’amore, la carità, la donazione, la gratuità. Fenomenologicamente potremmo sostenere che per il cristianesimo c’è una cerniera privilegiata e possibile tra l’io empirico e l’io spirituale e questa è data dall’amore. L’amore riscatto l’io empirico e lo avvicina, lo trasforma nell’essere spirituale. Il paradigma è Cristo stesso che ha dato se stesso. Superare il proprio io attraverso l’io spirituale significa “amare”. Io - oggetto nel mondo - serve perciò come punto di partenza, come mezzo per raggiungere poi attraverso l’amore, l’io universale: l’amore “universalizza”, toglie il particolare, unisce a Dio. Qui avviene una congiunzione suprema tra il particolare e l’universale. Dunque il cristianesimo salda l’io come soggetto per il mondo con l’io quale oggetto nel mondo attraverso l’amore, che spiritualizza ogni cosa. Si può dire che è l’amore che nel cristianesimo è la forza che fa passare la materia a spirito. Dio è amore e tutto ciò che vive nell’amore diventa simile a Dio e dunque non si vive più come “oggetto nel mondo”, ma “soggetto per il mondo” uniti a Dio. Il particolare diventa universale attraverso l’amore. L’io-oggetto diventa io soggetto identificandosi con Dio attraverso la theiosis di cui parlano in particolare i teologi orientali dove l’amore e la donazione compiuno ciò che resterebbe altrimenti per sempre incompiuto. È una tesi sublime: di altissimo livello non soltanto religioso, ma potremmo dire anche a livello biologico, conoscitivo, espressivo, psicologico, relazionale. Lo spirituale è frutto dell’amore. L’eucaristia è un dono d’amore che ha una parte spirituale e anche una biologica. Anche nell’Eucaristia dunque vi è sia l’ “io oggetto” che l’ “io soggetto” e il loro superamento avviene nell’amore. La prima visione conoscitiva oggettivante nasce dalla biologia e ingloba il mondo espressivo, psicologico, relazionale. Su questo sfondo oggi si possono porre le tesi biologiche sul sacrificio di W. Burkert16, mentre quasi per contrasto, si
possono vedere le tesi più teologiche dell’ultimo Girard, che trasgredisce l’oggettività dell’io attraverso il superamento del sacrificio nel dono totale. L’Eucaristia è questo dono: è la riconquista del soggetto pieno e spirituale17. A queste considerazioni si possono aggiungere significativamente le tesi sul dono del teologo e fenomenologo J. L. Marion18. 4. 2. L’Oriente religioso: la negazione come vero superamento dell’io. Posso fare dei riferimenti molto approssimativi anche per quanto riguarda le religioni orientali. Le religioni orientali tematizzano apertamente la diversità e il carattere contradditorio che vi è tra l’io empirico e il Sé. In questo senso sono più radicali della stessa visione cristiana che cerca più una sintesi fin da principio tra soggetto e oggetto, tra spirituale e materiale. Tutto il mondo religioso orientale vive altrettanto profondamente la dicotomia “io oggetto” e “io soggetto”. 4. 2. 1. L’irrealtà del mondo e l’illusione della conoscenza dell’io. Esiste solo il Sé, l’Atman. In Oriente l’unità del tutto si basa su una controparte fondamentale che in qualche modo è antichissima e più tardi appartiene pure ai fondamenti del pensiero di Sankara. Questa idea è l’idea dell’ ‘impermanenza’ che scompagina totalmente la realtà a livello della comprensione normale e toglie l’io dal mondo per dare spazio soltanto al Sé. Veramente dalle fonti e dallo stesso complesso pensiero del maestro è difficile decidere se la riflessione riguardante la suprema verità indù del tat tvam asi (tu sei ciò) parta più dall’irrealtà del mondo per arrivare all’unica realtà dell’Atman/Brahman - in quanto soltanto se tutta la realtà molteplice vale ‘zero’ è possibile pensare all’unità nel tutto - o se invece l’idea primaria di Sankara sia unicamente il Brahman e a partire da questa prima e unica verità si sia andata configurando poi la considerazione della ‘irrealtà del mondo’ e il fatto che l’io non esiste se non per coloro che vivono nell’ignoranza. Il nostro Piantelli con molti altri studiosi, insistendo molto sull’irrealtà del mondo di cui tanto spesso parla il maestro indù, sembra propendere più per la prima ipotesi19. Altri studiosi, come ad esempio P. Hacker propendono piuttosto per la seconda tesi: il pensiero di Sankara - secondo lo studioso tedesco - nascerebbe piuttosto dalla conoscenza delle Upanishad nella loro parte positiva dove si sottolinea l’unicità dell’Atman/Brahman. E in particolare, il pensiero dell’unità del tutto che è l’Atman/Brahman in Sankara sarebbe debitore, a livello storico-genetico, di passaggi ben precisi della Mandukya Up. e della riflessione là ricorrente circa la dottrina dell’OM, elaborata già qualche anno prima di Sankara dal suo maestro Gaudapada nella Mandukya-karika20. Anche se Sankara è partito con molta verisimiglianza dalla riflessione sul Brahman, appare evidente che per noi è più pedagogico partire dalla considerazione sull’irrealtà del mondo e dalla nullità dell’io, la quale non è altro che un corollario stretto e cogente che deriva dalla ‘impermanenza’ del mondo stesso. Si ricordi, del resto, che i buddhisti parlavano di anitya (impermanenza) legando strettamente questo termine al dolore universale (duhkha). In un contesto del tutto analogo Sankara parlerà, soprattutto sulla scia delle Upanishad, di maya come di ‘realtà illusoria’. La realtà dell’Atman, infatti, appena viene colta a livello intuitivo come l’unità nel Tutto, subito smentisce la nostra percezione quotidiana della realtà. Tale realtà ci appare essere ‘altra’ e ‘altrove’ rispetto alla nostra povera realtà quotidiana. La realtà che sta sotto i nostri occhi appare ed è vista da tutti noi come molteplice, divisibile, condizionata, plurima, stratificata. Non c’è nessun rapporto tra l’idea dell’atman/brahman e il mondo della realtà a cui noi ci sembra di appartenere. Ma proprio la sottolineatura della ‘nullità’ della realtà empirica basata
sull’impermanenza, per rimbalzo e per contrasto può farci capire meglio dove sta il nulla dell’io e dove sta il Tutto del Sé. Era così anche per Sankara il quale aveva colto tutta la drammaticità del divenire e dell’impermanente alla maniera dei maestri buddhisti e, forse, sulla loro scia. Egli scrive in un inno (stotra) molto bello a Shiva: “Giorno per giorno, guarda! l’uomo si avvicina alla morte, la sua giovinezza fugge, il dì che è andato non ritorna indietro. Il tempo inghiotte l’universo, la prosperità è momentanea come le increspature che si formano sulla superficie di un ruscello, la vita è rapida come una folgore”21. Dunque anche Sankara - come i grandi maestri buddhisti - aveva una forte percezione della transitorietà del mondo e della nullità dell’io che è strettamente correlata. Da questa transitorietà nasceva in lui l’idea che tutta la gerarchia degli effetti e delle cause non ha alcuna consistenza profonda. Tutto il mondo non è altro che un composto di nomi e forme (namarupa) - come l’io - forme vuote e passeggere che nascono e muoiono e i cui paradigmi potrebbero essere colti nelle qualità contrarie: il caldo e il freddo, il piacere e il dolore e così via. Tali strutture dimostrano una relatività interna sempre in movimento, dimostrano la ‘non-credibilità’ del mondo che si trova sempre in una evanescenza continua delle forme e in uno stato di perdita continua di equilibrio22. La vicinanza al buddhismo appare qui talmente evidente che non si deve dimenticare che il maestro era stato accusato perfino di essere fuori dall’ortodossia in quanto ormai si pensava che fosse passato dalla parte dei buddhisti. Ma se questo è quello che noi percepiamo con i sensi c’è forse qualcosa di sbagliato nella nostra percezione della realtà? Siamo ingannati dai nostri sensi? Benché la concezione advaita non sia unitaria nei vari autori che la interpretano e benché verosimilmente sia riscontrabile qualche esitazione nello stesso Sankara, in ordine soprattutto alla prassi, sono tentato di dire in maniera diretta e brutale che ciò è vero: ‘noi siamo ingannati dai nostri sensi’. Quello che noi percepiamo è semplicemente irreale. Ma questa soluzione appare accettabile? Se viviamo nel mondo dell’irreale allora noi viviamo in uno stato continuo di inganno, prima, e di delusione dopo, quando veniamo a conoscenza del vero stato del nostro essere al mondo. Dunque in una situazione del tutto innaturale ed elusiva. A questo punto, però, occorre ancora distinguere ulteriormente: il vero punto di partenza per Sankara sta nel fatto che il reale o l’irreale dipendono dalla nostra conoscenza e dunque tutto è sottomesso a una conoscenza epistemologica dove le questioni oggettive legate a questa o a quella realtà subiscono la tirannia delle nostre possibilità conoscitive. In altre parole l’ontologia, la questione dell’essere si trasforma in una questione ‘epistemologica’. Per questo motivo vi è in Sankara un’analisi dettagliata del nostro modo di conoscere e di come noi percepiamo il mondo, di cui è parte la percezione “elusiva” e “deludente” che abbiamo dell’io. 4. 2. 2. Il Buddhismo: la negazione dell’ io e il silenzio sul Sé (anatman) In particolare il Buddhismo arriva a negare l’io, e con l’io però è disposto a mettere in parentesi anche il sé, osservando che anche il sé non è mai raggiungibile. Si può parlare dunque di anatman perché il sé è finito, è inteso per lo più come un oggetto nel mondo. Nel mondo tutto è causato, “dipendente da”, “relativo a”. Tutto dunque fa parte di un io relativo e senza appoggio. La natura delle cose per il buddhismo funziona sulla base di una radicale impermanenza (anitya)23, così come del resto avveniva per le realtà del mondo considerato come un fascio di ‘epifenomeni’ in opposizione all’assoluto Atman delle grandi Upanishad antiche e così come lo era, in maniera parallela, per il mondo taoista cinese, che metteva alla base della concezione del reale una costante trasformazione o cambiamento, secondo i termini yi, hua. Le quattro nobili verità del Buddha - come sappiamo - pongono infatti l’attenzione sull’ universale natura di dolore (duhkha) di tutta la realtà. Ma questa attenzione non è una semplice constatazione sulla quale si può poi sorvolare: è l’esperienza di una radicalità inaudita. Ora è attraverso questa profondità esperienziale che il Buddha incide
inesorabilmente sulla sensibilità orientale, mettendo in luce un aspetto della realtà che dall’analisi psicologica passa a quella fenomenologica, diventando poi una metafisica totalizzante di ogni aspetto del mondo. Nella sua radicalità il Buddha mette in evidenza che non è il modo di presentarsi del reale che deve essere contestato ma è piuttosto l’operazione conoscitiva della mente normale degli uomini che deve essere messa sotto accusa. È l’io che è causa dei nostri mali. La mente infatti resta delusa nella misura in cui aderisce in maniera sbagliata a caratteristiche ritenute permanenti, mentre in realtà tutto si muove nell’esperienza del dinamico fluire di tutte le realtà. Proprio quel modo percettivo comune a sfondo ‘appropriativo’ e ‘statico’ con cui noi ci poniamo di fronte al reale, che del resto è succube del mondo samsarico, questo modo distorce il flusso naturale dell’esperienza e ci fa vivere dell’io “empirico”, l’io samsarico. Sullo sfondo di questa verità mai sufficientemente approfondita, il Buddha mette in risalto il modo con cui noi tendiamo empiricamente e razionalmente a essere legati dalle cose. Si tratta di una modalità che sta essenzialmente e fenomenologicamente all’origine del processo delle dicotomie e delle opposizioni tra soggetto e oggetto. Infatti, la vera natura passionale (trsna) dell’uomo elabora la dicotomia tra colui che percepisce e il percepito creando con forza l’oggetto del desiderio e di conseguenza si attacca (upadana) agli elementi duali generati dalla sua stessa passione. Questa dinamica del desiderio/attaccamento (trsna/upadana) diventa poi, a sua volta, la base per una percezione ordinaria della realtà dove allora si instaura definitivamente la falsa visione della stabilità e della permanenza nella nostra esperienza. Ma il vero problema se esista o no un vero sé dietro all’io empirico e il mondo fenomenico diventa addirittura il problema religioso per eccellenza. Il “non io” di carattere empirico che i buddhisti affermano essere un nulla un sunyam, è un richiamo forte alla volontà di rinuncia a se stessi, è un richiamo a quel “perdere la propria vita per salvarla” che sta anche nella parole di Gesù. Ma che cosa significa quest’affermazione ossessiva dell’anatman del non -io, nella visione buddhista? Alla fine si rivela il risvolto più importante della fede o dell’invocazione buddhista dell’assoluto nirvana che potremmo definire come il “mondo del soggetto senza oggetto, il mondo dell’universale senza il particolare”. La soggettività pura, senza condizionamenti, senza causalità, senza dipendenze, senza spazio, tempo, materia. La tematizzazione appare dunque più profonda e più radicale che nel cristianesimo stesso, e la soluzione è più metafisica e radicale. Se infatti nel cristianesimo è l’amore che fa passare il particolare all’universale, nel buddhismo come in genere nella visione orientale è piuttosto la meditazione, il ritirarsi dal mondo che crea quello spazio in cui si comprende l’irrealtà dell’io. Le mediazioni sono date, dunque, meno dall’amore e più dalla meditazione e dalla riflessione, dal silenzio, dal vuoto. 5. Conclusione. Ho cercato di tracciare brevemente una tipologia della diversa dinamica che gioca l’io nelle religioni tra Cristianesimo e mondo orientale. E come il superamento dell’io sia la funzione fondamentale del pensiero religioso. È troppo facile denunciare le religioni per aver creato pericolosi dualismi, che poi sono sfociati nelle dicotomie classiche: materia/spirito, anima/corpo, luce/tenebre, bene/male, presenti in quasi tutte le religioni. Il problema vero è che un certo dualismo è intrinseco all’io, alla nostra stessa costituzione, al nostro essere al mondo dove il discorso di Husserl sull’io come “oggetto nel mondo” corrispondente all’io empirico del mondo orientale e e l’io come “soggetto per il mondo” considerato dall’Oriente come il senso del divino stesso, appare insuperabile. La nostra realtà personale è una realtà, ma ci è data ‘in vasi di creta’ per usare un’espressione di s. Paolo. La fenomenologia dell’io ha qui tutte le premesse implicite per il discorso religioso anzi per il discorso religioso più profondo. La fenomenologia dell’io nel mondo delle religioni annuncia la profondità dell’esperienza religiosa già in
quanta dinamica e tensione dove il deficit inequivocabile esistente tra l’io e il sé si annuncia come la prima invocazione ex profundis del bisogno di salvezza. Aldo N. Terrin NOTE 1 Cfr. J. DERRIDA, Margini della filosofia, 364. Qui il filosofo sta commentando una poesia di P. Valéry. 2 Cfr. K. POPPER, Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, Armando, Roma 1983, 150. 3 Si veda il brillante lavoro in chiave divulgativa di J. HORGAN, La mente inviolata. Una sfida per la psicologia e le neuoscienze, Raffaello Cortina, Milano 2001. 4 Cfr. E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1972(4), 205 e ss: § 53: Il paradosso della soggettività umana, che è soggetto per il mondo e insieme oggetto nel mondo. 5 Per lo “spazio della natura” e lo “spazio delle ragioni” si veda soprattutto la sintesi magistrale delle filosofie della mente proposta da Mcdowell: J. MCDOWELL, Mind and World, Harvard Uni. Press, Cambridge (MA) 1994 (trad. it. Mente e mondo, Einaudi, Torino 1999). 6 Ibidem 7 Cfr. A. N. TERRIN, Monoteismo, Politeismo, Pan-en-teismo, in IDEM, Antropologia e orizzonti del sacro, Cittadella, Assisi 2001, 237-266. 8 Cfr. P. M. CHURCHLAND, Matter and Consciousness: A Contemporary Introduction to the Philosophy of Mind, MIT Press, Cambridge 1988. 9 Cfr. J. P. CHANGEUX, L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano 1999; IDEM, L’uomo di verità, Feltrinelli, Milano 2003. 10 Cfr. D. DENNETT, La mente e le menti. Verso una comprensione della coscienza, Sansoni, Milano 1997. 11 Cfr. J. F. LYOTARD, La condizione post-moderna, Feltrinelli, Milano 1991(6). 12 Cfr. I. HASSAN, La questione del postmodernismo, in P. CARRAVETTA, P. SPEDICATO (a cura di), Postmoderno e letteratura, Bompiani, Milano 1984, 105. 13 Si veda A. N. TERRIN, La marginalità nel mondo di ieri e di oggi, in IDEM, Religioni, esperienza, verità. Saggi di fenomenologia della religione, Quattroventi, Urbino 1986. 14 Cfr. V. TURNER, Il processo rituale, Morcelliana, Brescia 2002(2). 15 Cfr. A. N. TERRIN, New Age. La religiosità del postmoderno, EDB, Bologna 2003(3). 16 Cfr. W. BURKERT, La creazione del sacro, Adelphi, Milano 2003. 17 Cfr. R. GIRARD, Je vois Satan tomber comme l’éclair, Grasset, Paris 1999. 18 Cfr. J. L. MARION, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, Torino 2001. 19 Cfr. M. PIANTELLI, op. cit. , 213 e ss. 20 Si veda l’importante saggio di P. HACKER, Sankara der Yogin und Sankara der Advaitin. Einige Bemerkungen, in ‘Wiener Zeitschrift fur die Kunde Sud und OstAsien’ XII/XIII (1968-69), 119-148, qui soprattutto 124. 21Cit. , M. PIANTELLI, op. cit. , 216. 22 Si veda O. LACOMBE, L’absolu selon le Vedanta, Lib. Orient. P. Geuthner, Paris 1937, 41. 23 Si tratterebbe dell’idea fondamentale che ha portato una ‘rivoluzione copernicana’ nel mondo orientale attraverso il Vijnanavada e il Vedanta. Cfr. T. R. V. MURTI, La filosofia centrale del Buddhismo, Ubaldini, Roma 1983, 104-105. *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*
Intersoggettività e Agape v Introduzione: le tematiche Non c’è dubbio che l’incontro tra punti di vista diversi (diverse tradizioni, culture, filosofie, religioni, identità) sia tipico del nostro tempo. Le considerazioni dei maggiori filosofi vertono sulle nozioni di identità e di solidarietà, dove il pendolo oscilla tra la relativa autonomia di una cultura circoscritta (ben identificata) e la relativa apertura di questa stessa cultura all’approssimarsi di altre culture. Somiglianze e differenze aspirano volta a volta a prendere il primo posto. C’è chi teme che si dissolva l’idea stessa di un principio universale valido per tutti. Ma un’idea sommaria e astratta di unità rende difficilmente conto del rispetto dovuto alle particolarità. La verità sembra situarsi per gli uni più in alto rispetto ai singoli partners, per convocarli a riconoscerla e fondare in essa un’indispensabile collaborazione. Gli altri invece sembrano non poter riconoscere altra verità che la propria, pur disposti a compiere un passo, nel caso più favorevole, per incontrare quella degli altri. Difficoltà esistono per l’uno come per l’altro modello. Se il fondamento è unico (universale), che cosa se ne fanno i molti? Non renderà del tutto accessoria la loro molteplicità? Se invece non è universale, riusciranno i molti a farlo emergere dalla loro soggettività? Non vi saranno forse svariati fondamenti? Quale cemento allora potrà tenerli insieme? Se la verità è una, occorre ancora discutere quale sia la sua natura, chi la rappresenti, chi governi le sue istanze. Se invece essa è plurima, è impossibile non desiderare che possa essere superata una sua visione del tutto unilaterale -- e allora in nome di che cosa? Quel che accomuna le due visioni e le rende non troppo differenti, è il fatto che in un caso come nell’altro la verità è in fondo una sola, sia che sia universale (e dunque imposta ai molti), sia che sia particolare (la verità degli altri non mi riguarda). Il concetto di “intersoggettività”, inteso nella forma più generale, vuole superare questa visione e proporre una prospettiva diversa. Molto spesso tale prospettiva è soltanto enunciata come un soggetto di studio e di impegno. Tanto più essa risulta interessante. Con essa si vuole sollecitare un’esigenza culturale profonda, che riguarda l’umanità concreta. È possibile intendersi al di fuori di un articolo di fede, sia esso universale o particolare? Un amico tedesco mi diceva scherzosamente nella sua lingua: Ein Mann, ein Wort; zwei Männer, ein Wörterbuch! Un uomo, una parola, due uomini, un vocabolario! Un uomo è un uomo proprio perché si attiene alla parola data, ha insomma una parola sola. Dal momento che gli uomini sono due, diventa allora necessario un vocabolario. L’ideale contenuto nella ‘parola’ si fa plurale, ambiguo. Che cosa vorrà dire questo? Ecco enunciato, nel modo più colloquiale, il dilemma cui abbiamo alluso. La filosofia contemporanea ha però individuato nella parola la possibilità di comunicare e ha visto in questa possibilità una promessa positiva per l’intera umanità. Per esempio possiamo ricordare, con Gadamer, che la parola non deve essere una specie di prigione, ma può invece essere un elemento di comunicazione: “La lingua individuale non costituisce un insuperabile confino, a cui è condannato chi parla, ma è piuttosto un cammino nell’universo di ciò, su cui si può discorrere insieme e su cui l’intesa è raggiungibile”. 1 La discussione attuale su metodi e indirizzi di ogni sociologia o filosofia gira attorno a questi nodi concettuali. È in gioco anche il futuro delle nostre società e pertanto non si tratta solo di problemi astratti e fuori del tempo. Oggi gruppi sociali (o interi popoli, qualche volta) considerano indispensabile riaffermare la propria identità per resistere al sopruso di gruppi più forti o nazioni dominanti. Si valorizza allo scopo ogni consapevole ricupero delle peculiarità culturali proprie di gruppi o popolazioni. Come non essere d’accordo con simili aspirazioni? D’altra parte c’è pure, nella tradizione antica che ci viene dal mondo ellenistico, un ideale unitario, spesso travisato in senso autoritario, al quale occorre ridare tutto il suo senso di solidarietà umana. Se dunque la filosofia attuale dibatte i problemi dell’incontro tra soggetti
diversi sullo sfondo delle nozioni di unità e solidarietà, l’indagine storica sul cristianesimo primitivo potrebbe tentare di ricuperare il primitivo senso della solidarietà universale. Certamente non è del tutto infondata la critica di coloro che accusano il cristianesimo primitivo di essersi prematuramente chiuso nella sua identità, guardando all’esterno con disprezzo e sufficienza, per quanto dissimulati sotto una quantità di belle espressioni. Non è però detta l’ultima parola e il discorso può essere riaperto. L’ermeneutica biblica (quella delle chiese della Riforma in primo luogo) non si limita a un alveo tradizionale, ma di proposito ritiene di dover rimettere la tela sul telaio per dare risalto a un’intenzione primitiva distinta dal semplice cristallizzarsi del già noto in una chiesa storica o in una interpretazione letterale. In questo spirito è legittima l’indagine critica delle fonti, che vuole andare a imparare di nuovo e sottolineare quel che sembra essere significativo, soprattutto di fronte ai problemi attuali. 2 Questo è lo sfondo del nostro contributo, che vuole intendere la nozione di intersoggettività come una realtà sui generis, legata non tanto a un’idea unitaria, quanto alla funzionalità delle relazioni tra diversi soggetti. Non è un mistero che il cristianesimo si è soprattutto cimentato con un immagine unitaria della verità, aderendo alla quale si sarebbe trovata la giusta strada, il giusto cammino. Esistono però indicazioni diverse ed è su queste che vorrei richiamare l’attenzione. Paolo: le parti e il tutto La discussione sul corpo di Cristo, da cui vorrei cominciare, va intesa sullo sfondo che ho delineato. In questa discussione sono affiorate almeno due posizioni di partenza, che -- come talvolta può accadere -- hanno determinato anche gli esiti. Le due posizioni si distinguono così: da un lato si pensa alle parti come a articolazioni di un tutto, cui esse appartengono; dall’altro si ritiene invece che le parti di un insieme siano elementi distaccati, che compongono un insieme. Si pensa spontaneamente mediante una di queste due logiche. Si predilige l’una o l’altra. Si reagisce al pericolo di volta in volta rappresentato dalla parte avversa. Si teme da un lato l’atomismo disgregatore (ci si fida poco delle parti), dall’altro invece l’unità soffocante. Nella questione del corpo di Cristo si può notare una certa predilezione di alcuni studiosi per la centralità del tutto, per cui i singoli membri appartengono al corpo; dal centro emana una specie di flusso di energia che giunge a ciascuna delle parti. Altri studiosi invece prediligono il nesso e insistono sulla coesione di parti distinte, formalmente più attive e articolate. Dalle due impostazioni discendono poi due sfilze di esortazioni: da un lato richiami all’unità; dall’altra inviti all’intesa reciproca. Ora, qual è la rappresentazione più vicina ai testi del Nuovo Testamento? È sicuramente difficile dirlo. Noi faremo una serie di considerazioni favorevoli piuttosto alla visione del corpo come un insieme di membra; membra che il corpo tiene collegate, certo, ma che non sono semplicemente -- quasi staticamente -- considerate soltanto parti permeate da una sorta di flusso unitario. La discussione sulla dottrina paolina dei carismi ci può servire come elemento significativo. I testi si trovano in I Corinzi 12, Romani 12, Efesini 4; è forse bene tenerli presenti. Mi limito a qualche osservazione partendo da Rm 12, versetti 3 e 6, tenendo ovviamente conto dell’insieme del discorso. In Rm 12, 3 Paolo esorta a non sopravvalutarsi e il consiglio è consono a quanto suggerisce già Ecclesiaste 7, 16: non eccedere, neppure nella giustizia. Un’elementare saggezza consiglia di evitare ogni eccesso, persino nel bene. Ma nel nostro testo questo pensiero iniziale si amplia poi a considerazioni di peso maggiore. Le traduzioni hanno difficoltà a rendere la contrapposizione netta espressa in originale dai verbi yperfronein, fronein e sofronein. Yperfronein è composto da yper -- latino super, che conosciamo anche in tante parole italiane -e fronein, che vuol dire pensare. Nel testo indica una sopravvalutazione della propria soggettività. Al che l’Apostolo oppone un altro verbo, il sofronein, che è un comportamento modesto ed equilibrato, quel che gli anglosassoni esprimono talvolta con il loro understatement. Il profilo del sofronein è basso e pragmatico, ma poco importa. L’apostolo vuol privilegiare questo profilo rispetto al
precedente; egli vuole valorizzare, agli occhi degli interlocutori, proprio il comportamento che essi spontaneamente ritengono inferiore. Potremmo parafrasare il tutto con espressioni colloquiali: vuoi strafare? -- ebbene, comincia con l’essere te stesso; vuoi la perfezione? -- sii intanto disponibile; e così via. 3 Chi legge ne trae prevalentemente un’esortazione alla modestia, esortazione rivolta a ciascuno come singola persona virtuosa. Certo il singolo non deve sopravalutare se stesso; questo è implicito nell’espressione di Paolo, ma Paolo va più in là, quando spiega il suo modello. Il non sopravvalutare se stessi è compreso in un modello complesso. Non si chiede semplicemente al singolo di essere soggettivamente modesto e di esserlo virtuosamente. Si intende situare il singolo fin dall’inizio in una rete di relazioni con altri. Più che soggettivamente modesto, il singolo è oggettivamente limitato, ed è limitato da Dio (prima ancora che dal proprio comportarsi), affinché possa esprimere il massimo non da solo, ma interagendo con altri. Egli può interagire proprio in virtù del fatto che non gli è dato tutto, ma gli è dato invece un dono, che è la sua parte. La misura di sé non è l’individuo, ma la fede, nella prospettiva dell’intersoggettività. L’espressione “misura della fede” (metron pisteos; espressione equivalente a quella del v. 6: kata ten analogian tes pisteos) ha avuto anch’essa svariate interpretazioni e ha dato origine a considerazioni dove alla parola fede era attribuito un suono dogmatico e dottrinale. Più semplicemente qui deve trattarsi di un richiamo al motivo fondamentale del discorso. Le espressioni “misura della fede”, “secondo l’analogia della fede” e “secondo la grazia data” (v. 6) sono equivalenti. L’autovalutazione del soggetto ha come criterio l’immagine del corpo e trova la sua misura nella relazione tra diversi soggetti. Nel quadro della fede la soggettività del singolo deve richiamarsi all’intersoggettività. L’esemplificazione che segue nei vv. 4-8 illustra questa sintetica affermazione. Ogni individuo non può attribuire a se stesso se non quel che ha ricevuto; e quel che ha ricevuto è un dono che egli mette a disposizione degli altri. È esclusa ogni autoattribuzione. Si parte da un dono già ricevuto, il quale permette lo scambio e il rapporto. Così esso diventa per ciascun individuo anche un metro di autovalutazione. Tale criterio serve non tanto per misurare la propria performance, quanto per valutare una capacità tale da poter essere messa al servizio di tutti. Dietro il ragionamento di Paolo stanno varie considerazioni. Qui la teologia si costruisce interviene a correggere e a riorientare un comportamento già in atto. La teologia crea dunque un’opposizione che prima non sussisteva. Prima esisteva soltanto la spontaneità irriflessa. Ma questa dava luogo a inconvenienti. Il ragionamento di Paolo viene a modificare una precedente dottrina dello spirito, che intendeva lo spirito nel senso del greco daimon, come energia che si impadronisce del singolo e lo porta alla perfezione. 4 Le manifestazioni dello Spirito sono allora atti meravigliosi compiuti attraverso il carismatico. Più sono anormali queste manifestazioni, più esse sono la prova dello spirito. Completamente diversa è la posizione di Paolo. Lo Spirito qui si manifesta rendendo possibile l’interazione tra i diversi componenti della comunità. I doni sono distribuiti in maniera limitata, in modo che ciascuno abbia bisogno del prossimo. Il tutto non si contrappone alle parti come un genere a sé, ma regola l’intesa tra le parti. L’immagine del corpo serve non ad imprimere l’idea di unità, ma l’idea di connessione necessaria tra parti diverse. L’invocazione dello spirito è l’invocazione alla realizzazione concreta di questa possibilità, che tuttavia in se stessa non è solo potenzialmente data ai carismi: è la realtà suprema che in loro si manifesta. Qui Paolo, contestato dai suoi primi lettori (e spesso anche dopo), fa alcune audaci affermazioni. Egli propone un ideale in cui la realtà dello Spirito è manifestata non da una pienezza, ma da una limitatezza. Ciascuno raggiunge quindi la pienezza, se così si vuole, attraverso gli altri. Questo fatto indebolisce ovviamente il discorso sullo Spirito; d’altra parte sappiamo che Paolo è costretto dai suoi interlocutori a riconoscere che la forza dello spirito si manifesta nella debolezza (2 Cor). Egli ribatte che la babele si origina là dove la forza interiore del singolo si manifesta mediante l’eccezionalità del carisma, che non tiene conto dell’altro. Proprio là si avrà dissolvimento delle parti in una babele di lingue
diverse. Paolo sostiene allora una visione consapevolmente più debole. Ma l’intersoggettività è una debolezza sui generis. Lo è intrinsecamente, riguardo al singolo, ma nello stesso tempo è una forza, in virtù dello spirito che rende possibile l’intesa. Il conformismo unitario e l’individualismo sono così battuti in breccia entrambi. Quel che crea la babele è per Paolo proprio la pretesa del singolo di essere in quanto tale una realizzazione e manifestazione dello spirito; questo comporta l’isolamento del singolo ed è alla base della concorrenza non leale tra singoli, ciascuno dei quali cerca il dono maggiore, e ne deduce una propria superiorità sugli altri. In questa luce Paolo dovrà dire ai Corinzi che non esistono doni superiori e inferiori; quel che esiste, di maggiore, è soltanto una strada, che è l’agape. A questo punto va precisato che l’agape di nuovo non deve essere intesa nel senso moralistico della possibilità etica del singolo. Proprio la possibilità etica del singolo va intesa alla luce dell’agape, che la precede, e che la rende possibile, come cammino diverso, sia dall’autoglorificazione del singolo, sia dal dissolvimento della comunità in una babele di lingue diverse. L’agape è il “cammino per eccellenza”, non come possibilità virtuosa, ma come relazione che intercorre tra soggetti diversi, la cui modestia consiste nell’accettare la propria diversità. Dobbiamo osservare che 1 Cor. 12, 31 contiene una contraddizione: cercate i carismi maggiori e io vi mostro il cammino per eccellenza (kat’yperbolen odon). Il cammino per eccellenza scorre tra i carismi, e non è un carisma maggiore degli altri. Quel che è maggiore sta in mezzo e non si può identificare se non mediante l’attiva interazione tra i carismi stessi. La metafora del corpo sottolinea questa interazione stessa. Essa appartiene al mondo antico ed è usuale. In Paolo serve per far capire la nuova relazione tra le parti e il tutto. Il tutto non è senza le parti e le parti non sono senza il tutto. Le parti manifestano il tutto se, mediante il cammino dell’agape, in primo luogo intendono la propria limitatezza in senso positivo, come ciò che permette l’interrelazione, e poi vedono nella possibilità dell’interrelazione la manifestazione stessa della potenza dello Spirito attraverso la loro necessaria incompletezza. La prova dello Spirito non è data dalle potenzialità del carismatico o dalla sua singola perfezione. Al contrario è lo Spirito che, con la sua realtà stessa, renderà possibile pensare a una interazione costruttiva tra le varie membra del “corpo”. Lo Spirito non sarà una linfa che scorre nelle membra provenendo da un’unica fonte. Esso sarà piuttosto la condizione del fatto che il singolo possa manifestarsi. La rappresentazione di una linfa che scorre dal capo ai membri può essere plausibile e non è del tutto escluso che tale immagine influenzi le espressioni di Paolo o dei suoi amanuensi e discepoli. Non è qui però la chiave del concetto di Spirito. Lo Spirito in tanto è lo Spirito santo, in quanto è la condizione preliminare di ogni susseguente rapporto. Lo Spirito non s’impadronisce del soggetto, né il soggetto si impadronisce dello Spirito: il soggetto (il membro del corpo) è esortato a riconoscere come dono dello Spirito quella possibilità misurata e modesta che egli o ella proprio incarna e che è data proprio a lui o a lei in vista di uno scambio con tutti gli altri. 5 Si è visto che in Paolo la categoria dello Spirito subisce una profonda modificazione, che si ripercuote fino al giorno di oggi. Il soggetto non è una identità assoluta: è già posto fin dall’inizio in relazione intersoggettiva. Non si realizza da solo e non realizza se stesso senza tener conto di altri. Anzi questo è definito “gonfiarsi”. Il singolo potrà autoconoscersi mediante l’interrelazione con altri perché lo Spirito è il nesso tra diversi e non possesso autonomo del singolo. Il soggetto interpellato è condotto ad un’autoconoscenza attraverso il nesso che lo precede logicamente e che si manifesta nel rapporto di reciprocità. La manifestazione della possibilità del rapporto come tale diventa la prova dell’azione dello Spirito e fondamento del tutto. La conoscenza di sé può alla fine essere ricevuta nella riconoscenza. La nozione che riassume l’atteggiamento corretto (del soggetto interpellato) verso sé e verso gli altri è quella di AGAPE. Il termine viene di solito tradotto come “amore totale per gli altri”, amore comportante quasi un annullamento di sé, mediate il quale si giunge alla propria perfezione. Troviamo questa visione nel
tedesco selbstlose Liebe, nell’inglese selfless love. Questa traduzione esagera alquanto la nozione di semplice modestia dalla quale eravamo partiti. Ora si pretende addirittura che l’individuo annulli se stesso. Questa tradizione e l’intenzione sottostante deformano ancor di più il senso del testo rendendolo assurdo. Purtroppo questo travisamento ricorre anche in autori famosi. Ricordo per esempio la frase di Bonhoeffer: “In der restlosen Selbstvergessenheit der Liebe konstituiert sich die Gemeinschaft. ”. 6 Staccata dal suo contesto questa frase va esattamente in senso opposto rispetto a quanto Bonhoeffer sembra sostenere nelle pagine seguenti della sua opera. E questo fatto richiede un chiarimento. Ulteriore chiarimento richiede l’uso inflazionato della nozione di agape in molti contesti mediatici attuali. In tali contesti la nozione paolina di agape è subordinata alla nozione corrente di “amore” (amore del prossimo). Non si nota la profonda differenza tra le due nozioni. La nozione corrente di amore denota quasi sempre un traboccare del proprio buon cuore verso gli altri o un assorbimento dell’altra persona nel proprio abbraccio. E spesso si esorta il cristiano a un amore senza riserve, che equivarrebbe quasi a un annullamento di sé come soggetto. Il concetto è diventato sentimentale e dolciastro oltreché irreale e convenzionale. A tutto ciò si possono opporre due osservazioni: 1. Il verbo agapao nei dialoghi di Platone è corrente nelle risposte, quando l’interlocutore dichiara il suo accordo con quanto detto o stabilito. Quando l’interlocutore dice “sono d’accordo con te o Socrate”, non vuol dire “ti amo o Socrate”. Non vedo perché questo senso di accordo, di intesa dovrebbe essere valutato meno “spirituale” che il cosiddetto amore disinteressato e totale. L’apostolo Paolo sembra chiamare agape l’ideale del raggiungimento di un accordo con gli altri, o almeno di un modus vivendi, per esempio nella questione dei deboli e dei forti (Romani 14). E si può leggere il tanto strapazzato testo di 1 Cor. 13 più correttamente in questo modo, piuttosto che come esemplificazione del selfless love. L’agape non manifesta la benevolenza della monade verso altre monadi, ma costituisce il legame a priori tra le monadi. 2. La contrapposizione dalla quale occorre partire è quella tra la realizzazione della perfezione, cosa che muove sempre dal singolo soggetto -- e l’agape intesa invece come possibilità di non sopraffare né sottomettersi, accettando sé e gli altri come partner di una intrinseca alleanza, a partire dai propri limiti. L’esortazione paolina ha la sua forza proprio nella struttura diversa del quadro mentale in cui essa si iscrive. Non si parte dall’inferiorità rispetto a un ideale, ma dal limite rispetto a un altro essere. Non si è su un terreno sentimentale, ma concreto e reale. Sono dunque due cose diverse se si intende l’agape come una forza trascendentale (nel senso di condizione a priori) oppure come un ideale puramente etico, di fronte al quale il soggetto si trova posto. Questa distinzione va tenuta a mente. Essa indica due direzioni divergenti. Per restare nell’ambito del NT, l’ideale dell’agape si avvicina abbastanza alla caritas di cui parla Cicerone, che non è amore disinteressato, ma un rapporto di umanità che sovrintende e riassume ogni altro rapporto umano. In sostanza il concetto usato dai cristiani non sarebbe troppo diverso da quello usato dai pagani. Ma è importante che i cristiani se ne siano fatti portatori e si siano inseriti, almeno ai loro inizi, nella tendenza cosmopolita della cultura nel momento del passaggio dalla repubblica all’impero. Se si eccettuano le espressioni intimistiche degli scritti giovannici, dove la cerchia dei discepoli si distingue nettamente da un mondo perduto ed è esortata a manifestare un intimo affetto tra i membri (il che si presta comunque a interpretazioni diverse, e non solo negative), gli scritti del NT sembrano piuttosto orientati nel senso dell’apertura a un accordo possibile nel nome di un umanesimo cosmopolita. Essi forse lo credevano più vicino di quanto realmente fosse; le vicende politiche dell’impero lo avrebbero offuscato di fatto, ma non reso del tutto irreale. Se i cristiani ai loro inizi si sono inseriti consapevolmente nella tendenza cosmopolita del loro tempo, questo fatto potrebbe oggi avere un profondo significato. Riprenderemo questo punto nelle conclusioni. Mi permetto perciò una amichevole, ma netta, critica al titolo del nostro simposio.
Non si tratta di andare “dall’intersoggettività all’agape”, quasi fossero gradi, inferiore e superiore, di un tipico comportamento. Agape e intersoggettività sono la stessa cosa, o, se si vuole essere più rigorosi, esprimono una comune prospettiva. L’intersoggettività è il luogo e il mezzo di un legame che sussiste di per sé e che rende possibile che il soggetto intenda se stesso nel rapporto che intercorre con altri. Analogo è il senso del temine agape. Il vero soggetto singolo non si realizza da solo (e meno che meno nel proprio annullamento), ma in quella relazione che intercorre tra diversi, relazione a partire dalla quale il singolo deve misurare se stesso. Non si vede perché questo concetto dovrebbe essere meno “cristiano” di quello palesemente romantico e irreale di selfless love. Lo scambio tra i due concetti è possibile soltanto dove il cristianesimo stesso è già trasformato in senso neoplatonico e, nello stesso tempo, reso astratto e romantico. La visione romantica e neoplatonica è quella imperniata su una particolare tendenza al bene e al tutto. È ingiusto che soltanto essa possa ammantarsi della qualifica di cristianesimo autentico o superiore. Vi è, con altrettanta legittimità, una visione più sobria, in cui l’intesa intersoggettiva è stipulata a partire da reali possibilità. Perché questa non dovrebbe essere altrettanto legittima -- e forse maggiormente autentica? Non esiste l’indicazione testuale che Agape sia da intendere come amore nel senso di selfless love. Agape è l’intesa intersoggettiva e insieme la condizione che la rende possibile. Essa si realizza soltanto mediante la finitezza e l’incompletezza del singolo. Nel successivo excursus su Calvino incontreremo di nuovo questa visione. Calvino: intersoggettività e limite Commentando Rom 12, 6 Calvino7 a proposito della differenza dei doni scrive: Non simpliciter de fovendo inter nos fraterno amore nunc concionatur Paulus, sed modestiam commendat, quae optimum nobis est temperamentum totius vitae. Cupit sibi quisque tantum suppetere, ut nulla fratrum ope indigeat; atqui hoc mutuae communicationis vinculum est, dum sibi nullus sufficit, sed ab aliis mutuari cogitur. Fateor ergo non aliter constare piorum societatem, nisi dum sua quisquis mensura contentus, fratribus impertit quae accepit dona, et vicissim alienis donis iuvari se patitur. Sed Paulus in primis retundere voluit quam sciebat hominibus ingenitam esse superbiam, ac ne quisque aegre ferat non omnia sibi data esse, admonet non sine optimo Dei consilio singulis distributas esse suas partes. Quia ad communem corporis salutem expediat, neminem donorum plenitudine sic esse instructum, ut fratres suos impune spernat. Hic ergo praecipuum habemus scopum quo tendit Apostolus, non omnia omnibus convenire, sed ita esse distributa Dei bona, ut finitam singuli portionem habeant; atque suis donis in Ecclesiae aedificationem conferendis sic oportere intentos esse singulos, ut nemo derelicta sua functione, in alienam transeat. Hoc enim pulcherrimo ordine, et hac veluti symmetria, incolumitas Ecclesiae continetur, ubi pro se quisque in commune sic confert quod a Domino accepit, ut alios non impediat. Hunc ordinem qui pervertit, cum Deo pugnat, cuius ordinatione est institutus. Differentia enim donorum non ab hominum placito nata est, sed quia in eum modum gratiam suam dispensare Domino visum est. [1557] Paolo non parla semplicemente della fraternità da promuovere tra noi, ma raccomanda la modestia, che è l’ottimo comportamento di tutta la vita. Ognuno cerca di provvedere a se stesso, in modo da non aver nessun bisogno dei fratelli; mentre il legame della mutua comunicazione è costituito dal fatto che nessuno è autosufficiente, ma è costretto alla reciprocità con altri. Mi par chiaro che la società dei pii non può sussistere altrimenti, se non che ognuno, contento della propria misura, condivide con i fratelli i doni che ha ricevuto e reciprocamente accetta di essere aiutato dai doni altrui. Paolo però in primo luogo vuole combattere la tipica superbia che sa essere ingenita nell’uomo, e affinché qualcuno non si lamenti che non gli sia stato dato tutto, ammonisce che non senza ottimo disegno di Dio ai singoli sono state attribuite le loro parti. Fa bene all’intero
corpo il fatto che nessuno sia stato così ripieno di doni, da poter impunemente fare a meno dei fratelli. [1540-1541] Qui abbiamo lo scopo principale cui tende l’apostolo: non a tutti convengono tutti i doni [1557: beni], ma i doni di Dio sono distribuiti in modo tale che i singoli abbiano una porzione determinata [finitam, aggiunta 1557]. I singoli, mentre porteranno i propri doni in vista dell’edificazione della chiesa, porranno particolare attenzione a che nessuno, abbandonando la sua funzione, passi ad un’altra. Con questo bellissimo ordine e con questa simmetria l’incolumità della chiesa è preservata quando per l’interesse comune ciascuno si attiene a quel che ha ricevuto dal Signore e in tal modo non intralcia gli altri. Chi perverte tale ordine, combatte contro Dio, che lo ha istituito. La differenza dei doni non è infatti nata dal beneplacito umano, ma perché in tal modo è piaciuto a Dio dispensare la sua grazia. L’aggiunta fatta nell’edizione definitiva del 1557 ribadisce il concetto principale. Nel 1557 è anche aggiunto un aggettivo importante: a ciascuno Dio ha dato non semplicemente una porzione, ma una determinata porzione, una parte limitata (finitam). Lo scopo di questa strategia divina è quello di rendere necessaria l’interdipendenza. La parzialità proviene direttamente dalla volontà di Dio. È così che Dio regola le cose umane. Quel che per gli esseri umani è incompletezza si rivela essere non un’imperfezione morale, ma una predisposizione in funzione del disegno divino. Si osservi come lo scopo non sia il superamento di uno stato imperfetto verso uno più perfetto. La diversità è mezzo rispetto ad uno scopo individuato nella reciprocità (aver bisogno gli uni degli altri). Lo scopo non sarà quello di aumentare la potenza del singolo, ma quello di costringerlo a trovare una relazione costruttiva con gli altri. Sembra che Calvino abbia qui sottolineato un elemento importante dello stesso pensiero paolino. Non si tratta peraltro di un accenno isolato. Calvino è convinto che questo tipo di ragionamento sia applicabile anche al governo civile e costituisca quindi la caratteristica di ogni ordinamento umano. Spiegando la regola che presiede alla divisione dei poteri nel governo civile, egli riafferma il pensiero che abbiamo già visto espresso per la chiesa. Citando Paolo egli afferma: “Così Dio, per tenere gli uomini in una mutua società e benevolenza tra loro mediante un vincolo sacro e insolubile, dispensando in modo vario i suoi doni e impedendo che qualcuno assuma una posizione troppo eminente con una assoluta perfezione, obbliga gli uni verso gli altri”. 8 Vediamo così che non esiste gerarchia tra la chiesa e la società civile. Entrambe sono ordinate in base allo stesso principio. Non si potrebbe dire che nella chiesa vige l’agape e nel mondo civile l’intersoggettività, per esempio. Si deve dire che l’ideale è costituito qui come là da un mutuo soccorso. Questo appunto è manifestato dallo spirito e lo spirito non vuole forse nulla più di questo, che è già molto nelle cose umane. 9 Calvino stesso vede nell’intreccio tra funzioni diverse il modo caratteristico mediante il quale si manifesta il governo del mondo da parte di Dio. Il governo provvidenziale si serve delle diversità per regolare il processo reale. Nessuno accede all’assoluto. L’incompletezza di uno rispetto all’altro è il motivo dominante. Questa incompletezza impedisce la pretesa assolutezza del soggetto monadico. Possiamo notare infine in Calvino un fondo di pessimismo temperato da un altrettanto forte senso di speranza. L’intesa tra diversi è augurabile e necessaria. La rende insieme possibile e augurabile proprio il limite assegnato a ciascun contraente dell’intesa: limite che tiene conto della possibile corruzione del singolo. Il pensiero teologico non è contrapposto a tutto questo, ma è proprio la base di tutto il discorso. Dio non è avverso a questa realtà, ne è invece l’ispiratore, l’ordinatore e il sostegno. Ma nei fatti è veramente così? L’analisi di Sartre sembra un’implacabile confutazione di questa speranza e di tutta la teoria derivata da Paolo. Oltre il fallimento della relazione
L’opera del filosofo francese Jean Paul Sartre (1905-1980) costituisce la più severa critica di quanto abbiamo costruito fin qui. Spesso i filosofi usano enunciare una distinzione da cui partire. Sartre parte dalla distinzione tra en-soi e pour-soi. La prima espressione (in italiano: in-sé) si riferisce all’identità, alla perfezione; la seconda (in italiano: per-sé) rinvia invece alla differenza, all’estensione. Il soggetto (l’essere umano) vorrebbe essere perfetto, completo, vorrebbe presentarsi come immagine dell’en-soi. Ahimè, gli andrà male. La sua condotta assumerà contorni parossistici di potere e violenza. Non gli rimane che il pour-soi. Ma qui egli non è mai se stesso, non si raggiunge mai e poi mai, anzi qui rincorre sempre soltanto se stesso e quindi può rappresentarsi unicamente frammentato e mancante della sua pienezza. Il soggetto non può raggiungere l’en-soi se non correndo via da lui, e se corre via da lui, allora non potrà raggiungerlo. Eppure proprio in questo secondo aspetto egli ha qualche possibilità di incontrare l’altro. Se il soggetto, che non è, incontra l’altro, che, a sua volta, non è, c’è qualche possibilità di incontro soltanto se né l’uno né l’altro incarnano (o pretendono incarnare) l’en-soi; altrimenti si avrà lo scontro e la sopraffazione, o l’isolamento, perché l’identità, la perfezione non ammette alcuna diversità. In questo contesto Sartre sottomette a un’analisi implacabile l’incontro tra due soggetti. Secondo Sartre l’incontro tra l’uno e l’altro non può che finire male. Essendo entrambi ispirati dalla propria identità, l’uno non potrà che imporsi all’altro o sottomettersi a lui. Sartre esamina da vicino il rapporto intrecciato per cui è soltanto possibile il fallimento del rapporto, in quanto non si eviterà né la sopraffazione né la sottomissione, per giunta reciproca. Sartre afferma l’impossibilità di sottrarsi al circolo. Non resta al soggetto “qu’à rentrer dans le cercle et à se laisser indéfiniment ballotter de l’une à l’autre des deux attitudes fondamentales” (“che a rientrare nel circolo e lasciarsi indefinitamente sballottare dall’una all’altra di questa due condotte fondamentali”). In nota però Sartre indica uno spiraglio, là dove afferma: “queste considerazioni non escludono la possibilità di una morale della liberazione [délivrance] e della salvezza. Ma questa deve essere raggiunta al termine di una conversione radicale di cui non possiamo parlare qui”. 10 In fondo è come se Sartre avesse commentato Romani 7 (il capitolo che sottolinea l’inesorabilità del peccato: non faccio ciò che voglio, ma ciò che non voglio!) affacciandosi poi al capitolo 8, che annuncia la salvezza: non c’è dunque più alcuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù; la legge dello Spirito ci ha liberato dalla legge del peccato e della morte. . . (Romani 8, 1-2). Noi dobbiamo prendere sul serio l’analisi che Sartre ci dà. Non si tratta di una descrizione esagerata o di un quadro dipinto a tinte fosche. Si tratta di un avvertimento. Le cose andranno così e non potranno che andare così. A meno che, aggiunge Sartre in nota, non si faccia una conversione. Ma questo è un altro discorso. Noi possiamo domandarci, a questo punto, se i due discorsi sono successivi oppure contemporanei. Neanche Sartre, se vediamo bene, si è semplicemente arroccato nella inesorabilità del pendolo tra oppressione e sottomissione. Neppure per lui l’intersoggettività (il sé e l’altro nei loro rapporti) può essere liquidata come fallimento. Esiste una prospettiva non fallimentare, alla quale in fondo ci si aggrappa, con qualche speranza e motivatamente. Sartre la lega, sorprendentemente, al concetto di ‘conversione’. Perché mai la liberazione è successiva rispetto alla conversione radicale? E di quale conversione si tratta? La frase di Sartre resta ambigua. E forse deve restarlo. Da un lato essa ci ricorda che esistono limiti insuperabili per la relazione intersoggettiva; dall’altro non esclude del tutto la possibilità che proprio attraverso questi limiti si possa arrivare a una relazione diversa dalla semplice autodistruzione o autoaffermazione. Ma i due discorsi sono successivi uno all’altro oppure contemporanei? La parola ‘conversione’ si trova già in Husserl, dal quale prende avvio la fenomenologia e di riflesso il pensiero di Sartre. 11 Siamo sempre più, con tutte le differenze del caso, nel clima di Paolo, quando Enzo Paci (interpretando Husserl) ci dichiara che “rivelare l’essenziale implicito nell’individuale
significa negare l’individualità già fatta, nascosta, oggettivata, per conquistare una individualità vera, che a sua volta è vera soltanto in una comunità degli individui nella quale gli individui siano veramente tali da dare un significato di verità alla propria individuazione sempre in fieri”. 12 Il nodo da risolvere concerne la domanda se la situazione ottimale di intesa intersoggettiva debba essere raggiunta oltrepassando una condizione “oggettiva” semplicemente negativa (di sopraffazione e sottomissione, per esempio), oppure passando attraverso di essa. Per semplificare al massimo: al di là di essa o in essa? Il contesto di questa domanda è però quello dell’incarnazione, della realtà, senza fughe in avanti o al di fuori della concretezza. Tutta la filosofia moderna oscilla tra questi opposti: si vuole da una parte sottolineare l’incarnazione, l’esistenza, la soggettività reale, mentre dall’altra si continua a invocare una salvezza, una via d’uscita sia pure immanente alla storia, ma non priva di un richiamo alla trascendenza. L’annessione del male come mezzo del bene in una certa misura lo riscatta; a condizione, tuttavia, che male rimanga e che la sua pericolosità disgregatrice non sia dimenticata. Si può far leva sulle debolezze e le limitazioni dei singoli e considerarle mezzi, attraverso i quali può faticosamente emergere un progetto comune. Ma il pericolo della sopraffazione e della sottomissione è sempre presente come una costante minaccia. Sotto questa minaccia vive l’umanità, ma nello stesso tempo si desidera e si spera di essere abbastanza forti da esorcizzare la minaccia e tenerla sotto controllo. La religione antica e in parte ancora la religione di Calvino ritenevano che la fuga dal male verso il bene potesse qualificare il vero comportamento religioso. Dall’illuminismo in poi e specie nell’esistenzialismo non è più così. La conquista dell’al di qua è qualificante per il pensiero religioso. Ma questo comporta una nuova relazione con l’assoluto. Il finito e il relativo sono passaggi obbligati attraverso i quali si può parlare di trascendenza. Si dovrà allora parlare della trascendenza non più nel senso di un limite da raggiungere (limite irraggiungibile per definizione, eppure posto come meta e scopo); se ne dovrà parlare invece come supporto, come condizione preventiva della riuscita del lavoro che si compie per padroneggiare la contingenza con gli strumenti di questa contingenza stessa. L’umanità non vuole più essere liberata dal mondo; vuole invece essere rassicurata circa la possibilità di instaurare, con i mezzi ‘normali’ un intreccio di relazioni vivibili. La stessa cosa si può dire per le richieste che si fanno alla chiesa di oggi. Non si chiede più come nelle epoche precedenti una salvezza individuale, l’essere trasportati verso il cielo. Si chiede invece come possa riuscire l’intesa soggettiva. Non si ha più paura dell’inferno dell’al di là; troppo presente è l’inferno dell’al di qua. E la chiesa si propone non più come navicella verso il cielo, ma come luogo di realtà solidali che si radicano nella realtà presente, pur sostenute da una fiducia di altro ordine. La filosofia nella seconda metà del secolo (dopo due guerre e infinite sofferenze) si è orientata verso una visione meno dura di quella che Sartre poteva rappresentare nel 1943. La ricerca recente ha indicato e discusso varie vie in presenza del pluralismo delle idee o delle condizioni. Anche là dove occorre tener conto di un completo pluralismo di punti di partenza, anche là si ritiene ancora possibile un accordo almeno parziale. Mediante questo accordo la convivenza diventa possibile. A questo fine devono mirare proprio i singoli e le loro politiche d’intesa. Ma, se riflettiamo bene, tenuto conto del fine indicato, Sartre può averci lasciato una materia su cui riflettere. È vero, in un certo senso, che il rapporto tra i singoli (popoli o individui) non può sfuggire al “cerchio” della alternanza tra sopraffazione e sottomissione. È vero, cioè, che la condizione umana non è mai ideale e che non può mai essere messa in equilibrio una volta per sempre. È vero, ancora, che lo scopo cui tende la politica in senso lato non può essere quello dell’equilibrio totale. Ma tutto questo, a rifletterci bene, esisteva in altra forma anche in Calvino. Nella prospettiva che Calvino ci lascia intravedere, lo scopo non è la bontà infinita, ma il temperamento delle differenze. Anche la filosofia moderna ci ricorda che esistono sul piano antropologico difficoltà obbiettive che non saranno scavalcabili. Se il fine è quello di un accordo almeno parziale tra vari punti di vista, non possiamo pensare che esso possa essere
raggiunto tutto insieme e in modo indiviso. Il fine non è il superamento di uno stato irrequieto e l’instaurazione di uno stato di quiete, ma è ancora più difficile: si tratta di fare i conti con un ostacolo insormontabile che si riproduce continuamente. Tale difficoltà va affrontata proprio perché seria. L’azione responsabile si serve allora delle incongruenze reali per produrre incessantemente e instancabilmente un assetto di non belligeranza, di pace, adatto alla vita e allo sviluppo delle risorse a favore di tutti gli esseri umani. La parola tutti potrebbe ancora contenere un resto di illusione e di ipocrisia, poiché è indebitamente globalizzante. Nella realtà non esistono tutti, esistono invece gli uni e gli altri e per di più sussistono importanti differenze tra gli uni e gli altri, e queste non possono essere annullate completamente. Meglio dunque pensare a una società dove i vantaggi economici di alcuni e gli svantaggi di altri (fonte tragica di altre disparità negative) siano corretti in modo che coloro che godono di minori vantaggi non siano dimenticati, ma, nonostante viaggino in coda, restino, per così dire, ben attaccati alla locomotiva che traina il treno. Dove tuttavia neppure questo accade, allora si elevi la protesta di ogni persona responsabile, e comincino pure i credenti ad elevarla loro per primi. Lo faranno a pieno diritto e senza ipocrisia. 13 Non è quindi con un colpo di dadi che si può affrontare la realtà così come si presenta nel circolo indicato da Sartre. Non si esce da essa con una “conversione” irreale e fantastica, foriera di comportamenti talvolta contrari alla libertà che si predica. Le contraddizioni devono essere una sollecitazione per affrontare i problemi e trovare le migliori soluzioni, non al di là di esse, ma per mezzo di esse. Non dimentichiamo che la parola “conversione” sulla bocca di Giovanni Battista, era accompagnata da una serie di indicazioni pratiche dirette a varie categorie di cittadini e soldati (Luca 3). Intersoggettività e trascendenza La filosofia recente riprende, in qualche modo, l’ispirazione razionalmente “positiva” di Leibniz. Si è visto il naufragio delle politiche massimaliste e lo stravolgimento delle ideologie in sistemi perversi e antiumani; ci si orienta, invece, verso un augurio di possibile intesa. Proprio questo fatto potrebbe esemplificare quanto si sta dicendo: la presenza nella nostra tradizione di qualche cosa che resiste, se non tradito. Al semplice quesito se l’intesa sia possibile o se alla fine possa prevalere soltanto la forza (specialmente in politica e nelle relazioni internazionali) esistono risposte che fanno perno su interessi generali e comuni. A questo proposito assistiamo a discussioni interessanti. Ci si interroga infatti sulle premesse di ogni possibile intesa e si rinnovano le ipotesi già da tempo note, e che consistono in due temi maggiori, quello di un significato universale comunque possibile, perché al di sopra di ogni significato particolare, o interno ad esso e soltanto da far emergere attraverso le maglie del particolare, in forma di partecipazione -- oppure un concordato tra parti, che pur di saldare tra di loro un legame significativo, sono disposte a rinunciare a una porzione della loro sovranità e che finiscono per accordarsi su fini limitati. Si prospetta un nuovo senso di umanità, senza il quale la Terra e l’Uomo stesso potrebbero correre rischi fatali. Il marxismo dovrebbe rifarsi a quegli ideali socialisti di solidarietà e mutuo soccorso che Marx ha forse avuto torto di sottovalutare. Egli pensava che si dovesse sostituirli con un analisi più severa dei rapporti di forza tra le classi sociali. Certo quest’analisi severa era necessaria. Ma nel suo dogmatizzarsi e assolutizzarsi si trasformò anch’essa in nemico dell’umano. Negli sviluppi della filosofia politica in Occidente prevalgono ora visioni che privilegiano i concetti di giustizia e di eguaglianza. Non si parte ormai più da un solo concetto, ma da diversi concetti che interagiscono nel reciproco controllo. La reciprocità, si direbbe, interessa addirittura la logica del concetto. La complessità incita a non ridurre ogni concetto a una verità unica e singola. La riduzione estrema di un concetto all’oggettività di un principio, lo snaturerebbe. È nella sua incompletezza e nel bisogno di confronto, che il concetto si rivela utile. L’insegnamento di Calvino pare potersi applicare anche qui. Occorre che si tenga presente, infatti, la necessità di temperare un elemento per
mezzo di un altro elemento. Altrimenti si perde il contatto con la realtà e si finisce in un cerchio infernale di sopraffazione e dipendenza. Con molta insistenza i recenti filosofi del liberalismo di varie scuole hanno sottolineato la necessità di un motivo trascendentale diverso dalla pura libertà: quello dell’umanità. E qui non soltanto torniamo alla citazione di Gadamer da cui siamo partiti, ma possiamo riferirci ad autori recenti, diversi tra loro certo, ma non divergenti, quali Habermas, con il suo agire comunicativo, oppure Rawls, con il suo concetto di liberalismo e di pluralismo, oppure ancora Luhmann, con il suo richiamo al positivo umanesimo degli Illuministi (contro la scuola di Francoforte), senza dimenticare autori come Donald Davidson ed altri, che parlano di traduzione, comprensibilità, possibilità minimale di intesa, e non ultimo Ricoeur con tutta la sua opera. 14 Risalendo più indietro si possono ricordare Peirce e Jung. Entrambi hanno adoperato il concetto di agape non nel senso di amore disinteressato, ma in quello di ideale possibilità di intesa, che come un faro può illuminare la sempre faticosa umana ricerca di intesa e indirizzarla a qualche meta provvisoriamente importante. Entrambi, se non erriamo, hanno invece criticato l’atteggiamento di chi bada unicamente alla propria autosoddisfazione oppure si limita alla propria cerchia o comunità. La formula più semplice ce la dà il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, anch’egli appartenente alla corrente fenomenologica. Alle opposte tentazioni rappresentate da Lucifero e Prometeo (il farsi Dio o il distaccare la propria operosità da ogni traccia di trascendenza) l’umanità deve riscoprire una dimensione realmente umana: “L’eroe dei contemporanei non è Lucifero, non è nemmeno Prometeo, ma è l’uomo”. 15 Quanto abbiamo visto fin qui ci invita a considerare trascendenza e immanenza come interdipendenti. In particolare la trascendenza potrebbe tendere a mantenere aperto il dialogo intersoggettivo, piuttosto che a chiuderlo. All’interno di ogni religione o fede ciascuno sarebbe poi libero di chiudere il dialogo con lo scopo di identificare più esattamente la propria confessione, la propria scelta, la propria identità, la propria religio. Ma tale chiusura, dal punto di vista della trascendenza, sarebbe sempre una chiusura arbitraria e in qualche modo prematura. In linea di principio la priorità dell’apertura sulla chiusura dovrebbe essere assicurata anche in presenza di una fede o di una religione particolare. Esiste insomma la possibilità di risolvere il problema dell’Altro e dell’Universale senza passare per la sopraffazione o per la dissoluzione. L’Universale non è più nessuno dei singoli Altri. Ciascuno è Altro rispetto all’Altro e l’unità tra questi diversi Altri non può essere rappresentata da uno solo dei diversi “Altro”, che si manifesterebbe come l’Uno. L’unità deve ricevere uno status diverso. Essa si può configurare unicamente quale condizione a priori, trascendentale, della possibilità del rapporto tra diversi. L’Alterità non potrà dunque per nessuna ragione essere ridotta (o ricondotta) a semplice strumento di un progetto di futura (o escatologica) Unità. Chi riduce l’Alterità a semplice punto di partenza dovrà mettere l’accento su un punto finale, al quale conferirà la maggiore dignità ontologica. Lo scopo cui tende ogni punto di partenza, di per sé incompleto e insufficiente, può essere invece una felice relazione tra punti di partenza diversi. Lo Spirito potrebbe ragionevolmente dare la sua cauzione proprio a questo incontro piuttosto che a un telos di perfezione. Altrimenti lo Spirito ridurrebbe l’Altro a semplice strumento del progetto in corso, mentre l’Unità sarebbe vista come il miracolo che si deve ancora sempre produrre. Questa concezione risulterebbe estremamente pericolosa e retrograda. Essa porterebbe al potenziale annullamento dell’Alterità nell’Unità. Ma per evitare questo non è necessario dissolvere l’Unità nell’Alterità. Occorre un mutuo riconoscersi, un mutuo riconoscimento, che renda omaggio alla possibilità di intesa. L’Altro deve restare Altro e deve essere preservata la contingenza della sua irrisolvibile realtà. 16 All’estremo opposto, quando si parla di rinuncia a se stessi (o di kenosi, per usare un termine oggi di moda) non si è ancora nella giusta prospettiva. L’atteggiamento da raccomandare non consiste nell’autonegazione, ma nel semplice riconoscimento di quel che prima dell’incontro è la condizione di ogni mutuo
riconoscersi. Non abbiamo a che fare con un gesto quasi sempre ipocrita di svuotamento di sé, ma con un atto positivo e attivo di assenso alla realtà del rapporto. Non si tratta di rinunciare a sé o a una parte di sé, ma si tratta di rinunciare alla pretesa di rappresentare in sé il tutto. Nei termini della psicologia la massima suona: accettarsi così come si è e non pretendere di essere più di quel che si è. Questo è, come abbiamo visto, il consiglio di una sapienza molto antica, che vale, nella maggior parte dei casi, per ogni tempo e per ogni categoria di persone. È importante allora che la religione come tale affermi che l’essere umano in ogni modo è portato verso l’altro, in ogni modo deve trovare un legame, anche quando questo legame è obiettivamente difficile da trovare. L’affermazione che l’umano consiste nel rapporto e non nella assolutezza del soggetto porta a considerare la relazione quale aspetto aprioristico della vita, che non è solo augurio né legge naturale, ma legge divina, cioè esigenza a partire dalla quale occorre farsi forti e reagire agli eventuali dati contrari dell’esperienza. Questa esigenza divina è data come compito e prima ancora va riconosciuta come dono. Essa non può essere espressa da nessuna legge; certo non dalla mia legge o da quel che io ho fatto diventar legge a me e che impongo quale legge per gli altri. Nessuna legge come legge può esprimere quella esigenza, che appunto per questo non può essere che un’esigenza superiore o divina. N O T E 1 “Die jeweilige Sprache bildet nicht so sehr einen unauflöslichen Bann, in den der sie Sprechende geschlagen ist, als vielmehr einen Weg in das Universum dessen hinein, worüber Miteinander gesprochen und worüber Verständigung erzielt werden kann. ” H. -G. GADAMER, Art. „Sprache II. Philosophisch“, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, VI, c. 268 (Tübingen 1962). 2 Segnalo due opere: Guy G. STROUMSA, La formazione dell’identità cristiana, Morcelliana, Brescia 1999; Gert THEISSEN, Die Religion der esrten Christen, KaiserGütersloher, Gütersloh 2000, tr. it La religione dei primi cristiani, Claudiana, Torino 2004. 3 Le traduzioni hanno difficoltà a rendere il gioco di parole presente nel greco e accentuano il carattere individuale dell’esortazione. Per esempio il Diodati rende il v. 3: “Percioche io, per la grazia che m’è stata data, dico ciascuno di fra voi, che non habbia alcun sentimento sopra cio che conviene havere: anzi senta a sobrietà: secondo ch’Iddio ha distribuita a ciascuno la misura della fede”. La sacra Bibbia tradotta in lingua italiana e commenta da Giovanni Diodati: I Libri del Nuovo Testamento - I Libri Apocrifi a cura di Michele Ranchetti e Milka Ventura Avanzinelli, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1999. Il richiamo al limite posto da Dio al singolo si ritrova ancora, se vogliamo, nel commento fatto da Diodati “questo insegnamento, d’haver la certa conoscenza della volontà di Dio per guida in tutte le sue attioni, è grandissimo: percioche ha luogo in tutte le vocationi, principalmente Ecclesiastiche, per non imprendere in quelle nulla di suo proprio senno. ” (Ivi, p. 550). 4 Terence PAIGE, Who Believes in “Spirit”? Pneuma in Pagan Usage and Implications for the Gentile Christian Mission, “Harvard Theol. Rev. ” 95:4, 2002, 417-436. 5 Quanto sopra è stato sovente studiato ed esposto dall’esegeta tedesco Ernst KÄSEMANN (1906-1998). Vedi per esempio Appello alla libertà, Claudiana, Torino 1972 (Tubinga 1968); Prospettive paoline, Paideia, Brescia 1972 (Tubinga 1969); An die Römer, nel HNT, Tübingen 1973, soprattutto nel commento a Rm 12, 6; l’articolo “Geist IV. Geist und Geistesgaben im NT” in RGG3 II, 1272-1279. 6 “Nel totale oblio di sé dell’amore si costituisce la comunità”: Dietrich BONHOEFFER, Sanctorum Communio. Eine dogmatische Untersuchung zur Soziologie der Kirche, Dritte, erweiterte Auflage, Chr. Kaiser Verlag, München 1960, p. 139. Non è detto che questa frase, scritta dal ventitreenne Bonhoeffer, definisca senza residui il suo pensiero. La riportiamo nondimeno per il suo carattere tipico. 7 Ioannis Calvini Opera exegetica, vol. XIII, Comentarius in Epistolam Pauli ad
Romanos, ediderunt T. H. L. Parker, D. C. Parker, Droz, Genève 1999, p. 260, righe 11-34. 8 “Ita Deus, ut sacro et insolubili vinculo homines in mutua societate et benevolentia retineat, varie dispensans sua dona, nec quemquam solida perfectione supra modum extollens, alios aliis obligat”: Corpus Reformatorum, Calvini Opera v. 26, p. 186s. Tale concetto è ripreso nel capitolo dell’Istituzione Cristiana dedicato al governo civile: IV, 20, 8. Gli elementi della natura si saldano tra loro in conseguenza della loro diversità. Lo stesso avviene nella realtà antropologica e politica. 9 Una questione subordinata è la domanda se l’amore disinteressato non costituisca un necessario complemento là dove, con il ricorso al semplice diritto, non si raggiungerebbe un’equità ed un’efficacia sufficienti a recare un vero aiuto in caso di bisogno. Questo è senz’altro possibile, ma non fa che confermare quanto già detto. In ogni caso i due interventi, quello basato sul diritto e quello basato sulla carità non sono gerarchicamente superiori uno all’altro, ma semplicemente diversi; e neppure sarebbero soltanto tipici uno della Chiesa e l’altro dello Stato. Molti equivoci sono invece sorti da tale confusione. I credenti hanno talvolta bisogno di pensare di essere superiori agli altri o almeno di doverlo essere. Contro una pretesa di tale tipo la teologia deve elevare la più energica protesta. 10 Jean Paul SARTRE, L’Etre et le Néant, Gallimard, Paris 1943, pp. 484. 11 “È per questa ragione che Husserl sente l’epoché come “una conversione religiosa” che deve fondare “l’umanità come umanità”” afferma Enzo Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 71. Paci cita dall’opera di Husserl Crisi delle scienze e fenomenologia trascendentale, [1936] tr. it. Il Saggiatore Milano 19? ? Nel commento di Paci l’epoché “è liberazione dell’individuo e della società nella teleologia intermonadica che dà un significato di verità all’essere” (ivi). Su Husserl vedi anche Jean-Luc PETIT, Solipsisme et intersubjectivité, Cerf, Paris 1996. 12 E. PACI, Funzione delle scienze, p. 135. 13 Vi è oggi una viva discussione tra coloro che pensano che -- per restare nell’immagine sopra impiegata -- occorre distaccarsi dalla locomotiva, perché essa produce povertà; mentre altri ritengono che, pur in presenza di contraddizioni, sia inevitabile una locomotiva di carattere economico. Il nostro discorso può essere utile agli uni e agli altri. 14 Un esame a parte meriterebbero le nozioni di dialogo e di Co-umanità (Mitmeschlichkeit) propri a diverso titolo di due pensatori del XX secolo come Martin Buber e Karl Barth. Su questo esiste un ottimo volume: Egon BRINKSCHMIDT, Martin Buber und Karl Barth. Theologie zwischen Dialogik und Dialektik, Neukirchener Verlag, Neukirchen 2000. 15 Maurice Merleau-Ponty, citato in Pierre THÉVENAZ, La fenomenologia da Husserl a Merlau-Ponty, a cura di Gaspare Mura, Città Nuova, Roma 1969 (Neuchâtel 1966), p. 92. Vari interventi sul tema dell’intersoggettività in Intersubjectivité et Théologie Philosophique, Textes réunis par M. M. Olivetti, Cedam, Padova 2001. 16 Questa visione sembra concordare sostanzialmente con l’analisi che fa P. GILBERT, Finitude et infini, in Intersubjectivité et Théologie Philosophique, Cedam, Padova 2001, pp. 505-518. Padre Paul Gilbert S. I. riprende dal medioevo l’antico concetto di ens comune, e da Kant la nozione di limite. Gilbert non interpreta ens comune quale fosse l’essenza presente in tutti, ma come il presupposto di libertà che si incontrano: ciò è utile per chiarire il rapporto tra libertà e finitezza. *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* Il “noi” dalla Riforma a Wesley Tenendo anche conto dello sviluppo futuro della società, si può sicuramente
affermare che una delle ricadute più importanti e maggiormente significative derivate dalla Riforma del XVI secolo è stata l’accentuazione dell’individuo come soggetto all’interno di un mondo medievale strutturalmente massificato. Prima il “noi” era grosso modo rinchiuso in tre gruppi -- quasi delle caste stabilite dall’ordine divino -- formate dagli uomini di chiesa (con il compito di pregare per tutti), da quelli d’arme (deputati alla collettiva difesa materiale) e dal popolo (incaricato, con il proprio lavoro, di mantenere gli altri due gruppi). Con l’evoluzione dei tempi, dovuta soprattutto al mutamento dei modelli produttivi, si erano formati gruppi più articolati, uniti dal giuramento -- vero collante della società -- applicato non più solo in un rapporto puramente verticale, ovvero l’inferiore che si lega al superiore, ma anche in uno orizzontale, e cioè persone unite da medesimi interessi che con il giuramento reciproco creano veri e propri consorzi di pari all’interno dei quali il singolo comunque acquista un valore per sé. Il restringimento del “noi” indifferenziato in gruppi più ristretti è un fenomeno che riguarda anche il contesto religioso, sia nel quadro dell’istituzione ufficiale (la riforma del monachesimo, la creazione di nuovi ordini religiosi), sia nell’ambito di quella che è definita l’eterodossia. Il fatto stesso che essa sorga, in maniera sostanzialmente organizzata, è sintomatico. In ogni caso, una certa acquisizione della coscienza individuale trova il suo sbocco in una nuova socialità, dove non mancano interessi utilitaristici, e non immune da ripensamenti. Un esempio: lo spogliarsi dei propri beni in un contesto di pauperismo, oppure il rifiuto del giuramento tipico dei movimenti ereticali, in netto contrasto con la nascita delle corporazioni -- e, in ultima analisi -- della nascente borghesia che cercava di crearsi una nicchia nell’ambito dello stato feudale, e non di abbatterlo. Forse non va dimenticato, in ambito religioso, il grande movimento che portò nel ‘400 a porre in primo piano la collegialità (il primato del Concilio rispetto al potere papale) e che fu sconfitto nel corso del medesimo secolo. L’uscita dalla società medievale non si realizzò all’interno dell’istituzione Chiesa, bensì trovò altre strade, forse neppure immaginabili a chi aveva saputo porre alcuni interrogativi di fondo. Infatti, la svolta venne dalla Riforma del XVI secolo. La responsabilità personale dell’individuo è posta al centro della vita di fede e informa tutti i rapporti religiosi. Viene messa in discussione la struttura di una Chiesa cui delegare i problemi dell’anima a favore di un personale rapporto con Dio senza mediazioni sacerdotali. È noto il famoso commento di Karl Marx: “Lutero ha tolto l’individuo dal dominio del prete -- anche se poi continua -- e ha fatto di ogni individuo un prete”. Ci troviamo di fronte all’”io”. Il concetto di sacerdozio universale è uno dei capisaldi della Riforma, che si esprime spesso con lo slogan “libertà nella responsabilità” e gli studiosi ancor oggi discutono se i Paesi non toccati dalla Riforma abbiano subìto contraccolpi negativi dal permanere di una certa deresponsabilizzazione e dell’ufficio della delega presenti nella religiosità cattolica. Con la Riforma, dunque, si può parlare di una forte spinta al passaggio dal “noi” all’”io”. Il singolo individuo prende coscienza di sé, è invitato a un confronto diretto e immediato con la Bibbia, e a questo proposito gli vengono forniti gli strumenti per farlo per mezzo di uno sviluppo culturale. È invitato ad assumersi le proprie responsabilità in campo etico e sa di dover rispondere a Dio al quale -- diversamente dagli uomini, sia pur di Chiesa -- non si può mentire, o con cui non sono possibili compromessi o mercimoni. Tale sviluppo della coscienza poteva mettere in crisi la società. Ne è testimonianza la cosiddetta “ala sinistra della Riforma”, identificata con gli anabattisti. Essi -- convinti della validità del battesimo solo se accompagnato da una personale confessione di fede, e quindi compiuto consapevolmente in età adulta -- erano una mina vagante perché introduceva l’elemento di “decisione personale” in una società per la quale con il battesimo si entrava nel popolo di Dio, e nel contempo si diventava sudditi del sovrano. Alterare questi meccanismi poteva avere gravi conseguenze. Il rapporto con le
istituzioni non sarà messo in discussione se non in epoca successiva. Il battesimo degli anabattisti poneva -- tra l’altro -- troppo l’accento sulla volontà umana, laddove i Riformatori si rimettevano totalmente alla grazia di Dio, sottolineandone l’assoluta preminenza, anche, ma non solo, in polemica con il cattolicesimo. Si può così dire che, inizialmente, uno degli aspetti del “noi” della Riforma è un “noi” passivo e determinato da Dio: se l’essere umano -- come diceva Lutero -è simul iustus, simul peccator, tutti sono peccatori e quindi bisognosi della grazia; tutti sono giustificati da Dio. Su questo “tutti” bisognerebbe fare dei distinguo, alla luce del concetto di predestinazione messo in particolare luce da Calvino. Ma il “tutti” è comunque comprensivo di coloro che Dio chiama e che riunisce in assemblea cultuale. Dal sommarsi dell’egualitarismo (di fronte a Dio) e dalla responsabilità individuale, prenderanno le mosse alcuni concetti che porteranno alla moderna democrazia. Se è indubbio che la responsabilità personale è al centro della fede protestante, il “noi” è ancora fortemente presente nel luogo dove si riconosce il peccato e dove si accoglie l’annuncio della grazia di Dio. La Chiesa così si va trasformando da strumento di salvezza a luogo di ascolto e -- mettendo l’accento sull’aspetto più quotidiano -- da istituzione consolidata a assemblea di credenti uniti in una fede che non è semplicemente adesione a principi o pratiche religiose, bensì capace di incidere profondamente sull’etica, perché permeante di sé tutta la vita del singolo individuo. La Chiesa, che assume l’aspetto del “noi”, è -- secondo la definizione della Confessione di Augusta del 1530 -- «l’assemblea dei santi nella quale si insegna l’Evangelo nella sua purezza e si amministrano correttamente i sacramenti». Il termine latino per “assemblea” è congregatio; e naturalmente il termine “santo” è usato nella sua accezione biblica di “credente”. Qui desidero sottolineare il valore attribuito ai sacramenti, e in particolare alla Cena del Signore dove si può sperimentare maggiormente il superamento dell’”io” come individuo e farlo confluire in un “noi” che però non nasce da un’autoconvocazione, bensì è ricompresso in un “io” collettivo che trascende i singoli e che è rappresentato dal “Corpo di Cristo”. A questo proposito mi sembrano illuminanti le parole che Lutero scrisse nel 1519 nel “Sermone sul venerabile sacramento del santo vero Corpo di Cristo”. Qui il riformatore era convinto che questo sacramento significasse «una completa unione e una indivisa comunione dei santi». Ciò -- cito -- «deriva dal fatto che Cristo, con tutti i santi, è un corpo spirituale (è) così tutti i santi sono membra di Cristo e della Chiesa (u) Perciò, ricevere questo sacramento nel pane e nel vino non è altro che ricevere un segno certo di questa comunione e incorporazione con Cristo ». L’essere uniti a Cristo e ai santi significa anche che una persona deve «avere ogni cosa in comune così che la passione e la vita di Cristo dev’essere la sua». Ciò ha delle conseguenze pratiche. Così continua Lutero: «Chi dunque è scoraggiato, indebolito dalla sua coscienza peccaminosa, spaventato dalla morte, o comunque ha il cuore aggravato, se vuol esserne liberato, s’avvicini soltanto lietamente al sacramento dell’altare e deponga il suo carico sulla comunità, e cerchi aiuto nella totalità del corpo spirituale». Sul fatto di portare i pesi gli uni degli altri il riformatore insiste molto, così da mettere in comune tutte le cose, le buone e le cattive. Come Cristo prende su di sé il dolore e le sventure umane, dice ai suoi di farlo reciprocamente, per essere fortificati e di sostegno l’un l’altro. Possiamo ancora ricordare il biasimo di Lutero espresso nei confronti di coloro che vogliono godere insieme, ma non pagare: non vogliono cioè «essere solidali, non vogliono aiutare i poveri, sopportare i peccati, aver cura dei miserabili, soffrire con i sofferenti, pregare per gli altri (p) Sono uomini egoisti, ai quali il sacramento non giova a nulla (a) Poiché ove l’amore non cresce ogni giorno e non cambia l’uomo, rendendolo solidale con ognuno, non vi è il frutto di questo sacramento». Ricordiamo, a questo proposito, che Lutero abolì le “messe private”, ovvero l’amministrazione non comunitaria della Cena del Signore. Nel sacramento non esiste il rapporto “io-Dio”, ma solo “noi-Dio”. Ciò è possibile grazie all’amore, all’agape che supera e nello stesso include
i singoli soggetti. Infatti Lutero ribadisce ancora: «tu devi prenderti cura le debolezze e le necessità degli altri, e offrire i tuoi beni come se appartenessero a loro, come Cristo fa a te nel sacramento. Ciò significa essere trasformati gli uni negli altri per mezzo dell’amore, diventare di molte particelle un solo pane e una sola bevanda, abbandonare la propria forma e assumerne una comune». La dimensione del “noi” è una dimensione d’amore. Pur nella diversità della comprensione della presenza di Cristo nella Cena del Signore rispetto a Lutero, anche Zwingli e Calvino si muovono sulla stessa linea ma, in un certo senso, imboccano una strada ancora più decisa. Per Zwingli la Cena è l’elemento costituivo della Chiesa in senso attivo: la Cena fonda, crea, dà forma alla Chiesa. L’accentuazione posta dal riformatore zurighese all’aspetto della fede -- e quindi un aspetto individuale e non delegabile -- non impedisce che egli colga il nesso profondo tra l’aspetto personale e quello comunitario della fede stessa. Anche per Zwingli la Cena del Signore non è un atto di pietà personale, privato, intimistico. Si tratta, per usare le sue parole, di una «azione di grazia, comune esultanza di coloro che annunciano la morte di Cristo, la proclamano, la lodano, la confessano». Zwingli, ancor più di Lutero, insiste sul concetto di Chiesa come corpo di Cristo. Il mangiare il pane e il bere il vino significa non solo solidarizzare con gli altri credenti, ma costituire una nuova realtà, imprevista e imprevedibile, che non nasce dalla somma aritmetica dei suoi membri, ma dalla presenza e nella dimensione dello Spirito Santo. L’accento si sposta da una visione parzialmente statica a una dinamica, da un sacramento di fruizione a uno di realizzazione. Tale linea sarà proseguita da Calvino, che collocherà in una nuova posizione la dottrina eucaristica, trasferendola dalla soteriologia alla ecclesiologia, dal problema della salvezza a quello della Chiesa. Ma prima di passare a Calvino, è giusto ricordare che già con Zwingli era emerso il problema della disciplina, intesa come fattore indispensabile perché chi annunzia la morte del Signore, chi mangia il pane della Cena, deve in seguito vivere secondo i comandamenti di Cristo; chi ha pubblicamente dichiarato di riporre la sua fiducia in Cristo, deve poi trovare una linea di coerenza nel suo comportamento. Disciplina significa aiutare se stessi e gli altri a realizzare questo ideale di fedeltà. Qui il “noi” della Riforma si esprime non solo attraverso la solidarietà e l’amore, in un quadro tutto sommato ancora di Chiesa multitudinista, ma anche attraverso la reciproca attenzione alla coerenza di comportamento. Come l’appartenenza alla Chiesa è segnata dalla partecipazione al sacramento, così il fatto di perseverare pubblicamente nel peccato avrebbe portato all’esclusione dalla Cena, quasi una scomunica, seppur non definitiva. Bisogna dire che la posizione di Calvino, riguardo alla partecipazione al sacramento, era un più prudente rispetto a quella di Lutero che era giunto ad affermare: «Coloro che non hanno sventure, o sono privi di angoscia, o non sentono la loro infelicità, non ricevono nessun giovamento da questo santo sacramento, o ne ricevono ben poco; perché esso è dato soltanto a coloro che hanno bisogno di consolazione e di forza, che hanno un cuore depresso, che portano una coscienza spaventata, che soffrono tentazioni dal peccato, o sono anche caduti in esso». Calvino, nella sua “Istituzione della religione cristiana”, ammette che è per il nostro radicamento «nelle realtà terrestri e carnali [così] da non essere in grado da intendere né di concepire alcunché di spirituale» che Dio ci porge le realtà spirituali sotto forma di segni visibili». La debolezza della fede e la caduta nel peccato dell’individuo sono accolte nel “noi” della comunione in, con e sotto Cristo per Lutero. Calvino sottolinea il fatto che vi è una situazione negativa di partenza, di peccato e di debolezza generale, antropologicamente parlando, all’interno della quale però la fede individuale deve cercare di manifestarsi com’unitariamente e di tradursi secondo le indicazioni di Dio, nella duplice dimensione personale e collettiva La Cena -- dice il riformatore ginevrino nel suo “Piccolo trattato sulla Santa Cena” -- «costituisce un vigoroso richiamo a vivere santamente e soprattutto
a realizzare fra noi rapporti di carità e di solidarietà fraterna. Nella Cena, infatti, siamo incorporati in Gesù Cristo e uniti a Lui come al nostro capo e di conseguenza diventiamo sue membra: è dunque logico che, da un lato, diventiamo conformi alla sua purezza e innocenza e che, dall’altro, si realizzi fra noi quella carità e concordia che deve regnare fra le membra di uno stesso corpo». Come si può notare, non mancano i riferimenti all’agape. Tuttavia prevale un aspetto che contiene in sé alcuni paletti: «Chiunque, infatti, si avvicina a questo santo sacramento -- continua Calvino -- con spirito distratto e sprezzante, senza preoccuparsi molto del fatto che, così facendo, risponde a una chiamata del Signore, ne fa un uso errato e, così facendo, lo profana». Di qui la necessità preliminare di esaminare se stessi, pur rendendosi conto di un dato di fatto: «chi può pretendere, riguardo alla vita di fede e santità, di essere esente da gravi imperfezioni? (() Chi può affermare di non essere mai stato colto dalla sfiducia o di non essere vittima di qualche vizio o di qualche debolezza? ». Per questo motivo -- dice sempre Calvino -- «chi si astiene dalla Cena, a motivo della sua imperfezione nella fede e santità di vita, è come uno che rifiuti di prendere medicine perché malato». Bisogna prendere «coscienza della nostra miseria, in modo tale che nasca in noi questa fame e sete di Lui. Mettersi a tavola quando non si ha fame sarebbe una presa in giro; per soddisfare il proprio appetito non basta però avere lo stomaco vuoto; bisogna essere disposti a ricevere il cibo ed essere in grado di assimilarlo». Sia detto per inciso, sul terreno del sacramento, cioè dell’ecclesiologia, Calvino usa un’immagine non dissimile da quella che Arminio -- e Wesley poi -utilizzeranno sul piano della grazia, ovvero sul piano della soteriologia. Ma i confini stessi tra i due ambiti si potrebbero discutere. Prendendo coscienza della propria miseria spirituale e del bisogno che Dio si esprima anche attraverso il sacramento, tutti possono essere ricompresi in un “noi”? La risposta di Calvino è questa: «il valutare e decidere l’ammissione alla Cena o l’esclusione non spetta al singolo, sulla base di valutazioni personali, ma è di competenza della chiesa nel suo insieme o del pastore con gli anziani». Bisogna premettere che l’esclusione dal sacramento -- e per casi di manifesta “empietà” -- fu voluta più dai magistrati civici della città di Ginevra che da Calvino, e soprattutto da essi decretata. Ma allora il “noi” della Riforma diventava appannaggio dello Stato? Qui si registra una svolta: il “noi” della Riforma trova una soluzione che coglie lo spirito di base dei singoli per incanalarli in una precisa direzione, ma rappresentata da un organo preposto e che decide sugli aspetti fondamentali della vita di fede. Nasce il “concistoro”, formato da pastori e da laici. Si tratta di una nuova istituzione, intesa però come strumento, e ciò creerà una salutare tensione tra le posizioni più congregazionaliste e quelle più conservatrici. Nelle prime aveva più importanza il battesimo, nelle seconde la Cena del Signore. Se il “noi” della Riforma ruota ancora intorno ai sacramenti nel XVI secolo, in quello successivo si basa su un altro elemento fondamentale della Riforma: la sola scriptura. Da una parte vi era una certa sterilità prodotta dalle controversie religiose nell’Europa centrale (per non parlare delle guerre di religione che devastarono il Continente). D’altra parte le mutate condizioni sociali soprattutto dell’Inghilterra ponevano altri problemi che, in un certo senso, anticipavano il dibattito in ambito europeo: la rivoluzione inglese precede quella francese di più di un secolo. Di quel secolo due aspetti vanno considerati, ed entrambi sono legati al rapporto con la società. In primo luogo abbiamo il fenomeno del Puritanesimo in Inghilterra: molto influenzato dal calvinismo scozzese, seppe esprimere una ricchezza incredibile testimoniata e prodotta anche attraverso una miriade di saggi e di scritti, anche polemici. In estrema sintesi, il puritanesimo pose l’esigenza di una purezza -- di qui il suo nome -- di una Chiesa rispettosa della Bibbia. Di qui parte un forte richiamo etico che però non si rinchiude solo nel personale, ma infervora coloro che partecipano al dibattito che sfocia nella lotta per riuscire ad avere una società più giusta. È dalla base biblica che parte la riscossa dei più deboli.
Essa, ancora una volta, parte dall’acquisizione di un personale rapporto con Dio. Se andiamo a leggere ciò che in quel periodo fu prodotto ci accorgiamo che l’interesse primario è il proprio cammino verso una santificazione individuale. Nello stesso tempo, ci si accorge che questo percorso non può non avere ricadute sociali. Il discorso fatto da Lutero e da Calvino (l’essere un unico corpo nella solidarietà e nell’amore) non cade nel vuoto e ancor più emerge che l’essere cristiani deve avere ripercussioni pratiche sulla vita sociale e politica. Non vi è dubbio che una caratteristica del Protestantesimo -- e un elemento del suo successo -- è in buona parte dipeso dalla sua capacità di coinvolgere tutti gli aspetti della vita dell’individuo, in ogni giorno della sua esistenza, attraverso il senso di responsabilità personale che richiedeva a chiunque. Qui troviamo collegati l’”io” della responsabilità individuale e il “noi” di una responsabilità collettiva che si autointerpretò attraverso la categoria biblica del patto. Essa crea un particolare rapporto tra Dio, che lo propone, e gli esseri umani. Nello stesso tempo il patto coinvolge coloro che si sentono di far parte del popolo di Dio. Wesley riprenderà questo concetto e farà del culto del “Rinnovamento del patto” uno dei momenti più significativi della vita cultuale delle sue comunità. Il rapporto di eguaglianza di fronte a Dio rimane un caposaldo. Tutto ciò si tradusse, nel Puritanesimo, in atti innovativi (come il giuramento degli ufficiali ai soldati e non solo l’inverso) e polemicamente simbolici (vedi il rifiuto dei quaccheri di togliersi il cappello di fronte al re). Il secolo successivo alla Riforma ha aperto la strada al passaggio dalla preminenza del “noi” in ambito ecclesiastico al “noi” in ambito politico e sociale e -- quasi in parallelo -- ha determinato l’articolazione della Chiesa in forme diverse, dove i credenti sono secolarizzati, nel senso che vivono pienamente il loro inserimento nel loro tempo presente, a condizione di “essere sale del mondo”, secondo l’indicazione di Gesù, il ché non sempre è avvenuto e non sempre avviene. Diverso fu l’altro grande movimento di risveglio del protestantesimo che reagì a una chiusura dogmatica registratasi (soprattutto nel centro e nord Europa) in ambito luterano: il pietismo della seconda metà del ‘600 in ambito germanico. È singolare che anche in questo caso non era più il sacramento che poneva le basi del “noi” della Riforma, bensì di nuovo il principio della sola Scriptura. Secondo le indicazioni di Jacob Spener, nel suo “Pia desideria” occorreva che ogni cristiano si riappropriasse dell’esercizio del sacerdozio, non ristretto alla presidenza delle riunioni pubbliche delle comunità (compito dei predicatori ordinati), ma in modo che investisse tutta la vita morale del singolo e della comunità. Il modello proposto era quello di reintrodurre nella comunità l’uso della lettura biblica a gruppi di persone, dando poi luogo al dialogo tra i diversi partecipanti sotto la guida del predicatore. In altri termini il “noi” della Riforma trovava il suo sbocco in piccoli gruppi, al di là della Chiesa multitudinista e partecipe di un amore più grande di sé (Lutero), al di là dell’accoglienza e -- nello stesso tempo -- del discrimen (Calvino), al di là di un impegno estroverso e sociale (puritanesimo e varie sue articolazioni, tra cui il battismo). Questa agape non trae origine dal sacramento né dalla Chiesa come luogo di predicazione della retta dottrina, bensì dalla spinta di fede che portava sia al confronto con la Bibbia (e la conseguente etica personale) sia a opere di carità nei confronti dei più bisognosi. Vi è un’altra caratteristica. I gruppi si formavano riunendo coloro che avevano sperimentato l’amore di Dio nella propria vita: un elemento molto selettivo che tendeva a escludere più che a includere. Pur considerando i pericoli insiti nello scambiare l’esperienza religiosa con l’evento salvifico di Gesù Cristo, ciò non toglie che essa sia un dato fondamentale di una fede che non si trasmette, ma si sperimenta. Dalla sintesi di puritanesimo e di pietismo, nasce un nuovo movimento di risveglio nel XVIII secolo, nell’ambito della rivoluzione industriale del ‘700 in Inghilterra. John Wesley, erede del puritanesimo, permeato di pietismo, si trova a vivere un’esperienza nuova, che pone al centro il problema non della propria personale salvezza, bensì come tale salvezza potesse essere annunciata e fatta
propri da altri. In questo modo con la sua predicazione egli raggiunge tutti coloro che si erano staccati (di fatto) dalla Chiesa. Anche questo dato era un aspetto nuovo, cioè il rifiuto da parte di masse di persone di una Chiesa distante dai problemi concreti e che sempre più metteva l’accento sul fatto che bisognasse essere puri per accedere alla grazia di Dio. Ovvero: prima confessa i tuoi peccati e poi potrai accedere al sacramento. Wesley e inverte i termini: scopri l’amore che Dio ha per te, quel Dio che ti accetta per quello che sei. Riscoprire l’immagine di Dio che è in ciascuno: una parola strana, che si rivolgeva al singolo individuo. Chi si sentiva amato da Dio rispondeva con l’impegno teso alla “santificazione”, uno degli aspetti più caratteristici del metodismo. Il primo livello è l’azione dello Spirito Santo che dona la grazia di Dio e che trasforma l’individuo. Il secondo livello pone l’accento su un percorso di vita coerente con l’essere una “nuova creatura”: essere amati da Dio per quello che si è, significa amare a propria volta in modo totale. Accanto all’amore vi è la necessità del recupero della dignità umana ed essa è possibile soprattutto attraverso un’azione sociale, che è un’altra caratteristica del metodismo. Il campo d’azione è il mondo, non una parrocchia! La Chiesa non ha senso di esistere se non è missionaria. Qui l’essere insieme come “Corpo di Cristo” viene reso estroverso. Vi è però un altro aspetto. Il secondo livello di santificazione -- quello che richiede un impegno personale -- non può essere condotto individualmente. Il corpo di Cristo, non può crescere bene se non è un corpo armonico: è inutile che un membro sia molto sviluppato, se un altro è indietro nella crescita. Si tratterebbe di un corpo deforme, con parti atrofizzate. Di qui l’invito a una santificazione non solo personale, ma collettiva. Dal punto di vista ecclesiologico, Wesley non si discostò dai modelli puritani e pietisti che l’avevano preceduto, ma anche qui con una fondamentale innovazione. Convinto della necessità di una personale esperienza (il cuore che si riscalda quando percepisce la grazia di Dio), convinto della necessità di un’introspezione sulla scia dei diari giornalieri dei puritani e reso attento dall’importanza di un quotidiano incontro con Dio, attraverso la lettura e la lettura della sua Parolaa non ridusse tutto ciò a un fenomeno religioso di carattere personale, bensì basò il suo movimento sulle “classi”, piccoli gruppi di credenti che si riunivano periodicamente. Mentre la Chiesa nel suo insieme era missionaria (cioè proiettata verso l’esterno), le classi assolvevano al compito di crescita spirituale comunitaria. Nelle classi la santificazione diventa un patrimonio di gruppo: il diario non è più personale e intimistico, perché il percorso di fede è confrontato con gli altri. Si verificano i progressi (ma pure i fallimenti), il tutto nel quadro del confronto biblico e della preghiera. Si tratta di un ambiente dove si impara a colloquiare e a parlare (dalle classi sorgeranno i predicatori laici che saranno la forza del metodismo). Ma la novità delle classi è data anche dal fatto che si tratta di un luogo di ascolto. Il ”noi” si realizza nel quadro di una responsabilità piena, che si traduce nella contribuzione settimanale (per mantenere l’azione sociale), nella verifica della propria vita (secondo i canoni della disciplina calvinista e puritana), nel confronto sia tra i componenti il gruppo, sia con la Parola di Dio. Si potrebbe usare un’immagine: la classe metodista è il motorino d’avviamento, ma non è fine a se stesso. La trasformazione che Wesley compie è che questo essere “noi” della Riforma diventa l’essenziale del modo di vivere la fede, insieme, e insieme proiettati verso l’esterno. Non v’è progresso se esso non è comune: ognuno è tenuto a “crescere” nella santificazione e far crescere gli altri. Ciò (come i pietisti) in un ambito di profondo rispetto, conoscenza e studio della Parola di Dio, di preghiera e di spiritualità, e nello stesso tempo (come i puritani) proiettato verso l’esterno, verso il sociale e il politico, senza paura di sporcarsi le mani. La classe metodista era un banco di prova e una palestra di allenamento per portare l’agape nel mondo. Certamente, come è chiaro in tutto il Protestantesimo, c’è la convinzione che senza una conversione autentica nulla di definitivo e di
importante potrà succedere. Tuttavia, solo attraverso la forza dell’amore comune basato sulla fede condivisa si possono “smuovere i monti”. In altri termini, il “noi” di un piccolo gruppo si impegna a cambiare ciò che lo circonda, senza l’illusione di instaurare il “Regno di Dio” in terra, ma cercando di cogliere i segni di tale Regno e di contribuire ad attuarli. Bibliografia essenziale: MARTIN LUTERO, Scritti religiosi (a cura di Valdo Vinay), UTET, Torino 19782 La Confessione Augustana del 1530, Claudiana, Torino 1980 ULRICO ZWINGLI, Scritti teologici e politici, Claudiana, Torino 1985 GIOVANNI CALVINO, Istituzione della religione cristiana (a cura di Giorgio Tour), libro IV, UTET, Torino 19832 GIOVANNI CALVINO, Il “Piccolo trattato sulla S. Cena” (a cura di Giorgio Tourn), Claudiana, Torino 1987 I puritani -- i soldati della Bibbia (a cura di Ugo Bonanate), Einaudi, Torino 1975 PHILIPP JACOB SPENER, Pia desideria -- il “manifesto” del pietismo tedesco (a cura di Roberto Osculati), Claudiana, Torino 1986 SERGIO CARILE, Attualità del pensiero teologico metodista, Claudiana, Torino 1971 GIOVANNI CARRARI, Il metodismo, Claudiana, Torino 2000 Giovanni Carrari (11/10/03) *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* Il superamento dell’io in Lutero ed oggi Pastore Dieter Kampen Jean Paul Sartre: Siamo condannati a vivere. La citazione di Sartre riflette la disperazione di un io senza noi a cui l’ateismo ci deve necessariamente portare. L’io di un ateo resta in ultima analisi riferito a se stesso, unico centro del mondo, isolato, abbandonato a una vita senza senso ed esposto alla morte. È una vita vivibile solo con uno sforzo eroico e alla fine sovraumano che abbraccia il non senso della propria esistenza. Certamente non tutti gli atei percepiscono il non senso della propria esistenza nella misura in cui l’ha percepito Sartre. Ci sono molti metodi per ingannare se stessi per non diventare coscienti della propria situazione. Non vorrei adesso parlare di sostituti della religione che accentuano aspetti secondari dell’essere umano come la razza, la nazione o l’ideologia, perché hanno già perso la maggior parte della loro attrazione. Oggi sono in voga metodi più sottili e meno pericolosi per dare senso alla propria vita. Ci si comporta in modo solidale sul lavoro e nel privato, si fa beneficenza e ci si impegna in qualche associazione culturale o sociale. Sono in molti che frequentano corsi terapeutici dei più svariati metodi, che curano il proprio corpo e che fanno una ricerca spirituale. Queste aspirazioni hanno in comune lo scopo della autorealizzazione e della crescita personale. Non ci si comporta in modo solidale perché lo si ritiene un valore assoluto, ma perché così si vive meglio, perché aiuta l’equilibrio psichico e spirituale e perché va bene con la propria autostima. Al centro sta sempre l’io. Il noi è solo una sua funzione. La relazione tra io e noi e quindi il senso della propria vita sono falsi, perché l’io non viene superato, ma al contrario sottomette il noi all’io. È chiaro che la vera vita non può fondarsi su un inganno. L’uomo da sé non ha la possibilità di andare oltre il soggetto. Ha bisogno di una mediazione, di una cosa più grande in cui si fondono soggetto ed oggetto, l’io e il noi; ha bisogno di religione.
Solo in Dio posso riconoscere il prossimo come fratello e sorella, solo in Dio può essere stabilita una vera unità tra me e gli altri, solo in Dio posso amare i miei nemici. Certamente la religione non è una garanzia per il superamento dell’io. Anzi, proprio la religione può essere abusata per confermare un io riferito a se stesso. Così come oggi molte persone fanno del noi una funzione della propria autorealizzazione, così in tutti i tempi le persone si sono fatte un Dio che corrisponde ai loro bisogni e che li conferma. Perciò nel secolo scorso Karl Barth ha distinto tra religione e fede. Anche se questa distinzione, a lungo molto in voga soprattutto tra i protestanti, non è sostenibile, esprime bene la differenza fondamentale tra una religione che serve a confermare il sé autoriferito e una che supera il soggetto attraverso una relazione vivente con Dio. Vista la tentazione dell’abuso, la religione deve essere continuamente rinnovata. Lo stesso Gesù non ha fatto altro. Nel Nuovo Testamento i farisei rappresentano coloro che fanno della religione una funzione dell’io. Tutto l’atteggiamento di Gesù dimostra come egli vede tutto sotto l’aspetto del superamento dell’io. Per lui il ladro e la prostituta disperati sono più vicini a Dio che il fariseo eticamente corretto, ma orgoglioso di se stesso. Tutto sommato Gesù dà poca importanza a ciò che comunemente si intende per etica, ma mette l’accento sulla relazione tra soggetto e Dio, sconvolgendo così i concetti tradizionali di un modo abusivo di interpretare la religione. La legge viene superata dall’amore, il rito dalla grazia. Quando leggiamo i racconti del Nuovo Testamento, tendiamo ad identificarci con Gesù e a metterci contro i farisei. Lo facciamo contrapponendo la nostra religione “moderna” contro una antica fatta di riti e leggi. Ma sbagliamo, perché non sta qui il nucleo del discorso. Annunciare la giustificazione per sola grazia mediante la fede può essere un metodo altrettanto buono come vivere con leggi e riti per confermare se stesso. Ma è anche vero che ambedue possono condurre ad un superamento dell’io. Siamo sempre esposti alla tentazione di essere farisei e più o meno lo siamo tutti. Anche la Riforma non è stata altro che un tentativo di rinnovare la religione. Questa volta il nostro tema “oltre il soggetto” è stato trattato espressamente. Infatti la Riforma ha definito il peccatore un “uomo inclinato su se stesso”. Così il superamento dell’io, che si realizza nella giustificazione per sola grazia mediante la fede, è diventata tema centrale della Riforma. 2. Il superamento dell’io nella teologia di Lutero Lutero ce l’aveva con i farisei del suo tempo che vedeva nella veste del clero, dei monaci e di tutti coloro che si ritenevano giusti a causa del loro comportamento impeccabile ai propri occhi. La lotta di Lutero era una lotta contro i farisei, contro la pesante mentalità dell’io autoriferito. Per condurre ad un io unito al noi, bisogna prima distruggere il vecchio io prigioniero di se stesso. Infatti Lutero diceva che la via al paradiso conduce attraverso l’inferno. Con ciò intendeva dire che l’uomo deve prima sperimentare l’annullamento di sé stesso e quindi la disperazione e il vuoto, per poi poter sperimentare il ritrovamento di sé in Dio. Questo processo si rispecchia nella contrapposizione tra legge ed evangelo. Questa contrapposizione è fondamentale e caratteristica per la teologia luterana che, per quanto ne sappia, non viene condivisa da nessun’altra confessione in questa forma accentuata. 1 Lutero legge tutta la Bibbia sotto questo duplice aspetto della legge e dell’evangelo. La legge esprime la volontà di Dio. Ma vi è una differente comprensione della legge. La chiesa cattolica romana interpreta la legge in modo letterale, per cui peccare significa fare idolatria, rubare, mentire, uccidere, ecc. Una persona battezzata che si astiene da questi atti non può essere considerata un peccatore. I luterani invece considerano la legge maggiormente sotto il profilo spirituale. Prendiamo p. es. il comandamento “non rubare”. Secondo l’interpretazione di Lutero già un commerciante che sfrutta un suo monopolio per vendere la sua merce a un
prezzo troppo alto e che quindi si arricchisce a spese degli altri, è in fondo già un ladro e pecca sicuramente contro la legge. La legge più importante è la prima: “Io sono il Signore, il tuo Dio, non aver altri dei accanto a me”. Il nostro peccato radicale è proprio che: noi esseri umani non lasciamo che Dio sia Dio, ma vogliamo essere noi stessi dei; che noi non amiamo Dio con tutto il cuore, ma che amiamo noi stessi più di lui; che non mettiamo Dio al centro della nostra attenzione, ma bensì noi stessi, che non realizziamo la volontà di Dio, ma vogliamo realizzare la nostra volontà. Quindi per Lutero già il fatto di non amare Dio sufficientemente è un peccato e quindi siamo peccatori anche se siamo battezzati e anche se non commettiamo nessun crimine nel senso umano. Il vero crimine è il nostro egocentrismo. Infatti, come abbiamo visto, i riformatori definivano l’uomo peccatore come “uomo inclinato su se stesso”. Comprendendo la legge ed il peccato in questo modo molto profondo è chiaro che nessuno possa adempiere la legge. Siamo tutti peccatori e perciò destinati alla perdizione. Nessuno può salvarsi da solo. Il risultato può essere solo la disperazione, cioè la distruzione dell’io autoriferenziato. Questo è certamente un attacco ai farisei. Il fariseo infatti adempie la legge secondo la lettera e aiuta il prossimo con offerte ed impegni sociali. Ciò lo rende fiero e gli dà fiducia in se stesso. Però nonostante l’apparenza non è unito con Dio o il “noi” nella veste del prossimo. Invece usa Dio e il prossimo per farsi grande e per accontentare se stesso. Perciò succede che persone che sembrano impeccabili nella condotta di fede, in verità sono più lontani da Dio rispetto ad altri che non riescono a liberarsi da qualche vizio. L’interpretazione della legge in chiave luterana invece non lascia spazio per i farisei. Spazza via ogni orgoglio e falso benessere, annunciando a tutti la perdizione. Non stupisce che Lutero abbia trovato degli avversari accaniti. Nella seconda parte, cioè nell’evangelo, viene annunciata la salvezza per sola grazia a causa dei meriti di Gesù Cristo. La nostra giustizia e quindi la nostra salvezza non sta in noi, ma fuori di noi in Gesù Cristo. Per accedere a questa salvezza devo lasciare me stesso verso Cristo, devo uscire da me stesso e unirmi con Cristo. Ciò succede nella fede, in cui trovo una nuova identità, una nuova esistenza fuori di me in Cristo. Infatti la parola ex-sistenza indica questo fenomeno. Vera ex-sistenza, vera vita è cosa che posso trovare solo al di fuori di me. Importante è che quest’unione con Dio, quindi il movimento dall’io al noi, non può accadere senza l’abbandono del proprio io. Perciò è importante che la predicazione comprenda sia l’evangelo che la legge. Se fosse predicato solo l’evangelo, cosa che purtroppo succede spesso nelle nostre chiese, il fariseo (attenzione, i farisei non sono gli altri, ma ognuno ha una inclinazione innata al fariseismo) crederebbe volentieri alla dottrina della giustificazione per sola grazia, ma non cambierebbe per questo la sua vita. Per il fariseo credere significa “ritenere vero”, Lutero invece ha definito la fede soprattutto come fiducia. Credere significa mettere tutte le proprie speranze in Cristo. Chiaro che questo tipo di fede cambia radicalmente l’identità di una persona e quindi il suo comportamento. 2 Legge ed evangelo sono quindi mezzi che conducono dall’io al noi. Questo movimento non è un processo che succede una volta per tutte per condurci ad un risultato statico. A causa della nostra inclinazione al peccato, cioè all’egocentrismo, siamo sempre in pericolo ad inclinarci di nuovo su noi stessi. Lutero, nella prima delle 95 tesi, ha scritto: “Il Signore e maestro Gesù Cristo, dicendo “fate penitenza”, volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza. ” Qui Lutero descrive il processo dall’io al noi come un processo continuo che dura tutta la vita, perché cosa è la penitenza se non altro che riconoscere il proprio peccato, disperare di se stessi e cercare aiuto presso Dio? Vorrei adesso esaminare l’immagine che Lutero ha avuto di Dio, mostrando come il concetto di Dio favorisce il processo dell’io al noi.
Il concetto di base è che Dio è veramente Dio. Questo sembra una cosa banale, ma non lo è. Ci sono poche teologie che lasciano essere Dio veramente Dio. Più spesso lasciano uno spazio grande all’uomo che sottomette Dio ai suoi criteri, cioè Dio deve essere buono, giusto, comprensibile, deve amare tutti, e non fare mai niente di male. Il male invece viene attribuito all’uomo o al diavolo. È chiaro che questo tipo di teologia lascia un grande spazio all’io e al suo orgoglio. Lutero invece lascia essere Dio veramente Dio, cioè il tutto in tutto, onnipotente, onnisciente, causa di ogni cosa sia buona che cattiva ai nostri occhi. Nessun capello cade dalla nostra testa senza la volontà di Dio. Egli ha stabilito la nostra sorte, cioè la nostra salvezza o perdizione, già prima della nascita. Un tale Dio è per noi fondamentalmente incomprensibile, se non attraverso la sua rivelazione in Gesù Cristo. Lutero non sostiene un determinismo meccanico in cui l’uomo è solo una marionetta. L’uomo collabora con la sua volontà al piano di Dio. Però le scelte che l’uomo fa sono da Dio previste e volute. Anche se l’uomo è chiamato ad una vita buona e ne viene fatto responsabile, non può fare una tale scelta se Dio non l’ha predestinato ad essa. È chiaro che Lutero si scontra su questo punto con l’umanesimo che vuole fondare l’uomo su se stesso, mentre Lutero lo rende totalmente dipendente da Dio. Il Dio di Lutero non lascia spazio ad un io autoriferito. Il grido dell’io, lo commenta così, commentando Romani 9, 14: “Al fatto che non ci sia ingiustizia in Dio l’apostolo non dà alcun’altra ragione che questa: “Avrò misericordia di colui di cui ho avuto misericordia”. È lo stesso che dire: avrò misericordia di colui del quale avrò voluto averla; cioè di colui del quale è stato predestinato che si abbia misericordia. Ed è una risposta insopportabile per i superbi e i sapienti, ma dolce e gradita per i miti e gli umili, che non hanno nessuna speranza in se stessi e che perciò il Signore accoglie. In verità, non esiste, e non può esistere, altra ragione della sua giustizia, se non la sua volontà. Allora che senso ha che l’uomo protesti che l’operare di Dio non è conforme alla legge, dato che ciò è impossibile? Sara possibile che Dio non sia Dio? E poi, essendo la sua volontà il bene supremo, perché non desideriamo con tutte le forze che si compia, dato che in nessun modo può essere cattiva? Ma tu obietti: e se per me è cattiva? Nient’affatto. Per nessuno è cattiva. Ma poiché la sua volontà è fuori della portata (dei superbi e dei sapienti), e non la fanno, ecco il loro male! Se volessero ciò che Dio vuole, anche se Dio li volesse dannati e reprobi, non ne avrebbero del male; poiché vorrebbero ciò che Dio vuole, e avrebbero dentro di sé, con la loro pazienza, la volontà di Dio. ” (WA 56, 396-397) Quindi essendo la volontà di Dio ciò che determina tutto e il bene supremo, non si può attribuire a Dio nessun male. È vero che Dio opera anche ciò che noi chiamiamo male, ma in verità non è male, perché Dio lo vuole. E se Dio indurisce il cuore degli uomini, affinché vogliano peccare e in seguito egli li condanna, non è ingiusto, semplicemente perché Dio vuole così. Qui qualcuno potrebbe intervenire e dire: “È duro e triste che Dio cerchi la sua gloria nella mia miseria. ” Risponde Lutero: “Ecco qual è la voce della carne: “mia, mia”, ha detto. Togli questo “mia” e di’ invece: Gloria a te, Signore; e sarai salvo. Infatti la saggezza della carne ricerca solo il suo interesse e teme di più la propria miseria che la mancanza di gloria in Dio, e quindi cerca più la propria volontà che quella di Dio. ” Adesso certamente la mente umana si ribella: un tale Dio che vuole il male, la mia morte e forse la mia condanna, non lo possiamo immaginare. Non possiamo accettare che Dio voglia Auschwitz, Hiroshima o i milioni di morti che - 150 anni prima di Lutero -- la peste aveva ucciso. D’altra parte non possiamo neanche ammettere che ci sia un diavolo più potente di Dio. No, qui stiamo davanti ad un mistero, qui dobbiamo arrenderci e ammettere che tutta la nostra sapienza, intelligenza e buona volontà non possono darci una spiegazione. Perciò Lutero parlava del Deus
absconditus, del Dio nascosto; un Dio che non possiamo capire, che possiamo solo temere ed odiare. Per noi questo Dio sta in pieno contrasto con il Dio di Gesù Cristo che ci è descritto come nostro Padre che ci ama. Il Dio di Gesù Cristo, Lutero lo chiamo il Deus revelatus, cioè il dio rivelato. In Gesù Cristo Dio si rivela a noi e ci fa conoscere la sua volontà. Visto che la nostra ragione non basta per concepire Dio, l’unica via per conoscerlo è la sua rivelazione in Gesù Cristo. Si potrebbe dire che il Deus absconditus e il Deus revelatus corrispondono alla distinzione tra legge ed evangelo. Una chiesa che predica solo il Deus revelatus, corre il rischio di non superare l’io, perché se l’io autoriferito non viene reso prima impossibile per mezzo di un Dio che trascende ed annulla la nostra volontà, libertà, razionalità e morale, l’io fondato su se stesso potrebbe sentirsi ancora confermato grazie all’amore di Dio ed a una teologia di sola grazia. Gran parte del suo sforzo, Lutero lo usa per distruggere l’io, ma c’è un altro pericolo che sta dall’altra parte degli estremi e cioè il panteismo. Il peccato originale e più diffuso è sicuramente di porre in assoluto il proprio io e quindi di fare di Dio solo una funzione di esso. Il panteismo invece mette assoluto Dio e fonde in esso l’io. Anche se l’immagine di Dio potrebbe indicare questa tendenza, Lutero non è mai caduto in questa trappola. Il peccato separa insuperabilmente uomo e Dio. Il peccato isola continuamente da Dio. Il concetto del simul justus et peccator riesce ad integrare ambedue i concetti. Come peccatore l’io dell’uomo è isolato e ben distinto da Dio e dal noi. Come giustificato l’uomo è unito con Dio. Questa unione viene stabilita da Dio per sola grazia e viene dall’uomo solo accolta, quindi non dipende dalle facoltà dell’uomo e resta non disponibile. Così l’integrità dell’io resta intatta, ma il “noi” viene continuamente ricevuto nel rivolgersi a Dio. Qui si mostra un ulteriore punto forte della teologia di Lutero: Egli vede la relazione tra io e noi non come stabile, ma come un movimento continuo dell’io al noi, processo che trova il suo compimento all’ultimo giorno e che quindi viene nutrito con un infinito ottimismo che non nega il peccato e il male, ma li sa integrare in una visione completa dell’io e del mondo. Il superamento dell’io nella teologia di Lutero e la sua integrazione in una visione completa testimoniano la grandezza spirituale di Lutero e lo mettono su un piano con i nomi più famosi della storia delle religioni. E come loro anch’egli non è sfuggito a incomprensioni per mezzo degli epigoni. Scrive nel 1559 Melantone, il collaboratore più stretto di Lutero: “Fin dal tempo in cui Lutero era in vita e anche dopo, ho condannato questi Stoica et Manichaea deliria, che Lutero e altri hanno scritto, cioè che ogni opera, buona o cattiva, in ogni uomo, buono o cattivo, devono succedere come succedono. Adesso è pubblico che questo modo di parlare è contro la parola di Dio, nocivo per ogni disciplina e blasfemo verso Dio. ” NOTE 1 In questo contesto la domanda, se questa contrapposizione è esegeticamente confermata o meno, non ha importanza. 2 Qui si chiarisce anche il fraintendimento che dice che i luterani non devono fare buone opere. Infatti non è percepibile una fede autentica senza un cambiamento radicale della vita. *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* Centro Studi Albert Schweitzer: Oltre il soggetto Convegno culturale. Trieste 10/11 ottobre 2003
DALL’IO AL NOI ECCLESIALE E AL TU ESCATOGICO Relatore: prof. Mercante Vincenzo I trattati di psicologia definiscono l’io la coscienza del proprio essere, ossia la personalità profonda. La Bibbia userebbe il vocabolo cuore, intendendo la vita interiore, il nucleo intimo della persona dove Dio si dà a conoscere all’uomo. Sia per l’Antico come per il Nuovo Testamento il cuore è la sede dei sentimenti, dell’intelletto e della conoscenza, degli impulsi e delle fantasie. L’io ingloba la personalità tutta intera, la vita interiore, il carattere, l’attività spirituale, razionale, volitiva, le decisioni e le azioni di ogni persona. Il cuore adombra allora l’io insondabile al disopra di ogni cosa: solo l’Altissimo ne scruta le profondità. Secondo le teorie della psicanalisi, l’Ego è una organizzazione psichica che, trovandosi a contatto con il mondo esterno, mira a raggiungere un adattamento con l'ambiente che lo circonda, esercitando una funzione di mediazione fra le contrastanti richieste dell’Es (parola che dice le prime espressioni psichiche ereditate fin dalla nascita, e quindi la parte oscura, inaccessibile, fonte di cieche pulsioni, atemporale, riconoscibile attraverso i sogni, i lapsus, gli atti mancati) e il Super-Io (inteso come sedimento di norme morali, culturali e sociali di un determinato ambiente e di determinate persone di cui si subiscono gli influssi). L’io occupa una posizione intermedia tra gli istinti primari ed il mondo esterno ed in quanto rappresentante psichico interiorizzato di entrambi funge da mediatore tra l’individuo e la realtà esterna, assolvendo al compito di controllo delle richieste pulsionali tese alla ricerca di un equilibrio interiore e gratificante. Sofisticate teorie hanno delineato le funzioni dell’io; ecco le principali: l’autoconservazione, il possesso, il prestigio, il potere, l’esplorazione come insaziabile bisogno di conoscenza, pulsioni che tendono ad un rigonfiamento dell’io e necessitano perciò di educazione e controllo da parte della coscienza. Per converso lo stimolo innato all’altruismo, all’affiliazione ed alla socialità incitano al superamento dell’egocentrico ego e creano la spinta verso la formazione di associazioni, gruppi, istituzioni profane e sacre, in una parola di comunità, termine che abbraccia anche il modello di chiesa. Il vocabolo εκκλησìα significa infatti comunità, assemblea, pure sinagoga, e trova nel verbo εκκαλεω la radice fondante il significato di convocazione e chiamata. In senso strettamente biblico la parola ricorre circa cento volte nella traduzione dei LXX dell’Antico Testamento e nei testi di Qumran ed indica l’assemblea della comunità del Signore. Nel Nuovo Testamento compare circa 200 volte (2 in Matteo, 25 volte negli Atti, 134 in Paolo, 33 in Apocalisse, sporadicamente negli altri scritti). È pacificamente accettato l’assioma che gran parte dell’attività del Gesù storico era rivolta a raccogliere attorno alla propria persona una comunità di seguaci; solo così la sua missione poteva dilungarsi nel tempo. Caratterizzata dalla sequela del Maestro, la comunità aveva come legge fondamentale l’amore (il lavare i piedi di memoria giovannea); espressione della sua fede e della sua unità era l’agàpe eucaristica. Di ciò i discepoli prendono piena coscienza solo dopo la trasformazione operata dallo Spirito Santo, per cui la tradizione fa coincidere la nascita della chiesa con il miracolo della Pentecoste. Oggi non si parla più dell’esistenza di molte chiese, ma di essere chiesa insieme, indicando così la variegata comunità di credenti, convocata dalla Spirito mediante la parola e i segni sacramentali. Dove due o più si radunano nel nome del Risorto, là è presente lo Spirito vivificante ed unificatore. Numerose sono le figure usate dalla S. Scrittura per simboleggiare la chiesa: Gli autori biblici la definiscono fidanzata, sposa, madre: le tre immagini derivano dall’unica raffigurazione della nazione ebraica incarnata in una donna, della quale i credenti sono figli oppure di cui Dio stesso è fidanzato e sposo (2 Sam 20, 19; Is 54, 1; Sal 87, 5; 2 Cor 11, 2ss; Ef 5, 24-32; Ap 12, 2. 17). L’immagine della chiesa come gregge è presente in Ezechiele (34, 3) e nei
Sinottici; nel Vangelo di Giovanni centrale è la figura del pastore, mediante il quale il gregge ha la vita in sovrabbondanza. Viene pure definita piantagione e campo di Dio (1 Cor 3, 6-8; Rm 11, 17-24); edificio e costruzione (1 Cor 3, 9. 11. 16. 17; 2 Cor 6, 16), la cui pietra angolare rende saldo e sacro il tempio sovraedificato. Nel grande discorso d’addio, accanto alla promessa del dono dello Spirito, compare suggestiva l’immagine del vignaiolo, della vite, dei tralci: “Io sono la vite, voi i tralci, il Padre mio è il vignaiolo” (Gv 15, 1-2 5). Nell’arco della mezzaluna fertile l’albero, legato al ritmo delle stagioni, simboleggiava una singolare manifestazione di vita. La sua altezza, sovrastante tutti gli altri esseri viventi, porterà successivamente alla concezione dell’albero universale, che unisce cielo e terra. Dalle sacre fronde di Dordona si credeva di percepire la voce di Zeus. Il dio sumero della vegetazione Dumuzi era venerato come albero della vita. La dea egiziana Hathor si presentava sotto forma di pianta. Soprattutto la vite si identificava con la divinità della gioia di vivere. La sposa del Cantico dei Cantici, inebriata da felicità d’amore, grida ai prati e ai campi: “ Il mio diletto mi ha introdotto nella cella del vino”. A Cana il vino allude all’incipiente pienezza di grazia del già presente regno di Dio. In tale contesto vigna e piantagione di viti incarnano dapprima il popolo eletto, poi con l’apostolo Giovanni il Padre è l’agricoltore (e questa è la tradizione di sempre), il Figlio è il nuovo ceppo della vite (e questo è l’aspetto nuovo, impensato della storia), all’uomo resta il compito di essere tralcio attaccato alla vite. C’è chi per noi fa l’agricoltore, c’è chi per noi è vite, a noi basta rimanere nella vite, cioè prendere atto, assecondare l’opera del Padre e del Figlio. La dinamica dell’immagine è ben espressa dai verbi che descrivono l’agire dei tre soggetti: togliere e potare è opera del Padre; essere parola e linfa sono proprietà del Figlio; rimanere e fruttificare sono compito dei credenti. Un’affettuosa affermazione di Gesù è programmatica: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Infine l’immagine più pregnante. Dio chiama l’intera umanità a salvezza mediante la chiesa. E per renderla idonea a compiere tale missione, l’arricchisce con dei doni: i carismi a servizio dell’insieme dei credenti. Nella prima lettera ai Corinti Paolo sottolinea l’origine pneumatica dei carismi per l’edificazione della chiesa che è in Corinto, emblema di ogni comunità. Il capitolo 12 ha un codice semantico che ben lo struttura: il rapporto tra uno e molti. Rispettivamente uno qualifica lo Spirito, il Cristo, il corpo umano, il corpo di Cristo; mentre molti sono i carismi, le membra del corpo umano e quelle del corpo di Cristo. Nei versetti 12-13 l’Apostolo mette in parallelo la realtà del corpo umano con quella del corpo di Cristo. È il Signore la realtà totale della chiesa, nata dallo Spirito nel battesimo: “ In un solo Spirito noi tutti siamo stati battezzati per formare un unico corpo”. Allora per l’azione dello Spirito, nel battesimo, è generato il corpo che appartiene a Cristo. L’apostolo ribadisce con forza che la chiesa è frutto dell’agire creativo dello Spirito, alla cui linfa vitale ognuno si disseta. I versetti 14-27 rilevano il tema della pluralità del corpo, che non solo ha molte membra ma è molte membra. Le membra sono il corpo, non soltanto appartengono al corpo. Risaltano poi e la distinzione e il nesso delle membra. Non un membro solo, ma l’insieme delle membra nella loro relazione e reciprocità qualifica la realtà del corpo. Si commuove Paolo di fronte a tanta benevolenza divina che, con meravigliosa armonia, ha collocato e strutturato il corpo nella varietà e comunione di tutte le sue varie parti. Ebbene, continua Paolo, questo corpo di Cristo, che è la chiesa, articolato nella diversità di doni, carismi e ministeri, non conosce appiattimento ed uniformità, ma organica complessità per la sovrana fantasia dello Spirito. L’apostolo poi sorvola sulla questione riguardante il più ragguardevole dei ministeri, ma indica la via per diventare ragguardevoli nella piantagione del Signore. Solo la carità dà senso a tutti gli altri doni e senza di essa tutto il
resto non conta niente. Poetico, umano, mistico è l’inno alla carità del capitolo 13: è la via migliore di tutte per diventare importanti nel presente e nell’eternità, perché l’amore non viene mai meno. In tal modo l’evento di salvezza, che è la comunità ecclesiale, assurge alla dimensione della realtà trinitaria ed escatologica. E diviene allora facile il passaggio dal noi ecclesiale al noi celeste. Nell’ultimo stadio, quello nuovissimo, il noi ecclesiale si trasuma e si incentra nel Tu indefinibile, inafferrabile, non riconducibile ai nostri schemi mentali e ai nostri parametri filosofici. Eppure l’Altro è il Desiderato, l’oméga finale, il termine ultimo della vicenda cosmica. Lì la creazione arriva a compimento e la storia dell’umanità entra nel suo stadio definitivo. Ciò avviene nell’ambito di una spazio che progressivamente si trasforma fino ad essere pienamente trasfigurato e contemplato come un nuovo cielo e una nuova terra. L’indicazione è quella di un cielo e di una terra che tutti possono riconoscere, ma dove non esiste alcuna ombra di male, e proprio in questo radica la sua novità. In questa fase finale il progetto di Dio viene formulato come una proposta per tutti: per questo il suo piano si realizza attraverso il rinnovamento di tutto il creato. E chiunque collabora alla trasformazione del mondo attuale, liberando la creazione da ogni agente di morte, riceve il sigillo di Dio ed entra a far parte del gruppo di coloro che sperimentano la pienezza della salvezza (Ap 7, 4. 9). “Per l’autore dell’Apocalisse la vita eterna non è un premio da ricevere in un futuro lontano, ma un bene che i credenti già vivono nel presente. Per questo al posto del giudizio finale, Giovanni presenta ciò che è veramente importante: avere già ora il proprio nome scritto nel libro della vita” (Ap 20, 12). La visione apocalittica offre un sicuro insegnamento sul destino ultimo dell’uomo e della storia: infatti si presenta come profezia dei tempi nuovi, quelli della nuova Gerusalemme. Il veggente di Patmos non fa cenno alcuno sulla fine del mondo, né sul compimento del tempo, ma sul fine e sulla situazione finale della vicenda cosmica. A conclusione della sua opera egli mostra un mondo completamente trasformato, al cui centro campeggia il Signore della vita. È qui che il noi ecclesiale, dilatandosi secondo i piani divini, si trasfigura in noi escatologico; e tutto questo può essere simboleggiato dalla visione della Gerusalemme celeste, assisa al banchetto messianico. Dopo la sconfitta di Satana e di tutti gli emissari del male, l’estasi profetica di Giovanni culmina nella visione di un nuovo cielo e una nuova terra (Ap 21). Come aveva annunciato Isaia, Dio ha posto mano ad una nuova creazione (Isaia 65, 17). Si tratta della novità vera ed escatologica, che supera ogni realtà effimera e compie perfettamente il disegno divino e, insieme, le aspirazioni profonde dell’uomo. Anche Pietro, nella sua seconda lettera, scrive: “Secondo la promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2 Pietro 3, 13). Alla nuova creazione appartiene la chiesa, presentata nella sua dimensione trascendente e finale. È la città santa, è la sposa dell’Agnello, pronta per le nozze di comunione eterna con il suo Sposo. Essa scende dal cielo, da Dio. Prefigurata dalla Gerusalemme terrestre, nella quale un tempo il Signore scelse di dimorare, la nuova Gerusalemme allora è una realtà preesistente, come la Torah ed il Messia, rivelata e donata agli uomini nell’eskhaton. L’abito nuziale di cui è rivestita sono le opere sante dei giusti. Splendente per la presenza stessa di Dio, è vivificata dal fiume di acqua viva che scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello. È questo infatti il cuore della nuova città, sì che in essa non è più necessario il tempio, perché suo tempio è il Signore Dio e l’Agnello. In tale contesto di luce e di amore prende colore la felicità dei salvati, assisi biancovestiti al convito nuziale, di cui il banchetto messianico di Isaia ne era prefigurazione ed anticipazione (25, 6-8). “E farà il Signore degli eserciti su questo monte un banchetto per tutti i popoli di cibi grassi e di vini eccellentia E distruggerà il velo posto sulla faccia di tutti i popoli e la coltre distesa sopra tutti i popoli”. Dio stesso, cioè, aprirà gli occhi a tutte le genti, perché possano conoscerlo ed
adorarlo, assaporando l’esperienza ineffabile della sua presenza. “Poi distruggerà la morte per sempre, cancellerà le lacrime da tutti i volti; toglierà la vergogna del suo popolo da tutta la terra”. In forma positiva si afferma che tutte le genti godranno perfetta felicità e pienezza di vita in modo stabile e definitivo. Questa situazione raggiunge, dilatandosi, l’intero universo, pur riconoscendo la situazione particolare e privilegiata d’Israele. Si tratta di espressioni che devon sì essere inquadrate nel genere apocalittico, ma che travalicano nella visione palingenetica della risurrezione e della vittoria definitiva di Dio sulle diverse forme di male. È un evento futuro di liberazione che si attende dall’Alto. In tale contesto di sicura speranza ogni assemblea liturgica qui ora è invitata a ripetere a mani alzate il grido della comunità giovannea: “Marana tha, Vieni, Signore Gesù”. In questo vieni sta il paradiso ritrovato: o meglio, il paradiso finalmente realizzato. L’Eden ne era soltanto una lontana e pallida raffigurazione: là si avrà il totale compimento del piano divino, là l’intero creato godrà perfetta beatitudine, come conferma la voce dolcissima che esce dal trono: “Ecco la dimora di Dio fra gli uomini. Egli dimorerà con loro ed essi saranno suo popolo ed egli il Dio con loro per sempre”. Si riconosce chiara la formula dell’alleanza. Ma la nuova ed eterna Alleanza ha il sapore dell’amore paterno e il colore dell’intimità sponsale. *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°* Malvina Savio
IL BUDDHISMO MAHAYANA Il Buddhismo nasce 2500 anni fà con Buddha Sakyamuni e l'essenza del Suo insegnamento è la compassione piena di amore poichè la natura di Buddha è compassione piena d'amore. Da essa si sviluppa la saggezza che porta all'Illuminazione. Buddha Sakyamuni benchè fosse Illuminato già da molto tempo si incarno' nuovamente. Venne da Tushita una Terra Pura, e si reincarno' a Lumbini, un villaggio indiano. Sua madre sogno', la notte del suo concepimento, un elefante bianco. Per la sua rinascita scelse una famiglia reale. Nel palazzo paterno visse nel lusso. Durante alcune uscite nelle strade del villaggio egli scopri' la sofferenza nella nascita, malattia, vecchiaia e morte. Cosi' decise di ritarsi in solitudine sottoponendosi a grandi rinuncie, per raggiungere la liberazione dalla sofferenza. E benchè fosse già Illuminato, volle ripercorrere la strada dell'uomo comune per esserci da esempio. Compi' una grande rinuncia in nostro favore per mostrarci la via della liberazione dalla sofferenza. Buddha medito' come eremita per sei anni. Raccolse grandi meriti ed una notte, a Bodhgaya mentre meditava seduto sotto un albero, sconfisse tutti i Mara. Per Mara si intendono le cinque non virtu'. Esse non vengono dall'esterno, ma dal nostro interno. Con quella meditazione Buddha raggiunse la piena Illuminazione. Poi' cammino' verso Sarnath dove diede il suo primo insegnamento sulle quattro nobili verità. Quattro Nobili Verità. La struttura generale della pratica buddhista si fonda, in generale, sulle quattro nobili verità, argomento del primo insegnamento pubblico del Buddha. Esse costituiscono la base dell'intero sentiero buddhista. Sono:
1. La verità della sofferenza - 2. La verità della sua origine - 3. La verità della sua cessazione - 4. La verità del sentiero che conduce a tale cessazione. La prima è la verità della sofferenza. Essa spiega come la vita nel Samsara è sofferenza. E cioè: anche se ora siamo felici non sappiamo per quanto lo saremo. Inoltre tutti noi siamo soggetti alla sofferenza della nascita, della malattia e della morte. Cio è inevitabile. La seconda è la verità sulla causa della sofferenza. In essa Buddha spiega che la nostra sofferenza è dovuta ad una visione errata della realtà, frutto dell'ego e dell'attaccamento di cui noi stessi siamo la causa. La terza è la verità della cessazione della sofferenza. Essa insegna che tutte le nostre sofferenze cesseranno quando avremo capito che la loro causa è la nostra falsa visione delle cose e quando vi avremo rinunciato. La quarta è la verità del sentiero per il superamento della sofferenza. Per vincere la sofferenza dobbiamo correggere l'errore che ci fa credere che il nostro sé ed ogni sua manifestazione esistono indipendentemente da un rapporto di causa ed effetto: dobbiamo cioè capire che essi non esistono in modo indipendente. Con l'insegnamento sulle Quattro Nobili Verità il Buddha ci mostra la possibilità di modificare la nostra situazione di confusione. Chi soffre nello spirito, puo' attenuare la propria e l'altri sofferenza mediante lo sviluppo di una compassione piena di amore. Cio' significa pero' che prima di tutto dobbiamo accettare noi stessi con amore, infatti, fintanto che non ci accettiamo, non abbiamo niente con cui sviluppare la compassione piena di amore detta Bodhicitta. Buddha Sakyamuni diede anche molti altri insegnamenti sull'Hinayana, Mahayana e Vajrayana. Cosi' egli mostro' ad ognuno di noi, in base alle nostre capacità, possibili vie per il raggiungimento dell'Illuminazione. Il Mahayana è la scuola che parla di una caratteristica, la via del Bodhisattva. Il Bodhisattva è colui che anche se ha già acquisito la possibilità di entrare nel Nirvana ci rinuncia per rinascere tante volte fino quando ci sarà l'ultimo essere infelice da aiutare. Naturalmente c'é un sentiero da percorrere per formarsi come Bodhisattva e questo è il sentiero delle sei Paramita o perfezioni che sono: La prima delle sei Paramita è la perfezione del dare che viene esercitato in quattro modi: con il dono di beni materiali; con quello del Dharma; con quello della protezione; con l'amore. Il dono di beni materiali. Soddisfare i bisogni di nutrimento e d'abbigliamento altrui costituisce il suo aspetto piu' facilmente realizzabile, essendo piu' difficile offrire la propria vita, o il proprio corpo come l'hanno fatto il grandi Bodhisattva. Gli oggetti donati non sono di per sé il dono, ma i suoi mezzi. La reale generosità e la determinazione d'abbandonare senza avarizia parte dei beni da noi posseduti. Percio' anche un uomo sprovvisto di tutto puo' esercitarla perchè essa dipende dallo stato dello spirito e non dalle cose da cui ci si separa. All'inizio, succede spesso che ci si senta a disagio alla semplice idea di disfarsi di qualche oggetto, ma quando l'atto di generosità è compiuto, non si proverà nessuna reticenza ad abbandonare perfino il proprio corpo. Naturalmente questa pratica richiede un'aspirazione molto forte al bene altrui e l'eliminazione di qualsiasi pensiero egoistico come, ad esempio, in collegamento col dono, il desiderio di riconoscimento e reputazione. Il dono del Dharma. È trasmettere l'insegnamento del Dharma con motivazione immacolata. Questa forma di dono è piu' profonda e durevole del precedente la cui portata è limitata dal tempo. I beni materiali non impediscono la sofferenza mentre il Dharma, aprendo l'occhio della saggezza, contribuisce alla sua scomparsa anche in caso di estrema povertà. I Bodhisattva che si esercitano per il pieno risveglio, si sforzano sempre di diffondere il Dharma.
Il dono di protezione. È la pratica che consiste nel salvare l'altro e protergerlo dai pericoli. Il dono d'amore. È il desiderio che tutti gli esseri possano finalmente essere felici. Questi diversi aspetti della generosità sono benefici per noi stessi e per gli altri. Essere generosi con la recondita ambizione di qualche profitto o merito personale non è pero' che un simulacro di liberalità. La seconda Paramita è l'etica, la morale. In qualsiasi religione si parla delle dieci azioni virtuose, ogni essere desidera essere in buona salute, desidera la gioia e desidera di avere la pace, quando ci si attiene veramente all'etica, alla buona condotta morale, non ci saranno malattie, non saremo colpiti dalle sofferenze. Questo perchè il corpo, la parola e la mente lavorano simultaneamente. La terza Paramita è la pazienza. Si suddivide in tre parti: Il rifiuto di nuocere; l'accettazione della sofferenza; la pazienza nella pratica del Dharma. Il rifiuto di nuocere. Non dovremmo reagire con collera nè vendicarci con una persona che ci ha fatto del male. Non curiamoci dei mali fisici o psicologici che ci infliggono i nostri simili. Dovremmo invece avere unicamente compassione per loro. L'accettazione della sofferenza. La nostra prima reazione davanti al dolore è quella di rivolgerci ad un individuo o a una cosa esteriore considerata la causa del nostro dolore. Puo' essere che l'uno o l'altro contribuiscano alla ragione immediata delle nostre pene, ma la causa profonda è da ricercarsi nelle nostre azioni passate i cui effetti ritorneranno sempre su di noi. Quando il seme della sofferenza è stato seminato, esso dovrà per forza crescere ed arrivare alla maturazione. È riflettendo in questo modo che ridurremo il potere del dolore su di noi. Fra le nazioni il processo è identico. Quando un paese aggredisce un'altro, se il secondo parte in guerra contro il primo, agisce come una persona affamata che assume del veleno per lenire la sua fame. Se invece si esercitasse nella pazienza, il mondo potrebbe un giorno conoscere la pace, perchè quandi si ribatte alla violenza con la violenza si asseconda una catena causale infinita basata sulla violenza. Se invece ci mostriamo pazienti, la nostra attitudine ricadrà prima o poi su quella del nostro avversario. La pazienza nella pratica del Dharma. Essa consiste nel sopportare senza collera tutte le difficoltà che possono derivare dall'aver iniziato la pratica della meditazione e, piu' in generale, dalla pratica dell'insegnamento, senza permettere a nessuna interferenza di distrarci da esse. La quarta Paramita è la diligenza o perseveranza. Abbiamo tre tipi di perseveranza che producono l'energia che vince le tre debolezze: del non rivolgersi verso il Dharma, dello stancarsi della pratica, del dubitare delle proprie capacità.
Le scritture insegnano che tutte le buone qualità derivano dalla perseveranza. La quinta Paramita è la perfezione della meditazione. La sesta Paramita è la perfezione della saggezza. Tutto il Buddhismo Mahayana è volto all'andare verso l'altro. Nel Bodhicaryavatara (l'autore di questo poema è il filosofo buddhista Santideva vissuto del settimo secolo) è detto quanto segue: Possa essere Possa essere malattia non Possa essere
io per tutti gli esseri colui che calma il dolore. io per i malati, la medicina, il medico, l'infermiere, fin quando la scomparirà. io per i poveri un tesoro inesauribile, pronto a rendere loro tutti i
servigi di cui hanno bisogno. Che io possa consegnare questo corpo al piacere di tutti gli esseri. Che essi lo picchino, lo oltraggino, ne facciano gioco, un oggetto di derisione, di divertimento. Non ha importanza per me. Che facciano del mio corpo tutto cio' che puo' dar loro piacere, ma che io non sia per costoro occasione di danno e di male. Se il loro cuore è pieno di odio verso di me, tutto cio' possa servire a realizzare i loro scopi. Che tutti coloro che mi calunniano, mi deridono, mi offendono, e tutti gli altri ancora siano illuminati dallo spirito divino. Possa io essere la guida di coloro che camminano, il protettore degli abbandonati, e per coloro che desiderano l'altra riva possa essere io la barca, l'argine, il ponte. Possa essere io la lampada di coloro che hanno bisogno di luce, il servo di coloro che hanno bisogno di essere serviti, possa essere il Gioiello miracoloso, l'Urna dell'abbondanza, la Formula magica, la Pianta che guarisce, l'Albero dei desideri. Bisogna coltivare l'energia, la Conoscenza ha la sua dimora nell'energia, senza l'energia il valore spirituale è impossibile. Che cos'è l'energia? Il coraggio di fare il bene. Quali sono le sue avversarie? L'indolenza, l'attaccamento al male, lo scoraggiamento ed il disprezzo di sè. L'inerzia, il gusto del piacere, la pigrizia, il bisogno di essere aiutati generano l'insensibilità al dolore delle esistenze successive, e tutto cio' fa nascere l'indolenza. Tu sei alla mercè di questi pescatori, le passioni, poichè sei stretto nella rete delle nascite. Come hai fatto a non capire che cosi' facendo saresti entrato nelle fauci della Morte? Non vedi che tutti i tuoi compagni muoiono uno dietro all'altro? E tuttavia ti lasci andare all'indolenza come un bufalo di reietto. La morte ti osserva, ti scruta, non hai scampo; e tu come puoi avere piacere a mangiare, a dormire ad amare? Quando la morte ti portera' con sè tu ti scuoterai dall'indolenza, ma cosa potrai fare allora? Questo mi resta da fare, quello è appena cominciato, siamo alla metà di tutto questo ed ecco che la morte arriva improvvisamente. Questo tu penserai quando vedrai i tuoi familiari con gli occhi gonfi e arrossati dal pianto e i messaggeri del re della morte davanti a te.
Considerando le proprie forze è piu' saggio rinunciare subito a una impresa impossibile che rinunciarvi dopo che si è tentato. Bisogna che io vinca su tutti senza essere mai vinto da nessuno. Le azioni hanno tutte come scopo la felicita'; le azioni possono raggiungerla oppure no, ma colui la cui felicita' consiste proprio nell'azione stessa, come potra' essere felice se non agisce? Se voi fate qualcosa nell'interesse altrui dovrete farlo senza orgoglio, senza compiacervene, senza il desiderio di esserne ripagati. Non abbiate che una sola passione: quella del bene altrui. Cosi' come tu cerchi di difenderti dalla miseria, dal dolore ecc. . allo stesso modo è necessario che pensieri di protezione, di bontà verso gli altri diventino per te un'abitudine. Lungi dal lavorare per il loro benessere comune, che è il principio della felicità in questo mondo e negli altri, gli uomini cercano di nuocersi ed espiano questi smarrimenti con terribili sofferenze. Il Buddhismo dice di non ferire mai gli altri esseri, di portare rispetto a tutti e di amare tutti. *°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*
Il percorso comune nel presente della speranza sul mondo Spunti di riflessione “Se qualcuno vuole venire dietro a me, smetta di pensare a se stesso. ” (Marco 8, 34) Sommario: Il presente è una parte inobliabile del tutto nonostante le sue vistose sconnessioni - Siamo invitati a compiere un percorso comune che ci trasforma, ci avvicina, oltre ogni egoismo - Nel presente di questo “corpo mistico” c’è il Cristo vivente fra noi- Senso e ragione del mondo sono soltanto in Dio: è la resa di ogni pretesa, di ogni speculazione umana. 1. La comunità dell’evangelo ed il tempo presente. 1, 1 . Intendo sostenere, paradossalmente per combattere lo scetticismo radicale sul mondo ed il male di vivere, che la speranza non coinvolge soltanto il domani della cristianità ma altrettanto deve pervadere il suo presente . . Perché paradossalmente? Perchè la speranza è l’ aspettazione di un evento, e come tale si pone, per sua costituzione, davanti al soggetto individuale o collettivo. Essa appare un elemento del tempo futuro. Gli appartiene. Parlo qui invece della speranza come una forza spirituale che può coinvolgere tutto il presente e lievitarlo, nell’individuo e nel gruppo quando questo futuro è già di fatto iniziato. 1, 2 . È necessario giungere a un punto di mediazione fra due istanze. Una plurimillenaria tendenza religiosa che potremmo qualificare di tipo ascetico che svaluta interamente la nostra storia (siamo stranieri sulla terra -conta solo il Regno dei cieli perché a quello siamo diretti ) ed una tendenza opposta (spirito dell’epoca, edonismo ) mirata a fondare l’essere umano esclusivamente nell’oggi, sulla propria esperienza e sulla propria ricerca. Qui il futuro non è un vero valore perché conta, di fatto, soltanto il presente. . La prima tendenza che abbiamo denominato di tipo ascetico, porta invece a quello che possiamo definire un nichilismo dell’oggi, ( sarebbe come se Dio non avesse pensato il presente. , possiamo anche dire: come se si verificasse una messa in parentesi di Dio forse perché nel presente opererebbe un suo supposto e fortissimo nemico. È qui evidente una concezione primitiva, dualistica ed antropologica di Dio. ) Il secondo orientamento ( quello comune, edonistico, falsamente realistico in quanto si appoggia anch’esso ad una concezione della realtà del tutto acritica ) rappresenta un ateismo di fatto. ( Dio non è un fondamento ma solo una ipotesi di lavoro sulla quale non si può costruire. Occorre operare come se fossimo assolutamente soli. Viviamo, e basta. ) Se ben guardiamo in entrambe le opzioni la vera Signoria di Dio sul presente del mondo è obsoleta. 1, 3. Ci domandiamo:c’è, nella società umana, un presente della speranza o, se vogliamo meglio esprimerci, c’è una speranza del presente che possa pervaderlo sino a dargli un valore effettivo? Oltre il peccato umano che è una negatività ben evidente nelle sue manifestazioni individuali e sociali, è dato all’uomo di costruire qualcosa di non effimero? 1, 4. Ci siamo chiesti: quale è il senso del presente nel soggetto( e nella comunità) proteso (a) verso il futuro di Dio? Il richiamo ai valori della storia presente, non nasce certamente da una particolare stima del quotidiano che nelle sue sconnessioni evidenti e nelle sue negatività si presta a svalutazione, ma è proprio per combattere il pessimismo radicale che può insinuarsi e occupare il nostro animo che dobbiamo considerare la vita, la nostra esistenza comune, come un valore obiettivo. Se il male di vivere, il pessimismo ci portano verso tutt’altra strada dobbiamo pur riconoscere che chi ha pensato e strutturato l’universo lo ha pensato per ogni tempo ed al suo giudizio, inaccessibile, dobbiamo rimetterci. Solo il creatore dell’universo conosce pienamente il senso della sua immane opera. (Romani. 11, 33-36) Noi pensiamo che Egli sia per noi la ragione sufficiente del
presente se lo postuliamo come Signore del tutto. Il presente è parte di un tutto, cioè inserito in un progetto di vita che si attua e che non può non essere nella mente del creatore, pena la ricaduta in ipotesi politeistiche o panteistiche o di puro nichilismo. 1. 5 Riconosciamo che la speranza futura costituisce, con certezza, il nerbo della fede. L’elemento escatologico --citiamo Moltmann- “non è una delle componenti del cristianesimo, ma è in senso assoluto il tramite della fede cristiana, è la nota su cui si accorda tutto il resto, è l’aurora dell’atteso nuovo giorno che colora ogni cosa della sua luce. ” ( J. M. Moltmann: “Teologia dela speranza “. Queriniana 1970. p. 10. ) Certo: “il futuro è la qualità dell’essere”, come osserva giustamente Ernst Bloch ( “Il principio speranza “ 1954. ) e Dio possiamo averlo sempre soltanto davanti a noi, aggiunge Moltmann, ” nella promessa di darci un futuro e che appunto non possiamo mai avere ma soltanto attendere in una speranza attiva”. Ma con tutto ciò la sorpresa del futuro non seppellisce il tempo presente. La fede pentecostale abbrevia le infinite lontananze. La presenza spirituale ma reale del Risorto nella comunità è già pegno, anticipo, guida sul presente, è già amore, misericordia, invito. La solitudine umana nella comunità evangelica è rotta. Il valore del presente non si costituisce soltanto come attesa. 2. Il “noi”. 2. 1 Una comunità di credenti, meglio quella famiglia di credenti che è la chiesa (essa chiesa ci appare come la vera famiglia dei credenti, non altro: né mater né magistra, tantomeno collegio, ma comunità che riconosce il Risorto come il suo “paterfamiliae” ),:questa chiesa che aspira a divenire --per chiamata- corpo di Cristo, non può che rappresentare il” noi” vivente della fede, della speranza e della carità. Il soggetto cresce nella comunità ( l’esperienza dell’altro ha una importanza decisiva per l’ autocomprensione e per la rappresentazione del mondo comune ). Il soggetto si trasforma, nel servizio, nell’agape. Il percorso individuale è un sentiero che sfocia necessariamente nella grande strada comune. Qui ogni persona si riconosce come membro di alcune comunità, come insegnano i sociologi, quindi il riconoscersi come fratelli nella comunità fondata sull’Evangelo e sulla Pentecoste crea quasi una persona collettiva che è saldata dalla speranza, dal lavoro, dalla preghiera. Più questa persona collettiva si unisce più la debolezza del soggetto cede il posto alla convinzione di essere membro di una realtà dinamica che non si disperde, non dispera, si avvicina, pur lentamente, al bene che le è stato indicato. 2, 2. Se la solitudine blocca il soggetto, il noi lo porta avanti. Qui il “ noi” si è ampliato, perché oltre noi ( tutti quanti ) si colloca avanti, un “ Lui” verso il quale il soggetto cerca di dirigersi, dal quale si sente chiamato, al quale deve una risposta sincera e coinvolgente, al quale sente di appartenere. “Egli è la nostra speranza “ ( Col. 1, 27 ). Da notare, come abbiamo prima osservato, che questo “Lui” è già un presente, non soltanto un futuro. Per tale ragione nel “noi” poniamo anche colui che abbiamo riconosciuto come il Signore, che è tra noi, come evento. Il noi con Lui, per i credenti in Lui. 2, 3. È opportuno ancora sottolineare e ripetere che Il nostro presente si satura di questa speranza verso il futuro senza distruggersi in quanto presente. . Anche il presente è permeato di speranza per l’aiuto offerto dalla grazia. Se tentassimo di dimenticarlo proiettandoci soltanto verso il futuro, svalutando radicalmente e cancellando la vita che oggi ci è data (questa è la tendenza ascetica alla quale abbiamo accennato in 1. 2. ancora presente in molti contesti ) ricadremmo nel politeismo più cupo con angeli e diavoli, dei e sottodei in combattimento fra loro nel presente senza valore. Ma anche la complessità inspiegabile dell’universo è in Dio e se ci sfugge la comprensione della molteplicità è perché il pensiero che fonda l’universale ci trascende. Non possiamo più tornare al mondo dei teologi -bambini che semplificano la complessità evitandola o caricando l’uomo -- pur autore
di molti mali - anche di responsabilità strutturali che non gli possono appartenere. Se così è il presente di Dio non tende a svanire nel nostro quotidiano per quanto siano elevate le difficoltà di comprensione che possiamo incontrare nelle nostre ricerche. . Per chi crede nella potenza e intelligenza del creatore del tutto egli rimane il Signore per eccellenza del presente come del futuro, nostro e suo. Dunque è suo anche il mondo di oggi, per precario che esso appaia. Lo conferma l’invito dell’evangelo ad operare insieme, oggi, Hic et nunc, nella nostra storia. 3. L’enigma della complessità della vita 3, 1 Soggetto individuale e comunità, sia che si muovano culturalmente in un ambito assolutamente laico, o in orizzonte di fede religiosa, sono posti davanti all’enigma della complessità per un verso gioiosa e per un altro verso tragica, della vita in ogni suo ordine ( umano, animale, vegetale, fisico, terrestre e cosmico ). È troppo palese che l’universo, nella sua immensa ed ancora inesplorata complessità, non è nato e progredito dal caso ma necessariamente da un pensiero strutturante (2. 3 ). Tutta la natura con le sue spinte, le sue tensioni, le sue autodistruzioni, lo dimostra e della natura facciamo parte anche noi. Dunque il presente con le sue apparenti o reali contraddizioni, con le sue meravigliose armonie e le sue disarmonie, si svolge davanti a una Ragione che trascende il singolo fenomeno. Ripetiamo, perché la constatazione è fondamentale, che anche la negatività nella struttura dei viventi e nello sviluppo della vita, che non sia causata dal peccato umano, deve necessariamente far parte del misterioso e complessivo pensiero creativo. Ben conosciamo disarmonie e morte che riguardano la natura vivente ed i limiti di ogni esistenza: esse non attengono al caso perché procedono da architetture nella quali è compresa la loro azione. ( anche se la causalità può costituire un agente che induce adattamenti e trasformazioni. ) È ben certo che noi non possiamo assolutamente capire il progetto totale che si attua nella realtà umana e cosmica ma è puerile nasconderci la profonda ed a volte drammatica realtà del mondo creato, con ipotesi fantasiose che vorrebbero spiegare l’inspiegabile. A volte l’uomo vuole “ giustificare “ Dio con storie religiose che lo vorrebbero fare apparire come noi vorremmo vederlo. Ad un Essere totalmente altro vorremmo attribuire la nostra morale, la nostra immoralità, la nostra rappresentazione del mondo che sappiamo essere ben relativa e del tutto contingente. Quanto è difficile per noi tacere ed accettare la nostra reale microscopica situazione di creatura che rimane ai margini dell’infinito. 3. 2 Eppure la nostra impossibilità di capire quella che è l’opera di Dio nel tempo e negli spazi, non impedisce che nel presente della cristianità si rafforzi una comune speranza: che il nostro amore ( quello a cui siamo chiamati ) possa migliorare il mondo con l’aiuto di Dio. Speranza che la storia che viviamo sia vera storia e non un attimo fuggente. Quanto incomprensibile sarebbe questa ragione trascendente se la sua misteriosa infinita, complessa e gigantesca opera fosse costituita sola da attimi fuggenti destinati non solo a rientrare nel nulla ma anche ad essere nulla! . 3. 3. In questo quadro di mistero e di speranza (. . ”et renovabis faciem terrae. ” ) la nostra teologia si giustifica come ragionamento e meditazione sulla fede donata e sul comune cammino possibile. Essa non può essere una sapienza che possa pretendere altra conoscenza, data l’ invalicabilità di Dio. Quando essa vuole oltrepassare la soglia - atto che sappiamo essere costantemente tentato da tutte le religioni mondiali - il discorso diviene non soltanto azzardo ma puro balbettamento. Un corpo mistico 4, 1 Possiamo anche considerare Il “noi “ che avanza un corpo mistico dove appunto il corpo e non l’ “Io” egoistico deve svilupparsi ed evolversi. Anche qui il
superamento parziale del soggetto individuale -salvandone comunque l’identità- è di rigore. Occorre fare un passo avanti oltre l’atteggiamento di ricerca della salvezza individuale, della perfezione individuale, della gloria eterna individuale L’escatologia è la direzione del futuro ma se accettiamo questa evento della presenza del Risorto fra noi, essa, come si è ripetuto, è già iniziata. in un certo modo. Il soggetto non è più fondato sulla sua materialità, legato alla sua sponda interiore ed al suo limite cognitivo, perché gli è stata tesa una mano. La predicazione cristiana dà ragione della propria speranza, che è nata con la fede, nel presente e nel futuro del suo Signore ( I. Pietro. 3, 15) che è il punto per noi trascinante. La Vite e i tralci sono congiunti (Gio. 15, 5). . Quindi abbiamo due importanti ragioni per osservare l’oggi con una maggiore benevolenza. 1) Esso appartiene al presente eterno di Dio, ” 2 ) È risorto il Cristo che presiede la chiesa universale e la sua presenza accanto a noi apre il nostro presente ad una dimensione nuova e profonda, che reca il segno della autenticità. 4. 2 Abbiamo ripetutamente asserito che l’azione creativa di Dio tocca l’universo intero, nel microcosmo e nel macrocosmo, e che essa è un mistero invalicabile per la nostra comprensione ( Is. 55, 8-9: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie”) ma anche che non possiamo con ciò pensare di sottrarre a Dio il senso del presente del mondo, come se non gli appartenesse od in Lui esistesse un vuoto, una messa in parentesi di una parte del tempo. (2. 3) Dunque noi guardiamo al futuro di Dio, ma necessariamente anche al suo presente e, come tale, Dio è presente di. fronte ad ogni tempo ed a ogni storia di ogni vivente. Questo unico Dio che si è relazionato nell’Evangelo e nella Pentecoste, noi lo adoriamo. In Lui vediamo escatologicamente il superamento di ogni antinomia, di ogni ignoranza, anche di ogni individualità chinata sul culto di se stessa. Incurvata sui. Ben oltre il soggetto, che è il tema della nostra riflessione si trova il senso del tutto. Io-tu-gli altri--Lui- con Lui. 5. RIEPILOGO 5. 1. La ferma e motivata convinzione che il caso non può spiegare l’emergere di strutture coordinate porta a riconoscere il mondo come una realtà pensata. Se tale è, il presente ne è un frammento e se ce ne sfugge il senso o esso pare deluderci ciò avviene perché il giudizio complessivo sulla terra e sul cosmo non ci appartiene. ( Tale constatazione non legittima l’accettazione passiva delle negatività che nei limiti delle nostre forze dobbiamo combattere ma sposta in avanti ogni nostra possibilità di comprensione sulla soglia del mistero che ci sovrasta. ) Dobbiamo, dunque, rivalutare il presente, contro ogni scetticismo radicale, come valore di vita, atto di Dio, nel quale ogni uomo ed ogni donna sono chiamati ad impegnarsi per un fine etico 5. 2 Non possiamo nasconderci, come abbiamo osservato al punto 1, 2 che la tradizione ascetica (non solo cristiana ) porta di fatto, al nichilismo dell’oggi. Il mondo sarebbe solo un ostacolo da superare, da dimenticare, perché la vera vita sarebbe altrove. Siamo in cammino e conta solo il punto d’arrivo. Innumerevoli autori, anche cristiani, si sono espressi, con forza, in questi termini, azzerando il valore dell’oggi. . Ma questo nichilismo del presente non si accorge, come abbiamo con troppa insistenza ripetuto, di sottrarre alla sovranità di Dio una parte della sua opera immensa. ( 1. 4- 2. 3- 4. 2) Certo il peccato umano è una responsabilità nostra, ben grave e devastante dal quale non possiamo liberarci a buon prezzo, né possiamo fatalisticamente tentare di coinvolgere nei nostri errori altre forze soprannaturali e tantomeno rovesciare su Dio la nostra libertà. Ma, oltre il peccato che è nostro e di nessun altro, tutto il presente ci è davanti, come è davanti a Dio, come una positività, pur nella complessità delle interazioni che stabiliscono i vari livelli di esistenza. La vita verso la quale dobbiamo insieme confluire è un valore. La fede che ci porta oltre noi stessi, verso
l’altro, gli altri, verso il Dio che indica la verità dell’evangelo è la guida donata nel nostro percorso attuale di credenti. 5. 3 Ora, contro il pessimismo radicale, contrapposto all’euforia materialistica del presente, non possiamo esonerarci dall’obbligo morale di correggere i nostri errori - già che non siamo più soli- e dal compiere tutto il bene che ci è possibile nel nostro spazio di vita che è stato pensato da Dio. E che quindi non è senza un valore. Nessuno ha il diritto di svalutare il tempo attuale dato che la vita ci è stata donata per essere vera vita e non fuga, quale che sia, dalla vita stessa. Ci esorta Paolo:” la carità è maggiore di tutto. ” (I. Cor. 13) Il pessimismo radicale dice: il non essere è meglio dell’essere. La comunità cristiana deve dire: noi siamo al servizio dell’essere. Noi, tutti noi insieme, si intende. Il soggetto ha ben da uscire da se stesso per vivere il presente della società di cui è membro; un presente comune che si apre sempre alla speranza del futuro senza rinnegarsi, ricco della ferma speranza in Dio presente e futuro. 5. 4. Il soggetto è predisposto per aprirsi agli altri perché l’esperienza dell’altro lo modifica e perché questo guiderà la sua stessa autocomprensione e la sua rappresentazione del mondo che sappiamo essere non altro che una rappresentazione di specie. Questo limite critico non inficia la possibilità di azione che è stata data all’umanità. Anzi l’esperienza comune continuamente consente il suo approfondimento. L’invito è quello di donarsi alla vita comune senza egoismi e paure. Certo occorre che la speranza del nostro presente si apra all’orizzonte escatologico per dare ancora nuovo senso, forza e fiducia alla vita. Infatti il futuro di Dio nel mondo non rinnega il suo presente e l’amore si nutre di attesa di compimenti promessi. Ma, come cristiani, riconosciamo che la presenza della vicinanza di Dio per la chiesa e per il mondo intero, è in qualche modo già iniziata con la resurrezione del Cristo e che viviamo quindi in un tempo in cui lo Spirito da lui inviato è presente. Non possiamo, anche come membri dell’umanità, sfuggire per sfiducia, viltà o per orgoglio al primario comandamento dell’amore ( Matt. 19, 19) che deve essere praticato ed attuato nel mondo. Ci è dato, alla fine, di essere positivi:, costruttivi, di agire seguendo un principio di benevolenza che è principio di carità; non resta, nel quotidiano che lavorare insieme il campo, con fiducia nell’aiuto di Dio. sul presente e sul futuro di tutti noi. Un noi comune nel quale, abbandonando il più possibile ogni egoismo, dimenticandoci un po’, anzi molto, avremo modo di poter meglio operare e vivere. Dario Fiorensoli 23. 3. 04 ??